De Tejada La Monarchia Tradizionale

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Francisco Elias de Tejada y Spinola La monarchia tradizionale Traduzione italiana di David Botti fatta direttamente sull'edizione di Rialp (Madrid 1954) senza cioè le aggiunte presenti nell'edizione del 1966 di Dell'Albero. A coloro che morirono senza cedere I - Il menendezpelaismo politico "Noli foras ire; in interiore Hispaniae habitat veritas" (1) - Angel Ganivet Attualità del menendezpelaismo Quando la serenità permetterà di stabilire nella reale prospettiva la Spagna di questi ultimi vent'anni (2), quella Spagna che ha sofferto e goduto negli uomini della mia generazione la speranza e la disillusione, Rafael Calvo Serer verrà considerato come il trasmettitore di una litania di verità intessute nella lettura degli scritti di Marcelino Menéndez y Pelayo. Termino ora di rileggere la sua magnifica replica a Antonio Tovar, raccolta in España, sin problema (3), e nella quale non si sa se applaudire maggiormente la leggiadria dello scrittore o la precisione del pensatore. Contro coloro che negano la permanente validità della lezione di Menéndez y Pelayo, Rafael Calvo Serer afferma la tesi che la Spagna è una dottrina e non un dubbio; che l'ispanità (4) affonda nelle viscere della verità cattolica, null'altro rappresentando se non la concezione cattolica della vita nella più feconda delle sue modalità; che la Tradizione spagnola è in sé tanto robusta da non necessitare rinverditori innesti stranieri. Quando si vive fra i morti, come io vivo, queste idee raggiungono visibilmente dimensioni di esattezza conseguibili solo dopo molti anni da coloro che vivono immersi nel traffico del mondo dei vivi, popolato a volte di uomini vivi fino all'eccesso. Ben posso, dal mio ritiro nell'Estremadura, avvolto dal dolce silenzio del rumoroso oblio, ripetere le parole di Quevedo: "Retirado en la paz de estos desiertos con pocos, pero doctos, libros juntos, vivo en conversación con los difuntos y escucho con mis voces a los muertos" (5). 1

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Francisco Elias de Tejada y Spinola

La monarchia tradizionaleTraduzione italiana di David Botti fatta direttamente sull'edizione di Rialp (Madrid 1954) senza cioè le aggiunte

presenti nell'edizione del 1966 di Dell'Albero.

A coloro che morirono senza cedere

I - Il menendezpelaismo politico

"Noli foras ire; in interiore Hispaniae habitat veritas" (1)- Angel Ganivet

Attualità del menendezpelaismo

Quando la serenità permetterà di stabilire nella reale prospettiva la Spagna di questi ultimi vent'anni (2), quella Spagna che ha sofferto e goduto negli uomini della mia generazione la speranza e la disillusione, Rafael Calvo Serer verrà considerato come il trasmettitore di una litania di verità intessute nella lettura degli scritti di Marcelino Menéndez y Pelayo. Termino ora di rileggere la sua magnifica replica a Antonio Tovar, raccolta in España, sin problema (3), e nella quale non si sa se applaudire maggiormente la leggiadria dello scrittore o la precisione del pensatore. Contro coloro che negano la permanente validità della lezione di Menéndez y Pelayo, Rafael Calvo Serer afferma la tesi che la Spagna è una dottrina e non un dubbio; che l'ispanità (4) affonda nelle viscere della verità cattolica, null'altro rappresentando se non la concezione cattolica della vita nella più feconda delle sue modalità; che la Tradizione spagnola è in sé tanto robusta da non necessitare rinverditori innesti stranieri.

Quando si vive fra i morti, come io vivo, queste idee raggiungono visibilmente dimensioni di esattezza conseguibili solo dopo molti anni da coloro che vivono immersi nel traffico del mondo dei vivi, popolato a volte di uomini vivi fino all'eccesso. Ben posso, dal mio ritiro nell'Estremadura, avvolto dal dolce silenzio del rumoroso oblio, ripetere le parole di Quevedo:

"Retirado en la paz de estos desiertos

con pocos, pero doctos, libros juntos,

vivo en conversación con los difuntos

y escucho con mis voces a los muertos" (5).

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In questo appartarsi, nel quale concretamente si rinviene la felicità di questo mondo che ispirò la vecchia incisione argentea del famosissimo sonetto "Het geluk dezer Wereld", la serenità riduce la passione a proporzioni che anticipano quelle che i nostri quotidiani monticelli avranno quando li si

contemplerà da tre o quattro secoli di distanza; l'appartarsi nello spazio supplisce e prefigura il futuro appartarsi nel tempo; e la serenità del mio ritiro mi serve per disporre in prospettiva la cosciente fortezza dell'atteggiamento di Rafael Calvo Serer, come pure i pericoli che potrebbe

comportare questa sua impresa del menendezpelaismo politico.

Problema importante, se ne esistono, per coloro che hanno la consapevolezza del proprio tempo. Perché ciò che Rafael Calvo Serer cerca è la ratifica della puntualità storica del 18 luglio (6), che, se qualche cosa fu, fu proprio una radicale vampata di acceso ispanismo intransigente, così intransigente che un milione di morti irrigò per sempre i campi di Spagna per non voler cedere neppure di una virgola nella generosa intransigenza del sacrificio fino alla morte.

La stella politica di Menéndez y Pelayo

Affinché una impresa tanto elevata ottenga il perseguimento dei propri fini, è necessario delimitare gli ambiti entro i quali ci si intende muovere. E prima di tutto indicare cosa si intenda attingere dagli insegnamenti di don Marcelino Menéndez y Pelayo.

Calvo Serer afferma che il suo impegno sarà il seguente: "Restituiamo ai giovani spagnoli la vera figura del pensatore montanaro (o santanderino)..., avvertendoli, soprattutto, che in lui troveranno chiaramente espressa la grandezza di una storia interrotta, che urlando ci sta chiedendo ed esigendo la propria continuazione" (7). Parole chiare, meritevoli senza dubbio della più sincera approvazione se l'ansia restauratrice restasse limitata entro tali termini.

Si dà però il caso che Menéndez y Pelayo trasfonda la linfa del suo sapere in un atteggiamento politico. Nel creare una cultura alla spagnola, o, per meglio dire, nel riscoprire la obliata tradizione culturale spagnola, assume una posizione di fronte agli incalzanti avvenimenti del presente. Il suo sapere provoca un lavorio di accomodamento delle tristi realtà della presente decadenza con il perenne splendore dello ieri riscoperto. Dalla erudizione scaturisce la consegna e Menéndez y Pelayo passa da portabandiera di una cultura ispanica a portabandiera di una politica culturale dapprima e quindi a gonfaloniere di un giudizio alla spagnola della politica della Spagna.

Don Marcelino non si sognò tuttavia mai di sollevare faziose coorti politiche, ben sicuro nell'oscura intuizione che la propria opera fosse strettamente culturale. Fu alla caduta della Repubblica coronata che si era definita Restaurazione liberale, nel 1931, che l'orientamento culturale di Menéndez y Pelayo si condensò in una politica culturale, quella dell'Acción Española. "Vegas Latapié, fondatore di questo movimento intellettuale nazionale - scrive Calvo Serer -, proclama la sua filiazione storica dal grande santanderino e fa continuamente riferimento alle sue idee" (8).

L'Acción Española fu un movimento culturale, di politica culturale alla spagnola, allattato alle erudite mammelle del principale dei nostri eruditi, sul cui pensiero si innesta il movimento militare del 18 luglio 1936, istante nel quale quel menendezpelaismo che alle origini era appena un saggio bastione e che l'Acción Española cambia in politica culturale, si trasforma seccamente in politica, pura politica di governo. Nella diversificazione storica della Spagna contemporanea, qualche pensatore come Pedro Laín o Antonio Tovar potrà indirizzare critiche a don Marcelino come mezzo per manifestare simpatie a favore dell'europeizzazione, e in primo luogo a José Ortega y Gasset; però il generalissimo Francisco Franco si sentirà alla fine più prossimo a Menéndez y Pelayo che a Ortega, costituendosi in paladino della cultura nazionale in quanto interprete dello spirito del 18 luglio.

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La legione dei Calvo Serer, Jorge Vigón e loro collaboratori assume in questa congiuntura il compito di porre in evidenza i legami che collegano lo spirito del 18 luglio con Menéndez y Pelayo. Intento plausibile, conveniente e giusto, nell'alveo della più severa ortodossia e adeguato allo stile mentale di chi capitanò le più aspre giornate della guerra. Perché se il 18 luglio non fosse un movimento menendezpelaista, di restaurazione integrale e violenta dell'autentica cultura ispanica contro l'introduzione di usi e costumi stranieri, non sarebbe altro che una sommossa sediziosa o una contesa civile fra molte altre; ciò che renderà o meno il 18 luglio una data centrale della nostra storia contemporanea sarà che significhi o meno una totale volontà di restaurazione delle tradizioni patrie, basata culturalmente sull'opera di Menéndez y Pelayo, culturalmente impregnando la coscienza del nostro popolo, e soprattutto della gioventù del nostro popolo, di un sentimento nazionale della vita assolutamente incompatibile con le mode straniere e con la cieca ammirazione per coloro che postulano di impiantare nel nostro suolo tali mode straniere.

Ma quale era il programma di Menéndez y Pelayo? Calvo Serer vuole estrarlo dalla sua opera, e concretamente lo condensa nel celebre brindisi pronunciato il 20 maggio 1881 in occasione del centenario di Calderón (9), stabilendo una tavola delle idee che esprime il legato del Maestro ai discepoli presenti.

Però, nel saggiare la quantità e la qualità di tale eredità si manifestano le riserve.

I limiti di una gigantesca opera

Non per la qualità, poiché siamo tutti d'accordo nel ricevere il testamento di Menéndez y Pelayo, ma per la maniera con cui lo si riceve. Da don Marcelino si può concepire la recezione di una linea direttrice di condotta, mai di un serrato programma politico. Egli fu il grandioso rinnovatore dei nostri ricordi, l'impareggiabile archivio delle nostre conoscenze, la bacchetta magica che trasformava in oro nostro ciò che era precedentemente disprezzato come residuo di superstizione o di abbandono. La sua fu una gloriosa inquietudine di fervide affermazioni nel mezzo di una società stranierizzata. In un mondo ostile al cattolicesimo salvo a mazzate, quel suo cattolicesimo alla spagnola, intransigente fino all'inquisitoriale, senza paura degli scherni né delle burle. In una patria rosa dalla massoneria alla savoiarda, dal liberalismo dottrinario alla francese, dai gusti inglesi o dalle pedanterie germanizzanti dei krausisti (10), fu spagnolo monolitico e insegnò a noialtri spagnoli la passata lezione della nostra incomparabile grandezza culturale. Quando nessuno credeva in lui, egli solo, titano e Ercole a un tempo, aggiogando nella sua figura tutte le Spagne delle mitologie del sapere, si fece testamentario dei nostri maggiori e ci consegnò qualche cosa di più di una tavola dei saperi: ci consegnò la via per conseguire la sapienza spagnola.

Così è oggi incomparabile nelle materie alle quali pose mano: nella storia della letteratura, nella critica e nell'erudizione. Sforzo colossale per un solo uomo e che difficilmente potrà essere da qualcuno superato.

Grave errore sarebbe tuttavia il confondere l'orientamento culturale di Menéndez y Pelayo con il suo pensiero politico. Una cosa sarà il legato della sua concezione della cultura spagnola come sistema oggettivo di verità cristiane, immutabile e fermissimo di fronte agli attacchi della stranierizzazione, un'altra sarà la sua attitudine politica, che proprio il rappresentante dei menendezpelaisti attuali reputa accidentale (11).

E la ragione è molto semplice: don Marcelino, che come nessun altro seppe fare storia di tante cose, non fu storico del pensiero politico né delle istituzioni politiche spagnole. Ciò che in questi campi

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riuscì a conoscere fu frutto della sua poderosissima intuizione e della geniale capacità divinatoria che incastona i suoi scritti con diamanti risplendenti di verità; nulla di uno studio sereno e riposato della tradizione politica spagnola, le più insigni pagine della quale, come il tostatismo salamantino, i bagliori di Ferdinando de Roa, la teoria della libertà tomista di Mieres o di Marquilles, il concetto lulliano della missione, la sopravvivenza dei sistemi delle libertà concrete in Navarra o in Sardegna, sono cose che ignorava completamente. Fu già sufficiente quella sua inaudita impresa di aprirci i filoni della tradizione, di insegnarci la fertilità del nostro proprio sapere, per non dovergli pure chiedere che ci illuminasse i principi e ci rendesse chiare le realtà della tradizione politica delle Spagne. Scavando senza interruzione per portare alla luce scheletri culturali, non ebbe il tempo di dissotterrare norme politiche; l'unica cosa che fece, questo sì, fu di dirci il modo con il quale dovremo procedere per dissotterrarle.

La disparità fra la sua azione culturale spagnola e il suo allontanamento dallo studio del pensiero politico spagnolo genera l'apparente incongruenza che lo vede come tradizionalista nell'ambito culturale rimanendo canovista o maurista in quello politico, senza calcare le orme dell'autentico tradizionalismo politico spagnolo: il carlismo. Restandone ai margini, non giunse a capirlo. Fu egli il primo a inciampare nell'equivoco del quale si lamentò quando scriveva: "La storia letteraria del XIX secolo in Spagna é mal conosciuta e male compresa da quasi tutti, e, inoltre, piena di ingiustizie e dimenticanze a cui si deve porre rimedio. Sembra che la vicinanza degli oggetti inganni gli occhi e porti fuori strada il giudizio dei contemporanei. Viviamo senza conoscerci gli uni gli altri, per il semplice motivo che nulla crediamo di meglio conoscere" (12).

Parole che condannano in anticipo quel suo doppio giudizio crepuscolare sul carlismo, a lui così prossimo nel tempo e nell'orientamento culturale e che tuttavia gli era completamente sconosciuto. "Quando Cadrago giunse all'arena politica - pubblicando nel 1842 i suoi primi articoli con El católico e fondando, nel 1844, La Fe -, rimanevano due fogli molto duri e accaniti, dopo aver vagato senza posa né misericordia per i campi di battaglia: inconciliabili, accigliati e rancorosi, come separati da un mare di sangue e da un abisso ideale sempre più profondo. L'uno si diceva rappresentante della tradizione e dell'antica Spagna, e non si può negare che in parte lo fosse, sebbene per la fatalità dei tempi, nel resistere alla spinta della rivoluzione demolitrice, parve identificare la sua causa con quella delle istituzioni caduche e condannate a una morte irrimediabile, e si costituì in difensore non di una gloriosa tradizione il cui significato comprendeva appena né conseguiva se non in modo vago e istintivo, bensì dei peggiori abusi dell'antico regime nelle sua degenerazione e nel suo periodo finale. Diede così una apparente giustificazione a quelli del partito avverso che, pensando e sentendo con lo spirito della rivoluzione francese, radicalmente ostile a qualsiasi elemento tradizionale e storico, confondevano sotto il medesimo anatema i principi fondamentali e perenni della nostra vita nazionale e le corruttele, le imperfezioni, le scorie che lo scorrere dei secoli e la decadenza dei popoli traggono con sé" (13).

Il carlismo per Menéndez y Pelayo era l'assolutismo settecentesco e, disconoscendolo, lo negava né più né meno di quanto negava il liberalismo ottocentesco. La sua anima, appassionatamente tradizionalista, non avvertì che qual pugno di tradizionalisti politici non aveva nulla a che vedere con l'assolutismo, né tenne in conto che erano essi i logici propagandisti politici del suo tradizionalismo culturale. Non sembra vero che a un uomo così splendidamente acuto e tanto abile nel catalogare uomini e idee, sfuggisse un fatto patente, oggi posto in risalto da Federico Suárez Verdeguer: che già nel 1814 Bernardo Mozo de Rosales o chiunque fosse il redattore del Manifiesto de los Persas, da dove il carlismo muove ancor prima di difendere i diritti dinastici di don Carlos María Isidro, contrappone al liberalismo e all'assolutismo una posizione al pari inedita e vecchissima: la monarchia tradizionale (14).

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Menéndez y Pelayo, al contrario, confondeva i realisti, o tradizionalisti, del 1814, con gli assolutisti del secolo XVIII (15), disconoscendo che il carlismo incarnava politicamente la medesima tradizione delle Spagne che egli stava restaurando nell'ambito culturale. Il vivere fra i morti, a forza di osservare prospettive passate, gli fece sfuggire la prospettiva dell'orizzonte contemporaneo e confondere i contorni degli uomini con quelli delle idee nella inintelligibile baraonda della sminuita monarchia della Restaurazione canovista. Preciso, nell'illuminare la nostra tradizione culturale non ebbe tempo di approfondire la nostra tradizione politica e non seppe neppure chi fosse a innalzarne gli stendardi.

L'autentico menendezpelaismo

Ignorata dal punto di vista dello studio la nostra tradizione politica e separato dai portastendardi politici di essa, l'attitudine di don Marcelino fu profondissimamente efficace nell'ambito culturale, documentata come nessuna e creatrice di un universo di verità titanicamente strappato dagli artigli dell'oblio. Però nell'ambito politico si arrestò all'intuizione, alla mera intuizione. Rafael Calvo Serer propone come formulazioni di principio l'epilogo degli Heterodoxos e il brindisi del Retiro; però quando don Marcelino li esprimeva, rasentava appena i cinque lustri e si avviava agli inizi della sua gigantesca carriera letteraria. Se non si separò mai da ciò che in entrambi i documenti propugnava, tanto meglio, perché questo implica che, allontanatosi dalla speculazione politica e concentrato nell'ambito culturale, non sottopose a revisione le sue idee giovanili, poiché di esse ne aveva a sufficienza per i suoi fugaci contatti con la vita quotidiana, immerso nella sua opera di disseppellitore verità culturali.

Anche il Brindisi del Retiro è più che altro, la manifestazione che il suo pensiero coincideva "con le grandi idee che furono l'anima e l'ispirazione dei poemi di Calderón" (16). E il suo contenuto è una sintesi, certamente magnifica essendo sua, più desunta dalla lettura di Calderón da un saggio venticinquenne che non il risultato di studi specializzati.

Non c'è dubbio che se don Marcelino avesse versato sulla storia del pensiero politico spagnolo quelle sue incomparabili capacità, la risposta sarebbe stata abbastanza differente e le sue posizioni molto diversa. Sarebbe perciò una pericolosa deviazione supporre che il menendezpelaismo politico consista nel dedurre dal Maestro un'ideologia in luogo di un orientamento, assoggettandola alle parole lanciate in campi differenti dalla storia del pensiero politico invece di provvedere a portare a termine l'impresa che il Maestro non ebbe occasione di realizzare: la storia della tradizione politica spagnola.

Mi pare che non sia lecito estrarre dagli scritti di don Marcelino ciò che lui stesso in essi non volle porre; e che la più esatta esecuzione testamentaria della sua ingente impresa riscopritrice sia il proseguire a vele spiegate per i mari inesplorati della nostra storia politica. Si deve guardare alla Spagna esattamente quale essa fu, perché questo egli volle, scrostare via le oscurità e le falsità, ripulirla dalle scorie e dalle interpretazioni devianti; non impegnarsi nel ridurre la nostra tradizione al modo nel quale egli la vide, poiché egli non ebbe il tempo per svelarcela. Oggi si devono ammettere le sue geniali intuizioni, senza però aggrapparsi a esse, prima di aver approfondito nel passato, con la cautela di accettarle o di correggerle a seconda di come gli uomini o i fatti parlino. Si deve andare direttamente ai vecchi libri, schivando l'impostazione dalle polemiche presenti, che mai vanno al di là di Donoso o della Institución, di Balmes o di Ortega. Si deve scandagliare nei secoli passati per verificare se ci furono o meno creazioni politiche ispaniche e se, essendoci state, abbiano o meno lasciato impronte che le attestino.

Il miglior menendezpelaismo politico non sarà quello che si aggrappa ai libri del Maestro in quanto storico della filosofia o della letteratura, bensì quello che rifaccia la storia della tradizione politica

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spagnola impiegando i medesimi criteri che don Marcelino impiegò per rifare la storia delle idee estetiche o dell'origine del romanzo qui da noi.

Solo operando così, consumando anni su anni nell'impegno riscopritore di questa particella della nostra storia, che egli conosceva solamente in modo intuitivo, potremo un giorno o l'altro ripetere le sue stesse parole speranzose e presaghe, tanto giustamente ricordate da Rafael Calvo Serer, secondo cui: "popolo che non conosce la propria storia é popolo condannato a morte irrevocabile. Può produrre delle brillanti individualità isolate, gesta di passione, di ingegno e persino di genio, che saranno come lampi che accresceranno più e più la tetraggine della notte. Oggi - perché non dirlo? - camminiamo alla cieca, trascinati da un movimento al quale non possiamo energicamente partecipare; spossando in sforzi vani, indisciplinati e senza metodo, forze originarie che forse basterebbero per sollevare montagne, affannandoci a correre dietro ogni miraggio di dottrina nuova per ritrovarci poi beffeggiati e riprendere la stessa via, sempre in ritardo e sempre trafitti e mortificati dalla coscienza del nostro ritardo; che non si guarisce, no, con importazioni abborracciate, con rappezzi male cuciti di ciò che altrove si scarta e nemmeno con l'infame espediente di rinnegare la nostra razza e di lanciare sulle onorate fronti dei nostri antenati le maledizioni che debbono cadere solo sulla nostra stupidità, fiacchezza e ignoranza" (17).

NOTE1) Cfr. Sant'Agostino, De vera religione, "Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas" (N.d.T.)

2) L'A. scrive nel 1954 [n. d. t.].

3) Rafael Calvo Serer, España, sin problema, Madrid, Rialp, 1952, 2ª ed.

4) Hispanidad nell'originale [n. d. t.].

5) "Ritirato nella pace di questi deserti, assieme a pochi ma dotti libri, vivo conversando con i defunti e ascolto i morti coi miei voti".

6) Il 18 luglio 1936 è la data d'inizio della sollevazione militare spagnola contro il governo del Fronte Popolare [n. d. t.].

7) Rafael Calvo Serer, op. cit., pp.158-159.

8) Idem, Teoría de la Restauración, Madrid, Rialp, 1952, p.201.

9) Ibid., p.145.

10) Karl Christian Friedrich Krause (1781 - 1832) fu un filosofo tedesco le cui dottrine panteistiche esercitarono un'immensa influenza in Spagna tramite Juliàn Sanz del Rìo e i suoi discepoli (N.d.T.).

11) Idem, España, sin problema, cit., p.145

12) Marcelino Menéndez y Pelayo, Quadrado y sus obras, in Estudios y discursos de crítica histórica y literaria, Madrid, CSIC, V (1942), p.196.

13) Ibid., pp.211-212.

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14) Federico Suárez Verdeguer, La crisis política del Antiguo Régimen en España (1800 - 1840), Madrid, Rialp, 1950, pp.57-94.

15) Marcelino Menéndez y Pelayo, La historia externa e interna de España en la primera midad del siglo XIX, in Estudios y discursos de crítica histórica y literaria, cit., VII (1942), p.247.

16) Idem, Brindis del Retiro, in Estudios y discursos de crítica histórica y literaria, cit., III (1941), p.385.

17) Rafael Calvo Serer, España, sin problema, cit., p.139.

II - La tradizione delle Spagne.

Vuelvo a mi mismo al cabo de los años, despues de haber peregrinado por diversos campos de la moderna cultura europea, y me pregunto a solas con mi conciencia: "¿Soy europeo? ¿Soy moderno?" Y mi conciencia me responde: "No, no eres europeo, eso que se llama ser europeo; no, no eres moderno, eso que se llama ser moderno... - Miguel de Unamuno (1)

L'Europa e le Spagne

Molti degli interpreti della storia della Spagna hanno ritenuto che la nostra condizione fosse quella di europei. Ragioni di geografia o desideri di non eludere criteri suggestivi per i semplici, instradavano le immagini verso quella di una partizione dell'universo all'interno della quale la Spagna costituiva una parte della penisola iberica e questa si trovava situata all'estremo sud occidentale del continente europeo. Non si rendeva così ragione del fatto che l'Europa aveva cessato da tempo di costituire una considerazione geografica per innalzarsi a contenuto di un concetto storico. Non è lecito vedere nell'Europa la figlia di Agenore rapita da Jupiter, né la sorella dell'argonauta Eufemo, né l'oceanide gemella dell'Asia, come pretendeva l'antica mitologia classica; tantomeno è lecito considerarla una fra le cinque parti fra le quali suole suddividersi il mondo, più o meno addossata all'Asia, secondo Humbolt, o indipendente, secondo la concezione di Ritter. Quando oggi si parla di Europa, si allude "all'europeo"; si dà, cioè, al vocabolo un senso culturale e, pertanto, storico che deve essere ineludibilmente concretizzato.

Fu Christopher Dawson a presentare con tratti geniali l'apparizione dell'Europa in un determinato momento temporale, stabilendo come essa fosse un prodotto della storia. Nel corso del secolo XI della nostra era, le culture che si disputavano il suolo dell'Occidente apparivano varie: la cultura araba della penisola iberica, quella bizantina ancorata all'est del Mediterraneo, quella degli slavi, dei baltici e dei finnici e, da ultima, la cultura nordica del nord est, coincidente più o meno con i confini dell'impero carolingio. Fu questa ultima cultura di conio franco quella che, nel suo espandersi,

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forgiò il sentimento culturale europeo, lo stesso della civilizzazione nel cui seno si trovano gli spagnoli (2).

