De Crescienzo azione di responsabilita e reato 2008 03 13 · Di qui discende che il curatore del...

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1 6) LA AZIONE DI RESPONSABILITA’ E IL REATO; RAPPORTI FRA PROCEDIMENTO PENALE E AZIONE DI RESPONSABILITA’ 1 . In linea generale si deve osservare che, nelle vicende economico – gestionali di società che vengono dichiarate fallite, è frequente che esercitata la azione penale nei confronti dei componenti degli organi sociali in quanto gli interessi sostanziali propri della società e del ceto creditorio hanno un elevato standard di tutela che è rappresentato non solo dal complesso delle azioni civili risarcitorie, ma anche dal fatto che parte di quelle condotte sono considerate penalmente rilevanti. Di qui discende che il curatore del fallimento, proprio per una migliore tutela degli interessi economici del ceto creditorio, pertanto può scegliere tra l’esercizio delle azioni civili che abbiano fino ad ora considerato, o spostare la tutela nell’ambito del procedimento penale, svolgendo le richieste risarcitorie in quella sede. Tralasciando la questione se la azione risarcitoria dei danni da illecito penale esercitata attraverso la costituzione di parte civile si possa identificare nella corrispondente azione civile per responsabilità extracontrattuale tipizzata dal legislatore come subspecies dell’azione generale di cui all’art. 2043 c.c. 2 , va detto che, a monte della responsabilità penale, vi è sempre e comunque una condotta che ha rilevanza sul piano dell’illiceità di tipo civile talune condotte rimangono indifferenti sotto il profilo penale fin tanto in quanto non vi sia stata una dichiarazione giudiziale 1 ] Il testo, con alcune modificazioni è tratto dalla relazione tenuta dall’Autore, a Roma, all’incontro di studi presso il Consiglio della Magistratura in data ed avente come titolo “la azione di responsabilità e il reato rapporti fra procedimento penale e azione di responsabilità 2 ] Trib. Lecce 23.3.1995 in CED Cass. Rm 667008 Il giudice delegato al fallimento di una societa', nell'autorizzare il curatore a costituirsi parte civile, nel procedimento penale a carico degl iamministratori della societa' per reati fallimentari, e quindi a chiedere a carico degli stessi il sequestro conservativo dei beni, non e' tenuto a previamente sentire il parere del comitato dei creditori. Detto parere e' prescritto per l'esercizio dell'azione civile di responsabilita' prevista agli artt. 2393 e 2394 cod. civ., che pero' ha contenuto ed ambito diversodall'azione risarcitoria che si esercita attraverso la costituzione di parte civile. (Affermando il principio che precede, il tribunale ha tra l'altro osservato che, mentre l'esercizio dell'azione di responsabilita' prevista dal codice civile nei confronti degli amministratori da parte del curatore preclude l'esercizio di analoga azione da parte dei singoli creditori, altrettanto non avviene nella sede penale, dove la costituzione di parte civile del curatore fallimentare non impedisce la costituzione di altri soggetti danneggiati dal reato).

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6) LA AZIONE DI RESPONSABILITA’ E IL REATO; RAPPORTI FRA

PROCEDIMENTO PENALE E AZIONE DI RESPONSABILITA’1.

In linea generale si deve osservare che, nelle vicende economico – gestionali

di società che vengono dichiarate fallite, è frequente che esercitata la azione penale

nei confronti dei componenti degli organi sociali in quanto gli interessi sostanziali

propri della società e del ceto creditorio hanno un elevato standard di tutela che è

rappresentato non solo dal complesso delle azioni civili risarcitorie, ma anche dal

fatto che parte di quelle condotte sono considerate penalmente rilevanti.

Di qui discende che il curatore del fallimento, proprio per una migliore tutela degli

interessi economici del ceto creditorio, pertanto può scegliere tra l’esercizio delle

azioni civili che abbiano fino ad ora considerato, o spostare la tutela nell’ambito del

procedimento penale, svolgendo le richieste risarcitorie in quella sede.

Tralasciando la questione se la azione risarcitoria dei danni da illecito penale

esercitata attraverso la costituzione di parte civile si possa identificare nella

corrispondente azione civile per responsabilità extracontrattuale tipizzata dal

legislatore come subspecies dell’azione generale di cui all’art. 2043 c.c. 2, va detto

che, a monte della responsabilità penale, vi è sempre e comunque una condotta che ha

rilevanza sul piano dell’illiceità di tipo civile talune condotte rimangono indifferenti

sotto il profilo penale fin tanto in quanto non vi sia stata una dichiarazione giudiziale

1 ] Il testo, con alcune modificazioni è tratto dalla relazione tenuta dall’Autore, a Roma, all’incontro di studi presso il Consiglio della Magistratura in data ed avente come titolo “la azione di responsabilità e il reato rapporti fra procedimento penale e azione di responsabilità 2 ] Trib. Lecce 23.3.1995 in CED Cass. Rm 667008 Il giudice delegato al fallimento di una societa', nell'autorizzare il curatore a costituirsi parte civile, nel procedimento penale a carico degl iamministratori della societa' per reati fallimentari, e quindi a chiedere a carico degli stessi il sequestro conservativo dei beni, non e' tenuto a previamente sentire il parere del comitato dei creditori. Detto parere e' prescritto per l'esercizio dell'azione civile di responsabilita' prevista agli artt. 2393 e 2394 cod. civ., che pero' ha contenuto ed ambito diversodall'azione risarcitoria che si esercita attraverso la costituzione di parte civile. (Affermando il principio che precede, il tribunale ha tra l'altro osservato che, mentre l'esercizio dell'azione di responsabilita' prevista dal codice civile nei confronti degli amministratori da parte del curatore preclude l'esercizio di analoga azione da parte dei singoli creditori, altrettanto non avviene nella sede penale, dove la costituzione di parte civile del curatore fallimentare non impedisce la costituzione di altri soggetti danneggiati dal reato).

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di insolvenza che si pone, nell’ambito della fattispecie dei reati fallimentari quale

elemento costitutivo della fattispecie (se non addirittura, come nella ipotesi di cui

all’art. 223 cpv. n. 2 Lf, come evento vero e proprio della condotta criminosa) 3.

Questo fatto giuridico comporta che, indipendentemente dalla questione

dell’eventuale diversa incidenza dei termini di prescrizione dell’illecito penale

rispetto al diritto sostanziale civile (v. sub cap. 4) ex art. 2947 c.c., che la

dichiarazione di fallimento, proprio in quanto elemento costitutivo della fattispecie

(che si perfeziona per effetto della pronuncia della sentenza), finisce con lo spostare

nello spazio il luogo di commissione dell’illecito (competenza del luogo ove è stato

dichiarato il fallimento) e nel tempo (il reato si consuma nel momento in cui viene

depositata la sentenza dichiarativa di fallimento) l’inizio della decorrenza della

prescrizione. Per es. l’atto dissipativo del patrimonio sociale, integrante sicura ipotesi

di violazione del dovere di diligenza, commesso tempo prima rispetto al momento

della pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, sotto il profilo penale

assume rilevanza nel momento della dichiarazione di fallimento della società, nella

misura in cui quell’atto integri, nell’esempio riportato, la violazione dell’art. 216 Lf.

Sotto questo punto di vista, principaliter incide la applicazione assolutamente

meccanicistica, che si ritrae dalla legge, per la quale, nell’ambito di condotte di

bancarotta, rileva l’atto in sé e per sé assunto, e non già (con talune eccezioni che

verranno esaminate più avanti) il rapporto causale tra questo e il dissesto o il

fallimento della società. Questa caratteristica dei reati di bancarotta, per la quale il

fatto di gestione assunto come illecito penale indipendentemente dal suo rapporto

3 Per la affermazione che la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo della fattispecie, fra le altre v.: Cass., 8,11.1983 in Riv. pen., 1984, 550 (m); Cass., 26.4.1985 in Riv. pen., 1986, 473 (m); Cass., 21.2.1986 in Riv. pen., 1987, 281; Cass., 16.12.1986 in Riv. pen., 1987, 1131 (m); Corte cost. [ord.], 30.12.1987, n. 636 in Foro it., 1988, I, 1743 (m); Cass., 15.12.1988 in Giust. pen., 1989, II, 563 (m); Cass. pen., 1991, I, 828, n. CARRERI; Cass. 2.7.1991 in Mass. Cass. pen., 1991, fasc. 8, 65 (m); Cass., 19.10.1992 in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 3, 51 (m); Cass. 7.7.1992 in Mass. Cass. pen., 1992, fasc. 12, 120 (m); Cass. 4.5.1993 in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 11, 82 (m); Cass. 27.10.1994 in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 3, 96 (m); Cass. 4.5.1993 in Riv. pen. economia, 1995, 97; Cass. 9.12.1999 in Giust. pen., 2000, II, 638;

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causale con il fallimento o il dissesto della società è attualmente in fase di revisione

nell’ambito della riforma in atto della legge fallimentare.

Una anticipazione di questa in atto, è rappresentato dall’intervento operato dal

legislatore sul capoverso n. 1) dell’art. 223 della Legge fallimentare con il legge

63/2002 4 che ha modificato la struttura di vari illeciti penali societari.

La intervenuta modificazione operata sulla norma fallimentare pone ovviamente una

ampia gamma di problemi connessi anche alla valutazione dello interesse alla

costituzione di parte civile nel corrispondente procedimento penale. Infatti, non solo

occorre che il responsabile della gestione della società fallita abbia compiuto una

delle condotte descritte dalle norme richiamate dall’art. 223 cpv. n. Lf , ma occorre

altresì, perché ricorra quest’ultima fattispecie, che la azione sia casualmente connessa

eziologicamente con il dissesto della società, nel senso che la condotta illecita deve

essere essa stessa causa del dissesto 5.

