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DAVID GROSSMAN CI SONO BAMBINI A ZIGZAG TRADUZIONE DI SARAH KAMINSKI E ELENA LOEWENTHAL COPYRIGHT 1994 Ha Kibbutz Ha-Mehuchad, Tel Aviv 1994 MONDADORI EDITORE MILANO prima EDIZIONE OMNIBUS 1996 prima EDIZIONE OSCAR SCRITTORI DEL NOVECENTO 1998 TITOLO ORIGINALE: HE AG-ZAG KID nostro indirizzo internet è: tp://www.mondadori.com/libri CI SONO BAMBINI A ZIGZAG

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DAVID GROSSMAN CI SONO BAMBINI A ZIGZAG TRADUZIONE DI SARAH KAMINSKI E ELENA LOEWENTHAL COPYRIGHT 1994 Ha Kibbutz Ha-Mehuchad, Tel Aviv 1994 MONDADORI EDITORE MILANO prima EDIZIONE OMNIBUS 1996 prima EDIZIONE OSCAR SCRITTORI DEL NOVECENTO 1998 TITOLO ORIGINALE: HE AG-ZAG KID nostro indirizzo internet è: tp://www.mondadori.com/libri CI SONO BAMBINI A ZIGZAG

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CAPITOLO 1. Il treno fischiò, lasciando la stazione. Dal finestrino di una carrozza un bambino guardava l'uomo e la donna che lo stavano salutando dalla banchina. L'uomo agitava timidamente una mano, imprimendole movimenti minimi. La donna sventolava entrambe le mani, oltre a un enorme fazzoletto rosso. L'uomo era suo padre, la donna era Gabriela, cioè Gabi. L'uomo indossava l'uniforme della polizia, perché era un poliziotto. La donna aveva un abito nero, perché il nero snellisce. Anche le righe verticali snelliscono. Ma niente snellisce, diceva Gabi ridendo, come mettersi vicino a qualcuno più grasso di te; solo che io non l'ho ancora trovato. Il bambino sul treno, che li stava lasciando e li guardava come in una fotografia che non avrebbe mai più rivisto... be', quel bambino ero io. Staranno da soli per due giorni, pensai. E' finita. Questo pensiero mi afferrò per i capelli e cominciò a strattonarmi fuori dal finestrino. Papà storse la bocca, in quella smorfia che Gabi chiama "l'ultimo avvertimento prima del verdetto". Ma cosa me ne importa? Se si preoccupa davvero per me, allora perché mi spedisce a Haifa per due giorni? E da chi poi? Un uomo vestito da ferroviere, lì sulla banchina, fischiò forte verso di me e con ampi gesti mi fece segno di tirare dentro la testa. E' pazzesco come quelli con la divisa e il fischietto vadano sempre a scovare proprio me, anche se hanno a disposizione un treno intero. Non mi scostai. Anzi. Papà e Gabi dovevano vedermi fino all'ultimo. Per ricordare il bambino. Il treno era ancora all'interno della stazione, attraversava lentamente ondate d'aria calda e densa, odori di gasolio. Cominciavo a sentire anche cose nuove. Odori di viaggio. Libertà. Sto partendo! Da solo! Sporsi prima una guancia e poi l'altra per farmi accarezzare dal vento caldo, e far asciugare il bacio di mio papà. Non mi aveva mai baciato così in presenza di altra gente. Come mai mi baciava così se poi mi spediva via? Adesso erano in tre a fischiare verso di me, lì sulla banchina. Mi stavano facendo una serenata. Quando papà e Gabi scomparvero alla vista, mi ritrassi piano piano e con aria indifferente, per far vedere che non m'importava dei fischi. Mi sedetti. Se almeno ci fosse stato qualcun altro nello scompartimento. E adesso? Quattro ore di viaggio da qui a Haifa, dove mi aspettava, imbronciato, severo e deluso di me il professor Shemuel Shilhav. Insegnante e pedagogo, autore di sette manuali di pedagogia ed educazione civica, e per un caso fortuito anche mio zio, fratello maggiore di papà. Mi alzai. Controllai due volte come si apriva e si chiudeva il finestrino. Aprii e chiusi anche il contenitore dei rifiuti. A quel punto non c'era più niente da aprire e chiudere, nello scompartimento. Tutto funzionava a dovere. Un treno piuttosto sofisticato. Mi misi in piedi sul sedile, riuscendo a infilarmi dentro il portabagagli sospeso, poi mi calai a testa in giù fino a terra, controllando se qualcuno non avesse per caso dimenticato dei soldi sotto i sedili. Niente, quel qualcuno era un tipo molto accorto. Vadano al diavolo papà e Gabi, che mi mollano così allo zio Shemuel, e per di più una settimana prima del mio bar-mitzvah! Vada per papà, lui ha molta deferenza verso suo fratello maggiore e lo stima per la sua competenza in materia di pedagogia. Ma Gabi, che quando papà non sente lo chiama "gufo"? Sarebbe questo il regalo speciale che mi aveva

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promesso? Sul mio sedile rivestito di pelle c'era un buchino. Ci infilai il dito e lo allargai per bene. A volte si riesce a trovare dei soldi in posti del genere. Ma io ci trovai solo spugna e molle. In quattro ore avrei potuto trivellare con il dito almeno tre vagoni, scavare un tunnel verso la libertà, scomparire e non arrivare più dallo zio Shemuel Shilhav (alias Feierberg): voglio proprio vedere se mi ci mandano ancora. Il dito si fermò ben prima dei tre vagoni. Mi sdraiai sulla panca con le gambe in su. Sono in trappola. Sono un prigioniero errante. Condotto dal giudice. Mi sono caduti i soldi dalla tasca. Le monete rotolano per tuello scompartimento. Qualcuna la ritrovo, le altre no. In famiglia tutti i ragazzi prima o poi vengono sottoposti dallo zio Shilhav a questa terapia d'urto, una cerimonia di torture che Gabi chiama "ordalia". Ma per me questa sarà la seconda volta. Non s'è mai visto un bambino che l'abbia subita due volte e ne sia uscito indenne. Saltai sul sedile e cominciai a picchiare sulla parete dello scompartimento. Poi andai a ritmo. Chissà, magari nell'altro vagone c'era un prigioniero inconsolabile come me che desiderava entrare in contatto con un compagno di sventura. Chissà, forse il treno era pieno di giovani delinquenti diretti da mio zio. Picchiai di nuovo, questa volta con il piede, ma entrò il controllore urlandomi di stare seduto tranquillo. E così feci. La mia prima ordalia mi è bastata per tutta la vita. Fu dopo quel che mi successe con la mucca Pesia Mautner. Quella volta il fratello di papà mi chiuse in una stanzetta soffocante e per due ore filate si dedicò spietatamente a me. Cominciò la chiacchierata con un tono mellifluo, parlando sottovoce, si ricordava persino il mio nome; se non che nel giro di qualche minuto gli capitò una cosa che gli capita sempre: si dimenticò completamente dove e con chi era, e si convinse di trovarsi su un palcoscenico, nella piazza principale della città, davanti a un folto pubblico di allievi e discepoli venuti a rendergli l'ultimo omaggio. E ora, un'altra volta. Perché poi? Non ho fatto niente. «Prima del bar-mitzvah devi ascoltare quel che ha da dirti lo zio Shemuel» aveva detto Gabi. Improvvisamente, eccolo diventato "lo zio Shemuel". Ma io avevo capito. Per riuscire a separarsi da mio papà, Gabi aveva bisogno che io non ci fossi che non le fossi vicino. Mi alzai. In piedi. Mi dondolai. Seduto. Non avrei dovuto partire. Li conosco. Litigheranno e si diranno cose terribili, ora che non sono fra loro, ma non c'è rimedio, adesso ne va del mio destino. "Perché non ne parliamo in ufficio?" papà starà dicendo a Gabi. "Sono già in ritardo." "Perché in ufficio c'è sempre gente che gira intorno o qualcuno che telefona nel bel mezzo della discussione, e non si può parlare. Vieni, dài, andiamo in un caffè." "In un caffè?" risponderà papà sbalordito. "In pieno giorno? E una faccenda così seria?" E lei s'innervosirà, "piantala di prendere tutto sotto gamba", con la punta del naso già rossa, prima di scoppiare a piangere. "Se è di nuovo la stessa storia..." dirà papà con la sua voce secca "scordatela. Non è cambiato niente da quando ne abbiamo parlato l'altra volta. Non me la sento ancora."

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"Questa volta ascolta quel che ho da dirti" dirà Gabi "e lasciami parlare fino alla fine. Almeno ascoltare potresti!" Entreranno nella volante della polizia e papà metterà in moto. I gradi sulle spalle luccicheranno minacciosi. Che aria arcigna. Gabi siederà tutta rannicchiata. Anche se non si diranno nulla, saranno già in guerra. Gabi tirerà fuori dalla borsa uno specchietto rotondo. Guarderà per un istante il volto riflesso e cercherà di legare stretta la sua chioma riccia, quell'ammasso crespo. "Che faccia da scimmia" penserà. «Non è vero!» sbottai, sul treno in corsa. Non le permettevo di insultarsi. «Hai un viso proprio interessante.» Quando poi m'accorgevo che non era convinta, aggiungevo: «Del resto, la cosa più importante è che hai una bellezza interiore». «Già detto» rispondeva acida, «però è strano che non organizzino mai concorsi di bellezza interiore.» All'improvviso mi ritrovai in piedi accanto a una piccola leva rossa fissata alla parete vicino al finestrino. Non era quello il posto giusto per me, nella mia situazione. Una leva così sarebbe capace di fermare un treno intero, se uno accidentalmente la tirasse. Lessi le avvertenze della direzione delle ferrovie. Solo in caso di emergenza era consentito tirare la leva. Per un uso improprio erano previste severe sanzioni, con pene fino all'arresto. Cominciai ad avvertire un prurito alle dita. In punta, ma anche fra un dito e l'altro. Lessi di nuovo, a voce alta e chiara, quelle avvertenze così esplicite. Non servì. Le mani cominciarono a sudare. Le ficcai in tasca. Ma loro subito fuori, e chi non le conosce avrebbe potuto pensare ad arti innocui, che volevano solo prendere aria. Incominciai a sudare. Toccai la catenina che portavo al collo. C'era appeso un proiettile di pistola, pesante, fresco e rassicurante. «Viene dal corpo di tuo papà» mi dissi sottovoce, «gliel'hanno estratto dalla spalla, ti protegge dal commettere delle stupidaggini.» Ma ormai mi sentivo pungere dappertutto. La conosco, quella sensazione, lo so come va a finire. E cominciarono le tiritere: forse il capotreno non riuscirà a scoprire in quale scompartimento è stata abbassata la leva. Ma se nella locomotiva c'è un congegno che segnala dove è stata azionata? Bene, posso tirarla qui e scappare in un altro vagone. E se poi ci trovano le mie impronte digitali? Forse conviene abbassarla con la mano avvolta in un pezzo di stoffa. Non posso permettermi questo genere di discussioni. Quando comincio a fare così, perdo sempre. Gonfiai i muscoli delle spalle e imitai papà, vigoroso e massiccio come un orso; poi mi dissi: "Rilassati", ma non servì a nulla . Avevo un punto caldo in mezzo agli occhi che in momenti del genere diventava ancora più rovente. Ecco, ci siamo quasi: ma all'ultimo momento piegai le ginocchia e bloccai le gambe con le mani, coricandomi così sul sedile. Gabi chiamava questo mio stratagemma "carcerazione preventiva". Aveva una definizione per ogni cosa, Gabi. "Non sono più una bambina" starà ora dicendo a papà, dopo essere entrati nel caffè, "vivo con te e con Nono già da dodici anni." Per il momento domina ancora la voce e parla con calma, con ragionevolezza: "Sono dodici anni che lo allevo, e che mi prendo cura di voi due, in casa vostra. E la conosco come nessun altro al mondo, ma vorrei vivere con te nel vero senso della parola. Non essere solo la tua segretaria al lavoro, la tua cuoca e stiratrice a casa. Vorrei abitare con voi. Essere la madre di Nono anche di notte.

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Cos'è che ti fa così paura, me lo spieghi?" . "Non me la sento ancora" dirà papà, stringendo la tazza di caffè fra le sue mani forti. Gabi sorriderà un istante e respirerà profondamente prima di dire: "E io non me la sento più di andare avanti così". "Guarda eh, Gabi" dirà papà, con lo sguardo che vaga nervoso e impaziente oltre la spalla di lei, "non stiamo mica male così no? Ci siamo abituati a vivere in questo modo, ci troviamo bene tutti e tre, anche il bambino. Perché dovremmo cambiare tutto all'improvviso?" "Perché ho già quarant'anni, Yakov, e vorrei vivere una vita completa, una vita familiare completa." Ora la sua voce comincerà a spezzarsi: "E vorrei che tu e io avessimo un figlio nostro. Mio e tuo. Vorrei proprio sapere cosa salterebbe fuori dalla combinazione di noi due. Se aspettiamo ancora un anno, può darsi che io sia troppo vecchia per avere un figlio. E poi penso che Nono abbia diritto a una madre che viva veramente con lui, non una a mezzo servizio!". Potevo recitare a memoria quel che lei gli avrebbe detto in quel momento. Gabi ripassava insieme a me il suo discorso, e mio era stato il toccante contributo della frase "essere la madre di Nono anche di notte". Le avevo dato anche un consiglio pratico: non piangere. Guai a piangere! Perché, se cominciava con le lacrime, aveva già perso in partenza. Papà non sopportava le sue lacrime. Non sopportava le lacrime in generale. "Non è ancora arrivato il momento, Gab" starà sospirando lui nel dare un'occhiata all'orologio. "Concedimi ancora un po' di tempo. Una decisione del genere non la si può prendere se si è in ansia." "Ho già aspettato dodici anni e non aspetterò più." Silenzio. Lui non risponderà. Lei avrà già gli occhi gonfi. Deve trattenersi. Trattieniti, mi senti? "Yakov, dimmelo ora guardandomi negli occhi: sì o no?" Silenzio. Il doppio mento di lei tremolerà, la bocca sarà storta in una smorfia. Se si mette a piangere, è finita. E lo sono anch'io. "Perché, se è no, mi alzo e me ne vado. Questa volta per sempre. Non come le altre, stavolta è per sempre!" e nell'agitazione darà un colpo al tavolo, con le lacrime che già scorreranno sul suo viso tondo, l'ombretto che colerà sulle lentiggini fino a raccogliersi nelle due fossette intorno alla bocca. Allora papà storcerà lo sguardo in direzione della finestra, perché non sopporta quando lei piange, o forse, semplicemente, non gli piace guardarla quando fa così, con le lacrime, gli occhi gonfi, le guance grassocce e tremolanti. Ora non sarà bella. Ed è un'ingiustizia tremenda, perché, se fosse almeno un po' bella, se per esempio avesse una bocca piccola e graziosa, o un nasino all'insù, magari papà potrebbe provare dell'affetto per quell'unica sua cosa bella. A volte perfino un piccolo neo vezzoso può far innamorare qualcuno, anche se non si tratta di una reginetta di bellezza. Ma quando Gabi piangeva, non aveva nemmeno un piccolo neo vezzoso così. Non mi restava che constatare amaramente il fatto. "Okay, capisco" sospirerà attraverso il fazzoletto rosso, che prima aveva usato per scopi più nobili, "sono proprio scema, mi ero convinta che qualcosa in te potesse cambiare.» "Sst..." la pregherà lui, guardandosi intorno con aria

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intimorita. Spero che ora, al caffè, tutti li stiano guardando. Che tutti i camerieri, i cuochi e i torrefattori siano spuntati fuori dalla cucina e gli stiano intorno con il grembiule e le braccia conserte, a guardare. Se c'è una cosa che lo spaventa è farsi notare da tutti. "Guarda, eh, Gabi" cercherà di calmarla. Questa volta sarà delicato con lei, forse perché si trovano in presenza di estranei, forse perché si sarà accorto che lei fa sul serio: "Dammi ancora un po' di tempo per pensarci, va bene?". "E perché? Perché alla veneranda età di cinquant'anni mi chiedi ancora un po' di tempo? Per poi dirmi di togliermi dai piedi? E chi mi guarda più? Voglio essere madre anch'io, Yakov!" Lui vorrebbe sprofondare, per via degli sguardi della gente, ma Gabi continuerà: "Potrei dare un mare d'amore al bambino, e anche a te! Guarda se non so essere una madre per Nono. Perché non cerchi di capire anche me?". Persino quando faceva davanti a me le prove di quel che gli avrebbe poi detto, Gabi perdeva subito il controllo e si lasciava sopraffare dal dolore, piangeva e mi implorava, come se io fossi stato lui. Poi si fermava all'improvviso, arrossiva e si scusava perché erano cose davvero inadatte alla mia età. Ma io sapevo comunque già tutto. Forse non proprio tutto, ma molte cose le avevo imparate così. Lei raccoglierà i tovagliolini di carta umidicci e li schiaccerà nel posacenere, poi toglierà dagli occhi gonfi quel poco di trucco rimasto. "Oggi è domenica" dirà con la voce che a tratti si spezza. il bar-mitzvah è sabato prossimo. ti dò tempo fino a domenica mattina. Hai una settimana intera per decidere." "Sarebbe un ultimatum? Queste cose non si ottengono con le minacce, Gabi! ti facevo più intelligente." Lui sputerà le parole a bassa voce, ma in mezzo agli occhi s'insinuerà minacciosa la ruga dell'ira. "Non ce la faccio più ad aspettare, Yakov, Per dodici anni sono stata intelligente, e sono rimasta sola. Forse mi sarà più utile essere stupida." Mio padre tacerà. La sua faccia, che è già rossa normalmente, lo diventerà ancora di più. "Dài andiamo al lavoro" dirà lei con voce roca. "Fra l'altro se la tua risposta sarà quella che penso, conviene che cominci a cercarti anche una nuova segretaria. Sarò costretta a troncare ogni legame con te. Sì." "Guarda, eh, Gabi.." ripeterà papà è tutto quel che sa dire. "Fino a domenica" sentenzierà lei uscendo dal caffè. Ci lascerà. Mi lascerà. Sul treno le mie mani e i miei piedi si liberarono dalla stretta della carcerazione preventiva."Emergenza, emergenza" strillavano le parole scritte in rosso accanto alla leva. Io restavo seduto sul treno che s'allontanava mentre laggiù stava per essere distrutta la mia vita. Mi tappai le orecchie con le mani e urlai a me stesso: "Amnon Feierberg! Amnon Feierberg!", quasi che qualcuno da fuori cercasse di avvertirmi: "Non toccare la leva!" per salvarmi da me stesso; qualcuno come papà, o un insegnante o un famoso pedagogo, o persino il direttore di un riformatorio: "Amnon Feierberg! Amnon Feierberg!". Ma ormai nulla serviva più. Ero solo. Abbandonato. Non avrei dovuto partire. Ora mi sentivo costretto a tornare subito. Immediatamente. Mi avvicinai barcollando alla leva, allungai la mano, ci posai le dita sopra, in fondo era davvero

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un'emergenza. Solo che in quel momento, proprio mentre stavo per tirare con forza, alle mie spalle si aprì la porta dello scompartimento, entrarono un poliziotto e un detenuto. Lì in piedi si guardarono, con un'aria piuttosto confusa. CAPITOLO 2. Dico: un poliziotto e un detenuto veri. Il poliziotto era basso e magro, con lo sguardo nervoso. Il detenuto era invece grande e grosso. Mi sorrise e disse tutto allegro: «Buongiorno, bambino! Vai a trovare la nonna?» Non sapevo se la legge mi consentisse di rispondergli. E poi... ma che nonna! Avevo forse l'aria di un bambino che va a trovare la nonna? Come Cappuccetto Rosso? «Non parlare al detenuto!» ordinò il poliziotto con aria rabbiosa, agitando più volte la mano fra me e il prigioniero come se cercasse di tagliare dei fili improvvisamente creatisi fra noi. Mi misi seduto. Non sapevo cosa fare. Cercai di non guardarli, ma è proprio quando ci si sforza che diventa difficile. Sembravano infastiditi, qualcosa li disturbava. Il poliziotto continuava a controllare i biglietti e si grattava la testa con disappunto. Anche il prigioniero li controllò, e pure lui si grattò la testa. Sembravano due attori a cui fosse stato chiesto di mimare l'espressione "lambiccarsi il cervello". «Non capisco, perché hai preso dei posti separati?» protestava il prigioniero. Il poliziotto scrollò le spalle e spiegò che alla biglietteria non glielo avevano detto. Aveva anzi la certezza che fossero vicini, era chiaro che a due come loro non andavano venduti dei posti separati, e dicendo "due come loro" alzò la mano destra, che era ammanettata alla sinistra del prigioniero. Era uno spettacolo strano. Parevano il secondino e il detenuto delle barzellette. Il prigioniero indossava una camicia e un copricapo a strisce, mentre il poliziotto aveva un berretto troppo grande, con la visiera che gli cascava continuamente sugli occhi. In piedi al centro dello scompartimento, dondolavano al ritmo del vagone, senza sapere cosa fare. Chissà perché, la cosa mi inquietava. Prima cercarono di sedersi ai posti indicati sui biglietti, il detenuto di fianco a me e il poliziotto di fronte. Solo che, per via delle manette, si trovarono costretti a chinarsi l'uno verso l'altro. Poi di botto si alzarono e si lasciarono dondolare di nuovo dal ritmo del treno, il che forse contribuì a calmarli: la testa del prigioniero a un certo punto si afflosciò sulla spalla del poliziotto, che a sua volta parve sul punto di appisolarsi. Avevo voglia di andarmene, volevo chiamare un adulto e farlo stare lì con me, perché quei due non mi sembravano proprio adulti, ma nemmeno bambini, erano qualcosa che non potevo definire. All'improvviso il poliziotto si riscosse da quello strano torpore e sussurrò qualcosa al prigioniero. Non riuscii a sentire, ma stavano parlando di me, perché il prigioniero mi lanciò uno sguardo di traverso, così un tipico sguardo circospetto da detenuto. «Assolutamente no!» bisbigliò con tono imperioso. «Non si fa una cosa del genere! Insomma, abbiamo dei posti fissati!» Il poliziotto cercò di calmarlo, gli disse che comunque la carrozza era

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praticamente vuota e che in un caso eccezionale come il loro era permesso occupare anche posti non espressamente segnati sui biglietti. Il detenuto non voleva sentire ragioni: «Bisogna fare le cose in regola!» s'arrabbiò, «se non rispettiamo noi la legge, chi lo farà?». Quando per la collera batté un colpo con il piede m'accorsi che gli avevano legato una grossa palla di ferro, come quelle che hanno i carcerati nei libri. Devo andarmene di qui, pensai. Non sono a mio agio. «Nessuno noterà se per qualche minuto ci sediamo in posti che non sono i nostri!» gli rispose il poliziotto in un bisbiglio rabbioso, lanciandomi al tempo stesso uno sguardo accomodante da galeotto pieno di complessi di colpa, che accompagnò con un sorriso stentato. «Non è che ci farai la spia, vero, tesorino?» Feci segno di no, perché non riuscii a proferire parola. Ma dentro di me presi nota di quel "tesorino". I due si sedettero ai miei fianchi. Con tutto il vagone a loro disposizione, dovevano proprio venire a sedersi uno alla mia destra e uno alla mia sinistra! Le loro mani, unite dalle manette di ferro, poggiavano sulle mie gambe, e questo mi mise una certa paura. Come se si fossero accordati per minacciarmi, ma senza degnarmi della minima considerazione. Per qualche minuto regnò un silenzio totale, il mio sguardo scivolava costantemente verso il basso e ogni volta mi sembrava incredibile: sopra le mie gambe, al ritmo el treno, dondolavano due braccia, una esile e pelosa, l'altra glabra e grossa, la legge e il crimine, anche se il braccio della legge sembrava indiscutibilmente più debole e corto. Non so di cosa avessi paura. La giustizia era al mio fianco, praticamente appoggiata a me, eppure mi sentivo preso in una trappola misteriosa: quei due mi stavano rendendo complice di un losco affare. Comunque si erano sistemati e messi comodi. Il poliziotto appoggiò la testa allo schienale e cominciò a cantare un motivetto melodioso. Per sostenersi nelle note più acute si arricciava i baffi appuntiti con la mano libera. Il prigioniero guardava fuori dal finestrino il paesaggio che scorreva, i monti rocciosi di Gerusalemme, sospirando rumorosamente. «Se qualcuno desta dei sospetti, se hai dei dubbi su di lui, aspetta con pazienza. Non parlare troppo, non muoverti troppo, lascialo parlare e agire. Tendigli un agguato silenzioso. Aspetta che riveli le sue intenzioni.» Così mi aveva insegnato papà, il mio istruttore in materia d'investigazioni. Respirai profondamente. Eccomi alla prima occasione di prova in una situazione reale. Li ignorerò. Mi comporterò come se fosse tutto normale, finché loro commetteranno il primo errore. Un'occhiata a destra. Una a sinistra. Loro, come se niente fosse. Il tutto sembrava un errore madornale, e io non capivo in cosa consistesse. Devo assolutamente prepararmi all'incontro con lo zio Shemuel mi dissi. La volta scorsa, un anno fa, mi ha parlato per due ore, ma non le reggerò. Per due ore filate avevo guardato le sue labbra grassocce che si muovevano davanti a me, si aprivano e si chiudevano sotto i baffetti. Sapevo che tutte le ricerche e gli articoli dello zio erano rivolti contro di me, o comunque contro i bambini del mio stampo, in quella stanzetta, per mesi e anni era rimasto a scri-vere contro di me. Quando mi vide capitare sotto le sue grinfie forse possedeva una mia gigantografia con la scritta: RICERcATo DAL MINISTERO DELL'EDUCAZIONE, e uno come lui non si sarebbe certo lasciato sfuggire una simile occasione- Mi sentii affannato e oppresso, la stanza

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s'andava riempiendo di una marea di labbra grassocce, che s'aprivano e si chiudevano Velocemente e dalle quali saltavano fuori schiere di zii della famiglia dei labiati. Libri e manuali fremevano intorno a me, sussurrando ritmicamente il mio nome. Sentivo che stavo per prendermi un'intossicazione da pedagogia. Non riuscivo più a distinguere le parole che lui pronunciava. Mi sembrava che mi stesse rimproverando per avere collaborato con i falsi profeti di Baal e Astarte, se non addirittura per aver preso parte al pogrom di quell'antisemita di Chameneltzki. Tutta la Storia stava lì al suo fianco, e io ero ormai pronto a confessare. Allora, dopo due ore baffute, mi venne in mente quel che mi aveva consigliato Gabi prima della partenza «Quando diventa insopportabile, piangi» mi aveva Sussurrato la sera della vigilia, «piangi sconsolatamente, e vedrai cosa succede....» Uno sguardo a sinistra. Uno a destra- Nulla. Il poliziotto e il detenuto stavano nel più assoluto silenzio. Uno guardava di qua, l'altro di là. Forse non c'era davvero niente di preoccupante in quella situazione. Forse ero solo emozionato per il viaggio. Forse anche a loro avevano insegnato come combattere una guerra di nervi. Mi feci venire in mente lo zio Shemuel, e il seguito di com'era andata la volta precedente. Non mi era mai stato difficile piangere, e in presenza del vulcanico zio mi sentivo davvero disarmato Mi era venuto facile sentirmi stringere in gola e farmi venire il groppo, quel grumo denso e aspro di tutte le cose che mi erano successe, che mi erano state dette, che mi mancavano. Cominciai a piagnucolare, dei lamenti sommessi, soffocati. Per diventare ancora più triste mi feci venire in mente quel che diceva papà, quando si lamentava di non saper più cosa fare con un bambino come me, o affermava che proprio quando davo l'impressione di essere cresciuto e più maturo, scivolavo e ricadevo indietro; e poi, com'era possibile che da uno come lui fosse venuto fuori uno come me? Sapevo che aveva ragione, ma cosa pensava? Che io non volessi smetterla di essere così? E allora ecco che piangevo sul serio, perché con me le cose si guastavano sempre e finivano per essere diverse da come volevo; anche adesso, in questo preciso momento, la mia tristezza viene fuori diversa da come volevo, perché venendo fuori, la tristezza, si è imbattuta nell'immagine dei piedini dello zio, con i minuscoli sandali e le calze grigie di lana, la cravatta anche d'estate, i pantaloni di terital logorati da generazioni di alunni educati sulle sue ginocchia- com'era triste e buffo! Così piangevo e ridevo, mi angustiavo e singhiozzavo, un po' sul serio e un po' per finta, e questo strano miscuglio aveva un suo gusto speciale, un po' come mangiare cioccolato all'insaputa del dentista, e il mio corpo sussultava in un pianto di rimorso e di autocommiserazione, oltre che di riconoscenza verso quest'uomo, protettore della mia anima peccatrice e delinquente. Lo zio Shemuel smise di parlare. Mi guardò esterrefatto, assumendo un'aria tenera e raggiante. Nella penombra della stanza vidi come un'aureola di sorriso attonito, compiaciuto, aleggiargli intorno ai baffi. «Su, su» borbottò, con la mano che incombeva titubante sopra la mia testa, «non immaginavo che le mie parole facessero questo effetto... cosa avrò detto... nient'altro che cose semplici, venute dal cuore... Yempa!» tuonò improvvisamente con la sua voce stentorea, e per un attimo credetti erroneamente che fosse l'antico grido di vittoria di illustri pedagoghi, dopo che hanno sconfitto le forze oscure del male. Lui si

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sfregò nervosamente le mani e, senza degnarmi d'uno sguardo, uscì dalla stanza. Fuori lo sentii chiamare di nuovo, con un tono stranamente lieve, la signora Yempa, la donna che gli faceva le pulizie e cucinava, perché venisse a calmarmi. Il pianto l'avevo dunque già sfruttato nella mia precedente ordalia: cosa avrei fatto ora? La notte precedente Gabi non mi aveva rivelato nessun segreto capace di salvarmi quando mi sarei trovato a tu per tu con lo zio. E lei sola con papà. E se ne andrà davvero. D'un tratto non ce la feci più a starmene seduto così, fra quei due tipi strani e taciturni. Mi alzai, o tentai di farlo, e quelli si spaventarono, saltarono su tutti e due, alzando insieme le braccia legate per farmi passare e mettendosi in piedi davanti a me. Ripresero subito quel loro dondolio ritmato, avanti e indietro, con le palpebre abbassate, come dei pulcini addormentati, mentre io, per l'angoscia, gridai: «Perché non ci scambiamo i posti, così potete sedervi vicini?.» La mia voce suonò soffocata e stridula, ma loro mi fecero un bel sorriso largo e cominciarono subito a girarmi intorno, cercando di accerchiarmi senza farmi urtare le manette; danzammo così per qualche attimo gesticolando, finché i due trovarono la strada e si sedettero l'uno di fianco all'altro. Crollai sul posto di fronte a loro. «Ma senza guardare!» ruggì il poliziotto, facendo un cenno minaccioso al detenuto. «Giuro che non ho guardato!» gridò quello, mettendosi una mano sul cuore. «Prima ho visto il tuo occhio puntato su di me!» Il poliziotto era furioso. «Lo giuro su mia figlia che non ti ho guardato! Mi hai forse visto guardarlo?» Questa domanda la rivolse a me. Ma cosa c'entro io? Cosa c'entro con loro? Il poliziotto si chinò su di me, in attesa della risposta. Era così ansioso che si rosicchiava la punta dei baffi. Ogni gesto di quei due era esagerato e fastidioso, ma per certi versi anche simpatico. Avevo voglia di scappare via, eppure non riuscivo a muovermi. «Io... mi sembra che un po' l'hai guardato» mi lasciai sfuggire. «Ah!» il poliziotto drizzò il dito con aria trionfale, «se mi guardi ancora una volta, non lo tollererò più!» Di nuovo silenzio. Il detenuto teneva lo sguardo fisso sul finestrino. Attraversammo un bosco di querce. Un gregge di capre brucava nei cespugli bassi e una di esse si sollevò sulle zampe posteriori per ingozzarsi direttamente da un albero. Il poliziotto aveva lo sguardo rivolto dall'altra parte, verso la porta del corridoio. Avevo paura di guardare da entrambe le parti, ma avevo anche paura di chiudere gli occhi. Volevo solo dileguarmi. «Adesso hai guardato!» urlò il poliziotto, saltando vigorosamente in piedi ma ricadendo subito al suo posto, trattenuto dalle manette. «Hai guardato!» «Giuro su mia figlia che non ho guardato!» gridò il detenuto, che saltò su agitando furiosamente la mano e ricadde anche lui, a causa delle manette. «Anche adesso stai guardando!» tuonò il poliziotto, «mi stai guardando dritto negli occhi! Piantala! Abbassa lo sguardo!» Ma questa volta il detenuto non cedette e accostò la testa al poliziotto. Cosa stava succedendo? Cosa stava avvenendo fra loro? Una strana lotta di sguardi: occhi che fissavano e occhi che cercavano di non farlo. Il detenuto era sempre più proteso verso il poliziotto, e più quest'ultimo cercava di sfuggire al suo sguardo, più il detenuto si contorceva per catturare i suoi occhi. Ora gli era quasi addosso! «Senti... Lasciami andare...» si udì improvvisamente la voce sommessa del detenuto. «Zitto!» gemette il poliziotto con la voce rotta. «Zitto e guarda dal

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finestrino! Non i miei occhi! Guarda solo dal finestrino!» «Lasciami andare...» disse piano il detenuto al poliziotto spaventato, con un tono diverso, carezzevole e strisciante. «Non sono colpevole... Io sai che non avevo scelta...» «Questo lo dirai al giudice!» sibilò il poliziotto a denti stretti. «Fammi questo favore. Ho una figlia piccola a casa che mi aspetta...» «Anch'io! Al finestrino!» Allora il detenuto si mise a fissare quasi con violenza il poliziotto, come per costringerlo, piano piano, a voltarsi. Era una cosa che dava fastidio, che suscitava una tenebrosa paura: il poliziotto cercò di opporre resistenza. Mi accorsi che lottava per distogliere il volto dal suo prigioniero, stringeva le spalle nello sforzo di evitare quello sguardo. Solo che quello sguardo si rivelò più forte, più audace, più costante. Gli occhi del detenuto perforavano la testa del poliziotto, che lentamente cedeva: il suo respiro si fece più profondo, le spalle cascarono un po'; prese a lanciare vaghe occhiate al detenuto, lasciandosi sfuggire qualche risatina infantile, mentre gli occhi gli si fecero pesanti, stanchi, strabuzzati... «Hai avuto una brutta giornata, Avigdor...» disse il detenuto con voce carezzevole, molto bassa, «inseguirmi, correre su e giù per i vicoli, spararmi, urlare contro di me, essere sempre così ligio alla legge...» La bocca del poliziotto si schiuse leggermente. Le sue pupille roteavano rivolte verso l'alto. «E' dura fare il rappresentante della legge...» gli sussurrò teneramente il detenuto, «non un attimo di pace... e che responsabilità...» Mi accorsi che anch'io ero rimasto a bocca aperta. Mio papà diceva proprio le stesse cose! Tornava la sera dal lavoro e s'accasciava sfinito in poltrona, pronunciando le stesse, identiche parole, non so se a me o a se stesso, lamentandosi delle difficoltà e delle responsabilità, sospirando che non c'era mai un attimo di pace. In quei momenti pensavo che, se avessimo avuto una mamma, sarebbe venuta a massaggiargli la nuca. Ma noi avevamo solo Gabi, e lei non osava. Con un gesto disinvolto il prigioniero allungò la mano verso la cintura del poliziotto addormentato e ne sfilò un grosso mazzo di chiavi. Ce ne saranno state dieci. Ne scelse una, l'infilò nella serratura delle manette e le aprì. Tutto compiaciuto, piegò in ogni direzione la mano appena liberata. Sul polso c'era un segno rosso vivo. «Già solo per questo momento è valsa la pena farsi ammanettare» mi disse. Poi si tolse la camicia a strisce e il berretto da carcerato, posandoli sul sedile accanto a me. Ero paralizzato. Capivo benissimo che stava per scappare, che ero testimone di un classico caso di evasione, e io, proprio io, con tutta la mia esperienza e i miei esercizi, e col papà che mi ritrovavo, non ero in grado di muovere un dito. «Me la puoi tenere un momento?» mi chiese con fare simpatico, mettendomi in mano la nera pistola che aveva estratto dalla cintura del poliziotto. La riconobbi subito: una pistola d'ordinanza modello Wembley. Papà ne aveva una uguale, l'avevo tenuta in mano già almeno mille volte. Avevo persino sparato dei proiettili a salve, al poligono di tiro della polizia. Ma non mi ero mai trovato in una situazione del genere, con una pistola in mano di fronte a un vero criminale: cosa avrei potuto fare? Ucciderlo? Il mio dito tremava, sfiorava il grilletto, si ritirava. Ma va', sparargli! Cosa mi aveva fatto? In quel momento pregai di vedere la faccia tonda dello zio Shemuel. Sarei corso a gettarmi fra le sue braccia, sarei diventato un

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modello di buona educazione per il resto della vita. «Grazie molte davvero» disse il detenuto, riprendendosi la pistola e ficcandosela nella cintura. Poi, educatamente, come se stesse spogliando un neonato che dorme, sbottonò la camicia del poliziotto e gliela tolse. L'altro, quell'Avigdor, continuò a dormire anche in canottiera, senza nemmeno sognare di svegliarsi. Scosso, scrollato, rigirato da una parte e dall'altra: e lui giù a dormire! Ce l'avevo a morte con quel tale: pensavo a mio papà che, nei suoi vent'anni di servizio, nemmeno una volta era arrivato in ritardo al lavoro; e che partecipava alle operazioni più rischiose, anche quando aveva la febbre. Mentre questo... Venduto. Lesto lesto il detenuto gli mise la camicia a strisce e il berretto. Poi si liberò della palla al piede e legò la catena alla caviglia del poliziotto. Così corpulento, fece fatica a infilarsi la camicia della striminzita divisa del poliziotto, poi si mise il berretto con la visiera e andò al finestrino. "Un buon detective pensa come un criminale." Sapevo anche questo, e capii esattamente cosa stava per succedere: avrebbe tirato su il vetro e sarebbe saltato fuori dal treno in corsa, per scappare così travestito; allora mi dissi: "Adesso!" e mi ordinai: "Salta! ". Nulla. Per un lungo momento il detenuto guardò il paesaggio roccioso che scorreva, poi respirò a pieni polmoni l'aria di libertà, sospirò e si sedette di nuovo accanto al poliziotto addormentato. Rimise tristemente la mano nella manetta aperta che penzolava dal braccio del ghiro e, con una leggera pressione, se la chiuse sul polso. I due erano di nuovo legati l'uno all'altro. «Sveglia! Ti sei addormentato» disse d'un tratto brutalmente, scuotendo la spalla del poliziotto. Quello si scosse e si guardò intorno con aria sbigottita. «Cos'è successo?» chiese. «Cos'ho fatto? Non ho fatto niente!» «Ti sei addormentato!» urlò con tono di rimprovero l'ex detenuto, piazzando la sua faccia con il berretto a visiera sotto lo sguardo del poliziotto. «Non dormivo...» mormorò lui, e tacque, mentre tastava debolmente le manette. La sua mano scese lungo la gamba fino alla palla al piede. Le dita percorsero tristemente la catena e arrivarono al grosso globo di ferro, dove si fermarono, incredule. Tacque. Aggrottò la fronte, come tentando di farsi venire in mente qualcosa. Ma rinunciò. Rimase inerte e floscio come un sacco vuoto. Passarono minuti tremendi. L'ex poliziotto rivolse un umile sguardo all'uomo che gli sedeva di fianco, in divisa. «Lasciami andare...» sussurrò. «Zitto!» ruggì l'ex detenuto. «Non sono colpevole...» implorò l'ex poliziotto, «sai che io non.... «Questo lo dirai al giudice» sbottò con indifferenza l'energumeno. «Il giudice...?» chiese l'ex poliziotto, e ammutolì. Restò rannicchiato al suo posto con i baffi spioventi. Strano, pensai, come gli si addiceva la parte del detenuto. Fu il pensiero più profondo che riuscii a produrre in quel momento. «Fammi questo favore...» riprese con un sorriso pietoso, «ho una figlia piccola a casa che mi aspetta...» «Anch'io» tagliò corto il galeotto in congedo; poi, dopo avere dato un'occhiata all'orologio, decretò: «In piedi! Sull'attenti! Bisogna sbrigarsi!.» «Dove andiamo?» chiese il poliziotto, impallidito. «In tribunale!» sentenziò il detenuto. «Avanti, marsch!» «Così presto?» sussurrò il poliziotto e, con le gambe molli, s'avviò. Il

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corpulento detenuto lo guidò fuori dallo scompartimento, poi chiuse la porta. Finito. Non potei muovermi. Per una frazione di secondo vidi il volto dell'ex detenuto apparire ancora una volta nel riquadro di vetro della porta, quel viso grande, sorridente, davvero amabile. Mi guardò, si mise un dito sulle labbra, come chiedendomi di mantenere il segreto su quel che avevo visto. Un solo istante... e sparì. Finito. Fu un momento difficile. Anche ora che lo rievoco, a quasi trent'anni di distanza, non mi è semplice: sento la necessità di far svanire la mia angoscia e comunicare che, a partire dal prossimo capitolo, ho intenzione di introdurre nel libro una piccola novità: dare a ogni capitolo un titoletto. Un accenno a ciò che vi verrà raccontato. O anche un nomignolo affettuoso. Avrei voluto che il treno si fermasse e facesse marcia indietro, per tornare a casa, da papà e Gabi, ma soprattutto da papà, perché in fondo il crimine era il suo campo e io evidentemente non ero ancora abbastanza forte per queste cose, scusatemi se vi ho deluso. Solo che in quel momento vidi la busta bianca sul sedile davanti al mio. Il posto dell'ex detenuto. Prima non c'era. Non c'era nemmeno prima che il detenuto e il poliziotto facessero la loro apparizione nello scompartimento. Ma la cosa più strana era che sopra c'era scritto il mio nome in stampatello, e in una grafia che conoscevo.