Dalla magistrale analisi del Dawson risulta definitivamente accertata la separazione fra la geografia e la storia dell'Europa, se si vuole spiegare che cosa l'Europa sia. Con un'altra conseguenza implicita: che l'Europa è un concetto storico e, a causa del suo essere storico, è un concetto polemico; è un tipo di civilizzazione, uno stile di vita, una concezione dell'esistenza, è quello che i tedeschi chiamerebbero una "Weltanschauung".

Coloro che si raggruppano sotto il segno di questa civilizzazione non si trovano situati solamente nelle terre dell'occidente nel quale tale tipo di vita si formò. Il canadese o lo "yankee" in America, il sudafricano in Africa e l'australiano in Oceania estendono a lontane terre i medesimi parametri di vita e si sentono parte integrante degli usi, della cultura e perfino di una comunità linguistica che ebbe la sua culla nelle terre dell'occidente europeo.

Le divergenze dal punto di vista di Dawson iniziano quando si comincia a illustrare il contenuto di questo tipo di civiltà. Secondo Dawson la civiltà moderna, successiva alla rottura luterana dell'orbe gerarchico medioevale, non è altro se non il logico prolungamento di quell'ordinato sistema di popoli che si chiamò Cristianità; opinione che non deve sorprendere in chi, malgrado la straordinaria lucidità di idee che lo contraddistingue, vive immerso in quel particolare orizzonte inglese nel quale si conservano in grado così elevato le forme della vita medioevale, quantunque solo come alveo dell'esterno scorrere degli avvenimenti.

Ma per noi che non conserviamo unicamente le forme canalizzatrici della vita medioevale ma pure i suoi contenuti, la continuità tra il mondo cristiano e il mondo moderno ci pare oltremodo discutibile. Basta che un qualsiasi spagnolo del nostro tempo si affacci al di là dei Pirenei, e non diciamo al di là del Reno o del Canale della Manica, perché tocchi con mano il contrasto non già delle forme della sua esistenza di fronte a quelle dell'ambiente circostante, quanto della sua temperie spirituale di fronte a quelle degli uomini della altre terre. Il perdurare sul suolo iberico di alcune tematiche umane di tipo cristiano e medioevale recisamente distinte da quelle che abbondano in Germania, in Francia o in Inghilterra, è qualcosa che salta all'occhio, in quanto sotto la falsa crosta di analoghe educazioni possiamo toccare qualche fibra nervosa sensibile, come la concezione di Dio o la concezione della donna.

Contrasto che risulta con non minore crudezza quando si confronti l'uomo degli Stati Uniti o del Canada con quello che abita dal Rio Grande del Nord in giù. Il messicano o l'argentino, il brasiliano o il cubano ripetono ancora oggi reazioni simili perché procedono da una stessa peculiare temperie dell'essere.

Dalle quali differenze risulta, già al primo contatto con il problema, come non si possa unificare l'Occidente, l'Occidente dei secoli cristiani perpetuato dai popoli ispanici, con il nuovo tipo dell'"europeo" moderno. Si è ripetuto fino alla noia che l'Europa terminava nei Pirenei, e ciò è certo purché non si supponga, all'interno di un semplicismo da ginnasiale saccente, che dopo l'Europa cominci l'Africa; perché ciò che inizia nei Pirenei è l'Occidente pre europeo, una zona nella quale respirano ancora le vestigia tenacemente radicate della Cristianità che si rifugiò lì dopo essere stata soppiantata in Francia, Inghilterra o Germania dalla visione europea delle cose, secolarizzata e moderna.

Contro il parere di Dawson, pertinente a un inglese, è facile percepire prima e quindi comprendere, nelle terre spagnole, che il tipo di civiltà germogliato nel tramonto dell'Età Media sostituendo precisamente quella della Cristianità, consiste nel ritorno a determinate maniere di vivere

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precristiane. Formule nuove che implicano la negazione della tavola dei valori del mondo medioevale; l'Europa non nasce nella cerchia di Carlo Magno, che è la restaurazione dell'impero cristiano nella gerarchizzazione organica dei popoli, più tardi presieduta dagli imperatori germanici; l'Europa nasce, al contrario, al lusinghiero richiamo delle idee dette per antonomasia moderne, nella congiuntura del rompersi del serrato ordine del medio evo cristiano. La Età Media dell'Occidente ignorava il concetto di Europa, perché conosceva solo quello del suo antecessore: il concetto di Cristianità.

L'Europa

Questa contraddizione con la circostanza che incita l'uomo iberico o quello del Sud America contro l'inglese e contro lo "yankee" è solo sentimento o al contrario fa eco a realtà storiche capaci di spiegare tali sentimenti?

La risposta risulterebbe se fosse possibile indicare per quali aspetti il mondo moderno, che è l'Europa, differisce dall'orbe medioevale che i popoli cristiani perpetuano.

Lo schema degli aspetti potrebbe essere il seguente.

La Cristianità concepì il mondo come raggruppamento gerarchico di popoli intrecciati secondo principi organici, subordinati agli astri di San Bernardo da Chiaravalle: il sole del Papato e la luna dell'Impero. Le numerose eresie erano portate e rimosse dalle tempeste dei tempi senza alterare la quiete serena e totale del cielo teologico al quale innalzava gli occhi una moltitudine prosternantesi nella fede. Le strenue lotte non ostacolavano l'unità dei sentimenti e, al di sopra dei nembi temporaleschi si incendiava lo splendore di un'ansia di fratellanza, incitata allorché il contatto con i nemici del Cristo infiammava i popoli di frontiera, come in Spagna, o i crociati pellegrini armati in Palestina. All'interno della Cristianità la superiorità dell'Impero era riconosciuta dai principi e dai re; anche all'interno di ogni giurisdizione gli uomini si ordinavano in scale di corporazioni, confraternite e stati, egualmente articolate nelle condizioni di chierici, cavalieri e popolo. L'idea della gerarchizzazione dei popoli era talmente radicata nelle coscienze che la si teneva in conto perfino per stabilire il diritto di precedenza nel sedersi nei concili; il grazioso intervento del conte di Cifuentes nel nome di Juan II di Castiglia contro gli ambasciatori del re di Inghilterra nel concilio di Basilea del 1435 è una esemplare dimostrazione alla quale se ne potrebbero aggiungere molte altre. Francesc Eiximenis giunge a fornire lo schema dell'ordine gerarchico dei regni cristiani. E' che la "pax christiana" procedeva da una concatenazione di sistemi politici e non da un qualche equilibrio più o meno stabile, ossia instabile, di alleanze.

La Cristianità muore per lasciar nascere l'Europa quando questo perfetto meccanismo si rompe dal 1517 fino al 1648 in cinque successive fratture, cinque ore di parto e allattamento dell'Europa, cinque pugnali nella carne storica della Cristianità; vale a dire: la frattura religiosa del protestantesimo luterano, la frattura etica con Macchiavelli, la frattura politica per mano di Bodin, la frattura giuridica in Grozio e in Hobbes e la definitiva frattura del corpo mistico cristiano con le disposizioni della pace di Westfalia. Dal 1517 fino al 1648 l'Europa nasce e cresce e nella misura in cui nasce e cresce l'Europa, la Cristianità agonizza e muore.

La prima frattura la produce Lutero, vero padre dell'Europa. Perché l'eresia luterana è identica a molte delle eresie medioevali per la qualità della materia eretica, e ripete alla lettera perfino alcune di esse, come quella di Wycleff e Huss nella concezione carismatica del potere politico, nella negazione della trasustanziazione eucaristica e nell'eccitare gli animi dei contadini nelle guerre dei "lollardi" o nella "Bauernkrieg"; tuttavia si differenzia fra tutte per la gigantesca diffusione e il radicamento che l'occasione propizia le offre. Mentre la Cristianità medioevale anteriore a Lutero

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era, malgrado tutte le fessure, un edificio politico fondato sull'unità della fede, a datare da Lutero tale unita sarà impossibile. Dopo Lutero, con lo scomparire dell'unità della fede, muore l'organicità spirituale della Cristianità, che viene sostituita dall'Europa, equilibrio meccanicista fra credenze differenti che coesistono. Diretta sequela dell'instaurazione del libero esame; invece di una fede unica la paritaria considerazione delle credenze; in luogo della medesima visione dei testi sacri, tante interpretazioni quanti lettori; il libero esame è il meccanismo formale dell'esterna armonia fra i credenti, al posto del corpo organico della Chiesa che servì da colonna vertebrale alla Cristianità medioevale.

La paganizzazione della morale si aggiunge alla perdita dell'unità delle coscienze; tale è il machiavellismo. La "virtus" era, secondo la Scolastica, freno al desiderio, dominio sulle passioni, argine agli impulsi; per Machiavelli la "virtù" sarà ciò che già era nel paganesimo anteriore al Cristianesimo, cioè ambizione dominatrice del fato avverso, spada che taglia l'ordito della fortuna nemica, potere che si giustifica senza scrupoli per il mero fatto di essere potere. Con il passaggio dal latino all'italiano, la radice linguistica è passata dal Cristianesimo al paganesimo; e nel giustificare da sé stessa la volontà imperiosa, nel permutare la "virtù" in nuovo criterio etico, Machiavelli ha sostituito l'etica organica della Scolastica, che riferiva le azioni dell'uomo al giudizio di Dio, con un'altra etica, pagana, nella quale il bene e il male risultano dall'urto o dall'equilibrio meccanicistico fra volontà bramose di potere. Machiavelli è l'altro padre dell'Europa: come Lutero separò l'uomo da Dio nel suo lato terreno a forza di consegnarlo a mani legate a Dio nella sua tappa ultraterrena, così Machiavelli ha separato l'etica dalle sue fondamenta religiose. La virtù è la "virtù", ossia il vigore che assoggetta gli avvenimenti alla volontà dell'uomo in un gioco rigidamente meccanico di forze; e la società risulta costituita intorno alla costellazione di forze che predomina quando questo nuovo pagano che è "l'uomo virtuoso" vince l'incostanza della avversa fortuna.

Il meccanicismo che Lutero produce nelle coscienze e il meccanicismo che Machiavelli trasporta ai comportamenti, sarà il nuovo meccanismo della politica quando Jean Bodin secolarizzerà il potere nella sua teoria della "souverainité". Per porre termine alle lotte fra cattolici e protestanti in Francia sorge un terzo partito, quello dei "politici", che proclama la neutralizzazione del potere reale scindendolo da qualsiasi contenuto religioso e, pertanto, la possibilità di obbedire a un principe senza tenere conto di Dio, istituendo una relazione diretta e neutra fra suddito e sovrano. Tale corrente, difesa ne Les six livres de la République e che raccoglieva la eredità assolutistica dei romanisti della scuola di Tolosa, degenerò quindi in un crescente assolutismo fino al 1789, e la sua massima espressione sarebbe stata l'iscrizione che Luigi XIV ordinò di collocare nel Salone degli Specchi del suo palazzo di Versailles: "Le roi gouverne par lui-mê me", riflesso di quell'altra massima, "L'Etat, c'est moi", che tanta fortuna ebbe. Un assolutismo che faceva a pezzi l'armonica varietà del corpo sociale cristiano per irrobustire il potere del governante e che, pertanto, suppone una nuova ulteriore frattura dell'ordine organico medioevale per sostituire al corpo mistico della società cristiana tradizionale un nuovo equilibrio meccanicamente poggiato sullo scettro onnipotente dei re del dispotismo illuminato.

Meccanicistica è anche la nuova filosofia del diritto di Hugo de Groot e di Thomas Hobbes, un nuovo diritto naturale soppiantatore di quel diritto naturale della Scolastica che si fondava sull'ordine proporzionato della creazione. Ciò che separa Grozio da san Tommaso o Hobbes da Duns Scoto è precisamente che con i pensatori del XVII secolo principia la secolarizzazione della filosofia del diritto, consistente nel vedere nel diritto naturale appena la legge interna del funzionamento meccanico di una macchina. Dove san Tommaso considerava l'ordine universale retto da norme dettate dal suo Cretore, Grozio non vede più che un ordine soggetto a leggi che si compiono indipendentemente dall'Autore della Natura. Dove Duns Scoto riferiva l'ordine alla volontà divina, Hobbes considera la sola volontà umana separata dall'ordine che la volontà divina ha creato. Eliminando Dio dalle due concezioni, tomista e scotista, intellettualista e volontarista,

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della Scolastica, la si fa finita con il principio divino che era al centro dell'organico sviluppo della struttura del diritto naturale, riferendolo piuttosto al meccanico equilibrio delle forze razionalmente intese da Grozio o puntualmente descritte da Hobbes.

E, finalmente, è egualmente meccanicistica la marcia delle istituzioni politiche europee, contrarie alla serrata organicità di quel "corpus mysticum" che fu la Cristianità medioevale. Nella politica interna all'assolutismo demolitore dei re succederà o l'assolutismo demolitore delle democrazie, o il sistema di freni e contrappesi meccanici di Montesquieu; nella politica internazionale dalla pace di Westfalia il gioco delle relazioni fra potenze sarà un sistema di equilibri di alleanze e contro-alleanze.

Europa è meccanicismo, tendenza alla neutralità del potere, coesistenza formale di fedi, paganizzazione della morale, assolutismi, democrazie, liberalismi, guerre nazionali o di famiglie, concezione astratta dell'uomo, Società delle Nazioni, ONU, parlamentarismo, costituzionalismo liberale, protestantesimo, repubbliche, sovranità limitate di principi o di popoli. La Cristianità era, a sua volta, organicità sociale, visione cristiana del potere, unità della fede cattolica, poteri temperati, crociate missionarie, concezione dell'uomo come essere concreto, Parlamenti rappresentativi della realtà sociale intesa come corpo mistico, sistemi di libertà concrete. Ossia, malgrado l'unità postulata dal Dawson, due civiltà e due culture contrarie: Europa, la civiltà della rivoluzione; Cristianità, la civiltà della Tradizione cristiana.

Le Spagne

Dal 1517 fino al 1648, da Lutero a Münster, l'Europa cresce e la Cristianità agonizza; questi centotrentuno anni costituiscono l'alba della civiltà europea e i rantoli della civiltà cristiana.

Non fu tuttavia in piano, né senza lotte il trionfo della Rivoluzione che l'Europa è. Nel cantone sud occidentale dell'Occidente, là dove terminavano i confini geografici dell'orbe antico, un pugno di popoli capitanato dalla Castiglia costituiva una vera Cristianità minore e di riserva, rude e di frontiera, che si chiamò "le Spagne", tesa nel quotidiano combattimento contro la costante minaccia dell'Islam.

Erano, questi, popoli vari e diversi. L'Andalusia era stata acquisita dalla Castiglia ai tempi del XIII secolo, quando san Ferdinando battezzò con le acque del sacro Betis i millenari torpori degli uomini della terra santa. Le tribù basche infrapirenaiche erano poco a poco venute a unire i loro sforzi alla guida castigliana e, dal principio del XVI secolo, donano alle Spagne il meglio del secolare tesoro del patriarca Aitor. Il circolo celtico dell'Occidente, scisso all'epoca del XII secolo, è unità di fede sotto Filippo II, unità dimostrata da Geronimo Osorio, la testa più superba della storia del pensiero portoghese. La federazione catalano-aragonese, altissima culla delle libertà politiche, riunisce i propri sforzi per l'impresa spagnola. Nel XVI secolo, grazie all'otto volte secolare allenamento della Reconquista, siamo l'unico bastione della Cristianità e i soli a trovarci "in forma" per l'eccelso sport di difendere la cattolicità romana. Per questo demmo l'esempio, nelle pianure lombarde o attraverso i pantani fiamminghi, in terre da poco conosciute nell'antica India o attraverso pezzi di pianeta sconosciuti ai geografi classici, di uomini rudi e violenti che servirono Cristo, capaci come uomini di cadere in tutti i peccati della carne, ma come ispanici incapaci di peccare contro il primo dei comandamenti della legge di Dio, nell'impresa più portentosa che a memoria d'uomo si ricordi.

Il risultato fu l'esaurimento, fratello gemello della disfatta, ma non la sconfitta spirituale. Gli spagnoli, serrando le fila, combatterono contro l'Europa che sorgeva in difesa della Cristianità che agonizzava, in difesa del senso cristiano della vita, in difesa della struttura gerarchica dei popoli, in difesa di un ordinamento sociale fondato sulle libertà concrete. "Noi abbiamo avuto - ha scritto

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Vicente Palacios Atard - un programma politico valido per il mondo intero. Noi, quelli che non siamo europei, quelli che viviamo isolati dietro ai Pirenei. E non solo lo abbiamo avuto, ma abbiamo fatto di più: lo abbiamo sostituito. Volevamo un mondo nel quale le relazioni internazionali non fossero posate sopra i deboli patti scaturiti dalla convenienza del momento, dai soprusi unilaterali dei potenti; volevamo che le basi dell'ordine internazionale fossero penetrate dall'idea della universitas christiana" (3).

E' vero che la tensione di una costante disposizione alla lotta fu pregiudizievole per le libere istituzioni di alcuni popoli, come nel regno di Aragona; lo spirito continuava però a essere quello medioevale, nonostante gli incipienti eccessi di un assolutismo posticcio, e nell'essenziale continua la vecchia tematica delle istituzioni forali: in Sardegna fino al 1700, in Catalogna fino al 1716, in Navarra fino al 1841.

La monarchia federativa e missionaria delle Spagne non volle cedere neppure di un pollice contro la crescente marea di un'Europa ogni giorno più robusta, e quando cedette fu per non poter resistere oltre alla contesa; da lì la nostra caduta verticale e rapidissima, vertiginoso precipitare in un abisso. I nostri avi, giudicando con criteri da crociati, non si piegarono a intendere la sconfitta né a prevedere l'esaurimento. Essi si comportarono come nobili generosi più che come politici prudenti, preferendo il precipitare al risparmiare, tanto più che precipitavano nobiltà eroiche al servizio della più elevata delle imprese concepibili nei sogni del cavaliere: la difesa della fede cattolica.

La Castiglia impose il suo sigillo e si trascinò nella sua nobile follia il posato commerciante catalano, il duro sardo, il sognatore napoletano, l'indifferente andaluso, il basco semplicemente valoroso e il gagliego o il portoghese di stirpe celtica. Tutto fu eroico, e la maggior eroicità fu di sacrificare coscientemente la storia concreta alla sovrastoria che nobilita, sempre bruciando le navi in un olocausto che ripete identico quello di Hernán Cortés. Percorre le vertebre dell'impero l'opinione di Fernán Pérez de Guzmán, spiegazione profetica del nostro stile politico: "E, a mio modo di vedere - diceva già nel secolo XV -, questo estremo di prodigalità, anche se vizioso, é meglio o meno peggio di quello dell'avarizia, perché dei grandi doni del prodigo approfittano in molti e dimostrano grandezza di cuore" (4).

L'umanità si avvantaggiò della nostra prodigalità, e grazie al nobile difetto della illimitata generosità si prega il Dio romano nel cuore dell'Europa e vengono al loro oriente i popoli di colore che dimorano nelle remote lontananze. In un'alluvione di entusiasmi la Castiglia trascinò gli altri ispanici attraverso i sentieri della prodigalità al servizio della fede. Forse il nostro destino sarebbe stato diverso se l'egemonia fosse ricaduta nelle mani del Principato catalano, come avrebbe potuto molto facilmente accadere senza gli errori della politica oltrepirenaica di Giacomo I il Conquistatore; tuttavia perfino il massimo atto dell'espansione catalana, nella prima metà del XV secolo, fu presieduto dalla fermezza di un castigliano quale Alfonso V, e i fatti dicono che fu la Castiglia il condottiero, e condottiero insigne di crociati.

Quevedo già ci espone la disfatta psicologica nel suo España defendida y los tiempos de ahora, de las calumnias de los noveleros y sediciosos. La data di questo scritto è simbolica: 1609, lo stesso anno della forzata tregua con le Provincie Unite; il triste anno del primo bussare dello scoraggiamento. In quell'opera Quevedo non cessa di domandarsi il perché della universale avversione contro il suo Re. Quale profondo scoraggiamento e che trepidazione di presentite angustie vibra quando questo nobile, che non aveva ancora compiuto i trent'anni, chiama la sua patria: "Infelice Spagna"!

La disfatta militare nell'arco di sessant'anni, iniziata a Rocroy, si compie diplomaticamente con i trattati premessi al doppio patto di Westfalia, l'inizio del nostro "98", come con una felice

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espressione Ernesto Giménez Caballero ha definito i gradini della nostra decadenza, quantunque poi non sia tanto sicuro nel discernere quali essi siano (5).

La delusione della disfatta si insinua appena in quei nobili, generosi fino all'incoscienza. Don Chisciotte continua a credersi cavaliere nei suoi umilianti rotoloni; e gli uomini delle Spagne, castiglianizzati fino al chisciottismo, ripetono cocciuti la loro ostilità contro l'Europa vincitrice, confidando nel fatto che i paladini del Signore devono ricevere aiuto, anche miracoloso, dall'alto. Perduta la supremazia nel mondo, serrati nell'odio e nel disprezzo dall'Europa trionfatrice, continuano ad aggrapparsi tenacemente ai principi della loro nobiltà, impegnati a non essere europei. Tra la dignità e il potere, optano per la dignità; fra la fede e il commercio abbracciano la croce per dignità e considerano il mercanteggiare come un affronto; idealisti, chimerici, orgogliosi, a furia di avere le pupille ebbre dell'azzurro del cielo, vanno incespicando attraverso il fango delle cancellerie o dei campi di battaglia.

Non c'è contraddizione maggiore di quella tra la mentalità ispanica e la mentalità europea durante il XVII secolo. Amsterdam prospera mentre Siviglia decade; e, fanatismo contro fanatismo, protestanti e cattolici si osservano in agguato in una ancora latente contesa di incomprensioni.

Pochi anni fa, quando incominciai a studiare i fili culturali tra Spagna e Scandinavia, posi in rilievo un fatto che simboleggia questa contrapposizione: l'atteggiamento di attonita meraviglia con il quale il nobile spagnolo, di sangue goto e di fede romana, guarda i sudditi di Gustavo Adolfo, prototipi di nobiltà per il loro purissimo sangue gotico, però macchiati dalla più turpe delle macchie che disonorano il cavaliere: l'eresia (6). Atteggiamento attonito che all'altro estremo riflettono anche gli scandinavi e che è indice della più difficile delle problematiche che poterono alterare la serenità di quei petti credenti e nobilitati.

Miguel de Cervantes mise in bocca al suo massimo eroe il massimo della nobiltà eroica delle Spagne castiglianizzate, collocando la voce della saggezza nel cappellano aragonese dei duchi. Quello che il cappellano dice era la voce del senno di coloro che vedevano sopraggiungere l'imminente disfatta, se non si fosse rinunziato a quell'impegno colossale e generoso di fare la sovrastoria impegnandoci nell'arrestare la ruota dei tempi allorché gli orologi segnavano l'ora dell'Europa e non l'ora della Cristianità. "E a voi, anima stupida - dice sensatamente il cappellano -, chi ha messo in testa che siete cavaliere errante e che vincete giganti e catturate malandrini? tornatevene a casa vostra, e allevate i vostri figli, se ne avete, e prendetevi cura dei vostri beni; e smettetela di andar vagando per il mondo, pascendovi di vento, e facendo ridere quelli che vi conoscono e quelli che non vi conoscono" (7).

Le Spagne seguitavano tuttavia a spingere per la redenzione di popoli che, eretici o pagani, non si lasciavano redimere, e alle osservazioni connesse con i primi scoraggiamenti rispondevano con don Chisciotte disprezzando la sensatezza in nome dell'eroismo, della fede e della nobiltà. "E' per caso - dice il nobile - cosa vana o é tempo male speso quello che si impiega nel vagare per il mondo, non cercando i regali di esso, ma le asperità per le quali i buoni salgono al seggio dell'immortalità? Se mi avessero considerato stupido i cavalieri, i magnifici, i generosi, gli uomini di alto lignaggio, la giudicherei un'irreparabile offesa; ma che mi ritengano uno sciocco gli studenti, che non si sono mai messi e non si sono mai avventurati pei sentieri della cavalleria, non me ne importa un fico secco: cavaliere sono, e cavaliere morirò, se così piace all'Altissimo. Gli uni si muovono sul vasto terreno della superba ambizione; altri, su quello dell'adulazione bassa e servile; altri, su quello della ipocrisia ingannatrice, e alcuni, su quello della vera religione; io invece spinto dalla mia stella, procedo per l'angusto sentiero della cavalleria errante, e per esercitarla non mi curo delle ricchezze; ma non così dell'onore. Io ho riparato offese, raddrizzato torti, castigato insolenze, vinto giganti e sgominato mostri" (8).

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Tali erano le maniere delle Spagne. Come sempre suole accaderci, esageriamo le cose e, nell'esagerare il sentimento del nobile fino allo stesso disprezzo di una materia tanto necessaria quanto la è quella dei beni di fortuna, pregiudichiamo l'ideale della Cristianità che dicevamo di servire. Fu l'opera del genio eroico della Castiglia sempre assetato di sovrastoria; forse qualche goccia catalana di maggior attenzione per le ricchezze avrebbe salvato l'onore dal ludibrio, risparmiando alle Spagne il loro tre volte secolare Calvario e conservando quella Cristianità che dal 1648 è un puro ieri ideale sostituito dalla nuova realtà: l'Europa. Una Europa che è la negazione diametrale di ciò che volevamo nella storia.

La europeizzazione assoluta

Gli Austria terminarono senza cedere nel loro eroico impegno di conservare la Cristianità propugnandola secondo le usanze castigliane. Impegno nocivo per eccesso di idealizzazione e disaffezione della terra che si calpesta; il rimedio fu tuttavia peggiore allorché, stanchi del chisciottismo eroico, tentammo di superarlo con il rimedio di soppiantarlo con le tre formule che successivamente erano venute imperando nell'Europa vittoriosa: l'assolutismo del XVIII secolo, il liberalismo del XIX secolo e il totalitarismo del XX secolo.