Pertanto, al momento, mentre i fatti descritti agli artt. 216 e 217 Lf costituiscono

altrettante fattispecie di bancarotta per le quali è sufficiente che sussista la sola prova

del fatto integrativo della fattispecie, per quanto attiene ai c.d. fatti di quasi –

bancarotta di cui al n. 1 del cpv. dell’art. 223 Lf, è necessario verificare che il fatto

illecito sia stato causa o concausa del dissesto. Nel caso di mancanza di siffatta prova

il fatto illecito potrà integrare eventuale reato societario, ma non certo quello di cui al

citato cpv. n. 1 dell’art. 223 Lf.

4 ] nella relazione che accompagna alla riforma si legge: “La richiesta del delegante di stabilire un collegamento causale tra i reati societari richiamati nella fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria e il dissesto della società, ha obbligato a riconsiderare la congruità della precedente soluzione operata dal legislatore del ’42. Sono stati previsti come ipotesi base i reati societari dolosi che, seppur con diversa oggettività giuridica, sono armonicamente riconducibili nella tipicità della bancarotta fraudolenta, in ragione di una parziale omogeneità della offesa. E’ sembrato cioè indispensabile considerare, nella più grave prospettiva fallimentare, gli illeciti penali nei quali la strumentalizzazione dei meccanismi societari sia rivolta contro le ragioni creditorie, per converso escludendo quei reati – già previsti nel c.c. del ’42 – che, non presentando alcuna affinità offensiva con l’art. 223 Lf, non meritano considerazione al fine di una tanto più severa pretesa punitiva”. 5 ] si disquisisce poi se l’art. 223 Lf, nel concetto di “cagionare dissesto” ricomprenda anche la condotta dell’ “aggravamento del dissesto”. Una interpretazione letterale, modulata sulla lettura dell’art. 224 LF, ove si richiamano entrambe le azioni (del cagionare e dell’aggravare il dissesto), porta ad escludere dall’ambito della fattispecie penale dell’art. 223 Lf la rilevanza della condotta del solo aggravamento del dissesto.

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§ 1. La legittimazione del curatore del fallimento all’esercizio delle azioni

risarcitorie

La trama normativa che dobbiamo prendere in considerazione è costituita da

tre disposizioni : art. 185 Cp, art. 74 cpp, art. 240 Lf.

L’incipit della nostra indagine è rappresentato dall’art. 185 Cp 6; sulla base di questa

prima disposizione si deve affermare, in via generale, che, a fronte della commissione

di un reato, la parte offesa vanta due distinti diritti alternativi e/o concorrenti:

a) diritto ad ottenere la restituzione;

b) il diritto ad risarcimento dei danni patrimoniali o dei danni non patrimoniali.

La disposizione, che è un richiamo, in sede penale, del canone dell’art. 2043 c.c.

riconosce quindi, che il fatto illecito, penale, è fonte di obbligazioni civili risarcibili.

Constatazione ovvia, quindi, è che ogni fatto di reato, se ha cagionato un danno, è

fonte di obbligazione restitutoria o risarcitoria.

A questa regola, ovviamente non sfuggono i reati c.d. fallimentari, cioè il complesso

delle norme previste dagli artt. 216 e ss. Lf.

Si tratta di volta in volta, ovviamente, di verificare quale sia stato il danno

ricollegabile alla azione delittuosa e procedere alla sua quantificazione, secondo una

regola che, pur nella sua non rara complessità fattuale, trova il suo inquadramento in

una metodica giuridica e giudiziaria del tutto usuale.

La circoscrizione del danno da reato, dovrebbe, ovviamente permettere la immediata

individuazione del fatto generatore del danno, nonché del soggetto leso, cioè di colui

che ha la legittimazione a chiedere il ristoro risarcitorio o restitutorio.

La identificazione del soggetto titolare del diritto leso, è essenziale in quanto solo e

soltanto questi ha la legittimazione processuale per avanzare la domanda civile di

6] “Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili. Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui

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risarcimento e, conseguentemente la possibilità di formulare la detta domanda in sede

processuale penale attraverso la costituzione di parte civile.

A questo punto soccorre la applicazione della seconda delle disposizioni richiamate

all’inizio di questo capitolo: l’art. 74 del codice di procedura penale 7

La norma costituisce il pendant dell’art. 100 del codice di procedura civile e indica la

regola in forza della quale l’azione civile si ricollega esclusivamente al soggetto

danneggiato il quale è l’unico che può esercitare, nell’ambito del processo penale, le

azioni civili scaturenti dall’applicazione dell’art. 185 Cp.[8].

Sulla base di questi primi due pilastri normativi si deve pertanto vedere se il reato di

bancarotta, cagioni un danno e in caso affermativo, chi sia il soggetto legittimato allo

esercizio della tutela dell’interesse leso.

Ritengo inutile riportare in questa sede le varie teorie e le relative argomentazioni di

sostegno che si sono dibattute nel passato e in epoche particolarmente risalenti nel

tempo, volte a disquisire se il fatto di bancarotta sia causativo di un danno risarcibile

[9], in quanto il dettato della disposizione dell’art. 240 Lf, ha spazzato via ogni

possibile dubbio sull’argomento 10

Attraverso la norma da ultimo indicata il legislatore ha affermato i seguenti principi:

7] L’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 Cp può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero ai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”. 8 ] Cass., sez. VI, 20.10.1997 in Ced Cass., rv. 208820 .”Il danneggiato, cui ai sensi degli art. 185 c.p. e 74 c.p.p. spetta il risarcimento e che si può, ma non si deve necessariamente, identificare col soggetto passivo del reato in senso stretto, è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del soggetto attivo del reato”. 9 ] Sul tema si rimanda alla lettura di Conti, I reati fallimentari, Utet, Torino, 1991, pp. 476 e ss.; Bricola – Zagrebelsky I reati nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Utet, Torino, 1990, p. 616 e ss.; Antolisei, Manuale di diritto penale leggi complementari, Vol. II^, Giuffrè, Milano, 1995, 260 e ss. Nel passato parte della dottrina aveva sostenuto che, al di fuori del fallimento, non si potesse dare luogo a nessun danno risarcibile: “…a codesta conclusione per lo più si perveniva mediante la constatazione che i singoli fatti di bancarotta non costituivano reato e non potevano produrre un danno diverso a quello già provocato dal fallimento” 10 ] Art. 240 Lf “Il curatore, il commissario giudiziale e il commissario liquidatore possono costituirsi parte civile nel procedimento penale per i reati preveduti nel presente titolo, anche contro il fallito. I creditori possono costituirsi parte civile nel procedimento penale per bancarotta fraudolenta quando manca la costituzione del curatore, del commissario giudiziale o del commissario liquidatore o quando intendono fare valere un titolo di azione propria personale In forza dell’art. 212 disp. Att. Cpp, la norma in esame è tutt’ora vigente

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- in primo luogo, il danno risarcibile non proviene dal fallimento come tale,

posto che non costituisce certo un illecito penale, ma, al contrario, dai singoli

fatti che integrano i reati concorsuali e che possono (non necessariamente)

accompagnare il fallimento.[11]

- In secondo luogo questa stessa disposizione consente di affermare come sia

possibile la costituzione di parte civile nel procedimento penale a carico del

soggetto fallito in proprio, imputato di reati di bancarotta. [12]

- In terzo luogo la disposizione ha regolato in via generale il potere della azione

civile nel processo penale nel quale vengano perseguiti i reati fallimentari,

riposizionando la titolarità gli interessi in capo a colui che ha il precipuo

dovere giuridico di tutelare la “massa” dei creditori stabilendo:

o a) una titolarità esclusiva del curatore all’esercizio della azione

risarcitoria;

o b) una titolarità sussidiaria dei creditori per il solo caso di reato di

bancarotta fraudolenta, in assenza della costituzione di parte civile del

curatore;

o c) una titolarità concorrente (organo della procedura – creditore), con

cause petendi differenti, qualora il creditore intenda far valere una

azione propria personale.

11 ] Con questa disposizione si è anche superata tutta la polemica dottrinaria con la quale si sollevava il dubbio che il reato fallimentare potesse generare un danno risarcibile. Infatti per molto tempo si è pensato che l’effetto del reato fallimentare si risolvesse nella “insolvenza”, sì che la aggressione del patrimonio del soggetto fallito era, di per sé stesso ristoratore del danno da bancarotta. 12] Con l’articolo 240 Lf, si è superata l’ argomentazione con la quale si era sostenuta la inutilità giuridica di costituirsi parte civile nei confronti di chi aveva già tutto il patrimonio personale pignorato per effetto della dichiarazione di fallimento, La opinione citata, tra l’altro, appariva da un lato vincente sul piano pratica, ma su quello giuridico appariva del tutto errata nella misura in cui confondeva l’aspetto di diritto sostanziale (quale espressione del diritto al risarcimento), con la convenienza o la utilità ad esercitare il detto diritto che è un posterius rispetto alla affermazione del diritto..

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Va subito detto che, qualora non ci fosse l’articolo 240 Lf, il curatore del fallimento

non avrebbe alcun titolo per esercitare la azione civile per i danni susseguenti al fatto

di bancarotta per due diversi ordini di ragioni concomitanti:

1) è intuitivo che i soggetti passivi e danneggiati del reato di bancarotta sono i

singoli creditori e non certo il curatore che rappresenta un procedura

concorsuale che di per sé non è un reato, ma è soltanto un procedimento di

tipo esecutivo;

2) la obbligazione risarcitoria ex delicto non si identifica con quella concorsuale,

ma, ancorchè collegata alla prima, è successiva a quest’ultima ed è

postfallimentare o extraconcorsuale. Conseguentemente il curatore del

fallimento non avrebbe, neppure per questo verso, titolo ad esercitare la

azione di danni ex art. 185 cp, posto che il principio generale, in materia

concorsuale consiste nel fatto che trovano tutela i crediti antecedenti alla

pronuncia della dichiarazione di insolvenza, mentre il danno di bancarotta si

identitifica con la sentenza stessa di fallimento, tanto che se non ci fosse

quest’ultima, non ci sarebbe neppure il reato [13].