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CAPITOLO 3. ANCHE GLI ELEFANTI SONO DELICATI Di SENTIMENTO. "Salute al festeggiato, che gli dei ti allunghino la vita e ti accorcino il naso. Spero che non ti sia troppo emozionato per la sorpresina che ti abbiamo fatto, tuo padre e io. E se ti sei un po' spaventato, speriamo che tu possa in fretta perdonare i tuoi sciagurati servitori." Che fare? Strillare? Aprire il finestrino e urlare al paesaggio: "Sono scemo"? Rivolgersi all'Onu, che si occupa dei problemi dei bambini nel mondo, e sporgere denuncia contro papà e Gabi per quello che mi hanno fatto? "Ma prima di rivolgerti, come tuo solito, all'Onu per sporgere denuncia contro di noi" continuava Gabi nella sua lettera "ti conviene aspettare ancora un momento: primo, perché all'Onu si sono stancati di decifrare i tuoi scarabocchi; secondo, perché si usa dare agli imputati la possibilità di dire la loro, prima di decretarne la sorte." Le parole mi ballavano davanti agli occhi e fui costretto a smettere di leggere. Come avevano fatto, papà e Gabi? Quando erano riusciti a organizzare una simile operazione? Quando gliene era venuta l'idea, e dove avevano pescato quei due, il poliziotto e il detenuto? Possibile che...? Ma era chiaro... che imbecille... piegai indietro la testa e chiusi gli occhi: forse erano solo due attori... e se ora corressi a cercarli negli altri vagoni... Ma forse si sono già tolti gli abiti di scena, forse non li riconoscerei più, in mezzo agli altri viaggiatori... Mi misi a fissare il panorama, non riuscivo a continuare la lettura. L'idea era venuta a lei, di questo ero sicuro. Sentivo un certo rimorso, perché non ero poi così entusiasta di quel che mi aveva preparato, e me ne stavo lì inebetito, un po' depresso, senza sapere perché. O forse perché la sorpresa era stata così eccessiva che nel cuore non mi era rimasto più posto per l'entusiasmo. Se avesse dei figli suoi, pensai, e m'interruppi. Non era bello nemmeno pensarla, una cosa del genere. Ma Gabi, sul serio, talvolta si divertiva a stupire, a impressionare, a imbarazzare la gente, oppure a dire ad alta voce cose terribili, da non pronunciarsi mai. Papà le aveva già fatto notare una volta che doveva essere molto stancante comportarsi sempre in modo così eccentrico, e lei gli aveva risposto prontamente che lui, con tutti i suoi sforzi per non farsi notare, si era ormai completamente appiattito. Gabi sapeva discutere, meglio non cadere nelle sue grinfie. Non che papà fosse muto: a ogni discussione le diceva un'unica, inequivocabile frase, che la trafiggeva come un coltello. Glielo si leggeva in faccia che era stata colpita: ansimava sbigottita, agitava le mani, si sentiva mancare l'aria e le parole. Dopo, e per anni, quella frase sarebbe tornata a tormentarla, anche se papà si era scusato e le aveva assicurato che era stata detta tanto per dire, perché era arrabbiato, ma lei e la sua offesa erano ormai inseparabili. Insomma, durante quella litigata lui le aveva detto qualcosa sulla sua mancanza di sensibilità e sul fatto che aveva anche una pelle d'elefante, e per via di quell"'anche", con l'oltraggiosa allusione a un ulteriore "elefantismo", lei s'era alzata e se n'era andata da casa nostra. Una cosa così capitava regolarmente a distanza di qualche mese. Gabi spariva. In ufficio si rivolgeva a papà con esagerata cortesia e con il calore di un sasso; eseguiva i suoi ordini, gli scriveva a macchina i verbali, e basta. Niente sorrisi.

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Niente rapporti personali. Di nascosto mi telefonava due volte al giorno e ci parlavamo come al solito, mettendoci d'accordo su come farlo soccombere senza traumi. Nel giro di una settimana papà cominciava a cedere. Brontolava che era stufo di mangiare sempre alla mensa della polizia e che le camicie, stirate da lui, gridavano vendetta, che casa nostra era lurida come al mattino la cella del fermo di polizia. Io evitavo di farmi coinvolgere nel litigio per il quale cercava degli appigli e tacevo. Non stavo a ricordargli che Gabi non era la nostra serva e che si prendeva cura di casa nostra solo perché era una persona di buon cuore, oltre che allergica alla polvere. Capivo che aveva nostalgia di lei non come cuoca o stiratrice, ma come Gabi, e perché era abituato a vedersela in casa, con la sua parlantina inarrestabile, le sue frenesie e le sue battute, alle quali doveva sforzarsi per non ridere. Sapevo che Gabi gli mancava anche perché, grazie a lei, faceva meno fatica a vivere con me. Perché era proprio così, perché noi due avevamo bisogno di avere Gabi tra noi, per sentirci più vicini l'uno all'altro... come spiegarlo? Era un bene che Gabi fosse con noi, a fare di noi due qualcosa come una famiglia. Così trascorrevano giorni di brontolii e sbuffate. Papà inventava dei pretesti per dirle qualcosa di più personale, in ufficio, lei s'irrigidiva e diceva che si aspettava da lui una maggiore chiarezza, che non capiva quelle sottili allusioni, per un certo suo problema di pelle. Lui la implorava di tornare, le prometteva che si sarebbe comportato meglio, e lei dichiarava di aver preso nota della sua richiesta, che entro trenta giorni al più tardi avrebbe comunicato la sua decisione in proposito. Papà si metteva la testa fra le mani e urlava che trenta giorni erano una follia, esigendo che facesse immediatamente la pace! Gabi alzava gli occhi al soffitto e dichiarava col tono di un annuncio al supermercato che, prima di qualunque accordo, intendeva sottoporgli un ECNT, Elenco Condizioni Nuovo Trattamento. Poi se ne usciva a testa alta. Mi telefonava subito, dichiarando sottovoce che il vecchio scorbutico si era di nuovo arreso su tutti i fronti, e che quella sera saremmo andati a mangiare tutti insieme al ristorante orientale, cosa che puntualmente avveniva. In quelle sere di pace ritrovata papà sembrava quasi allegro. Beveva due o tre birre e gli luccicavano gli occhi. Ci raccontava delle storie che avevamo già sentito: quando aveva beccato il mercante di gioielli giapponese e scoperto che erano falsi tutti e due, il mercante e i gioielli; o di quando era rimasto nascosto per tre giorni dentro una cuccia, insieme a un'enorme boxer femmina con tanto di pedigree e pulci, tutto per acciuffare un ladro di cani professionista, venuto dall'estero apposta per quella cagna. Ogni tanto papà si fermava e chiedeva sospettoso se non avesse per caso già raccontato queste storie, e noi due facevamo segno di no, certo che no, ma dài, continua, e guardandolo pensavo: una volta è stato giovane, e ha avuto ogni sorta di avventure, poi per una cosa che gli è successa, tutto si è interrotto. Ed eccomi seduto nello scompartimento del treno in corsa Pensavo che mi ci sarebbero volute delle settimane per digerire quello che mi era appena successo. Quei due, il detenuto e il poliziotto, con le mani ammanettate su di me, e la pretesa che giudicassi se il detenuto aveva guardato il poliziotto negli occhi. E il detenuto che mi aveva dato la pistola, e il mio dito tremante sul grilletto, e io pronto a giurare che sarebbe

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fuggito dal finestrino... Per farla breve, ero come due bambini che, usciti dal cinema, si ricordano a vicenda di questo e di quello. Solo che, in confronto a quei due bambini eccitati dal film, io non ero affatto allegro. Più ricostruivo quel che era successo, più mi arrabbiavo. Non capisco come papà abbia potuto reggere tutti questi anni con Gabi, pensai. Se avesse dei figli suoi, se fosse madre davvero, non avrebbe fatto una cosa del genere a uno di essi. Avrebbe intuito come suo figlio si sarebbe sentito dopo una simile sorpresa. Ero anche offeso. Non perché lei fosse riuscita a farmela. Era una cosa diversa. Improvvisamente avevo capito che ero ancora un bambino, al quale i grandi potevano combinare una cosa del genere. Papà era complice, senza dubbio. Gabi aveva ideato lo spettacolo e scritto le parti dei due attori, ma papà era responsabile dell'organizzazione. All'inizio lei avrà dovuto convincerlo che si trattava di un'operazione piuttosto semplice e di fronte alla sua titubanza avrà detto di trovare sorprendente che proprio lui fosse preso dal panico per un'operazione così banale. Sono sicurissimo che abbia usato la parola "operazione", per dargli una scossa. Lui esitava, so che era indeciso. Ci sono cose su cui papà mi capisce al volo, non per niente esiste l'ereditarietà. Pensava che fosse un po' esagerato mettere in scena per un bambino uno spettacolo così complicato, probabilmente non avrei colto l'umorismo. Lei si era messa a ridere, dandogli del reazionario e massimalista, magari avesse avuto un quarto del mio senso dell'umorismo, poi aveva insinuato, come a se stessa, che prima di diventare una persona così ligia era stato famoso per le sue prodezze; o forse tutto quel che le era stato raccontato erano pure fantasie? A questo punto lui non aveva più avuto scelta, trovandosi costretto a dimostrarle che era ancora un tipo audace, pieno di fantasia e umorismo come in gioventù, quando scorrazzava per le strade di Gerusalemme con la sua piantina di pomodori; così erano finiti a contendersi il primato in fatto di originalità e trovate, dimenticandosi totalmente del festeggiato, cioè di me. Nello scompartimento fiutavo ancora l'acido sudore del detenuto e del poliziotto. Magari avessi potuto chiedergli come si erano preparati per la messinscena, se avevano fatto fatica a imparare le battute a memoria, e dove avevano preso i costumi, e la palla di ferro, e quanto era costato allestire quello spettacolo solo per me. Avranno anche dovuto pagare i biglietti del treno, a meno che papà e Gabi non avessero prenotato tutti i posti, perché nessuno rovinasse lo scherzo... Che operazione complessa. Lentamente la mia rabbia si placò. In fondo, l'avevano fatto a fin di bene. Volevano divertirmi. Avevano speso molti soldi. Davvero bello da parte loro... proprio divertente. Me ne stavo così seduto mormorando fra me e me, finché, un po' rincuorato, potei riprendere a leggere la lettera, accorgendomi subito che la grafia era cambiata: "L'idea, come al solito, è della signora Gabriela" annunciava la spessa, arzigogolata e vistosa scrittura di papà, "la quale, dopo avermi convinto di quanto ti saresti divertito, si è messa paura da sola, la nostra cara signora, perché forse era troppo forte e avrebbe potuto traumatizzarti, ma io le ho detto... indovini di sicuro quel che le ho detto." Che lui alla mia età mandava avanti praticamente da solo la fabbrica di biscotti di suo padre, e che la vita non è un'agenzia di assicurazioni. "Esatto!" esclamò la piccola e tondeggiante scrittura di

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Gabi. "E visto che tuo padre, in veste di membro della polizia israeliana, non è in grado di lasciarti in eredità nemmeno uno straccio di fabbrica, ma solo ricchi debiti" (e qui Gabi aveva fatto gocciolare qualche liquido sulla carta, cerchiando le gocce e scrivendo a margine: "lacrime di coccodrillo e della sua segretaria"), "ha almeno il dovere di irrobustirti e prepararti per quando sarai grande, per una vita di battaglie, sfide e pericoli. Prima di tutto, pulcino mio, debbo dirti fin d'ora che, contrariamente a quanto ti aspetti, non vedrai l'adorato zietto, il dottor Shemuel Shilhav. Qui faccio una breve pausa per lasciarti solo con il tuo dolore." Un ignoto contadino bruciato dal sole e con i capelli bianchi, che attraversava il campo vicino alla ferrovia su un carretto tirato da un mulo, fu atterrito dal tremendo grido di gioia esploso dalla bocca di un bambino dai capelli corti affacciato al finestrino di un treno in corsa. "Mi dispiace, bambino mio trascurato, se abbiamo dovuto essere crudeli con te, facendoti credere che andavi a Haifa, dritto nelle fauci di un illustre pedagogo della famiglia dei rapaci notturni. Solo che, per poterti sorprendere, dovevamo distoglierti da ogni sospetto, e siamo ahimè stati costretti a usare i mezzi più meschini; per questo ci cospargiamo il capo di cenere e ti chiediamo scusa." Anch'io feci una riverenza alla loro immagine, che per un istante si stagliò davanti ai miei occhi: papà in piedi, tozzo e largo, che si scrocchia le dita con imbarazzo, e Gabi che fa l'inchino come una ballerina classica, con gli occhi che ridono, rivolti verso di me. Ero completamente frastornato dagli avvenimenti dell'ultima ora: sfumava la prostrazione dovuta al viaggio e a quello scherzo crudele, mentre la mia piccola anima si sovraccaricava di scosse fra l'emozione e l'attesa. Mi sentivo come la vasca del famoso problema di matematica. La grafia rigida e scura invadeva quella tondeggiante e mossa: "Tredici anni sono un'età speciale, Nono. E' l'età in cui viene richiesto di assumere la responsabilità delle proprie azioni e del proprio comportamento. Io, alla tua età, fui costretto, a causa delle tragedie che colpirono il popolo ebraico...". Una lunga riga storta attraverso il foglio diceva che una mano misteriosa, grassoccia e agile, aveva tirato via la carta da lettera da sotto la penna in procinto d'indugiare sui propri ricordi: "Tuo padre si dimentica che queste non sono le istruzioni ai sottoposti prima dell'operazione" precisava la scrittura di lei, "a volte mi domando se è poi davvero così diverso da suo fratello maggiore...". "A tredici anni non si è più considerati bambini" affermava nuovamente papà con la sua penna nera, "e spero che tu non smentisca questa verità. Purtroppo..." A questo punto c'erano tre righe vuote. M'immaginavo la discussione nella nostra cucina. Quel che aveva detto lei, quel che aveva detto lui; lei che si arrabbiava e pestava i piedi, lui che s'intestardiva sul fatto che bisognava sfruttare ogni occasione per cercare di darmi un'educazione; il più forte, come al solito, vinceva. "Ora che ho finalmente convinto tuo padre a tarsi una tazza di caffè, posso continuare a scriverti senza interferenze" proseguiva Gabi. La sua scrittura d'improvviso era più veloce e agitata: "Nono mio, il tuo vecchio malmostoso ha ragione, come sempre: tredici anni non sono un'età qualunque. E' un'età in cui si comincia a essere grandi. Mi auguro che diventerai un adulto simpatico, così come sei simpatico da bambino". Ora scriverà: "Gabi sviolinava", oppure: "Gabi

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porge ossequio al giovane ereditiero" come fa sempre dopo ogni complimento. Invece no. "Noi due volevamo prepararti qualcosa di speciale per il bar-mitzvah, oltre alla festa di sabato e alla macchina fotografica che papà ti ha promesso. Qualcosa che non si potesse comprare, qualcosa che ti avrebbe ricordato per sempre come eravamo noi tre, papà, tu e io, quando eri ancora un bambino." Nel leggere le parole "noi tre" mi tornò in mente la sciagura che mi minacciava: scriveva quel "noi tre" perché eravamo davvero qualcosa di reale e stabile nella vita, cosa su cui anche papà era d'accordo? O in quel "noi tre" c'era l'eco di un addio, di una conclusione? Rilessi la frase. Ogni parola mi sembrava decisiva. Era difficile decidere: da una parte m'incoraggiava il fatto che quei due fossero riusciti a organizzare insieme, in prodigiosa collaborazione, un'impresa così complicata - ciò da cui risultava che non avevano bisogno di me per fare qualcosa insieme. Molto bello, complimenti. Dall'altra parte mi spaventava il tono di litania delle parole che precedevano quel "noi tre": "qualcosa che ti avrebbe ricordato per sempre come eravamo". Cosa significava quell"'eravamo"? Non lo siamo più? "Così abbiamo pensato a questa idea. Cioè: io avevo avuto una piccola, modesta idea, e tuo papà, come suo solito, l'ha fatta diventare una grande impresa, e complicata. Ora sta anche cercando di rubarmi la lette..." La grafia cambiava di nuovo. Terreno di una lotta fra titani. C'era un grande schizzo sui bordi del foglio. "La giustizia ha trionfato!" affermava papà con la sua brutta scrittura: "Non dilunghiamoci troppo! In questo viaggio potrà accadere di tutto! Forse non arriverai a Haifa! Forse vivrai avventure da far rizzare i capelli in testa, come non hai mai nemmeno sognato!". Mi commuovevo quando papà tentava di imitare lo stile di Gabi per farsi benvolere da me. Sembrava un orso ammaestrato che tenta di ballare lo Schiaccianoci e, anche se lui non rideva mai delle mie barzellette, io invece sorridevo amabilmente. Così continuava: "Forse troverai dei nuovi amici, e dei vecchi nemici! Forse troverai noi! Attenzione, si va a incominciare!". "Ma prima: coccole!" s'intrufolava Gabi, scrivendo piccolissimo. Che buona Gabi, che buona... le mie mani la coccolarono da lontano, fra le orecchie, nel folto dei capelli, e lei fece le fusa, distesa con le gambe in aria e la lingua penzoloni; poi si tirò su e scrisse tutto d'un fiato: "Le avventure che ti abbiamo preparato le scoprirai da te fra un minuto. Se lo vuoi. Cioè: se per caso, non sia mai, non ne hai voglia, puoi rimanere seduto al tuo posto fino a Haifa, quattro ore tremendamente noiose, e a Haifa salire sul primo treno che torna a Gerusalemme; ma non saprai mai cosa ti sei perso. Se invece sei un ragazzo coraggioso e determinato, alzati dunque Nono cuor di leone, e affronta a testa alta il tuo destino!". Gabi scriveva esattamente come parlava. A volte mi sembrava che solo papà e io la capissimo. "Se decidi di percorrere la via perigliosa che ti abbiamo spianato con tanta tattica, avvicinati al terzo scompartimento della tua carrozza, a sinistra di quello in cui ti trovi. (A sinistra, con la schiena rivolta al finestrino del tuo scompartimento, Colombo, se no per sbaglio arrivi in India!) Cosa ti succederà lì? Solo Dio lo sa (e ha promesso di tacere, come il solito). Incontrerai una persona che ti aspetta. Aspetta te, solo te! Non ti riveleremo se è un uomo o una donna, giovane o vecchio. Non ti diremo com'è. Il posto numero tre sarà libero, in attesa

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del tuo sederino. Accomodati tranquillo e osserva i passeggeri. Quando avrai deciso chi è il tuo compagno d'avventura, rivolgiti a lui con la parola d'ordine, che lui conosce e che aspetta di sentirti dire." «Che parola d'ordine?» chiesi a voce alta. "Sst" mi rimproverava Gabi, "anche i muri hanno orecchie! No... non è questa la parola d'ordine. La parola d'ordine è una domanda. Una domanda semplice. Dovrai chiedere all'uomo che avrai scelto: 'Chi sono?'. Solo questo, nient'altro." «Chi sono?» mormorai due volte. Più facile di così... Dio onnipotente, rabbrividii di nuovo: cosa non hanno architettato quei due! E da soli. Senza di me! "Se avrai fatto la scelta giusta, l'anonimo individuo ti dirà il tuo nome, e solo allora sarà autorizzato a condurti nell'avventura. Prima di tutto avrà una gran voglia di procurarti gioia e allegria, in quel suo modo misterioso e sfrenato; quando ti sarai riavuto da questa esperienza, ti spedirà in un'altra carrozza, alla prossima fermata del nostro piccolo gioco. Là ti aspetterà un'altra persona, che desidera solo divertirti e far ulteriormente drizzare le tue orecchie puntute; dopo aver portato a termine le sue macchinazioni, ti condurrà alla tappa successiva, e via di seguito fino a che... fino a che troverai la vera sorpresa!" Posai la lettera e respirai profondamente. Era successo tutto così in fretta che solo ora cominciavo ad afferrare le proporzioni di quell'impresa. Chissà quanti giorni e quante notti avevano dedicato ai preparativi e a istruire le persone coinvolte nel gioco. Probabilmente per ognuna di loro era stata scritta una parte in questo spettacolo apposta per me, solo per me... ah! Rimasi senza fiato. Tentai di continuare a leggere, ma non ci riuscii; mi sentivo mancare, sapevo che papà si era dato da fare per realizzare l'idea di Gabi, così come organizzava le sue "operazioni": valutando ogni eventualità, ipotizzando tutti gli sviluppi immaginabili, gli imprevisti, le possibili e impossibili modalità d'azione... mi sentivo fiero del fatto che si fossero mostrati disposti a compiere un simile sforzo solo e soltanto per me. Fiero e un po' stupito, perché in fondo ero sempre stato convinto che avessero bisogno di me per parlarsi fra loro, che senza di me non sapessero come comportarsi l'uno con l'altra, e che fosse merito mio se non litigavano continuamente. Eccoli invece, loro due da soli, così... "Nono cuor di leone" scriveva Gabi, "Nono ciuffo della mia coda, se avrai cervello e occhi attenti, occhi da miglior investigatore del mondo, così da trovare la persona che ti sta aspettando in ogni carrozza, allora parteciperai alla scorribanda più incredibile mai escogitata per un ragazzo di tredici anni. E quando alla fine del viaggio scenderai dal treno, sarai degno della tua età, un ragazzo forgiato e temerario, che avrà affrontato un arduo esame di intelligenza e coraggio. In breve..." A questo punto papà le strappava il foglio e strombazzava con la sua brutta scrittura: "In breve: sarai come me!". "L'importante è che tu sia come te" firmava lei, disegnando un bacio, con accanto il volto di papà, grande e largo, e quello tondo di lei, con le orecchie da coniglio e un'aureola da cherubino. Riuscii a stare ancora un momento al mio posto. A pensare a come Gabi e papà erano riusciti in un batter d'occhi a trasformare questo treno che cigolava di vecchiaia in uno spericolato luna park viaggiante. In questo preciso momento alcuni individui, giovani o vecchi, uomini o donne, sedevano nei vari vagoni in attesa del mio arrivo, secondo una disposizione voluta da

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papà e Gabi. Aspettavano me, solo me, con una faccia da top secret, mentre i loro vicini non sapevano e non immaginavano, né potevano immaginarsi, per chi fossero saliti a bordo, non capivano che il motivo del loro viaggio era un bambino, un bambino solo. E se io non fossi andato da loro, se non avessi rivolto loro quella semplice domanda - supponiamo per un momento che io non fossi un ragazzo coraggioso e determinato - tutte quelle persone se ne sarebbero rimaste passivamente sedute, sprecate così, fino a Haifa...

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CAPITOLO 4. LA MIA PRIMA APPARIZIONE IN UN MONOCOLO. Uscii dal mio scompartimento. La sinistra è il lato dell'orologio (papà) e del cuore (Gabi): mi voltai in quella direzione. Camminavo piano, senza correre, per non farmi riconoscere. Nel finestrino scorreva il paesaggio montagnoso. Rocce scabre scivolavano vicine al vagone e sul tornante vidi in lontananza la coda del treno arrancare un istante sui binari in curva e poi scomparire di nuovo. A quell'epoca sulla linea Gerusalemme-Haifa c'era un treno con quattro scompartimenti per ogni carrozza, e uno stretto corridoio. Il corridoio era davvero molto angusto, se qualcuno si fermava a guardare dal finestrino ostruiva completamente il passaggio. Io, che ero magro, riuscii a passare facilmente dietro un signore, che mi guardò con la coda dell'occhio e mostrò una leggera delusione: avevo vanificato la sua azione di disturbo. In fondo al vagone lottai con lo sportello, un blocco di metallo pesante e cocciuto che non voleva aprirsi. Fui costretto a spingerlo con mani e piedi. Quando finalmente riuscii ad aprire un varco e a svicolarci dentro, mi ritrovai nel passaggio fra i due vagoni, immerso in un frastuono terribile, rumori assordanti, cigolii, sibili e battiti. Il pavimento era composto da due assi di ferro nero coperte di borchie che, collegate fra loro, producevano uno sfregamento simile a quello di lottatori avvinghiati l'uno all'altro; non osavo appoggiarci i piedi, perciò saltai, con gli occhi chiusi e i piedi uniti, e a momenti caddi, perché le assi cercarono di farmi volare inarcandosi, o almeno così mi parve. Forse era vietato muoversi tra i vagoni in corsa, e allora saltellai, per non doverle pestare più di un istante, chi avrebbe mai detto che un tale pericolo poteva annidarsi su un vagone in cui la gente se ne stava tranquillamente seduta a chiacchierare? Il vento fischiava da ogni parte, anche dal basso, e tra le fessure vidi la terra che scorreva di corsa, udii il frastuono delle ruote e gli scricchiolii del ferro: un passo falso ed eccomi lì sotto, finito. Non riuscii a pensare in quel momento. I rumori forti mi confondono sempre. E un fracasso del genere, proveniente da ogni direzione, mi faceva letteralmente impazzire. Come se di colpo non ci fosse più la pelle a separarmi dal mondo, mi ritrovai risucchiato in un vortice di rumore, travolto in lungo e in largo, senza accorgermi che ero io a strillare così. «Lasciami passare!» strillavo al pesante sportello, «maledetto, lasciami passare!» urlavo, battendo con mani e piedi e colpendo con la testa; in momenti del genere ero capace di scontrarmi con il ferro senza provare dolore. A scuola questi momenti avevano già un nome speciale, ma sul treno la cosa funzionò, il vulcano Feierberg in eruzione, e lo sportello si aprì un po', uno spiraglio sufficiente: evidentemente ero sottile come i miei strilli; riuscii a infilarmi, passare e chiudere alle mie spalle porta e vortice, meno male che è finita. Mi fermai e respirai profondamente. Il rumore del treno si era placato, era di nuovo il trenino ciuf ciuf ma da quel momento non potei fare a meno di guardarlo in un modo diverso. E ora... Chi sono? Cominciai a mormorare, per allenarmi. Chi sono? Chi sono? Chi? Primo scompartimento. Passai senza guardare. Secondo scompartimento: senza guardare. Terzo scompartimento. Mi fermai, indugiai un istante. Credo che allora

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cominciai a capire che avevo un piccolo problema. Supponiamo che io entri nello scompartimento. Supponiamo che il posto numero tre sia libero, come aveva promesso Gabi. Supponiamo persino che io riesca a scoprire chi fra i presenti è la persona che mi aspetta. Come troverò il coraggio di rivolgerle la parola così, su due piedi, e di chiederle: chi sono? E gli altri, cosa penseranno? Posso immaginare i loro sguardi puntati su di me. Tipica idea di Gabi, mi dissi seccamente Papa non mi avrebbe mai invischiato in una situazione del genere, sa quanto è imbarazzante. Chi sono? E' giunto il momento di raccontare un po' di me. Quando si è svolta questa vicenda, esattamente ventisette anni fa, avevo tredici anni meno qualche giorno. Un bambino assai normale, a mio parere, ma c'era anche chi la pensava diversamente, perciò preferisco riferire solo e soltanto i fatti incontrovertibili. Nome: Nono Feierberg. Luogo di nascita: Gerusalemme. Stato civile: celibe (ma certo), di conseguenza: un padre e una Gabi. Amico: Mikah Dubovsky. Segni particolari: una profonda cicatrice sulla spalla destra; un proiettile di pistola appeso al collo con una catenina. Altre particolarità: il mio hobby. Il mio hobby era la polizia. A tredici anni conoscevo a memoria i numeri di matricola di tutti gli ufficiali del distretto Gerusalemme e zona Sud. Conoscevo ogni tipo di arma e veicolo in dotazione. A casa avevo una collezione di tutti i "ricercati" degli ultimi cinque anni. Avevo anche un'altra collezione, forse la più grande del mondo, di tutte le persone scomparse per le quali la polizia chiedeva: "Chi l'ha visto?". Inoltre, con sistemi che e meglio tacere, riuscivo a mettere mano sui rapporti più segreti che Gabi scriveva a macchina, e disponevo di alcuni referti di autopsia di omicidi famosi, inclusi schizzi relativi al luogo del delitto e servizi fotografici del nucleo anticrimine. Avevo parlato personalmente due volte con il capo della polizia, una volta sulle scale del comando, e un'altra al matrimonio di un commissario. In quell'occasione mi disse, e l'hanno sentito tutti, che ero la mascotte del distretto. Chi sono, chi sono? E se sbaglio persona? Dove troverò il coraggio di ritentare subito con un altro, e nello stesso scompartimento? Calmarsi un momento e pensare. Per prima cosa, mi dissi con la voce di papà, bisogna sapere tutto ciò che è possibile sulle persone contro le quali agisci. Raccogliere informazioni. Cosi mi aveva insegnato: la conoscenza è forza. Me l'aveva ripetuto mille volte: "La conoscenza è forza! colpendosi con il pugno il palmo della mano; ma io non sapevo ancora quale delle due fosse la cosa più importante, la conoscenza o la forza? Chi sono? Eccoci quindi nello scompartimento numero tre. Questo treno va avanti troppo in fretta per i miei gusti. Ci passai davanti una prima volta a razzo. Ero cosi spaventato che non osai guardare dentro. Tremando tornai subito sui miei passi, ed eccomi un'altra volta lì davanti. Mi costrinsi a dare un'occhiata e vidi di sfuggita cinque facce sedute. Cinque persone e, in mezzo, un posto vuoto sul quale era disteso un nastro rosso con la scritta: RISERVATO. Oh, oh. Ripassai per la terza volta, ma più piano, e notai che c'erano tre uomini e due donne. Uno degli uomini portava gli occhiali e stava leggendo il giornale. Le donne erano magre, una attempata, con i capelli raccolti sulla nuca, e l'altra con la frangetta. Difficile dedurre alcunché. Passai di nuovo. Una delle donne, la più vecchia, diede di gomito all'uomo che le stava di fianco,

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accennando a me con gli occhi. Aveva uno sguardo sgradevole che mi ricordava un po' mia nonna Zitka, ma eccomi già con un piccolo indizio: notai che un uomo portava un cappello nero, alto. Che strano: sembrava un diplomatico straniero. O un boia. Un lieve sospetto, torbido ma allegro, cominciava a fermentare dentro di me: cosa ci fa un boia sul treno per Haifa? Mi fermai. Feci per tornare. Tornai. No: mi fermai. Mi serviva una copertura. Qualcosa che giustificasse questa scorribanda avanti e indietro davanti allo scompartimento. il segreto del successo di un inseguimento, mi aveva insegnato sappiamo chi, e che l'investigatore sia fermamente convinto della sua copertura; se fai finta di essere un mendicante, sii mendicante con tutta l'anima. Detesta le persone che non ti fanno l'elemosina, benedici quelle che te la fanno. Se ti sei travestito da donna, cerca di essere donna sotto ogni aspetto. Nel modo di camminare, nei gesti; fermati davanti a certe vetrine, trascurane altre. Una mossa falsa, e l'uomo che stai seguendo si accorgerà della tua messinscena. A questo punto gli occhi di papà si stringevano minacciosi, la ruga fra loro si faceva cupa e profonda: «Ora sentimi bene, Nono: se un attore di teatro fallisce nel suo ruolo, verrà fuori una cattiva recensione sul giornale, tutto qui. Ma se un investigatore fallisce nella parte che sta interpretando, può finire con una pallottola in testa!» A quel punto, senza accorgersene, papà si toccava la spalla e io la pallottola che avevo al collo. Ci guardavamo negli occhi. Non mi aveva mai raccontato chi era stato a ferirlo e io non gliel'avevo mai chiesto. C'erano cose di cui non parlavamo, cose cui s'addiceva un virile silenzio. Passai di nuovo, forse per la quinta volta, davanti al loro scompartimento. Aggrottai la fronte nello sforzo e incrociai le braccia sul petto. Oh, sono turbato! Sono immerso nei miei pensieri! Bene, è così che fa un giovane scienziato sempre sul punto di inventare il pendolo. Ma ecco che, malgrado la mia eccellente copertura, tutti e cinque i passeggeri si sporsero in avanti per guardarmi. A causa di questa attenzione esagerata non riuscii a scoprire molti particolari in più sul mio indiziato, quello con il cappello da boia. Mi sembrò solo che avesse un cravattino rosso a farfalla. Mi fermai. Forse conveniva cambiare copertura? Ero troppo giovane come giovane scienziato? Sospettavano che il pendolo fosse già stato inventato? Il tempo stringeva. Fra poco saremo a Haifa! In un batter d'occhio cambiai la mia copertura, mi girai di scatto, imprecando contro Gabi, e ricomparvi davanti allo scompartimento, questa volta come attore di teatro che prova la parte di una tormentata pallina da ping pong, mentre tutti i passeggeri dello scompartimento (boia compreso) stavano ormai confabulando appiccicati al finestrino. Forse parlavano, forse sbraitavano rabbiosi, ma non riuscii a sentire oltre la porta a vetri. Malissimo. Quante volte potrò ancora passare davanti al loro scompartimento senza che si avventino su di me e mi trascinino dentro per scannarmi? Mi fermai sbigottito accanto alla porta. Quei cinque mi fissarono con sguardi inferociti. Audacemente chiusi gli occhi ed entrai, cascando addosso, fra e sotto di loro, pestando tutti i piedi nei paraggi, finché alla fine riuscii faticosamente a farmi strada verso il posto vuoto, quello con il nastro rosso e la scritta RISERVATO, sul quale mi accasciai raggelato, tranne le orecchie che mi bruciavano tremendamente. Cinque paia d'occhi mi scrutarono severamente. Non

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potevano immaginare che l'onorevole posto fosse riservato a un bambino. Cinque paia di occhi che scrutavano severamente? Ma almeno uno dei presenti avrebbe dovuto aspettarmi no? Avevano tutti un'aria molto severa. A lungo non osai guardare nessuno. Poi, un'occhiata di sfuggita... Come se niente fosse... gli occhi vanno, avanti e indietro... Fra i monti e le rocce... Frangetta... pelata... occhiali... cilindro... Chi sono?... chi sono?... Il treno viaggiava scricchiolando. Anch'io. Non avevo mai chiesto a un estraneo chi sono. Chi sono... Chisono... Chissono? Supponiamo che l'uomo con il cilindro nero sia l'ambasciatore di Svezia, che se ne va a spasso per il nostro paese. O un cuoco in lutto. Lo esaminai di sottecchi: alto, meditabondo. Labbra sottili, serrate. Un individuo capacissimo di mollarmi uno schiaffo per una domanda impertinente. Ma... un momento! Quello vicino a lui... un uomo piccolo e grassottello, con un viso rosso e tondo, calvizie, un naso largo con grandi narici e labbra spesse. Una faccia da pasticciere o gonfiatore di palloncini. Lo sguardo fisso al finestrino, sta parlando fra sé. Che stia facendo delle prove per il grande momento, per quando mi rivolgerò a lui? O la ragazza con i jeans. Riferii i suoi connotati nella mia ricetrasmittente immaginaria: toppa blu sul ginocchio sinistro, maglietta verde. Capelli castani. Taglio a caschetto. Zainetto kaki. Segni particolari: nessuno. Una faccia noiosa. Fine della descrizione, passo. Oppure la signora attempata che sembrava un po' Zitka, la mamma di papà, e purtroppo per me anche mia nonna, brutta storia, no, era quasi impossibile che una così facesse parte del gioco. Forse era proprio questo l'intento nascosto di papà: quattro ore trascorse in quel modo valevano più di un mese di addestramento e di prediche... corso pratico accelerato... perché, per riuscire, dovevo usare tutte le sottigliezze del mestiere... che idea magnifica come regalo per la maggiorità religiosa, pensai con un leggero timore; d'altra parte anche un orologio svizzero sarebbe stato un bellissimo regalo. Una faccia, e ancora un'altra. L'espressione, il sorriso e le labbra. Papà diceva che ogni faccia è un libro che bisogna saper leggere. Che un vero professionista riesce a sapere quasi tutto di un uomo già dalla faccia. Dalle rughe e dai tratti. Per il mio decimo compleanno papà mi regalò un identikit. Come quelli che aveva in ufficio. L'aveva fatto lui stesso, disegnando una quantità di lucidi con tutti i tratti possibili, nasi e menti, barbe e sopracciglia, orecchie e occhi. Papà ci mise tutto quello che si può avere sulla faccia, poi me lo mostrò e disse: «Leggi. Questo è il libro più interessante che ci sia». Il tempo passava, il treno avanzava verso Haifa e io non ero ancora riuscito a stabilire chi fosse il mio uomo. Nutrivo sempre maggiori sospetti verso il cilindro. Sedeva impettito, con gli occhi nascosti sotto le ciglia spesse e ondeggianti, la bocca serrata. Ero sicuro che fosse lui, solo che mi faceva più paura di tutti gli altri. Era forse questa paura che papà e Gabi volevano farmi superare? Gli lanciavo occhiate sofferenti. Aiuto. Sorrida, anche solo un'ombra di sorriso mi avrebbe aiutato. Ma niente, faccia immobile. Sembrava proprio papà quando cercavo di farlo ridere. Ho fallito. Non ho coraggio. Perché nessuno mi dà una mano? E loro... non facevano altro che guardarmi. Mi fissavano senza pudore. Che aria avevo? Un bambino piccolo ed esile. Capelli biondi a spazzola (l'unico taglio che il barbiere della polizia