Carlo II, quando firmò il suo testamento, simboleggiò la sua monarchia nobile e cattolica con le parole: "Io non sono niente". Quando invece Luigi XIV disse, vero o leggendario che sia, che "non c'erano più Pirenei", procurò un contenuto alla svuotata monarchia: l'assolutismo francese, allora formula politica dell'Europa.

Il rimedio sarebbe stato non rimanere abbagliati davanti alla onnipotente Francia ma accettare la formula del marchese di Villena quando nel 1701 pretese l'avviso di convocazione delle Cortes di Castiglia per qualche cosa di più della partecipazione alla cerimonia del giuramento reale. La tesi del marchese di Villena era la soluzione ispanica di fronte alla stranierizzazione: passate le fasi della lotta violenta e riconosciuta la vittoria europea, ristabilire le istituzioni che la costante tensione delle armi aveva oscurate. Villena voleva restaurare le Cortes, liberandosi degli errori che venivano commessi in politica interna fin da Carlo I, salvando le Spagne attraverso la via normale della loro tradizione. Quel suo argomento "Era giusto che il Re rispettasse i Fueros" di Castiglia (9), è la più antica delle esposizioni del tradizionalismo spagnolo e contro la stranierizzazione assolutistica rappresenta quello che il Manifiesto de los Persas rappresentò contro la stranierizzazione liberale: la linea esatta della tradizione politica spagnola.

Filippo V, educato in Francia, innamorato delle formule che fecero grande il suo paese di nascita, non poteva però acconsentire al ritorno a una tradizione che non comprendeva e che era perfino opposta alla educazione che fin da bambino era stata inculcata al duca di Anjou. Per la sua mentalità assolutistica, francese e geometrica, risultava accessibile solo l'immagine di una bellezza politica uniforme e egualitaria: egli doveva reputare come mostri storpi e deformi quei "fueros" tradizionali di una monarchia che, indifesa, gli veniva consegnata nelle mani dalla paura madrilena dei potenti eserciti di suo nonno. Per questo, invece di ristabilire le libertà castigliane, sacrificate in Villalar alla missione universalmente antieuropea che la Castiglia inalberava, il cui sacrificio era però inutile dal momento in cui la stessa Castiglia rinuncia alle sue nobili avventure, Filippo V conformò l'eccezionale della Castiglia del 1700 ai suoi pregiudizi gallici, e adottò come migliore soluzione la trasformazione in assolutismo di sistema di quello che era stato un necessario espediente nella due volte secolare lotta contro l'Europa.

E` che Filippo V è già un europeo seduto niente meno che sul trono di Castiglia e senza l'occasione di castiglianizzarsi come due secoli prima si era castiglianizzato Carlo I. Per questo, invece di castiglianizzare la Castiglia, la europeizzò in conformità con il padrone di moda: l'assolutismo

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francese. E una volta riparata la mercanzia straniera sotto l'autorità castigliana, consumò la frode storica stranierizzando i popoli della Corona aragonese sotto il pretesto di castiglianizzarli. Il decreto firmato nel Buen Retiro il 29 giugno 1707 segna una delle date più tragiche della nostra storia, per l'equivoco che comporta il presentare l'infrancesizzazione come castiglianizzazione. "Ho giudicato poco conveniente - dice Filippo d'Anjou, europeo regnante in Castiglia - sia per questo, che per il mio desiderio di ridurre tutti i miei regni di Spagna all'uniformità delle stesse leggi, usi, costumi e tribunali, governandoli ugualmente tutti con le leggi della Castiglia, tanto lodevoli e accettabili in tutto l'universo; di abolire e derogare completamente, come immediatamente do per aboliti e derogati, tutti i detti fueros, privilegi, pratiche e costumi fin qui osservati nei detti regni di Aragona e Valencia; essendo mia volontà che questi si riducano alle leggi di Castiglia e all'uso e alla pratica e alla forma di governo che si tiene e si è tenuto in essa e nei suoi tribunali, senza differenza alcuna in nulla".

A questi termini del decreto si commisura la sua applicazione. Filippo V, ben lungi dall'attenersi al consiglio del marchese di Villena, il quale postulava il ritorno alla tradizione politica autentica delle libertà castigliane, infrancesizzerà e europeizzerà le istituzioni della Catalogna, dell'Aragona e di Valencia. Ciò che nel 1707 decreta per l'Aragona e Valencia non verrà applicato da uomini formati nello spirito delle libertà patrie; suoi ispiratori saranno un francese e un infrancesizzato: l'ambasciatore di Francia, Amelot, e l'ultrainnovatore Melchor de Macanaz, uno dei tipi più ripugnanti di tutta la storia che conosco, simbolo della prima ondata degli assolutisti e degli scettici "a la mode", di quelli il cui facile e vergognoso destino finisce per essere, specie di flagello delle cavallette avide, il cibarsi dalle cariche pubbliche contro la martoriata carne delle nostre tradizioni popolari.

Macanaz è l'incaricato, munito di pieni poteri, che si assume la funesta gloria di schiacciare la tradizione di Valenza, riparandosi dietro a supposte slealtà verso il governante di Madrid, primo esempio di abilità dell'anti - Spagna che in seguito si ripeterà con frequenza eccessiva. Il suo Informe dado al Rey sobre el gobierno antiguo de Aragón, Valencia y Cataluña; el que se había puesto desde que se las sujetó con las armas y lo que convendría remediar, è il primo atto notarile della nostra vergogna e la prima testimonianza solenne di come da Madrid si comincia a favorire l'europeizzazione delle Spagne. Il paragrafo 83 di questo Informe sottolinea l'odio inesauribile dell'autore verso i modi della libertà spagnola; non contento di averla assassinata con violenza nei regni di Valencia e di Aragona, pretende di ammazzarla in Catalogna: "e - postula il 27 di maggio del 1713 - quando si dovrà regolamentare quel Principato converrà renderlo in tutto il più possibile uguale ai regni di Aragona e Valencia, e sotto le stesse norme che si sono stabilite" (10).

Si trovano condannati così a morte gli ultimi residui di quelle libertà catalane che furono l'espressione più elevata di buon governo che a memoria d'uomo si ricordi; e vengono condannate da un pedante infrancesizzato, rabbioso traditore della più nobile delle cause della storia. Ciò che di Aragona si ristabilisce nel 1711 e che della Catalogna si mantiene grazie al decreto del 16 gennaio 1716 è il diritto privato; del diritto pubblico nulla, nulla di quel diritto pubblico che costituisce incomparabile miracolo e meraviglia. Finiva così, al riparo del pretesto del castigo di una ribellione, il più libero dei sistemi politici che la storia abbia conosciuto e la più alta vetta della perfezione governativa di tutti i tempi. Oltre ad aver fatto svanire nel 1648 i sogni universali e cristiani della Castiglia, l'Europa vincitrice penetra nel nostro seno per schiacciare le libertà aragonesi.

La lotta delle Spagne contro l'Europa dal 1700 cambia campo di battaglia. Ora si combatte all'interno. Siamo un manipolo di popoli che pretende di perpetuare i propri modi di vivere, ma nelle nostre minoranze di governo si suscita una competizione da neofiti nell'europeizzazione, un anelito di scrollarsi la polvere della propria storia.

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Non lottiamo più all'estero per imporre l'"ordo christiano" contro il meccanicismo internazionale; facciamo piuttosto guerre all'interno dell'orbita delle alleanze e delle controalleanze. Non pugnamo mossi dagli ideali della fede; combattiamo per patti di famiglia, per contribuire al benessere della Casa di Borbone, riconoscenti per il beneficio di averci infrancesizzato. E all'interno la moda francese raderà al suolo i nostri residui di ispanismo. Le "navi della Ilustración" (11) distribuiranno fra i gruppi intellettuali più selezionati di America il seme europeo che sarà il discredito del nostro meraviglioso chisciottismo, o insegneranno dottrine roussoviane o mostesquieuane, senza per nulla rammentarsi delle nostre libertà che un giurista traditore e un ambasciatore francese avevano terminato di estinguere (12).

Il popolo si opporrà sino alla fine, nonostante vengano proibite le ordinanze sacre (13), all'espulsione dei figli del Loyola in quanto nemici delle Spagne - cosa che, senza dubbio, incarnavano rispetto ai ministri massoni di Carlo III -; e a che la corte sia una piccola Versailles negli scandali come nei vizi. Dalla mia terra di Estremadura, la terra rissosa dei conquistatori, usciranno i paladini: nel teatro, Garcìa de la Huerta; nella polemica, Forner. Qui, nell'angolo meno europeo, la tradizione aveva i suoi teorici; ma l'onda soggiogatrice dell'europeizzazione guadagnava adepti giorno dopo giorno.

Durante il XVIII secolo contempliamo due Spagne una contro l'altra: quella che vuole tornare ai suoi modi tradizionali e quella che vuole essere come é; quella popolare e quella ufficiale, quella spagnola e quella europea. Nel 1776, padre Jerónimo Ferdinando de Zevallos pensa ancora che la grandezza della monarchia fosse legata al suo carattere cattolico (14); ma al doppiare il capo del 1800, le classi illuminate sono completamente europeizzate ed iniziano l'opera di abbattimento della Spagna tradizionale in ciascuno dei popoli spagnoli: in Cadice, votando la Costituzione del 1812; nelle terre americane, rinnegando l'unità delle Spagne. Lo staterello che dal 1810 disgrega in venti pezzi il colossale impero castigliano, non fu solo rottura tra popoli, ma anche rinnegamento del passato.

La tradizione comune della Chiesa venne rinnegata tanto nella chiesa di san Filippo Neri a Cadice quanto nei conciliaboli di Caracas; l'una e gli altri, da ambo i lati dell'Atlantico, aspirano all'europeizzazione, a farla finita con l'eredità di Castiglia per copiare i seducenti modi dell'Europa. Il vento spazza le sponde tuonando con burrasca rivoluzionaria; e in quella vertigine di tradimenti collettivi, accentuata dalla politica borbonica ufficiale del secolo XVIII, le Spagne venivano tradite sia dagli europeizzanti di Quito che dagli europeizzatori delle Cabezas de san Juan (15). La frammentazione ebbe luogo perché, con lo scomparire dei pilastri spirituali dell'impresa antieuropea - l'unità nella fede e la lealtà verso il re -, l'unità delle Spagne mancava della ragione d'essere e ogni popolo si lasciava trascinare dal richiamo tellurico della stretta geografia.

Tutti quanti i mali che caddero su di noi provennero dal non aver ascoltato i consigli del marchese di Villena, non restaurato le tradizioni politiche di Castiglia, non rinvigorito quelle degli altri popoli peninsulari e non stabilito analoghi regimi di libertà forali nelle Americhe. Al contrario, si infrancesizzò la Castiglia, si soppresse quel che restava di vita libera nei regni aragonesi e non si pensò di educare alla nostra tradizionale libertà i sudditi americani; tutto l'impegno di Filippo V, duca d'Anjou seduto sul trono di Castiglia, fu, al contrario, di ottenere che le ampiezze delle Spagne si aprissero al veleno dell'europeizzazione in voga: l'assolutismo di Luigi XIV.

La europeizzazione liberale

Ma giunse il giorno in cui anche la formula europea rovinò. Gli stessi principi che ci avevano "illuminato" nel 1789, cadono schiacciati dall'inesorabile ruota dei tempi. L'Europa ora condanna quel ci aveva insegnato come modello incomparabile. Un vento di revisioni scuote il palco e lo

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scenario francese alza il telone per sostituire, alla lenta commedia di parrucche e alessandrini, il dramma sanguinoso della grande rivoluzione.

Fra noi, il cambiamento della banderuola europea coincide con quello dell'invasione napoleonica e col risveglio di una reazione antifrancese, ossia contraria all'Europa, nelle masse popolari. Un testimone poco sospetto - quale Rico y Amat - confessa che la guerra d'Indipendenza fu una fiammata patriottica, anelito del ritorno alla nostra tradizione peculiare: "L'unica idea che agitava quelle ardenti fantasie, che commuoveva quelle anime nobili e valenti, non era altra che salvare la propria fede, la propria monarchia, la propria indipendenza" (16). Vale a dire il Dio, la Patria ed il Re della tradizione, che molto presto saranno inalberati dal carlismo contro il liberalismo, giacché lo stesso autore liberale confessa che "nessuno potrà negare che i liberali di quell'epoca erano gli infrancesizzati" (17).

Ciò nonostante, nell'ora in cui un'opportuna congiuntura dava luogo alla rovina della formula assoluta con cui l'Europa ci aveva illuminato nel 1700, il confusionismo che protegge le cose strane servì anche stavolta per far svanire la possibilità del ritorno alla tradizione politica caratteristica. Il campo si delimita in tre gruppi: quello assolutista, che Ferdinando VII imporrà a pugno duro sino al 1833; quello liberale, che occulta la nuova europeizzazione sotto l'ingannevole pretesto secondo cui, più che qualcosa di nuovo, si trattava della restaurazione delle anelate tradizioni peculiari, e quello tradizionalista, affogato tra l'assolutismo regio e l'equivoco liberale.

Il novello Macanaz che si accinge a commettere la frode di proteggere merce francese sotto il padiglione ispanico é, per miglior riuscita dell'equivoco, un uomo rispettabile, accademico dottissimo e persino sacerdote: Francisco Martìnez Marina. Il suo era un caso di miraggio, molto intonato con l'ingenuità delle illusioni romantiche, ma non per questo meno nocivo, giacché sviò per la seconda volta la rotta della nostra gente dal sentiero della tradizione spagnola. "Martìnez Marina fa parte - ha scritto Romàn Riaza - di quella pleiade di spagnoli, che potremmo chiamare delle Cortes di Cadice, che coincidono con un ideale politico, ma che nel loro tempo si nutrono con una sostanza estratta dalla storia spagnola, con un tradizionalismo che non capisce la tradizione..., ma che, per un fenomeno simile a un miraggio, vogliono vedere nelle nuove idee tutto un programma estratto dalle pagine più dimenticate della storia patria" (18).

Martìnez Marina coglieva nel segno nel voler tornare a quelle libertà che "con la disgraziata battaglia di Villalar... restarono soffocate per sempre" (19); ma nei suoi Principi naturali della Morale, della Politica e della Legislazione sostiene che tali libertà consistono "nello stabilire una morale pubblica e un diritto delle nazioni adattato alla situazione, circostanza e lumi del secolo" (20).

Se l'intenzione sia stata delusa o raggiunta pienamente, a seconda di come si giudichi Martìnez Marina, lo canta l'articolo 29 della Costituzione del 1812. La rappresentanza alle Cortes avrà luogo, non sulla base degli antichi criteri di libertà concrete, ma sulla base della popolazione, "composta dai nativi che per entrambe le linee siano originari dei domini spagnoli, e da coloro che dalle Cortes abbiano ottenuta la patente di cittadino".

In quei gruppi di ingenui liberali che nei primi anni del secolo XIX confondevano la questione - ripetendo il tragico equivoco del leguleio Melchor de Macanaz e la testardaggine assolutista di Deseado Ferdinando -, naufragò la possibilità di un ritorno alla tradizione spagnola. E non mancò neppure il forte battito - ancora una volta inascoltato - al portone della coscienza nazionale, costituito dal deputato alle Cortes per Siviglia, Bernardo Mozo de Rosales: un nuovo marchese di Villena, sebbene con tratti un poco diversi.

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Spetta a Federico Suàrez Verdeguer il merito di aver analizzato il valore del famoso Manifesto detto dei Persiani, che Bernardo Mozo de Rosales, alla testa di un gruppo di sessantanove deputati monarchici, presentò a Ferdinando VII in Valencia al suo ritorno nel 1814. Contro i due estremi del costituzionalismo infrancesizzato e dell'assolutismo ugualmente infrancesizzato, il tanto ingiustamente denigrato Manifiesto de los Persas é un richiamo al ritorno alla tradizione, parallelo a quello che centotredici anni prima verificò il marchese di Villena. "Raccogliamo noi questo manifesto - dicono i dottissimi storici Melchor Ferrer, Domingo Tejera e José F. Acedo, stampandolo in una delle appendici al tomo I della loro benemerita "Historia del tradicionalismo español" - integro..., perché ben meditato, illumina gli orizzonti alla comprensione del cammino del pensiero spagnolo, e al tempo stesso supplirà la mancanza di quegli storici che hanno sperato che la difficoltà della sua lettura, dovuta alla sua estensione, aiuti la mancanza di equanimità che essi fanno supporre per averlo omesso. Quando analizza la Costituzione, quando parla della questione forale di Navarra e delle Provincie Basche, quando scrive quel che devono essere le Cortes secondo lo stile spagnolo, quando specifica il concetto dell'autorità regia, il "Manifesto" detto "dei Persiani" dimostra che chi lo scrisse... non era a servizio della monarchia assoluta quale si stava erigendo in Spagna, bensì pensava al ritorno alle patrie tradizionali attraverso la confusione imperante" (21).

Sarebbe compito difficile precisare con meno parole e maggiore esattezza l'eccellente importanza del lungo, ma luminoso scritto di Bernardo Mozo de Rosales, deputato alle Cortes per Siviglia. In sereno contrasto con lo stupido miraggio che abbagliava Martìnez Marina, i "persiani" sanno racchiudere in una sola frase il modo di smascherare quel documento gaditano (22), imitazione servile dell'europeismo liberale del 1789. "Ma mentre i deputati di Cadice - dice il Manifiesto al paragrafo 90 - "trovavano umiliante seguire i passi degli antichi spagnoli, non disdegnarono di imitare ciecamente quelli della rivoluzione francese" (23).

Osteggiando a viso aperto l'europeizzazione liberale, i "persiani" ripetono un grido di incitamento identico a quello proferito dal marchese di Villena, con una continuità nella proposta di soluzioni che rivela la linea sicura e ferma del pensiero tradizionale, vivo nonostante gli esotismi ufficiali: il ritorno alle Cortes, nella loro forma suprema della fine del medioevo, cioè prima che l'ordine politico del governo castigliano fosse perturbato dalle esigenze di una politica militare che portò con sé l'esagerato irrobustimento del potere regale. Nel paragrafo 112 (24) si vede chiaro l'ultimo dei loro ideali: la Castiglia anteriore alla sconfitta di Villalar; ossia il ritorno alle feconde tradizioni delle libertà concrete, incompatibili sia con lo smisurato assolutismo dell'esotismo settecentesco, che con lo sfrenato schiamazzo dell'esotismo liberale. Parlano "secondo le leggi, i fueros, gli usi e i costumi di Spagna" (25).

Il Manifiesto de los Persas é il campanello d'allarme destinato a suonare dolorosamente nel deserto. Ferdinando VII accetta il suo spirito nel decreto del 4 maggio 1814; ma molto presto nel suo sangue rinverdisce la ruggine assolutista tesa a uccidere la soluzione alla spagnola, né più né meno come era affiorata nel suo bisnonno, un rampollo reale formato alla corte del Re Sole. Per la seconda volta, al secondo crocevia della possibilità di recuperare il filo della nostra tradizione politica, i popoli spagnoli si vedono trascinati dalla voragine di un'europeizzazione contraddittoria e ingannevole, oscillando tra l'iniziale conservazione dell'assolutismo e la definitiva vittoria dell'esotismo liberale.

Nel corso del secolo XIX, voci isolate, molto spesso povere di idee e fecondate da tremori intuitivi, grideranno il dolore per quest'occasione perduta: il carlismo militante e contadino, reazione popolare ed eroica in chiave romantica; Jaime Balmes ripeterà alla lettera (26) le vecchie cangianti dottrine del giuscostituzionalismo di Mieres e Marquilles, passate persino in Catalogna; Juan Donoso Cortés, sedotto dall'impulso intimo della sua condizione dell'Estremadura, inalbererà sotto

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Isabella II la stessa attitudine serratamente antieuropea che nel secolo XVIII era stata sollevata in altri territori dai miei compaesani Forner e Garcìa de la Huerta; Orti e Lara defenestreranno le pignolerie krausiste; Menéndez y Pelayo riscoprirà il nostro patrimonio culturale, benché accecato dalle conseguenze dirette della sua stessa impresa eroica di dissotterratore eruditissimo; gli uomini del '98 cercheranno a tentoni la nostra essenza tradizionale, sebbene, nella maggioranza, fossero persi nelle dense nebbie del loro positivismo filosofico e del loro indifferentismo religioso... Ma il male iniziale era già stato compiuto, e le Spagne si incammineranno, di caduta in caduta, rannicchiate su entrambe le rive dell'Atlantico, lungo i Calvari tracciati dalle persone che troncarono la continuità della sua esistenza storica.

Il dilemma presente

Nel 1936, con la rovina della formula di europeizzazione liberale - che uno sciocco confusionismo aveva fatto trionfare un secolo prima -, si aprì un'altra volta il dilemma, giunto così alla terza congiuntura: tornare alle tradizioni patrie o copiare i nuovi stili in moda nell'esotica Europa, il totalitarismo nelle sue due modalità nazionalista e internazionalista, del totalitarismo fascista o del totalitarismo bolscevico.

NOTE

1) Rientro in me stesso alla fine degli anni, dopo aver peregrinato per i diversi campi della moderna cultura europea, e, solo con la mia coscienza, mi chiedo: "Sono europeo? Sono moderno?" E la mia coscienza mi risponde: "No, non sei europeo, per ciò che si intende con europeo; no, non sei moderno, per ciò che si intende con moderno...".

2) Christopher Dawson, The making of Europe. An introduction to the history of European Unity, Londra, Sheed and Ward, 1939, pp.284-285; trad. it. La nascita dell'Europa, Einaudi 1959.

3) Vicente Palacio Atard, Derrota, agotamiento, decadencia en la España del siglo XVII, Madrid, Rialp, 1949, pp.194-195.

4) Generaciones y semblanzas, España, Madrid, 1924, pp.51-52.

5) Ernesto Giménez Caballero, Genio de España, Ediciones de "La Gaceta Literaria", Madrid, 1932, pp.27-28.

6) Cfr. il mio libro Doce nudos culturales hispanos-suecos, Universidad, Salamanca, 1950.

7) Miguel de Cervantes, Don Quijote da la Mancha, II, 31 (trad. it. Don Chisciotte della Mancia, A. Palazzi ed., Milano, 1965, p.298).

8) Ibid., II, 32 (trad. it. cit. p.298).

9) Il parere è trascritto dal marchese di San Felipe, Vicente Bacallar y Sanna, Comentarios de la guerra de España e historia de su rey Phelipe V, el Animoso, Matheo Garbiza, Genova, s. d., t. I, p.60.

10) Melchor de Macanaz, Regalías de los Señores Reyes de Aragón, Imprenta de la "Revista de Legislación", Madrid, 1879, p.22.

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11) Si allude qui all'Illustración, movimento ideologico che culminò nel secolo XVIII e che propugnava la secolarizzazione della cultura [N.d.T.].

12) Il testo di Fabio termina qua, e non vi ho posto mano più di tanto.

13) "autos sacramentales"

14) Fr. Ferdinando de Zevallos: La falsa filosofìa, o el ateìsmo, deìsmo, materialismo e demàs nuevas sectas, convencidas de crimen de Estado, Madrid, Antonio Fernàndez, VI (1776), 374.

15) Paese vicino a Siviglia, in cui insorse il generale Rafael del Riego y Nuñez (1785-1823) il 1 gennaio 1820 (N.d.T.)

16) Juan Rico y Amat: Historia polìtica y parlamentaria de España, Madrid, Imp. de las Escuelas Pìas, I (1860), 154.

17) Juan Rico y Amat: op. cit., I, 157.

18) Romàn Riaza: Las ideas politicas y su significación dentro de la obra cientifìca de Martinez Marina, Madrid, Tip. de Archivos, 1934, p. 6.

19) Francisco Martìnez Marina: Teoria de las Cortes, Madrid, Villalpando, 1813, II, 90.

20) Francisco Martìnez Marina: Principios naturales de la Moral, de la Polìtica y de la Legislación, Madrid, Academia de Ciencias Morales y Polìticas, 1933, p. 13.

21) Melchor Ferrer, Domingo Tejera e José F. Acedo: Historia del Tradicionalismo español. Siviglia, Ediciones Trajano, I (1941), 240.

22) di Cadice (N.d.T.)

23) Il testo del Manifiesto, firmato a Madrid il 12 aprile 1814, nella Historia del Tradicionalismo español, I, 273-302. La citazione alla pagina 289.

24) Historia del Tradicionalismo español, I, 294.

25) Ibidem, paragrafo 141, p. 300.

26) Si veda il mio studio Balmes y la tradición polìtica catalana, Barcellona, Congreso Internacional de Filosofìa, 1949.

III - Una tradizione viva: la Navarra

Una tradizione salvata dal naufragio europeizzante

Il naufragio della Spagna tradizionale ed antieuropea non fu, senza dubbio, totale dappertutto. A Menéndez y Pelayo, ossessionato dalla rivendicazione del patrimonio culturale ispanico, per un istante poté sembrare rabbuiato l'orizzonte, nonostante la linea dell'abate Miguel Antonio de la Gàndara o del mio conterraneo Juan Pablo Forner. Sembrò così anche a molti dei suoi

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contemporanei, che non compresero la qualità spagnola, ebbri di europeizzazione krausista o persi nel bosco di felci malaticce della Spagna del 1876.