L’articolo 240 Lf, dispiega quindi la sua funzione indispensabile di legittimazione del

curatore allo esercizio della azione civile ex art. 185 Cp, sia nel caso in cui il reato sia

stato commesso dal fallito, quanto nel caso in cui il reato sia stato commesso da un

soggetto diverso dal fallito (amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale di

una società che sia stata dichiarata fallita). Si rinviene in dottrina 14, per quanto attiene

a quest’ultima ipotesi, l’affermazione per la quale sarebbe ovvia (a differenza del

caso del più controverso problema scaturente dalla ipotesi di dichiarazione di

fallimento in proprio) la possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale per i

13 ] Si tenga conto che è ius receptum sul quale non si pone più discussione alcuna, che il fallimento è elemento costitutivo della fattispecie di bancarotta e non già evento di questo o condizione obbiettiva di punibilità. 14 ] v. autori già citati sub nota 9

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c.d. fatti illeciti penali di bancarotta commessi da soggetti diversi dal fallito. La

constatazione di ovvietà (se da un lato si spiega per la sua obbiettiva differenza,

rispetto alla ipotesi di costituzione nel procedimento penale promosso nei confronti

di chi sia stato dichiarato fallito in proprio) non dà però conto del perché il curatore

dovrebbe avere la legittimazione ad agire e, per fortuna, la disposizione in esame, in

questo caso dispiega i suoi effetti nella regolamentazione della titolarità della azione

civile.

Sotto questo punto di vista vale la pena spendere ancora alcune considerazioni che

servono a chiarire meglio la situazione e a far comprendere la efficacia dell’art. 240

Lf con la sua precipua funzione di evitare il formarsi di possibili situazioni

conflittuali tra curatore della procedura concorsuale e creditori della stessa. Tra l’altro

le considerazioni che seguono permettono di comprendere meglio i limiti di operativa

della disposizione, soprattutto nei casi di cui al terzo comma (disciplina della ipotesi

di azioni civili concorrenti del curatore fallimentare e del creditore particolare). In

base al complesso delle disposizioni della legge fallimentare, l’organo esecutivo della

procedura, si ritrova, al momento della apertura del fallimento , in primis, ad essere

titolare di azioni processuali, proprie della procedura stessa, che sorgono in quanto

esiste la procedura concorsuale; classico esempio che si può portare per questa

tipologia di azioni e quella revocatoria di cui agli artt. 64, 66, 67 Lf. Contestualmente

alla dichiarazione di insolvenza e alla apertura di una procedura concorsuale, l’organo

della procedura subentra nella titolarità di azioni che già facevano parte del

patrimonio del soggetto fallito (c.d. azioni recuperatorie). Un esempio è dato dalle

possibilità che ha il curatore di promuovere azioni attraverso le quali riscuotere i

crediti già facenti parte del patrimonio del soggetto fallito. Fra le azioni recuperatorie

possono essere inserite quelle c.d. risarcitorie e fra queste ultime, per il caso di

fallimento di società di capitali, quella più in particolare definita come azione

risarcitoria sociale (già appartenente alla società) che trova la sua disciplina nell’art.

2392 c.c. La legge fallimentare prevede infine l’ipotesi del trasferimento, in capo alla

procedura concorsuale, di azioni già appartenenti a soggetti terzi: nel caso di specie,

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per esempio, si tratta della c.d. azione di danni dei creditori, esercitabile nei

confronti di amministratori, sindaci, liquidatori e direttori generali, disciplinata

dall’art. 2394 c.c. La regola del trasferimento in capo all’organo esecutivo della

procedura concorsuale, di queste due azioni in particolare (azione sociale di

responsabilità e azione dei creditori), in via cumulativa [le due azioni rispettivamente

previste dagli artt. 2392 e 2394 c.c.] è sancita dall’art. 146 Lf. Fatta questa breve

descrizione della situazione, appare evidente che, qualora l’amministratore abbia

commesso, per esempio, la distrazione di un bene sociale, con tale atto ha

sicuramente compiuto un illecito, punito dalla legge penale fallimentare, che dà

diritto, al soggetto leso di esercitare nel contempo sia l’azione sociale di danni (volta

ad ottenere la restituzione al patrimonio della società, del bene distratto) sia l’azione

di danni propria dei creditori, per il caso in cui, non restituito il bene, l’effetto

dannoso della sua mancanza si sia riverberato indistintamente nei confronti di tutto il

ceto creditorio che ha visto sottratto uno dei beni sui quali vantare la garanzia

dell’adempimento. Poiché la legge fallimentare ha trasferito al curatore della

procedura concorsuale le due suddette azioni processuali, si dovrebbe concludere: che

solo quest’ultimo potrebbe esercitarle in sede civile, e che (qualora non esistesse

l’articolo 240 Lf), non essendo l’organo della procedura, parte offesa del reato, si

potrebbe creare il problema del possibile contemporaneo concorso (per l’identico

fatto illecito), in sede penale, dell’azione civile promossa dal creditore, parte lesa del

fatto di bancarotta e del curatore del fallimento, a sua volta titolare della azione

risarcitoria per disposizione di legge, senza essere per altro “rappresentante” formale

o sostanziale dei creditori o del soggetto fallito, ma soggetto processualmente terzo,

rispetto agli uni e all’altro. Di qui appare quindi evidente la utilità dell’art. 240 Lf,

che, se visto come regolatore dei rapporti processuali propri di ciascun soggetto della

vicenda concorsuale, permette di risolvere i potenziali conflitti che possono insorgere

fra gli stessi, consentendo, tra l’altro di individuare un unico soggetto principale di

riferimento nella tutela dei diritti sostanziali derivanti dalla lesione da delitto.

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§3. Il danno nel reato di bancarotta.

Tralasciando per il momento il tema della legittimazione della azione, per tornarvi nel

paragrafo che segue, preme in questa sede esaminare più da vicino il problema della

individuazione del concetto di “danno” nei reati fallimentari.

La esatta individuazione del “danno” da reato fallimentare consente da un lato di

rinvenire dei criteri di quantificazione dello stesso e dall’altro, procedendo ad una sua

scomposizione ed analisi, di rinvenire il soggetto leso e la relativa titolarità

all’esercizio della azione risarcitoria.

I problemi sostanziali che si pongono sono i seguenti: 1) cosa è danno; 2) in base a

quali regole si valuta il danno. L’una e l’altra questione sono fra loro connesse ed

inscindibili

Sul piano normativo, la disposizione di riferimento è rappresentata dall’articolo 2056

c.c. che, in tema di “valutazione del danno” per responsabilità da fatto illecito,

richiama l’applicazione degli artt. 1223, 1226, e 1227 c.c. La prima delle norme

indicate permette di stabilire che è danno (sia come perdita subita che come mancato

guadagno) ciò che è conseguenza diretta ed immediata del fatto illecito. Il principio

indicato consente di affermare che fra il fatto illecito e il danno risarcibile deve

esserci un rapporto eziologico giuridicamente rilevante. Tralascio ovviamente, non

essendo questa la sede, ogni analisi di ordine generale sul concetto di nesso causale

fra illecito e danno [15] significando che quest’ultimo deriva non tanto, dal fatto

15 ] Cass., sez. III, 9.5.2000, n. 5913. In tema di risarcibilità dei danni conseguiti da fatto illecito (o da inadempimento, nell'ipotesi di responsabilità contrattuale) il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, sempre che, nel momento in cui si produce l'evento causante, le conseguenze dannose di esso non appaiono del tutto inverosimili (combinazione della teoria della condicio sine qua non con la teoria della «causalità adeguata») in Mass., 2000 Cd-Rom Foro it., 1987-2000 Cass., sez. III, 10.5.2000, n. 5962. Un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della

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illecito in sé e per sé considerato, ma dalla lesione dello interesse giuridicamente

protetto che a sua volta può essere causativo di danno [16].

Si tratta ora di vedere quali siano gli interessi giuridicamente protetti nei reati

fallimentari, posto che solo a fronte della lesione diretta ed immediata di questi ultimi

si può rinvenire un danno risarcibile e tutelabile dalla azione della procedura

concorsuale.

Esiste una vasta lettura giuridica sulla individuazione degli interessi giuridicamente

protetti dagli artt. 216 e ss Lf [17] e la giurisprudenza si è soffermata più volte sul

tema affermando che la bancarotta è un reato plurioffensivo che lede fra gli altri:

conditio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili (c.d. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno); più in particolare l'incidenza eziologica delle «cause antecedenti» va valutata, per un verso, nel quadro dei presupposti condizionanti (per cui deve trattarsi di «antecedente necessario» dell'evento dannoso, a questo legato da un rapporto di causazione normale e non straordinario) e, per altro verso, in coordinazione con il principio della «causalità efficiente», che contemperando la regola della «equivalenza causale», espunge appunto le cause antecedenti dalla serie causale (facendole scadere al rango di mere occasioni) in presenza di un fatto sopravvenuto «di per sé idoneo a determinare il determinarsi dell'evento anche senza quegli antecedenti». in Cd-Rom Foro it., 1987-2000 16 ] E’ fin troppo chiaro che di fronte ad un fatto illecito, penalmente rilevante, con conseguente lesione, o messa in pericolo dello interesse giuridicamente protetto, non sempre consegue un danno; a questo proposito basta porre mente al c.d. delitto tentato qualora si versi nella ipotesi in cui l’evento non si verifichi. 17 ] La dottrina partendo dal concetto che il delitto di bancarotta è reato contro il patrimonio (essendo del tutto minoritaria la tesi per la quale il delitto in esame è reato contro la amministrazione della giustizia – tesi peraltro fondata per il caso di reati commessi dal curatore o dai suoi collaboratori) afferma che oggetto della tutela penale è il diritto di garanzia che i creditori vantano sul patrimonio del fallito. Altra dottrina sostiene che l’oggetto della tutela si ravvisa nello interesse sociale al corretto andamento della vita economica e del traffico commerciale, in altre parole sarebbe posto a tutela della pubblica economia (Pagliaro, il delitto di bancarotta p. 32 e ss). Per una rassegna recente sull’argomento: GOLDONI D., Pluralità dei fatti di bancarotta e struttura dei reati fallimentari in Riv. trim. dir. pen. economia, 1999, 657; D'ORAZIO L., I reati fallimentari: bancarotta semplice e fraudolenta. In Giur. merito, 2000, 769; GIULIANI BALESTRINO U., La bancarotta e gli altri reati concorsuali, IV ed., Giuffrè, Milano, 1999; LA MONICA M., I reati fallimentari, II ed. aggiornata da MACCARI A. L., Ipsoa, Milano, 1999; SANDRELLI G. G., Il delitto di bancarotta in Impresa, 1999, 1320; SANTORIELLO C., I creditori sono persone offese nei procedimenti per reati di bancarotta fallimentare? In Dir. pen. e proc., 1999, 1292; CARRERI C., Nuova prospettazione di una vecchia questione sulla controversa struttura del reato di bancarotta (Nota a Cass., 26 giugno 1990, Bordoni) in Cass. pen., 1991, I, 850; BRICCHETTI R. e TARGETTI R., Bancarotta e reati societari, II ed., Giuffrè, Milano. Da ultimo giova segnalare come Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale vol II, sostenga che il delitto di bancarotta è plurioffensivo.

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l’interesse patrimoniale alla conservazione della garanzia facente capo ai singoli

creditori, i quali tutti, uti singuli sono da considerarsi soggetti passivi del reato.

Volendo quindi soffermare la attenzione sul punto, vi è da dire che il creditore, in

generale, oltre ad avere un interesse particolare, ricollegato al diritto di vedere

soddisfatta la propria pretesa creditoria, ha anche, nel suo rapporto con il debitore,

l’interesse al rispetto del canone dell’articolo 2740 c.c. Questo interesse è proprio del

singolo creditore, ma, nel contempo è di tutti i creditori indistintamente assunti nei

loro rispettivi rapporti con il debitore, in quanto, la lesione del principio affermato

dall’art. 2740 c.c., comporta, nella concorsualità della esecuzione fallimentare, la

contemporanea, proporzionale lesione degli interessi economici di tutti i creditori che

concorrono alla procedura [18]. Se è questo l’interesse che il legislatore ha inteso

tutelare con i c.d. reati di bancarotta, si tratta di vedere ora in quale modo, in concreto

possa manifestarsi tale lesione.

Questa, passando in rassegna i vari illeciti, può atteggiarsi: a) in manomissione del

patrimonio con sua conseguente diminuzione e conseguente minore possibilità di

soddisfazione, per pari importo, del ceto creditorio che eserciterà il concorso su un

complesso di beni di minore valore; b) aggravamento del dissesto con condotte che si

pongono in contrasto con il dovere della immediata declaratoria di insolvenza; anche

in questo caso, il protrarsi della vicenda economica nella fase prefallimentare,

18 ] In giurisprudenza, per tutte v. Cass., sez. V, 17.5.1996. Il delitto di bancarotta per distrazione è qualificato dalla violazione del vincolo legale che limita, ex art. 2740 c.c., la libertà di disposizione dei beni dell'imprenditore che li destina a fini diversi da quelli propri dell'azienda, sottraendoli ai creditori; l'elemento oggettivo è realizzato, quindi, tutte le volte in cui vi sia un ingiustificato distacco di beni o di attività, con il conseguente depauperamento patrimoniale che si risolve in un danno per la massa dei creditori; l'ablazione è attività astrattamente legittima e lecita se mira alla realizzazione delle finalità dell'impresa; la liceità, però, è un valore che va accertato in concreto; l'elemento di differenziazione tra attività lecita ed attività illecita va individuato nella natura gratuita o onerosa della cessione, di guisa che, nel primo caso, il distacco del bene e dell'attività, senza adeguata contropartita, si risolve in una finalità aziendale e viene conservata, con l'acquisizione della controprestazione, l'integrità del patrimonio sociale; il rapporto sinallagmatico deve ovviamente essere integrale, effettivo e non fittizio, perché diversamente, la bancarotta per distrazione si configura pienamente nelle ipotesi sia di apparente cessione del bene, occultato a proprio vantaggio dall'imprenditore, sia di apparente acquisizione del corrispettivo, rimasto nella propria o nell'altrui disponibilità e mai entrato nella cassa della società fallita, sia, infine, di acquisizione di un corrispettivo parziale. In Ced Cass., rv. 205921 (m);

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comportando un aggravio dello stato di dissesto, riverbera i suoi effetti sul ceto

creditorio che, aumentando il complesso dei diritti, a fronte di un patrimonio

invariato, vedrà meno tutelata, sul piano della possibile soddisfazione, la sua pretesa.

L’una e l’altra condotta ledendo l’interesse protetto della intangibilità della garanzia

dei creditori (prevista dall’art. 2740 c.c.), cagiona un danno patrimoniale al ceto

creditorio, nel suo complesso, diretto ed immediato commisurato: 1) nella ipotesi sub

a) al valore del bene distratto; 2) nella ipotesi sub b) dallo incremento del passivo.

Sull’onda di questi principi, si tratta quindi di passare, brevemente in rassegna i vari

reati fallimentari di bancarotta vedendo, caso per caso in quale delle possibili lesioni

si concretano, lasciando da parte, i c.d. reati formali [bancarotta documentale e falso

in bilancio ex art. 223 Lf, per i quali occorre fare ulteriori considerazioni a parte].

1) Danno da fatto di bancarotta fraudolenta distrattiva (art. 216 pp. n. 1):

trattasi di danno che viene cagionato per effetto della dispersione del

patrimonio del fallito. Si tratta di condotta che il più delle volte determina una

lesione del diritto previsto e tutelato dall’art. 2740 c.c. Questo tipo di danno

incide direttamente su tutto il ceto creditorio che vede diminuito

fraudolentemente tutto il patrimonio sul quale poter soddisfare le proprie

obbligazioni. Si tratta di un danno che si collega al debito concorsuale, ma

non lo identifica o lo può identificare in via tendenziale nella misura in cui il

volume dei beni sottratti raggiunga il valore della intero stato passivo. Tale

ipotesi, ovviamente, è del tutto teorica. In questo caso, il danno è

commisurato comunque al valore del bene distratto o, nel caso di mancanza

di giustificazione del passivo, dalla misura dell’ingiustificato. Sia nell’uno,

che nell’altro caso si tratta di illecito che promana i suoi effetti diretti ed

immediati su tutto il ceto creditorio indistintamente inteso, perché ognuno e

tutti i creditori vedono il loro credito percentualmente insoddisfatto entro

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l’ambito della minore somma distribuibile. [19] Per essere più precisi, si

dovrebbe dire che nel caso di distrazione di un bene, il curatore del fallimento

dovrebbe, in primis esercitare la azione sociale di restituzione per fare

rientrare il bene nel patrimonio della società e di qui, attraverso la

concorsualità metterlo a disposizione del ceto creditorio attraverso la sua

realizzazione. Qualora il bene non venga rinvenuto, il curatore del fallimento

non può che esercitare o la azione sociale di restituzione per equivalente del

valore del bene, o, in via alternativa la azione dei creditori lesi per effetto del

danno loro arrecato. La azione processuale che viene esercitata attraverso la

costituzione dell’organo concorsuale nel procedimento penale è una vera e

propria azione di responsabilità extracontrattuale riconducibile allo schema

della azione di cui all’art. 2394 c.c., anche se la condotta illecita, posta in

essere dall’amministratore integra anche la corrispondente violazione dei

diritti sociali tutelabili attraverso la diversa azione di cui all’art. 2392 c.c.,

2) Danno da fatto di bancarotta semplice: (art. 217 pp. N. 1), consumazione

del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente

19 ] In questo senso v.: Cass., 26.6.1990. Nel reato di bancarotta per distrazione l'evento in senso storico naturalistico va ravvisato nella diminuzione patrimoniale conseguente alla condotta distrattiva, di talché, non trattandosi di reato di mera condotta, esso è configurabile anche a titolo di dolo eventuale, come nell'ipotesi di finanziamenti (mutui) concessi dagli amministratori di una banca senza le necessarie garanzie, in violazione delle norme civili e bancarie che regolano i rapporti tra la banca ed i suoi amministratori e nell'interesse degli stessi amministratori e non della banca; in tal caso infatti gli amministratori agiscono accettando il rischio della perdita patrimoniale, intesa come effetto della loro condotta, e della conseguente lesione degli interessi dei creditori ex art. 2740 c.c. alla garanzia del patrimonio del debitore. In Cass. pen., 1991, I, 828, n. CARRERI; Cass., sez. V, 3.6.1998. L'entità obiettiva del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all'esecuzione concorsuale, piuttosto che al pregiudizio sofferto da ciascun partecipante al piano di riparto dell'attivo, ed indipendentemente dalla relazione all'importo globale del passivo (fattispecie in cui erano stati sottratti beni per un valore di circa sessantaquattro milioni, rappresentanti il quinto del passivo).in Ced Cass., rv. 211637 (m); Cass., sez. I, 27.9.1993.Ai fini della concessione dell'attenuante speciale del danno patrimoniale di speciale tenuità, prevista dal 3º comma dell'art. 219 l.fall., se da un lato devesi tener conto non del pregiudizio arrecato ai singoli creditori, ma della complessiva falcidia operata dolosamente rispetto ai beni su cui tutti i creditori dovrebbero rivalersi, dall'altro occorre aver riguardo non già all'entità del passivo ed alla differenza fra attivo e passivo, bensì alla effettiva diminuzione patrimoniale cagionata ai creditori dai fatti di bancarotta dei quali l'imputato deve rispondere. In Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 1, 10 (m)

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imprudenti.20 Nelle pagine che precedono, già si è presa in considerazione

questa fattispecie di reato nella prospettiva di valutare se fosse nella possibile

per il giudice valutare nel merito la condotta dello amministratore, sotto il

profilo delle sue scelte imprenditoriali. Sulla distinzione tra operazioni di

pura sorte o manifestamente imprudenti già si è detto. Sia nell’uno, che

nell’altro caso il legislatore ha preso in considerazione la attività di gestione

della impresa, individuando, in consonanza con i principi dettati dalle norme

civili, il principio cardine in base al quale la gestione deve essere “prudente”.