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conoscesse), grandi occhi celesti. Un po' troppo distanti l'uno dall'altro. Che evidentemente confondevano chi cercava di guardarli entrambi contemporaneamente. Sì, ero un tipo così. Chi invece non guardava troppo attentamente, si trovava davanti una faccia da bravo bambino. «Quasi da pensare: l'identikit di un angelo» sospirava Gabi con aria esterrefatta, «ma con sette peccati nel cuore!» perché dall'identikit non si vedeva che sul collo la vena pulsava sempre così forte, tanto da farmi male. E che avevo sempre le guance rosse, infiammate. E che le dita si muovevano incessantemente, che gli occhi vagavano senza sosta. Cercavano con inquietudine: chi vuole sentire come ho catturato praticamente da solo uno scippatore (per un pelo), chi vuole comprare una bussola usata o un fischietto per cani? Chi vuole ascoltare una barzelletta? «Orecchie di demonio» aggiungeva Gabi, toccandole con stupore: «Guarda, a punta. Affilate. Come una lince. Sei un bambino o un animale?» Chisono, chisono?... Non ce la facevo. Non ero capace di rivolgermi a uno dei presenti e chiedergli: "Chi sono?". C'era come un vetro fra me e loro. Tentai cento volte di mormorare "chi sono?", ma le parole mi si sfaldavano in bocca. Cosa penserà di me papà? Farà di nuovo quel suo grugnito di disprezzo, ho fallito di nuovo. Lui che mi aveva preparato una sorpresa così, e io che non riuscivo a godermela. Prima che riuscissi a capire quello che volevo, il vulcano Feierberg aveva già deciso per me, eruttandomi come lava verso il corridoio. E adesso? Tornare dentro non posso. Rinunciare allora a tutta l'avventura? Fifone, fifone. Nono cuor di coniglio. Mi allontanai. Mi fermai accanto al finestrino in fondo al vagone e mi odiai. Sapevo che l'uomo misterioso, inviato da papà e Gabi, avrebbe fatto rapporto sul mio comportamento. Riferendo come avevo infangato me stesso e papà. Chi sono? Chi si sarebbe mai immaginato che dentro un treno ci fossero simili echi? Ma ora, avendo osato, essendomi improvvisamente scoppiato nell'intimo, non volevo sprecare lo slancio. Continuando a mormorare chisono? chisono? mi voltai di scatto indietro, dirigendomi verso il terzo scompartimento senza smettere di bisbigliare la domanda, temendo che, se avessi smesso per un istante, mi sarebbe mancato il coraggio. Pensavo: chiudo gli occhi, entro senza guardare niente e pongo la mia domanda così, sia quel che sia. Intanto avanzavo a piccoli passi, con un bisbiglio trafelato, quasi stessi trasportando una candela sul punto di spegnersi, chi sono? Cominciavo a notare che, quando pronunciavo la domanda, sentivo una specie di lievissima fitta al petto, profonda, come se qualcuno bussasse da dentro, tentando di attirare la mia attenzione sul cuore, e quanto più domandavo chi sono? tanto più il cuore s'impregnava di qualcosa, si faceva pesante e angosciato. Strano, non mi ero mai posto prima questa domanda elementare, in fondo sapevo chi sono, ognuno di noi sa chi è, io sono Nono, la mascotte del distretto, ho un papà e una Gabi, il mio amico si chiama Mikah, e il programma mio e di papà è quello di lavorare insieme quando sarò grande; solo che, chissà perché, in quel momento pensavo che forse la domanda chi sono? aveva una quantità di risposte, che forse non era tutto così ovvio, e d'un tratto qualcosa sprofondò dentro di me, di colpo mi sentii pesante, lento, senza quasi più voglia d'avventura, e mi prese una vaga tristezza. Cosa mi succede, chi sono?... Proprio in quel momento, dietro la porta a vetri di un altro scompartimento, vidi un uomo che mi guardava in un

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modo tutto speciale: era come se mi vedesse e non mi vedesse al tempo stesso. Mi fermai. O per meglio dire: fui fermato. Quello sguardo mi teneva inchiodato. Mi rendevo conto, non so come mai, che la mia faccia gli diceva qualcosa, perché continuava a fissarmi e a sorridere a se stesso, il sorriso assente di chi è immerso nei suoi pensieri o nei suoi ricordi. Rimasi a lungo immobile davanti a lui. Avevo come la sensazione che mi chiedesse tacitamente di stare fermo così per farmi guardare, per permettergli di abbandonarsi a quel ricordo. D'un tratto il suo sguardo si focalizzò. Gli occhi risorsero dal torpore e dagli ingannevoli riflessi del finestrino, ed eccoli fissi inequivocabilmente su di me. Con curiosità e simpatia: la lunga gamba accavallata cominciò a dondolare leggermente. Con due lunghe dita l'uomo pescò qualcosa dalla tasca della giacca, uno specchietto rotondo, legato al taschino da una graziosa catenina d'oro. Se lo mise davanti a un occhio, tenendolo fra lo zigomo e il sopracciglio. Una cosa così l'avevo vista una volta al cinema: un monocolo. Occhiale monolente. Come in Inghilterra, diciamo. Mi stanno guardando attraverso un monocolo, pensai felice, e alzai la testa, cominciando subito a meditare su cose nobili, in modo da riflettermi convenientemente nella sua lente, visto che non capitava tutti i giorni che un bambino israeliano finisse in un monocolo. Mentre l'individuo mi guardava, non tralasciai le mie incombenze professionali: era un uomo di una certa età, sui settant'anni, molto abbronzato, con la pelle di un rame scuro, un bel viso affascinante, l'aria di uno venuto da un'altra terra. Aveva degli occhi azzurri, limpidi e giocondi, occhi di bambino in una faccia da adulto, con delle rughe scottate dal sole agli angoli e delle bizzarre sopracciglia che si innalzavano come due folti e villosi triangoli. E poi il naso. Che naso! Grande, autoritario, regale. Un naso scolpito nella pietra. Un naso davanti al quale veniva subito voglia di fare l'inchino. E che capelli curati aveva quell'uomo, capelli candidi, morbidamente ondulati, che gli giravano dietro le orecchie dandogli un'aria da vecchio pittore. Era solo nello scompartimento. Ovvio che lo fosse, avrebbe stonato con tutti gli altri passeggeri. Indossava un completo bianco, elegante, e una cravatta multicolore che pareva un uccello variegato. Ma non è tutto: aveva una rosa rossa all'occhiello e dal taschino spuntava un triangolo di fazzoletto. Ricordo bene quei particolari. A quei tempi in Israele non erano in tanti ad andare in giro vestiti così: chi aveva i soldi per comprarsi un completo? E chi ne aveva uno, non lo metteva certo per andare in treno, per di più se diretto a Haifa, città operaia. Ma notai subito che quell'abbigliamento era in sintonia con la persona. Che non era un attore mascherato per una parte di un giorno nel mio spettacolo. Quell'abbigliamento era suo, così come la rosa che aveva all'occhiello doveva averla raccolta con le sue mani. Tutto gli stava a pennello. Tutto lo avvolgeva confortevolmente. Constatai che gli stessi vestiti sembravano compiaciuti di stargli addosso. Ricordo ancora una cosa: per un secondo mi fece venire in mente papà. Non nell'aspetto, no, questo no. In fondo non so perché quell'uomo mi ricordasse papà. Forse per via della sua solitudine, lì nello scompartimento. In tutto il resto, comunque, era davvero molto diverso da lui. A quei tempi papà, bisogna ammetterlo, era sempre un po' ANSA, cioè a detta di Gabi: Arrabbiato-Nervoso-Sudaticcio-Arruffato. Quest'altro sembrava invece

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simpatico e affettuoso, con l'aria di uno che si godeva la vita e amava oziare, sempre disponibile, pieno di attenzioni e curiosità per il prossimo. Ma si percepiva anche intorno a lui un filo sottile, invisibile, che lo teneva distinto dal resto del mondo. Tale doveva essere la natura della vera nobiltà, ed effettivamente era proprio questo che ispirava: nobiltà. Senza pensarci, spinto solo da un forte impulso, aprii la porta del suo scompartimento. Non era previsto nelle istruzioni fornitemi dalla lettera di papà e Gabi, non faceva parte del gioco che avevano architettato per me, ma non me ne importava: dopo mi sarei dedicato al loro tracciato. Così entrai, mi fermai ritto davanti a lui e gli chiesi, con voce forte e chiara: «Chi sono?» L'uomo mi fece un sorriso più deciso, riaccavallò le gambe e mi guardò lungamente; nell'aria aleggiava un profumo di dopobarba. Poi mosse un muscolo del viso e il monocolo gli cadde nella mano che aveva teso, per poi sparire nella tasca della giacca; era tutto inverosimile, come nei film. Non mi aveva ancora risposto, ma ero invaso da un senso di delizia. La delizia dell'attesa, oltre a una lieve tensione, come subito prima della soluzione di un indovinello. Anche l'uomo stava godendosi quel momento che si andava dilatando. Avevo così voglia che sapesse la risposta era proprio la persona con cui avrei voluto continuare il gioco. «Tu sei Amnon Feierberg» disse alla fine, con un sorriso. Il suo tono di voce era inaspettatamente un po' alto, con un accento rumeno. «Ma in casa, il tuo signor papà, ti chiama Nono.»

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CAPITOLO 5. UN MOMENTO, MA è' DEI BUONI O DEI CATTIVI? Tacqui. Gli tesi una mano e la strinse. L'uomo disse: «Chiedo scusa, ho dimenticato di dire: Felix, il mio nome!». Pensai: magari avessi, un giorno, delle mani simili. Lunghe, ben modellate, forti. All'improvviso la mia anima cominciò a traboccare come il latte quando bolle- Non so cosa mi sia successo, sarà stato il suo aspetto. Insomma, gli tesi un'altra volta la mano e lui me la strinse di nuovo, forse aveva capito che avevo ancora bisogno di quel contatto, e così le mie dita avrebbero immediatamente assunto la forma appropriata- E non solo le dita, anche tutto il braccio, lungo e forte, tutto il suo aspetto sarebbe passato dentro di me, annidandosi lì per poi risvegliarsi dal letargo e svilupparsi con la crescita, insieme alla sua testa, una testa di leone, e al naso regale, agli occhi azzurri con le rughe intorno, nonché alla sua nobiltà, tutto. Se non mi fossi vergognato, gli avrei fatto vedere come sapevo infilarmi in un batter d'occhi nel portabagagli e scendere a testa in giù. Gli avrei dimostrato come sapevo stare saldo sulle mani con il treno in corsa. Con quel poco di forze che mi restavano riuscii a mantenere una parvenza di decoro e a reggermi in piedi. «Prego, si sieda, signor Feierberg,» mi disse con un tono di voce suadente, quasi si fosse accorto delle piccole detonazioni dentro di me e cercasse di farle cessare. Mi sedetti. Volevo che mi dicesse altre cose, per potergli ubbidire immediatamente. Mostrargli di quanta fedeltà ero capace. Tirò fuori dalla tasca della giacca una foto in bianco e nero. Guardò prima quella, poi me. Sorrise di nuovo: «Proprio come nella fotografia. Solo più bello.» Me la porse. Era una foto che non avevo mai visto. Mi si vedeva sulla strada della scuola, con il cappotto grigio, gonfio. Papà doveva avermela fatta di nascosto, dalla macchina, non me n'ero proprio accorto. «Presa con il teleobiettivo, eh?» dissi all'uomo, a quel Felix, per fargli capire che me ne intendevo. «Gliel'ha data papà, per identificarmi?» Gli occhi luccicarono in un sorriso azzurro contornato da piccole rughe virili. Mi sentii svenire per quel sorriso. Da stella del cinema. Ricambiai, toccandomi prontamente accanto all'occhio, ma senza riuscire a corrugare nulla. Quanti anni avrei dovuto ancora sprecare prima di avere tre piccole rughe diritte come quelle, dall'estremità dell'occhio alla tempia? Lui sembrava che ci fosse nato, con quelle rughe. Scrutò attentamente la fotografia. Allora mi venne in mente che forse sul treno c'erano altre persone che tenevano nascosta in qualche tasca una mia foto, per potermi identificare! Papà non aveva trascurato il minimo dettaglio: che considerazione aveva di me! Mi chinai sulla foto, anche per sentire meglio quel buon profumo di dopobarba intorno a Felix. Nella foto c'era anche Mikah Dubovsky, il mio migliore amico, due passi dietro di me, con la bocca aperta. «E questo è il tuo amico» disse Felix affettuosamente, anche se mi parve che non fosse soddisfatto di Mikah e che ci fosse un tono di lieve disappunto nella sua voce. In effetti Mikah, nella foto, era venuto proprio con l'aria da scemo, un po' rincitrullito. «Non è proprio un amico» dissi prontamente, «giochiamo insieme. In realtà è il mio vice.» A casa lo chiamavamo "Venerdì", e Gabi lo prendeva un po' in giro. Ma era un bravo ragazzo. Come vice, voglio dire. «Che ne dici di parlarmi un po' di

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lui?» chiese Felix, incrociando le braccia sul petto come se avesse un mucchio di tempo a disposizione per ascoltare la mia storia. Gli dissi che non c'era molto da raccontare. Cosa si poteva dire di Mikah, non era altro che un bambino, uno che mi stava appiccicato già da qualche anno. Crede di essere mio amico, ma io lo frequento solo per pietà, aggiunsi con un ghigno, pensando che fosse un po' esagerato sprecare così tanto tempo per Mikah, anche se era davvero un bravo ragazzo. «Allora chi è il tuo migliore amico?» domandò Felix. ¢Per quanto ne so io, dovrebbe essere Mikah!» Mi ero messo nei pasticci. Forse papà gli aveva fornito informazioni dettagliate su tutto ciò che riguardava la mia vita, e solo per il timore che Mikah non gli piacesse e non fosse degno della sua nobiltà l'avevo disprezzato a quel modo. Anche se in fondo Mikah era un bravo ragazzo. «Mikah, lui, ecco...» non avevo nessuna voglia di parlare di lui. Cosa posso dirne? Di Mikah è pieno il mondo. «In effetti è la mia guardia del corpo.» spiegai con molto contegno; allora, senza volerlo, cominciò a girarmi in testa un motorino, un ronzio in mezzo alla fronte, il riscaldamento. «La verità è che...» continuai con grande serietà, ascoltando la mia lingua disinvolta che parlava a mia insaputa, «...La verità è che il mio migliore amico è Chaiim Stauber. Lui è proprio mio amico. Un bambino speciale. Un genio. Siamo amici da anni. Cosa non abbiamo fatto noi due!» Mikah mi guardava dalla foto. Il placido, impacciato Mikah. La sua bocca pareva più spalancata del solito. Quando cominciavo a parlare così, quando mi saliva quel calore fra gli occhi, Mikah era come ipnotizzato. Ascoltava trasognato le mie più tremende fandonie. Non mi ha mai smentito con gli altri bambini. Non me mi ha mai rimproverato. A volte quella sua devozione mi faceva uscire dai gangheri. Come se mi fosse permesso tutto. Potevo raccontargli delle bugie su di lui, o su cose che lui sapeva perfettamente, e lui mi ascoltava con la lingua penzolante, come un cane impigrito. Anche quell'uomo bello ed elegante mi ascoltava, ma certo non con aria da scemo. Muoveva la testa a un ritmo lento e pensieroso e io capii che stava guardando dentro di me, che sapeva tutto, di me e di Mikah, anche il mio piccolo, recente tradimento. Ma non riuscivo a fermarmi. Quel ronzio fra gli occhi era carezzevole, come se qualcuno mi stesse solleticando con una piuma proprio in mezzo alla fronte, spargendo menzogne nel mio emisfero cerebrale: «Chaiim Stauber, è un peccato che lei non lo conosca! Che bambino! Conosce a memoria tutta la Bibbia! Suona anche il pianoforte! E viaggia in tutto il mondo! è stato persino in Giappone! è avanti di due classi!». Era quasi tutto vero. E mi premeva far sapere a Felix che i miei amici erano uomini di mondo, non tutti dei sempliciotti come Mikah. Solo che Chaiim Stauber non era più mio amico. Dopo l'incidente con la mucca di Mautner ci eravamo impegnati, di fronte alla direzione della scuola e alla mamma di Chaiim, a non scambiarci più una parola fino alla fine degli studi. Ero di cattivo umore, perché avevo dovuto cominciare subito con le bugie, con un tradimento. Questo signore sembrava invece così puro. Delicato e sorridente come un bambino cresciuto. Che peccato. Avevo come la sensazione di perdere tempo, di sprecare qualcosa. Anche il gioco. Perché fra poco saremmo arrivati a Haifa. Insomma, chiesi al misterioso Felix, che devo fare ora? Forse avrei dovuto percorrere a ritroso le tappe del gioco, prima di arrivare da lui? A dire la verità, non ne

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avevo voglia; comunque, visto che papà e Gabi si erano dati da fare, e quelle persone mi stavano aspettando, ognuna con una parte assegnata... Per mia fortuna anche questo Felix non pensava che io fossi costretto a rispettare meticolosamente le regole del gioco. Sorrise quasi con disprezzo per tutte quelle persone, e io feci altrettanto senza capire perché, se non sperimentare quel sorriso su di me, provarlo sulle mie labbra. In quell'attimo estrasse dalla tasca dei pantaloni una catenina (mi trattenni a fatica dall'allungare la mano per toccarla), questa volta d'argento e con all'estremità un orologio tondo, bianco. Era la seconda volta in vita mia che vedevo qualcuno con un orologio da taschino. La prima era stata nel film Pimperriell Smith. L'orologio di Felix ostentava delle cifre grandi e squadrate, e una sottile cornice d'oro circondava il quadrante. Se avessi avuto un orologio così, l'avrei tenuto in cassaforte per guardarlo solo una volta al giorno, di notte e in assoluta solitudine. Un orologio così non lo si può tenere in tasca. Felix evidentemente si fidava molto degli altri. Ma non aveva mai sentito parlare di scippatori? Di ladri? Avevo dunque qualcosa da insegnargli, se me lo avesse consentito. Chiuse gli occhi, muovendo le labbra come se stesse facendo dei calcoli. «Si può dire, approssimativamente» disse alla fine con quel suo accento strano e marcato, «che sei giunto da me un po' prima di quanto pensassi. Ma si può altresì dire che sta per arrivare il tuo momento.» Non capii le parole, non afferrai il senso. «Ora sono le tre e dieci, mio piccolo signor Feierberg, e dobbiamo raggiungere la nostra auto alle tre e trentatré precise. Proprio così.» Domandai quale auto. «Ho forse detto auto?» e sollevò le braccia per arrendersi. «Chiedo scusa! Felix sta diventando vecchio! Spiattella segreti a voce alta! Ma il piccolo signor Feierberg dimenticherà subito quello che ha udito. Attenderà pazientemente la sorpresa. Perché la sorpresa è importante, ma più importante ancora è aspettare la sorpresa, no?» A quei tempi, quando mi dicevano "segreto", la mia gamba destra cominciava a fremere, mentre quando sentivo "sorpresa" toccava alla sinistra. Felix non si era reso conto di quel che aveva provocato nel pronunciare le due parole all'interno della stessa frase. «Perché il signor Feierberg salta su?» chiese incuriosito. Poi si piegò per estrarre una valigia di pelle marrone da sotto il sedile. Non gli spiegai cosa significassero quei tremori. «Valigia di cuoio, made in Romania!» disse elargendole una pacca affettuosa. La sua voce continuava a sorprendermi: un po' vecchia e alta, sinuosa e gracchiante, per nulla consona alla sua dignitosa figura. «E' tutta la vita che uso solo questa» disse allacciando accuratamente le cinghie e sogghignando fra sé. «E l'unico amico che ho in questa vita.» Mentre parlava, tentai di indovinare dove mai papà l'avesse conosciuto, e perché non mi avesse mai parlato di lui. Forse era delle Unità speciali. Forse era uno dei mitici detective che lavoravano anche all'estero, di quelli che girano il mondo sotto falso nome e operano con l'Interpol e con la Cia. Ogni tanto uno così veniva in visita, passava per i corridoi del distretto lasciando dietro di sé un alone di mistero. Negli uffici si mormorava dell'arrivo di un certo "Shushu" (era questo il soprannome dell'agente segreto) e tutte le segretarie cercavano delle scuse per andare a dare un'occhiata. Persino papà si sentiva ricaricare quando uno di quelli passava davanti al suo

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ufficio. Una volta mi fece cenno con gli occhi e disse: «Ricordati che l'hai visto!», aggiungendo subito dopo, con un tono severo: «E dimenticati di averlo visto!» Questo, ovviamente, nel caso fossi caduto nelle mani di criminali, ricattatori, rapitori di bambini, i quali avrebbero tentato di estorcermi informazioni sulla polizia e sui suoi segreti. Ma quell'unico Shushu che avevo visto sembrava un uomo comune, in abiti civili, basso e pelato, con le mani bianche. Mentre questo Felix non riuscivo a decidere chi fosse. Cosa fosse. Per un attimo mi sembrava ingenuo come un bambino, poi lanciava improvvisamente un'occhiata nel corridoio, prima a destra e poi a sinistra, con l'aria del perfetto Shushu, e mi veniva un'idea incredibile: poteva essere un cattivo passato dalla nostra parte, intendo quella dei buoni. Perché no? Papà aveva rapporti di lavoro con gente di ogni tipo. Non potete nemmeno immaginare chi lo salutava quando attraversavamo la strada. «Vieni, signor Feierberg» disse Felix, «dobbiamo andare.» «Perché mi chiami signor Feierberg?» domandai. La cosa mi faceva un po' ridere e un po' piangere. «Come dovrei chiamarti?» «Nono.» «No-no?» provò a dire, scandendo il mio nome. «No, no, non posso chiamarti Nono... Non siamo mica ancora amici.» «Perché no?» Bravo, bella stupidaggine da parte mia. Certo che non lo eravamo ancora. Ma avrei voluto che lo fossimo già. Per non essere costretti a sprecare tempo in cerimonie. Faceva parte di quel genere di persone di cui ti viene subito voglia di fidarti. «Ma tutti mi chiamano Nono.» «Allora sarò costretto a chiamarti signor Feierberg. Non sia mai ch'io faccia come fanno tutti, giusto?» Era in piedi vicino al finestrino e si aggiustava il nodo della cravatta guardando la propria immagine riflessa. «Forse» mi diceva intanto, «quando noi due saremo diventati buoni amici, allora potrò chiamarti, diciamo, Amnon. Ma non di più. Troppa confidenza non va bene. Bisogna mantenere le distanze. Per ora sarai il signor Feierberg, poi vedremo, d'accordo?» Signor Feierberg. E vada. Comunque, detto da lui non suonava male. Avevo una insegnante che mi chiamava così in classe, come trattenendo il mio nome con le pinze. Ma cosa c'entrava lei con Felix? Il ricordo dell'insegnante risvegliò in me una latente spudoratezza: «Allora perché io dovrei chiamarti solo Felix? Non ce l'hai, un cognome?» Lui si voltò verso di me dispensandomi un sorriso di stima: «E' solo per ora, finché saremo andati via di qui.» «Di dove?» «Di qui. Dal treno. Dalla locomotiva.» «Come faremo a uscire dalla locomotiva?» «Di certo non potremo uscire dalla locomotiva se prima non ci entriamo, no? Non è così?» Qualcosa di bianco e gelido palpitava intorno al mio cuore. Lo sfiorava e si dileguava, non riuscivo a capire cosa fosse. Una specie di palpito d'allarme, di avvertimento. Una contrazione dolorosa e via, dimenticai.

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CAPITOLO 6. SENTO QUALCOSA CHE MI SOVRASTA. Uscimmo dallo scompartimento e ci avviammo verso la locomotiva. Felix camminava svelto davanti a me, con passo agile e felino. Mi dava sempre più l'impressione di un agente segreto. Continuava a lanciare rapide occhiate sui lati, come chi ha seguito l'addestramento per far da guardia del corpo alle autorità. In quel frangente l'autorità ero io, e mi piaceva seguirlo a quel modo, con il viso impenetrabile, nella speranza che un crudele attentatore cercasse di aggredirmi, dando a Felix l'opportunità di saltargli addosso e toglierlo di mezzo. A quel punto, proseguirò indifferente sotto gli occhi di una folla tumultuosa, sussurrando alla mia scorta: che noia questi attentati. Non fu però un attentatore a cercare di aggredirmi, bensì l'individuo con il cilindro nero. Quando passammo davanti allo scompartimento numero tre lo vidi alzarsi e spalancare la bocca in un grido muto, la mano alzata come per trattenermi. Capii all'istante: aveva aspettato con pazienza, pensava già che fossi sparito, che non avessi osato entrare nel gioco, quand'eccomi davanti a lui, benché, con sua sorpresa, non per chiedergli: "Chi sono?". Lo avevo scavalcato, continuando il gioco senza di lui! Anche Felix l'aveva riconosciuto. Gli era bastato un unico sguardo penetrante, come uno schiocco di frusta; mi prese per mano e con uno strattone mi fece proseguire. Agiva con fermezza, con fare deciso, severo, e per un attimo pensai che papà e Gabi non avevano semplicemente organizzato un ingenuo gioco a sorpresa, ma qualcosa di ben più importante e fatale, una questione di vita o di morte. Ma non ebbi il tempo di riflettere, non un momento per fermarmi e chiedermi cosa stava succedendo intorno a me. Tutto avveniva a una velocità fulminea. Mi ritrovai nel corridoio del treno, sfuggendo allo sguardo dell'uomo con il cilindro nero, senza capirne il motivo. Perché Felix non si fermava un momento a spiegargli che il signor Feierberg aveva deciso di saltare una fase del gioco? Che male c'è? Il signor Feierberg è un uomo libero! Guardai indietro e non credetti ai miei occhi: Felix era fermo, chino sulla porta dello scompartimento numero tre, con in mano la catenina d'argento. Impossibile sbagliarsi: la catenina del suo orologio. La strappò energicamente dalla tasca e ancora legata all'orologio, la avvolse intorno alle due maniglie esterne! Le sue mani si muovevano agilmente, parevano volare, avrebbe potuto essere un perfetto borsaiolo, pensai nel caos della mia mente, forse lo è persino stato; e io che intendevo metterlo in guardia dagli scippatori! Rimasi a fissarlo sbigottito: era del tutto indifferente alle persone che stava imprigionando nello scompartimento. Le sue mani stringevano e avvolgevano con forza la catena intorno alle maniglie, le labbra strette nella concentrazione, attorniate da una linea sottile di crudeltà, crudeltà ferina. Anche in me si profilava quella linea. Nasceva da dentro e mi accerchiava la bocca. Una linea bianca, sottile, come una cicatrice. Corrugai allo stesso modo la fronte nel concentrarmi con un'intensità da professionista. Mi si muovevano perfino le mani, seguivo a distanza i suoi gesti, partecipando al prurito e al pizzicore, avevo già sfiorato quelle dita, in fondo... I passeggeri nello scompartimento erano praticamente immobilizzati, come in un incantesimo: tutti

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guardavano me senza capire quello che stavano vedendo. Incapaci di muoversi. Il signore con il cilindro era ancora bloccato a mezz'aria, come se non avesse deciso cosa fare, con la mano penzoloni e la bocca aperta, in un muto stupore. L'altro signore, quello calvo e grassoccio, fissava Felix con un sorriso ebete e incredulo spalmato sulla faccia. Alle spalle di quei due la signora che somigliava a mia nonna Zitka contraeva sbigottita la bocca, proprio come la nonna, ma a differenza di questa senza riuscire a proferire parola. Nemmeno io. Mi sembrava la cosa più incredibile che avessi mai visto in vita mia: un adulto, addirittura un anziano, un signore distinto e dall'aria aristocratica, stava facendo cose per le quali mi avrebbero espulso da scuola per l'eternità! Forse era questo a lasciarmi incantato in quei momenti: si poteva essere come me, ma da grandi. Felix non dedicò un istante di più ai passeggeri. Terminò di legare la catena intorno alle maniglie, controllò che la porta a due battenti non si muovesse, mi prese per il braccio e mi spinse avanti, verso la locomotiva, elargendomi un sorriso fugace, un fulmine celeste «va tutto bene! Dobbiamo andare!» disse. «Ma...» sospirai, «loro lì... non potranno...» «Dopo, dopo! Sarà loro chiesto scusa, ma le spiegazioni alla fine. Su!» «E l'orologio?» gemetti. Poteva almeno prendere l'orologio. «Quello non conta! Conta il tempo! Andiamo, Heide!» «Cosa vuol dire Heide?» urlai, correndo. Felix si fermò, sorpreso: «Il mio piccolo signor Feierberg non sa cosa vuol dire Heide?» Mi fermai davanti a lui, stavamo entrambi ansimando. Il vagone si inclinava in curva. Pensai a Heidi su per i monti, ma saggiamente tacqui. «Heide è come "oplà"!» rise Felix, tirandomi per il braccio, di corsa. «Come "avanti"! Come "su"! Come per far correre il cavallo!» «Ah» avevo capito, «come Yempa.» Attraversammo di corsa un altro vagone, poi un altro. Il panorama correva al nostro fianco, facendo a gara con noi, saltellando sulle gambe di legno dei pali della luce. Passarono eucalipti rigogliosi in lunghi filari, un campo di girasoli, colline di terra scura; avanti: corridoi, porte, vagoni. Ogni tanto, mentre sfrecciavamo lungo un vagone, mi pareva che qualcuno, uomo o donna che fosse, si alzasse a guardare stupefatto e agitasse le braccia in un grido muto. Forse erano quelli che mi stavano aspettando, la truppa di papà e Gabi, ma Felix mi trascinava via, non potevo fermarmi, né lo volevo; quand'eccoci all'ultimo, stretto passaggio, e a una porta massiccia con la scritta: ASSOLUTAMENTE VIETATO L'INGRESSO. Felix, che forse non sapeva leggere l'ebraico - ma sì che lo sapeva - premette forte la maniglia finché la porta si mosse: eravamo entrati nella locomotiva. Il rumore era molto più forte che nei vagoni e una specie di Ercole con una lurida canottiera ci dava le spalle, chino su un cassone di metallo. Non si voltò quando entrammo, si limitò a sbraitare: «Ancora un calo di giri del motore! È già la seconda volta, oggi!» Felix richiuse la porta, maneggiando anche il lucchetto. Faceva un caldo tremendo e cominciai a sudare. E poi il frastuono. ho già detto che effetto mi fa il rumore assordante. Felix mi fece l'occhiolino, battendo delicatamente sulla spalla del macchinista che si alzò a fatica, si voltò ed ebbe un sussulto. Evidentemente aspettava qualcun altro. Forse il suo aiutante o il secondo macchinista. Chiese subito chi eravamo e come avevamo osato entrare lì. Doveva urlare, per sovrastare il

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frastuono, e Felix gli sorrise, questa volta in modo tenero e imbarazzato, da commuovere. Si chinò verso l'orecchio del macchinista e urlò che era assai dispiaciuto, certo, era proibito, ma che fare?, il bambino, il piccolo Eliezer qui presente, aveva chiesto di vedere almeno una volta in vita sua, un'ultima volta, la locomotiva di un treno. Proprio così, parola per parola. Mi accarezzò i capelli e mi accorsi che lanciava uno sguardo carico di significati in direzione del macchinista e scuoteva la testa, indicando me. All'inizio non capii cosa stesse dicendo, ebbi la sensazione che stesse mentendo. Una menzogna mostruosa, come fossi un bambino che ha intrapreso una specie di viaggio d'addio al mondo, un viaggio per vedere esaudite le sue ultime volontà prima di morire, Dio ce ne scampi, di una brutta malattia. Impossibile, mi dissi: evidentemente a causa del rumore non avevo sentito bene la sua spiegazione. Sogghignai per quanto ero stato stupido, un mezzo ghigno un po' spaventato: impossibile che un uomo elegante e dignitoso come lui mentisse a quel modo, e una bugia così insulsa per di più, perché, a quanto mi risultava, ero sano come un pesce, con solo una leggera tendenza al raffreddore da fieno. Ma a quel punto vidi lo sguardo addolorato e sgomento del macchinista e pensai che forse non mi ero sbagliato, che Felix doveva avergli detto davvero quelle cose terribili, in quel suo modo dolce, con quella sua tristezza languida e traboccante di sincerità. E io? Io, niente. Incollato alla parete del vagone. L'immenso motore mi ringhiava sotto i piedi, e rimbombava fin nel cervello. Il calore mi scioglieva quel poco di buon senso che mi era rimasto. Non mi venne nemmeno in mente che papà non avrebbe mai permesso a Felix di fare una cosa del genere. Avevo totale fiducia in lui e non gli urlai di tacere. Non dissi al macchinista che stava mentendo. Guardai Felix con occhi bovini e pensai che stavo sognando. Come aveva potuto inventare, così su due piedi, quel pretesto? Come aveva fatto a restare così impassibile nel dire una bugia? Mi ci sarebbero voluti anni per arrivare a un simile controllo del viso: le mie bugie le si scopriva in un istante. Tranne Mikah che, chissà perché, ne era innamorato. Felix era un adulto e mentiva! E che bugie! Bugie che fecero ammutolire il macchinista. Bugie impronunciabili, anche solo per scaramanzia! E io lì, zitto. Lo ammiravo. Contro la mia volontà. Con smarrimento, con ribrezzo per la sua impertinenza. Con rispetto. Questa è l'amara verità. Con un senso di ribellione verso quel che stava facendo. Sì. Ma anche con condiscendenza e sottomissione. Come se mi annullassi davanti a lui, come se mi stessi sciogliendo, io e tutti gli insegnamenti che mi erano stati impartiti, tutti gli indici che mi erano stati messi sotto il naso: "Proibito! Proibito!", e la ruga terribile che aveva papà in mezzo agli occhi, quella che diventava cupa e profonda nei momenti di rabbia, quel tratto dritto e nero che incombeva costantemente su di me come un punto esclamativo. Mi parve ancora, per un ultimo istante, di pronunciare un grido sommesso: "No! Non è giusto! Non va bene!", ma al tempo stesso mi sentii trapassare da uno strano inno di giubilo, unito al rombo del motore e al sussulto della locomotiva, quasi fossi stato trasportato in un altro mondo dove tutto era lecito, dove non c'erano né insegnanti severi né sguardi paterni pieni di disperazione, dove non c'era bisogno di affannarsi sempre a ricordare quel che si può e quel che non si può fare. Comunque, non era il caso di agitarsi. Detto fatto.

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Come quando Dio ha detto: "Sia la luce!" e la luce fu. Sì, lo stimai perché era capace, con tanta facilità, di chiudere delle persone dentro uno scompartimento sprecando un prezioso orologio d'argento, perché osava entrare in un luogo dove era scritto a chiare lettere ASSOLUTAMENTE VIETATO L'INGRESso, e prendere per il naso il macchinista con una bugia terribile, impronunciabile. Come se tutto gli fosse permesso. E il mondo fosse il suo giocattolo. Niente regole, se non le sue. E ancora non sapevo di cos'altro fosse capace. Per il momento era immerso nella sua menzogna fino al collo e ci credeva ciecamente, perché questo era il sistema per renderla credibile, come quando si prepara una "copertura". Lo guardai e riconobbi esattamente quel punto caldo che ronzava fra i suoi occhi. Era la prima volta in vita mia che riuscivo a riconoscere questo solletico in qualcun altro. Ma Felix era ormai così convinto della sua bugia che mi guardò con aria compassionevole e struggente; e io - sano, si sa, come un pesce allergico - in un attimo mi sentii venir meno e vidi calare su di me, dagli occhi amorosi di Felix, un alone diafano di malattia, di debolezza estrema da cui mi lasciai avvolgere, dentro e fuori, ansioso di scomparirci dentro. Fu così che nacque in me quella nuova sensazione, quella leggera ebbrezza che mi sfrigolava in testa, una goduria prossima allo spasimo. Mi piacerebbe poter dire di avere lottato più a lungo, di aver scoperto in me un carattere più temprato. Niente di tutto questo. Nel giro di qualche minuto Felix mi aveva reso suo complice. Non ebbe nemmeno bisogno di prepararmi, come se sapesse esattamente di che pasta ero fatto e non avesse dovuto far altro che soffiare sullo strato di polvere che copriva il vero Nono. Cioè quello impostore... Chi sono...? Mi appoggiai alla parete della locomotiva, gli occhi di Felix fissi su di me. Anche quelli del macchinista. Mi accorsi che stavo facendo una smorfia di dolore, che mi stavo rintanando in me stesso. La vita, la mia preziosa vita stava colando via. Avevo freddo. La locomotiva era un forno, ma cominciai a tremare violentemente. Il tremore causato dalla sconvolgente menzogna di Felix si mutò in tremito di malattia. Di disperazione di tenebre. Cominciai a soffrire, un dolore vero e straziante per il mio destino, per la terribile malattia che mi stava divorando, per quel sipario nero che stava inesorabilmente calando sulla mia breve vita. La mano destra all'improvviso sussultò come una belva agonizzante, evidentemente a causa della malattia, sintomo inequivocabile del mio male - non che me lo fossi preparato prima. Si mise a spasimare: chi avrebbe mai potuto immaginare che avessi una mano così dotata per la recitazione? Peccato che non ci fosse Gabi a vedermi, anche se in quel momento non pensai a lei, questa cosa mi viene in mente solo ora forse per l'imbarazzo che provo nel raccontarlo. Ma allora non mi sentivo per niente imbarazzato, ero pieno d'orgoglio per questa mia spettacolare messinscena. Per il fatto che gli occhi di Felix si fossero dilatati nello stupore mentre io storcevo la bocca, come lottando per l'ultimo respiro. Ero fiero soprattutto del fatto che Felix fosse soddisfatto di me, come un maestro del suo allievo. Finalmente qualcuno soddisfatto di me come allievo, anche questa era arte, no? Uno scrittore inventa storie, e una storia non è forse una specie di bugia? Eccomi dunque nella locomotiva in corsa, con il sangue che pulsava, a fissare il macchinista con occhi languidi, uno sguardo implorante, ma anche e

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comunque rassegnato a un eventuale rifiuto: lei, signor macchinista, dovrà rispettare le regole - diceva il mio sguardo - c'è un regolamento, certo che la posso capire, mio caro, se non sarà disposto a trasgredire nemmeno per un momento, giusto per far contento un bambino nelle mie condizioni, già, cos'è la sofferenza di un bambino di fronte a regole e regolamenti? in fondo è per merito loro che il mondo va avanti, per merito loro che il sole sorge ogni mattina, è sempre per merito loro che questo treno viaggia puntuale, mentre di bambini piccoli in punto di morte come me ce ne sono a frotte, e di locomotive così, uniche e speciali come questa, non ce ne sono altre: "Grazie, grazie signore" bisbigliavano aridamente le mie labbra, mentre, un istante prima che crollassi a terra, il macchinista correva a sorreggermi e mi porgeva uno sgabello, perché si sa che le bugie hanno le gambe corte e si reggono male... Un successone. Il macchinista ci cascò. E sgorgò dentro di me un'immensa felicità: ci ha creduto! Mi ha creduto! A me, che tante volte ho detto la verità senza essere creduto! Yempa e Heide! Il macchinista si asciugò il viso e la pelata con un lurido straccio azzurro, si appoggiò al suo sedile fissato al pavimento e scosse la testa con imbarazzo. Non osava guardarmi. Fissava Felix, senza sapere che, così facendo, decretava il proprio destino. Con voce roca e sommessa cominciò a spiegare il funzionamento della locomotiva, parlò della sua potenza, «milleseicentocinquanta cavalli» disse a denti stretti, lanciandomi uno sguardo furtivo. Era un uomo semplice, massiccio e ben piantato, con una selva di peli riccioluti sulla schiena e sulle braccia. E persino nelle orecchie. I discorsi non erano il suo forte ma, data la mia situazione, ce la metteva davvero tutta. Mi offrì di sedermi sulla sua sedia e con cautela si chinò su di me, spiegandomi ogni comando, interruttore e quadrante, lanciando continuamente degli sguardi timorosi alla porta per paura che entrasse qualcuno e scoprisse degli estranei all'interno della locomotiva. Anche Felix fece delle domande, dove sono i freni, come si aumenta la velocità, come si fischia; e il macchinista, contento e forse persino lusingato da quell'interessamento, dimenticò per un po' i suoi timori e si mise a raccontare. Ci mostrò il freno dell'intero convoglio e quello piccolo che agiva solo sulla locomotiva. Mi lasciò schiacciare l'interruttore sonoro e sopra di noi si udì un fischio forte, malinconico, come se il treno si lamentasse della bugia introdotta in lui. A quel punto mi rattristai per una cosa completamente diversa. Pensai: in classe nessuno crederà mai che ho azionato il fischio di un treno in corsa. Sapevo di non avere alternative, per rendermi credibile avrei dovuto rinunciare a questo particolare della storia. Il macchinista ci mostrò come portava il treno a centoventi all'ora e a Felix venne in mente che, da bambino, in Romania, amava sdraiarsi su una roccia sporgente sotto la quale passava il treno, trattenendo il respiro quando la colonna di fumo saliva ad avvolgerlo. Da parte sua il macchinista rievocò i tempi in cui, ancora in Russia, guidava locomotive a vapore antidiluviane, mica come questo giocattolino moderno, un diesel a dodici cilindri, produzione General Motors; in Russia, quando faceva ancora il fuochista, una volta, nel bel mezzo del viaggio, aveva scoperto che il macchinista era sbronzo, se lo immagina, signore? e lui da solo aveva salvato tutto il treno, nientemeno! Gli occhi di Felix lo guardavano con dolcezza, era per loro che il macchinista si stava

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sciogliendo in chiacchiere: sciorinò le meraviglie della sua locomotiva, che pesava da sola cento tonnellate, senza contare il peso dei vagoni e quello dei passeggeri, che ammontava nel complesso ad altre cento tonnellate, dunque una bella responsabilità; poi ci mostrò una lettera di congratulazioni, sgualcita e affumicata, che teneva sempre nella tasca della tuta. In breve, ero preoccupato che il viaggio finisse prima di riuscire a continuare l'avventura di papà e Gabi. Ma a quel punto. «Cosa ne pensa, signor macchinista» attaccò Felix col suo sorriso largo e accattivante, «permetterebbe a un bambino come questo di guidare per un momento la sua locomotiva?»