Ma, nonostante tutto, rimaneva uno spiraglio nel tessuto delle nostre istituzioni, in cui si era salvato fino quasi ai nostri giorni, anche se scolorita e consumata, la tematica stessa delle Spagne tradizionali. Come un rigagnolo nascosto nelle asperità della sterpaglia, lo spirito del passato - in altri territori finito - scorreva ancora per le valli delle montagne pirenaiche, imbarcato nelle anime di alcune persone le quali non avevano sofferto le martellate rivoluzionarie che avevano troncato la nostra storia collettiva.

L'errore di don Marcelino - e di quanti prima o dopo attraversano i secoli mescolando inquietudini e scrutando soluzioni per i popoli spagnoli -, é di avere posto e risolto i suoi problemi partendo dal dato inconcusso della necessità di ricostruire l'intera nostra tradizione dissotterrandola dagli archivi, quasi come chi opera il miracolo di dare vita a un cadavere.

Ma lo "alzati e cammina" degli occasionali salvatori era chiaramente falso. Esisteva un popolo la cui eredità non era stata intaccata dalla fiamma devastatrice, la cui mentalità non era stata dissodata dalle zappe straniere. Mentre il resto della Spagna si europeizzava, dapprima nell'assolutismo alla Luigi XIV e poi nel liberalismo alla '89, il regno di Navarra continuava impavido l'evoluzione naturale del suo sistema politico tradizionale e tipico. Ivi proseguiva latente la nostra tradizione politica nel modo peculiare del regno di Irùn, e da quanto avvenne in Navarra si può dedurre quel che sarebbe avvenuto al resto dei popoli spagnoli se sfortunatamente non fosse stato rotto il filo delle tradizioni politiche locali, con re e popoli irretiti nelle maglie illusorie dell'esterofilia.

Quel che successe in Navarra, sarebbe certamente potuto avvenire in altri luoghi, e sarebbe persino dovuto succedere se gli altri settori della monarchia federativa e missionaria avessero conservato il proprio respiro puro nello stesso modo in cui lo conservò la Navarra.

Per chi crede nella Provvidenza, contemplando nei fatti il dito di Dio, la continuità della tradizione in Navarra ha molto del miracolo storico; sembra che Dio abbia voluto darci una lezione calda e vicina di quel che le Spagne sarebbero state se, al doppiare del 1700, non avessero cessato di essere. Tutto quel che si può scrivere sulla nostra tradizione politica non supererà il genere della letteratura - più o meno geniale, più o meno economica - che appare sempre assieme alle circostanze, di un valore troppo inferiore a questo fatto ciclopicamente istituzionale che é l'esempio di una tradizione non infranta: il regno di Navarra. Il primo passo per comprendere quel che le Spagne dovrebbero essere consisterà, pertanto, nell'avvicinarsi alla Navarra per ricavarvi la lezione di cui le Spagne abbisognano. Perché, al di là delle teorie successive, che hanno culla e sepolcro in Europa e solo clamore scimmiesco da noi, la Navarra ci da la lezione superna della realtà.

Non c'è il minimo dubbio che tale osservazione fosse facile; non é verità meno certa che gli uomini del XIX secolo, incapaci di valorizzare un così grande tesoro, non la compresero. Il pensiero politico del secolo scorso conosce tre interpretazioni della Navarra, ma nessuna cala nella realtà, nonostante l'evidenza di questa.

La prima interpretazione: Zuaznavar, l'erudito.

Il più antico interprete é José Marìa Zuaznavar y Francia, prototipo del giurista alla "Ancièn Regime". Dalle sue Memorias (1) si inferisce la sua vita sino ai settant'anni e, quel che é più notevole, il suo carattere. Da quanto dice e dai dati raccolti nelle segreterie delle Accademie di

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Madrid, sappiamo che nacque il 17 dicembre 1764 o, con la minuziosissima puntualità che tanto gli sarebbe piaciuta, alle due del mattino del giorno 18; che studiò a Oñate, componendo - ancor prima di diplomarsi baccelliere - un estratto in latino del Derecho natural di Helneccio e una Historia rerum gestarum populi Romani cum ipsius historia juris per chronotasim breviter conjuncta; che nel 1784 passo agli Studi di San Isidro, di Madrid; che nel 1785 prese la strada di Segovia per visitare suo fratello Paolo, cadetto d'artiglieria; che nel dicembre dello stesso anno fu nominato sostituto della cattedra di Diritto Naturale e delle Genti di San Isidro; che nel marzo del 1786 divenne letterato del Consiglio di Castiglia, da cui nel 1791 salì ad occuparsi della Procura del Re nel Tribunale delle Canarie, incarico dal quale fu giubilato senza processo nel 1803, a motivo di aver fatto causa a don Pablo Catalàn - cognato di Godoy, marchese di Branciforte e nonno materno di Pepita Tudó - per frode verso Finanza Reale; che, ritiratosi nel suo paese natale, Ferdinando VII lo tolse da lì per nominarlo uditore del Consiglio di Navarra, per tornare infine a rinchiudersi ancora a Hernani nel 1824; che raggiunse il posto di accademico corrispondente della Accademia della Storia il 13 febbraio 1807 e di soprannumerario l'11 novembre del 1831, così come fu creato membro onorario di quella Spagnola il 24 maggio del 1821, assistendo a molte sedute e divenendo soprannumerario il 24 maggio del 1831, ragione per cui non figura nell'elenco dei membri accademici; che nel 1829 fu beneficiato con uno dei Municipi di Casa e Corte, e nel 1831 con un posto nel Consiglio degli Ordini Militari, ecc.

Ho ripetuto di proposito in modo seccante i dettagli della sua biografia, perché leggendoli in questo modo ci si potrà fare un'idea del personaggio e si capiranno gli errori della sua analisi delle istituzioni politiche di Navarra. Zuaznavar fu uomo integro, di quelli che antepongono la dignità alla durezza della perdita del lavoro; ma fu anche una mentalità chiusa al cambiamento - amante del dispotismo illuminato e della monarchia assoluta -, che, a mala pena e in forza di quella sua integrità senza transazioni, piega la volontà a riconoscere nei cambiamenti rivoluzionari i figli legittimi dei principi esposti da Beccaria o da Rousseau, che tanto lo avevano sedotto al leggerli. Il contrasto, quasi contradditorio, che c'è in Zuaznavar tra l'amore all'età aurea di Carlos III e quanto riconosce nei testi antichi, é quasi un paradigma del momento; simbolo, in fondo, di un assolutista che trova, in determinati testi delle leggi patrie medievali, delle coincidenze con la Costituzione del 1812 e coi postulati rousseauviani.

Come gli altri suoi scritti, il suo Ensayo histórico-crìtico sobre la legislación de Navarra rivela l'uomo modello di una meticolosità nauseante, l'austero funzionario lettore di Rousseau, estimatore di Bentham ed anche conoscitore di Karl Ludwig von Haller (2), il tipo degno di presiedere una Società Economica di Amici del Paese o di pregare prima di bere la cioccolata vespertina senza disdegnare di snocciolare alcune facezie di impronta enciclopedista.

Scrive della Navarra come scrisse delle Canarie (3) e avrebbe scritto sulla Galizia o sulla Catalogna se fosse stato destinato alla Galizia o alla Catalogna. Perciò, quando un simile uomo si avvicinerà al sistema politico della Navarra, lo farà opportunisticamente, con un opportunismo confinante con l'insincerità. Verrà per vedere fino a che punto la situazione legale di quel passato remoto sia in relazione con una delle forze che allora, all'alba del romanticismo, lottano per mettersi al timone degli affari politici. Oscillante fra esse, dovendo scegliere tra assolutismo e liberalismo, quel che non gli entrerà mai nella testa sarà che la struttura della società della Navarra godeva di un proprio stile, quello tradizionale, che non coincideva con quello di nessuno dei contendenti, né liberali né di Ferdinando. Egli inaugura così la lunghissima linea di incomprensioni di cui la Navarra sta divenendo vittima.

Ignorante dell'incomparabile merito della vicina Navarra, il suo procedimento scientifico - che già preludeva quello dei ciechi interpreti successivi -, é il seguente: piena accettazione dell'orbe delle idee enciclopedico - rivoluzionarie iscritte nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e della natura

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contrattuale delle comunità umane; confronto di questo orbe di idee, elevato a termine di paragone dei valori storici, col contesto legislativo della Navarra; conclusione secondo cui, sebbene non esattamente, esiste una certa analogia fra numerosi dei precetti difesi dalla corrente rivoluzionaria e le leggi vigenti nell'antica Navarra. E tutto ciò, per maggiore confusione, senza disdegnare di avvicinarsi al padrone assolutista come fosse il miglior sistema di governo della Spagna (4).

Da qui il suo modo tipico di mettere a fuoco il problema, ridotto a verificare se in Navarra vi fu o no una "Costituzione scritta", ossia un documento costituzionale comparabile a quello del 1812, per cadere quindi nell'inganno (5), insuperbendosi poi sulle ali di un'interpretazione tanto personale quanto falsa del Fuero del Reino. "Come vedremo in un'altra parte di quest'opera - scriverà - quel che oggi conosciamo col titolo di Fueros del Reyno de Navarra non é il contratto sociale formato dai navarresi al tempo dell'invasione degli arabi in Spagna, e se vi fu un tale contratto o "pacta conventa", si é perso o rimase desueto e dimenticato a causa delle continue guerre che per più di tre secoli dovettero sostenere, sia interne che esterne, contro i mori e contro i francesi, contro gli aragonesi e contro i castigliani. Come ciascuno può ben capire, senza territorio fisso e in una continua lotta per riconquistare il perduto a seguito dell'irruzione di eventi tanto rapidi e grandi, non si poteva formare una vera Costituzione, né avere un diritto scritto".

E' la storia del letto di Procuste, applicata ora alla tradizione politica di Navarra. Zuaznavar, con un semplicismo che confina nell'ingenuità, adatta la Navarra alla tematica costituzionalista. C'è documento, ci sarà la Costituzione; non c'è documento, non ci sarà un sistema legale accettabile, la realtà mostri quel che mostra, e dica quel che direbbe lo stessissimo Aristotele.

Con tali premesse la conseguenza é scontata: Zuaznavar non capirà il valore rappresentativo dei Fueros di Navarra come nostra unica tradizione politica ininterrotta e vivente nel pieno vigore. Le passerà accanto, troppo cieco per apprezzarla, ossessionato dalla preoccupazione di non darle maggiore importanza di quella che deriva dal vedere in quel sistema, così meravigliosamente perfetto, null'altro che povere anticipazioni del povero esotismo del documento costituzionale di Cadice.

Il suo totale affanno viene soddisfatto quando incontra il Fuero che Sancho el Mayor concesse a Nàjera prima della "Pepa" (6) infrancesizzata: l'articolo 4 che garantisce la proprietà (7), oppure il 295, che esime dalla prigione chi dispone di garanti (8).

Il resto non conta. Uomo del settecento, manca della percezione della superiorità della libertà concreta della tradizione sulla libertà astratta dell'Enciclopedia. Uomo pignolo, basta il dettaglio del documento per nascondergli la grandezza unica di quel popolo non macchiato da esotismi. Reso straniero dalla sua cultura, non sa contemplare il fenomeno quasi miracoloso per cui la Navarra continua ad essere spagnola, tradizionalmente spagnola, dal punto vista politico.

La sbandata del 1823 lo porterà all'assolutismo e ad intonare canti al legittimismo, ma senza giungere mai al punto ispanico da cui contemplare la Navarra come era. Nella Representación che eleva a Ferdinando VII da Hernani, il 9 aprile 1823 c'è un voltafaccia (9), ma non una congiunzione con la realtà; da ciò che il suo nome sia stato così poco praticato sia nel terreno della politica spagnola che, in ambito dottrinale, della sua interpretazione delle istituzioni. José Marìa Zuaznavar é il primo che percorre la Navarra senza capirla.

L'interpretazione sentimentale: Olave.

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Serafìn de Olave, figlio di un sottotenente di Mina, che portò le spalline da colonnello durante la Prima Repubblica, soldato in lontani paesi asiatici e filippini, vincitore della insurrezione delle Antille e nascostamente devoto di Pi y Margall, é il militare che si mette a fare il rigeneratore politico, come Zuaznavar era il funzionario con vanità di scrittore.

L'intenzione che porta nella penna é politica; non concepisce come i liberali possano attaccare i Fueros e questi trovino il loro bastione nel carlismo. Preso dall'errore di credere che il liberalismo é libertà ed il carlismo assolutismo puro, invece di verificare se questo pregiudizio coincidesse o meno con la realtà delle cose, pretende di cambiare questa per assoggettarla alle sue premesse; invece di indagare se la difesa che il carlismo faceva dei Fueros, così come l'inimicizia che contro essi provavano i liberali, comportasse per i primi l'essere amici della libertà e per i secondi la negazione di essa, dà per assodato che vi sia errore nella posizione; invece di rispettare la vigenza di istituzioni tradizionali della Navarra, quale continuità ininterrotta del nostro vecchio ordine tradizionale, aspira ad interpretarla in modo che risulti come appena precedente la rivoluzione europea. Fra rivoluzione e tradizione, trovandosi iscritto nel campo rivoluzionario, volle nientemeno che rendere rivoluzionaria anche la Tradizione della Navarra, cancellandone senz'altro lo stile annesso che era il suo midollo.

Da qui l'impeto verso un'anomalia, da egli rilevata nella realtà, che esisteva solo nella sua testa. "In questa terra di anomalie - scrive -, ci mancherebbe che mentre alcuni carlisti ingannati gridano Pace e Fueros!, noi liberali, soprattutto quelli di Navarra, li contestassimo, restando indifferenti verso la causa forale, che é la causa sacra della libertà" (10).

E' il peccato d'orgoglio, e l'orgoglio acceca. Olave non cederà: piuttosto di riconoscere come il carlismo fosse la causa della libertà, altererà la visione delle istituzioni di Navarra. Partendo da premesse diverse da quelle di Zuaznavar giunge a identiche conclusioni, perché, in fondo, entrambi partecipano dello stesso spirito europeo, enciclopedista e rivoluzionario. Dirà di aver capito i Fueros e crederà anche che siano la libertà; ma così come comincia ignorando che i Fueros incarnano la libertà concreta, legato alla sua meschina e falsa libertà astratta e rivoluzionaria, concluderà applicando alla Tradizione di Navarra gli stessi criteri che saranno applicati da Zuaznavar che vede nei Fueros delle semplici anticipazioni delle creazioni rivoluzionarie.

L'obiettivo di Olave é applicare alla Navarra, o per meglio dire trovare nella storia "costituzionale" della Navarra, i patti politici tipici dell'ideologia della rivoluzione. "Esiste un antico Stato, parte integrante della nostra cara nazionalità spagnola, quello di Navarra, che ha vissuto, vive e vivrà la vita dei patti", scrive in un'opera il cui titolo già dice tutto: Il patto politico come fondamento storico generale della nazionalità spagnola e specialmente come manifestazione legale della sovranità indipendente della Navarra in alcune ed in altre epoche della sua autonomia senza pregiudizio dell'unità nazionale (11).

Inizia la dimostrazione andando alle origini della storia di Navarra. A cominciare dal patto di Sobrarbe (12), secondo lui di indubbia autenticità, va alla ricerca degli accordi coi quali plasmare il carattere elettivo della monarchia: nel fatto che dopo l'assassinio di Sancho V di Peñalén da parte dei suoi fratelli Ramón e Ermesinda, i navarresi eleggano liberamente a re Sancho Ramirez d'Aragona; nel "patto di resistenza" del 1328, firmato a Puente de Reina per fronteggiare gli avvenimenti inerenti la successione di Carlo I; nelle capitolazioni di Pamplona e Tudela innanzi al Duca d'Alba, durante le giornate dell'annessione; e nella stessa legge del 6 agosto 1841, anche se in definitiva era il dettato imposto dal vincitore Espartero. Insomma, cerca l'idea del patto negli avvenimenti della successione del regno, trovandola soprattutto nella persistenza della necessità di riconoscimento o elezione del monarca da parte del popolo.

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Col che, anche se siamo apparentemente di fronte all'idea contrattualistica alla Rousseau propugnata dall'incoerente Zuaznavar, i fondamenti sono diversi. Zuaznavar parlava di un "pactum constitutivum" del regno; Olave, di un "pactum nominativum" del sovrano. Zuaznavar cerca di trovare nel patto la spiegazione dell'esistenza della comunità politica basca, mentre Olave si ferma nel vedervi un contratto per la designazione del re. Negli scritti di Olave il "patto" assume il significato secondo cui, in passato, il popolo della Navarra aveva frenato la volontà dei suoi prìncipi contrattando con essi un sistema di governo pieno di garanzie giuridiche di libertà, non già che le comunità sorgessero a causa di un "chimerico" patto costitutivo del vivere assieme.

Olave, per aver subito quelle posizioni intellettuali, adotta dei punti di vista che, nonostante i suoi desideri, si scontrano col suo energico liberalismo. Il fatto è che la federazione storica non ha nulla in comune con il federalismo pimargalliano da lui professato. Lo vediamo, così, censurare l'invio di "deputati della Navarra alle Cortes di Cadice nel 1810, (il regno) rinunciando temporaneamente alla propria autonomia parlamentare" (13), sebbene confessi che per tale affermazione "è più che probabile che anche i liberali della Navarra restino disgustati" (14); lo si vede lottare contro la "confusione di idee" che continua a contrapporre la tradizione al progresso (15), unite invece dal federalismo (16); lo guardiamo propugnare l'integrità del sistema istituzionale della Navarra, ancorché opposto al liberalismo dominante, esaltando "le Costituzioni più liberali e democratiche del mondo, la cui radice scritta, per quanto concerne principalmente Navarra e Aragona, si trova nel Fuero di Sobrarbe" (17), quel Fuero di Sobrarbe la cui esistenza aveva difeso contro lo stesso Castelar (18); assistiamo allo spettacolo di vederlo lottare a oltranza nell'ansia di salvare il federalismo pimargalliano dalle sue fondamenta francesi, facendogli scudo con i Fueros e contrapponendovi una malta di federalismo mescolato a fuerismo in opposizione "alle idee straniere" che "copiando Costituzioni straniere ha contaminato la rivoluzione ufficiale spagnola, adottando massime, formule e procedimenti contrari allo spirito degli spagnoli e rendendo i propri governi nemici dei Fueros" (19), perché "per quanto amareggi i liberali, esiste - confessa - una triste verità: la rivoluzione ufficiale è stata in questo mille volte più criminale dell'assolutismo" (20).

Ma tali e tante congetture si riducono in polvere per quel suo affanno a disconoscere la realtà speciale del tradizionalismo politico della Navarra come unica tradizione politica viva e ininterrotta. E, soprattutto, quella tradizione non dovrà superare il federalismo del programma del suo riverito maestro: quel che la Navarra insegna è quanto era già riportato nelle lezioni de Las nacionalidades, libro che pone davanti a tutti per essere del migliore spagnolo del XIX secolo, "onore della Spagna" (21) e non meno che "sublime" (22).

Quando Olave fa riferimento all'accordo di domenica 13 marzo 1328 a Puente de la Reina dagli Stati del regno, stipulato in vista della successione al trono, Olave sostiene che "quei valorosi e attenti navarresi seguirono esattamente la condotta consigliata dal nostro caro e rispettato amico don Francisco Pi y Margall ne Las nacionalidades anche nelle questioni di metodo" (23).

Così ricade dove era caduto Zuaznavar, perché tra il federalismo astratto di Pi y Margall e l'azione di quanti si riunirono a Puente la Reina non c'è abisso minore di quello esistente tra il contratto sociale rousseauviano e la legislazione di Sancho el Mayor.

Le libertà giurate nel 1328, così come il sistema politico della Navarra, consistevano in libertà concrete, specifiche, garanzie della posizione che ogni firmatario occupa in una situazione sociale nitidamente disegnata: nulla a che vedere con la libertà rivoluzionaria, efficace fucina di uguaglianza per nobili e plebei, franchi e villani, chierici e secolari, stallieri e signorotti di campagna.

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Il fatto è che Olave si avvicina alla Navarra col cuore, e col cuore anela alla perennità di quella tradizione politica conservatasi gloriosamente attraverso le smanie dell'assolutismo e gli eccessi del liberalismo democratico. Ma le interpretazioni di un popolo non si fanno solo coi battiti del cuore, essendo sempre e anteriormente conseguenza di determinati principi filosofici - dai quali quelli di Serafìn Olave erano lontani, molto lontani -, del sistema politico o degli schemi metafisici degli uomini della Navarra tradizionale, che essendo tradizionale era contemporaneamente antica e nuova. Anche egli passò per le vie del suo popolo - gironzolando attorno ai crocevia e desiderando indovinare una verità il cui godimento gli fu sempre nascosto dalla spessa nebbia dei suoi fervori progressisti alla Proudhon di Pi y Margall -, tanto forestiero quanto gli esotismi che si vantava di combattere.

Marichalar o l'interpretazione tecnica.

Neppure la visione tecnica del legalismo canovista è più felice, sebbene il suo teorico avesse abbondanti motivi per non sbagliare così maldestramente come i suoi due predecessori.

Benché fosse nato nel 1811 in Alcalà de Henares, Amalio Marichalar y San Clemente - il grande storico del diritto spagnolo per la parte forale della voluminosa opera che, assieme a Cayetano Manrique, fu pubblicata col titolo di Historia de la legislaciòn y recitaciones del derecho de España - fu marchese di Montesa, uno degli otto grandi casati tudelani con diritto di voto alle Cortes, come pure capo di quello di Marichalar, situato in Peralta, e oriundo di Lesaca. Ciò sembra suggerire che le pagine consacrate alla Navarra siano paragrafi vivi, appassionati, incandescenti, apologetici, fibre di una grande passione. E, ciò nonostante, si riducono ad un arsenale di notizie ordinate, un magazzino di date, un insieme di notizie ben sistemate.

In quattro parti, suddivise in diciannove capitoli, è condensato quanto si poteva sapere in quegli anni isabellini sull'attività legislativa dei re di Navarra, dei Fueros generali, della stato della società e del contesto delle Cortes. Certo, molte delle sue notizie sono discutibili, come la sua accettazione del leggendario Fuero di Sobrarbe; oppure incomplete, si ricordi la dimenticanza dei Fueros particolari, successivamente studiati con tanta maestria da José Maria Lacarra nell'Anuario de Historia del derecho español (24). Ma a tutto supplisce la sua prodigiosa capacità di ordinatore, il suo profondo sapere e la tecnica espositiva.

Tecnica. Da lì non esce. Ancora oggi l'elaborazione del marchese di Montesa risulta particolarmente utile, e ad essa attinse lo stesso Olave per bere le informazioni sulle vecchie cose di Navarra. Ma una tecnica che lotta per essere spassionata, rinunciando ad ogni avventura interpretativa per timore dell'interpretazione, perché nessuno spezzi l'oggettività di quanto viene esposto. Marichalar è uno storico, non un commentatore. Ordina fatti, non estrae conseguenze. Annota dati in un sistema che, a forza della ottenuta oggettività, non permette di vedere i caratteri della mano ordinatrice.

Perciò in Marichalar l'idea del patto prende una forma sicura, quella di patto governativo del re con i sudditi (25), ma senza che da un simile ed opportuno apprezzamento del patto, simboleggiata dai giuramenti dei Fueros da parte del monarca e dall'obbedienza da parte del regno, estragga il midollo della tradizione di Navarra: l'idea secondo cui l'ordinamento gerarchico del corpo politico rispecchiava una mentalità di vita, una scia di libertà concrete servite da parte di un potere regale limitato.

Nonostante tutto, l'imparzialità dello storico deve riconoscere i fatti così come si svolsero, benché non sappia o non voglia affondare nelle cause degli accadimenti. Ma, grazie all'incorruttibile

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sincerità della sua coscienza di storico, il contrasto tra la tradizione di Navarra e la rivoluzione circostante, tra l'autentica libertà dei Fueros e la farsa demoliberale, tra le libertà concrete e la libertà astratta, assume nel suo scrivere le tinte di una drammaticità tragica.

Si ricordi la sua meraviglia dinanzi all'incorrutibilità dei deputati di Navarra, che risalta così aspramente a confronto con la venalità dei contemporanei. "Come mai - si chiede - l'insieme dei deputati che si eleggeva ad ogni legislatura generalmente resisteva alle blandizie e progetti del governo? Come mai ai nostri giorni le Cortes sono sempre dello stessa opinione dei governi, e che tutti, anche se sono cattivi, incontrano il sostegno di quelli che si dicono rappresentanti della classe popolare? Come accade che il corpo elettorale sia sempre così docile alle lusinghe dei governi, anche se gli elettori sono individualmente persuasi che la loro amministrazione è pregiudizievole per il paese? (...) Oggi fra di noi siamo lontani dal proclamare un'idea feconda, lontana la nazione dall'avere interesse a difendere o a sostenere questa o quella frazione politica quando essa viene messa in discussione con mediocre abilità - dato che in definitiva si tratta degli interessi solo di alcune persone, di assai pochi uomini -, al punto che tutti i governi influenzano la rappresentanza nazionale e ci si meraviglia per la resistenza ai benefici o alle minacce. Il governo di Castiglia non riuscì mai a intimidire e corrompere il corpo elettorale della Navarra, sebbene lo avesse tentato svariate volte, e sempre per cose in cui aveva scarso interesse. Dov'è il segreto di un risultato tanto benefico per il sistema parlamentare?" (26).