Infatti solo una gestione “prudente” può rispettare il canone della “diligenza”.

La richiesta della “prudenza” è ovvia, posto che il legislatore vuole che

l’imprenditore abbia sempre presente la regola dettata dall’art. 2740 c.c., sì

che deve essere adoperata cautela e rispetto degli interessi del ceto creditorio.

In quest’ottica sono considerati con particolare disvalore gli atti di gestione

imprudenti, in quanto, in sé, ontologicamente non rispettosi degli interessi dei

terzi. Per tali ragioni il legislatore ha pertanto individuato due diverse

tipologie di “operazioni” che, per la loro valenza negativa sull’ interesse

rappresentato dall’art. 2740 c.c necessariamente. non debbono essere

20 ] Per una valutazione del rapporto intercorrente tra l’art. 217 e l’art. 224 Lf con riferimento alla condotta tipica incidente sul patrimonio della società e non già su quello personale v.: Cass., 5.12.1996 in Ced Cass. Rv 206910. “Il combinato disposto dell’art. 224 e dell’art. 217 l. fall. prevede il reato di bancarotta semplice o impropria, in cui l’attività criminosa degli amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori di società fallite ha per oggetto il patrimonio sociale di cui i soggetti suindicati hanno la gestione ed il controllo, non assumendo il patrimonio personale dei soggetti medesimi alcuna rilevanza ai fini del reato in questione; orbene, se è pur vero che il rinvio previsto dall’art. 224 non può estendersi a tutte le ipotesi contemplate dall’art. 217 che sono state definite per il fallimento di imprese individuali - rimanendovi dunque escluse le ipotesi non compatibili con la struttura societaria -non può ritenersi tuttavia che il rinvio operato dall’art. 224 non sia applicabile alle ipotesi di cui all’art. 217, 1º comma, n. 2; la circostanza che il testo di quest’ultima norma usi il possessivo «suo» - riferendosi al patrimonio che l’imprenditore individuale abbia consumato in notevole parte in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti -non è di per sé sufficiente per ritenere la norma non applicabile alle società, essendo evidente che il legislatore, mediante il rinvio dell’art. 224, ha inteso far riferimento al patrimonio della società e non certo ai patrimoni personali degli amministratori, direttori, sindaci o liquidatori, che non hanno rilevanza alcuna nelle ipotesi di bancarotta impropria; ne consegue che ben può ritenersi ipotizzabile in astratto il reato di bancarotta semplice impropria nel caso in cui l’amministratore, ed i soggetti ad esso assimilati dall’art. 224, abbiano consumato una notevole parte del patrimonio sociale in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti.”

16

compiute nell’ambito di una gestione dell’impresa: a) operazioni di pura

sorte; b) operazioni manifestamente imprudenti. Le prime (operazioni di pura

sorte) si sostanziano in atti a rilevanza economica che investono sicuramente,

nei loro effetti il patrimonio sociale, o generano comunque effetti economico

– finanziari sulla società e che appaiono del tutto avulsi da una logica di tipo

imprenditoriale. Si è in presenza di operazioni nelle quali prevale nettamente

la componente dell’alea in assenza di qualsivoglia ragionevole e prudente

decisione gestoria. Le operazioni manifestamente imprudenti, sono per

contro, frutto di scelte gestionali che, a differenza delle prime sono

riconducibili ad una logica di impresa, anche se, in questo caso, in modo

manifesto (nel senso di evidente per chiunque) l’atto o la scelta gestionale

appare fin dall’inizio, o per l’incertezza dell’esito o per la sua stessa

impostazione senza avere assunto le preventive e necessarie informazioni,

non prudente secondo un giudizio di comune diligenza che deve essere svolto

con il metodo della c.d. “prognosi postuma”. Da ultimo deve essere notato

come possa essere sovente difficile distinguere tra l’ipotesi di illecita

condotta riconducibile alla violazione del n. 1 dell’art. 217 Lf e la ipotesi di

bancarotta fraudolenta per dissipazione 21

3) Ipotesi di danno da aggravamento del dissesto (art. 224 cpv. I^ e II^

comma, art. 217 nn 3, 4, 5 Lf): Nei casi indicati abbiamo altrettante ipotesi

di danno patrimoniale che trova la sua origine dal maggior passivo insinuato

per effetto di ritardo nella dichiarazione di fallimento o di maggior passivo

cagionato per effetto del mancato rispetto di obblighi imposti dalla legge.

21 ] Per una caso frequente di ipotesi riconducibile alternativamente, a seconda della gravità della condotta v.: Cass. 10.6.1998 in Ced Cass. 212608 ove. Non ricorre l’ipotesi di bancarotta semplice integrata da operazioni gravemente imprudenti poste in essere dall’imprenditore, ma quella più grave della bancarotta fraudolenta nel caso di sistematica e preordinata vendita sotto costo, o comunque in perdita, di beni aziendali; invero, anche le operazioni manifestamente imprudenti, di cui al n. 3 dell’art. 217 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, devono presentare, in astratto, un elemento di razionalità nell’ottica delle esigenze dell’impresa, cosicché il risultato negativo sia frutto di un mero e riscontrabile errore di valutazione (nella fattispecie, la corte ha precisato che è vendita in perdita anche quella a prezzo di costo).

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Classico caso è dato dal fatto [assai comune] di quell’imprenditore che si

astenga dal chiedere tempestivamente il proprio fallimento. L’inutile protrarsi

della gestione dell’impresa comporta solo un aumento del passivo, se non

altro, quand’anche non vengano contratte nuove obbligazioni, per effetto

dell’aumento del debito per incremento degli interessi passivi. Anche in

questo caso, come nel precedente, il danno non coincide con il passivo da

inadempimento, al massimo può trovare un collegamento con lo stesso, e

tutt’al più solo una parziale identificazione. Il danno è dato solo dalla

differenza tra il passivo fallimentare [insinuato tempestivamente + tardive] e

il passivo maturato al momento della c.d. perdita del capitale sociale. Per

essere più rigorosi direi: passivo maturato nel momento in cui l’imprenditore

ha percepito di avere perso il capitale sociale. Delle varie ipotesi elencate in

questa sezione, ritengo che sia opportuno soffermarsi brevemente ancora su

quella prevista dal n. 2 della seconda parte dell’art. 224 LF. Tale fattispecie

riveste un particolare interesse per la materia che qui interessa in quanto

permette di ricostruire, con le precisazioni di cui infra, in chiave

responsabilità penale, gran parte dei casi di violazione degli obblighi di

diligenza imposti nella gestione di una società. La norma infatti punisce

coloro che hanno concorso a cagionare o ad aggravare il dissesto della società

con la inosservanza degli obblighi previsti dalla legge. Il dato testuale della

disposizione impone subito alcune considerazioni: a) in primo luogo l’atto

gestionale deve consistere, in una “violazione di un obbligo imposto dalla

legge”; b) in secondo luogo l’atto deve avere la caratteristica di essere causa

del dissesto o aggravamento dello stesso; in altri termini deve intercorrere un

nesso causale tra la violazione della legge e la causazione (o l’aggravamento)

del dissesto; c) in terzo luogo occorre tenere ben distinti i concetti di

“dissesto” da quello di “fallimento” (richiamato, per es. dall’art. 223 cpv. n. 2

di cui infra). Con riferimento al primo punto, di cui alla lettera a), si potrebbe

porre il problema se, dall’ambito della condotta illecita, possano o debbano

18

essere escluse quelle che, pur cagionando o aggravando il dissesto, non

integrano violazione di legge, ma violazione delle regole dettate dall’atto

costitutivo della società. Ritengo che la distinzione non debba essere presa in

considerazione sulla base di quest’unica considerazione: l’intero sistema

impone che l’amministratore agisca nel rispetto della legge e dell’atto

costitutivo e tale ultimo precetto è esso stesso previsto dalla legge, sì che la

violazione delle regole stabilite dall’atto costitutivo si sostanzia nella

violazione di legge che impone il rispetto di quelle regole. Passando al

secondo punto (quello di cui alla lettera b), va osservato che la norma parifica

la causazione del dissesto con il suo aggravamento, sì che appare sufficiente,

in quest’ultimo caso verificare che la società versi in stato di insolvenza e in

quale misura l’atto di gestione, concretatesi nella violazione della legge,

possa avere inciso sul suo aggravamento. Nella disposizione, si possono fare

rientrare le ipotesi di tutela del ceto creditorio già previste, in ambito civile

dall’azione ex tra contrattuale di cui all’art. 2394 c.c. Da ultimo vanno svolte

alcune considerazioni sul concetto di dissesto. La norma non richiama il

concetto “dichiarazione di fallimento” (che è, in un certo senso, un evento

giuridico – formale) ma evoca quello di “dissesto” (concetto giuridico –

economico) che, a mio avviso, a sua volta, è solo in parte coincidente con

quello di “insolvenza” (presupposto, quest’ultimo, indefettibile per pervenire

alla apertura di una procedura concorsuale). Bisogna soffermarsi ora sul

significato dell’espressione “cagionato, o concorso a cagionare” il dissesto. Il

termine “dissesto”, richiamato in moltissime pronunce giurisprudenziali,

descrive la condizione di definitiva ed irreversibile di impotenza economica –

finanziaria della società ad assolvere alle proprie obbligazioni. Il concetto di

“dissesto” non coincide con quello di “insolvenza”, posto che, nella

giurisprudenza, in tale ambito viene ricompresa, per esempio anche la mera

“illiquidità” (fenomeno economico sicuramente equiparato, sotto il profilo

giuridico, a quello di “deficit patrimoniale”, pur non coincidendo con

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quest’ultimo) come situazione per la quale la società non è in grado di

assolvere alle proprie obbligazioni con “mezzi normali di pagamento” 22 Se

così è, si deve concludere che l’atto gestorio illecito, riferibile agli organi

sociali, deve avere determinato o concorso a determinare un deficit

patrimoniale, in altri termini una situazione per la quale, il patrimonio della

società, una volta liquidato non consente di fare fronte alle pretese dei

creditori.