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CAPITOLO 7. ALCUNE IMPRESSIONI PERSONALI IN MERITO ALLA GUIDA DELLE LOCOMOTIVE. E PARIMENTI SULLA DIFFICOLTA' AD ASTENERSENE. No, pensai, l'ha detto tanto per dirlo. Sfoderai quel mezzo sorriso, consapevole che, se il macchinista fosse stato d'accordo, magari, per carità, magari e per carità, mi sarei trovato costretto a guidarla, la locomotiva. Felix ripeté la sua domanda e mi sentii mancare la terra sotto i piedi. La locomotiva, molto ingenuamente, correva. Dei pensieri sconnessi si agitavano in me al ritmo del treno: la locomotiva trainava dei vagoni, nei vagoni c'erano delle persone, passeggeri innocenti. Felix forse non sapeva che poca esperienza avessi in fatto di rotaie. No, un bambino non può guidare una locomotiva... Lentamente crollai sullo sgabello di fianco, lasciandomi prendere dall'infermo Eliezer. «Per carità!» tuonò spaventato il macchinista, scuotendo la testa con decisione, «cosa le salta in mente, signore? è diventato matto? Lei è una persona seria, no? Mi licenzierebbero!» Gli offrii un debole sorriso di incoraggiamento. Ma anche Felix gli sorrise in quel suo modo contagioso che, al solo guardarlo, costringeva a sorridere pure te, anche se in quel momento non eri per niente di buon umore. Come il macchinista. Era ben lungi dall'essere allegro, ma Felix gli sfoderò il suo luminoso sorriso che partiva dalle labbra e risaliva fino agli occhi, coinvolgendo le tre rughe ai loro lati, e lo faceva sembrare una stella del cinema scesa momentaneamente dallo schermo per incontrare i comuni mortali. Un sorriso sempre più largo, come il sole che sorge e ti abbaglia con l'ardore dei suoi raggi fino a inondare tutto, finché tutto gli assomiglia. A quel punto le labbra del macchinista si schiusero spontaneamente in un sorriso. Per mia fortuna in quell'uomo c'era dell'altro oltre a quel paio di volubili labbra. Distolse rabbiosamente lo sguardo dalla radiazione ultrabluetta di Felix e borbottò: «Signore! Con tutto il rispetto: è troppo! Ora vada via subito con il bambino, o io...». Ma Felix non era tipo da demordere. Fece cenno al macchinista di avvicinarsi a lui, e questi si allontanò, quasi gli avessero proposto qualcosa di sconcio. Felix però scosse di nuovo la mano, o meglio, il dito - quella lunga, affusolata estremità che pareva scolpita nell'avorio. Il macchinista osservò con gli occhi sbarrati quel dito che gli faceva cenno, lo attirava a sé, ed eccolo ormai con la testa attaccata a quella argentea di Felix, uno saldato all'altro: una testa leonina con la chioma canuta e ondulata, contro una calva e rossastra che finiva in un collo taurino sopra una canottiera imbrattata. Bisbigli. Con fermezza il macchinista fece segno di no e gli vidi gonfiarsi il muscolo tondo del braccio. Felix batté lievemente sul bicipite, placò il muscolo ribelle, lo addolcì con gesti delicati, impercettibili... La testa taurina era immobile, in ascolto, le spalle un poco rilassate. Allora mi resi conto che la cosa era decisa. Felix continuava a bisbigliare nel grande orecchio peloso e si capiva che le sue parole fluivano soffici e cremose dentro quell'organo abituato a ben altri rumori, più assordanti e striduli. Il macchinista piegò leggermente la testa e mi guardò di sbieco con l'occhio sinistro - un occhio piccolo, percorso da un reticolo di capillari, esausto, come se si fosse arreso a una forza occulta che faceva di lui quel che voleva.

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Sulla locomotiva in corsa, fu quella la prima volta che m'imbattei nell'energia di Felix. Una forza misteriosa e buia, un alito di calamita che gli promanava da dentro. Nei giorni che seguirono glielo vidi fare altre volte, e poi, negli anni successivi, indagando su di lui sempre più a fondo, sentii molte cose di questo genere e, chiunque fosse a raccontarle, diceva che Felix sottometteva gli altri - non c'è in effetti altro modo per dirlo - costringendoli a fare quel che voleva lui. La cosa incredibile era che normalmente non ricorreva alla violenza, anzi, era come se aprisse fra lui e il prossimo un baratro rivestito di buon cuore, di sorrisi, affetto e compassione. Gli altri erano così ansiosi del suo affetto e della sua compassione da caderci dentro come svenuti, come fogli di carta dentro un libro di favole. A quel punto, con spensierata destrezza, Felix richiudeva il baratro, tirava la cerniera e proseguiva per la sua strada, mentre loro precipitavano nel buio della voragine, divenuta tutt'a un tratto la valigia di un impostore. E io? Che ne era di me? Com'è che continuai a credere alla sua storia? Cosa feci, cosa provai? Ero come tagliato in due: una parte di me tentava di fare le sue rimostranze e di smentire, fiaccamente, tutto quel che Felix millantava. Ma l'altra, va da sé, senza che lo volessi era nelle mani di Felix, nei guizzi dei suoi occhi azzurri, nella sua folle audacia. La terza (in realtà ero spaccato in tre) pensava: che scemo sei, Nono, c'è qualcuno della tua classe che ha mai guidato una locomotiva? Un'occasione unica al mondo per un bambino! Cosa dirà papà nel sapere che hai rinunciato a questa cosa da lui combinata appositamente per te? «Bene» sussurrò il macchinista, drizzandosi con fatica, «ma solo per poco, mezzo minuto, non di più, è veramente proibito...» Si appoggiò gravemente alla parete di fronte a me, continuando a scuotere la testa contrariato ma con le braccia abbandonate lungo i fianchi e lo sguardo assente: «Ma solo per poco, non va mica bene...» continuava a mormorare con voce sorda, mentre la testa andava su e giù, come cercando di respingere quello che stava subendo. «Prego, Eliezer» mi sorrise Felix tutto allegro, «a te la guida.» Mi sedetti sul sedile girevole, poi afferrai con la destra la maniglia dell'acceleratore e sistemai la sinistra sul freno d'emergenza, come aveva fatto il macchinista. Notai che si stava appoggiando a me, stringendomi la mano sul freno, ma non avevo bisogno dei suoi consigli. Capii che, senza rendermene conto, avevo assimilato i suoi movimenti, come se fin dall'inizio avessi saputo che Felix mi avrebbe proposto di guidare. Accelerai un po' e la locomotiva mi rispose con un ruggito. Era troppo veloce, almeno per i primi passi. Tirai il freno piccolo, liberai un po' d'aria con la manopola superiore e mi resi conto che sapevo guidare. Anche papà era così, capace di salire su un veicolo qualunque e guidarlo subito. Ma, a quanto mi risultava, non aveva mai provato con una locomotiva. Non pensai a lui in quei momenti. Se lo avessi fatto, forse avrei capito che qui c'era qualcosa di molto, troppo strano. Mi passò solo per la testa che, raccontando ai miei compagni di scuola quel che mi era capitato, avrei dovuto rinunciare a questa parte della vicenda, perché non mi avrebbero creduto. Se non altro, però, avrei potuto conservare la storia del fischio che avevo prodotto pigiando l'interruttore, perché al confronto era una cosa più che ammissibile. Ricordo che avevo davanti un finestrino non troppo grande, di cui solo

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una striscia senza polvere e sporcizia, e che vedevo le rotaie venirmi incontro a folle velocità per finire inghiottite sotto di me. Il macchinista stava appoggiato con tutta la sua mole sulla mia schiena e la sua mano era avvinghiata alla mia, sulla manopola del freno. Come se tutta la sua energia vitale si fosse concentrata in quell'ultimo, fatale punto. Felix, invece, era raggiante: gli occhi brillavano come due diamanti celesti. Era entusiasta per avermi offerto quel dono folle e immenso. Attraversavamo la pianura, ci sfrecciarono davanti coltivazioni di banane, terra argillosa e rossastra, cipressi, campi, sabbia piena di solchi... alla nostra destra una strada, ricordo bene che correvo più veloce di una macchina rossa. Allora, di colpo, successe. Esplose tutto: l'energia della locomotiva si trasmise in me come un'ondata, il ruggito, la potenza e la velocità mi fecero tremare le mani, il fremito percorse le braccia e s'insinuò nel petto. Era tutto più grande e più potente di me, incontenibile nel mio corpo: così cominciai a strillare a più non posso, stavo manovrando cento tonnellate di locomotiva ed era come se un grande tamburo mi suonasse nel petto. Che ardore mi prese: tirai la leva dell'acceleratore e la lancetta si mosse, Heide! Cento tonnellate di locomotiva, cento tonnellate di vagoni, per non parlare dei poveri, ignari passeggeri, all'oscuro di tutto! Se volessi, potrei far deragliare questa locomotiva, farla uscire dalle rotaie e farla correre per i campi, nessuno mi fermerà, milleseicentocinquanta cavalli legati al mio carro e io, che fino a un attimo fa ero soltanto un comune viaggiatore, peraltro nemmeno maggiorenne, ora sono fuori della mischia: qualcuno mi ha scelto per guidare e mi pare che lo stia facendo mica male, papà dovrebbe essere fiero di me, sto guidando, sto guidando questa locomotiva perché non ho avuto paura, non sono fuggito di fronte al pericolo, dunque posso tutto, non ci sono limiti né leggi, mai... Felix e il macchinista dovettero impiegare tutta la loro energia per staccarmi dai comandi. Non ricordo esattamente cosa successe. So solo che lottai con tutte le mie forze perché mi lasciassero guidare ancora. Ero come un animale selvatico: più energico di loro due, perché attingevo la mia forza direttamente dalla locomotiva, dai suoi milleseicentocinquanta cavalli. Ovviamente ci riuscirono. Insieme mi strapparono via. Sentii le braccia di Felix stringermi fino a farmi male. Per un uomo della sua età, era molto forte. Mi scaraventò sullo sgabello. Grosse gocce di sudore colavano dalla fronte del macchinista, scendendo fin sulle guance e sul collo. Mi guardò con ribrezzo, quasi avesse scoperto un che di sgradevole e terrificante: «Ora andate via» disse, con l'immenso torace che andava su e giù, «vi prego di andare via» ripeté sul punto di urlare. «Sì, sì, certo» disse Felix con tono svagato. Guardò l'orologio sulla parete della locomotiva, mormorando fra sé: «Puntualissimo. Grazie molte di tutto, signor macchinista, e scusi del danno arrecato.» «Per fortuna non è successo nulla» gemette quello, ansimando e tenendosi la testa tra le mani, frastornato. «Com'è potuto accadere... come ho potuto... basta... ora andate via. Basta.» «C'è solo un problemino...» aggiunse Felix. Incominciavo a conoscere quel tono pacato, felino, che si nascondeva sotto le sue cortesi parole, e divenni un po' inquieto. Il macchinista, del resto, arrossì di colpo. «Noi due, infatti, dobbiamo scendere un po' prima di Tel Aviv» spiegò

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Felix in tono di scusa. Poi tirò fuori dalla tasca un fazzoletto, con cui si picchiettò delicatamente la fronte per assorbire una goccia di sudore sgorgata nel corso della colluttazione. Per un attimo una lieve fragranza di profumo aleggiò all'interno della locomotiva. «Fra mezz'ora saremo in stazione. Aspettate tranquilli nel vostro scompartimento!» strillò il macchinista, e le sue dita sbiancarono sull'impugnatura del freno. «Chiedo scusa!» riprese Felix pazientemente. «Forse il signore non mi ha capito, per via del mio ebraico un po' difettoso: noi dobbiamo scendere dal treno "prima" di Tel Aviv. Prima di quel bosco, laggiù. Tre chilometri, forse.» Sbirciai attraverso il finestrino coperto di polvere. Il treno viaggiava in pianura, fra campi ingialliti, e sull'orizzonte gravava una massa scura - il bosco, evidentemente. Lanciai un'occhiata all'orologio della locomotiva: segnava le tre e trentadue minuti. «Ora saranno solo due chilometri» disse Felix cordialmente, «converrebbe rallentare un po'.» Il macchinista si voltò di scatto. Era un uomo corpulento, per di più gonfio di rabbia: «Se voi due non sparite immediatamente di qui...» iniziò a dire, con le vene sul collo che spiccavano come muscoli in tensione. «Un chilometro e mezzo, ormai» osservò Felix con molta calma, guardando dal finestrino. «Su, la nostra macchina ci starà già aspettando, dunque incominciare la frenata, prego.» Il macchinista si girò un istante a guardare dal finestrino e sbarrò gli occhi. Una vettura lunga e nera era ferma sui binari. Aveva le porte colorate di giallo. Rimasi di stucco: prima Felix aveva detto qualcosa a proposito di una macchina che ci aspettava per le tre e trentatré, ma chi avrebbe mai immaginato che intendesse una cosa del genere? Che durante il viaggio.. Io e il macchinista sembravamo due automi. Voltammo lentamente lo sguardo verso Felix e quel che aveva in mano. Non può essere, pensai, è un brutto sogno Il macchinista si rese conto prima di me ch'era brutto, ma che non era un sogno. Con un gemito profondo si diresse verso la leva del freno e cominciò ad arrestare il convoglio. Doveva aver usato il freno d'emergenza perché mi sentii risucchiare e sbalzare in avanti, mentre la locomotiva fu pervasa da un forte odore di bruciato Dell'aria compressa sbottava fischiando, mentre dai fianchi schizzavano scintille incandescenti, i freni stridevano, i vagoni sussultavano e gemevano. Finché tutto sprofondò nel silenzio, il treno restò muto. Colpito. Solo il motore borbottava e ribolliva. Per un intero minuto nessuno si mosse. Che silenzio tremendo. Anche dai vagoni dietro di noi non giungeva alcun rumore. Evidentemente erano tutti in stato confusionale e non riuscivano a parlare. Poi udii il pianto lontano di un bambino. Lanciai un'occhiata e m'accorsi che il treno era fermo in mezzo a un campo di stoppie. Ricordo i grigi alveari disposti in fila. «Vieni, dobbiamo affrettarci» disse Felix scusandosi; poi mi sollevò dallo sgabello e mi condusse verso la porta. Mi tremavano le gambe. Felix dovette sorreggermi e aprire la porta della locomotiva con l'altra mano, quella che impugnava la pistola. Scesi con difficoltà gli scalini di metallo, le mie gambe cedevano, come se mi avessero tolto le ginocchia. «Arrivederci, signor macchinista, e molte grazie per la sua cortesia» disse Felix sorridendo a quell'uomo sbigottito, appoggiato ai comandi, con due pozze di sudore che si andavano estendendo sulla canottiera. «E scusi per il piccolo disturbo.» Poi andò alla radio appesa alla parete, vicino al macchinista, e con un gesto fulmineo, come

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il morso di un serpente, la staccò strappando anche il cavetto nero a spirale. «Venga, signor Feierberg» mi disse gentilmente, «la nostra vettura ci sta aspettando.»

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CAPITOLO 8. FREGATURE NEL RAMO GIOCATTOLI. Nera. Con le porte giallo limone. E grande. La più grande che avessi mai visto in vita mia. Ossequiosamente ferma in mezzo al campo, nei pressi di una strada sterrata. Come un mastodontico cane lasciato ad aspettare i suoi padroni. Non ce n'erano tante a quell'epoca, in Israele, di macchine del genere. Non ce n'era nemmeno una che le assomigliasse. Era nuova di zecca, scintillante, travolgente. Pensavo che fosse una Rolls Royce, ma era qualcosa di più. «Prego, aspetti che faccio strada, signor Feierberg!» e mi precedette di corsa, agile e leggero, per spalancarmi la porta di un mondo fastoso. Sgusciai all'interno, gongolando su un sedile di lusso, morbido, rivestito di velluto. Papà e io avevamo una volta una vecchia macchina che accudivamo insieme. Una Hamber Pullman anni quaranta, come quella che usava la regina Elisabetta, e il generale Montgomery quando aveva percorso di volata il deserto occidentale. La chiamavamo "la perla". Papà l'aveva trovata dal rottamaio, mezza demolita, e per anni e anni l'aveva lentamente ricostruita, con pazienza e devozione. Quando ne ebbi l'età, mi ci dedicai anch'io. Alla fine fummo costretti a regalarla. Che storia triste. Ma in confronto a questa macchina di Felix, persino la nostra Hamber faceva la figura di un rottame; del resto anch'io, in quei momenti, non dovevo avere un'aria particolarmente simpatica. Per via dello spavento, del trauma. Gabi diceva sempre che, secondo lo standard internazionale BB (Birichinate e Birbanterie), io mi meritavo un nove nella scala Max e Moritz. Quando in sala professori veniva fatto il mio nome, dodici fra uomini e donne si drizzavano sulle zampe di dietro, battevano concitatamente nell'aria con quelle anteriori, ed emettevano nitriti sprezzanti e bavosi. Ero fatto così. Solo che qui, con Felix, il treno, la gente imprigionata nello scompartimento e il macchinista, mi era capitata una cosa che andava ben al di là delle birichinate, qualcosa che apparteneva al mondo dei grandi: pistole, crimini veri, film autentici; e io non facevo altro che tenermi a galla in mezzo a questa burrasca come una bollicina. Con uno stridio di gomme Felix lanciò la macchina e una nuvola di polvere si levò intorno a noi. Ma ne emergemmo neri e luccicanti. L'auto sberluccicava anche all'interno, nel rivestimento di velluto rosso e nel legno ambrato della plancia. Un pannello di vetro divideva i posti davanti da quelli dietro, delle tendine di seta coprivano il lunotto. Non ero mai stato su una macchina del genere. Non avevo mai dirottato un treno passeggeri. Non avevo mai avuto così tanti "mai" in un giorno solo. «Bottone nero» disse Felix, indicandolo. Schiacciai. Con un movimento circolare si aprì un piccolo scomparto illuminato. Dentro c'era un piatto con un panino avvolto nella pellicola, delle fettine di pomodoro e degli spicchi di melone. C'erano anche dei frutti che non conoscevo. Oggi ritengo che fosse ananas fresco, ma a quell'epoca l'ananas cresceva solo nei libri e nelle scatole di conserva. Presi cautamente il piatto decorato con un sottile filo dorato, come quello intorno al quadrante dell'orologio di Felix, e ci passai un dito sopra: era la prima volta in vita mia che toccavo dell'oro. «Pensavo che avresti avuto fame. Ti ho preparato un sandwich. Formaggio svizzero, come piace a te, non è così?» Annuii con un cenno del capo.

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Quell'accoppiata, rapina al treno e formaggio svizzero, mi aveva steso. «Mi porti a Haifa?» chiesi. Felix rise: «Ehi, non hai un filo di pazienza! Abbiamo per te un programma molto più super!» «Tu e mio papà insieme?» <Ah! Sì. Noi due. Insieme. Ognuno ha agito per conto proprio.» Viaggiammo in silenzio per qualche minuto. Non è proprio che avessi capito la risposta. Avevo cento domande da fare e non sapevo da quale cominciare, tutto era stato così repentino e improbabile: com'era possibile che papà avesse acconsentito a un programma del genere, una cosa così illegale, il dirottamento di un treno, e per di più sotto la minaccia di una pistola! Supponiamo che egli fosse rimasto entusiasta della prima, più modesta idea di Gabi (cosa poco plausibile, ma supponiamolo pure) e avesse cominciato a svilupparla, organizzandomi così una specie di film poliziesco: come mai lei non l'aveva fermato a metà? "Roba da far rizzare i capelli" mi aveva scritto nella lettera: ma così! così non va bene, pensai, così è troppo pericoloso per un bambino della mia età. Mi misi in ascolto: ora papà non diceva più che alla mia età mandava avanti praticamente da solo la fabbrica di suo padre. Forse anche lui s'era accorto di essere andato un po' oltre con la sua idea. Mi sentii travolgere dall'ansia, come paralizzato. Già, forse era tutto sbagliato. Forse stavo commettendo un errore imperdonabile. Quale? «Se sei preoccupato, posso riportarti subito a casa.» disse Felix. «Mi riporteresti a Gerusalemme?» «In un'ora. Questa è una Bugatti, niente di più veloce sul mercato.» «E sarà la fine del gioco?» «Ma, se vuoi, posso riportartici questa sera. E, sempre se vuoi, magari si fa per domani sera. Tu decidi, io eseguo. Yes, sir!» e, ammiccando, mi fece il saluto militare. «Così ha detto mio papà?» «Stai per fare la maggiorità religiosa, mio piccolo signor Feierberg, il che vuol dire che sei già un uomo!» Uomo non proprio, pensai. Era pur vero che qualche volta avevo già fumato di nascosto una sigaretta, aspirando, e avevo persino sbaciucchiato tre compagne di classe, solo per scommessa. E Smadar Kantor aveva dichiarato, nei pressi del suo pollaio, che io ero un maschio pericoloso, uno che giocava con i sentimenti. Ma quando mi accomodai accanto a Felix sulla macchina, mentre ci lasciavamo alle spalle, sul campo, un treno intero, scosso e umiliato, mi resi conto di essere ancora un bambino tredicenne. Cioè, lo sarei diventato il sabato seguente, per cui questa avventura mi stava davvero un po' grande. Mi scorrevano nella mente gli ultimi istanti sul treno: quando il macchinista aveva scorto la pistola in mano a Felix e gli occhi gli erano schizzati fuori dalle orbite per il terrore, e poi il gesto rapido con cui Felix aveva staccato la ricetrasmittente, in modo che il macchinista non potesse chiamare i soccorsi. E ancora, una volta scesi dalla locomotiva, avevo visto una cosa che non avevo capito: Felix aveva tirato fuori qualcosa dalla tasca della giacca, un oggetto minuscolo, come un anello e l'aveva gettato in aria, accanto alla locomotiva. Non ero riuscito a vedere cosa fosse, avevo scorto solo un luccichio dorato nella luce del sole e udito un lieve tintinnio, come di una moneta che cade. Viaggiavamo in silenzio. Le gomme sollevavano la polvere della strada, ma dentro la vettura l'aria era fresca e pulita. Ci inerpicammo lungo uno stretto sentiero. L'auto occupava tutta la larghezza della carreggiata. Passammo davanti a un villaggio, forse era

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un kibbutz. Non ci feci caso. Di proposito trascuravo le istruzioni impartitemi da papà. Non lessi i cartelli, non annotai dei punti di riferimento, non controllai la distanza percorsa, rilevabile dal contachilometri, non memorizzai le iniziali dei cartelli stradali verso nord, sud eccetera. Ce l'avevo con papà e con le idee esagerate di loro due. Lo tradii, così come lui aveva tradito me. Continuava a martellarmi il pensiero che una sorpresa per il bar-mitzvah è qualcosa che deve mettere di buon umore, non spaventare a quel modo. «Vuoi andare a casa, non è vero?» «No!» Un "no" che ringhiai a denti stretti, così Felix mi lanciò un'occhiata e cominciò a rallentare, finché la macchina fu quasi ferma. Silenziosamente a galla sulla strada. Sentimi bene, mi dissi: è un momento difficile. E sei quasi arreso. Cerca però di essere un briciolo più forte. E' vero che hai avuto una dura esperienza e sei un po' scosso, ma in fondo non ti è successo nulla. Sei a bordo della più bella automobile del mondo. Stai per mangiare ananas (presumibilmente) e formaggio svizzero, in un piatto bordato da un filo dorato e, se sarai coraggioso, vivrai con questo Felix un'esperienza che nessun altro bambino ha mai vissuto prima di te. E non un'esperienza immaginaria, come quelle storie che ti inventi tu. Allora piantala di lagnarti. Stai dritto. Sorridi. Non cercare di essere un uomo, incomincia con l'essere Nono, come ha scritto Gabi nella lettera. Mi capitava di parlare così con me stesso, per incoraggiarmi. In quelle occasioni avevo una voce speciale, un tono rude e intransigente, ma interiore, frasi brevi ed efficaci, tipo slogan o ordini inviati via radio nel corso di un'operazione. A volte mi serviva davvero. Già. Mi stiracchiai un po'. In quella macchina si poteva comodamente allungare le gambe. Divorai il sandwich, mangiai cautamente il mitico ananas, assaporandolo con tutta la lingua. Drizzai le spalle. Fischiettavo tranquillamente fra me e me, giusto per essere sicuro di aver ritrovato la calma. Di una cosa ero certo: dopo quell'ananas, qualcosa in me era molto cambiato. Felix guidava in silenzio. Ogni tanto mi lanciava uno sguardo perplesso nello specchietto, quasi si stesse chiedendo se per caso mio padre non lo avesse ingannato, se fossi davvero sufficientemente maturo e coraggioso per quel che lui aveva in mente. La volta successiva ricambiai con uno sguardo deciso, diretto, come mi aveva insegnato papà: uno sguardo deciso è una dichiarazione di sicurezza in se stessi. Come gonfiare i muscoli. Stratagemma non da poco per un bambino gracile come me. Mi accorsi che la cosa funzionava anche con Felix. Mi sorrise. Ricambiai. Lui premette un bottone e, sopra la mia testa, il tettuccio lentamente si aprì, ripiegandosi all'indietro: ecco il cielo azzurro. Mai visto eccetera. L'aria fuori era calda e gradevole. Accesi la radio senza chiedere il permesso. Musica americana. Mi sentii americano. Feci una faccia americana. Felix rise, buttando la testa all'indietro. Ecco: ho finalmente trovato un adulto che riesco a far ridere. «Noi abbiamo una Hamber Pullman» dissi a Felix. «Ah sì? Fantastico! Sei valvole, vero?» «Sì. Nera come questa.» «Le Hamber Pullman sono tutte nere!» Solo sul parafango aveva una striscia bianca. Perché era nata in Inghilterra all'epoca della guerra mondiale e c'era il coprifuoco, le strade erano buie, così le avevano fatto un segno perché i pedoni la vedessero. «Papà l'ha scovata da un

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rottamaio. Ancora prima che io nascessi.» «E come c'è finita una Hamber fra i rottami?» «Papà pensa che sia appartenuta a un ufficiale inglese ai tempi del Mandato. Forse l'aveva guidata da ubriaco e l'aveva distrutta.» «Yes, sir! Può essere! Agli inglesi piace bere! Johnny è sempre ubriaco!» «Io e papà ce ne occupiamo il martedì» mentii. Ce ne occupavamo una volta, nel passato. «E importante! Un'auto del genere ha continuamente bisogno di cure! La usate molto?» «Sì... ma solo in cortile. Fino al muro e ritorno. Papà ha paura di portarla fuori.» "Aveva" paura. Ci andavamo, fino al cancello. Ce ne occupavamo. Andava tutto messo al passato. «E la nostra perla.» "Era" la nostra perla. Papà la chiamava così. «Vieni, Nono, andiamo a strigliare la perla" e uscivamo con secchi, strofinacci, e un detersivo speciale, shampo per bambini, adatto a lei. Trascorrevamo così due ore senza dire quasi una parola, se non per quello che riguardava esclusivamente la perla. Mettevamo in moto e ascoltavamo il motore quasi fosse musica. Come sapeva suonarla papà, e come lei gli si concedeva, avanzando lentamente per quei tre metri fino al cancello e ritorno, quasi avesse avuto delle ruote di velluto! E se, racimolando un po' di risparmi, avessimo fatto venire una volta il mitico Roger di Naharya, esperto di macchine d'epoca, per regolare come si deve le balestre delle sospensioni? Mi si stringe ancora il cuore quando ci penso. Quanto avevamo investito in quella macchina. Una volta siamo andati fino a Tiberiade per comprare da un collezionista un treno di pneumatici speciali da deserto. Ma è tutto finito. Ancora oggi mi sento in colpa. Credo che mio padre sia invecchiato di dieci anni quando è stato costretto a cederla. «E perché non andate fuori, con la vostra macchina? Sulla strada?» chiese Felix sorpreso. «Papà dice che una macchina così... strade brutte come quelle di Gerusalemme non ne sono degne. Da noi in cortile sta al coperto, è ben protetta.» «Ah!» aggiunse Felix con una vena d'ironia, «una Hamber viaggia anche nel deserto! Dunque Gerusalemme sarebbe troppo rischiosa?» «Non so.» Anche a me qualche volta era parso un po' strano il fatto che la nostra Hamber non avesse mai varcato il cancello. Era come in gabbia. Quando, a mo' di risarcimento, l'avevamo consegnata a Mautner, lui non aveva mica avuto paura di guidarla. Solo che non aveva la minima idea di come trattarla. La prima volta che era andato fuori città, non era riuscito a controllarla e la macchina aveva capottato. Ai vicini raccontò poi che, appena l'aveva portata su una strada libera, la macchina si era scatenata come una belva e, per quanto lui pigiasse sul freno, questa correva, una macchina maledetta, aveva giurato di fronte a tutti; papà aveva sorriso amaramente, come se l'avesse sempre saputo. Mi fa male persino il ricordo. Mautner vendette la perla a un commerciante di auto usate e da allora non ne sapemmo più nulla. Non ne parlammo nemmeno più. Basta. Morta. «E questa Bugatti» disse Felix, «hai mai sentito parlare della Bugatti?» Confessai di no. «Ce ne sono soltanto sei in tutto il mondo» raccontò, «le ha fatte un genio, uno scultore, di nome Ettore Bugatti! Un po' italiano e un po' francese. Ogni macchina è un modello a sé! Special!» Osservai in silenzio il capolavoro nel quale avevo l'onore di trovarmi. «E lui, Bugatti, da solo decide a chi vendere

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ognuna di quelle sei automobili. Così ha stabilito: solo un re si merita una Bugatti! La prima l'ha venduta al re Carl di Romania, ho fatto ancora in tempo a vederlo sulla sua vettura!» «E questa? Di quale re è?» «Questa? Il re Feierberg secondo. Felix l'ha portata qui apposta per te. Un mese di nave. Bel viaggio!» «Per me?» mi sentii mancare. «L'hai portata per me? Davvero?» «Va bene, va bene, chiedo scusa: non è proprio un regalo. Solo per oggi. Perché sia bello. Per fare speciale il nostro giro.» «L'hai fatta venire per un giorno solo? Per me?» «Be' sì, cosa vuoi che sia. Qualcuno in Italia era in debito con Felix. E poi c'era un certo vecchio gentleman francese, un socio d'un tempo. Credevano che Felix fosse defunto. Nessuna notizia per dieci anni. Poi, improvvisamente, una telefonata: drin! Veloce, veloce! I vecchi amici si ritrovano, si danno da fare, un debito d'onore è pur sempre un debito d'onore! Ecco quindi la Bugatti che sbarca in Israele per una sola settimana, poi se ne torna al museo, e nessuno dirà né bi né ba, tanti saluti, arrivederci e molte grazie!» Avevo la bocca secca. Forse bisognerebbe recitare una preghiera quando si va per la prima volta su una Bugatti. Peccato che non mi veda nessuno dei miei compagni. E più ancora: peccato non essere accompagnato da un cameraman. Se anche avessero creduto al fatto che avevo guidato una locomotiva, che avevo usato il fischio, che avevo fermato un treno in corsa, be', sapevo benissimo che nemmeno Mikah si sarebbe bevuta questa, cioè che avevano portato apposta per me, via nave, la macchina di un re! Per di più con il tettuccio apribile! E allora che non ci credano, pensai rabbioso. Perché poi dovrei impressionarli? Un re tenta forse di impressionare? è un re e basta. «Che spavento si è preso il macchinista...» e scoppiai a ridere in modo esagerato, perché non riuscivo ancora a realizzare quel che mi era successo nella locomotiva senza sentirmi un po' estraneo a me stesso e senza farmi prendere di nuovo dall'ansia. Felix strinse le spalle. «Pensare che era solo una pistola giocattolo» disse. Mi sentii improvvisamente sollevato: «Una pistola giocattolo?» Strinse le spalle con aria indifferente, poi tirò fuori di tasca la pistola e me la diede. Era piccola. Piuttosto pesante. Come una vera. Il manico di madreperla intarsiato. Una volta ne avevo vista una autentica più o meno così, in un'esposizione di armi sequestrate. Papà si era soffermato a lungo, l'aveva esaminata, controllata, accarezzata, aveva guardato nel mirino e, quando gli avevo chiesto come mai gli interessava, l'aveva posata immediatamente, dicendo sprezzante: «Una pistola da donne». Ma questo a Felix non lo dissi. Il mio stato d'animo cominciava a rilassarsi piacevolmente. Presi la pistola giocattolo e ci passai la mano sopra. Come sapete, era la seconda pistola della giornata, dopo quella del finto poliziotto. Che vita monotona. Ci inoltrammo in stradine secondarie. Mi alzai e misi la testa fuori del tettuccio. Feci un cenno di saluto al fuoristrada che ci passò davanti e l'autista ricambiò, guardando con ammirazione la grande macchina nera. Mi dispiaceva di non avere un cappello da cowboy. Avrebbe completato il quadro. Lo dissi a Felix, che scoppiò a ridere, buttando la testa all'indietro, e per un istante mi sembrò di nuovo uno sparviero, una pantera, magari un po' vecchia, con la pelle cascante intorno alla bocca, ma ancora con quel

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guizzo negli occhi, quel guizzo ferino. E così, senza rendermene conto, cominciai a imitare le sue cangianti espressioni, il suo sorriso e le faville di pericolo che sprizzavano nei suoi occhi celesti... Credo di avere già parlato della mia buffa tendenza a provare su di me le facce delle persone con cui sto parlando, a sentirmi addosso le loro sembianze, tanto che ancora oggi non riesco a decidermi: sarà il segno di un talento drammatico o camaleontico? Felix, comunque, se n'era accorto subito. Ero trasparente per lui. Mi leggeva già come un libro aperto, ma la cosa non mi dava fastidio. Mi accorsi che sorrideva fra sé, come divertito all'idea che io fossi un imitatore. Perché un po' attore lo era anche lui, come aveva dimostrato nella scena con il macchinista, e sentii per lui un trasporto, un'affinità, non privi di affetto. Che coppia eravamo stati, nella locomotiva, e che affiatamento, senza che ci fossimo nemmeno accordati prima. Come si era messa a tremare la mia mano, eh? Felix diede gas, la Bugatti accelerò e lui mi ammiccò con complicità: stava nascendo un'amicizia speciale, fra due attori e impavidi avventurieri. Allora Felix mi prese la pistola giocattolo, la puntò verso il cielo azzurro attraverso il tettuccio aperto, gridò: «Heide!» e premette il grilletto. Il boato mi colpì, riecheggiando da ogni parte. In un attimo mi sentii male ed ebbi freddo. Un pennacchio di fumo si levò dalla canna della pistola. Mi accucciai sul lussuoso sedile. In un soffio mi era mancata tutta l'aria, tutta la gioia dell'avventura e la felicità della nuova amicizia. «Avevi detto... giocattolo...» sussurrai con un filo di voce. Continuando a guidare con una mano sola, Felix annusò la canna, mi guardò con quei suoi occhi da bambino e strinse le spalle, con un sorriso: «Cosa ne pensi, piccolo signor Feierberg, è possibile che mi abbiano fregato nel negozio di giocattoli?»