Fondamento sicuro, da storico coscienzioso per il quale i propri pruriti non faranno mai degradare l'esposizione. Orbene, Marichalar vede la chiave di quella magnifica vita di effettive libertà semplicemente nel procedimento elettorale - secondo il quale l'elezione dei rappresentanti popolari aveva luogo per i primi venti iscritti nei collegi elettorali di ogni città o villaggio aventi diritto al voto nelle Cortes -, il che evitava ogni possibile coercizione verso coloro che sino all'ultimo momento erano degli sconosciuti. Per il marchese di Montesa "non c'è altra ragione a cui possa attribuirsi l'indipendenza e la libertà che ha sempre regnato nelle elezioni della Navarra" (27).

Ma la meschinità della spiegazione non ha una consonanza degna della grandezza del fatto storico, secondo cui la Navarra è l'unico tra i nostri popoli in cui, sino ad oggi, si è conservato il senso liberissimo della nostra tradizione politica. Quando Marichalar riduce tutto a un piatto meccanismo elettorale, ignora che quella meccanica non vale nulla se non serve da canale a uno spirito libero e intrepido. La sobrecarta (28), la promulgaciòn, le conquiste del 1561 ed i tentativi del 1624 si svolgono in circostanze identiche a quelle in cui il resto della penisola cede terreno all'avanzata dell'assolutismo. Perché l'assolutismo non ha trionfato in Navarra, come è invece accaduto nella maggioranza dei restanti popoli spagnoli?.

Marichalar risponde col suo meccanicismo elettoralistico, espressione arcaica del meccanicismo con cui i liberali, seguendo le orme di Montesquieu, credono di proteggere e instaurare la libertà. Ma c'è qualcosa oltre il ghirigoro elettoralistico, essendo questo troppo piccolo per spiegare un fatto tanto grande ed unico. Marichalar non lo comprese a causa del suo meschino metodo tecnico, per la ridotta angolazione della sua visione meccanicistica, per la vana pertinacia di fare del positivismo attaccandosi al fatto.

In Navarra c'era di più. C'era lo spirito indomabile delle genti del regno, le loro radici religiose, il loro eroismo silenzioso e senza deliqui. Gli astuti maneggi elettorali, più o meno riusciti, a nulla sarebbero valsi se non fosse esistita l'aria liberissima che rese possibile la continuità della Tradizione di Navarra. Le istituzioni sono conseguenza, non mai causa, della libertà.

Quando un giorno del luglio 1512 il Duca d'Alba piantò il suo campo nell'odierno passeggio della Taconera, ad Irùn, gli abitanti di Pamplona consentirono a diventare sudditi del re di Castiglia

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avvertendo però che avrebbero preferito morire prima di essere ridotti allo stato di vassalli; e siccome alla mentalità del Duca d'Alba, uomo della terra castigliana in cui non esisteva altro oltre che l'infinitamente grande del re e l'infinitamente piccolo del vassallo, sfuggiva la distinzione tra le due parole, "per vassallo - risposero, o meglio, spiegarono i pamplonesi - intendiamo colui il quale il signore può trattare bene o male, a piacimento; invece il suddito deve trattarlo sempre bene".

Amalio Marichalar misconobbe un simile spirito e ciò che era in cima alla signoria nel regno di Navarra. La tecnica affogò i suoi sforzi nella minutaggine del dettaglio secondario e, studiando la sua gente, non percepì sotto ai dati di erudizione la suprema verità della Navarra: che si trattava dell'unico popolo che non aveva dilapidato il tesoro, vero tesoro di Aitor (29), della sua libertà politica.

Le osservazioni di Cànovas del castillo.

Quando cominciavo ad occuparmi di studi relativi alla Navarra fui profondamente impressionato da quell'osservazione, formulata nientemeno che da Cànovas del Castillo, secondo cui il fervore provato dalle classi illuminate del paese basco verso le idee dell'Enciclopedia e della Rivoluzione, si dissolse come il sale nell'acqua quando le videro messe in pratica nel 1820 (30). Oggi sono riuscito a spiegarmelo. Le genti eùskere (31) videro nel liberalismo un alleato nella loro difesa delle patrie libertà contro l'assolutismo del secolo XVIII; ma non appena subirono la pratica delle nuove dottrine compresero che erano tanto lontani da esse quanto dall'assolutismo stesso. Nel corso del XIX secolo, che per la verità va dal 1833 al 1936, sepolto il fantasma assolutista, si ingaggia la lotta tra i difensori delle libertà tradizionali e i difensori della libertà liberale e straniera: tale è la guerra inestinguibile tra carlisti e liberali ed il motivo del continuo persistere nelle rispettive posizioni. Quel che accadde fu che, essendo i liberali padroni dei denari della propaganda, fecero prevalere la loro la loro posizione - secondo cui le libertà liberali erano essenziali e l'assolutismo inesorabilmente finito -, con un tale risultato propagandistico che costrinsero il carlismo nella stretta trincea del suo impegno indomabile e seminarono tanta confusione che caddero nella rete dell'inganno persino cuori tanto onorati come Serafìn Olave e maestri tanto perspicaci come Menéndez y Pelayo.

E' giunta l'ora di chiarire quell'imbroglio di una propaganda mendace e interessata.

I tre ricercatori della tradizione politica della Navarra prima considerati non schivarono lo scoglio: con gli occhi bendati dalla fantasmagoria artificiale degli schiamazzi rivoluzionari o dai luoghi comuni di una cultura non interessata alle proprie radici, non riuscirono a capire il segreto portentoso di quel popolo, vero eletto nei piani politici di Dio.

La lezione politica della Navarra.

La Navarra fu, nel corso del medioevo, uno dei regni spagnoli e l'unica parte del territorio basco che mantenne la propria bandiera indipendente, per quanto fosse schiacciata dai suoi colossali vicini di Aragona, Francia e Castiglia.

La storia ci presenta i navarresi orgogliosi della propria indomita indipendenza, difesa contro i mori e i francesi sin dallo stesso periodo in cui si inizia a parlare di loro. Nel 778 li guida contro i franchi un certo Sihiminum o Jimeno, e sembra che sia da lui che dipana l'organizzazione di un gruppo di

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baschi nei quali si deve vedere la successiva origine della Navarra. Sancho el Mayor (999-1035) cerca di fare del suo regno l'asse della riconquista contro l'invasore arabo, ma alla sua morte i suoi domini vengono divisi tra i suoi figli e - con la chiusura della frontiera meridionale di Castiglia, alleata con Aragona - rimane presto interrotta la strada per continuare la riconquista. All'inizio del secolo XIII, Sancho el de las Cadenas aspira a forzare la cerchia storica e politica della monarchia di Navarra, forse con l'ambizione di raggruppare sotto il suo scettro le altri sei tribù eredi del patriarca Aitor; ma la stoltezza politica di Giacomo I di Aragona, a cui spetta la successione, precipita il paese nelle mani di re dal tratto e cultura francesi. Un solo secolo dopo rinasce l'orientamento peninsulare che, dopo diverse lotte intestine, finisce con l'incorporare il regno alla corona di Castiglia.

Durante tutte queste vicissitudini, la Navarra conosce un sistema di libertà politiche concrete, conformemente alle consuetudini di quei secoli. In alcuni momenti il regno appare come un blocco chiuso, pronto a tagliare gli abusi regali. Il fatto che per molti anni i re di Navarra risiedessero fuori dal paese, lo spirito altero del nativo eùskero, la filosofia cristiana dell'uomo concreto, l'evoluzione verso forme monarchiche estamentali (32), che si estende a tutta l'Europa provenendo proprio dalla vicina Aragona, tali cause, oltre ad altre minori, contribuiscono a dare alla struttura politica di Navarra del basso Medio Evo un sigillo di indubitabile eccellenza nelle libertà politiche. Fu un sistema preparato a misura di libertà concrete, familiari, estamentali, sociali e cittadine, le uniche conosciute in quei tempi. Ma così efficace, così vivo e così consistente, che del suo ricordo restano memorie patenti nella robustezza di alcune istituzioni, ferite ma non abbattute dalle burrasche della rivoluzione e dell'assolutismo. Mostrerò alcuni tratti significativi.

Quando nel 1328 Carlos I morì senza lasciare figli maschi, sul trono francese - al quale quello di Navarra era unito -, gli succedette suo fratello il conte di Valois, Felipe, in ossequio ai precetti della legge Salica che in Francia impediva l'accesso al trono delle femmine. Ma siccome tale legge non la era nel regno di Navarra e Felipe pretendeva di essere riconosciuto monarca del regno pirenaico, il 13 marzo 1328 i rappresentanti dei brazos si riunirono a Puente de la Reina e si accordarono per difendere i diritti della principessa Juana, figlia del re defunto, fronteggiando le richieste del nuovo re francese. E' da notare il vigore della concezione politica che risplende negli accordi di Puente de la Reina. "In primo luogo - dicono e giurano i presenti - giuriamo sulla Croce o sui Santi Vangeli, sotto pena di tradimento, di vegliare su detto regno di Navarra... Ancora giuriamo, sotto la pena citata, che nessuno darà separatamente risposta sulla sovranità di detto regno, ma solo tutti assieme concordemente, con la maggiore e più sana parte di uomini dabbene, di cavalieri, di idalghi e di buone città. E giuriamo inoltre, sotto la pena citata, che ci aiuteremo tutti acciocché chi ambisce a regnare sul citato regno ci renda giuramento secondo il fuero, l'uso e la consuetudine del regno di Navarra. E giuriamo anche di aiutarci a mantenere fueros, usi, costumi, privilegi e franchigie, come ciascuno li abbiamo".

Le vicende di Carlos II, detto el Malo (1349-1388), e le sue esorbitanti spese durante la partecipazione alle lotte intestine francesi, portarono quasi in rovina il patrimonio regale; per questo motivo le Cortes acquisirono il patrimonio del Re, facendosi carico del patrimonio integro del monarca e acquisendo così il diritto alla completa fiscalizzazione della spesa pubblica. Motivo per il quale il sistema parlamentare acquistò un vigore inusitato e davvero straordinario per quei giorni.

Le sommosse pubbliche - nonostante l'intervento in esse dell'astuto Juan II di Aragona, vero modello di principe machiavellico -, non poterono far deviare il senso di libertà consustanziale al regno pirenaico, salvato dal tempestoso mare delle burrasche assolutistiche, né smantellare i nostri sistemi politici autentici nei primi secoli dell'Evo moderno. Nel regno non vi fu un Juan II intento a schiacciare le Cortes di Evora, nè un Felipe II che aboliva i Fueros. Al contrario, le Cortes

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continuarono ad aumentare anche nella rappresentanza popolare, passando da 27 a 38 città, fenomeno certamente rarissimo nei secoli dal XVI al XVIII. Quando il viceré le convocava, chiedeva ai popoli, ai signori o agli ecclesiastici a cui spettava partecipare, che convenissero "per singolare grazia".

Le istruzione dettate il 5 ottobre del 1552, da Carlo V di Navarra e I di Castiglia, nonché V imperatore con questo nome, al viceré il duca di Alburquerque, sono un modello di rispetto verso i reclami del popolo. Il regolamento interno delle riunioni rimane di esclusiva competenza dei brazos, senza che mai il rappresentante reale si immischiasse in tale aspetto. Il primo problema da affrontare fu sempre la riparazione dei torti commessi durante la precedente legislatura, diritto ricordato a Filippo II dai deputati del 1558 nei seguenti termini, che qualunque governante odierno considererebbe insolenti, ma che trovarono benevola accoglienza in quel monarca tanto vituperato: "che il servizio - dicevano - con cui contribuiamo, soleva essere ed é volontario, e l'obbligo che V. M. ha di sgravarcene, in quanto re e signore naturale, é necessario, e se a ciò non si ponesse ancora rimedio, da qui in avanti si potrebbe pretendere lo stesso da V. M. se si presentasse un caso simile". Esistette un sindaco speciale per attendere alle rimostranze popolari a partire dal 1603, ossia nell'ora stessa in cui i re inglesi iniziavano la loro offensiva antiparlamentare in nome del diritto divino e carismatico a comandare. Nel 1556 le Cortes si rifiutarono di riconoscere la validità dell'abnegazione dell'imperatore a favore di Filippo II sinché non fosse arrivata una copia autentica e manoscritta dal suo stesso pugno. Durante i periodi di vuoto parlamentare, una deputazione permanente vegliava per l'osservanza dei fueros e delle libertà, avendo un potere così alto che le istruzioni addizionali alle Cortes del 1796 non hanno riscontro con alcun documento europeo contemporaneo. Il procedimento elettorale di estrazione dal sacco per eleggere i deputati, se non garantiva la rappresentanza dei più competenti, perlomeno riduceva al minimo il rischio di brogli elettorali.

Tutte queste caratteristiche, insolite in un'età di universale assolutismo, culminano in alcuni diritti che riesce difficile credere che li fossero, come veramente lo furono, in considerazione del temperamento dei monarchi che li concessero. Ne segnalerò alcune.

Per evitare che i sovrani dettassero leggi in contrasto con i Fueros di Navarra, le Cortes riunite in Pamplona nel 1514 sollecitano Ferdinando il Cattolico a rispettare i decreti reali, dettati in tale contesto ma non rispettati; il re risponde affermativamente nel seguente tenore: "Per quanto, a causa dell'insistenza di alcuni, molte volte comandiamo di dare a questo regno numerosi decreti e nostre disposizioni reali - così come li danno i nostri viceré in nostro nome - con grande appesantimento delle leggi di detto regno e quindi della sua libertà, contro di ciò prima d'oggi si é provveduto e abbiamo giurato. Pertanto, con la presente ordiniamo e comandiamo che tali provvedimenti o decreti da Noi emanati, ancorché vengano rispettati non siano messi in atto, finché non vengano discussi con Noi". Ed era Ferdinando il Cattolico.

Le Cortes di Sangüesa del 1561 ottengono da Filippo II ancora di più: che nel reame non si dia corso agli ordini reali senza previa approvazione del Consiglio di Navarra, approvazione che sarà chiamata "sobrecarta", ed era Filippo II.

Nelle stesse Cortes di Sangüesa del 1561 si stabilisce che l'emanazione di leggi é facoltà congiunta delle Cortes e del re. L'ottava petizione di quelle di Pamplona del 1624 assicura ai tre Stati del regno l'iniziativa legislativa a carattere esclusivo. E regnava Filippo IV.

La decima legge delle Cortes del 1817-1818 dichiara contrario ai Fueros l'annullamento della "sobrecarta". Regnava Ferdinando VII.

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Il fatto é che in Navarra lo stile medievale della libertà politica é durato sin quasi ai nostri giorni. Ivi la regalità non é mai stata un albero senza fronde, né i sovrani si sono addentrati nel fitto bosco delle libertà concrete medievali col furore di un boscaiolo ansioso. Se risaliamo dal diritto pubblico alla filosofia politica, potremmo dire che ivi persiste la nozione dell'uomo concreto come base della struttura sociale e governativa.

E' una condizione speciale che spiega l'acuta osservazione di Cànovas del Castillo, relativa al disinganno degli abitanti di Navarra nel vedere diventare legge la libertà del 1789. Il fatto é che mentre le idee di libertà astratta - valide per tutti gli uomini di qualunque epoca e qualsiasi nazione, cementate nell'astrazionismo dello "homo oeconomicus", realizzate nella formula meccanicistica di "un uomo, un voto", senza tenere conto delle qualità particolari del votante -, apparivano agli occhi dei figli di dieci generazioni di sudditi del potere assoluto dei principi come la salvezza dell'ordine sociale, le stesse idee risultavano prive di senso per i popoli che non avevano perso il gustoso sapore delle libertà medievali. In qualcun altro dei popoli spagnoli, come nel resto d'Europa, eccettuata l'Inghilterra, la lotta politica si svolgeva solo tra l'assolutismo della sovranità regale e l'assolutismo della sovranità popolare; e, assolutismo per assolutismo, si ritenne più accettabile quest'ultimo. In Navarra, al contrario, la lotta politica si concentrava non già tra l'assolutismo e la libertà astratta rivoluzionaria, bensì tra due specie di libertà: quella sradicatrice dell'Ottantanove e il sistema tradizionale di libertà medievali e cristiane, concrete e varie, che ivi resisteva alle trasformazioni di tre secoli di assolutismo principesco.

Per questo la scelta fu diversa: per la diversità di radicamento. Coloro che conoscevano solo la libertà astratta e livellatrice si diedero ad essa con passione. Quanti conoscevano il sistema di libertà concrete tipiche, optarono per queste ultime disprezzando ardentemente gli slogan rivoluzionari.

La Rivoluzione francese fu resa possibile dal precedente assolutismo regale. La Navarra, che mai conobbe tale assolutismo, non volle saperne nulla neppure dell'ideologia della Rivoluzione francese, ed ancora oggi, a metà del secolo XX, chiede con orgoglio il suo stile di libertà totale risalente al Medio Evo, che non ebbe altre interruzioni o eccezioni che quelle tracciate dalle spade dei generali liberali che avevano trionfato contro di essa.

Questa é pure la ragion d'essere del carlismo di Navarra. Siccome il carlismo offriva tali libertà e significava l'autentica libertà della tradizione contro le presunte libertà della rivoluzione liberale, la Navarra fu carlista e lottò per i sacri imperativi di Dio, Patria, Fueros e Re. Il carlismo offrì alla Navarra quel che il liberalismo non poteva darle: la libertà. Il liberalismo pretese di fare quel che l'assolutismo non aveva neppure tentato: rompere il filo della tradizione di Navarra in campo politico, sostituendo coi suoi falsi clamori la robusta libertà tradizionale. Da ciò l'adesione unanime, cieca e fervorosa dei suoi abitanti alla causa carlista; il fatto é che Navarra difendeva col carlismo molto di più che una determinata bandiera dinastica: difendeva il diritto di continuare ad essere se stessa senza intromissioni straniere, il poter continuare ad essere spagnola e non europea, la libertà di cristiana invece della libertà rivoluzionaria, il permanere della prodezza quasi miracolosa di mostrarci col suo esempio quel che sarebbe stato degli altri popoli spagnoli senza le successive europeizzazioni assolutista e liberale (33).

La lezione della Navarra, di come essa sia tradizione viva, non cade nel semenzaio di dottrine più o meno aeree, ma si eleva a fecondo crogiolo di realtà. In Navarra dobbiamo apprendere quanto solo essa può insegnarci: l'evoluzione naturale delle tradizioni politiche spagnole e le possibilità della libertà politica cristiana.

Per capirlo sembra necessario definire cosa sia la tradizione e le basi filosofiche delle libertà concrete e cristiane. Cosa a cui vengono dedicati i due seguenti capitoli.

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NOTA

1) Ignacio Ramón Baroja, San Sebastiàn 1834.

2) La teoria della "adesione" dei sudditi al re, esposta nel suo Compendio de la primera parte del discurso sobre el estado natural y civil del hombre, para el uso de la juventud en las Universidades. Madrid, M. de Burgos, 1833, pp. 120-132, ricorda le tesi della Restauration der Staatswissenshaften.

3) Sulle Canarie scrisse non meno di cinque libri, stampati tra il 1803 3 il 1820.

4) Contraddizioni che talvolta promanano dal suo desiderio di ballare al suono della morchia poltica trionfante in quel momento. Per una critica di Zuaznavar da questo punto di vista, si vedano le diciassette contraddizioni messe in risalto da José de Yanguas y Miranda, dette "ostie o bugie" nel I capitolo dell'opera che, sotto lo pseudonimo di Apoderado del Alma del Licenziado Elizondo [Impossessato dell'anima del Dottor Elizondo, N.d.T.], pubblicò intitolandola La contrajerigonza o refutación jocoseria del "Ensayo histórico-critico sobre la legislación de Navarra", compuesta por D. José Maria Zuaznavar, Francia, Cavero, Mùgica y Mauln, del Consejo de S. M. ... En Panzacola, agosto 1833, pp. 1-19 [La controtergiversa, ossia confutazione semiseria..., N.d.T.].

5) Ensayo histórico-critico sobre la legislación de Navarra, Pamplona, Viuda de Rada, II, 1821, 15.

6) L'espressione, se di origine colombiana, potrebbe essere tradotta con "fregatura" o "bufala". Pequeño Larousse Ilustrado, Librairie Larousse, Buenos Aires 1966. (N.d.T.).

7) Ensayo, II, 142.

8) Ensayo, II, 125.

9) Foglio sciolto, conservato nel tomo 6-8-3-2500 della Real Academia de la Historia, col numero 9 di quelli collezionati per volontà di Zuaznavar.

10) Serafìn Olave y Dìez: Reseña histórica y anàlisis comparativo de las constìtuciones forales de Navarra, Aragón, Cataluña y Valencia, Madrid, Aribàu y C.a, 1875.

11) El pacto polìtico como fundamento histórico general de la nacionalidad española y especialmente como manifestación legal de la soberanìa independiente de Navarra en unas épocas y en otras de su autonomìa sin perjuicio de la unidad nacional, Madrid, imprenta de la Nueva Prensa, 1878, p. 5.

12) Contrada spagnola (Huesca) che fu il nucleo dell'antico regno di Aragona. Pequeño Larousse Ilustrado, op. cit..

13) El pacto, op. cit., p. 159.

14) El pacto, op. cit., p. 158.

15) Tradición y progreso, Barcellona, Olivares, 1877, pp. 1-2.

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16) Tradición y progreso, op. cit., p. 72.

17) Tradición y progreso, op. cit., p. 27.

18) La unión aragonesa y el pacto de Sobrarbe, vindicados contra los desafueros históricos de don Emilio Castelar, Pamplona, Joaquìn Lorda, 1877.

19) El pacto, op. cit., p. 163.

20) Ibidem.

21) El pacto, op. cit., p. 42 e 76.

22) El bu del socialismo y la unión de la democracia, Madrid, La Nueva Prensa, 1878, p. 7, nota 1.

23) El pacto, op. cit., p. 42.

24) X (1933), pp. 202-272.

25) Historia, IV (1862), p. 418.

26) Historia, IV (1862), pp. 452-453.

27) Historia, IV (1862), pp. 453.

28) Potrebbe essere tradotto con "busta di carta".

29) Chi fu?

30) Antonio Càmovas del Castillo: Introducciòn, al libro di Miguel Rodrìguez Ferrer, Los vascongados, J. Noguera, Madrid 1873, p. LIII.

31) Euscaros è un nome con cui si designano i baschi o euscaldunas o euskaldunas. Deriva dal termine éuscara, nome che i baschi danno al loro idioma; Pequeño Larousse Ilustrado, op. cit. (N.d.T.).

32) Braccio: ciascun ramo del corpo legislativo e dei quattro Stati che formavano le antiche Cortes di Aragona; Pequeño Larousse Ilustrado, op. cit. (N.d.T.).

33) Trascrivo qui la tesi che ho già esposta, col titolo di La lezione politica della Navarra, in "Reconquista", I, 1950, pp. 115-127.

IV - La tradizione

"Purtroppo, qualche volta, se la dottrina é di incomodo, se la regola é di ostacolo a qualche opera, se nel caso si opina che il dissimulare o il transigere faciliti il buon successo, si dimenticano le regole sicure e si trascurano i principi più solidi ingannati da un bene che é soltanto apparente. Ma che cosa resterà di queste costruzioni senza fondamento, innalzate sull'arena? Cadrà la pioggia, entreranno le acque con violenza, infurieranno i venti e rovinerà la casa non fondata sulla solida pietra della dottrina ferma e inconcussa". - Beato Pio X

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La rivoluzione europea

In lingua castigliana la parola "rivoluzione" può significare molte cose. In astronomia dicesi rivoluzione il movimento completo che compie un pianeta o un satellite nel percorrere la sua orbita regolare. In medicina é un'alterazione e commozione tra gli umori. In senso generale, é l'azione di rivolgere o rivoltarsi.

Con tutto il rispetto per certe nuovissime accezioni, é sicuro che sin dall'antichità, nella sua accezione politica, la rivoluzione é l'inquietudine, il chiasso, la sedizione o la grave alterazione in una società o in uno Stato, ossia una perturbazione negativa dell'ordine sociale vigente. E così a tal punto che l'insospettabile autorità di Roque Barcìa nel suo Diccionario general etimològico (1), riconosce che solo metaforicamente si può intendere la rivoluzione come nuovo ordine nel governo delle cose, dandole un senso costruttivo. Ma nel castigliano corretto rivoluzione implica qualcosa di negativo; é la negazione dell'ordine, il baccano, la violenza scapigliata e distruttrice. Quando la violenza non distrugge, ma ricostruisce l'antico ordine nella sua perfezione più bella, non la si chiama rivoluzione bensì restaurazione. I due secoli di abbellimento della parola - spesi dal pensiero europeo dal 1789 - cercando di attribuirle la valenza positiva di "ordine nuovo", nulla possono contro l'inesorabile autenticità della lingua castigliana che equipara la rivoluzione al disordine.

Come altri termini politici, "rivoluzione" é vocabolo che entra nel dizionario del diritto pubblico in una precisa epoca: intorno al 1600 in Francia, durante uno degli attriti delle Spagne contro l'Europa. Quando Enrico IV compra Parigi al prezzo di una messa machiavellicamente sacrilega, i suoi nemici del partito spagnolo o della Lega vanno a rendere omaggio al nuovo cattolico già re, con un opportunismo da cui si discolpano spiegando: "Que voulez-vous? C'est la révolution" (2). Da allora il termine "rivoluzione" passa ad acquisire il significato di cambiamento politico radicale contrario all'ordine, non di ristabilimento violento dell'ordine.

E' un significato che soddisfa le esigenze del politico, ma resta incompleto per lo storico, perché la storia impone di distinguere la serie di cambiamenti politici parziali dal grande processo che nega i sistemi culturali e politici cristiani, iniziato con la devianza eretica costituita dal protestantesimo, continuato in Inghilterra nel secolo XVII e nell'America del Nord nel XVIII, il cui apice é la profonda alterazione del 1789.