4) Danno per causazione diretta del fallimento (art. 223 cpv. n. 2 Lf, per

avere cagionato il fallimento con dolo o per effetto delle operazioni

dolose): In questo caso il fallimento come tale costituisce scopo della azione

criminosa. La gestione imprenditoriale, nel suo complesso, è stata preordinata

all’inadempimento o meglio è stato previsto (e non escluso) il fallimento

quale conseguenza derivante dall’inadempimento dell’obbligazione

causalmente connessa con la dichiarazione di fallimento. In questo caso tutto

il disavanzo fallimentare [dato dalla differenza tra passivo insinuato e attivo

realizzato] dovrebbe essere considerato danno risarcibile in quanto il ceto

creditorio subisce l’effetto di un “generale” inadempimento quale evento o

diretta conseguenza o di una operazione “dolosa” o di una insolvenza prevista

e accettata a livello di dolo. In questo caso a seconda della tipologia della

condotta la lesione dannosa può essere considerata o come effetto di una

minusvalenza patrimoniale (minore patrimonio da distribuire) o come

aggravamento del dissesto, che può giungere, come già detto, ad una perfetta

identificazione, sotto il profilo della quantità del danno, nel dissesto stesso

(cioè tutto il disavanzo fallimentare).

5) Danno riflesso per illeciti di fallimentari diversi da quelli sovraindicati e

aventi natura formale (art. 216 cpv. n. 2 Lf; 217 cpv Lf; art. 223 cpv. n. 1

Lf con riferimento all’art. 2621 c.c.) Si tratta di analizzare in questa sezione 22 ] Trib. Torino, 7.4.1988 in Giur. it., 1988, I, 2, 655, n. MAUGERI. L’insolvenza di cui all’art. 5, l. fall., non presuppone necessariamente un deficit patrimoniale dell’impresa, bensì una situazione di illiquidità non rapidamente eliminabile, ancorché superabile in futuro.

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la questione relativa al danno cagionato per fatti di bancarotta fraudolenta

documentale o per bancarotta semplice o per falso in bilancio. In questo caso

la questione si pone in termini decisamente più complessi, posto che in via

generale si può dire che le violazioni di ordine formale raramente cagionano

un danno patrimoniale in via diretta, e gli illeciti indicati nel titolo del

paragrafo non sfuggono a questa regoletta di esperienza. Va subito detto che

tanto il delitto di omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili (in

entrambe le ipotesi Art. 216 pp. n. 2 e 217 Lf) sia il reato di false

comunicazioni sociali, di per sé stessi non sarebbero direttamente causativi di

danno per fatto di bancarotta [23], né sotto il profilo di illecito che determina

una diminuzione del patrimonio, né nella forma dello illecito che determina

un aggravamento del dissesto. I detti illeciti, invece, possono essere

strumentali o allo occultamento di un fatto che determina o ha determinato

una diminuzione del patrimonio, o di un fatto volto alla prosecuzione della

gestione con conseguente aggravamento del dissesto [24]. Pertanto, in linea

generale e in prima approssimazione, per riuscire ad individuare il danno da

bancarotta c.d. documentale occorre verificare a quale tipo di attività era

strumentalmente collegato il fatto di bancarotta documentale e quindi

rinvenire il fatto causativo del danno eziologicamente collegato all’illecito

formale. Passando ad una disamina più dettagliata delle varie situazioni

possiamo rilevare quanto segue: 1) Il reato di bancarotta semplice

documentale viene considerato dalla giurisprudenza della suprema Corte, un

reato di pericolo e come tale non sempre tale da cagionare un danno

23 ] Per altro va notato che tanto la dottrina quanto la giurisprudenza non hanno mai manifestato dubbio alcuno che nel caso di contestazione del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, possa essere contestata la aggravante di cui all’art. 219 Lf (avere cagionato un danno patrimoniale di rilevante entità], ricollegando così definitivamente la bancarotta documentale nell’alveo dei reati contro il patrimonio. 24 ] Uno dei possibili effetti dannosi ricollegabili alla bancarotta documentale è la difficoltà di ricostruzione del patrimonio della impresa fallita, con conseguente, maggior danno per i creditori, rappresentato dalla quota di patrimonio non rinvenuto o non recuperato e non suscettibile di recupero.

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patrimonialmente apprezzabile [25]. Sicuramente uno dei danni possibili,

ricollegabili a questo tipo di illecito è dato dalla difficoltà con la quale il

curatore, per esempio, abbia potuto ricostruire o meno il patrimonio

fallimentare. Trattasi, ovviamente di un danno ipotetico che deve essere

oggetto di una valutazione particolarmente rigorosa. 2) passando alla

bancarotta fraudolenta documentale, si ripropongono, in realtà le medesime

considerazioni che sono già state formulate al punto che precede [26]. In

25 ] Cass., sez. V, 15.3.2000. In tema di bancarotta semplice documentale, è punito il comportamento omissivo del fallito che non ha tenuto le scritture contabili; trattasi di reato di pericolo presunto che, mirando ad evitare che sussistano ostacoli alla attività di ricostruzione del patrimonio aziendale e dei movimenti che lo hanno costituito, persegue la finalità di consentire ai creditori l'esatta conoscenza della consistenza patrimoniale, sulla quale possano soddisfarsi; la fattispecie, pertanto, consistendo nel mero inadempimento di un precetto formale (il comportamento imposto all'imprenditore dall'art. 2214 c.c.), integra un reato di pura condotta, che si realizza anche quando non si verifichi, in concreto, danno per i creditori; peraltro, l'obbligo di tenere le scritture contabili non viene meno se l'azienda non ha formalmente cessato la attività, anche se manchino passività insolute, esso viene meno solo quando la cessazione della attività commerciale sia formalizzata con la cancellazione dal registro delle imprese. In Ced Cass., rv. 215985 (m); nello stesso senso: Cass., sez. V, 14.4.1999. La mancanza delle scritture contabili qualora sia insufficiente la prova della strumentalità soggettiva e della finalizzazione oggettiva della condotta integra la fattispecie della bancarotta semplice documentale e non quella della bancarotta fraudolenta documentale dal momento che per la prima, punibile indifferentemente a titolo di dolo o colpa, si rende superflua l'indagine, sull'efficacia causale dell'omessa o irregolare tenuta che è punita per se stessa, indipendentemente dalle conseguenze. In Guida al dir., 1999, fasc. 38, 101, n. AMATO; Cass., sez. V, 2.10.1998 in Ced Cass., rv. 211518 (m). Specificatamente, in tema di individuazione del danno (anche ai fini della applicazione delle attenuanti o delle circostanze aggravanti: Cass., 16.4.1986. Il danno valutabile ai fini della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, prevista dall'art. 219, 3º comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, quale che sia l'ipotesi di bancarotta, fraudolenta o semplice, è quello cagionato dal fatto reato e non quello derivante dal passivo del fallimento; pertanto, il danno cagionato dai fatti di bancarotta semplice documentale può consistere nella impossibilità di ricostruire totalmente o parzialmente la situazione contabile dell'impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori, ovvero dalla diminuzione che l'omessa tenuta dei libri contabili ha determinato nella quota di attivo da ripartirsi fra i creditori; se il danno causato dall'omissione è di speciale tenuità o addirittura non sussiste, il giudice deve concedere l'attenuante in questione. In Riv. pen., 1987, 376 (m); 26] si noti che la giurisprudenza ha qualificato il reato di cui all’art. 216 pp. cpv n. 2, un reato di danno per differenziarlo da quello di cui all’art. 217 Lf; in tal senso: Cass., 6.6.1980. Fra le due ipotesi di reato, quella di cui all'art. 216 n. 2 e quella di cui all'art. 217 l. fall. corrono rilevanti differenze, sia quanto all'elemento materiale, sia quanto all'elemento psicologico; quanto all'elemento materiale, il primo è un reato di danno e inoltre coinvolge nella condotta punibile anche le scritture facoltative, mentre il secondo è un reato di pericolo presunto, per cui è irrilevante se la ricostruzione possa ugualmente effettuarsi anche aliunde e riguarda soltanto le scritture rese obbligatorie dal c.c.; per ciò che concerne l'elemento psicologico, mentre il primo esige che lo scopo perseguito dall'agente sia indirizzato (dolo) proprio a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, il secondo si accontenta della semplice colpa; altre differenze riguardano il fatto che l'art. 216

22

questo caso bisogna fare attenzione a distinguere le ipotesi nelle quali la

mancanza della scrittura contabile ha cagionato un danno, di per sé, riferibile

per esempio alla concreta impossibilità del curatore di procedere allo

esercizio di azioni recuperatorie (riscossioni di crediti) o revocatorie, rispetto

alle ipotesi nelle quali la falsificazione della scrittura è sottesa al

nascondimento di un fatto costitutivo di un ulteriore illecito. In questo

secondo caso, si tratta, infatti di evitare una duplicazione di danni che già

trovano la loro causa genetica immediata e diretta nello illecito che viene

occultato anche attraverso l’atto di bancarotta fraudolenta documentale. 3) il

delitto di falso in bilancio, il più delle volte è commesso con il precipuo fine

di prolungare la vita della impresa nella speranza di una soluzione gestionale

della stessa. Quindi è il mezzo con il quale lo amministratore della società

può “aggravare” il dissesto. Talora, il falso in comunicazioni sociali è

strumentale al nascondimento di una operazione di distrazione o ad una

operazione dolosa attraverso la quale si è cagionato il dissesto: in questo caso

il danno è determinato con le modalità indicate più sopra e il delitto di false

comunicazioni sociali si pone solo come strumento di occultamento di un

fatto illecito dannoso.