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CAPITOLO 9. LATITANZA. Il fumo della pistola s'innalzava sopra la mia testa, volteggiando verso il cielo attraverso il tettuccio aperto della Bugatti. Lo annusai, era un intenso odore di bruciato. «Forse bisognerebbe tornare a casa, a Gerusalemme» sussurrai. Scorsi la delusione negli occhi di Felix. «Pardon» disse. «Chiedo scusa! Mi dispiace che tu ti sia tanto spaventato, volevo solo, così, farti ridere un po'.» Le sue sopracciglia triangolari si muovevano sulla fronte, come a disagio. «Forse sono un po' troppo vecchio per riuscire a far ridere dei bambini, che ne dici?» Tacqui. Bella coppia: un adulto che non sa far ridere i bambini e un bambino che non sa far ridere gli adulti. Gli domandai se aveva dei bambini e di nuovo ebbe una certa esitazione, come se stesse valutando la risposta da dare. Come se al mondo non ci fossero fatti incontrovertibili, verità assodate, e per ogni domanda esistessero più risposte, rendendo così necessario valutare in anticipo quali siano adatte alla circostanza e all'interlocutore. Aveva deciso e sulla faccia comparve quel sorriso ormai familiare. «Be', ho solo una figlia, ma è grande» disse, «avrebbe potuto essere tua madre.» Tacqui solo per buona educazione. Nessuna donna al mondo sarebbe potuta essere mia madre. Se non Gabi, forse. «Ma questa mia bambina, non ho avuto modo di conoscerla a fondo fintanto che era piccola» riprese. «Tutta la sua infanzia me la sono persa a causa dei viaggi, del lavoro e tutto il resto. Che peccato, vero? Ho perso molto.» Non avevo voglia di rispondergli. A dire la verità, non mi sembrava molto adatto a crescere dei bambini. Mi dava l'aria di uno che sa essergli simpatico, sa divertirli per un'ora o due. Ero sicuro, per esempio, che sapesse fare le ombre cinesi e qualche giochetto di prestigio, o raccontare storie avvincenti. Allevare dei bambini, però, prendersene cura, educarli e litigare con loro, e preoccuparsi quando sono malati e consolarli quando sono tristi, come faceva Gabi con me, per esempio, be', questo no. «Perché... perché mi guardi così?» chiese Felix con una certa esitazione e un sorriso forzato. Non smisi di fissarlo. Che lo capisca, sono arrabbiato. «Io adoro i bambini, davvero...» mormorò infastidito, con un tono rincresciuto. <Si dice sempre: Felix riscuote successo con i bambini! Tutti i bambini vogliono bene a Felix...» Sì. Proprio come pensavo. Tacqui impietosamente. Perché, secondo me, chi dice di sé con tanta fierezza che "adora i bambini" - e sono in molti a dirlo - nel profondo del cuore li considera un'unica, generica creatura, con un'unica faccia e un unico carattere; insomma, gli "appassionati di bambini" li trattano davvero con disprezzo, perché chi ha mai sentito qualcuno proclamare "adoro gli adulti": non è così? Mentre di "appassionati di bambini" se ne trovano ovunque, e per loro sono tutti dolci e morbidi, fanno solo giochi allegri e ballano tutto il giorno. "Oh" dicono quegli imbecilli cresciuti, "quanto è felice la stagione dell'infanzia"', così ti viene voglia di lisciare quella loro testa tonta e dire: "Già, e quanto sono felici gli stupidi!". Bambini: attenzione agli appassionati di bambini!) «Cosa c'è?» borbottò Felix accanto a me. «Ci siamo mangiati la lingua, signor Feierberg?» Mi accorsi che lo mettevo a disagio con quei miei muti sguardi, disarmando la sua sicumera. Avevo la sensazione che mi

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stesse leggendo nel pensiero. Ma certo, pensai, continua pure a leggere. secondo me, signor Felix, se con il mio colpo d'occhio da professionista capisco bene il tuo carattere, tu sei di quelli che vogliono molto bene a se stessi e si sanno viziare e si divertono ad allevarsi come l'eterno bambino di se stessi. Ecco quello che sei! Ottima mossa. Forse crudele, ma quanto meno mi ero vendicato della pistola. Devo tristemente ammettere che non ero stato io a inventare questa efficace espressione dell'eterno bambino che vuole allevarsi, eccetera. Queste parole, rimaste incise nella mia mente, le aveva dette Gabi una volta a proposito di una donna famosa, Lola Ciperola, un'attrice che lei adorava. Era incredibile come calzasse a pennello anche a Felix: gli fremettero gli occhi e un rossore dilagò sulle guance. Afferrò il volante con le due mani e fissò lo sguardo sul parabrezza, senza dire una parola. Il silenzio durò qualche minuto. Poi Felix mi guardò di nuovo, con occhi ormai diversi. Senza più guizzi. Mi resi conto che fra noi era successo qualcosa, che c'era stato un piccolo duello e che io, chissà come, avevo vinto. «Sei un bambino in gamba, piccolo signor Feierberg» aggiunse con calma, «ma ora staremo a vedere se hai coraggio abbastanza per continuare la nostra gita.» Era buffo il suo modo di parlare ebraico, sembrava un nuovo immigrato che l'avesse imparato dai libri. La macchina nera procedeva lentamente, come planando. Ora avrei dovuto decidere se dire "basta" e farla fermare. Far fermare tutto. Interrompere di colpo un sogno strano, piacevole, spaventoso e frastornante. Un sogno appena iniziato, un sogno che era tutto un enigma: impossibile sapere come si sarebbe potuto sviluppare. Chiusi gli occhi. Cercai di concentrarmi per decidere, ma i pensieri si sparpagliavano e giù, nel profondo del cuore, sentivo il grumo freddo, pesante, di una paura che non aveva nome, paura per quel che mi stava capitando insieme a questo Felix. Forse era meglio non tentare di capirci troppo, perché la soluzione si sarebbe potuta rivelare più terrificante dell'enigma. «Continuiamo pure» dissi come di sfuggita. «Benissimo.» Felix si drizzò sul sedile. Vidi che non solo si sentiva sollevato, ma era proprio contento che mi fossi mostrato pronto a continuare. Contento, a dispetto di quel che avevo scoperto di lui, di trovarmi disposto a proseguire. Anch'io, al suo fianco, mi drizzai e lo guardai dritto in faccia. Ero non poco fiero di me stesso, benché non capissi cosa avesse determinato in noi quel cambiamento. «Ma prima bisogna passare al Maggiolino, no?» disse. Risvolto sorprendente della conversazione. E del viaggio. Non chiesi nulla. Mi morsicai la lingua aspettando di vedere il seguito. Fermammo la sontuosa macchina nei pressi di un agrumeto e scendemmo. Non sapevo dove mi trovavo, dove mi stesse portando. Felix tirò fuori dal baule la valigia di pelle marrone, poi chiuse la portiera della macchina e s'avviò a piedi. Lo seguii nell'agrumeto. Ancora sforzandomi di non chiedere dove stavamo andando. Cominciavo a capire che in lui non c'era nulla di prevedibile, che in ogni momento le situazioni, i programmi, il futuro, tutto si capovolgeva... Ci inoltrammo fra gli alberi. Diventai un po' inquieto. C'eravamo solo noi due, lui e io. Passammo fra le fosse fangose del sistema d'irrigazione. Degli stracci rossi erano legati qua e là intorno ai tronchi. Mi voltai indietro e non vidi più la Bugatti. Nemmeno la strada. Eravamo circondati da alberi e silenzio. Solo lui e io. In quel

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momento, fra due filari, scorsi un grosso batrace: cioè, una Volkswagen verde. Un maggiolino, una rospa. Non dissi nulla. Ogni volta restavo esterrefatto dall'entità dell'operazione intrapresa apposta per me, ma di pari passo continuavo a rimuginare: non potevano farmi dei regali più semplici? Che c'è di male in un pallone regolamentare? Mi sentivo sempre più come una foglia travolta dalla corrente. Lo seguii. Camminava di buona lena, ma senza affanno. Non era nel suo stile andare di fretta. I suoi movimenti avevano un ritmo particolare, che ovviamente aveva conquistato anche me. Aprì la sua portiera. Io la mia. Entrò e si sedette. Anch'io. Mise in moto. Mi raschiai la gola. Tacemmo. La cosa mi piaceva: un silenzio virile. La macchina arrancava scendendo fra le fosse. Trovò il sentiero sterrato. Via. «Consideravo essenziale cominciare la nostra gita con la Bugatti nera» mi spiegò, «un'auto del genere è speciale, è stilosa, vero?» Pronunciò la parola "stilosa" come se stesse gustando un pasticcino. Pensai: e ora che ne sarà di quella splendida macchina? L'aveva fatta venire in Israele, via nave, per mezz'ora di viaggio. Se l'era lasciata alle spalle così come aveva abbandonato il suo prezioso orologio con la catena d'argento. Senza nemmeno premurarsi di chiuderla. Evidentemente era l'uomo più ricco del mondo. «D'altra parte il nero dà troppo nell'occhio. E anche le porte gialle. Nel giro di qualche minuto i poliziotti sarebbero stati sulle nostre tracce. Per questo ho fatto trovare pronto il Maggiolino. Uno come tanti altri. Non lo nota nessuno. Possiamo addirittura passare davanti alla stazione di polizia: i piedipiatti alzeranno il cappello e ci diranno: "Tanti saluti, arrivederci e molte grazie".» Perseverai nel mio professionale, impassibile silenzio. Poi cominciai ad assimilare quel che aveva detto a proposito dei poliziotti e piano piano, nella nebbia della mia imbecillità, mi venne un'idea interessante: «Com'è, stiamo scappando da qualcuno?» <Direi dalla polizia, a cui non è di sicuro piaciuta la faccenda del treno, quello che abbiamo fatto» rispose, stringendo le spalle e facendo schioccare per tre volte le labbra, come a manifestare disapprovazione verso l'atteggiamento della polizia. «Ogni tanto hanno dei pregiudizi.» Poi scoppiò in una breve risata: ·<Non sto parlando di tuo papà, certo che no! No e poi no! Ma per questo tuo papà è davvero un campione, gli altri sono dei semplici poliziotti. Ascoltami bene: tuo papà è l'ispettore migliore del paese!» In quel momento mi successero due cose. Uno: la mia piccola anima si colmò di sprizzi di felicità. C'era dunque qualcun altro, oltre a me, che la pensava così a proposito di mio padre. Due: di colpo capii qual era il vero programma di papà. Cioè... osai capirlo. «E noi due, cioè tu e io...» cominciai con una certa esitazione, perché la cosa mi metteva un po' paura, «noi ora... sia... siamo latitanti?» «Oh! Detto in belle parole, è così» sorrise Felix, «sì, sì, siamo latitanti.». E ripeté mormorando quelle parole. «E... dimmi, anche domani noi s... saremo latitanti?» «E anche l'altro ieri... no, cioè, dopodomani. Sarai tu a decidere fino a quando. Quel che mi dirai, io lo farò per te. Oggi sei come Aladin, e io il genio: yes, sir!» E fece il saluto militare. In quel momento il direttore del mio circo interiore fece schioccare la sua lunga frusta e un'immensa esplosione mi risuonò nelle orecchie. La banda attaccò una marcia veloce e trentadue giocolieri, tre mangiatori di fuoco, due

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maghi, due lanciatori di coltelli, pagliacci, scimmie, leoni ed elefanti, nonché cinque tigri del Bengala, invasero d'un tratto la mia arena, e sotto la luce dei riflettori si misero a girare in tondo, in un vorticoso carosello... sì, fu proprio un momento di quel genere, un caso così raro, in cui un circo intero scappa per unirsi a un bambino e la voce del presentatore, ubriaco di felicità, mi tuonava fra gli altoparlanti delle orecchie: "Signore e signori, beneamato pubblico, eccomi a voi!". Mi accasciai sul bracciolo e chiusi gli occhi, tentando di far sì che il baccano dentro di me mettesse a tacere quella voce fredda e imperturbabile che continuava a bisbigliarmi nell'orecchio, fa' attenzione, stai sbagliando, non ti rendi conto di quello che sta succedendo intorno a te. Ma ormai non avevo più nessuna voglia di sentirla, via, piantala di disturbarmi. Felix guidava piano, canticchiando con una voce buffa, battendo il ritmo con la lingua, come una banda di un solo elemento. Abbassai il finestrino e il vento mi accarezzò la faccia. Mi rinfrescai. Mi tirai più su. Ecco. Sto bene. Andrà tutto bene. Tutto è chiaro e semplice, ormai. Finalmente, dopo ore di confusione e di rabbia contro papà e Gabi, mi era chiaro tutto il progetto, l'idea, l'intrigo, la sfrontatezza: era dunque questo il suo regalo per il bar-mitzvah. Era dunque questa la persona speciale che aveva scelto allo scopo! Ancora una volta sospirai, attonito di fronte alle proporzioni di questa trovata, all'audacia di mio papà. Già, visto da fuori non rendeva affatto quello che era davvero, e quanto riusciva a essere brillante, se solo voleva. D'accordo, la sua specialità era quella di non dare troppo nell'occhio - e, come sappiamo, Gabi sosteneva che la cosa ormai gli era entrata nell'anima - ma nemmeno a me sarebbe mai venuto in mente che potesse essere così audace e scatenato; mi sarebbe proprio piaciuto sapere cosa aveva detto Gabi di fronte a questa proposta. Vedremo se avrà il coraggio di lasciarlo, dopo di ciò. Guardai anche Felix sotto un profilo nuovo: se mio papà si fidava di lui per un'operazione così delicata, ciò significava che era davvero qualcosa di speciale. La cosa speciale, nel frattempo, aveva inforcato dei modesti occhiali neri, senza un pizzico della nobiltà monocolare. Guidava con sicurezza. Gli occhi, dietro le lenti, sembravano quasi chiusi, ma io sapevo che non si stava perdendo nulla di ciò che lo circondava. Mi ricordava sempre più mio papà. Erano così diversi l'uno dall'altro, e tuttavia simili. Deglutii. Stavo cercando di preventivare tutto quel che avrei detto d'ora in poi, ma non riuscivo a dominare quel leggero fremito alle mani. E se fosse troppo pericoloso. O troppo fuori legge? E se avessi deluso entrambi, papà e Felix? E se ci beccano? Il progetto si dispiegava sotto i miei occhi in tutta la sua follia: che pericolosa sfida aveva giocato mio padre! Lasciarmi compiere tali bravate, come quella che avevo commesso in treno... Infatti, se ci avessero beccato e avessero scoperto quel che era successo, lui sarebbe stato espulso dalla polizia e il suo corrotto vice, Etinger, ne avrebbe preso il posto; ma senza indagini, senza polizia, la vita di mio padre non avrebbe più avuto alcun senso. Non parlerò, giurai in cuor mio, anche se mi tortureranno nelle loro gattabuie, non lo consegnerò nelle loro mani! No, non riuscivo proprio a capire. Non osavo capire. Respirai profondamente. Mi stavo preparando una lunga e dettagliata domanda, che mi avrebbe chiarito l'intera situazione. «E... cosa fafafa...» Mi sentii

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soffocare. Tacqui. Immobile, svergognato, per qualche istante. Felix sorrise tiepidamente. Su, fuori! Azione! Forza! «Cosa fafafa... faremo insieme?» Doveva essere la mia, quella voce così fragile, sfrigolante, che friggeva in aria. «Oh, signor Feierberg» Felix alzò la mano, «faremo cose che non hai mai fatto!» «E se... se ci beccano?» «Non ci beccheranno.» Ora o mai più: «Di' un po', Felix... Io... Loro... cioè, la polizia, la nostra polizia, ti ha mai beccato?» Continuava a canticchiare fra sé, come se non avesse sentito. Solo dopo un lungo momento si voltò completamente verso di me: «Soltanto una volta. Chiuso. Non mi beccheranno più». E sorrise a se stesso. «Quella è stata la prima e l'ultima volta.» Ma solo le labbra sorridevano, formando quella linea sottile e crudele che avevo già intravisto intorno alla sua bocca. «E mio papà da quanti anni lo conosci?» «Oh! Saranno dieci anni, forse di più!» Esitai un po' su come formulare la domanda seguente, per non urtarlo. «Vi siete conosciuti sul... sul lavoro?» Ora mi sorrisero anche le rughe intorno agli occhi «Sul lavoro. Hai detto bene.» Accelerò, concentrandosi sulla guida. Fischiava una melodia che non conoscevo, ricordava il suono allegro di un violino, e ogni tanto canticchiava con aria compiaciuta: «Sul la-vo-ro!», accompagnando la parola con un rapido: «Pam-pam-pam». Notai che fischiava o canticchiava quasi costantemente, che riempiva sempre l'aria di fruscii e ronzii. Pensai: sarà un fenomeno tipico degLi adulti che da bambini sono stati come me. Fra le sensazioni confuse e contraddittorie che suscitava in me, provavo spesso quella di guardare le sue mani. Lunghe, virili, calme. Solo l'anello mi dava fastidio. Un grande anello d'oro all'indice della mano sinistra. Un segno di sfarzo e un vezzo a me sconosciuti, con incastonata una pietra nera, non troppo luminosa, un luccichio da pistola, un nero di tunnel scavati sotto mura di prigioni, tenebra e luce di torbidi segreti. Per questo guardavo solo la mano destra. E questo mi diede coraggio, mi ispirò simpatia per lui, desiderio di restare. La mano destra era quella giusta. Con lei mi sentivo difeso. Mi avrebbe ricordato che di lontano papà vegliava su di me, che aveva scelto Felix, con tanta cura, per compiere questa missione speciale. Bastava uno sguardo alla mano destra di Felix per rendersi conto che era come uno di quei mitici agenti ignari della paura. E che con me sarebbe stato un malfattore dal cuore d'oro. «Mio papà è proprio un campione, vero?» «Il numero uno dei detective. Il numero uno!» disse. Peccato che papà non fosse lì a sentire. Ultimamente s'era messo in testa di non valere nulla. Aveva litigato con tutti i colleghi. Nessuno dell'investigativa voleva più lavorare con lui. Due settimane prima avevano scritto di lui sul giornale, dicendo che aveva fallito in tutti i casi più importanti a lui affidati negli ultimi anni. Avevano detto che il suo odio per i delinquenti era tale che nei casi più complessi e delicati finiva per comportarsi come un elefante in un negozio di porcellane. Mi auguravo che Felix non avesse letto quelle notizie. «Solo che ultimamente papà ha avuto qualche problema» tastai cautamente il terreno. «Quello che scrivono i giornali sono solo scempiaggini! Acqua fresca!» sbottò Felix. «Loro non capiscono che tuo papà non è un ispettore qualunque! Lui ce l'ha nel sangue, quest'arte! Lui non è come gli altri poliziotti,

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semplici impiegati con un berretto d'ordinanza sulla testa! Per il tuo signor papà il mestiere è un'arte! Nel suo mestiere lui è come... come la Bugatti in fatto di macchine!» e drizzò un dito per dare maggior enfasi. Io non badai al fatto che fosse quel dito lì, con l'anello. <Ma su un giornale» dissi con un certo ritegno «hanno scritto persino che perde la testa di fronte ai delinquenti, e per questo manda a monte le indagini.» «Sono loro che hanno perso la testa!» replicò Felix furioso. «Le ho lette anch'io, quelle scempiaggini! Ma cosa pensano, che guardie e ladri sia un gioco da bambini?» «Ed è ormai molto tempo che non passa di grado» aggiunsi dispiaciuto. Mi era proibito confessarlo, fuori. Da noi, nella polizia, i panni sporchi si lavano in casa, ma ero talmente risentito per come si comportavano con lui; e poi sapevo che Felix era uno dei nostri. «Che porcheria!» Felix picchiò sul volante. «Hanno paura di lui perché è così fantastico, lui!» e chiuse la bocca con una smorfia, borbottando amaramente. Cercai di fissarmi nella mente quelle sue parole, l'indomani le avrei riferite a papà. Mi dispiaceva soprattutto che non ci fosse Gabi. Ultimamente aveva un'opinione piuttosto irritante di lui come detective. E io non riuscivo a capire come facesse papà a non batter ciglio di fronte a quelle ingiurie. Gabi pensava, per esempio, che papà dovesse immediatamente licenziarsi e cercarsi un altro mestiere. Gli aveva detto proprio così, senza mezzi termini. «Un altro mestiere?» aveva chiesto papà a bocca aperta. «Stai parlando con me?» Eravamo tutti e tre in cucina, a preparare la cena. Io ero rimasto paralizzato davanti alla padella. Papà aveva cominciato a gonfiarsi sopra la pentola della pasta. Lei aveva aspettato la bufera e, visto che non succedeva nulla, s'era fatta coraggio: «Tu devi mollare questo mestiere. Basta!». Silenzio. Papà taceva! Gabi aveva continuato a tagliare le verdure, con la mano che tremava: «Hai dato al lavoro quasi vent'anni della tua vita. Gli hai dato cose ancora più importanti. E' giunto il momento di fare qualcos'altro, qualcosa di più normale. Con un orario di lavoro tranquillo, senza pistole e sparatorie. Senza rischiare la pelle ogni giorno». Poi si era guardata alle spalle, spaventata. Papà non aveva ancora parlato. Gabi aveva respirato profondamente, poi aveva aggiunto: «Potresti licenziarti, prendere la liquidazione, mi licenzio anch'io, mettiamo insieme i soldi e apriamo un ristorante. Che ne dici?». Era un'idea nuova e sconvolgente. Passare dall'investigativa ai fornelli? Papà gracidò come una rana che, scavato un tunnel in Inghilterra, si ritrova in una cucina francese: «Un ristorante? Un ristorante, hai detto?» «Sì, sì! Un ristorante! Cucina casalinga! Io ai fornelli e tu a dirigere...» «E se mi mettessi io ai fornelli, con un grembiulino rosa? Eh? Non è che forse per te sono ormai troppo vecchio per fare l'investigatore? Di' un po'!» Mi ero reso conto che c'erano guai in vista. Avevo prontamente cercato un argomento per cambiare discorso, ma senza trovarlo. Stavano per litigare. Lei lo avrebbe lasciato. Ognuno di questi abbandoni temporanei portava Gabi più vicina a quello definitivo. Non potevo vivere così, con questa insicurezza. «Un tempo eri un bravo investigatore» aveva detto Gabi con voce pacata, che faceva presagire il

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peggio, «un tempo eri il migliore. Lo sanno tutti. Ma a causa di quel che ti è successo dopo quella storia lì, hai completamente perso il senso della misura. Ti comporti come se stessi conducendo una tua guerra personale contro il crimine. Non si può essere così maledettamente professionali!» Un silenzio di tomba! Nessuno può mai dire a mio papà cose del genere e uscirne vivo. E lui zitto! «Hai una tale ansia di vendicarti con ogni mezza tacca di delinquente, che sveli tutte le tue trappole!» Silenzio. Papà aveva ripreso a rimestare lentamente la pasta. Gabi era così tesa che continuava a tormentare un misero pomodoro, riducendolo in brandelli sempre più piccoli. S'era accorta che papà, una volta tanto, l'aveva presa sul serio. Certo, avrei dovuto saltare su e dire qualcosa, farla tacere. Cosa ne capiva lei, di indagini? Cosa ne capiva lei dell'eterna guerra degli investigatori con il mondo del crimine, cosa ne sapeva lei di questo nostro mondo cupo e spietato? Ma un barlume di memoria mi svolazzava per la testa. Qualcosa che era capitato di recente, quando papà e io avevamo preso parte a un appostamento per beccare dei topi d'auto, e come si era comportato. Proprio come Gabi lo stava descrivendo ora: aveva mandato a monte il nostro agguato, ma per fortuna c'ero anch'io. Ero rimasto zitto, sbattendo l'uovo nella padella, rendendomi conto che stava cominciando una nuova scenata. Papà aveva detto sottovoce: «Cosa credi, è una roba che manda in bestia quando sul giornale scrivono che ti comporti come un elefante in un negozio di porcellane. Pensa un po' a come ti sentiresti tu se qualcuno dicesse che sei come... ah, ah...» Con suprema virtù Gabi aveva ignorato questa osservazione mal riuscita. «E' vero, quel che hanno scritto di te era pieno di veleno» aveva detto, «ma c'erano anche cose giuste, che non puoi fare a meno di ascoltare, se vuoi cambiare un po'!» Poi aveva finalmente mollato il pomodoro, guardando stupita la melma rossastra sul tagliere e mettendosi a tormentare un cetriolo. «Sei talmente accecato dalla rabbia di fronte a ogni minima infrazione che non hai più la pazienza di portare a buon fine un pedinamento! Non hai il senso del ritmo per mandare avanti un'indagine! Ti manca la costanza anche nei più elementari tranelli!!!» aveva detto tranciando per tre volte il cetriolo, in sincronia con i tre punti esclamativi. Ci voltavamo tutti la schiena. Solo io guardavo di sottecchi. «E puoi star sicuro che non c'è una goccia di tintura di iodio in questa dannata casa!» aveva urlato lei improvvisamente, gettando via il coltello e correndo in bagno, tentando di arrestare l'emorragia dal dito. Papà non s'era mosso. La sua schiena era una solida muraglia di ferro. Non sapevo se dovevo andare da lei o restare a consolare lui. A chi dovevo essere fedele, in quel momento? Papà non aveva visto quel che avevo visto io: Gabi se l'era tagliato apposta, il dito. L'aveva fatto con una smorfia di astio. «Ha ragione>, aveva detto all'improvviso papà, con una voce bassa, lontana, «me lo dicono tutti, e io non ascolto. Lei me lo dice perché ci rimane male, perché mi ha davvero a cuore. Ha ragione.» «No, non è vero» avevo detto con la bocca secca dalla paura. Figuriamoci se ha ragione. E' il miglior ispettore del paese. Deve continuare a fare il suo mestiere, finché arriverò io, e insieme saremo un'ottima squadra. «Aspetta qui un momento, Nono» aveva detto papà, con un tono di voce tenero, quasi irriconoscibile. «Vado a bendarle il dito.» Peccato che lei non sia qui in macchina, ora, a sentire Felix. «E forse il migliore

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non solo del paese» continuò Felix, annuendo più volte, come per dare più forza alle sue parole, «forse non solo del paese!» Respirai profondamente, lasciandomi conquistare da quella frase. Proseguimmo in un virile silenzio, Felix si limitava a canticchiare fra sé. Mi sentii invadere da una certa serenità, la serenità di un sogno. Come se stessi ascoltando una storia su di me. La storia di un bambino a cui suo papà, un poliziotto della squadra investigativa, come regalo per il bar-mitzvah organizza un viaggio d'avventura sull'altro fronte della vita, sul cupo fronte del crimine. Un regalo speciale per lui che non è più un bambino, perché conosca la vita nella sua pienezza, le due facce della medaglia. E forse anche perché ricordi che persino suo papà ha un'altra faccia: libera, scatenata, gioiosa. O, quanto meno, l'ha avuta. Quando era giovane. Prima di sposarsi con Zohara, prima di diventare poliziotto. Lo so, io. Gabi me lo raccontava, o ci alludeva, e ogni tanto qualcuno mi diceva ammiccando che mio papà era stato un birbante mica male. A quell'epoca aveva due cari amici erano una bella compagnia, li chiamavano "i tre moschettieri", avevano fatto il militare insieme e poi avevano messo su una ditta di traslochi a Gerusalemme, papà non me ne aveva mai parlato, come se bastasse il ricordo di quei tempi allegri per profanare il lutto per Zohara, ma io racimolavo e custodivo nel cuore quelle briciole gettatemi da Gabi: tre birboni allegri, con un cuore d'oro, tutti li conoscevano a Gerusalemme, ma era famoso soprattutto lui, Kobi Feierberg, con l'eterno cappello da cowboy, con la risata equina e le ue scommesse impossibili, che poteva, per esempio, ballare il valzer con un frigorifero legato sulla schiena, o rubare una zebra al giardino zoologico e cavalcarla in giro per le strade. La sera, dopo il lavoro, i moschettieri si lavavano, si mettevano la brillantina in testa e facevano irruzione in festini privati nella zona bene di Rechavia o Ein Kerem, rapendo in una danza sfrenata la ragazza più bella, facendola turbinare finché quasi sveniva; uno ballava con lei e gli altri due badavano a che nessuno osasse mettersi di mezzo, poi si dileguavano diretti alla festa successiva... aveva le sue ammiratrici lui, allora, quando era scapolo, delle spasimanti stava con tutte e le faceva diventare matte, senza amarne nessuna sul serio, diceva sempre che doveva ancora nascere la donna che l'avrebbe abbindolato, e se qualcuna si fosse messa in testa di farlo, avrebbe dovuto sparargli, pescarlo, insomma conquistarlo come una preda, e poi se ne usciva con quella sua risata equina, virile, sì, questo era una volta mio papà, un milione d'anni fa. Scorrazzava per le vie di Gerusalemme con un sidecar riempito di terra dove aveva piantato una piantina di pomodoro, che era cresciuta rigogliosa: papà raccoglieva i pomodori e li divorava appena colti, in` corsa, "cowboy tomato" lo chiamavano, perché tomato in inglese vuol dire "pomodoro", e se a qualche vigile veniva voglia di dargli una multa per eccesso di velocità, papà prontamente lo corrompeva con un bel pomodoro rosso e fresco, e tutti scoppiavano a ridere e sospiravano, cosa vuoi farci, un cowboy resta sempre un cowboy, non cambierà mai... Dov'è? Dov'è ora quel ragazzo? Perché non l'ho mai conosciuto? Perché non l'ho mai visto nemmeno fare capolino dai suoi occhi? Dov'è quel birbante che rubava le macchine per montarci delle ruote quadrate di legno? Com'è che improvvisamente era arrivata la sofferenza e aveva inciso in mezzo agli occhi, con un'unghiata di ferro,

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quella terribile ruga? Felix guidava canticchiando e io non potevo far altro che impedire al mio cuore di traboccare fuori dai denti. Continuavo a toccare il mio amuleto, il proiettile estratto a papà durante un'operazione. Un malvivente gli aveva sparato e papà aveva continuato il suo duello, finché lo aveva abbattuto. Non me lo toglievo nemmeno per fare la doccia. Era uscito dal suo corpo e sarebbe stato con me fino al giorno della mia morte. Insieme, pensai, io sono qui insieme a papà. Tutto quello che sto facendo lo faccio con lui, e anche quando infrango la legge, la sua anima si trova con me nel proiettile che porto al collo. La sua anima intera, anche la parte gioiosa, birichina, perduta. Insieme a me. Vicino al cuore. Fu un momento di grande, rara intensità. Non sempre mi sentivo così vicino a papà, non sempre nutrivo la sensazione che fossimo davvero simili - non proprio come gemelli, e forse nemmeno come due professionisti che possono lavorare insieme senza bisogno di parole. A volte mi percorreva come una fitta di paura: e se crescendo non sarò come lui? Ma in quel momento, nella macchina lanciata in corsa, mi sentii crescere, insieme a lui. Forse per la prima volta mi parve di riuscire a conoscerlo in profondità. Di scoprirlo a pieno solo ora: così si stava dando a me, con generosità, senza paura, eccolo il suo grande regalo per la mia maggiorità. Una volante della polizia con la sirena ululante ci superò. Scoppiai a ridere, la risata grassa di un veterano del crimine: ah ah ah, saranno in cerca dei dirottatori del treno, quelli della Bugatti nera! Mi ascoltai: non avevo paura, quasi. Ho qualcosa a che fare con questa volante? No, anzi: mi piacerebbe proprio che si mettesse a inseguirci, giusto per avere l'occasione di una fuga a folle velocità. Ma certo che ce la faremo. Senza paura e senza legge. Come due animali selvatici. Solo per un giorno o due, non di più, ma senza alcuna paura, senza legge. Insieme a Felix andrà tutto bene, lui è un esperto, ha dei nervi d'acciaio, nessuno può toccarmi quando sono con lui, nessuno mi prenderà se sono con lui, il suo fascino mi protegge, il suo sguardo celeste, solo per un giorno o due, non di più, poi dimenticherò tutto e tornerò a fare il bravo, sarò un bravo bambino, non dirò bugie, non mi scatenerò e non farò follie. Scenderò di colpo al livello più basso della scala Max e Moritz, e solo ogni tanto, di notte, da solo, rammenterò quel giorno o due che ci sono stati davvero, ma come un sogno, e la locomotiva sequestrata, e la Bugatti nera e scintillante, e un luccichio torbido e minaccioso, e gli ululati d'allarme di cento gazzelle della polizia lanciate al nostro inseguimento, e io fuggo, scappo, non mi faccio prendere. Sono lesto e repentino, ronzo e punzecchio e me la dò a gambe, sono un maestro del crimine, Nono Feierberg, fra breve il migliore ispettore del mondo! Mi batteva forte il cuore. Accostai le ginocchia e premetti forte, mi ripiegai preparandomi al "carcere preventivo". Per un istante mi sentii leggermente confuso, frastornato. Chi sono in verità?

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CAPITOLO 10. CAPITOLO AL QUALE NON HO VOGLIA Di DARE UN TITOLO, E SOPRATTtUTTO NON UN TITOLO BUFFO. Gabi è sempre stata da noi, raccontai a Felix, cioè, per quanto mi ricordo io. Era venuta a vivere con papà e con me dopo che Zohara, mia madre, era morta, il che successe quando io ero molto piccolo. Avrò avuto un anno. Feci una breve pausa, perché normalmente a questo punto la gente cominciava a fare ogni sorta di domande sceme, di cosa è morta, te la ricordi. Felix invece taceva. Ero un po' stupito. Com'è che non gli importa, com'è che non lo tocca il fatto che qui c'è un bambino senza mamma, un bambino visibilmente orfano? Ma decisi di non dargli a intendere che ero stupito; infatti, come ho già spiegato, succedeva sempre il contrario e mi davano davvero fastidio quelle domande a cui non avevo nessuna voglia di rispondere. Allora facciamo che succede così anche adesso. Continuai pertanto a raccontargli di Gabi: era una ragazza che da anni e anni lavorava con papà, gli faceva da segretaria quando era ancora sottufficiale nella squadra antitruffe, l'aveva seguito quando era diventato ispettore capo dell'anticrimine ed era rimasta la sua segretaria anche quando era passato a fare il detective. L'aveva seguito ovunque. «Sono come il tuono» diceva lei, «se per sbaglio si pensa che tuo papà sia il fulmine.» «Un po' tuono lo è davvero» spiegai a Felix, «è molto grassa, e poi parla a voce alta, ma è veramente giusta, e non so proprio come andremmo avanti senza di lei (breve pausa), soprattutto dopo che è morta mia madre.» Silenzio. Okay. E' nel suo diritto mantenere il silenzio. Anche se, secondo me, quando un bambino dice: «dopo che è morta mia madre», la cosa lo rende un po' speciale. O forse no. Felix guidava il Maggiolino verde lungo una strada stretta che ci portava verso il mare e il tramonto. Viaggiavamo a passo d'uomo, come se al mondo non ci fosse nessun poliziotto che stesse cercando di acciuffarci. «Fa sempre delle nuove diete» gli svelai, «perché ha giurato di combattere se stessa fin quando il suo corpo non sarà degno di un essere umano; ma adora mangiare e spazzola cioccolato in grandi quantità, io e papà ci facciamo di quei pasti e lei non può fare a meno di partecipare.» Mangia e per questo si odia. Ma quando papà mette sul fuoco dell'olio d'oliva, poi sparge nella padella la cipolla tagliata sottile con i funghetti e salta la pasta in pentola, non si può resistere. A volte ho il sospetto che abbia proprio l'intenzione di infierire su di lei: la provoca con i cibi, per farla ingrassare ancora di più, e perché lui possa permettersi di non sposarla. «Zohara invece era molto bella» dissi, chissà perché. «Una volta l'ho vista in fotografia.» Silenzio. L'auto procedeva lungo il mare. «Papà ha tenuto solo quella fotografia. Di lei e di lui. Tutte le altre sue cose non le ha più volute in casa dopo la sua morte.» Misi l'accento sulla "sua morte", chissà che prima Felix non avesse sentito. Ma nemmeno questa volta reagì. Se ne rimase chino sul volante, con la faccia tesa e lunga. E sia. Non c'è bisogno di parlare di una donna solo perché è morta, foss'anche la mamma di qualcuno che sta conversando con te. In fondo anche questo qualcuno non ha una gran voglia di parlarne. L'ha a malapena conosciuta. Aveva un anno quando lei è morta, e da allora non se n'è quasi più parlato in casa. Morta e basta. «E Gabi?»

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chiese Felix d'un tratto. «Nemmeno Gabi parla di lei.» Ma a volte, mentre sta raccontando qualcosa, di colpo s'interrompe, ed ecco che arriva quel silenzio breve, particolare, come se qualcuno fosse passato muto fra noi, e guai a dire che ce ne siamo accorti; poi Gabi ricomincia sempre con: «Dove eravamo?» ma io so che papà le ha proibito di nominare Zohara in casa, perché ogni volta che prendo coraggio e domando qualcosa, Gabi dice: «Per tutto quel che riguarda Zohara, prego rivolgersi a tuo papà» e si tappa la bocca, anche se mi accorgo che muore dalla voglia di parlarne. «Non hai capito» disse Felix, «ti ho chiesto com'è che Gabi è venuta a vivere con voi.» «Ah.» Nessun problema, pensai, se è così poco signore da non avere il minimo rispetto dei morti e se vuole parlare soltanto di Gabi, e sia, parliamo solo di Gabi. Comunque non è che abbia molto da raccontare a proposito di Zohara. Non so nulla di lei. Si può quasi dire che sia un'estranea per me. Per puro caso mi ha messo al mondo, ma Gabi mi ha dato molto di più. «Quando papà era sposato con Zohara aveva preso congedo dalla polizia, voleva provare a fare un'altra vita; ma dopo che lei è morta» continuai, «ha deciso di tornare. Proprio in quel periodo fu Gabi a volersene andare. Si era stufata di fare la segretaria. Ha un mucchio di doti, avrebbe potuto riuscire in qualunque altra cosa.» «In cosa, per esempio?» «In cosa? Anche come attrice o cantante, per esempio! E poi è un'esperta in materia di logistica. E' sempre lei a organizzare gli spettacoli nelle feste per i bambini dei poliziotti, è lei che scrive le battute per i ricevimenti della polizia, è fortissima nei cruciverba, èun'esperta di cinema, noi ci andiamo almeno una volta alla settimana, e poi sa fare le imitazioni dei personaggi famosi, e cosa ancora...? Ha un grande senso dell'umorismo ed è sempre di buon umore. E' praticamente perfetta.» Felix sorrise. «Vuoi bene a Gabi, non è vero?» «E' giusta al cento per cento» ripetei. Se solo fossi riuscito a convincere di questo anche papà, ma lui, per via della bellezza esteriore, per via di Zohara... «Soltanto che il signor papà non la trova così bella» disse Felix meditabondo, e mi venne in mente quel che diceva sempre Gabi: «I miei genitori mi hanno dato una faccia da frittella stile Concettina, io che ero destinata a essere una Brigitte, una maliziosa rubacuori!.» E pensai che, se Gabi si fosse arresa alla sua faccia, sarebbe diventata una donna pesante, acida, noiosa 97 e priva di vita lei che invece era proprio un peperoncino, così appassionata é vitale, e d'un tratto mi venne un pensiero: che forse Gabi era diventata Gabi non per le caratteristiche ereditate o per l'educazione ricevuta, ma solo perché la sua anima aveva deciso di lottare contro il suo aspetto e la sua faccia, e forse proprio per questo lei cercava sempre di essere vispa e speciale. Lo capii di colpo, e capii anche quanto era dura questa sua eterna battaglia condotta senza aiuti, senza raccontare niente a nessuno, in assoluta solitudine. «Dimmi un po': perché all'epoca lei

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voleva lasciare la polizia?» chiese Felix sottovoce. «Perché si era stancata di stendere rapporti su cadaveri, omicidi e malavita.» «E soprattutto» mi raccontava lei, «mi sono stufata di vedermi davanti ogni mattina la faccia rancida di tuo papà.» Questo a Felix non lo dissi. Papà non le aveva mai rivolto una parola affettuosa o di elogio, ma era capace di andare in bestia se lei si assentava per un giorno. «E io, stupida che sono, pensavo che fosse il suo modo un po' grossolano di dimostrarmi che aveva bisogno di me» sospirava Gabi una volta alla settimana, quando mi raccontava questa storia. «Lei l'ha quasi lasciato» continuai, «poi ha deciso di restare ancora un po'.» «Tuo papà era talmente triste e sconsolato» ricordava Gabi, «che non lo si poteva mollare, e non si poteva restare con lui.» Ne discutevamo per l'ennesima volta, davanti a una tazza di cioccolata al bar, dopo il cinema, o anche noi due soli, in cucina. «Le borse sotto i suoi occhi diventavano sempre più scure, te lo immagini? Ovviamente lui, con quel suo orgoglio idiota, non era disposto a parlare con nessuno del suo dolore.» A questo punto mi veniva vicino, strizzava gli occhi e sussurrava con un bisbiglio da far rabbrividire: «Traboccava sofferenza, riversandola su chiunque gli stesse accanto! Era la personificazione della tragedia, credimi.» «Poi, un giorno, lei lo vide mentre tentava di mettermi il pannolino sulla scrivania in ufficio» raccontai a Felix, sorridendo in cuor mio. Ce l'avevo davanti agli occhi, mio padre che mi cambiava il pannolino. «...Quando vidi che stava cercando disperato il tuo ciuccio, che si era ficcato nella fondina della pistola...» qui, a questo punto, gli occhi di Gabi si inumidivano sempre e la sua voce diventava profonda, un po' rauca, «quando vidi tuo padre così sprovveduto e incapace, proprio come il bambino che strillava, capii che in fondo lo amavo, che per tutti quegli anni in cui avevo lavorato al suo fianco l'avevo amato senza rendermene conto, e che ero io la donna capace di riportare il sorriso su quel viso in lutto.» Allora tacevamo entrambi, per rispetto... Mi piaceva sentirla raccontare questa storia. «Devo aver visto troppi film in cui il vedovo sposa la bambinaia» brontolava. «Mi era proibito chiamarla {mamma"» dissi a Felix mentre, lasciata la macchina verde sullo spiazzo accanto alla spiaggia, camminavamo sulla sabbia calda. Ancora prima di vedere il mare, al solo fiutarlo, mi si era sciolta la lingua. Il mare mi fa sempre un effetto particolare. «Mi spiegò che non era la mia mamma. Era Gabi, un'amica mia e di papà. Da piccolo non riuscivo a capire la differenza.» Infatti Gabi stava sempre con me. Solo di notte andava a dormire nel suo appartamentino, e a volte, quando papà era fuori in missione, dormivo io da lei. Lei mi ha letto le storie della buonanotte che aveva amato alla mia età. Lei ha scelto le mie babysitter e l'asilo, lei è andata alle riunioni dei genitori, lei mi ha portato all'ambulatorio quando ero malato, e lei mi ha accompagnato a fare le vaccinazioni (visto che quell'eroe di mio padre era svenuto la prima volta che mi avevano fatto un'iniezione), lei ha scritto in un apposito quaderno tutte le cose che ho imparato a fare da quando avevo un anno, tutte le spiritosaggini che dicevo; e sempre lei ha convinto papà a farmi salire di grado, anche se a detta di papà non lo meritavo ancora, e dunque per merito di Gabi sono diventato sergente maggiore, e lei e lei, e io. Più o meno una volta al mese, quando la mia insegnante,