La rivoluzione scusata

La filosofia hegeliana e totalitaria del secolo XX ha preteso di superare il significato negativo di quanto é rivoluzionario, cercando un contenuto creativo nell'antica rivoluzione demolitrice: appoggiandosi ad Hegel con fedeltà innegabile e considerando come tesi il vecchio ordine e come antitesi i movimenti liberali, contestualmente soppressi e assorbiti nella tipica funzione dello "aufheben" hegeliano, innalza come sintesi le rivoluzioni creatrici dello Stato totalitario, come momento dinamico di questo. Se lo Stato totalitario sintetizzava e superava ("aufhob") gli Stati assolutisti e quelli liberali, la rivoluzione che lo genera sintetizza e supera l'ordine antico con la rivolta borghese o marxista. Negativa per quanto sopprimeva, era positiva per quel che conservava, divenendo così creatrice ed effettivamente positiva.

Questa nuova accezione della parola "rivoluzione", così in contrasto col modo tradizionale di parlare in Castiglia e con la generale terminologia prehegeliana, si é fatta largo nel nostro secolo al

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riparo dei nuovi linguaggi del nazional-socialismo hitleriano, del fascismo mussoliniano e del bolscevismo comunista.

Il più sicuro degli hitleriani speculativi, Julius Binder, teorizzò la rivoluzione creatrice in un System dei Rechtsphilosophie con accenti che non sono stati superati da nessun altro teorico del totalitarismo di alcuno dei movimenti paralleli. Binder lega la nozione di rivoluzione alla relazione dialettica, stabilita da Hegel, tra la norma e la contronorma, tra "Satz" e "Gegensatz", in funzione del postulato dell'identificazione del reale col razionale. Julius Binder, opponendosi all'ebreo A. Liebert che nel suo Vom Geist der Revolutionen aveva nel 1919 conservato il senso liberale di cambiamento distruttivo in ambito politico, sostiene che nella ragione si giustificano sia la norma che la contronorma del diritto futuro, per la stessa ragione che il divenire dialettico giustifica nello stesso tempo la tesi e l'antitesi, essendo la rivoluzione la "Trägerin der Idee" ed il sostegno dell'idea rinnovatrice che sostituisce il sistema anchilosato della tesi con la nuova sintesi giuridica. Come in questa sintesi si usano degli elementi della tesi, così nel diritto nuovo si conservano ingredienti - trasformati - dell'antico; la rivoluzione é l'agente creatore che opera tale cambiamento nella macchina sociale e giuridica della vita collettiva della comunità popolare (3).

Questa mutazione corrisponde al cambiamento dalle rivoluzioni distruttrici alle rivoluzioni conservatrici, nel confusionismo terminologico che identifica rivoluzione con restaurazione, senza fare altro che aggiungere alla prima l'aggettivo "nazionale". Dal che si ripete la lettura di Hegel fatta da Georges Sorel, che postula degli orientamenti "vérs un idéalisme constructif". Già nel 1932, un tedesco, Michael Freund, nel suo Georges Sorel, der revolutiönäre Konservativismus, aveva additato la possibilità di una rivoluzione conservatrice, con termini ripresi da Gustavo Glaeser in un articolo pubblicato nella rivista Critica fascista, del 15 settembre 1933, titolato Attualità di Sorel. Questa é l'opinione successivamente canonizzata dall'alta autorità di Sergio Panunzio, quando nella sua Teoria generale dello Stato fascista definisce il fascismo come "un grande fatto storico di conservazione rivoluzionaria" (4).

Questo punto é talmente connesso alla prospettiva della speculazione totalitaria - nella misura in cui questa deriva dall'hegelismo -, che la sintesi che abbiamo visto aver luogo tra fascisti e nazional-socialisti si verifica pure nel bolscevismo russo. Nell'articolo Dialecktiskii Materialism, pubblicato nel tomo XXII dell'Enciclopedia sovietica, un uomo dell'importanza di A. V. Stchoglov parte dalla legge della "zakon otrichaniya otrichaniya", la legge della negazione della negazione, per dimostrare un principio positivo nel quale la negazione sia "snimaechya", cioè superata, raccolta e soppressa contemporaneamente: esattamente quel che gli hegeliani chiamerebbero "wird aufgehoben". Col che si produce la rivoluzione conservatrice, implicita nella riapparizione del nazionalismo russo assieme alle riforme sociali comuniste. Nella Storia del partito comunista, pubblicata ufficialmente a Mosca nel 1950, si parla di rivoluzione dall'alto, con frasi attribuite allo stesso Stalin (5).

Tuttavia, nonostante il suo imponente apparato filosofico, la concezione totalitaria della rivoluzione non eccede le dimensioni della precedente tematica della rivoluzione distruttrice, perché si continua a partire dal fatto demolitore che distrugge quanto esisteva precedentemente, quali che siano le spiegazioni dottrinali addotte per gli effetti di distruzione inerenti tutte le imprese rivoluzionarie. Questa spiegazione é in fondo talmente semplice da definire la possibilità tanto della rivoluzione creatrice di tipo hegeliano, quanto la giustificazione positivista della rivoluzione seccamente distruttrice. Perché coloro che difendono la realtà rivoluzionaria partendo da una concezione biologica del diritto, come fa lo straripamento impetuoso di una corrente politica, finiscono col confondere il reale col razionale o quantomeno a subordinarlo, innalzando la storia a regola e il mutamento rivoluzionario fattuale a principio: gli uni e gli altri non cercano affatto di assoggettare i dati storici alle regole di una metafisica che li precede.

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La rivoluzione davanti al pensiero tradizionale

Quella soggezione dei fatti a una precedente metafisica é ciò che caratterizza il pensiero politico spagnolo quando analizza la rivoluzione, sia sul suo molteplice piano politico, che nel senso di processo corrosivo moderno ed europeo attribuitole dalla filosofia della storia. Se fosse possibile riassumere l'attitudine dei pensatori ispanici che hanno affrontato il problema da tre secoli ad oggi, direi che per essi la rivoluzione é primariamente un male e, in secondo luogo, un assurdo.

I nostri classici politici sostenevano che la rivoluzione é un male perché porta con sé la negazione dell'ordine dell'universo, buttando apertamente a mare, in modo radicale e violento, i dogmi pazientemente depurati generazione dopo generazione, che integrano il tesoro spirituale di un popolo (6); é la negazione della Tradizione, soppressa alla radice dall'impeto rivoluzionario, invece di venire logicamente e progressivamente migliorata. Nessuno meglio del mio connazionale Donoso Cortés ha esposto questo significato distruttore e nemico dell'ordine - e quindi malvagio -, della rivoluzione, quando scrive, nella conclusione del suo famoso Saggio, che essendo l'ordine necessario alle società e le rivoluzioni un cambiamento disordinato di esso, logicamente non sono neppure concepibili; infatti "E' a tal punto necessario che tutto sia soggetto a un ordine perfettissimo, che l'uomo, pur avendo portato il disordine in ogni cosa, non riesce a concepire il disordine; per questo motivo, non c'è rivoluzione che, nel distruggere le istituzioni precedenti, non le distrugga in quanto assurde e perturbatrici, e che nel sostituirle con altre di arbitraria invenzione non le dica costitutive di un ordine eccellente" (7). Ordine nuovo rivoluzionario che lo stesso Donoso Cortés qualificò, nel capitolo V del terzo libro del Saggio, né più né meno come "la nobiltà del crimine".

L'assurdo della pretesa rivoluzionaria risalta in modo manifesto quando la si confronta con la concezione cristiana dell'universo. Quando sant'Agostino ci ha definito con frasi incomparabili quale sia il concetto cristiano dell'ordine universale, non si é limitato a descrivere la gerarchia delle cose naturali, bensì vi ha aggiunto la costituzione delle società umane, cosa evidentemente logica, perché l'ordine ha radice nella legge eterna e questa abbraccia la totalità degli aspetti della creazione, comprendendo quello fisico, quello morale e quello politico. Dice sant'Agostino nel primo paragrafo del capitolo XIII del XIX libro del suo De civitate Dei: "Pax civitatis, ordinata imperandi atque obediendi concordia civium. Pax coelestis civitatis, ordinatissima et concordissima soietas fruendi Deo in invicem in Deo. Pax omnium rerum, traquillitas ordinis. Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio" (8).

Dal che si ricava: primo, che il benessere della comunità consiste nell'ordine che la rivoluzione nega, per cui la rivoluzione é intrinsecamente cattiva; secondo, che l'alterazione che la rivoluzione provoca presuppone una rottura - opera dell'uomo e contraria al corso della storia - della perfezione dell'ordine. Il "natura non facit saltum", implica nell'ordine sociale - in cui si attua la libertà dell'uomo - la negazione dei radicali cambiamenti rivoluzionari, attribuibili perciò alle conseguenze della ribellione condannata nel primo precetto dei comandamenti del Decalogo. E' per questo che a ragione Antonio Aparisi y Guijarro ha detto: "Sarete dei: questa frase detta ai primi uomini compì la prima rivoluzione. Sarete re: questa frase detta ai popoli, ha dato corso all'ultima. Sempre l'orgoglio!" (9).

La tradizione

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Contro la teoria della rivoluzione in ogni sua forma, il pensiero ispanico ha inalberato la visione di un ordine progressivamente migliorato senza salti nel vuoto, che é quanto si denomina con Tradizione.

La Tradizione nasce dalla vita, essendo nelle parole di Enrique Gil y Robles la "continuità della vita umana" (10). Ogni vita coagula in un insieme di esperienze ed opere che rimangono quando l'uomo, che le ha realizzate o raccolte, scompare dalla scena dei viventi; ogni esistenza umana elabora un tesoro trasmissibile a coloro che verranno dopo, essendo proprio la capacità di ereditare il tesoro accumulato dalle precedenti generazioni quel che distingue l'uomo dagli animali irrazionali. Quando nasciamo non lo facciamo astrattamente, ma col possesso di formule vitali trasmesseci dai nostri padri, che integrano quel che chiamiamo la nostra cultura e la nostra tradizione; per questo motivo Donoso Cortés disse superbamente che "i popoli senza tradizioni diventano selvaggi" (11).

Quel tesoro é soggetto a due criteri di selezione: il vigore degli elementi trasmessi permette la sopravvivenza di alcuni eliminandone altri, secondo una proiezione nella storia delle tensioni vitali presenti; e le opere dell'uomo si sottomettono a regole cui si deve assoggettare l'uomo stesso, per la sua condizione di creatura responsabile davanti alla legge di Dio. Nel primo caso la Tradizione si purifica, in modo naturale, nello svolgersi logico della storia; nel secondo caso la Tradizione si depura metafisicamente nella pietra di paragone costituita dalla legge di Cristo.

La differenza che distingue la nostra civiltà ispanica con la civiltà europea é appunto che, essendo la Tradizione consustanziale alla vita umana, l'Europa non ammette altro che la cieca depurazione meccanica promanante dallo scontro delle forze spirituali e sociali, mentre la filosofia tradizionale media i risultati degli sforzi umani - in proiezione verso il futuro - con i principi della verità cattolica. Per l'Europa tutto é storia viva senza metafisica previa; per la Spagna la metafisica é sempre stata metro dell'avvenire. Per l'Europa si deve tenere conto solo dell'opera dell'uomo; per le nostre genti gli affari dell'uomo devono sempre accordarsi con quelli di Dio. In definitiva tutto consiste nel sopprimere o mantenere lo schema del cosmo come dialogo tra l'Onnipotenza divina e l'ineludibile libertà dell'uomo.

Positivisti o hegeliani canonizzano i fatti e riducono la tradizione ai residui che i fatti hanno lasciato, senza distogliere gli occhi dal vile cammino costituito dalla storia. I cristiani, al contrario, lungi dall'ammettere in blocco i fatti dando loro valore per la forza che permise loro di lasciare tracce, coniugano i fatti e gli uomini che li hanno compiuti con alcuni canoni superiori, con le regole che vengono direttamente da Dio. In definitiva, nella dualità delle tesi relative al contenuto della tradizione politica, appare ancora una volta l'opposizione antitetica tra la civiltà teocentrica di cui siamo continuatori e la civiltà antropocentrica che nel capitolo II ho definito civiltà europea.

Tradizione e progresso

Tuttavia, senza uscire dai canali della verità cristiana e della metafisica che vaglia previamente, la Tradizione é l'operare degli uomini e dunque dipende da ogni azione umana. Quel che riceviamo dagli antenati non coincide con quanto trasmettiamo ai discendenti, perché nella massa culturale che trasmettiamo inseriamo il nostro personale apporto, il frutto del nostro operare stesso. Questo apporto, che ogni generazione aggiunge a quel che ha ricevuto dalle generazioni precedenti, é il progresso.

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Dal che risulta l'assurdità della posizione che soleva contrapporre la tradizione al progresso, giacché non esiste progresso senza tradizione, né tradizione senza progresso. Progredire é mutare naturalmente e migliorare qualcosa della Tradizione ricevuta dal punto di vista morale; se questa manca, se non c'è materia da riformare, il progresso é impossibile. Tuttavia, anche la Tradizione considerata come massa immutabile é qualcosa di morto, un'archeologia pietrificata, un blocco inutile. Se gli uomini non trasmettessero la Tradizione ricevuta aggiungendovi la propria impronta personale, la Tradizione sarebbe un cadavere.

Anche nel pensiero. Combattendo successivamente l'assolutismo e il liberalismo, gli eccessi dell'autorità e quelli della libertà, la tirannia di uno solo e quella di molti, gli argomenti immutabili devono essere esposti con un cambiamento frontale per rispondere alla specifica modalità operativa del nemico. E' quanto diceva in modo splendido Vàzquez de Mella quando definiva in cosa consiste il progresso della Tradizione: "perché - erano le sue immagini - non la credo per come é presentata: uno stagno di acque ferme e invariabili, che non possa essere accresciuto da nuovi rivoli che scendono dalle fonti pure della montagna" (12).

La Tradizione delle Spagne

La Tradizione delle Spagne é nata nella lotta. La Reconquista ha dondolato la sua culla con l'incrociare di spade e la Contro-Riforma ha sfiancato il suo slancio sbriciolando le lance dei nuovi crociati nelle Fiandre di cinque continenti. E' una Tradizione di combattimento militare, di senso missionario puro, nata contro la moltitudine dei mori maomettani ed affilata contro l'eresia protestante. Dal che derivano le sue due caratteristiche, storica e di ideali.

Storicamente la Tradizione delle Spagne é integrata dall'insieme delle Tradizioni di ciascuno dei popoli che le compongono. Vale a dire che é una Tradizione unica, ma variegata e multiforme nelle sue espressioni sociali e storiche in conformità all'idea dei Fueros. Nella penisola comprende le tradizioni particolari di Castiglia, della Galizia, del Portogallo, dei tronchi di Euskalerria e della Catalogna, dell'Andalucìa, di Aragona e altre minori; in America, quella di tutti popoli che vivono dal Rìo Grande al Sud; in Oceania, quella delle Filippine; nelle terre d'Occidente, i brandelli di tempo in cui Napoli, la Sardegna o le Fiandre servirono l'impresa universale capitanata da Castiglia.

Dal punto di vista degli ideali é l'instaurazione dei comandamenti di Cristo come leggi del vivere sociale, ristabilendo nelle circostanze d'oggi quello spirito che fu nella Cristianità medievale. Da cui ne viene che, essendo partita da un pezzo di terra d'Occidente, abbia - ed essa sola l'abbia - una trascendenza dai confini universali.

NOTE

1) Alvarez hermanos, Madrid 1882, IV, 704 b.

2) Heinrich Treitschke, Politik, V ed., Leipzig, S. Hirzel, 1922, I, 131.

3) System der Rechtphilosophie, Georg Stilke, Berlino 1937, pp. 393-394.

4) Seconda edizione, Padova, Cedam 1933, p. 13.

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5) Istoriya vsesoyinoi kommunisticheskoi partii (bollshevikov), Gospolitizdat, Moskvà 1950, p. 505.

6) Dal testo si inferisce come le critiche alla rivoluzione distruttrice nulla hanno a che vedere con l'idea di rivoluzione come restaurazione, che appare nel pensiero di José Antonio Primo de Rivera come risultato di una politica pragmatica.

7) Trad. it., Rusconi 1972, p. 429.

8) "...la pace della città é l'ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell'obbedire; la pace della città celeste é la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose é la tranquillità dell'ordine. E l'ordine é la disposizone degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene", trad. it., Paoline 1973, p. 1161.

9) Antologìa, Editorial Tradicionalista, Madrid 1951. N. 81.

10) Tratado de derecho politico, Imp. Salmaticense, Salamanca 1899 y 1902, I, 219.

11) El cerco de Zamora, in Obras, I, 78.

12) La iglesia indipendiente del Estado ateo, in Obras, Madrid, V, 1931, 70.

V - I fueros come sistemi di libertà concrete

"Fondando il potere politico nella libera volontà degli uomini e non più nella natura delle cose e nella legge di Dio; consegnandolo ai capricci delle decisioni popolari, manipolate dalla volontà dei più abili; rifiutando, infine, di riconoscere la piena autonomia giuridica dei gruppi sociali, e riducendo la società a massa di individui impotenti di fronte allo Stato sovrano - la concezione rivoluzionaria del potere provocò l'assolutismo dello Stato, sotto il cui mostruoso del Leviatano oggi viviamo. Solo nei sentieri della Tradizione i popoli trovano il progresso politico e la vera libertà" - José Pedro Galvao de Sousa

I Fueros

La Rivoluzione costituita dall'Europa si fonda su due fatti cardinali: l'idea dell'uomo come essere astratto e la concezione meccanicistica dell'ordinamento politico. Il pensiero tradizionale spagnolo contrappone a queste l'idea dell'uomo concreto come essere storico e la concezione dell'ordinamento come insieme organico di posizioni vitali concrete. E' un'attitudine che si cristallizza nei Fueros, manifestazione legale e politica della visione della comunità come "corpus mysticum" di cui parlano i nostri classici politici.

La parola castigliana "fuero" deriva da quella latina "forum", nome del luogo in cui si amministrava la giustizia, passata poi a significare le sentenze emesse e, più tardi, le leggi particolari di una città o estamento, per indicare finalmente l'insieme di norme peculiari in base alle quali ciascuno dei popoli spagnoli si governa; un senso - quest'ultimo - che possiede nei classici della Tradizione spagnola e a cui si riferisce il presente capitolo.

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In questo senso i Fueros presuppongono: primo, l'idea dell'uomo come essere concreto; secondo, che le libertà, o sfera d'azione dei diritti di ogni uomo nelle circostanze in cui vive, si inquadrino in ogni popolo negli ordinamenti legali e sociali prodotti della sua tradizione particolare; terzo, che nella lotta tra libertà e uguaglianza che corrode il pensiero rivoluzionario, é necessario affermare il primato della libertà; quarto, che contro la Libertà astratta della rivoluzione sono da preferirsi i sistemi di libertà concrete delle diverse tradizioni ispaniche, e, quinto, che i Fueros sono l'unica solida garanzia di autentica libertà politica.

Uomo astratto e uomo concreto

La filosofia politica della Rivoluzione uso l'uomo come misura di tutte le cose, indipendente dagli ordinamenti divini, trasformandolo in asse e centro dell'universo. L'ottimismo antropologico affratella Rosseau a Kant e ai legislatori dell'89. Rousseau idealizza alla perfezione l'uomo astratto, il selvaggio senza tradizioni, buono per definizione; Kant esalta la perfezione dell'uomo in se, indipendentemente dalle tradizioni culturali, creandolo capace di intendere il cosmo attraverso l'uso che la sua ragion pura fa dei dati del reale, e di sapere cosa sia giusto per mezzo della nuda autonomia della sua volontà "autonoma": gli uomini dell'89 non dichiarano quali siano i diritti dell'uomo francese, bensì quelli dell'uomo astratto e senza tradizioni. Per l'Europa l'uomo manca di storia, é un essere sprovvisto di un passato vivo.

Il successivo sviluppo di tale idea si svolge sotto un identico segno. Nella democrazia egualitaria ogni uomo possiede un voto, senza attenzione al suo valere né alla sua cultura, perché a priori tutti sono considerati uguali, giacché nulla conta della condizione storica concreta di ciascuno, ma solo la sua astratta condizione umana. In futuro verrà il giorno in cui questa inconcepibile ideologia democratica - oggi così diffusa - sarà considerata una cosa da pazzi, in virtù della quale sono uguali uomini nati con attitudini diverse e cresciuti disuguali; sembra una bugia che oggigiorno la maggioranza delle istituzioni dell'Occidente riposino sulla demenza di equiparare quanto a diritti politici i buoni ed i malvagi, gli svegli ed i tonti, i letterati con quelli che non sanno leggere. Sarà un'altra "pazzia d'Europa", da aggiungere a quelle già rilevate da Diego de Saavedra Bajardo - parlando del senso comune della Tradizione delle Spagne - tre secoli fa.

Nemmeno il totalitarismo fa distinzione tra gli uomini; quel che accade é che la democrazia li consideri uguali attribuendo loro lo stesso valore per inserire un voto nelle sue urne, mentre il totalitarismo concede loro identico valore per obbedire agli ordini di un dittatore, incarnazione di telluriche ed oscure volontà di assorbimento e, in quanto tali, sempre incontrastabili. Ma entrambi, liberalismo e totalitarismo, partono dallo stesso stampo filosofico: l'idea dell'uomo astratto.

E' un'idea che compare alla nascita dell'Europa. Anteriormente, nei secoli della Cristianità, la società cristiana possedeva un ordinamento gerarchico ed organico; ogni uomo apparteneva ad un determinato gruppo sociale, sia che fosse religioso (ordini o confraternite), religioso-militare (ordini di cavalieri), economico (corporazioni) o politico (brazos o estamentos). Lo sforzo personale faceva salire l'inferiore ai gradi superiori del corpo mistico sociale, ma questo fruiva di una solida struttura poiché - dentro di esso - ogni membro faceva parte di un ordine ed era un elemento che costituiva una gerarchia. La comunità organica cristiana, secondo l'idea dell'uomo concreto, fu il presupposto delle cattedrali tomiste costituite dalle "Summae" e il sodalizio umano più adeguato all'ordine divino in tutto il corso degli astri siderali.

Al momento della gestazione dell'Europa, verificatosi nel corso delle agitazioni del secolo XV, inizia in Italia la perdita del senso organico della società, che sostituisce la struttura orizzontale degli estamentos con una verticalizzazione dei raggruppamenti. Allora lo spirito individualista, che sfocierà nel meccanicismo europeo, spinto da una irrefrenabile ansia verticalista scavalca tutte le

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barriere, rimuovendo le precedenti strutture politiche. Come scriverà Alfred von Martin "the Middle Ages in their structure as well as in their thought had a rigidily graduate system. There was a piramid of States as well as a piramid of values. Now these piramids are about to be destroyed, and 'free competition' is proclaimed as the law of nature"(1).

I "condottieri" italiani che - a Firenze o Siena - lottano per impadronirsi della "città", cercano sostenitori in tutti i settori sociali, in modo tale da trascinare indistintamente chierici, nobili, commercianti, letterati ed artigiani. Dall'apice della visione organica della società conosciuta dalla Cristianità, sorge una nuova divisione politica del corpo sociale: quella che si verifica tra gli amici ed i nemici del "virtuoso uomo di fortuna". Così, quando uno Sforza o un Medici salgono al potere, fondano uno "Stato", ossia creano una struttura forte che permette loro di continuare a comandare. Con questa struttura nascono le fazioni, e secondo questo criterio qualche secolo dopo appariranno i partiti politici, aventi come regola il classificare gli uomini sulla base di criteri astratti e non a seconda del posto che ciascuno occupa nel seno del corpo mistico collettivo. Il profondo significato del Principe di Macchiavelli consiste - a parte la trasmutazione della tavola dei valori etici -, nel fatto che raccoglie quella nuova realtà sociologica, facendola entrare nella mentalità europea.

Poco a poco, col crescere ed irrobustirsi dell'Europa, l'idea dell'uomo astratto acquista vigore. L'aiuteranno a salire lo spirito romanicheggiante - che offre all'assolutismo regio l'occasione per disfare completamente la composizione organica della società, instaurando quel dualismo che Boutmy avrebbe definito come la contrapposizione tra l'infinitamente grande dello Stato e l'infinitamente piccolo dell'individuo isolato (2) -, lo stile borghese delle società protestanti - con quello spirito individualistico d'impresa, che nasce in Olanda e Inghilterra come conseguenza della scissione luterana tra natura e grazia, nel quale Werner Sombart ha posto la chiave del moderno capitalismo (altro fenomeno tipicamente europeo) -, e, specialmente, il nuovo spirito filosofico: quando Cartesio dubita della realtà circostante comincia a fabbricare un mondo per ciascun io astratto; un'intenzione che Kant tradurrà in sistema; un sistema che é nient'altro che la chiave dell'Europa contemporanea.

E' un'Europa in cui l'uomo crea il proprio mondo - ad opera di Kant - gnoseologicamente e persino ontologicamente - grazie all'idealismo trascendentale di Fichte -; un'Europa in cui la società consiste in un processo meccanico, un mucchio di granelli di frumento sovrapposti a caso; un'Europa in cui l'uomo, spogliato delle tradizioni, diviene mero "homo oeconomicus"; un'Europa che non vuole saperne più di corporazioni, ma solo di partiti politici, molteplici nelle democrazie ed unico nel totalitarismo; l'Europa che ignora l'uomo concreto della Cristianità e conosce solo l'uomo astratto della Rivoluzione.