6) La bancarotta preferenziale (art. 216 Lf). In questo tipo di illecito appare

complesso rinvenire il “danno” patrimonialmente tutelato. Diciamo subito

che l’atto solutorio, posto in essere dal fallendo, non costituisce, sotto il

profilo sostanziale un “illecito” [civile]. Si è in presenza del pagamento di

una somma “dovuta”, cioè del pagamento di un debito esistente. Quello che

rileva (sotto il profilo civile) è il momento in cui avviene il pagamento e,

(sotto il profilo soggettivo) divengono elementi rilevanti: la prova della

conoscenza dello stato di insolvenza (per il caso di esercizio di azione si riferisce piuttosto al contenuto sostanziale delle scritture e l'art. 217 piuttosto, o almeno prevalentemente, all'osservanza delle formalità prescritte per la loro tenuta (numerazione, bollatura, vidimazione, cancellature, ordine delle annotazioni) e che per il secondo è previsto un termine breve di operatività temporale massima (tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento). In Riv. pen., 1981, 106 (m)

23

revocatoria) e la prova della volontà di favorire un creditore in danno degli

altri (per il reato di bancarotta preferenziale). Resta però certo, che nell’uno e

nell’altro caso, l’accipiens riceve una somma che gli compete. Appare

pertanto sicuro che il delitto di bancarotta preferenziale tutela gli interessi del

ceto creditorio sostanzialmente condensati nell’art. 2740 c.c. e nell’art. 2741

c.c. norma che stabilisce il principio della “par condicio creditorum”.

L’oggetto della tutela del reato di bancarotta preferenziale è quindi la lesione

del principio della “par condicio”, conseguentemente il danno va determinato

nella misura in cui ciascuno dei creditori sia rimasto percentualmente

vulnerato dal pagamento preferenziale. Così ricostruito, si può notare che

anche il reato di bancarotta preferenziale viene ricondotto nell’alveo dei reati

che ledono l’interesse della massa di pertinenza del ceto creditorio con

correlativa minusvalenza della stessa. Anche in questo caso la legittimazione

del curatore trova la sua fonte nella azione posta a tutela del ceto creditorio

(2394 c.c.)

7) La bancarotta postfallimentare. Quanto è stato detto fino ad ora, è riferito a

fatti di reato commessi dall’imprenditore prima della dichiarazione di

fallimento. Peraltro, nel caso in cui le condotte illecite di bancarotta siano

state commesse successive alla pronuncia della sentenza dichiarativa di

fallimento, la situazione giuridica non muta e si possono tranquillamente

riprendere tutti i principi fino a qui osservati. Infatti, anche per il caso di

delitto di bancarotta post fallimentare, il soggetto leso non è il curatore del

fallimento, ma continua ad esserlo il ceto creditorio. Anche per il caso di fatto

di bancarotta commesso dopo la dichiarazione di fallimento, il curatore del

fallimento riprende la sua legittimazione processuale nelle azioni già

esaminate. 27

27] v. Trib. Parma 6.1.1981 in Ced Cass. Rm 574004 “nel caso di procedimento penale contro un fallito imputato dei reati concorrenti di truffa e bancarotta fraudolenta commessi dopo la dichiarazione di fallimento, il danneggiato dal fatto configurato come truffa può costituirsi parte civile solo per questo reato e non anche per la bancarotta fraudolenta. Infatti questo reato

24

§4. La legittimazione del creditore in via sussidiaria e in via autonoma.

La prima parte del II^ comma dell’art. 240 Lf prevede che il creditore possa

costituirsi parte civile, nel procedimento penale di bancarotta fraudolenta nel caso in

cui manchi la costituzione di parte civile del curatore, del commissario liquidatore o

del commissario giudiziale.

In definitiva si ha la possibilità, per il creditore, di costituirsi in luogo dell’organo

della procedura che sia inerte nelle iniziative processuali. Si tenga conto che la inerzia

non deve essere legata ad una eventuale definizione in via transattiva del danno,

operata dal curatore del fallimento nello interesse della massa, perché in tale caso, la

azione non sarebbe certo più disponibile, neppure per i creditori. Processualmente, si

può dire che, ope legis, è prevista una facoltà di surroga nello esercizio della azione di

danni (con i limiti di cui infra) per il caso della inerzia del titolare della azione

medesima. Peraltro, qualora iniziato il procedimento penale e pur sempre nei termini

previsti dalla legge, il curatore del fallimento, riscuotendosi dallo stato inerziale, si

costituisca a sua volta parte civile, nel procedimento penale, è evidente che si avrà la

automatica decadenza dall’esercizio della azione, dei soggetti creditori che abbiano

agito. Ulteriore aspetto problematico della disposizione è data dal fatto che,

inspiegabilmente (nella relazione che accompagna la legge nulla è detto in proposito)

il creditore può costituirsi parte civile, in luogo del curatore non costituito solo nelle

ipotesi di bancarotta fraudolenta (contestazione dei reati di cui agli artt. 216 Lf, e 223

con riferimento all’art. 216 Lf), mentre per tutte le altre ipotesi tale costituzione non

sarebbe possibile. In dottrina si è cercato di dare delle interpretazioni correttive, ma

ritengo che la norma non sia suscettibile di applicazione se non per ciò che dice, in danneggia soltanto i creditori concorsuali e il danneggiato dal fatto configurato come truffa, essendo il suo credito nato solo dopo la dichiarazione di fallimento, non è creditore concorsuale non può insinuarsi nel fallimento, ma potrà semmai far valere i propri titoli contro il fallito soltanto quando lo stesso, chiuso il fallimento sarà tornato in bonis.

25

quanto ogni possibile interpretazione volta a correggere la disposizione non ha altro

che valore additivo alla norma stessa [28].

L’articolo 240 Lf, consente infine, al creditore la possibilità di ripetere i danni

particolari, insinuandosi quale parte civile nel processo penale a carico

dell’imprenditore, anche se il curatore del fallimento abbia a sua volta esercitato la

azione nello interesse della massa. In questo caso, il creditore esercita una azione

propria, personale ed ha una legittimazione principale [29]. La disposizione, sotto il

profilo interpretativo ha creato molti problemi in quanto si è trattato di individuare di

volta in volta, quale sia il danno tutelabile dal creditore particolare in concorso con il

curatore del fallimento

Personalmente ritengo che l’unico modo per verificare se il c.d. “danno” per il quale

viene esercitata la azione sia proprio del creditore particolare o del curatore del

fallimento, occorre accertare se il danno ricada direttamente sulla “massa” (nelle due

forme del “depauperamento del patrimonio” o dello “aggravamento del dissesto”)

oppure esclusivamente sul patrimonio del singolo creditore.

Nel primo caso si avrà la sola legittimazione del curatore, nel secondo si può avere la

sola legittimazione del creditore. Tra l’altro vale la pena di considerare che nel

sistema delle azioni processuali civili è prevista una situazione del tutto analoga e

parallela a quella che viene descritta dall’art. 240 Lf.

28 ] In dottrina e in giurisprudenza si sono formulate le seguenti alternative opzioni interpretative:

1) la disposizione vale fino a quando il fallimento sia aperto; successivamente alla chiusura ciascun creditore può esercitare la azione civile per qualsiasi ipotesi di illecito penale concorsuale (in Tal senso: Giuliani Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano 1983; Nuvolone Il diritto penale del fallimento, Milano 1955.)

2) La disposizione vale solo per la ipotesi di delitto di bancarotta commesso dal soggetto dichiarato fallito. Per la ipotesi di responsabilità verso soggetti diversi dal fallito, sarebbe possibile la costituzione di parte civile per qualsiasi ipotesi di reato. (in tal senso Cass. 16.5.1959 in Cass. Pen. 1960, III, 176)

3) La disposizione consente al creditore di costituirsi parte civile per qualsiasi reato fallimentare, eccezion fatta per la bancarotta fraudolenta, per la quale, la costituzione nel giudizio penale del curatore fallimentare vale ad escludere la esperibilità della medesima azione agli altri creditori. (in tal senso App. Milano 22.4.1953 in Riv. It. Di diritto penale, 1953, 457)

4) La norma consentirebbe la costituzione di parte civile a qualsiasi creditore non insinuato, eccezion fatta che per il delitto di bancarotta fraudolenta (App. Milano 27.4.1962 in Diritto Fall. 1962, II, 866)

29 ] in tal senso v. Cass. 3.6.1980, in Riv. Penale, 1981, 198

26

Infatti nel codice civile, accanto alle azioni sociali (della società e dei creditori) noi

troviamo disciplinata anche la azione individuale di danni (esercitabile dal socio o dal

terzo), di cui l’art. 2395 c.c. [30] e che può essere esperita solo quando il danno

cagionato dalla azione amministrativa si riverberi direttamente sul patrimonio

individuale del socio o del terzo e non già quale riflesso del danno cagionato al

patrimonio sociale. Fra i casi che si possono portare a titolo di esempio della

legittimazione individuale sono per esempio i danni cagionati dagli amministratori a

seguito di commissioni truffa, appropriazione indebita, insolvenza fraudolenta,

emissione di assegni a vuoto, eventualmente concorrenti con il reato di bancarotta,

oltre al caso di richiesta di risarcimento per danni morali [31].