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la signora Markus, mi espelleva una volta per tutte dalla scuola, Gabi si fiondava in sala professori a chiedere pietà per me e allora, in una specie di rituale, implorava di darmi un'ultima occasione, mi metteva le mani sulle spalle e, con voce tonante, si domandava come potesse la scuola rinunciare a un bambino così meraviglioso. La signora Markus sogghignava, dicendo che un'espulsione di una settimana era davvero una pena mite per un elemento come me, così svogliato e inconcludente - all'epoca gli insegnanti calibravano per bene i loro improperi, mica come oggi - e che a ogni modo bisognava rassegnarsi al fatto che avevo bisogno di una struttura scolastica diversa, più consona ai miei limiti. Potete star sicuri che Gabi non gliela faceva passare liscia: «Quelli che secondo lei sono limiti, secondo me sono punti di forza!» e si piazzava davanti all'insegnante, gonfia come un cobra cui abbiano insidiato la prole. «Si possono anche definire, giusto per fare un esempio, un'anima da artista! Sì! Forse non tutti sono adatti all'inquadramento della scuola! Ci sono persone rotonde, mia cara signora, ci sono bambini a forma, diciamo, di triangolo, perché no, e ci sono...» Gabi abbassava la voce, levava una mano per aria, come faceva la famosa attrice Lola Ciperola in Casa di bambola, e sussurrava con una voce da far rabbrividire: «Ci sono bambini a zigzag!.» E come si usa dire, mi struggevo per lei. Il mio primo ricordo è legato a Gabi (siamo insieme sul balcone, di sera, lei mi sta imboccando con un peperone verde su cui ha spalmato del formaggio, passa un uomo con degli occhiali da sole e ci guarda a lungo, poi ci saluta togliendosi il cappello). Gabi compare in tutte le mie foto da bambino. A lei raccontavo i segreti, è l'unica persona al mondo che una volta mi ha visto piangere. Tacqui e feci scorrere della sabbia fra le dita. Ci sedemmo sotto un ombrellone rosso, eravamo quasi da soli sulla spiaggia. Su una piccola duna un cane nero abbaiava. Doveva avermi annusato di lontano. Il mare era liscio, azzurro. A fatica mi trattenevo dall'immergermici. Secondo Gabi, ero un pesce capitato per sbaglio in terraferma, e davvero, quando ero in mare, fra le onde, mi sentivo subito calmo, chiudevo gli occhi, dicevo apertamente cose che non osavo dire con i piedi per terra, le cose più preziose le bisbigliavo al mare, tutte le domande che non avevo il coraggio di formulare, tutti i segreti che non menzionavo mai, li urlavo fra le onde, per dimenticarli subito e per l'eternità, sapendo tuttavia che sarebbero dilagati all'infinito, conservati dal mare come una lettera in una bottiglia. sulla riva, avevo voglia di parlare di lei con Felix. Di non dire soltanto «mia madre è morta», per impressionare. No, di parlare di lei. Infatti, quando prima avevo raccontato di Gabi, di come si era innamorata di papà, mi aveva preso una nuova, strana tristezza. Non avevo ancora capito come mai Felix fosse così taciturno. Non che sembrasse annoiato dai miei discorsi. Per niente. Ma nemmeno mi spronava a raccontare. Mi ascoltava in un modo tutto particolare. Nessun adulto mi aveva mai ascoltato così. Nemmeno Gabi. Mi stavo rendendo conto che prima, quando avevo pensato che non gli interessasse sapere di Zohara, mi ero sbagliato. Voleva solo lasciarmi parlare di quel che volevo, senza mettersi di mezzo. Forse era merito di questo suo modo di darmi retta se cominciavo a capire delle cose a cui prima non avevo mai pensato. Per esempio che Zohara era davvero una persona, non una sconosciuta che si era potuto fare a meno di menzionare, in casa, per

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così tanti anni. Era esistita, questa donna, aveva avuto un volto, un corpo e stati d'animo, ricordi d'infanzia. Aveva avuto una voce e dei pensieri. Era stata al mondo. La sua bocca aveva riso. Aveva pianto e lacrimato. Era esistita. Ed era stata anche la moglie di mio padre. Sì, d'un tratto mi era più chiaro che mai: lui l'aveva amata. Forse era stata l'unica donna ch'egli avesse mai amato, forse davvero non aveva più potuto innamorarsi di nessun'altra. Strano che non me ne fossi accorto prima di allora. Forse perché del loro amore avevo sempre sentito la versione di Gabi. Nelle sue storie era sempre lei al centro. Gabi e il suo amore per lui, e la sua delusione, e l'attesa che lui smettesse di tenere il lutto e tornasse alla vita, cioè a lei. Ma solo in quel momento, sulla spiaggia, compresi che chi era stato veramente triste e sofferente era mio padre. Chi era stato così solo, fino a quel momento, era lui. In lutto per Zohara. Queste non erano parole della solita storia di Gabi, parole che aveva già detto almeno mille volte, fino a dimenticare lei stessa il dolore di cui erano impregnate. Allora iniziò ad angustiarmi, a premere dentro di me la domanda: come mai lui persiste nel non dire una parola di lei? Nemmeno con me. Ormai sono abbastanza grande. Quella della maggiorità religiosa è un'età più che rispettabile. E perché io non gli avevo mai, mai chiesto nulla? Forse, se avessi domandato, lui mi avrebbe parlato. Sì, forse con me avrebbe parlato. Forse mi aspettava, aspettava che io chiedessi. Avrei potuto cominciare così, senza parere, con qualcosa di insulso, quando eravamo indaffarati con la nostra perla. Quando la lucidavamo e la strigliavamo, allora avrei potuto chinarmi su una gomma, accanto alla striscia bianca del coprifuoco londinese, e chiedere qualcosa, non so, dove aveva conosciuto la mamma, per esempio, e cosa avevano fatto insieme, e di cosa era morta; e se lui non avesse voluto rispondere, avrebbe potuto far finta di non sentire. Perché non l'avevo fatto? Da dove si può cominciare a chiedere, dopo un silenzio di tredici anni? Forse era troppo tardi. «Non so niente di lei» conclusi meravigliato, con un filo di voce. Felix si limitò a chinarsi verso di me e non disse nulla, per non disturbarmi. «Non mi hanno detto niente.» Sentivo un nodo stretto in gola, come se qualcuno mi stesse strozzando con delle pinze, e uno strano dolore agli occhi. Forse, se avessi immerso la testa nell'acqua, mi sarei calmato. Non avevo esperienza di discorsi del genere su terraferma. Una volta c'era stata una brutta discussione fra papà e Gabi: se raccontarmi o no. Io ero nell'altra stanza. Avrò avuto quattro o cinque anni e papà diceva infuriato che ci sono bambini che hanno la mamma eppure sono infelici, dovevo abituarmi, e lei diceva che forse a una cosa così non ci si può abituare, e lui aveva concluso che per me era una cosa naturale crescere senza mamma, ero praticamente nato senza mamma, e che, se avessi cominciato a pensarci troppo su, avrei cominciato a farmi pena, e chi prova pena per sé papà lo disprezzava, e che anche molti suoi amici erano stati uccisi in guerra, ma lui cercava di non pensarci, perché la vita non è mica un'agenzia di assicurazioni e non tutti ce la fanno ad arrivare fino in fondo, c'è chi soccombe per strada, mentre quelli che ce la fanno devono andare avanti senza mai voltarsi indietro. Non sapeva che lo stavo ascoltando. Da allora fui fedele al suo comando. Non lo delusi mai, nemmeno una volta. Non pensai quasi a lei. E se cercava d'intrufolarsi nei miei pensieri, chiudevo

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forte gli occhi e la portavo via delicatamente, ma con decisione, avevo una voce apposta, un ronzio che provocavo dentro la testa, fra i denti, per mettere a tacere i pensieri su di lei, ero allenatissimo, e solo in mare, l'ho già detto, fra le onde, a volte la sentivo, sentivo qualcosa intorno a me, qualcosa che mi si strusciava addosso, ma dimenticavo subito, uscivo dall'acqua, mi strofinavo con l'asciugamano e dimenticavo tutto. Ora invece, per la prima volta, pensai: e se lui l'amasse ancora? Forse ogni tanto era lui a voltarsi indietro. «So che era giovane quando è morta. Ventisei anni.» Ventisei anni. Solo il doppio di quelli che ho io, pensai con stupore. Tredici più tredici. Non era poi molto più adulta di me oggi. Premetti le ginocchia sulla pancia con tutte le forze, mi morsicai le guance, conficcai le unghie nel palmo della mano. Rimasi così per qualche secondo, tanto da calmarmi un po'. Non dissi una parola, non mi asciugai nemmeno il sudore che mi colava dalla fronte. Tenevo la schiena e le spalle rigide come legna secca. Mi rendevo conto che, se avessi aperto bocca per pronunciare il suo nome, mi si sarebbe rotto qualcosa nel collo. Felix guardava il punto in cui il sole stava sprofondando nel mare. Il cane nero sulla duna continuava ad abbaiare verso di me, col muso rivolto al cielo e la coda ritta. Mi misi a scavare con il dito nella sabbia, cercando il punto in cui cominciava il bagnato. Soffiava una leggera brezza, tremavano le bianche foglie di un giglio. «Magari...» feci per dire, e mi sentii un po' soffocare. Magari l'avessi conosciuta. Ecco cosa volevo dire. Di colpo divenne la cosa più importante, più urgente della mia vita, tutto il resto mi apparve superfluo e fastidioso, non riuscivo a capire come avessi potuto fare a meno di chiedere e di informarmi, in un certo senso ero rimasto in letargo, e non capivo nemmeno perché mi fosse venuto questo impulso proprio con lui, con Felix, praticamente uno sconosciuto. «Allora, dov'eravamo rimasti?» chiesi con aria distratta, senza riuscire a proseguire. Il suo silenzio, lì accanto a me, divenne molto pesante. Senza bisogno di guardare, m'accorsi che era diventato denso e profondo, troppo denso e profondo. Il respiro di Felix mi giungeva all'orecchio, veloce, rigido, affannoso. Improvvisamente pensai che stesse succedendo una cosa nuova, a cui bisognava fare attenzione. Mi voltai verso di lui. Un piccolo muscolo sulla guancia gli stava tremando, e tremando forte. Qualcosa, nelle profondità delle viscere, divenne d'un tratto bianco e inconsistente: «Perché» domandai in preda a una tremenda spossatezza, «tu l'hai conosciuta?.» CAPITOLO 11. IN NOME DELLA LEGGE: ALT! Qualche minuto dopo avere lasciato la spiaggia, appena risaliti sulla strada di campagna, ci superò un'altra macchina della polizia. Lampeggiava e la sirena suonava furiosamente. I poliziotti non si dettero pena di guardarci. Cercavano una Bugatti nera con le porte gialle, non un rottame verde. Cercavano una principessa, non una rana. Ma, una volta spariti, Felix tese la mano verso la valigia di pelle e cominciò a frugarci dentro, sempre guidando. Ne estrasse degli occhiali con una montatura spessa, e qualcos'altro, non capii cosa, un gomitolo

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peloso e grigio, qualcosa di schifoso e flaccido, che per un istante mi diede l'impressione di una bestia viva o di qualcosa che un tempo era stato vivo. «Chiudi gli occhi un momento, signor Feierberg» mi disse, «ora facciamo un bel carnevale, perché vedo che la nostra polizia è un po' sulle spine.» Chiusi gli occhi. Sarò rimasto così cinque minuti. Il Maggiolino ondeggiava da un lato all'altro della strada. Sospettai che stesse guidando senza mani. «Puoi aprirli.» Aprii gli occhi. Accanto a me sedeva un anziano occhialuto e gobbo. Il mento appuntito premeva sul petto, il labbro inferiore penzolava storto, piegato verso destra in uno spasmo fisso. Al posto della chioma candida di Felix c'era un ammasso grigio e arruffato, e gli occhiali con la montatura spessa. Il suo completo bianco, con la rosa all'occhiello, era stato sostituito da una logora giacca; aveva anche dei baffi nuovi, grigi e squallidi, nonché un nuovo sorriso, debole e flaccido, con la mascella floscia come se non avesse più denti in bocca. «Sotto il sedile troverai il tuo travestimento» disse Felix. Gli era cambiata persino la voce, ora più gracchiante, più stridula. Mi venne quasi da chiedere, stupidamente: "Felix?". Tutta la sua figura era mutata. Il respiro si era trasformato in un sibilo spezzato e sembrava che avesse sostituito anche il naso con uno più lungo e più rosso. Impossibile riconoscere Felix, la pantera con il guizzo ferino. Mi chinai per prendere da sotto il sedile un grande sacchetto di carta. Diedi un'occhiata al contenuto e vi scorsi una gonna e una camicetta, oltre a dei sandali da donna. E una parrucca nera: capelli da bambina, che finivano in una lunga treccia. «Non mi metterò mai questa roba!» Felix tacque e strinse le spalle. Toccai disgustato la parrucca. Chissà di chi erano stati quei capelli. Forse di una che era morta. Come fa la gente a mettersi in testa roba del genere? Un'altra volante della polizia ci superò ululando. «Ha i nervi a fior di pelle, la nostra cara polizia...» disse Felix facendo schioccare le labbra. «Sono completamente disorientati. Che ne dici se gli raccontiamo cos'è successo sul treno?» e lasciò gorgogliare la sua risata interiore. Continuavano a frullarmi in testa le cose che aveva detto sulla spiaggia, prima di ripartire. «Conoscevo molto bene tua madre» mi aveva svelato, «la conoscevo ancora prima di conoscere tuo padre!» Tua madre e tuo padre. Con questa frase era riuscito a mettere insieme mamma e papà, facendo sì che improvvisamente avessi, per una volta, una coppia di genitori, marito e moglie. «Tua mamma era una donna molto forte» aveva detto, «e tanto bella. Era dotata di quella forza che hanno le persone molto belle.» Avevo l'impressione che stesse scegliendo le parole con cura e che non si trattasse esattamente di un complimento. Nella sua voce c'era un tono di eccessiva cautela. Non osai chiedere. «Molto forte e tanto bella.» Cosa significava "forte"? Nel fisico? Nell'anima? «E tanto bella.» Come dire che Gabi non aveva alcuna possibilità di spuntarla. «Era dotata di quella forza che hanno le persone molto belle.» Cosa voleva dire? Quasi fosse stata un po' rigida, qualcosa del genere. Rigida come papà? Nel senso che amava fare tutto da sola, per conto suo? O nel senso che nessuno doveva mettere il naso nei suoi affari, per dirle cosa doveva fare? Non domandai e lui tacque. Nell'unica sua foto rimasta in casa era bellissima: stava seduta e papà faceva capolino da dietro. Nella foto aveva un viso pieno di vitalità. I capelli neri, lunghi, sparsi sul viso, come se ci fosse stato il vento,

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e gli occhi un po' distanziati l'uno dall'altro, luccicanti come quelli di un bambino, bui e luminosi. Proprio quegli occhi un po' strani mi avevano sempre fatto dubitare che non si trattasse di una fotografia, ma di un ritratto. Qualcuno ne aveva tagliata via una parte, come se avesse voluto nascondere la sedia su cui sedeva Zohara. Perché? Su cosa era seduta? Perché era tutto così pieno di segreti? A volte, quando cercavo qualcosa nel cassetto di papà, trovavo questa foto capovolta. Sempre così. Ritratto o fotografia? Quegli occhi sembravano infatti un tocco da pittore. Mentre il resto del ritratto pareva vivo. Una fotografia? Ma chi l'aveva ritagliata? E perché? E che forza hanno le persone molto belle? Non domandai. Restai in silenzio. Lui serbava dentro di sé il mio destino, le risposte alle mie tante domande, e io non avevo il coraggio di chiedere. Nella fotografia c'era anche papà che l'abbracciava da dietro guardando non l'obiettivo, ma lei, la sua bocca, trovando lì, in quella libera risata, ispirazione per un timido sorriso, come se volesse imparare da lei a diventare selvaggio e felice... il sole affondò e scomparve. Felix taceva. Io non parlavo. Mi sarebbe bastato fare ancora qualche domanda e avrei saputo tutto. Ma mi mancò la forza di cominciare a conoscere ogni cosa così di colpo. «Se vuoi, posso raccontarti...» esordì Felix con un tono pacato. «Dopo» lo interruppi, alzandomi, «dopo mi racconterai anche cosa vuol dire che lei era piuttosto rigida, non adesso.» «Ma non ho detto ri...» «Fa lo stesso, qualunque cosa tu abbia detto. Non cambia niente. Ne parliamo dopo.» Felix, ancora seduto sulla sabbia, mi guardò dal basso verso l'alto e disse: «Sì, penso anch'io che sia meglio aspettare un poco. Magari dopo cena?.» «Sì. Ho fame. Andiamo via di qui» perché non ce la facevo più a stare fermo, mi formicolavano i piedi. «Deciderai tu quando vorrai sentire» mi disse Felix con uno sguardo intenso, «è la tua storia.» «Esatto. Dopo mi racconterai tutto.» «Anche del loro castello, dei cavalli, tutto dopo.» Oh, no. «Cavalli?» «Ma certo! E un posto come un castello. In cima alla montagna più alta. Soli. Vicino al confine. Tuo papà l'aveva costruito per lei.» «Un castello? Proprio...?» le gambe non mi reggevano, mi risedetti davanti a lui. «No, non un castello come quello del re di Romania o di Napoleone. Per loro, però, era come un castello.» Non ce la faccio, non ce la faccio, pensai. Ora comincerà a raccontarmi di loro insieme, di com'era papà quando lei era ancora viva. Cominciavo a capire che oltre a non aver conosciuto la mamma, anche di papà sapevo ben poco. Almeno fino a quel momento. Detective da quattro soldi che non sono altro. Per ore, giorni, settimane, mesi non avevo pensato a niente, non avevo posto le domande fondamentali. Me ne stavo a letto tutto il pomeriggio a rimirare il soffitto. Cosa le aveva costruito, papà, lassù? E perché proprio in cima a una montagna, perché sul confine, e da dove saltavano fuori i cavalli? «Già, è una storia davvero speciale» continuò Felix, e così dicendo tirò fuori dalla tasca un pregiato portafogli di cuoio, che cominciò a riempire di sabbia. «Tuo papà aveva portato Zohara su una montagna lontana, nei pressi del confine con la Giordania. Tutto intorno solo montagne, vento, bestie selvatiche e lupi, e laggiù aveva costruito il loro nido, lei stava come una regina, e lui come un re, non ci

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arrivava nessuno perché la gente aveva paura, e tuo papà la teneva lassù...» Il suo viso aveva assunto un'espressione quasi tenera. Mi irrigidii e continuai ad ascoltare. «Avevano dei cavalli, delle capre che davano il latte, delle pecore per la lana» il portafogli era ormai pieno di sabbia e lo rimise nella tasca della giacca, ma io non chiesi né capii nulla, non avevo la forza di concentrarmi contemporaneamente su quel che raccontava e quello che faceva. «non avevano voluto nemmeno l'elettricità, nemmeno il telefono, era il loro paradiso privato...» No, no, scossi la testa energicamente, per scrollarmi da dentro quella storia, quelle sorprese estenuanti, non voglio, non ora, fa troppa paura immaginare che siano stati così. Che una volta lui fosse così. Non è ancora giunto il momento di pensarli in questo modo. Bisogna darmi il tempo di abituarmici. Pronto, pronto, datemi tempo. Sono lento di comprendonio e tutto questo mi scuote: i cambiamenti così repentini, la nostalgia... «E come cavalcava, tua madre, pareva volasse...» Non era una sedia, stupido che sono, era un cavallo quello nella fotografia. Un cavallo che papà aveva tagliato via dall'immagine. Aveva tagliato via tutto, il cavallo, la montagna, quella sua vita, e Zohara. Le immagini e i pensieri turbinavano intorno a me come una bufera. Il loro paradiso privato. Perché lui non me ne ha mai parlato? Perché non mi ci ha mai portato? «Perché erano andati laggiù? Così lontano?» Felix allungò la mano e mi pose un dito sulla fronte, nel punto che già sfrigolava e ribolliva. Sentendolo esplodere con una vampata nella testa, gridai: «Stavano scappando da qualcuno?» «Non è che hai già voglia di sentire tutta la storia? Qui, ora?» S'inumidì furtivamente le labbra con la lingua, strizzando gli occhi. Aveva voglia di raccontare. Moriva dalla voglia di raccontare. Che strano. Come mai? In fondo ci conoscevamo solo da un giorno, eravamo praticamente degli estranei. Cosa voleva da me? «No! Me lo racconterai dopo» risposi prontamente, con un ardore intransigente. Mi alzai e rimasi in piedi di fronte a lui. Sussultò, come se lo avessi svegliato da un sogno: «Dopo quando? Forse dopo non ci sarà più tempo!.» «Dopo. Non qui.» Andare. Muoversi. Non fermarsi in un solo posto. «Basta, andiamocene.» Mi guardò ancora un istante dal basso, sospirò, mi tese un braccio e lo aiutai a tirarsi su. Ci scrollammo di dosso la sabbia e coprimmo i segni che avevamo lasciato, nel caso che qualcuno ci stesse seguendo. Eravamo tutti e due molto allenati in fatto di occultamenti, ognuno nel proprio ambito. Ogni tanto mi lanciava uno sguardo sbigottito, non riuscivo a spiegargli quel che mi stava succedendo. Doveva raccontare dopo. Cancellai le impronte con i piedi e con un ramo trovato lì per caso, in modo da non lasciare tracce. Dopo avrei sentito il seguito della storia. Non bisognava avere troppa fretta. C'era tempo. Bisognava abituarsi Ce ne andammo a passo lento. Il cane nero in cima alla duna si mise a correre al nostro fianco, benché a distanza di sicurezza. Continuava ad abbaiare verso di me. Ma Felix disse che non dovevo agitarmi se quel cane gli abbaiava, era una cosa che gli succedeva sempre. Non avevo voglia di mettermi a discutere e raccontargli di quante volte ero stato aggredito dai cani così, senza motivo, come se ci fosse qualcosa in me, nel mio odore, che gli faceva perdere la caratteristica lucidità canina. Eppure, proprio la presenza di quel cane mi suscitava una nuova simpatia per lui, e pensai che

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lentamente ci stavamo abituando l'uno all'altro, che in fondo non è sempre il caso di spiattellare subito i segreti: la cosa importante era sapere che avevamo in comune un tale segreto. Procedevamo a zigzag sulla sabbia bianca e pareva quasi che essa venisse con noi. Una volta addirittura mi girai per vedere se fra le nostre impronte c'erano anche le sue - quelle della sabbia, intendo. Penso che lui ne avesse intuito il motivo, perché sorrise e mi cinse la spalla con il braccio. Andammo così fino al Maggiolino, dondolando e ridendo come due ubriachi. Molto forte e molto bella, e rigida. Rigida? Come sono rigidi i professionisti? Un momento: forse lavorava davvero con papà? Forse era anche lei della polizia? Una mamma detective? Forse era colpa sua se papà ce l'aveva a morte con il crimine. Come avevo fatto a non pensarci prima? Mi contrassi sempre più. Non conviene pensarci adesso, in viaggio, nel bel mezzo dell'avventura. Dopo ci sarà più tempo. Stasera. O domani. E lui le aveva costruito un castello. Un posto tutto per loro, su una montagna alta, vicino al confine. Con pecore e cavalli. Senza elettricità, senza telefono. Probabilmente voleva stare solo con lei. Puri. Come Adamo ed Eva in paradiso. Per lei aveva persino mollato la polizia. Una volante ci sorpassò. Un ululato stridulo. Rabbrividii. «Signor Feierberg» mi avvertì Felix, «è la nostra ultima chance.» Se ora mi beccano, pensai, non sentirò più la sua storia. La loro storia. Tirai fuori i vestiti dal sacchetto. Una gonna rossa e una camicetta verde. Colori sgargianti, un po' pacchiani. Come faccio a mettermi addosso questa roba da donna? Morirò di vergogna. Vomiterò disgustato. Piuttosto dirotto un altro treno, ma la gonna non la metto. Ci sono cose per le quali non si tratta di coraggio, ma... di che? Com'è che si chiama? Con la macchina in corsa passai sul sedile posteriore, per cambiarmi. Vidi per un istante la mia faccia nello specchietto. Avevo l'aria di uno che sta per ingoiare una medicina particolarmente amara. Papà una volta aveva dovuto travestirsi da donna. All'epoca stava inseguendo un truffatore che si era impegnato a sposare dieci donne, per derubarle. Malgrado la sua grande professionalità, papà era così disgustato all'idea di mettersi una sottana che alla fine aveva costretto Gabi a fare da esca. Fu così che, come raccontava lei stessa, aveva ricevuto le tre promesse di matrimonio della sua vita: la prima, l'ultima e l'unica. Mi tolsi i pantaloni e infilai la gonna. Al contrario, ovviamente. Il davanti di dietro. Come facevo a saperlo? Me la girai sui fianchi. Una gonna, almeno, non bisogna togliersela per girarla. Indossai i sandali leggeri, con le stringhe da allacciare. Eccomi camuffato. E allora? Fa parte del nostro mestiere. Se riesco a imbrogliare qualcuno con questo travestimento, significa che sono più professionale di papà? O meno virile di lui? Avevo sempre creduto che essere professionale significasse essere virile, ma ora ero decisamente frastornato. Cercavo di non pensare alla bambina che aveva indossato quei vestiti prima di me. Come misura mi calzavano a pennello. Solo che sembravano sorpassati, non come quelli delle mie compagne di classe. Avrei voluto chiedere a Felix dove li aveva presi, ma non lo feci. Come mai continuavo a fare a meno di domandare? Come mai non pretendevo che mi spiegasse dove un vecchio come lui aveva preso quegli abiti da bambina? E cos'era accaduto alla bambina a cui li aveva presi? Tacqui. Lottavo con i brutti pensieri che si affollavano dentro di me. Se non avessi saputo che papà si fidava

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ciecamente di Felix, forse sarei stato leggermente preoccupato. Non spaventato, solo più vigile. Dai vestiti emanava una leggera frescura. Freddo. Un odore particolare. Odore di chiuso, buio e fresco. Dovevano essere rimasti a lungo ripiegati dentro un armadio. Mi misi in testa la parrucca. L'interno era di pelle o di gomma. Era come se mi fossi messo in testa l'interno di un pallone. Cominciò subito a prudermi. Mi dava l'idea che brulicasse di formiche. L'elastico mi tirava i capelli, me li strappava uno dopo l'altro, temevo che, continuando così, non avrei più potuto fare a meno della parrucca. La treccia, dietro, mi irritava il collo. La tirai fuori dal colletto, ma nel girare la testa vi si infilò nuovamente. La tirai fuori di nuovo, e rieccola dentro. Continuavo a chiedermi cosa avrebbe detto Mikah se mi avesse visto in quel momento. "Ehi, Nono, hai la treccia." Sgattaiolai di nuovo sul sedile davanti. Felix mi guardò con approvazione: «Perfetto» disse, «se vogliamo farcela, bisogna andare fino in fondo! Cambiare tutte le regole! Osare! Ci vuole courage! Questo significa audacia!.» Poi si mordicchiò le labbra, recuperando i tratti del vecchietto con la bocca storta, e con la sua nuova voce borbottò: «Ora nonno Noè e la piccola Tami vanno a fare il picnic. Trallallà.» Tami? Non parlai. La parrucca mi tormentava, e sotto mi sudava la testa. In situazioni ben meno irritanti avrei già cominciato ad agitarmi. Invece mi guardavo le gambe che sbucavano dalla gonna. Esili e lisce. Anche i piedi sembravano diversi, dentro quei sandali. Femminili. Se avessi avuto una sorella, ora mi avrebbe assomigliato. E se fossi nato femmina, avrei avuto questo aspetto. E movenze femminili. E crescere per essere come la mamma, non come papà. Quei pensieri mi innervosivano. Fra cinque giorni è previsto che io diventi un uomo e qui mi trasformo in una bambina. Ero offeso dal fatto che mi si potesse ancora scambiare così. In classe nostra c'è un bambino, Shimshon Yulzari, che si fa già la barba, e io me ne sto qui con una treccia. Ma se fossi nato femmina, forse avrei avuto davvero questo aspetto. Una bambina così. Un po' spigolosa, ma una bambina. E avrei avuto una vita completamente diversa. Avevo sempre nutrito il timore che, se un bambino fosse riuscito anche solo una volta a imitare alla perfezione una bambina, gli sarebbe rimasto impresso per sempre qualcosa di lei. Felix mi degnò di un altro sguardo e per un istante sembrò dimenticarsi che teneva il volante. Così mi aveva guardato la prima volta che mi aveva visto, dal vetro dello scompartimento: lo sguardo di un uomo che ricorda qualcosa ed è preso dalla nostalgia. Chi sono? pensai. Ero confuso, straniero a me stesso. Chi sono? La treccia nera e stopposa mi rimbalzava sulla schiena. ticchettava. Per colpa sua avevo l'impressione che qualcuno stesse camminando dietro di me e mi chiedesse di girarmi. I vestiti svolazzavano, mi sfioravano la pelle e si alzavano, mi accarezzavano e sfuggivano con la brezza. Fra l'altro mi resi conto che con la gonna ti entra l'aria anche da sotto. E adesso? Una grossa motocicletta nera apparve d'un tratto nello specchietto accanto a Felix e il motociclista, con un casco da poliziotto, ci fece segno di accostare. «E' finita» dissi sottovoce. Con un grande dolore per quel che stava finendo. Perché quella strana avventura si stava concludendo prima ancora di cominciare. «Cerca di divertirti.» mi disse Felix con la sua voce normale, mentre il poliziotto ci veniva incontro con un passo da cowboy che voleva solo impressionarci.

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CAPITOLO 12. SVELO LA SUA IDENTITA': SPIGA D'ORO E SCIARPA VIOLA. «La patente, prego.» Da vicino notammo che era un uomo giovane, lungo e magro. Anche il naso, come tutto il resto, era stretto e affusolato. Aveva le guance cosparse di brufoli. Non sembrava nemmeno così impeccabile: l'uniforme era sbottonata, la spallina con i gradi era in parte sfilacciata. Mi vennero in mente il poliziotto e il detenuto finti che avevo incontrato quella mattina, un milione d'anni fa, e a quel punto mi augurai che anche costui facesse parte della sceneggiatura. Purtroppo, invece, era autentico. Felix estrasse la sua patente e gliela porse. Il poliziotto la esaminò a lungo. «Questa è mia nipote Tami» disse Felix con la voce da vecchietto, un po' tremula. «Si va a fare un picnic sulla spiaggia. Spero, signor agente, che stessi andando secondo il codice. Eh?" Il poliziotto lo scrutò e sorrise: «Nulla da dire sulla sua guida, nonno. Ma questa macchina non ha l'aria di durare ancora molti anni» e batté simpaticamente sulla portiera del Maggiolino. «Ce l'ho da quindici» starnazzò Felix, ridendo così di gusto che agli angoli della bocca gli spuntarono delle bollicine di saliva, depositandosi sui baffi grigi. Era un po' ripugnante, ma anche tanto convincente. Il poliziotto si tolse il casco. Anche la fronte era piena di pustole, e aveva i capelli radi. «Non avete per caso visto nei dintorni una macchina nera, di lusso?» domandò. Il mio cuore ebbe un singhiozzo, poi tacque definitivamente. «Una macchina nera?» Nonno Noè non aveva capito la domanda e si era messo una mano dietro l'orecchio, per sentire meglio. «Una grossa macchina nera!» gli urlò il poliziotto dentro i timpani. «Come in America» «Hai visto una macchina del genere, Tami?» Da qualche parte nel mio corpo, forse nel gomito o nella caviglia, la parola "No!" si dibatteva senza trovare via d'uscita Scossi la testa in segno di diniego. La treccia mi colpì due volte sul collo. «Qualcosa tipo una Chevrolet ultimo modello. O una Lark. Una macchina come non se ne vedono in Israele. Con dentro un signore e un bambino.» «Ah!» il nonno giocondo aveva capito. «La loro automobile?» «No. Dev'essere stata rubata. E' una strana storia: stava parcheggiata vicino a un agrumeto. Era lì già da ieri sera, c'è gente che l'ha vista. Poi oggi l'hanno presa un uomo e un bambino scesi dal treno in marcia.» «In marcia? Ma non è possibile!» Felix era sorpreso e sgranò gli occhi, grandi e limpidi, dietro le lenti. «Non è ancora tutto chiaro. L'uomo deve avere fermato il treno con la minaccia di una pistola. Il bambino è sceso con lui. Il macchinista è ancora in stato di shock, da lui non si riesce a capire cosa sia veramente successo. Un rapimento, chissà. Deve aver rapito il bambino, usandolo come ostaggio per fermare il treno. Non è chiaro.» A dispetto della paura, dovetti sforzarmi di non ridere: un rapimento, ma va'. «E ora dove sono?» chiese Felix, togliendo un granello di polvere dalla manica del poliziotto. «E chi lo sa?» brontolò questi. Notai che teneva continuamente una mano sopra gli occhi, come per proteggerli dal sole, ma in realtà per nascondere le pustole sulla fronte. «Abbiamo anche trovato dei tipi sospetti sul treno, fra i passeggeri» bofonchiò con un tono sprezzante. «Degli adulti in maschera! Ma se lo immagina, lei? Per andare a Haifa!»

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«Maschere?» starnazzò il vecchio nonno con immenso stupore. «Come per carnevale?» «Carnevale d'estate» sogghignò il poliziotto chinandosi sul finestrino, in modo da mostrare solo la faccia. Doveva valutare ogni mossa per tentare di nascondere quei brufoli. Dissimulare, celare continuamente. «Abbiamo trovato due pagliacci, un acrobata e persino un prestigiatore.» Ma certo, pensai, l'uomo con il cilindro nero, il boia. «E un mangiatore di fuoco, una giocoliera, una contorsionista, un circo intero...» ridacchiava, come vergognandosi delle sciocchezze che era costretto a raccontare. Per una frazione di secondo pensai agli spettacoli che mi ero perso saltando direttamente all'ultima tappa del gioco, cioè Felix. Ma non pensavo di avere perso qualcosa d'importante. Pagliacci e mangiatori di fuoco li si può andare a vedere al circo, mentre di Felix ce n'è uno solo. Come avevano fatto Gabi e papà a organizzare tutto? E quando? Dov'ero mentre si incontravano con il mangiatore di fuoco e la contorsionista? E cosa ancora capiterà nella loro vita, che io non so? «Stiamo indagando in ogni direzione» riferì il poliziotto con un'aria di mistero. Sapevo che faceva il misterioso solo per via dello sguardo ammirato e indifeso con cui Felix lo fissava. «Io, personalmente» il poliziotto abbassò ulteriormente il tono, più che mai confidenziale, «sono convinto che si tratti di un depistaggio. Mi dica lei: tutto quel circo, lo scopo non poteva essere altro che quello di distrarre i passeggeri mentre il tizio teneva il macchinista sotto tiro... me lo sento» concluse, toccandosi il naso pustoloso, «il mio intuito mi dice che si tratta di un mistero. Il mio intuito non sbaglia mai!» «Va proprio a rotoli il nostro paese!» Felix allargò le braccia con sincero stupore, muovendo continuamente le labbra sulle gengive, come se non avesse avuto i denti. Certo che il poliziotto avrebbe potuto tranquillamente notare che li aveva. Ma non se ne accorse. «O tempora o mores! Mi stia a sentire, signor agente: una volta non era mica così! Una volta una brava persona come me poteva uscire di casa e lasciare tutto aperto, non succedeva niente! Nessuno entrava a rubare uno spillo! Ma oggi? Oggi?» la sua voce era divenuta un ronfo di disappunto e meraviglia, tanto che persino io dimenticai per un istante che Felix non era esattamente quel che si dice "una brava persona". Anzi, faceva parte di coloro per cui quella persona non poteva più uscire tranquilla di casa. «E la bambina, la nipotina, oggi non va a scuola?» chiese il poliziotto restituendo a Felix la patente. «Non c'è scuola, oggi?» «Siamo in agosto, vacanze!» ribatté il vecchietto. «E qualcuno deve pure dar retta al vecchio nonno, vero Tami?» Esibii un blando sorriso. Le mie dita giocherellavano con la treccia. Cominciavo a divertirmi. «E' timida!» disse il nonno sorridendo al poliziotto. «Ma dovrebbe vedere la sua pagella, che voti! E' proprio una brava bambina.» «Anche mia moglie è incinta» esclamò il poliziotto, arrossendo lievemente. «Fra due mesi arriva il primogenito.» Non avrebbe dovuto raccontarcelo. Felix non glielo aveva chiesto, fu lui a offrirsi volontario, a dirlo spontaneamente. Qualcosa venne fuori da lui, consegnandosi come un dono nelle mani tese di Felix. Sapevo già che con lui andava sempre a finire così: la gente gli accordava piena fiducia, fin dal primo momento. Il suo sguardo, quel suo sorriso, facevano sì che la gente desiderasse affidargli qualcosa di prezioso, un dono, la cosa

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più importante che avevano. Fu così che il poliziotto gli confidò in un batter d'occhio la storia del nascituro. Esattamente come io gli avevo subito raccontato di Zohara, e come il macchinista, che pure aveva cercato di contrastarlo, alla fine aveva ceduto e mi aveva lasciato guidare la sua locomotiva. Una cosa del tutto incomprensibile, perché in fondo Felix, ma come dirlo senza offendere? era una specie di bastardo, d'impostore, no? Forse papà si sbagliava, forse non si può capire il carattere di una persona dai tratti del volto. Perché uno che nasce con una faccia così rassicurante deve scegliersi una vita da truffatore? E cosa dire di me, con i miei sette peccati nel cuore e una faccia d'angelo? Le guance di Felix sprizzavano felicità: «Oh, signor agente, la sua vita sarà tutta un'altra cosa quando arriverà il primo figlio!» e un sorriso pieno di nostalgia gli illuminò il viso. «Sì,» sorrise anche il poliziotto, «me lo hanno già detto tutti i miei amici che hanno dei bambini.» «Glielo dico per esperienza personale, a lei che è giovane» continuò Felix, sempre più raggiante. «Nel momento in cui ti nasce un figlio, diventi un'altra persona. Nuova. Improvvisamente qualcosa cambia qui, qui!» e con la mano tremante si batté sul petto striminzito, tossendo. Il poliziotto gli percosse delicatamente la spalla, sempre con quel suo sorriso timido: stava pensando a quel che Felix gli aveva appena detto. Solo allora mi accorsi che aveva dei begli occhi, dei grandi occhi a mandorla, coronati da lunghe ciglia. Chino sul finestrino di Felix, era chiaro che si beava di quell'intimità, come se quel vecchio saggio potesse trasmettergli, per vie a lui del tutto ignote, la sua esperienza e la sua saggezza. Era uno di quei momenti che non si possono misurare con l'orologio, ma solo con i battiti del cuore. Escluso dal caldo anello che in quel momento li avvolgeva, provavo un gran desiderio di esserci, di partecipare. Dimenticai completamente che Felix stava fingendo, che lui stesso mi aveva raccontato di aver trascurato sua figlia da piccola e quanto se n'era poi pentito. Dimenticai. Non volevo ricordare. Il poliziotto assaporò fino in fondo quel momento, poi sospirò tristemente, mi rivolse uno sguardo intenso e, con un tono imperativo, disse: «Divertiti con il nonno!.» «Sabato ho il bar-mitzvah» cinguettai. Non avevo mica bisogno di dirlo. Nessuno me l'aveva chiesto. Eppure lo dissi, mi sfuggì, e per di più proprio con una voce da Tami-lunga treccia. Il poliziotto mi sfoderò un bel sorriso, diede una pacca sulla spalla a Felix, lanciò un'ultima occhiata alla sua patente, giusto per ricordare il nome. «Mi stia bene, Glick» disse salutandoci, poi risalì sulla sua motocicletta e si dileguò facendo rombare il motore. Signor Glick? Era il nome pronunciato dal poliziotto. Il nome che aveva letto sulla patente. Glick. Felix Glick. «Congratulazioni per il bar-mitzvah» scoppiò a ridere il nonno di Tami, mettendo in moto il Maggiolino. Mio Dio, pensai: sto viaggiando con Felix Glick in persona. L'uomo delle spighe d'oro. «Non immaginavo che possedessi un simile talento» mi disse. «Quale talento?» «Un talento da attore, proprio così. C'è qualche attore in famiglia, per caso?» «Non penso» risposi senza guardarlo, perché non notasse il mio stato di agitazione. Felix Glick era stato, anni prima, il più celebre fuorilegge del paese. Era miliardario e sperperava miliardi. Aveva svaligiato

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banche in tutto il mondo. Aveva preso per il naso vari governi. Umiliato polizie. Aveva uno yach', mille amanti. Ed era stato mio papà a catturarlo. «E pure un gran bel talento per le bugie. Eri impassibile. Chissà che tu non abbia un futuro, ragazzo mio! Racconti molte bugie?» «Ogni tanto. Non tanto.» Per esempio ora, signor Glick. «Be', pareva proprio che ce lo chiedesse in ginocchio, di raccontare frottole» disse Felix. «Cosa ti succede, hai paura del tuo coraggio?» «Perché? Perché me lo chiedi?» «Sembri un po' pallido. Vuoi che ci fermiamo? Non ti senti bene? Devi rimettere?» «No. Sto bene... vai pure...» A ogni colpo lasciava dietro di sé una spiga sottile di oro puro. Le polizie di tutto il mondo erano in grado di individuarlo proprio da quella, ma lui continuava a rischiare, lasciandone puntualmente una sul luogo del delitto. Fra l'altro il grande sogno di Gabi era quello di avere fra le mani una spiga d'oro di Felix Glick: la sua spiga d'oro e la sciarpa viola dell'attrice che adorava: Lola Ciperola. Se avesse avuto quelle due cose, così diceva, avrebbe chiuso gli occhi ed espresso un grandissimo desiderio, e vediamo se esistono ancora i miracoli, a questo mondo. «Dove stiamo andando?» riuscii a chiedere malgrado il groppo di emozioni che mi stringeva la gola. «A mangiare. Andremo nel miglior ristorante del paese. La Bugatti dei ristoranti! Questa è la tua giornata!» Non voltai la testa verso di lui. Papà non aveva mai detto una parola a proposito di Felix Glick, come suo solito, ma Gabi (anche qui, come suo solito) ogni tanto mi raccontava. A dire il vero, raccontava molto: delle sue scorribande, della sua folle audacia, della sua leggendaria ricchezza e di tutte le amanti che aveva sparse per il mondo, e di come si diceva allora, che per intuire le sue trame ci sarebbero voluti due cervelli uniti. Era ricercato da tutte le polizie del mondo, schiere di investigatori lavoravano solo sui suoi misfatti e lui schivava ogni trappola, era sfuggente come un'ombra: solo mio papà era riuscito a mettergli le mani addosso. «Ci siamo conosciuti sul lavoro» ricordai, e a momenti soffocavo dal ridere: già, e come si sono conosciuti! Tesi le gambe con tutta la forza. Senza guardarlo. Avevo paura che mi leggesse tutto in faccia. Respirai aria pura a pieni polmoni. Ora il programma di papà mi sembrava bello e ancora più pazzesco, molto di più: mi veniva da piangere dalla commozione per il fatto che ora, dopo forse vent'anni, papà e Felix stavano collaborando per farmi divertire così in occasione del mio bar-mitzvah. Capii al volo com'era andata: papà si era rivolto a lui, s'erano incontrati e avevano parlato, due uomini forti e speciali, e Felix gli aveva detto: «Dimentichiamo il passato, signor Feierberg. Tra noi c'è stato un duello cavalleresco, hai vinto tu. Apprezzo la professionalità. Tu mi hai catturato e per questo sei il miglior investigatore del paese, forse non solo del paese. Tutti e due conosciamo la solitudine degli eroi. Perciò trovo naturale che tu ti rivolga a me e considero un complimento che tu desideri la mia collaborazione per mostrare a tuo figlio il mondo del crimine. Non avresti potuto trovare un istruttore migliore di me, yes, sir!.» E papà, il mio papà sempre triste, gli aveva stretto forte la mano, diventando tutto rosso. Era così emozionante che quasi abbracciai Felix. «Almeno ci ha lasciato un bel regalo» disse all'improvviso con un tono malizioso.