Liberalismo e uomo astratto

Dice Maurice Hauriou che "l'organizzazione costituzionale ha per oggetto il fornire delle garanzie di libertà" (3). E' la trascrizione del secondo principio della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, dichiarazione dei diritti dell'uomo astratto, in cui si legge: "Il fine di ogni associazione politica é la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dei suoi membri".

Orbene, quell'ordinamento costituzionale possiede un carattere meccanico. "E' - ci dice lo stesso Hauriou - il risultato dell'equilibrio tra l'ordine e la libertà, tra quanto c'è e quanto deve ancora venire" (4).

Ma chi regola quell'equilibrio? Per l'uomo liberale solo una cosa: le maggioranze elettorali. E come nascono tali maggioranze elettorali? Secondo il criterio un uomo, un voto, cioè in tono con l'idea astratta dell'uomo. Per il liberalismo la rappresentanza sarà, pertanto, "nazionale", ossia, volta alla

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totalità del corpo sociale senza graduare le qualità presenti nel suo seno; e sarà, inoltre, una rappresentanza slegata da qualsiasi contatto con l'elettore, venendo proibito ogni tipo di mandato imperativo, al fine di dare corso effettivo alla nozione della rappresentanza astratta nell'astratta idea dell'uomo. Un Esmein (5) o un Carré de Malberg (6) definiscono l'idea di rappresentanza democratica in base a questa concezione astratta dell'essere umano.

Totalitarismo e uomo astratto

Il totalitarismo percorre gli stessi passi, perché in definitiva non fa che tentare di superare la molteplicità di politiche con una sola e la varietà anarchicamente meccanicistica dei partiti col dominio inesorabile di un partito solo.

Quando Lorenz von Stein apre le porte al marxismo impostando la realtà economica come realtà politica, apre la strada a che Marx costituisca un partito di classe avente per meta non la riedificazione della società sulla base degli strati professionali, orizzontali e apolitici; un partito che unificherà la società con un ordinamento esclusivamente politico e verticale, sopprimendo qualunque possibilità di libertà, quale che sia.

E quando il "Partito", "Partei" o "Partiya" assume in Italia, Germania o Russia il ruolo di educare il popolo a fini politici - ad esempio nelle teorie di Sergio Panunzio, di Carl Schmitt o di Arshanov -, va a sopprimere ogni libertà politica sugli altari dell'unificazione esterna e dell'ansia di conservare il potere di determinate strutture verticali, esattamente uguali a quelle delle "fazioni" che appoggiavano i "condottieri" rinascimentali. E sempre dando valore all'uomo come "homo oeconomicus" o in quanto soggetto passivo di sudditanze supine, mai come l'essere concreto che é, con peculiarità che oltrepassano lo stomaco o il comando.

Tradizione e uomo concreto

Contro a questi atteggiamenti europei, bisogna pensare che l'uomo é un essere integro, che nasce con una prospettiva ultraterrena in una cornice terrena. Bisogna credere che non nasce, come gli animali, per mangiare o imporsi con la violenza, ma in funzione di guadagnare - in alto - il cielo, e di continuare - in basso - una linea storica concreta. Bisogna concepire la società ordinata orizzontalmente in accordo a interessi morali o materiali, non verticalmente in uno o numerosi partiti politici. Bisogna affermare che la filosofia politica deve partire dall'uomo concreto e non dall'uomo astratto.

Pensando alla spagnola, che é pensare alla cristiana, l'uomo é stato dotato di libertà da Dio perché la esercitasse in circostanze date concretamente, sino al punto che un esercizio simile é - sul piano teologico - il mezzo che Dio ha posto nelle sue mani per guadagnare la felicità a cui é chiamato. Essendo missione della politica non il definire astrazioni irrealizzabili, ma il rendere possibile ad ogni uomo l'esercizio della libertà nella scelta del suo destino trascendente - sviluppando la sua natura liberissima in modo da non nuocere a sé, né risultare pregiudizievole all'ordine sociale di cui fa parte -, la cosa sarà possibile solo quando la convivenza umana si articolerà in sistemi organici di libertà concrete, che permettano alla persona, fisica o morale, di orientare il suo operare al raggiungimento dei suoi fini peculiari. La realtà storica ed il radicamento metafisico dell'uomo proclamano la sua condizione di essere concreto, capace di usare solo libertà politiche concrete.

Contro la negazione delle libertà, implicita nei totalitarismi, e contro la Libertà astratta, generata dall'89, la Tradizione spagnola ha alimentato la realtà storica dei Fueros come un sistema di libertà storiche concrete.

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Tra le libertà. Libertà ed uguaglianza.

La cosiddetta civiltà occidentale ritiene di aver raggiunto un livello di maturità sufficiente ad edificare la vita associata sul principio della Libertà umana. Si parla e si scrive come se la "Libertà" dell'uomo sia presente nell'ideologia che ha creato la rivoluzione francese del 1789, madre dell'attuale pensiero politico occidentale. Ma ne siamo certi? Si sono realizzati oggi, nel 1953, i sogni accarezzati nella congiura connotata dal suono de "La Marsigliese"? La Francia, l'Inghilterra e l'Italia, sono paesi davvero liberi?

Cercherò di rispondere a questa domanda.

Il pensiero rivoluzionario implicava, per come venne formulato nelle giornate del 1789 e volendo credere a quanto dicevano i suoi sostenitori, da un lato un principio di libertà per gli individui che componevano il corpo sociale, dall'altro il governo in tono con la volontà delle maggioranze. Nella massima formulazione della Dichiarazione dei Diritti, già si coglievano entrambi gli aspetti. Nel secondo articolo veniva stabilito che "il fine di ogni associazione politica é la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo; questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione" (7). Mentre nell'articolo 6 si determinava che "la legge é l'espressione della volontà generale; tutti i cittadini hanno diritto a concorrere personalmente, o per mezzo di loro rappresentanti, alla sua formazione" (8). Il primo fu il principio della libertà individuale, il secondo quello della sovranità nazionale o popolare; entrambi vengono mescolati nel contenuto della tematica filosofico-politica della rivoluzione.

Ciò nonostante si contraddicono profondamente, perché il primo si occupa di difendere l'individuo contro la maggioranza, mentre il secondo costruisce una maggioranza senza freni. Perché l'articolo 2 guarda al cittadino ed il 6 alla maggioranza numerica. Perché la libertà suppone un limite e la sovranità di per sé non conosce barriere, sotto pena di cessare di essere tale. Sono cose diametralmente opposte, anche se mescolate in diverse raccolte di diritti nelle varie costituzioni seguite alla rivoluzione.

Il motivo per cui entrambi i principi, benché contraddittori, si trovano nello stesso documento, é dovuto alla doppia paternità dell'ideologia rivoluzionaria, che da un lato vorrebbe beneficiare della tradizione inglese - portata nel continente da Montesquieu - e dall'altro reclama per sé l'eredità spirituale del pensiero astratto dell'Enciclopedia francese. La concretezza dell'esperienza inglese e della sua continuazione nordamericana avrebbe richiesto una dichiarazione di diritti sul genere di quelle inglesi del 1629 e 1688, o di quelle della Virginia del 12 giugno 1776 e del Massachussets del 2 marzo 1780, per citare solo le più rilevanti. La novità consistette nel riempire quelle formule anglosassoni col contenuto astratto dell'ideologia enciclopedista.

Cesare Cantù, il grande storico del secolo scorso, aveva già osservato questa contraddizione quando scrisse quanto segue: "Nonostante la rivoluzione avesse tutti i caratteri della violenza, voleva presentarsi sovente col ruolo di imitatrice, e pretendeva di fare la parodìa della rivoluzione degli anglo-americani. Ma per portare a termine un'impresa così grande era necessario porre mano a quelle verità pratiche che spuntano le armi della confutazione e non sono soggette a rettifica. Mirabeau diceva - con la residua ragione - che la libertà non é il prodotto di teorie astratte, né di corollari filosofici, e che le leggi azzeccate sono il prodotto dell'esperienza che quotidianamente si acquisisce e dei ragionamenti che si svolgono in una serie di osservazioni sui fatti. Nella tanto meditata Dichiarazione non si fissò il vero senso della parola diritto, e definizioni, massime, principi, si agglomerarono tutti indistintamente; si frammischiarono verità chiare e sacre con altre non ammesse dalla storia né dai costumi; e si arrotolò tutto in formule vaghe e indeterminate, che il popolo non capiva e delle quali non potevano trarre partito neppure l'esiguo numero dei filosofi.

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Anche gli inglesi, dopo la rivoluzione del 1688, redassero una dichiarazione di diritti; ma si deve notare, innanzi tutto, che quella dichiarazione, la quale ebbe luogo dopo una rivoluzione, non faceva altro che enunciare chiaramente e semplicemente alcuni canoni non soggetti a discussione o contraddizione, diretti solo a garantire dei diritti positivi. La Costituzione francese aveva invece carattere di universalità e preparava una costituzione interamente nazionale; l'individuo reale ed esistente veniva offerto come vittima alla creazione fantastica di una cosa pubblica immaginaria; si facevano regolamenti astratti per l'uomo astrattamente considerato, invece che per ventisei milioni di francesi viventi in una determinata epoca e che avevano propri costumi speciali" (9).

L'affanno di copiare gli antecedenti inglesi portava da sé i criteri per la libertà. Il prurito dell'astrazionismo conduceva alla democrazia. Montesquieu soggiace all'articolo 2, ma Rousseau alita all'ombra dell'articolo 6. L'equilibrio crea la libertà, dirà quello; la maggioranza ha sempre ragione, opinerà questo. Il dualismo libertà - democrazia, esperienza inglese - filosofia continentale enciclopedista, ragione - volontà, Montesquieu - Rousseau, equilibrio di poteri - volontà generale, articolo 2 - articolo 6, é l'antagonismo senza pari che lacera la trama interna della filosofia politica rivoluzionaria.

All'inizio, in Francia, predomina l'idea di libertà su quella di democrazia. Questa età aurea del liberalismo culmina, principalmente, nella "Charte" del 1830, proprio perché in essa quel che si desidera é assoggettare le decisioni della maggioranza, subordinandole all'auspicato criterio di forgiare un circuito vitale in cui la maggioranza non possa intromettersi. La filosofia politica dei dottrinari viene presieduta dal dogma inglese secondo cui "la mia casa é il mio castello" (10).

E' per questo che i dottrinari postulano un concetto intellettualista della legge. Tutto il primo capitolo del Cours de politique constitutionelle, di Benjamin Constant, é un tentativo di salvare tale postulato superando le dottrine di Rousseau. E' da qui che i dottrinari riducono lo stampo del perfetto ordinamento politico a una trama di poteri equilibrati tra loro, vedendo in ciò le massime garanzie per la libertà. Non contenti dei tre poteri classici che Montesquieu aveva osservato in Inghilterra, e timorosi che talvolta si potesse rompere l'equilibrio del potere esecutivo col legislativo e col giudiziario, nella cui relazione consiste la libertà, crearono un quarto potere, senz'altra missione che quella di mantenere perfettamente quell'equilibrio: il potere reale di Clermont-Tonnerre, il potere moderatore della Costituzione spagnola del 1876.

E' per questo che l'obiettivo di tutti i dottrinari é salvaguardare il paragrafo 2 della Dichiarazione del 1789 appoggiandosi sul 16, ossia sulla nozione secondo cui "ogni società nella quale la garanzia dei diritti non é assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha punto Costituzione" (11).

Di conseguenza, dentro la "Charte" del 1830, affinché vi sia il liberalismo, non esiste la democrazia. La separazione tra cittadinanza attiva e passiva era già stata stimata dalla Costituzione del 1791, venendo regolamentata in base a criteri economici che si concretizzavano nel pagamento di 1,50 franchi di tasse; un principio raccolto nella Costituzione dell'anno III, la quale elevava anche l'importo dell'imposta al salario corrispondente a tre giornate lavorative. La "Charte" regalista del 1814 alza la quota elettorale a 300 franchi di imposta per fruire del suffragio attivo e a 1000 franchi per possedere quello passivo. La "Charte" di Luigi Filippo abbassa le cifre a 200 franchi per l'eleggibilità attiva e a 500 per quella passiva.

Era una situazione liberale, non democratica. Nel 1831 c'erano in Francia solo 175.000 elettori. E quando si chiese qualcosa di ciò al dottrinario Guizot, egli rispose con una replica tipicamente liberale e borghese: "Arricchitevi col risparmio e col lavoro, e diventerete elettori" (12). Negli

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accadimenti politici che culminarono nella Carta di Luglio, vi é solo liberalismo, libertà come equilibrio di poteri, Montesquieu, esperienza inglese e predominio della ragione.

Ma sin dall'inizio Rousseau porge l'orecchio e, pochi anni più tardi, la democrazia inscritta nell'articolo 6 darà abbondanti raccolti politici. Già l'11 agosto 1792, il giorno dopo l'invasione delle Tuleries da parte delle masse popolari, la Convenzione nazionale convocata per decidere della sorte di Luigi XVI viene eletta chiamando al voto tutti i maschi con più di ventun anni; allo stesso modo, il postulato rousseauviano e democratico appare inscritto nella Costituzione della "Montagna" del 24 giugno 1793. Era l'alba democratica, passeggera sino alla fugacità, in cui per la prima volta il liberalismo perde terreno nel confronto con le turbe. Dopo questa tappa brevissima, la Costituzione dell'anno III vede un ritorno agli usi liberali, con un sistema che persiste nel 1814 e giunge all'apogeo nel 1830. Il Decreto del 5 marzo 1848 instaura definitivamente il suffragio universale in Francia: un principio poi rimasto costantemente in vigore, che nessuno combatterà frontalmente, sebbene venga corretto tramite lievi attenuazioni del genere di quelle citate nella legge del 13 maggio 1850 o nei procedimenti elettorali impiegati sotto il Secondo Impero per favorire l'elezione degli amici del Governo. Si può dire che in Francia, dal 5 marzo 1848, il principio democratico sostituisca quello liberale, in un percorso che sarà seguito da altri popoli europei.

Anche per l'Inghilterra - sebbene sia l'ispiratrice di Montesquieu e rappresenti il sistema liberale per eccellenza -, se si ripercorrono gli ultimi duecento anni della storia costituzionale inglese, si vedrà che, in definitiva, constano di una progressiva estensione del diritto di voto. Le riforme del 1832, 1867, 1884 e 1928, significano puramente e semplicemente tale trasformazione. Benché in teoria si continui a considerare il suffragio come non universale ma dipendente dalla tassa, il bassissimo livello stabilito per questa fa sì che la "Representation of the People Act" del 2 luglio 1928 consacri praticamente il suffragio universale.

Un suffragio che ha presupposto, dietro al trionfo della democrazia politica, la vittoria della democrazia economica. L'ondata crescente del laburismo, la sua ascesa al potere e i cambiamenti da vera rivoluzione incruenta che l'Inghilterra sta attraversando in questi ultimi anni, non significano altro che il trionfo totale della democrazia, anche nell'ambito dell'economia. Oggi si può dire, senza timore di errare, che l'Inghilterra - la terra classica della libertà politica - non é più uno Stato liberale (13) ma uno Stato democratico, nella doppia accezione che il vocabolo possiede. Le limitazioni all'operare individuale in campo economico che esistono in gran parte dell'Inghilterra d'oggi - trovando giustificazione solo in un ordine democratico - sono incompatibili con una concezione liberale.

Altrettanto si potrebbe asserire della Spagna. Eccetto il periodo transitorio seguente la rivoluzione del 1868, il XIX secolo spagnolo ha vissuto sotto il carattere liberale, non democratico. Le successive Costituzioni rifiutarono il predominio della volontà generale; cioè del suffragio universale, proscritto nel 1812, nel 1837, nel 1845 e nel 1876, senz'altra eccezione che quella breve del 1869. Ma, anche tra noi, all'iniziale tappa liberale segue quella democratica, d'accordo con le linee generali delle ideologie rivoluzionarie. Il dottrinarismo peculiare della Costituzione del 1876, viene sostituito dal principio della democrazia nella legge elettorale del 26 giugno del 1890, quando nel suo primo articolo viene decretato il suffragio attivo per tutti i maschi con più di venticinque anni. Anche nel 1931 la Costituzione repubblicana é democratica e non liberale: l'uguaglianza nel voto stabilita all'articolo 36, la proclamazione del suffragio universale, diretto e segreto nell'articolo 52 e le limitazioni alla proprietà, esprimono detta tendenza.

Il processo é sempre monotono fino alla sazietà: la libertà borghese perisce per mano del suffragio politico universale, e questo porta con sé in modo ineludibile l'egualitarismo socialista. Il predominio delle tendenze socialiste o dei socialismi democratici nella vita politica d'Occidente

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riflette questo cambiamento, in cui l'uguaglianza ha il primato sulla libertà e una volontà collettivistica rade al suolo le fragili barriere dei diritti individuali proclamati tanto pomposamente nel 1789. Che la volontà collettivistica sia maggioritaria o minoritaria, che si esprima in votazioni periodiche o metta mano alla spada di un dittatore, sono dettagli accessori rispetto al fatto fondamentale: la libertà astratta della Rivoluzione europea é morta divorata da sé stessa.

I Fueros, barriera e alveo

Contro l'Europa e per uscire dal processo della politica europea appena passato in rassegna, la Tradizione delle Spagne inalbera la bandiera della libertà; ma senza cadere nell'errore di basare la libertà sulla menzogna dell'uomo astratto inesistente, bensì fondandola sulle realtà concrete dell'uomo storico che perpetua una tradizione secolare. Per questo non proclama la Libertà, ma riconosce le libertà; per questo non lascia al rischio di un cervello il costruire castelli nell'aria di un'illusoria divagazione, ma si attiene a quanto creato dalla storia dei diversi popoli di Spagna e cerca di instaurare i Fueros come barriere protettrici della libera azione di ciascun uomo.

Nel pensiero ispanico i Fueros suppongono due cose: barriera e alveo. Barriera di difesa del cerchio d'azione che spetta ad ogni uomo a seconda del posto che occupa nella vita sociale, come padre di famiglia, come lavoratore, come membro di un municipio o di un territorio; e alveo nel quale fluisce la sua azione libera, incorniciata giuridicamente nei margini della sua posizione in seno alla vita collettiva. Di modo che i Fueros sono garanzia dell'uso e ostacolo all'abuso della libertà umana.

Nei Fueros e nella tematica dell'uomo concreto che serve loro da cemento, l'uomo storico succede all'uomo irreale dei liberalismi rivoluzionari. O per dirla con le profonde parole di Rafael Gambra: "Il nostro tempo ha reagito al razionalismo come concezione universale. Con ciò siamo tornati a guardare a quanto l'Illuminismo aveva disfatto... La Storia é tornata ad apparirci come uno sviluppo sempre nuovo di possibilità occulte e impenetrabili, il cui mistero é quello della nostra stessa esistenza. Dopo aver patito i cambiamenti del regime storico, i nostri occhi sono più aperti che mai al problema storico" (14). E la libertà storica sono i Fueros.

NOTE

1) "I medioevi ebbero un sistema graduato rigidamente, sia nella loro struttura che nel loro pensiero. Vi fu una piramide di Stati così come una piramide di valori. Ora queste piramidi stanno per essere distrutte, e la 'libera competizione' é proclamata come legge di natura", in Sociology of the Renaissance, Oxford University Press, New York 1944, p. 2.

2) E. Boutmy: Etudes de Droit constìtutionnel, Terza edizione, Armand Colin, Parigi 1899, p. 7.

3) Derecho politico y constitucional, Reus, Madrid 1927, p. 525.

4) Ibidem, p. 9.

5) Deux formes de gouvernement, nella Revue de Droit public, I, p. 17 e ss.

6) Teorìa general del Estado, Fondo de Cultura Econòmica, Messico 1948, pp. 1054-1055.

7) "le bout de tout association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de l'homme; ces droits sont la liberté, la proprieté, la sureté et la résistance à l'oppression".

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8) "la loi est l'expression de la volonté générale; tous le citoyens ont droit de concourir personnellement, ou par leurs réprésentants, à sa formation".

9) Historia universal, Montaner y Simòn, X, Barcelona 1892, pp. 16-17, Libro XVIII, capitolo I.

10) "my home, my castle".

11) "toute société dans laquelle la garantie des droits n'est pas assurée, ni la séparation des povoirs déterminée, n'a point de Constitution"

12) "Enrichissez-vous par l'epargne et par le travail, et vous deviendrez electeurs".

13) Ignacio Hernando de Larramendi, Tres claves de la vida inglesa, Madrid, Esplandiàn 1952.

14) El materialismo històrico y los datos de la filosofia actual, Madrid, Revista de Filosofìa, IV, 1946, p. 587.

VI - La monarchia federativa

"Omnis communitas perfecta est proprium corpus politicum" - Francisco Suàrez: De legibus, I, 6, 21.

La società, "corpus mysticum"

Quando lo Stato restò solo in mezzo all'arena politica - durante i secoli XVIII e XIX -, poté annientare l'individuo o divenire sua vittima nella catena di assolutismi e rivoluzioni che costituirono la parte più memorabile della storia delle società europee, e nostra stessa storia da quando cominciammo ad europeizzarci ai giorni di Filippo V. Mancava il ruolo moderatore delle società intermedie, proprio della Cristianità medievale e del diritto pubblico delle Spagne.

Ciascuna di quelle società intermedie serve per dare alla società generale maggiore la sua indole organica; possiedono vita particolare e indipendente nei rispettivi ambiti; abbracciano l'individuo da quando nasce fino a che muore; il potere supremo non le crea, bensì le riconosce. Alcune derivano direttamente dal diritto naturale, come la famiglia; altre sono risultato della storia, come i popoli. Talvolta possiedono vita pubblica, altre volte si limitano alla sfera del privato. A volte bastano a sé stesse, richiedendo solo tutela e coordinamento con quelle vicine, come la città; non mancano quelle che agiscono al pari dello Stato, ma con mire superiori e diritti maggiori, come avviene nel caso della Chiesa Cattolica. Ma nel loro insieme godono tutte - secondo le loro finalità - di esistenza rigogliosa ed indipendente, raggiungono i loro scopi e sono dotate di poteri che le mettono in condizione di realizzarli, poteri che - nel complesso - vengono chiamati autarchia (1).

In contrasto con la sociologia europea, che finisce con l'annientare tali società intermedie, sia sopprimendole - alla liberale -, che incorporandole allo Stato - come il totalitarismo -, la sociologia spagnola si distingue per l'importanza data alle entità ed alle istituzioni sociali. Non c'è né l'onnipotente arbitrio dello Stato che pesa su di esse, né l'immolazione sugli altari dell'isolato selvaggio dell'illusione rousseauviana: per la sociologia delle Spagne, intesa come asse della vita collettiva, le società intermedie servono da misura per l'azione dell'uomo concreto e, data la loro indipendenza rispetto allo Stato, sono fonte certa di equilibrio umano. Il totalitarismo riduce tutto allo Stato, assorbendo individuo e società; il liberalismo riduce tutto all'individuo, misconoscendo la società e preparando la fine dell'apparato statale; la Tradizione spagnola cerca, attraverso la

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società, l'armonia dell'individuo con lo Stato. Per il totalitarismo, lo Stato é fine in sé, individui e società restando dei mezzi; per il liberalismo, il fine é l'individuo, mentre lo Stato e la società sono meri disturbi alla sua libertà essenzialmente buona; per la Tradizione spagnola lo Stato regola l'indipendente attività sociale come servizio all'individuo, ma questi non é una meta in sé, bensì é posto al servizio di Dio.

Il rispetto con cui il nostro pensiero politico ha sempre guardato all'autarchia delle società intermedie appare chiaro quando si vede lo sgorgare tra noi, con quattrocento anni di anticipo rispetto al tanto strombazzato esempio inglese, la tesi che la conquista ha luogo per educare i popoli ad essere liberi. E' in occasione delle rivolte che desolavano la Sardegna - in cui un partito raggruppato attorno alle potenti famiglie degli Oria e degli Arborea fomentava una rivolta permanente contro la corona aragonese -, che i re provano a sottometterla usando per mezzo secolo tutti i mezzi forniti dalla violenza o dalla lusinga; la preoccupazione passa ai brazos riuniti a Tortosa nel 1400, sino a far giungere al sovrano la seguente proposizione, che si trasforma in capitolo di corte nel ricevere il corrispondente "plau" (2) che riflette il sentire ispanico del governo libero, anteriore e superiore alle tanto tradite e riproposte formule europee (3): "Ugualmente, signore, come é stato diverse volte visto, é risaputo che dal grande ed assoluto potere conferito ai Governatori di detto Regno di Sardegna, sono derivati molti inconvenienti, giacché per la loro potenza e la lontananza fisica dal loro signore, i detti Governatori volontariamente hanno perseguitato, afflitto e danneggiato molti abitanti di detto Regno e di altri [ad esso vicini o confinanti, sia privati che forestieri], finché in quel Regno ed in altre parti fu creato ed ora é opinione comune che la ribellione che ci sarà e che da lungo tempo in qua é stata e c'è nel detto Regno, prese fondamento e principio dalle soperchierie e dai volontari processi dei detti Governatori. Sia vostra mercede, o signore, provvedere e fare in modo che per sempre in futuro i detti Governatori abbiano da voi, signore, e dai vostri successori, sicuro e limitato potere", chiedendo che tali governatori per cinque anni non potessero rimuovere incarichi e che per la copertura dei vacanti operassero "tenendo conto del parere dei consiglieri di Cagliari per quella amministrazione e dei consiglieri di Alghero per l'amministrazione del Logudoro" (4). Un simile riconoscimento della propria realtà libera e l'anelito che altri popoli godessero di uguali fortune, provano la perfezione di quella formula felice, per la quale la monarchia tradizionale era un insieme di repubbliche coronate da un re.