30 ] In giurisprudenza: Cass., 14.5.1981, n. 3176. L'azione individualmente concessa dall'art. 2395 c.c. al terzo per il risarcimento dei danni da esso subiti per effetto di atti dolosi o colposi degli amministratori presuppone che i danni siano conseguenza immediata e diretta del comportamento degli amministratori, e non il riflesso di quelli eventualmente cagionati da questi ultimi al patrimonio sociale in Mass., 1981; e nello stesso senso: Cass., 17.11.1982, n. 6154 in Mass., 1982; Cass., 20.4.1982 in Riv. pen., 1983, 541 (m); Trib. Roma, 1.10.1982 in Società, 1983, 47; Trib. Milano, 27.1.1983 in Società, 1984, 323 ove: L'azione individuale di responsabilità degli amministratori di cui all'art. 2395 c.c. opera al di fuori delle ipotesi previste dagli art. 2393 (responsabilità verso la società) e 2394 c.c. (responsabilità verso i creditori sociali) completando la disciplina della responsabilità degli amministratori e differenziandosi dalle altre ipotesi per lo specifico oggetto di tutela costituito dal danno direttamente subito dal socio o dal terzo nel senso che esso deve essere la conseguenza immediata e diretta dell'attività illecita degli amministratori e non un pregiudizio riflesso; e particolarmente in termini v: . Trib. Milano, 23.9.1983. Foro pad., 1983, I, 505 L'art. 240 l. fall. è equivalente all'art. 2395 c.c., pertanto il socio può costituirsi parte civile per danno diretto causato dall'amministratore per averlo indotto, tramite false comunicazioni sociali, a non disporre dei suoi titoli; Trib. Milano, 21.4.1986 In Società, 1986, 1211L'azione di responsabilità di cui agli art. 2393 e 2394, c.c., potrà essere esperita nei casi in cui gli amministratori, venendo meno agli obblighi inerenti al loro ufficio, abbiano tenuto comportamenti dolosi o colposi idonei a diminuire il valore patrimoniale della società, mentre l'azione ex art. 2395, c.c., potrà essere introdotta quando il singolo socio o terzo non solo denunci un simile comportamento, ma offra anche le prove che la condotta degli amministratori lo indusse a compiere un atto dispositivo del suo patrimonio che egli si sarebbe astenuto dal compiere se gli amministratori non avessero posto in essere quel comportamento doloso o colposo.; Trib. Genova, 30.4.1985 in Giur. comm., 1986, II, 933, n. CASSOTTANA; Trib. Milano, 5.3.1987 .in Società, 1987, 626 Dopo la chiusura del fallimento mentre il creditore sociale riacquista la legittimazione a proporre l'azione di responsabilità contro l'amministratore, a norma dell'art. 2394, c.c., il socio continua a mantenere la propria legittimazione, a norma dell'art. 2395, c.c; Cass., 3.8.1988, n. 4817 in Mass., 1988; Cass., 11.2.1988 . in Dir. fallim., 1989, II, 127. I singoli creditori costituiti parte civile nel procedimento penale per reati fallimentari addebitati a persona diversa dal fallito non possono proporre le azioni civili di responsabilità nei confronti degli amministratori della società di cui agli art. 2393 e 2394 c.c., ma possono esperire l'azione risarcitoria individuale ex art. 2395 c.c 31] Trib. Milano, 29.9.1983. È ammissibile, nel procedimento per bancarotta fraudolenta, la costituzione di parte civile di un gruppo di azionisti di due istituti di credito in liquidazione coatta, al

27

§4. Varie

La costituzione di parte civile del curatore del fallimento presuppone la

autorizzazione del giudice delegato alla procedura fallimentare e la nomina del legale

deve essere fatta con provvedimento dello stesso giudice delegato in applicazione

dell’art. 25 Lf. La mancanza della autorizzazione suddetta si traduce in un difetto di

legittimazione allo esercizio della azione con conseguente inammissibilità della

costituzione di parte civile per carenza dei poteri dello stesso curatore.

Può essere oggetto di dubbio, e non ho riscontrato alcuna pronuncia in merito, il fatto

se sia necessario che, oltre alla autorizzazione del giudice delegato, il curatore sia

munito anche del parere del comitato dei creditori. Ritengo che l’art. 146 Lf vada

interpretato in modo restrittivo, nel senso che ,per il caso di specie non sia necessario

il previo parere del comitato dei creditori, così come è invece richiesto per l’esercizio

della azione di responsabilità in sede civile [32].

Ovviamente la costituzione di parte civile nel processo per bancarotta del curatore del

fallimento presuppone anche che la procedura sia in essere. Infatti, la chiusura della

procedura fallimentare comporta, in primis la decadenza degli organi fallimentari e in

secondo luogo il venire meno del soggetto legittimato (cioè il Fallimento) [v. artt. 118

e 120 Lf.. Indubbiamente sorge il problema di che cosa possa succedere qualora, il

curatore, costituitosi validamente parte civile nel procedimento penale per bancarotta,

fine di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale, consistente nella mancata negoziazione dei titoli cagionata dalla falsità dei bilanci, e del danno morale conseguente al reato. In Foro it., 1984, II, 202. 32] La mancanza del parere del comitato dei creditori, non inficia la azione come tale, ma costituisce solo motivo di impugnativa endofallimentare del provvedimento del giudice delegato, applicandosi la giurisprudenza che si è formata in materia. Per tutte v.: Cass., sez. I, 3.1.1998, n. 16. L'omessa assunzione del parere del comitato dei creditori richiesto dall'art. 146 l.fall. con riferimento all'azione di responsabilità che il curatore del fallimento intenda promuovere contro amministratori e sindaci di una società di capitali, non è causa di improponibilità della domanda in quanto il vizio va fatto valere all'interno della procedura concorsuale con gli strumenti dei reclami di cui agli art. 26 e 36 l.fall. in Foro it., 1998, I, 2956; Giur. it., 1998, 1443; Fallimento, 1998, 1244.

28

successivamente decada per effetto della chiusura della procedura concorsuale.

Secondo alcuni [33] i creditori possono subentrare nella azione del curatore, qualora il

curatore sia considerato un sostituto processuale dei creditori.

Qualora si escluda che il curatore del fallimento sia un sostituto processuale dei

creditori, si deve concludere che l’eventuale decadenza degli organi fallimentari,

dopo l’inizio del procedimento penale e prima del passaggio in giudicato della

sentenza, impedisce ai creditori di esercitare l’azione civile nel procedimento penale,

per tardività della costituzione.

Per quanto attiene ai creditori ritengo che sia opportuno fare ancora una

precisazione. Nel caso in cui il creditore eserciti la azione civile per la tutela di un

danno personale, non è necessario che il creditore sia insinuato al passivo del

fallimento. Nel caso in cui il creditore eserciti la azione civile in luogo del curatore

del fallimento ai sensi della prima parte del secondo comma dell’art. 240 Lf, ritengo

che sia imprescindibile che lo stesso sia insinuato al passivo del fallimento, in quanto

trattasi pur sempre dello esercizio di una azione di massa.

Va infine affrontato il problema se sia possibile per il creditore non insinuato al

passivo del fallimento, costituirsi parte civile contro gli imputati di reati

fallimentari.34 Personalmente, in assenza di una disciplina specifica nutro qualche

perplessità. Infatti, il creditore c.d. “non insinuato” che venga soddisfatto in tutto o in

parte della sua pretesa attraverso lo esercizio della azione civile in sede penale, ben

potrebbe successivamente insinuarsi al passivo del fallimento in via tardiva cercando

un eventuale ulteriore ristoro ai propri danni, partecipando al concorso con gli altri

creditori.

Attraverso la disposizione dell’articolo 236 Lf le considerazioni svolte nelle

pagine precedenti possono essere fatte valere anche nel procedimento penale

instaurato a seguito della apertura dei procedimenti concorsuali di concordato

preventivo e di amministrazione controllata.

33 ] v. Conti, I reati fallimentari, Utet, Torino, 485 34 ] in tal senso in Tribunale Roma 20.11.1970 in Diritto Fallimentare, 1971 II, 537.

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Per quanto attiene alla amministrazione straordinaria corre il richiamo dell’art.

97 del D.lvo 8.7.1999 n. 270.

Va da ultimo considerata la situazione giuridica che si viene a creare qualora

nel corso del procedimento fallimentare si pervenga alla definizione della procedura

attraverso il c.d. concordato fallimentare. Taluni ritengono che tale modo di

estinzione della procedura abbia carattere negoziale (transattivo) tra il ceto creditorio

da un lato e il fallito dall’altro, mentre altri ritengono che il concordato fallimentare

abbia preminentemente caratteristiche pubblicistiche. Non essendo questa la sede

nella quale discutere sulla natura del concordato fallimentare, ritengo però di

sottolineare come, dal complesso normativo non si rinvenga alcuna disposizione dalla

quale desumere una automatica estinzione della azioni civili del curatore, per effetto

della avvenuta omologazione di un concordato fallimentare. Indubbiamente la

omologazione del concordato fallimentare comporterà la chiusura della procedura

fallimentare con la correlativa decadenza degli organi fallimentari e la successiva

decadenza del curatore dalla posizione di parte civile costituita. Conseguentemente,

sempre che sia nei termini, il creditore particolare ben potrà costituirsi parte civile bel

procedimento penale di bancarotta ex art. 240 II^ comma Lf nei limiti in cui, non sia

stata effettuata una specifica transazione dell’azione di massa che abbia la sua causa

petendi in un reato di bancarotta fraudolenta..