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«Chi?» «Il giovincello, il poliziotto.» Alzò la mano e sul polso, vicino ai gemelli d'oro, c'era il grande orologio del poliziotto, un Marvin identico a quello che tutti gli agenti di polizia avevano ricevuto in regalo la Pasqua precedente. «Come...? Quando sei riuscito...?» «Chissà? Me lo sono trovato sotto gli occhi, e zaffete. Le mie mani pensano più in fretta di me.» Tacqui. Non sapevo cosa dire. Non sapevo nemmeno cosa provavo esattamente in quel momento. Per un verso era inequivocabilmente un furto. Felix mi guardava e vedeva esattamente quel che pensavo di lui. Era rincresciuto. «Stupidate» disse alla fine, «hai ragione... davvero non avrei dovuto... non è bello. Era un ragazzo simpatico.» «Allora perché l'hai preso?» Felix rallentò, insaccò leggermente la testa nelle spalle e per un attimo mi sembrò vecchio davvero. Quei miseri baffi parevano d'un tratto proprio suoi. «Forse... mi sembra, non ridere di me, e solo che volevo farmi bello con te...» «Farti bello? Per cosa?» «Be', così, far vedere che sono in grado di fregare l'orologio a un poliziotto... derubarlo proprio mentre mi sta controllando... fare qualcosa di buffo, una battuta di spirito per riderci poi su insieme, tu e io, noi due...» Mi irritava che avesse rubato l'orologio. Quel furtarello mi aveva leggermente guastato la nobile intesa fra lui e papà, e per questo sentivo di nuovo la lama gelida sotto il cuore, ammonendomi che stavo sbagliando di grosso, che qui c'era qualcosa, a proposito di quest'uomo, che ancora mi sfuggiva. Ma vidi anche la sua espressione umiliata, le labbra di Felix che borbottava fra sé, e mi fece una gran pena. Voleva mettermi di buon umore, pensai, e se, supponiamo, avesse saputo ballare, mi avrebbe fatto un balletto. Se avesse saputo cantare, avrebbe cantato per me. Ma lui sapeva solo raggirare, rubare e sparare con la pistola. Dunque prima aveva sparato, e poi mi aveva fatto una piccola esibizione di borseggio. «E se restituissimo l'orologio?» proposi. «Perché no...? Lasciamolo in macchina, per quando l'abbandoneremo.» «Perché dobbiamo abbandonarla?» «Bisogna cambiare continuamente. L'auto. Il carnevale. E la storia. Altrimenti la polizia becca subito Felix e chi s'è visto s'è visto, addio al gioco! Ma non devi preoccuparti: Felix ci è abituato» disse con una risatina non allegra. «E' una persona intercambiabile. Tutta la sua vita è così.» «Un momento» mi era venuto un sospetto. «E' un'auto rubata?» Felix Glick si strinse nelle spalle con l'aria stupita: «Piccolo signor Feierberg» disse, «tutto questo gioco è rubato. Dall'inizio alla fine non c'è nemmeno una cosa giusta. Non resta che una domanda da fare: stai al gioco?» Pensai a mio papà, che aveva rivisto Felix dopo vent'anni e mi aveva affidato a lui con una stretta di mano. Pensai a Zohara. Alla sua storia che solo Felix mi avrebbe raccontato. Mi drizzai sul sedile: certo che stavo al gioco. CAPITOLO 13. E' POSSIBILE TOCCARE I SENTIMENTI?

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Proseguimmo in silenzio, come entrambi rattristati per lo stesso motivo, che non avrei saputo definire. Come se avessimo fallito in qualcosa. Eppure era stato Felix a rubare l'orologio. Perché allora sentivo anch'io quel cupo dolore? Forse perché avevo assistito al suo inganno, avevo visto con quanta facilità mentiva e mi ero reso conto che sarebbe stato capace di ingannare allo stesso modo anche me. E forse ancora per via della sua faccia, che in un batter d'occhio si era contratta nella vergogna del bambino colto in flagrante, una vergogna di bambino incorniciata nelle rughe di un vecchio. Perciò mi ricordai un episodio sgradevole, e tornò a pesarmi sul cuore, come sempre, la storia con Chaiim Stauber - quando avevo cercato di impressionarlo e accattivarmi la sua simpatia, e quel che era successo alla mucca di Mautner. Non ero dunque migliore di Felix e chissà dove potrei arrivare, dopo quell'inizio trionfale. Chiusi gli occhi, facendo finta di dormire. Ricostruii impietosamente tutto quel che era successo con Chaiim - per farmi male, per soffrire. Chaiim appena giunto nel nostro quartiere, Chaiim con gli occhi che si accendevano e mandavano un piccolo bagliore quando s'entusiasmava, Chaiim che prima avevo solo Mikah per amico, però soltanto una specie di amico, questo lo sapevo da sempre, ma non avevo nessuno per sostituirlo e lui non aveva mai litigato con me, non parlava quasi, e quando mi ascoltava assumeva un'espressione inebetita, a volte avevo la sensazione che non mi ascoltasse per amicizia, anzi, al contrario, per godere alle mie spalle nel vedermi travolto dalle mie storie e dalle mie esagerazioni. Con l'arrivo di Chaiim era cambiato tutto. Era cambiata la mia vita. Era arrivato in classe da noi a metà dell'anno scolastico. Già una settimana prima ci avevano preparato a questo bambino speciale, un vero genio, e gran pianista, figlio di un famoso professore dell'università. E poco dopo Purim, durante l'ora di matematica la direttrice aveva bussato alla porta e aveva fatto entrare Chaiim. L'avevamo squadrato da capo a piedi. Sembrava un bambino normale, ma aveva una testa molto grande, come si conviene a un genio. Anche la fronte era particolare, scura e molto alta. E poi, cosa rara da noi, aveva dei capelli folti e neri, pettinati all'indietro. L'avevano messo vicino a Mikael Karni, raccomandando di fare una buona accoglienza all'ospite. A quell'epoca ero ancora in una piccola banda di bambini. Facevamo delle cose insieme, avevamo una parola d'ordine, un nascondiglio e delle "operazioni" da seguire, una casa su un albero, la solita spia a cui dare del filo da torcere (un certo Kemerman che abitava un piano sopra di me); insomma, un'autentica banda. Forse dovrei sottolineare che in quei tempi antichi i bambini giocavano davvero fra loro, non solo tramite un modem. Durante l'intervallo dissi alla mia banda che avrei invitato il nuovo, per non farlo sentire solo. Rimase proprio contento e venne con noi a giocare a pallone. Lo mettemmo in porta. Non era un gran portiere; anzi, era deboluccio, aveva le mani bucate, ma mostrava un grande spirito di abnegazione e per questo mi piacque. Ricordo che dissi a Mikah: «Guarda che parate da suicidio», e Mikah rispose con quella sua voce pesante e indifferente: «Ma a cosa diavolo gli servono se non prende una palla?.» Finita la scuola tornammo a casa insieme, io, Mikah e Chaiim Stauber. Loro camminavano e io, come al solito, gli giravo intorno sugli schettini. A quel tempo vivevo con gli schettini ai piedi, non uscivo di casa senza i miei ingombranti

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schettini e, quando tornavo da scuola con Mikah, lui camminava e io gli piroettavo intorno parlandogli da ogni parte, ed era buffo vederlo perché mi cercava sempre dove non ero più. Quel giorno, quando Chaiim venne con noi, descrissi i miei cerchi intorno a loro per mostrargli disinvoltamente cosa sapeva fare un virtuoso degli schettini. Qualche piroetta sul posto, un salto mortale dal marciapiede, un lungo tratto su una gamba sola nella selva di macchine: il tran tran della mia vita. Chaiim Stauber sgranava gli occhi e fu quella la prima volta in cui vidi come si illuminavano, quasi che qualcuno ci avesse acceso dentro un fiammifero. Aveva proprio una piccola luminescenza sulla pupilla. Mi accorsi subito che si tratteneva a fatica dal chiedermi di fare un giro e stavo già valutando quanto avrei potuto ricavarci. Aveva l'aria di essere un bambino piuttosto ricco. Lo accompagnammo a casa, abitava in una villa di fianco al nostro isolato, e quando ci fermammo a chiacchierare davanti alla porta venne fuori sua madre, quasi di corsa, gridando da lontano: «Chaiim, Chaiimke, com'è andato il primo giorno?.» Allora Chaiim ci disse frettolosamente, a bassa voce: «Non ditele che abbiamo giocato a pallone» e restò fermo a farsi abbracciare e coccolare, come un bambino piccolo. «E questi sono i tuoi nuovi amici?» disse sua madre, scrutandoci, dopo essersi quietata. Avevo la netta sensazione che stesse cercando di intrufolarmisi sotto la pelle, per capire se ero abbastanza a posto per suo figlio, così assunsi un'espressione da angioletto e dissi sottovoce: «Buongiorno, signora Stauber», porgendole persino la mano. Lei mi sorrise con una certa sorpresa e me la strinse. Che mano aveva, che mano...! Tiepida, morbida e setosa, con delle dita lunghe, delicate, curate, e io, per un istante, non fui capace di mollarla. Poi ritirai di scatto la mia mano sporca, lorda di furtarelli, zuffe e colluttazioni, e per mia fortuna ebbi anche la prontezza di nascondere dietro la schiena la sinistra, con l'unghia del mignolo che mi stavo lasciando crescere per bellezza (era già la più lunga della classe, forse anche di tutta la scuola). Fu il mio primo incontro con lei e io, sbalordito dalla sua raffinata bellezza, non osai più aprir bocca per non farmi scappare che Chaiim aveva giocato a pallone, anche se non capivo cosa ci fosse da nascondere. «Per via del pianoforte» spiegò Chaiim l'indomani. Non che il nesso ci fosse molto chiaro, ma tentò comunque di farci capire che a causa della musica gli era proibito mettere a rischio le mani e che sua madre stava sempre in apprensione per le sue dita. Mikah se n'era uscito con la sua risata ebete mentre io, non so cosa m'avesse preso, dissi subito che sua madre aveva tutte le ragioni e che forse lui non doveva davvero giocare. Chaiim Stauber disse che, potendo, sua madre avrebbe tenuto sempre strette le sue mani, lasciandole libere solo per gli esercizi al pianoforte, oltre che per i concerti. Poi lanciò un urlo improvviso, saltò in aria e batté forte le mani, e io verificai con uno sguardo che non fosse successo niente a quelle dita, che sua madre avrebbe voluto tenere e riscaldare fra le sue. Con la testa completamente altrove, dissi di nuovo e con un tono perentorio che sua mamma aveva perfettamente ragione, anzi, ora che capivo come stavano le cose, intendevo anch'io tenerlo sotto controllo, in fondo il pianoforte era il suo futuro, e forse, per merito suo, il futuro di tutto lo stato d'Israele; di buoni calciatori era pieno il mondo, di pianisti ce n'era

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uno su un milione. Mikah mi guardò sbigottito, io stesso ero sorpreso di quel che avevo detto. Cosa c'entravo io con le sue dita, cosa me ne importava? Ma nel momento in cui udii le mie parole capii che stavo dicendo una cosa giusta, ragionevole, persino pura, ed era una delle poche volte in vita mia in cui sentivo di avere un principio, qualcosa di importante per cui ero disposto a lottare, anche senza ricavarne alcun vantaggio. Così, per dimostrare la serietà del mio intento, mi levai subito gli schettini e, tenendoli in mano, mi misi al passo con Chaiim, come una guardia del corpo. Chaiim sembrava piuttosto stupito di come lo tenevo sotto le mie ali e con una certa esitazione mi chiese se suonavo anch'io. Scoppiai a ridere: «Come faccio a saper suonare?.» E Mikah: «Lui suona i nervi, e ce li fa venire.» Devo dire che da quando Chaiim Stauber si era unito a noi, tutto quel che Mikah faceva o diceva mi sembrava brutto, stupido e rozzo, e speravo che Chaiim non pensasse male di me per colpa sua. L'indomani, a scuola, Chaiim volle a tutti i costi giocare a pallone. Andai da lui, lo presi da parte e gli spiegai con le buone che era troppo rischioso, ma lui mi disse che non gliene importava. Cercai di convincerlo, cercai persino di corromperlo, ma lui non volle sentire ragioni. I bambini avevano già cominciato a urlare che l'intervallo era finito e dovetti rinunciare. Quel giorno rinunciai anche al ruolo di attaccante, impegnandomi nella difesa della sua porta. Non uscii mai dalla linea dei sedici metri e respinsi ogni tentativo di sfondamento da parte del nemico. La mia fu una difesa così fenomenale che Chaiim rimase completamente disoccupato, a mani vuote, e intatte. Non ricordo di essere mai uscito così spossato da una partita. E fu così anche nei giorni seguenti. Chaiim s'ostinava a giocare, e sempre come portiere, ma io vegliavo su di lui come se fosse una specie rara. Davo calci selvaggi a chiunque osasse avvicinarsi alla zona delle preziose dita. Ormai non mi comportavo più come un calciatore, agivo solo in veste di guardia del corpo. Ogni volta che riuscivo ad allontanare un giocatore che osava fare un tentativo di tirare in porta, mi voltavo verso Chaiim e sorridevo, travolto dall'entusiasmo della mia fedeltà. A volte, malgrado la mia strenua difesa, un avversario riusciva a penetrare. Allora seguivo straziato Chaiim che metteva a repentaglio il suo futuro con terribili affondi, dritto sui piedi dell'avversario, poi chiudevo gli occhi e m'irrigidivo tutto, sentendo le mani calde e affusolate di sua madre che si chiudevano teneramente intorno al mio cuore. A parte il calcio, che mi logorava i nervi, passavamo anche dei bei momenti. Non sapevo chi fossero gli amici di Chaiim prima del suo arrivo nel nostro quartiere, non ne parlò mai, però cominciava davvero a divertirsi insieme a noi. La nostra banda aveva un percorso di guerra, per misurare il coraggio, nel vallone vicino a casa. Bisognava farlo una volta al mese, per confermare il patto d'amicizia. Si trattava di un tubo della fogna, piuttosto stretto e ormai in disuso. Ci strisciavamo dentro per qualche decina di metri, fino ad arrivare presso un tombino aperto, molto profondo, che dovevamo aggirare sempre strisciando, e poi tornare indietro. Faceva piuttosto paura, lì, al buio. Nessuno ci garantiva che all'improvviso, dopo anni, la fognatura non riprendesse a funzionare, inondando tutto. Shimon Margolis giurava che una volta gli era passato di fianco un serpente nero (e io, una settimana dopo, dovetti ovviamente vedere una vipera lunga un metro). Quando finalmente

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si arrivava oltre il fosso, si sentiva l'acqua scorrere giù in fondo, nera e fetida. Ma non ero mai stato così teso come nei lunghi momenti in cui fu Chaiim a strisciare lì dentro da solo. Aveva preteso di fare il percorso e mi aveva anche sgridato quando avevo tentato per l'ennesima volta di appellarmi al suo buon senso. Gli altri bambini della banda avevano già cominciato a fare commenti su quelle mie forme di apprensione, dicevano che lo curavo come una vecchia nonna. Anche Mikah ghignava. Cosa potevo fare? Rimasi in disparte, tormentando gli arbusti lì intorno, pregando, invocando Dio perché estendesse la sua giurisdizione al canale fognario; ma soprattutto pregai la mamma di Chaiim Stauber, unii le mie mani alle sue, per tenere calde quelle di Chaiim, che aveva improvvisamente deciso di diventare un discolo. Quando uscì, aveva la faccia sporca di terra e le mani graffiate, ma anche un'aria da uomo felice. Shimon Margolis gli chiese com'era stato, e lui rispose che aveva avuto un po' paura, soprattutto sul tombino, ma che era stato divertente. Ecco. Non si vantò, non cercò di raccontare che se l'era vista brutta o che aveva sentito un fantasma volargli vicino, com'era capitato a me una volta. Disse soltanto che era stato divertente. E che la settimana successiva l'avrebbe rifatto. Mi faceva diventare matto, Chaiim. Tutto quello che io gli proibivo, lui subito voleva farlo, magari solo per irritarmi e preoccuparmi. A volte mi pareva di essere la bambinaia di un terremoto. In classe lo guardavo di spalle e sospiravo per le tante, nuove preoccupazioni. Immaginatevi, arrivai al punto che Chaiim Stauber mi offrì dei soldi in cambio di un giro sugli schettini e io rifiutai. Persino Mikah, che pareva di gomma, mi aveva fatto esplicitamente notare che stavo esagerando, ma a me parve che fosse un po' geloso. Certo, aveva le sue buone ragioni per esserlo. Questo Chaiim Stauber, al di là delle sue trame per farmi uscire di testa, era un bambino piuttosto sveglio e interessante. Aveva una mente enciclopedica. Stavamo allungati per ore, insieme, e io lo ascoltavo. Raccontava degli aborigeni che vivevano in Australia, degli esquimesi e degli indiani. Una volta era stato in Giappone con i suoi genitori e raccontò che lì si costruivano case di legno e si coltivavano alberi nani. Usava un tono di voce pacato e sommesso, pur raccontando le cose più incredibili, sempre con semplicità e disinvoltura, senza ostentazione. Non tentava minimamente di impressionarmi, si limitava a raccontare le cose come stavano, solo che già così erano molto più sorprendenti di tutte le mie fantasticherie. La sera, a letto, cercavo di imitare la sua parlata calma e precisa mentre diceva per esempio: «In Giappone siamo stati in un posto dove cucinavano le formiche nella cioccolata. Io non le ho mangiate, perché mia mamma non mi ha lasciato.» Soprattutto per questo lo stimavo: aveva il coraggio di raccontare che non l'avevano lasciato fare. Perché io, se avessi avuto una storia del genere, avrei immediatamente trasformato quelle formiche in una prelibatezza. Ne avrei mangiate un chilo, e le formiche vive avrebbero continuato a solleticarmi nella pancia, e il cuoco di formiche avrebbe giurato di non aver mai visto in vita sua un bambino tosto come me, credetemi. E cosa dire di sua madre? Ho già parlato delle sue mani, ma per me era tutta fantastica. Era una donna molto alta, più di suo papà, con una pelle bianca come alabastro, dei capelli color del miele che scendevano a boccoli sulle spalle e degli occhi celesti che sbatteva

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lentamente. Una bambola di grandi dimensioni. Sembrava che da un momento all'altro, aprendo e chiudendo quei lumi, avrebbe detto: Mamma. Ma lei diceva solo: Chaiim. Così: «Cha-iim?» teneramente, e la sua voce melodiosa saliva in crescendo fino alla fine di quel breve nome, come se dovesse ogni volta accertarsi che esisteva, viveva davvero, ed era suo. Quand'ero a casa loro, entrava continuamente in camera, ogni volta con una nuova scusa: per chiudere la finestra e non fare entrare il vento, per accendere la luce perché lui non doveva sforzare gli occhi, o ancora per somministrargli qualche vitamina speciale. Lì, in quella casa, quando c'era lei parlavo pochissimo, e ogni volta che sentivo il ronzio in mezzo agli occhi chinavo il capo con riverente modestia e mi mordevo alla disperata l'interno delle guance. Lì mi premuravo di parlare sempre in modo ricercato e non menzionavo mai la mia notevole esperienza di polizia e delinquenti, perché avevo la sensazione che la cosa le avrebbe dato fastidio. Se possibile, restavo a casa sua tutto il giorno, fino a sera. Ma Chaiim voleva sempre che uscissimo. Diceva che a casa si sentiva soffocare, che sua madre lo faceva diventare matto. Non capisco cosa lo facesse impazzire. Lei si preoccupava per lui, com'è giusto, se ne prendeva cura. A me non importava che entrasse tutti i momenti in camera con quella sua faccia da bambola, quel lento sbattere di ciglia sugli occhi azzurri, e dicesse teneramente «Cha-iim?» e a volte «Chaii-mke?», anzi me lo auguravo, speravo che con quel tono di voce sommesso e profondo ci chiedesse se andava tutto bene, se non avevamo voglia di una spremuta o di un biscotto. Ero così sensibile alle sue ansie e alla sua dedizione che prevedevo con estrema precisione quando sarebbe riapparsa. I momenti migliori erano quando Chaiim era malato. Allora potevo andarlo a trovare a casa e vederlo disteso a letto, pallido, diafano, la testa con la chioma nera e la fronte alta appoggiata sul grande cuscino. Allora era così bello e debole, e al sicuro dai pericoli esterni. In quei giorni a scuola ero straordinariamente diligente, scrivevo ogni parola e copiavo i compiti dalla lavagna per riferire tutto a Chaiim, possibilmente quando sua madre era in camera con noi. Arrivava a intervalli di qualche minuto, gli sistemava le lenzuola o sprimacciava il cuscino con gesti leggeri e vaporosi, e Chaiim era così debole che non poteva fare opposizione. Aveva un gesto particolare quando gli rimboccava i bordi della coperta, avvolgendolo per bene, come si fa con un bambino piccolo, fin sotto il mento. A volte gli misurava la febbre, non con il termometro, ma con le labbra: gliele appoggiava sulla fronte chiudendo gli occhi, come lui, e per un lungo momento restavano così, finché lei lentamente li riapriva e diceva: «Hai ancora un po' di febbre, adesso dovresti dormire. Amnon tornerà domani.» Mi scrutava continuamente. Chaiim mi aveva confessato che lei faceva una selezione molto rigida dei suoi amici. Se qualcuno non le sembrava adatto, veniva immediatamente e definitivamente allontanato. Era sempre andata così, dovunque la sua famiglia avesse abitato, in Israele o all'estero. D'altra parte, quando dava la sua approvazione a qualcuno, era probabile che prima o poi sarebbe stato invitato a cena con la famiglia un venerdì sera, il che doveva essere una cosa davvero speciale. Questa cerimonia mi incuriosì fin dalla prima volta che ne sentii parlare. Chaiim raccontò che si mangiava in piatti di porcellana acquistati in Svizzera, e che c'erano sempre degli ospiti

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interessanti, soprattutto quelli che invitava papà. Ogni membro della famiglia preparava un brano significativo e lo leggeva al cospetto di tutti mentre Chaiim suonava per gli ospiti. Quell'espressione "brano significativo" mi aveva fatto ridere, e ogni domenica mattina (di sabato Chaiim non poteva uscire a giocare con noi, perché da loro questo giorno era dedicato alla famiglia) correvo a fargli domande su com'era andata la cena di venerdì sera, chi erano gli invitati, di quali argomenti avevano parlato e che "brani significativi" erano stati letti. A volte il venerdì sera uscivo di casa - Gabi e papà erano comunque impegnati in tutte le questioni di lavoro che non erano riusciti a sbrigare nel corso della settimana - e con gli schettini passavo vicino a casa di Chaiim, compiendo lunghi giri intorno all'edificio; oppure mi arrampicavo fino alla casa sull'albero e cercavo di sbirciare attraverso le tende per vedere qualcosa o sentire qualche "brano significativo." Gli altri giorni, fra le quattro e le cinque e mezzo, ascoltavo Chaiim suonare. Era strano il fatto che non dovessero costringerlo. Lo voleva, diceva che senza la musica la sua vita era vuota. Non riuscivo a capire come un bambino così colto, che aveva girato tutto il mondo, potesse affermare che la sua vita era vuota se non pigiava i tasti di un pianoforte per un'ora e mezzo al giorno. Gli chiesi di spiegarmi, in parole povere, come poteva un pianoforte riempirgli la vita. Volevo che parlasse. Volevo capire. Forse anch'io avrei potuto riempirmi la vita con un pianoforte. Ma Chaiim non riusciva a spiegarsi. Diceva che non esistevano le parole per descrivere questa cosa e io m'irritavo, gli dicevo almeno di tentare, in fondo sapeva parlare, no? Allora che facesse uno sforzo e mi spiegasse con franchezza come potevano i suoni riempire la vita di una persona. Insomma, non sono mica fatti di cemento! Polvere! Acqua! Chaiim scuoteva la testa, rifletteva, corrugava la fronte spaziosa e diceva che non ci riusciva, era qualcosa che accadeva dentro, nel profondo, impossibile spiegarlo a qualcuno di fuori. Così smisi di chiedere. Visto che ero qualcuno di fuori, non m'interessava. A ogni modo, avevo imparato da papà a sospettare di questo genere di cose. Lui diceva: «Io credo solo nelle cose che posso vedere e toccare! Hai mai visto l'amore, tu? Hai mai visto un sentimento? Hai mai tenuto in mano un ideale? Se non hai visto né toccato, guardati dal credere! Io sono solo il figlio di un modesto commerciante di biscotti, ma una cosa so con certezza: la merce, bisogna toccarla!.» Ciononostante, sentivo nel profondo del cuore che Chaiim non mi stava mentendo, né che cercava di illudermi. Era questo ad attrarmi di lui, e al tempo stesso ad angustiarmi. Io che tentavo sempre di convincere gli altri bambini, di far sì che mi credessero. Anche quando raccontavo bugie (soprattutto in questo caso). Mentre Chaiim, tutto l'opposto. Gli bastava convincere se stesso, non aveva bisogno che gli altri la pensassero come lui. Gli altri di fuori, intendo. Avevo preso l'abitudine di salire ogni giorno nella mia casa sull'albero, fra le quattro e le cinque e mezzo. Lì disteso ascoltavo Chaiim suonare, pensavo e, se non mi addormentavo, provavo a immaginare cosa fosse una vita vuota. Chissà se era come una grande sala deserta che si attraversa da un estremo all'altro senza incontrare ostacoli. O come uno stanzone senza neanche un mobile, dove si sente l'eco di ogni parola. Pensavo anche: per fortuna la mia vita è pienissima, senza un attimo di noia, ho

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sempre qualche cosa da fare, tutto questo andirivieni di poliziotti e l'attività di detective e le esercitazioni, potevo onestamente dire che non perdevo tempo in pensieri superflui. Se poi, per ipotesi, di tanto in tanto avevo avuto qualche giornata vuota, ora, per merito di Chaiim e della nostra amicizia, erano diventate tutte piene. A volte mi domandavo come mai un tale genio corresse proprio dietro a me. Se paragonavo il mio carattere al suo (dal punto di vista della fedeltà), mi rendevo conto che c'era ancora una bella differenza e mi trovavo ad avere ancora molto da imparare da lui. Presagivo, non senza turbamento, che forse non sarei mai diventato come lui, sarei rimasto solo un asso del pallone o dell'arrampicata sui pali della luce, o un maestro di fantasie, esagerazioni e trovate. A volte Mikah saliva nella mia casa sull'albero per chiedermi cosa avevo in quegli ultimi tempi, perché ero sparito e me ne stavo da solo. Lo zittivo con un gesto, indicando il punto da cui provenivano i suoni prodotti da Chaiim Stauber. Mikah scuoteva pesantemente il capo e diceva che la musica lo annoiava. In un paio di occasioni arrivai a prendermela con lui, dicendo che non aveva il minimo rispetto per le cose significative, ma poi lasciai perdere, lo compativo. Appena finito di suonare, Chaiim Stauber correva, o meglio, si precipitava a giocare con me. Tutta la sua spiritualità e il suo equilibrio svanivano. Sua madre era ben lontana dall'immaginarsi quel che succedeva quando lui usciva di casa. Grazie ai miei accorgimenti e alla faccia che facevo quando mi trovavo da loro, lei era convinta che io fossi un bambino come lui, docile e responsabile. Da quel che mi aveva raccontato Chaiim intuivo che nel volger di poco lei avrebbe cominciato a fare amicizia con la gente del quartiere, nonché a fare domande su di me; e quando avesse capito di che pasta ero fatto, si sarebbe resa conto che l'avevo ingannata, che a casa sua avevo finto di essere un bambino ingenuo e delicato, un bambino ordinato e responsabile, mentre in realtà ero tutto l'opposto. Un momento, proprio l'opposto no. Dentro di me osai persino ribellarmi al suo verdetto. Peccato che allora non sapessi come spiegare questa cosa, come spiegarle la verità, vale a dire che ero un po' così e un po' cosà. Che cambiavo personalità da un momento all'altro. A casa loro mi sentivo davvero buono. Quasi puro. Per lei (a sua insaputa) avevo sacrificato l'unghia del mignolo, una settimana prima della misurazione finale. Un turbine di altruismo e responsabilità mi travolgeva quando lei compariva in camera di Chaiim e chiedeva, con la sua voce flautata, se avevamo voglia di una spremuta o di un biscotto. Comunque sapevo che prima o poi mi avrebbe scoperto. Era anzi un miracolo che non l'avesse già fatto. A scoprirlo fu invece lo stesso Chaiim. No, non il fatto che ero troppo discolo e scalmanato, per non dire, a volte, di peggio. Questo a lui piaceva, eccome. Forse era lì il problema: che di me lui amava solo questo. Così, quando ebbi finito di mostrargli tutto quello che sapevo fare, dopo averlo messo a parte di tutti i miei nascondigli e avergli insegnato come si striscia nella fogna, come si spaventano gli automobilisti con un salto mortale dal marciapiede, come si rubano i dolci dal negozio di Sarah, come si appiccicano un cane e un gatto con la colla istantanea, come si tirano fuori i soldi dalla cassetta delle elemosine della sinagoga e come si porta al suicidio uno scorpione giallo, oltre ad altre cento prodezze di mia conoscenza, fu un po' stufo di me. Bisogna

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dirla tutta la verità, anche se fa male, ancora oggi: alla fine si era stufato di me. Era arrivato troppo in fretta al fondo delle mie risorse. Me ne accorsi molto prima di lui. Ho sempre avuto un fine intuito, e comunque ero preparato al suo abbandono. Soffrii molto quando notai che i suoi occhi cominciavano a svuotarsi mentre io gli raccontavo qualcosa. Mi sentii insulso, odioso. Il mio cervello cominciò a fare gli straordinari. Proposi, per esempio, di andare a pescare le gambusie nella vasca del Palazzo Canada all'università. Chaiim Stauber chiese se era permesso, e io gli dissi che era proibito; allora lui, con un pizzico di delusione, chiese: «Solo proibito?.» Risposi prontamente che era addirittura illegale, un furto in piena regola, e lui si entusiasmò: «Dài, andiamo!.» Fu così che andammo a pescare gambusie con dei sacchetti di plastica per poi versarle nella grande fontana dell'università, dove i turisti gettavano le monete. Ripetemmo l'operazione per cinque o sei volte e nel giro di un mese la fontana brulicava di gambusie. A quel punto furono costretti a cambiare l'acqua. Bene, finita questa dovetti escogitare una nuova sfida per riaccendere il suo sguardo. Era questo, infatti, che lui voleva da me. Poter fare, e fare cose sempre più ardite. Così tutto si complicò, perché io volevo soltanto stare con lui, sentirlo raccontare della guerra civile in America, della vita degli indiani, della civiltà degli Inca e della biografia di Mozart, degli zingari e di tutte le cose che sapeva raccontare con la sua voce tranquilla, delicatamente, senza farsi bello. Volevo guardare i suoi capelli forti e neri, vedere le radici di questa folta chioma all'attaccatura della fronte. Ecco cosa volevo. Niente di più. Penso che sia stato l'unico bambino a cui non ho mai proposto di vendere o affittare qualcosa, per un ora o per un giro. Se qualche volta mostrava interesse per qualcosa di mio, gliela regalavo subito. Del resto, anche la sua amicizia era un regalo per me. Mi vergogno a raccontare cosa non escogitai per tenermelo vicino. Se mio padre avesse saputo, mi avrebbe condotto davanti al giudice minorile: una sera, per esempio, Chaiim e io versammo di nascosto dello zucchero nel serbatoio dell'auto del direttore didattico, Aviezer Carmi, guastandogli irreparabilmente il motore. Per anni quell'auto è poi rimasta lì vicino a casa sua, come un monumento. (Se per caso Avizer Carmi ha occasione di leggere questa storia, sappia che gli chiedo perdono e che sono ovviamente disposto a risarcirlo del danno subìto.) Deve capire, direttore, non avevo alternative. Il terrore che Chaiim Stauber mi abbandonasse era insostenibile. Perché la sua amicizia mi aveva tratto in salvo da qualcosa, non sapevo esattamente cosa, forse un destino simile a quello di Mikah Dubovsky, cioè non essere che un bambino normale. Quando ero con Chaiim, sentivo di avere una possibilità di imparare qualcosa di altro. E quando Chaiim cominciò a stancarsi di me, mi sentii di nuovo trascinato nel fondo, verso le fauci spalancate di Mikah. Comunque non riuscii a trattenerlo. Chaiim trovò dei nuovi amici, bambini che evidentemente lo interessavano di più. Forse sapevano disquisire di Mozart e degli Inca, forse capivano senza bisogno di parole il significato di una vita piena. A me restò Mikah. Lo angustiavo. Lo tormentavo. Lui non capiva cosa stesse succedendo, o forse capiva e si divertiva a farsi tormentare da me, perché così mettevo ancora più a nudo la mia bruttezza. Un giorno, durante la

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lezione, Chaiim Stauber raccontò qualcosa a proposito della corrida. Se non ricordo male, disse che nel corso di una corrida si uccidono sei tori. Tornai a casa e feci quel che un onesto cittadino avrebbe fatto se fosse venuto a sapere una cosa del genere: telefonai immediatamente alla polizia. Chiesi a Gabi di interrompere qualunque lavoro stesse facendo e di raccontarmi tutto quello che sapeva in materia di corride. Gabi prese un taxi, passò dalla biblioteca civica e arrivò da me con una pagina di appunti che aveva trascritto dall'enciclopedia. Corremmo in cucina dove espose il risultato delle sue ricerche senza fare domande. Si limitò a gettarmi un occhiata, leggendomi in volto tutta la storia, e mormorò: «La conoscenza è forza, non è vero?» Poi tornò a leggere. Ero seduto a occhi chiusi e ogni parola che lei pronunciava mi si incideva nel cervello, nel punto leso dalla gelosia. L'indomani mattina ebbi l'opportunità di dire a Chaiim che la piccola lancia con cui infilzano il toro all'inizio della corrida si chiama banderilla e che, essendo a forma di arpione, penetra facilmente ed è molto difficile da estrarre. Chaiim ascoltò col volto serio e ammise che questo non lo sapeva, ma poi mi domandò che differenza c'è fra matador e torero. Quella sera Gabi aveva lavorato sodo per risolvere il mio problema. Aveva telefonato ad alcuni suoi amici e poi a una signora con cui aveva studiato all'università: la conclusione fu che il torero è quello che partecipa alla corrida, mentre solo il matador uccide il toro. Sfoderai tutta la mia cultura a Stauber durante l'intervallo, osservando inoltre che in Portogallo, per esempio, non si ammazzavano le bestie durante la corrida e che il matador spagnolo aveva diritto a un orecchio del toro, qualche volta a tutt'e due e, se era bravo come Paco Camino (il celebre aggiunsi), poteva avere anche la coda. A Chaiim luccicavano gli occhi. Disse che suo padre aveva promesso di procurargli delle cartoline a colori di una corrida vera, e allora avrebbe potuto farmele vedere. Io aggiunsi con disinvoltura che il massimo sarebbe stato avere delle cartoline con i banderilleros, che era cosa spettacolare (giuro che dissi proprio così) vedere i nastri di carta colorata sulle loro lance, le banderillas. E me ne andai. Chaiim mi venne dietro. Così, di soppiatto, con circospezione, cominciò a tornare da me. Ogni giorno ci scambiavamo informazioni sulla corrida, sui costumi e sui tipi di coltelli e di lance. Finiva di suonare alle cinque e mezzo, e correva alla mia casa sull'albero. Restavamo insieme solo pochi minuti e parlavamo sempre dello stesso argomento. Era la cosa migliore. l'amicizia appena rinnovata era così fragile che non si poteva sovraccaricarla. E Chaiim, forse, si era accorto che ormai ero un'unica, grande ferita. Fra noi c'era un tacito accordo, un patto fraterno. Stavamo attenti a non parlare di altre cose, di cui lui sapeva così tanto e io nulla. Era davvero un bambino unico. Sulla base del materiale che Gabi riusciva a procurarci, parlavamo per qualche minuto dei più famosi matador, di casi in cui il matador era rimasto ucciso dal toro e delle diverse tecniche nell'uso della spada. Con un fremito di piacere pronunciavamo nomi quali Rafaelo di Paul, Ricardo Torres, Luis Mazzaniti, ripercorrendo le loro più famose battaglie, quelle in cui avevano vinto l'orecchio o la coda, e perso gloriosamente la vita... Brevi momenti di conversazione appesi a un filo di ragnatela, luccicanti come l'oro in controluce; poi Chaiim se ne andava, ma mai bruscamente, e

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io mi sdraiavo rimanendo così per un ora, felice, persino indulgente davanti al faccione di Mikah che appariva pigramente dai rami. «Come te la passi, Nono?» Una settimana. Due. Un filo così sottile. Se si fosse spezzato, sarei sprofondato per sempre. Non avrei più retto una ferita del genere. Gabi lavorava come un mulo. Telefonava quotidianamente all'addetto culturale dell'ambasciata di Spagna e gli spremeva ulteriori informazioni. Andò a casa dei suoi a Nes Zionah per prendere un libro di poesie di un poeta spagnolo di nome Lorca, che aveva parlato delle corride. Io, per parte mia, cominciai a fare indagini su Pesia, la mucca che il nostro vicino Mautner aveva portato con sé dal kibbutz. Non le aveva tagliato le corna da giovane e adesso erano davvero grandi e maestose, ma non le usava mai. Era di indole quieta e bonaria, le piaceva starsene nel prato di Mautner, vicino alla casetta, a ruminare, muovendo obliquamente la bocca e meditando con tanta intensità che i suoi occhi assumevano un aria quasi umana. Un giorno le scorrazzai davanti con un fazzoletto rosso che avevo trafugato dal bucato. Lei mi osservò con l'aria stupita, ma la coda cominciò a oscillare come un pendolo e io pensai che magari, chissà, aveva un antenato originario della Spagna e gliene scorreva ancora qualcosa nelle vene. Quella sera Gabi mi lesse solennemente Alle cinque della sera, la poesia che il poeta Lorca aveva scritto in memoria di un matador rimasto ucciso. C'erano versi come Cominciarono i suoni di bordone / alle cinque della sera. / Le ferite bruciavan come soli / alle cinque della sera. / Ah! che terribili cinque della sera!. Gabi finì di leggere la poesia. Era scura in viso. La sua mano fremeva, la testa rovesciata all'indietro, come mozzata da una spada. Io tremavo sotto la coperta. Le parole di quel Lorca erano dilagate nel mio corpo come un vino molto forte. Mi tirai il lenzuolo fin sopra la testa ed ebbi l'impressione che il letto stesse bruciando. Dopo, quando fu tutto finito, Gabi disse che, se avesse saputo cosa quella poesia aveva scatenato in me, mi avrebbe letto Cappuccetto Rosso. Ma quella sera lasciò quei versi a riecheggiare e muggire per tutta la notte in camera mia, e riempire i miei occhi sognanti con guizzi di luce rossi come il sangue... l'indomani, vicino ai rubinetti, dissi a Chaiim e a Mikah che avevo deciso. Avevo trovato lo scopo della mia vita. Sarei stato il primo matador israeliano. Silenzio. Sopra la testa il cielo di Spagna si tingeva di rosso. «Mautner?» sussurrò Chaiim con timore reverenziale. «Hai intenzione di entrare nel giardino di Mautner?» «Io sì, certo. Cosa c'è? Combatterò con Pesia per la vita o per la morte.» Soprattutto per la morte, lo sapevo. Perché Mautner era un tipo molto severo. «Ma è una mucca» osservò Mikah. Mi sentii travolgere da un'onda di paura, paura di me stesso. Il motorino ronzava come un insetto crudele. «Ma ha le corna» disse Chaiim pacatamente. Cominciava a realizzare che gli stavo proponendo la scorribanda più folle e terribile di tutte, il segno supremo della mia amicizia. «Venite anche voi?» chiesi. «Ho bisogno di due pìcadores con le spade.» Calò il silenzio. Ma in quel silenzio si agitava un vortice di immagini terrificanti, aleggiava un triste presagio, si levavano grida di monito e implorazioni. Poi gli occhi di Chaiim s'illuminarono come due lampioni e scoppiammo in un riso soffocato, spaventato. Mikah rimase in disparte guardandoci con ostilità. E forse anche con cattiveria, perché intuiva

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quel che sarebbe successo. Non volli guardarlo, non avevo voglia del suo broncio meschino. Che ne sapeva lui di coraggio, pazzia, amicizia, miti? Di vita piena? Io e Chaiim ci stringemmo le mani e cominciammo a saltare come impazziti, strillando, ma sottovoce, perché sua madre non comparisse all'improvviso e mi leggesse in volto i miei sette peccati.