La prima delle comunità inferiori o intermedie tra l'individuo e il potere politico é la famiglia, oggetto di ogni protezione in campo religioso, politico ed economico. Spettando la prima di queste tutele alla Chiesa, é un postulato del pensiero tradizionale il rinforzare l'autorità del padre, cementarla sulla perennità del legame matrimoniale e trasformarla in asse della rappresentanza politica. In ogni caso, é necessario che essa sia riconosciuta come qualcosa che é anteriore e superiore all'autorità politica stessa, ancorato direttamente nel terreno del diritto naturale. In campo economico vanno resi definitivamente stabili i patrimoni familiari, dichiarando la possibilità di ascrivere determinati beni a fini di continuità dell'istituto familiare. Tutti i poteri e facoltà di cui l'uomo in quanto tale é privo, gli sono attribuiti quando opera dirigendo e rappresentando una famiglia che ha ricevuto dagli antenati e dovrà consegnare ai discendenti. La società politica é un'associazione di famiglie, non un mucchio di uomini come crede il liberalismo, né una macchina con ingranaggi umani, quale la pensa il totalitarismo. Veicolo naturale dell'individuo, essa é la pietra angolare della comunità politica.

A fianco della famiglia stanno le entità territoriali minori e maggiori, con la loro varietà ricchissima, le loro istituzioni peculiari, le loro leggi, i loro costumi. I Fueros sono lo strumento legale per forgiare concretamente la realtà autarchica delle entità territoriali maggiori, degli stili di vita di ciascuno dei popoli di Spagna.

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Il fatto che ciascuno dei popoli spagnoli possieda tratti caratteristici nelle leggi, usi, costumi ed amministrazione - alcuni persino una lingua e cultura molto insigni - non é un fattore di dispersione, bensì di realizzazione della più perfetta delle unità: l'unità nella diversità. Tutti i diversi popoli ispanici sono legati da due vincoli: la fede nello stesso Dio e la fedeltà allo stesso re. Al di sopra delle libertà dei fueros, simbolo delle loro distinte personalità, campeggia il doppio legame della monarchia federativa e missionaria. Dove i Fueros mettono la varietà, la missione trae il vigore dell'unità interiore della coscienze, e la regalità é il segno esteriore dell'unità interiore.

La regalita'

La regalità non é qualcosa di vano, come i liberalismi dottrinari, né qualcosa di onnipotente, come nelle costruzioni totalitarie o assolutiste. Il monarca regna e governa, ma all'interno di limiti imposti dalle leggi fondamentali o del paese. Non gli é possibile alterare a piacimento l'apparato legale dei suoi popoli, senza il consenso dei popoli stessi. Impera, certamente, perché é re; ma impera all'interno di leggi ben precise.

In questo terreno la monarchia tradizionale é l'unica forma di governo in cui il potere del governante viene davvero limitato, perché i cippi che delimitano le sue facoltà non consistono in fredde lettere o dottrine morte, ma nella feconda realtà sociale, anteriore e distinta dallo Stato. Nelle società intermedie e autarchiche, dove i totalitari e gli assolutisti vedono uno strumento in più per il potere, e dove i liberali vedono il vuoto dell'inesistente, la monarchia tradizionale trova il freno effettivo che gli altri sistemi politici ignorano. Per questo la monarchia tradizionale é l'unica forma di governo in cui gli uomini possono sentirsi veramente liberi.

Tuttavia, posto che della regalità sono attributo alcune funzioni attive, le funzioni del monarca divengono una qualcosa di essenziale. Da ciò la necessità di esigere due tipi di legittimità: quella di origine e quella di esercizio, la legittimità dei titoli al momento dell'assunzione del potere supremo e la legittimità nel suo uso al servizio degli ideali della Tradizione delle Spagne. Entrambe sono essenziali, ma in caso di dubbio é da preferirsi la legittimità d'esercizio su quella dinastica, perché altrimenti ammetteremmo che un prurito leguleio possa primeggiare sul contenuto della tradizione ispanica, conclusione assurda sotto tutti gli aspetti. Il giuramento dei Fueros era condizione necessaria per l'incoronazione dei sovrani, volendo significare con esso che la legittimità d'esercizio era più importante di quella d'origine e che, mancando quella, questa manca di fondamento.

NOTE

1) Enrique Gil y Robles, Tratado, II, 2.

2) placet?

3) Questo brano, come quello successivo, scritti in un misto di francese, spagnolo e latino (?), é tratto integralmente dalla precedente traduzione (N.d.T.).

4) Cfr. il mio libro Las doctrinas polìticas en la Cataluña medieval, Barcelona, Aymà, 1950, p. 20.

VII - L'ordinamento istituzionale

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Cambiamento di fronte

I temi affrontati nei precedenti capitoli sarebbero un'inutile commemorazione se da essi non si deducessero lezioni di esemplarità, sia relativamente a quel che fummo che a quel che avremmo potuto essere se la successiva europeizzazione non ci avesse macchiato. E' possibile formulare un quadro della monarchia tradizionale delle Spagne basandosi per una metà sul passato e per l'altra metà immaginando quel che la storia tragicamente non giunse ad essere. A questo é dedicato il presente capitolo.

E' chiaro che la monarchia tradizionale che avremmo potuto avere, e che l'esotismo europeizzante ci ha troncato, nell'ambito istituzionale non ha molto in comune con nessuna delle forme di governo vigenti nel mondo. Anche l'attuale monarchia britannica é qualcosa di diverso, direi persino per molti aspetti contrario, dalla nostra vera concezione di regalità.

Chi avesse la pazienza di meditare su queste questioni dissotterrando il lascito vivo dei nostri morti, percepirebbe il fatto che la nostra monarchia ebbe ed avrebbe avuto una realtà sociale molto diversa da quelle che sistematicamente caratterizzano le attuali macchine di governo. Essa ebbe - per usare la felice espressione di Vicente Marrero (1) - un "potere viscerale". Per capire cosa fu e cosa sarebbe stato tale potere viscerale, é forzatamente necessario schiodare le tavole di luoghi comuni in cui si muovono i nostri trattatisti di diritto politico e persino rifare le mappe dell'amministrazione. Perché la monarchia tradizionale esistesse così come essa fu e sarebbe stata, il potere reale o supremo dovrebbe assumere un carattere molto diverso nei suoi principi, nelle sue limitazioni e nelle sue strutture.

Ed ecco quel che, senza archeologie calunniose, ma anche senza mimetismi europei, l'ordinamento centrale della monarchia tradizionale delle Spagne sarebbe stato se non si fosse tagliato il legame vivo delle nostre tradizioni politiche.

La Corona

L'asse della monarchia, inutile dirlo, risiede nella Corona. Al vertice della piramide istituzionale, la Corona costituisce il motore che dà attività agli ingranaggi di ciascuno dei rami dell'amministrazione statale o delle amministrazioni dei vari popoli spagnoli,

I caratteri di questa Corona sarebbero:

A) La cattolicità attiva, non espressa in verboserie di solenni dichiarazioni simili a ricette, bensì in autentico atteggiamento di raccolta degli aneliti missionari e a servizio efficace dell'unità cattolica dei nostri popoli, o per favorirla dove quell'unità fosse scomparsa. Dalla quale cattolicità deriverebbero tre doveri primari: l'assoggettare la politica generale ai postulati della morale cattolica, l'adottare una stretta fedeltà alla cattedra di Roma e il favorire in ogni occasione gli interessi spirituali della Cristianità.

B) La Corona - benché sia istituzionalmente una sola, come una sola é la persona del monarca -, consiste nell'accumulazione di diritti storici sempre discernibili perfettamente. Nella nostra monarchia secolare abbiamo sempre avuto quel che alla fin fine é un espediente recentissimo della tecnica costituzionale anglosassone: la possibilità che un re lo sia di regni diversi. La Corona

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presuppone sovranità in Castiglia, sovranità in Aragona, signorìa in Biscaglia, contado in Barcellona. Quando ciascuno di quei regni, principati, provincie e signorie, si incorporò alla Corona castigliana, riconoscendone la capitanerìa primogenita, non si suicidò mai - storicamente e socialmente - nell'olocausto di un'uniformità incompatibile coi fatti. Un biscaglino, per esempio, non si rivolgeva all'unica Corona in quanto depositaria della sovranità aragonese o castigliana, bensì in quanto essa era il soggetto maggiore del diritto pubblico della sua signoria di Biscaglia; perché Biscaglia - e non Castiglia o Aragona - era il solo cammino per il quale poteva far parte della monarchia comune significata dalla Corona.

C) Il re eserciterebbe i suoi poteri di governo in ciascuno dei suoi domini secondo i diritti che gli spettano storicamente e costituzionalmente. Solo nelle funzioni inerenti il potere centrale i suoi poteri sarebbero uguali in tutti i luoghi.

D) A parte le limitazioni religiose e morali di indole generica e le barriere legali - che in ogni popolo assicurano la libertà in riferimento ai rispettivi Fueros -, il Governo dovrebbe regolarsi in base alle decisioni delle Cortes, giunte o assemblee forali che regolano la rappresentatività libera di ciascun capo famiglia nei diversi popoli spagnoli. Altre Cortes centrali rappresenterebbero l'insieme generale di tutte queste, avendo come compito l'esporre le linee guida per la politica e l'economia comuni.

E) Nella monarchia tradizionale non ci sarebbe la classica distinzione liberale tra il regnare ed il governare, che rende i re legalmente irresponsabili nella giurisprudenza ma sempre largamente responsabili davanti ai tribunali delle rivoluzioni. Il re assumerebbe direttamente il governo, aiutato da una serie di istituzioni centrali denominate complessivamente Consigli della Corona.

F) Le facoltà regali, in tono con le loro funzioni, si potrebbero classificare nel seguente modo:

I- Generali per tutta la monarchia.

A loro volta divise in:

1) Di politica interna ed estera, amministrazione ed economia.

2) Di amministrazione della giustizia in tutti i suoi rami.

3) Di comando delle forze armate.

4) Di politica sociale e miglioramento delle classi economicamente deboli.

5) Di educazione e insegnamento (2).

6) Di coordinamento

II - Particolari per ogni regno.

Ciascuna delle facoltà centrali si incarna in un organismo separato. Saranno di competenza delle Cortes generali solo quelle segnalate ai commi 1) e 6); le altre spettano alla Corona indipendentemente dalle Cortes, per mezzo dei suoi corrispondenti Consigli.

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G) La Corona od i suoi agenti sarebbero soggetti a responsabilità quando il loro operare eccedesse i precetti legali. Il Supremo Tribunale di Giustizia potrebbe trasformarsi - in casi determinati da una legge speciale - in Corte di Giustizia Maggiore, sul modello dei precedenti aragonesi ampliati a tutti gli altri popoli ispanici come garanzia delle libertà forali, adeguandoli alle circostanze della vita moderna.

H) La successione alla Corona sarebbe ereditaria. Leggi speciali regolerebbero l'unità dei procedimenti per assicurare l'unità della monarchia nel riconoscimento della legittimità d'origine nel dettato di successione.

I) L'esercizio dei diritti, poteri e facoltà regali sarebbe assunto dal monarca solo dopo aver ottenuto la legittimità d'esercizio attraverso il giuramento dei vari Fueros dei popoli spagnoli.

Il Consiglio Reale

La Corona governerebbe con l'aiuto del Consiglio Reale, il più importante di tutti gli organismi e in certo qual modo prolungamento della Corona stessa. Si tratterebbe di un corpo ridotto, con cui componenti designati dal re tra le personalità più salienti della vita nazionale e dal cui seno uscirebbe la reggenza nel caso di vacanza del soglio o di assenza del sovrano. Avrebbe precedenza di onori nei confronti di tutti gli altri corpi dello Stato, anche del Consiglio dei Ministri; il suo parere sarebbe necessario negli affari di maggior importanza; gli si affiderebbero funzioni di investigazione politica e di direzione degli altri Consigli o alti organismi; costituirebbe la rappresentanza individuale o collettiva ed in situazioni eccezionali dovrebbe anche governare. I suoi membri sarebbero considerati come un'estensione del sovrano stesso e come riserva nazionale nei momenti di suprema difficoltà. E' questo il motivo della cura nella selezione dei membri e l'alta considerazione che il Consiglio Reale presupporrebbe.

Il Consiglio dei Ministri

La politica e l'amministrazione generale sarebbero rette dalla Corona con l'aiuto del Consiglio dei Ministri, composto, in linee generali, da: a) il Presidente; b) il Ministro dello Stato, per le relazioni estere e gli affari ecclesiastici; c) Interni; d) Finanze; e) Bilancio; f) Opere Pubbliche; g) Agricoltura; h) Industria; i) Commercio; j) Comunicazioni, includendovi l'aviazione civile.

Il Consiglio dei Ministri svolgerebbe frequenti riunioni sotto la presidenza del monarca o di un membro del Consiglio Reale. Ogni ministro sarebbe responsabile davanti al re per i problemi a suo carico, accordando tuttavia le sue politiche nel rispetto delle direttrici segnate dalle Cortes nei limiti costituiti dalla Legge costitutiva di queste. Tuttavia i ministri non dovrebbero essere giudicati dalle Cortes che per detti casi obbligatori, relazionati per iscritto o personalmente a fini informativi, ma senza cadere nello sfiancante sistema parlamentare.

L'incarico di ministro sarebbe incompatibile con quello di deputato alle Cortes, dato che la funzione di governare é in fondo incompatibile con la rappresentanza popolare. Un ministro non potrebbe essere eletto deputato se non dopo un ampio periodo trascorso dalla cessazione dall'impegno in cariche di governo.

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Lasciando il portafoglio - come per tutti gli altri funzionari pubblici -, ogni ministro verrebbe sottoposto a una "inchiesta di permanenza" davanti ad un tribunale dedicato ai ministri e costituito da un membro del Consiglio Reale e quattro o più magistrati del Tribunale Supremo, scelti a sorte. Detto processo durerebbe sei mesi, e in quel periodo egli non potrebbe allontanarsi dal paese né disporre dei suoi beni in modo da eludere il possibile risarcimento di danni e nocumenti causati nel tempo del suo incarico ufficiale.

Le Cortes generali

Le Cortes generali - composte da rappresentanti dei diversi corpi integranti la società, raggruppati per categorie economiche o politiche -, avrebbero parere consultivo e voto con effetto obbligatorio nelle questioni generali di carattere politico ed amministrativo, nei termini fissati dalla legge. Il criterio generale sarebbe quello della rappresentanza in esse di tutti gli spagnoli: una rappresentanza vera, ossia con riferimento all'effettivo peso nella vita collettiva; suffragio per tutti ma non con lo stesso valore per ciascuno, perché nelle Cortes gli uomini non si "contano", ma si "pesano".

Le elezioni sarebbero libere, regolate da una legge speciale, con garanzie non politiche ma giudiziali: non di competenza delle Cortes - forza politica troppo coinvolta per essere imparziale -, ma dei Tribunali di Giustizia. Organismi particolarmente adatti ad essere rappresentati nelle Cortes sarebbero le Confraternite agrarie, i Gruppi industriali, le Camere di commercio o di navigazione, le Comunità di pescatori e le Confraternite corporative delle varie classi, purché tali organismi nascano autarchicamente e senza il minimo intervento statale. La proporzione numerica di deputati che spetterebbe a ciascuno di tali organismi sarebbe fissata non in riferimento alla quantità di popolazione, ma sulla base del loro peso economico o sociale nella vita del paese.

La legge delle Cortes determinerebbe le questioni su cui queste devono esprimere parere e quelle per le quali la loro opinione sarebbe obbligante per il Consiglio dei Ministri. In ogni caso non potrebbero discutere nessuna legge né affare sino all'approvazione del bilancio annuale, la cui presentazione dovrebbe essere depositata dal ministro competente nella Giunta (3) delle Cortes, al più tardi il 15 di ottobre di ogni anno.

I deputati potrebbero ricevere delega a decidere dai loro rappresentati nelle materie che sarebbero stabilite ogni anno dal proclama reale occasionato dalla data di convocazione della prima riunione, e a questa delega si applicherebbe una "inchiesta di permanenza"; nelle altre, ovvero in quelle che si presentassero incidentalmente nel corso delle varie sessioni, opererebbero secondo le loro effettive competenze e conoscenze, cercando tuttavia di vegliare sempre sugli interessi dell'organismo che li manda alle Cortes.

I deputati diverrebbero tali solo quando l'atto delle loro elezione fosse stato convalidato dal Tribunale Penale corrispondente al vertice dell'organismo o entità da essi rappresentata; le Cortes si costituirebbero quando i due terzi dei certificati degli atti di convalida fossero stati depositati nella Deputazione Permanente. La Giunta definitiva sarebbe eletta dalle stesse Cortes scegliendo tra i suoi membri.

Le Cortes durerebbero cinque anni, svolgendo i propri lavori convocate dalla Corona. Si riunirebbero periodicamente a partire da ogni 15 ottobre per costituire la Giunta e discutere i bilanci, non essendo loro permesso di affrontare altre questioni sino alla definitiva approvazione dei medesimi.

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Nel periodo di non riunione delle Cortes, sarebbe in funzione una Deputazione Permanente, con facoltà stabilite dalla legge, la cui missione sarebbe quelle di rappresentarle in quei tempi di chiusura.

Le spese dei deputati, i loro salari e trasferte, sarebbero stabiliti in piena libertà dagli organismi che rappresentano, essendo i primi obbligati a rendere sempre conto degli importi ricevuti a tale scopo.

Il Consiglio di Giustizia

Le funzioni regali nell'amministrazione della giustizia sarebbero indipendenti dalle funzioni di governo, non per il classico prurito di Montesquieu - violato apertamente nelle costituzioni liberali nel momento stesso in cui ammettono un Ministero di Giustizia -, ma per circondare la giustizia con le maggiori garanzie di imparzialità.

Come é logico, la scala giudiziaria sarebbe costituita da una serie gerarchica di giudici e tribunali, guidati dal Tribunale Supremo; ma per l'ordinamento giudiziario accanto al re esisterebbe un Consiglio di Giustizia, alle sue dirette dipendenze, presieduto dal Presidente del Tribunale Supremo ed integrato da cinque ministri, incaricati rispettivamente dell'ordinamento dei tribunali, del registro dei beni, della fede pubblica o notarile nei suoi diversi gradi, dell'organizzazione delle prigioni e dei tribunali a carattere eccezionale o speciale (laborales, ecc.). Tale Consiglio opererebbe periodicamente e frequentemente sotto la presidenza del sovrano stesso o di un membro del Consiglio Reale. Dovrebbe rendere annualmente conto degli scostamenti dal suo bilancio, concessogli dalle Cortes gli concederanno e compreso in quello generale dello Stato dal ministro del Bilancio; ma in tutto il resto godrebbe di piena e totale indipendenza.

Al Consiglio di Giustizia o agli organismi ad esso subordinati, oltre alla stretta funzione di amministrare la giustizia, di legalizzare o punire, toccherebbero alcuni compiti politici, come la convalida degli atti dei deputati alle Cortes, i ricorsi per danni secondo il Fuero, i giudizi sulle "inchieste di permanenza" dei ministri ed altri analoghi. Ma é chiaro che in ogni caso il suo legame con gli altri organismi pubblici sarebbe radicato nella Corona attraverso il monarca od il Consiglio Reale, mantenendo sempre il carattere autonomo delle proprie istituzioni e la speciale peculiarità dei suoi incarichi.

Il Consiglio di Guerra

Nello stesso modo resterebbero separate dalle funzioni di governo politico le materie di carattere militare, regolate direttamente dal re per mezzo del suo Consiglio di Guerra, integrato dai comandanti delle truppe di terra, mare ed aria. Il Consiglio funzionerebbe in modo analogo a quello di Giustizia, riunendosi anch'esso periodicamente e frequentemente sotto la presidenza del sovrano o di qualche membro del Consiglio Reale.

I bilanci delle forze armate sarebbero inclusi in quelli generali dello Stato dal Ministro del Bilancio, e dell'uso dei fondi ricevuti si dovrebbe rendere conto alle Cortes; ma in tutto il resto il Consiglio di Guerra opererebbe in modo indipendente, senza ulteriori relazioni con gli altri organismi pubblici di quelle analogamente mantenute dal Consiglio di Giustizia.

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Il Consiglio Sociale

Esisterebbe qualcosa di simile a quel che oggi si denomina previdenza sociale, ramo così importante della vita moderna. Nei ministeri che oggi si chiamano del Lavoro, degli Affari Sociali o di Previdenza, si é soliti confondere due funzioni perfettamente distinguibili, con pregiudizio per i diritti che spettano agli individui: la funzione amministrativa della sicurezza o assicurazione sociale e la funzione giurisdizionale delle contese sindacali. Passando la seconda al Consiglio di Giustizia, la prima sarebbe svolta dal Consiglio Sociale, propulsore della politica di protezione ai più deboli economicamente e al quale dovrebbero, pertanto, essere incorporati anche la direzione e l'ispettorato delle istituzioni di beneficenza, quali che siano. Anche questo Consiglio dipenderebbe direttamente dalla Corona, con dignità identica a quelli di Giustizia o Guerra, e si riunirebbe con le loro stesse regole.

Gli organismi con finalità simili esistenti in ogni regione o regno, sarebbero autonomi secondo le loro leggi costitutive; ma toccherebbe sempre al Consiglio Sociale il formulare i programmi generali di miglioramento dei livelli di vita, di protezione dei lavoratori, di assicurazione sociale e delle altre manifestazioni di una politica che porti al raggiungimento della fratellanza cristiana.

Il Consiglio della Cultura e la Giunta della Cultura

L'ultima e più delicata funzione di tutte quelle che competono alla Corona, sarebbe quella di orientare la vita intellettuale dell'insieme dei popoli spagnoli e di ognuno, punto in cui sarebbe necessario coordinare l'unità degli interessi generali con l'indispensabile e liberissima autonomia dell'aratura necessaria alla semina del sapere o della creazione artistica.

Un principio basilare a questo scopo sarebbe che il diritto ad insegnare spettasse a tutti coloro che possono farlo con competenza e rettitudine morale - senza rompere l'unità spirituale dei nostri popoli -, nelle condizioni richieste dalla legge. La fondazione di università o di centri di studio di ogni grado, sarebbe un libero diritto riconosciuto a tutti sotto la logica ispezione statale.

Lo Stato concederebbe una graduale autonomia culturale, amministrativa ed economica alle università; incorporerebbe ad esse le istituzioni di insegnamento medio, le scuole elementari e quelle di specializzazione; permetterebbe di formulare dei propri programmi di insegnamento; incanalerebbe in esse gli enti di ricerca di ogni genere, e ridurrebbe la stessa azione statale a semplice opera di controllo e approvazione.

Allo scopo di svolgere questo compito di controllo e approvazione esisterebbe un Ispettorato Centrale, dipendente dal Consiglio di Cultura. Il Consiglio dovrebbe essere composto da sei membri, incaricati della Presidenza, dell'insegnamento primario, dell'insegnamento superiore, della stampa, dei musei e delle biblioteche. Come i precedenti, si riunirebbe sotto la presidenza del sovrano o di un membro del Consiglio Reale. Essendo superiore agli analoghi organismi creati dai regni o dalle regioni, avrebbe come compito l'orientare, il coordinare e il controllare le attività degli studi, ricerca e insegnamento, assicurare l'autonomia universitaria e risolvere le contese amministrative. Per il suo bilancio si seguirebbe quanto detto per i Consigli di Giustizia, della Guerra e Sociale.

Detto Consiglio sarebbe responsabile davanti al re, ma nei limiti fissati dalla legge dovrebbe adattarsi alle decisioni di una Giunta di Cultura, composta da un centinaio di membri liberamente eletti da accademie, università, istituti di ricerca e centri culturali analoghi. Questa Giunta dovrebbe

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riunirsi almeno due volte all'anno per periodi non inferiori a quindici giorni, e sarebbe l'organo rappresentativo della vita intellettuale dei popoli spagnoli, la via per la quale gli uomini di studio verrebbero incorporati ai compiti generali senza cadere nel veleno di confondere la politica culturale con la politica generale quotidiana.

Annotazione finale

Nelle linee generali più sopra riassunte si colgono le caratteristiche della monarchia tradizionale: essa distingue le funzioni politiche e di amministrazione generale da quelle che richiedono un orientamento speciale per motivi di difesa delle libertà concrete (giustizia), del territorio (forze armate), della necessità di azione continua ad ampio respiro (previdenza sociale) o della non confusione dell'uomo di cultura col salariato dell'istruzione (cultura); provvede a separare la rappresentanza popolare dall'atto di governare, anche se la voce di quella pesa in modo decisivo su questo; cerca di estirpare la politica come fine a se stessa, senza assoggettarla alla tecnica, ma anche senza farla dominare su di essa; guarda alla difesa dei postulati fondamentali della fede e della lealtà verso la Corona, senza pregiudizio per le feconde libertà forali.

Uno studio sereno di quel che furono i vecchi ordinamenti liberi dei nostri popoli e di quel che probabilmente sarebbero diventati senza l'intervento delle deviazioni europeizzanti, mi fa pensare che questo sarebbe stato il quadro odierno, a grandi linee, della monarchia tradizionale.

NOTE

1) Vicente Marrero Suàrez: El poder entrañable, Madrid, Esplandiàn, 1952.

2) Questa funzione, come quella sviluppata nel successivo paragrafo sul Consiglio di Cultura, mi pare opinabile. Mi sono chiesto se De Tejada volesse esprimere le relazioni complementari storicamente tenute dall'Inquisizione e dallo Stato (N.d.T.).

3) Traduzione di "Mesa" (N.d.T.).

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