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CAPITOLO 14. CERCASI DULCINEA. «Ah, questo sì che era un pasto!» disse Felix, posando la forchetta e sfoderando un sorriso amichevole e soddisfatto. Il ristorante era immerso in una gradevole penombra rossastra. Dei candelieri rosa illuminavano i tavoli. Mi sentivo la pancia piena e gonfia, sul tavolo restavano gli avanzi del pasto più sontuoso che avessi mai consumato. Felix aveva preso come primo del fegato di oca, poi una minestra di asparagi in crosta e, come secondo, anatra all'arancia. Io, trattenendomi a fatica dalle succulente bistecche che mi passavano davanti, avevo scelto riso e patate fritte, ma che riso e che patate! Feci due volte il bis, poi presi ancora una minestra di funghi porcini, dei peperoni ripieni di mandorle e pinoli, e tre porzioni di mousse al cioccolato. Quando Felix mi chiese cosa ne pensavo del cibo, dissi sinceramente che il cuoco della polizia aveva ancora molto da imparare. «Ma ciò che conta è che oggi e domani si facciano grandi cose!» tuonò Felix improvvisamente con la voce di nonno Noè. «Cosa di preciso?» chiesi ansiosamente, ripetendo subito la domanda con la voce di Tami, perché nessuno cominciasse a sospettare. «Renderemo il nostro mondo un po' più bello, forse» e rise, «faremo in modo che la gente sappia quel che abbiamo fatto e dica: Ollallà! Questa è arte! Che coraggio quei due! Che stile!» «Ma cosa, cosa faremo?» domandai di nuovo, sottovoce. «Non lo so. Tutto quello che deciderai tu. Si può tutto. Non ci sono limiti! Non ci sono leggi! Ci vuole solo courage! Coraggio! Bisogna osare.» Ah. Bisogna osare. Facile a dirsi. Cosa chiedere? Entrare di soppiatto al cinema? Intrufolarsi di notte nella sala professori della mia scuola? Trafugare lo scheletro dal laboratorio? Capii subito che queste erano ben misere ambizioni per uno come lui. Dovevo sforzarmi di più, liberarmi, mostrarmi degno, rischiare sul serio, essere un po' pazzo, delinquente. Bisogna osare... E allora perché non arrampicarsi sui tetti delle ambasciate e scambiare le bandiere, come aveva fatto papà una volta, prima di diventare poliziotto? O rubare un animale dallo zoo e cavalcarlo? Voglio fare qualcosa di nuovo. Qualcosa di mio. Il corpulento cameriere che ci aveva servito si avvicinò nuovamente al nostro tavolo, fece una decorosa riverenza e tirò fuori la bottiglia di champagne dal secchiello con il ghiaccio. Servì lo spumante rosato nella coppa di Felix. Io non avevo ancora finito il mio primo bicchiere. Le bollicine trasparenti danzavano. All'inizio della cena c'era stato un momento che non avrei mai dimenticato, quando il cameriere aveva stappato la bottiglia sotto i nostri occhi. Straordinario: si era udita una vera esplosione, il tappo era volato via e una cascata di bollicine era sgorgata dalla bottiglia... Quando sono a casa, pensai, a quest'ora la mia vita scorre in modo del tutto diverso. Se Gabi non c'era, a quell'ora papà e io stavamo tranquilli e beati in camera nostra. Io giocavo a calcetto da solo, sfogliavo cataloghi di armi ed equipaggiamento per la polizia, facevo gli esercizi di ginnastica che lui mi aveva assegnato, oppure me ne stavo disteso sul letto, succhiando una caramella e senza pensare a nulla. Sognavo e non sognavo, finché gli occhi si chiudevano e il dito seguiva un graffio sul muro. Lo sentivo

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sotto la punta del mignolo, era un incisione a forma di fulmine che io stesso avevo fatto e che tornavo a scavare ogni volta che dovevo impedirmi di piangere. In camera sua papà leggeva un giornale (ultimamente doveva ricorrere agli occhiali, ma guai se qualcuno lo vedeva inforcarli), o ripassava il dossier di un'indagine, quando non si attaccava al telefono per sentire se tutte le pattuglie erano fuori in servizio. Poi, uno dei due - di norma io, perché avevo sempre fame - cominciava a preparare la cena. Se c'eravamo solo noi due a casa, non ci affannavamo a cucinare. Aprivamo una minestra di funghi in scatola, un barattolo di mais e uno di pasta di ceci o di carne per papà. Lavoravamo insieme. Con una divisione dei compiti prestabilita, senza bisogno di parlare. La radio trasmetteva canzoni in ebraico, che piacevano a entrambi, e un bel silenzio calava fra noi. A volte gli raccontavo cos'era successo a scuola, ma lui non ascoltava. Potevo riferirgli anche episodi in realtà mai accaduti, inventare dei compagni inesistenti, mentire, lui mi guardava come da lontano e sospirava. Chissà come sarebbe stato trovarsi in casa a quest'ora, dopo aver scoperto che la vita fremeva in posti veri, come questo ristorante. «Vedo che fai un po' fatica a decidere, eh, Tami?» Gli risposi con un sorriso trasognato: «Sì, ci sono così tante cose che....» «Va bene. Pensaci con calma. Non c'è nessuna fretta.» Tornai alla realtà. Mi accarezzai lentamente la treccia. Cosa si poteva chiedere? Fin dove riuscivo a osare? Come mai non mi ero preparato a una situazione del genere, in cui una fata con le sembianze di Felix mi offriva di esaudire tre desideri? Quando arrivavo al fondo della treccia la parrucca mi scendeva un po' sulla fronte, procurandomi un piacevole solletico. Cosa avrei potuto chiedergli? Cos'altro avevo voglia di fare, in quel momento? Restare in questo sogno, sprofondarci come dentro una coperta di piuma. Provare una sottile nostalgia di casa. Se invece si trattava di un giorno in cui Gabi rimaneva da noi, un giorno in cui non aveva il corso di cinema o quello di francese per principianti, o il programma Sazia e snella come..., in breve, se era domenica o mercoledì, eccoci tutti in cucina, ai fornelli, e poi, seduti comodamente a tavola, a discutere su tutto. A volte io restavo zitto e li lasciavo parlare. Si comportavano proprio come una vera coppia. Spesso papà cominciava le sue frasi con «guarda, eh, Gabi», quasi facesse fatica a ricordare il suo nome o come se lei si chiamasse Eh Gabi. Lei replicava chiamandolo tesoruccio, «mio pupillo» e «fiore della mia giovinezza.» Succedeva di rado che papà ci mettesse al corrente di un problema di lavoro che lo angustiava. In una di quelle circostanze Gabi lo aveva aiutato, risolvendo con lui il mistero di una serie di furti in un laboratorio di diamanti a Netanya. (Era venuto fuori che il proprietario del laboratorio si serviva di papà, o meglio, delle tasche della sua giacca, per nascondere i diamanti durante la perquisizione quotidiana a cui venivano sottoposti tutti i dipendenti. Poi quel delinquente glieli trafugava abilmente e li rivendeva, guadagnando anche il risarcimento dall'assicurazione.) Dopo mangiato passavamo in salotto e davamo uno sguardo ai giornali, papà fumava la sigaretta quotidiana che Gabi gli accordava e lei preparava il suo speciale caffè alla turca che arrivava a ebollizione sette volte, né più né meno. Urlando dalla cucina dava il suo illuminato parere su quanto avveniva nel mondo, poi mi metteva con

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le spalle al muro e pretendeva di sapere cosa c'era di nuovo a scuola, se si era formata qualche nuova coppia, chi si era fidanzato e se alle nostre feste si ballava già quel nuovo ballo (come se io lo sapessi). Era il genere di cose che la mandava in fibrillazione, ai suoi tempi a scuola non le interessava altro. Verso le dieci, quando papà e io eravamo già morti di sonno, Gabi decideva di fare un po' di rivoluzione nei nostri armadi dei vestiti, tirava fuori la roba invernale o quella estiva, preparava dei mucchi da stirare, piegare, rammendare, e la casa si riempiva di cenci svolazzanti, mentre Gabi, con i pantaloni rivoltati sui polpacci, tutta rossa in viso, si metteva a cantare canzoni dei Beatles, faceva il bucato, stirava in soggiorno, lavava il pavimento in corridoio e, fra una cosa e l'altra, correva in cucina a preparare la squisitezza da lei classificata con il numero sette della scala internazionale GIPI (Gioia per gli Intestini, Piacere per le Interiora): budino al cioccolato, una cosa che solo Gabi sapeva preparare nel modo giusto, senza quei piccoli e rivoltanti grumi. Nel frattempo spediva papà a lavare i piatti, stendere il bucato, buttare via i giornali vecchi che riempivano la casa, e me a mettere finalmente a posto il casino nella mia stanza. Papà e io, come due umili servi, ci lamentavamo, borbottavamo e, incontrandoci per un attimo fra il corridoio e la cucina, se lei non vedeva le facevamo anche le smorfie; ma non avevamo alternative, condannati com'eravamo ai lavori forzati, budino-dipendenti, perché solo lei sapeva farlo senza grumi. A mezzanotte crollavamo tutti e tre, con la casa di nuovo all'onor del mondo: si sentivano solo gli ultimi raschiamenti di tre cucchiaini che invano scavavano nel vetro delle scodelle per estrarne un ultima reliquia di budino. Io non riuscivo a tenere gli occhi aperti e papà si lasciava andare a tal punto che le metteva una mano sulla spalla e la baciava sulla fronte, come se io non ci fossi, ma cosa m'importava, la baciasse pure, e mi rannicchiavo sulla sedia per farmi mettere a letto dalle sue mani forti, e tuttavia così delicate con me, ecco, stavo dormendo, chissà chi mi bacerà, chissà chi mi darà quel timido bacio amichevole da compagni di squadra. Come di lontano, udii Felix sussurrare: «Ora bisogna osare! Ci vogliono grandi idee, Tami! Idee con molti colori! Come al cinema, come a teatro!.» Quando disse teatro sentii scoppiare un petardo dentro la testa: che asino sono! Cioè: asina. Tuttavia, non osai dire cosa m'era venuto in mente in quel momento. Avrebbe pensato che era un idea stupida, che ero uno smidollato, uno a cui si offriva l'opportunità di essere audace e delinquente, e chiedeva un regalo per una ragazza. «Per una ragazza, magari?» domandò Felix con un sorriso, lasciandomi sconvolto per la facilità con cui mi si leggevano in faccia i pensieri: ho una pelle così sottile? Come mai non ha ancora scoperto che conosco la sua vera identità? «Sì...» sorrise Felix, appoggiandosi allo schienale e guardandomi soddisfatto, «te lo si legge in faccia che è qualcosa per una ragazza. Bello! Anche lui, come si chiama, Don Chisciotte, ha combattuto tutte le sue battaglie per la signora Dulcinea! Persino io, che da bambino non mi ammazzavo certo sui libri, avevo sentito parlare di quella donna non tanto bella, che abitava nel paese di Toboso e per la quale Don Chisciotte aveva compiuto le sue gesta. «Allora, cosa ne dici» mi provocò, strizzando furbescamente un occhio, «abbiamo deciso a

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chi vuoi dedicare il nostro coraggio unanime? Chi è la tua bella? Felix sa mantenere il segreto!» «Gabi» risposi, preso completamente alla sprovvista. «Gabi?» scoppiò a ridere, e la risata gli balenò negli occhi in un'esplosione di scintille. «Pensavo che avresti fatto il nome di un bel bocconcino della tua classe. Non della tua matrigna!» «Gabi non è né mia madre né la mia matrigna. E' Gabi!» «Bene, bene. Chiedo scusa! Benissimo. Gabi. Bello. Le sei leale.» «Sì» dissi con l'aria di giustificarmi. «All'inizio avevo pensato a Zohara" mentii, «ma Zohara è morta» come per scusarmi, «mentre Gabi... non c'è nessuno al mondo disposto a farle da cavaliere, e così...» «Capisco tutto.» Felix mi fece segno con il dito. «Hai detto Gabi, e Gabi sia!» Mi sentii stupido e infantile. Avrei dovuto fargli il nome di qualcuna della mia classe. Smedar Kantor o Batsheva Rubin, le reginette in lizza. Ma non amavo nessuna di loro e non avevo voglia di fare nulla in loro nome. Ma Zohara... come avevo fatto a non pensare a lei per prima? «Mi hai fatto proprio una sorpresa» disse Felix, «sei un bambino così a modo, così gentleman con Gabi. Un vero cavaliere. Le donne ti ameranno molto, ascolta il tuo Felix...» Poi aggiunse: Mi fai sentire nuovo. Una persona nuova.» Io? A lui? «Dunque doniamo il courage, la nostra audacia, alla signora Gabi» e mi porse la mano allungandosi sopra il tavolo. «C'è forse qualcosa di particolare che vorresti portare a Gabi? Un brillantino o un piccolo yacht' per una crociera a Cipro?» «No... le prende il mal di mare già sulla spiaggia...» mormorai, pensando nel contempo che un brillante era un po' eccessivo. Abbassai lo sguardo sul tavolo e mi strinsi nelle spalle, non avendo la minima idea di cosa Gabi avrebbe gradito. Non sapevo come dirlo senza sentirmi un perfetto idiota. «Ma ci sarà di sicuro qualcosa che lei desidera...» mi incitò Felix. Ormai conoscevo quel suo tono di voce sommessa. «Sogna, non aver ritegno, chiedi tutto, tutto il possibile e l'impossibile. Bisogna osare.» Scoppiai a ridere. «E' stupido, ma lei... no. Scempiaggini.» Felix si chinò su di me con gli occhi ardenti di curiosità. «Le scempiaggini sono il mio forte» disse con un tono tenero e malizioso, «sono un esperto mondiale di scempiaggini!» Sussurrai, senza molta convinzione: A dir la verità, c'è un'attrice che a Gabi piace. Anzi, l'adora.» «Un'attrice?» «Sì... di teatro. Lola Ciperola.» Un lampo? Un guizzo di paura? Che cosa passò di volata nei suoi occhi? Aveva davvero ritratto le orecchie, come fanno le belve? «Lola Ciperola! Ah... sì... la conosco di nome... devo averla persino incontrata una volta...» Gli occhi si strinsero in due fessure celesti, ormai sapevo che in quei momenti sprofondava in se stesso, dove era in corso una vivace conversazione. Un acceso dibattito interno. Ma in un attimo si rialzò in volo e tornò da me: «Sì... Lola... una dei miei tempi! Quando ero giovane, lei era una specie di regina a Tel Aviv...» Mosse le braccia sopra il tavolo simulando una danza sinuosa e cantando sottovoce: «Luccicano i tuoi occhi / brillanti, Un addio sul binario... Sì, cantava, Lola, e recitava, ballava... sapeva fare tutto!» Poi abbassò nuovamente la voce e lasciò liberi i pensieri, non trattenendo lo stupore: «Ma non sapevo che Lola fosse ancora popolare presso i giovani come la signora Gabi....» Era venuto il mio

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grande momento: allungai le gambe e cominciai a raccontargli come Gabi sapeva imitare Lola Ciperola. Come mi faceva ridere e piangere quando recitava dei brani da lei interpretati. Per merito di Gabi, sapevo a memoria delle intere scene. «E la signora Gabi l'ha sempre adorata?» «Penso di sì... e sa cantare Luccicano i tuoi occhi proprio come lei, come Lola Ciperola. Con tutti i suoi gesti. Non si riesce a distinguerle. E dice, Gabi, che se avesse lo... Lo... scialle... be, niente.» La scempiaggine di cui dicevo poco fa. «Ma come niente!» Felix alzò un poco la voce, allargando il suo sorriso. «Ma come niente! Dài, racconta! Cos'è questa storia dello scialle? Lo scialle di Lola?» Diavolo, ma cosa me ne importa? «Ogni tanto Gabi dice... per scherzo, ovviamente... dice che se avesse lo scialle di Lola Ciperola potrebbe fare... ecco, l'attrice o la cantante. O tutto quel che vuole. Ecco.» «Lo scialle?» «Questa attrice» spiegai, «Lola Ciperola, ha sempre addosso uno scialle. Viola. Nelle foto sui giornali porta sempre questo scialle, ce l'ha sempre: a casa, a teatro, per strada. E' il suo simbolo.» «Sì, questo lo so. E stato sempre così... Lo scialle di Lola... L'hai mai vista una volta, tu?» Sorrisi. «Una volta? Undici volte!» «Oh! Dove?» «Soprattutto negli spettacoli.» Gabi mi aveva portato tre volte a vedere Giulietta e Romeo, due Delitto e castigo, una Nozze di sangue di Lorca e quattro Lady Macbeth. «E una volta l'ho incontrata davvero. Per strada, a Tel Aviv.» «Vi siete incontrati per caso?» Esitai. In fondo era un segreto fra me e Gabi, da non confessare nemmeno a papà. «Per caso. Siamo rimasti appostati vicino a casa sua, e dopo un po' lei è arrivata.» «Vi siete appostati per caso vicino a casa sua?» «Sì... ed è uscita...» C'eravamo appostati lì almeno una cinquantina di volte, ma eravamo riusciti a vederla solo in quella circostanza. «E le avete parlato?» «Quasi. Gabi le ha chiesto che ora era, ma lei non l'ha sentita. Andava di fretta.» Come aveva tremato la mano di Gabi sulle mie spalle, quando Lola Ciperola ci era passata davanti. L'avevamo aspettata un'ora e mezzo vicino alla siepe di casa sua, a Tel Aviv. Eravamo quasi congelati, le nuvole incombevano, quando era apparsa all'improvviso e il mondo si era tinto di oro. Era su un taxi e portava un gran cappello nero. Non si era mossa finché il taxista non era sceso ad aprirle la portiera. A quel punto aveva sporto una lunga e aristocratica gamba, rifiutando di aggrapparsi alla mano dell'uomo che si offriva di aiutarla. Con la sua voce roca e solenne gli aveva detto: «Paga il teatro.» Camminava eretta, con movenze da regina e l'etereo scialle viola che le svolazzava dietro le spalle. l'avevamo avuta vicino per almeno un minuto! In seguito a quel successo, tornammo molte volte ad aspettarla, ore di attesa, e di freddo, caldo, pioggia, ombrelli ribaltati, chilometri di discorsi su di lei, e colpi al cuore, e delusioni, ma senza mai rinunciare quando andavamo a Tel Aviv a divertirci. «E lei, Lola, ti ha detto qualcosa?» «No. Era di fretta.» Gabi mi aveva spinto verso di lei, mi aveva proprio palesemente spinto. Ma una donna del calibro di Lola Ciperola non badava certo a quel che accadeva nel mondo ai suoi piedi. Non ci aveva degnato

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di uno sguardo, camminava impettita e distaccata, ma noi avevamo capito e perdonato, perché eravamo mille miglia distanti da lei. Felix rifletté, coprendo la bocca con le sue bellissime mani. Ora che glielo avevo confessato, non potevo più continuare a tacere: «Gabi dice che il segreto del fascino di Lola Ciperola sta nello scialle, ma ovviamente lo dice solo per scherzo.» Il semplice fatto di pronunciare quel nome, Lola Ciperola, mi procurava piacere. Aveva un gusto come di cioccolato bianco, svizzero. «Ma qual è esattamente il fascino di Lola?» domandò Felix, pensieroso. Mi sorprendeva il fatto che osasse chiamarla per nome. «Il suo fascino è essere un'attrice così...» cercai la parola di Gabi, «così geniale.» Il cameriere dalla faccia paffuta servì il caffè. Continuava a riverire e a ossequiare Felix. Impressionato dalle buone maniere e dall'aria distinta, sperava di ottenere una lauta mancia. Guardando i prezzi sul menù, avevo già fatto il conto di quanto sarebbe costata a Felix questa cena, ed ero stato colto dalle vertigini: circa metà dello stipendio di papà. Non dev'essere mica un brutto mestiere, fare il cameriere. Perché non prendere in considerazione l'idea di Gabi e aprire un ristorante? Sorseggiai lentamente il caffè nero. Era amaro e cattivo, ma non feci trapelar nulla, perché Felix non si accorgesse che era il primo caffè della mia vita. Felix era immerso nei suoi pensieri e io ebbi il tempo di pensare a tutti gli amanti che Lola Ciperola aveva avuto, ai poeti e ai pittori che l'avevano adorata, a ciò che lei stessa aveva detto una volta sul giornale, e cioè che non si sarebbe mai sposata perché il matrimonio è schiavitù e non avrebbe permesso a nessun uomo di dominare la sua anima e il suo corpo. Non c'è uomo al mondo che ne sia degno, aveva dichiarato in un'altra intervista su un giornale femminile, e non c'è un uomo capace di amare una donna come una donna sa amare un uomo. Diceva cose del genere, Lola Ciperola, e senza il minimo imbarazzo. «Bacerei ogni cosa che dice» affermava Gabi leccandosi le labbra. «Se solo avessi un quarto del suo coraggio, sarei una donna felice.» I camerieri portarono una torta con delle candeline per una bella signora a un tavolo di angolo, e tutti insieme cantammo Happy Birthday. Stavo bene, mi sentivo a mio agio. Le candele brillavano e io avevo le guance in fiamme. Ora che avevo rivelato a Felix la mia idea, mi sentivo leggero e giulivo. Continuavo a scambiare i ruoli di Tami e Nono. Facile come bere un bicchier di acqua: bastava accarezzare la treccia per il lungo, fino alla fine, come tirando la corda di una campana o la fune di un pozzo, e Tami riaffiorava. Non avevo bisogno di cambiare quasi nulla nel volto o nei gesti, ma solo nella sensibilità, come passare nel cuore da una casella a un'altra, uno spostamento quasi impercettibile, tic tac, via! e ancora via!, Amnon e Tami, Hansel e Gretel... Improvvisamente Felix estrasse il monocolo dalla tasca, mi guardò con aria incuriosita e annuì, assumendo di nuovo un'espressione tenera e felice: non m'importava che s'accorgesse delle mie piccole metamorfosi, mi divertivo molto a comparire nel monocolo, perché vedendomi riflesso mi sentivo onnipotente, come immerso in una pozione magica. Potevo essere chiunque e qualunque cosa desiderassi, perfino una bambina, cosa volete, sono uno del mestiere, io. Un artista del mestiere. Un bambino metamorfico. Ancora un giorno o due di esercizi e riuscirò a essere proprio come Felix. Il suo sosia. Il suo erede. Felix rimise il monocolo in tasca, alzò la coppa di champagne, come per

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brindare alla mia performance, e bevve fino all'ultima goccia. «Un ristorante eccellente» disse leccandosi i baffi. «Una volta, anni fa, quando Felix era ancora Felix, venivo qui almeno una volta alla settimana. Prenotavo l'intero ristorante per me e i miei amici. Ma allora avevo i soldi per pagare.» Mi sfoderò un altro dei suoi sorrisi. Non che fossi particolarmente attento a quel che diceva, anche se, certo, avrei dovuto esserlo. Ma ero obnubilato dall'emozione. Felix si pulì la bocca con il fazzoletto: «Così, anche la nostra signora Gabi vorrebbe diventare una stella del cinema.» «Una volta, sì. Ora le basterebbe avere il coraggio di Lola Ciperola. Perché anche lei vorrebbe fare solo quel che le garba, senza preoccuparsi di cosa pensano gli altri.» Essere indipendente come Lola, vorrebbe, e forte come lei, e saper fare impazzire gli uomini senza soffrire più di tanto per causa loro, come Lola. E costringere il mio papà a prenderla sul serio, tanto per cambiare. E farsi implorare di acconsentire a sposarlo. Ecco quel che lei vuole davvero. Ovviamente in quel momento non dissi nulla. E cosa ne pensa il signor papà...?» chiese Felix, confermando l'impressione che per lui ero un libro aperto. Mancava solo che sapesse questo. Un segreto fra me e Gabi. «Del fatto che Gabi adora Lola?» continuò. «Sì. E che noi l'abbiamo incontrata a Tel Aviv, e che siamo andati ai suoi spettacoli.» Mi aveva fatto giurare che avrei tenuto la bocca chiusa. Che non avrei mai nominato Lola Ciperola in casa. Nemmeno per allusione. Forse non avrei dovuto dirlo neanche a Felix. «Non glielo racconterai, vero?» Felix si mise una mano sul cuore e chiuse gli occhi. Le sue lunghe ciglia ebbero un fremito. «Prometto.» «No. Giura.» Le fiammelle delle candele danzavano riflesse nelle lenti dei suoi occhiali. «Devi sapere una cosa: quando Felix giura, è sempre un inganno. Ma quando Felix promette, mantiene. E' così. Dunque, te lo prometto, parola di fuorilegge.» Ci pensai su un momento, e acconsentii. Forse perché aveva parlato di inganno, mi tornò in mente una cosa: «Che hai detto prima?.» «A proposito di cosa? Ne ho dette tante.» «Che non hai i soldi per pagare il ristorante?» «Ah! E' una ragazza proprio a posto"» esclamò allegramente. «Una ragazza davvero a posto!» «Chi? Lola Ciperola?» «No. La nostra signora Gabriela Gabi, la nostra Dulcinea. Comincia a piacermi.» Ero così contento che mi dimenticai ciò che volevo sapere da lui. Borbottò qualcosa fra sé, farfugliando parole incomprensibili, poi disse: «Così lei vorrebbe lo scialle di Lola.» «Sì.» Nonché la tua spiga di oro. Ma questo non ebbi il coraggio di dirlo. «E cosa desidera ancora, la signora Gabi? Non essere timido. Di tutto!» Usava quel suo tono scherzoso, ma notai che le sue dita si muovevano con una certa trepidazione. «Come fai a sapere che lei vuole ancora qualcosa?» «Sto aspettando, signor Feierberg.» Allora mi resi conto che lo sapeva già. Abbassai lo sguardo sul tavolo. Adesso mi butto. «Una, una sola delle tue spighe di oro.» «Lo sapevo che l'avresti detto» commentò senza sorridere. Mi batteva forte il cuore. Pensai che tutto sarebbe finito. Tutto quel sogno

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meraviglioso. Giocherellando con un fiammifero, mi disse come di sfuggita: «Hai sempre saputo chi sono?.» Solo da oggi pomeriggio» confessai. «Quando il poliziotto ha letto il tuo nome sulla patente.» «Pensavo che non l'avessi notato» mormorò. Aveva abbassato leggermente le spalle. «Pensavo che il poliziotto fosse troppo giovane per ricordare il mio nome, e pensavo che anche tu non ci avessi fatto caso...» Poi piegò il fiammifero finché si sentì uno scoppiettio, e io sussultai. Continuò: «Te lo sei tenuto dentro e hai taciuto. Sapevi che io sono il famigerato Felix Glick e non me l'hai detto. Non c'è dubbio che sei destinato a diventare il più grande detective del mondo.» La sua voce assunse di improvviso un tono aspro, rigido, e m'accorsi che parlava con un certo rancore. Come dall'altra parte della barricata. E di nuovo sentii incombere su di me il pericolo che lui rappresentava. Cos'altro sai di me? Cos'altro ti ha raccontato la signora Gabi?» «Ah, più o meno quel che hai detto tu mentre mangiavamo. Che eri molto ricco ma sperperavi tutto, che una volta eri una specie di re di Tel Aviv, che andavi in giro per il mondo, e... che facevi delle cose nelle banche, svaligiavi, e prendevi in giro tutte le polizie del mondo.» Per non urtarlo ulteriormente, feci finta di non sapere come lui e papà si erano incontrati la prima volta. «E immagino che anche di questo lei non parli mai in presenza di Fapà.» «Mai. E' un segreto fra me e lei.» «E' una ragazza davvero molto speciale» disse Felix pensieroso, accarezzando il suo anello nero. «Penso che sia persino più perspicace di me. E anche del tuo signor papà. Che peperino!» «Sì? Davvero? Pensi che lei sia speciale?» A volte, a forza di viverci insieme e di vedere come papà si comportava con lei, dimenticavo quanto fosse speciale e perspicace. Felix studiò accuratamente le parole: «Io penso, se capisco bene quel che lei ha in testa... allora tanto di cappello, insomma: complimenti, signora Gabi! Che peperino!.» Mi parve di averla scampata, che il viaggio era salvo, saremmo andati avanti. Non osavo crederci. «Allora sei di accordo con me? Proviamo a... «procurarle lo scialle?» «E la spiga d'oro, certo.» Sia benedetto Iddio, Signore degli eserciti, sia benedetto il cielo, evviva evviva. «Ti ha mica detto, la nostra signora Gabi, perché è tanto interessata alla mia spiga?» «No, non ne ho idea.» Mentii. Non volevo offenderlo. Perché Gabi rideva dicendo che, se avesse avuto un pizzico di spirito criminale, papà si sarebbe innamorato di lei all'istante, visto che solo il mondo del crimine lo interessava. Forse avrei dovuto dirlo a Felix. Forse l'avrebbe preso come un complimento. Gabi diceva sempre: «Felix Glick e Lola Ciperola! Questa è la combinazione vincente! Datemi lo scialle viola e la spiga di oro, Nono, e io esprimo un solo desiderio alle fate, spezzo il mio destino di Cenerentola e conquisto il cuore di quel principe scontroso! Puoi procurarmi queste cose, mio cavaliere?» E sbatteva forte le ciglia, rivolta a me. Felix riprese: «Magari Lola vorrà che facciamo qualcosa, prima di darci questo oggetto così importante.» «Chieda pure! Sarà la nostra missione!» «Ma potrebbe chiedere una cosa difficile!» «Bisogna osare!» gli ricordai, quasi scoppiando di felicità. Felix si

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lisciò lentamente i baffi posticci. E magari anch'io potrei chiederti qualcosa per la spiga. Che ne dici? Una spiga di Felix Glick mica la si ottiene così, su due piedi.» Un campanellino d'allarme cominciò a suonare dentro di me: «Cosa... cosa vuoi esattamente?.» Usai un tono di voce troppo stridulo. Gli parlavo come se fosse un estraneo. «Non aver paura, signor Feierberg!» disse prontamente. Mi accorsi che era ferito. «Tu non hai ancora piena fiducia in Felix, vero?» «Io chiedevo so...» «No! Non parlare adesso, non mentire!» Tutt'a un tratto era irritato con me. «Felix non ti mente mai, e tu non fai che stare in guardia, continuamente! Non è bello. Ed è anche un peccato.» Tacque. La bocca si chiuse in uno scatto di rabbia e sulla fronte apparvero delle rughe. Era un uomo di una certa età, ma per l'offesa sembrava improvvisamente tornato bambino. Ero così imbarazzato. Chiesi umilmente: «Volevo solo che mi dicessi cos'è questa cosa... Cosa vuoi che faccia per te?.» «Non ancora. Devo essere sicuro che sei davvero pronto per questo.» Incrociò le mani sul petto, evitando di guardarmi. «Sono pronto. Su, dài. Sono pronto, sì che lo sono!» Scosse la testa: «Non ancora. Sei troppo sospettoso. Sei sempre in guardia!.» Aveva completamente dimenticato di essere travestito da nonno Noè e parlava con la sua voce di sempre. «Non ti rendi ancora conto che Felix ti propone una cosa speciale. Un'occasione! Ti offre di metterti per una volta nei panni di Felix. E di dettare la legge di Felix, di essere come dentro una favola! Se solo mi credessi, se solo credessi alle mie bugie, allora saresti pronto per la mia legge!» Cosa avrei potuto rispondere? Desideravo tanto che fosse contento di me, ma nutrivo un costante timore. Forse non gli credevo affatto. Forse non ero capace di essere un autentico criminale, anche se solo per gioco, perché ero sempre sul limite, in preda alla paura di me stesso. «Ora finisci il tuo caffè, dobbiamo andare» disse «e non bisogna bere il fondo che resta nella tazza. Abbiamo molto lavoro da fare.» Posai la tazzina e ci guardammo negli occhi. Mi accorsi che si stava calmando. Per questa volta, forse, mi perdonava l'offesa. «Lo sai dove siamo diretti?» domandò. «A prendere lo scialle di Lola Ciperola» risposi fra dubbio e speranza. Chi avrebbe mai detto che dalla mia bocca sarebbe uscita quella frase? Volevo fargli capire che ero davvero cambiato, e proprio sotto i suoi occhi. «Bravo» osservò stancamente, «impari in fretta.» «Andiamo.» Mi alzai con entusiasmo, avevo voglia di contagiarlo con la mia allegria, con la mia gioia, volevo che dimenticasse quel che era appena successo. «Andiamo!» «Un momento!» Felix non si era ancora alzato, l'espressione di dolore era sempre impressa sul suo viso ma negli occhi già s'insinuava uno sguardo nuovo, beffardo, affettuoso e ammonitore: «Ma come ti comporti, signor Tami Feierberg? Siamo al ristorante! Prima bisogna non pagare!» CAPITOLO 15. LA CORRIDA. «E se lei non è in casa?» chiesi dopo qualche minuto di viaggio. «Ci sarà, ci sarà» mormorò Felix, continuando a canticchiare la sua solita solfa accompagnata da schiocchi ritmici della lingua e tamburellamenti

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sul volante. «In questo momento forse è ancora a teatro, starà finendo lo spettacolo, ma poi tornerà subito a casa.» «E se decide di andare da qualche altra parte?» «No. Non può fare a meno di tornare a casa.» Mi irritava un po' il fatto che all'improvviso si dimostrasse così informato sul conto di Lola Ciperola. In fondo io le avevo dedicato più tempo di lui. «Perché non può farne a meno?!» «Perché esiste questa legge: quel che dev'essere sarà. Ecco tutto. E lei deve tornare a casa sua e darti lo scialle, tutto qui!» «Una legge di chi?» «Di... di... del... di questa nostra escursione. Una legge apposta! Pian piano tutto si chiarirà.» Non capivo più niente. Ma ero a mio agio, affondato nell'ampio sedile del vecchio Maggiolino. Me ne stavo accoccolato come una fava (altra espressione di Gabi), ormai troppo stanco per aver paura di alcunché. Non del corpulento cameriere che avevamo seminato nel parcheggio - lo lasciammo che sbraitava come un matto agitando furiosamente le braccia - né dei due blocchi di polizia che avevamo brillantemente superato senza suscitare il minimo sospetto. Avevo la sensazione di essere fortunato, quel giorno. Ma chi sono io? Un impostore. Un commediante. Un bambino mascherato da bambina. Uno che mangia a sbafo al ristorante. In sostanza un ladrocinio. Tuttavia un sottile piacere, intenso fino al dolore, s'insinuava dentro di me per quel punto fra gli occhi, e dilagava nella testa in un dolce deliquio, scendendo fino in fondo alla spina dorsale... Che capolavoro, quel che aveva fatto Felix una volta usciti dal ristorante: aveva convinto il cameriere a spingere la nostra auto per farla partire, e se l'era lasciato dietro, con in mano un portafoglio bello spesso, ma vuoto, cioè pieno, ma di sabbia... Sorvolo sui particolari, non essendo rilevanti. Anche se forse sarebbe più onesto dire che mi vergogno a raccontare la parte che avevo avuto io, come avevo collaborato a questo piccolo e crudele misfatto. Domani di sicuro papà verrà a saldare il conto, pensai all'improvviso. E mi sentii sollevato, fin troppo forse, ma sul momento non ci volli pensare. Mi tolsi in fretta la parrucca nera, passandomi le mani sulla testa. Basta. Io sono io, piantiamola con questa stronzata di Tami. Domani mattina papà si presenterà al ristorante con il portafoglio gonfio. In verità, gonfio non gliel'avevo mai visto, ma con un bel sorriso e una pacca sulla spalla avrebbe chiarito tutto, si sarebbe scusato, avrebbe sistemato i conti, pagato e lasciato anche una lauta mancia - era tutto sempre molto abbondante nei miei pensieri - e una volta usciti dal ristorante, tutti giù a ridere di gusto, anche il grasso, gonfio cameriere frodato, e a dire: sì, bella impresa, da vero professionista, non si può fare a meno di essere indulgenti, non possiamo mica prendercela con la genialità, non è vero? Ed ecco papà precipitarsi alla tappa successiva, a un ulteriore bravata di Felix, per placare ancora una volta gli animi. Che stupido. Imbecille patentato che non sono altro. Visionario. «Ma tu mi devi ancora qualcosa, signor Feierberg» canticchiava Felix. «Hai promesso che mi avresti raccontato come mai sei vegetariano e non mangi carne.» «Vuoi saperlo davvero?» Ero sorpreso, perché in fondo che interesse poteva avere la mia storia in confronto alle sue avventure? «Se voglio saperlo?» scoppiò a ridere. «Io ho voglia di sapere tutto quel che ti

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riguarda! Ogni cosa della tua vita voglio sapere.» Ecco, anche questa era una di quelle frasi a cui non prestai la dovuta attenzione. Pensavo che si trattasse soltanto di una sviolinata per indurmi a parlare: solo in seguito mi resi conto di quanto era stato sempre sincero. Voleva veramente sapere tutto. Ogni particolare della mia vita insignificante. Mentre io, da vero stupido, non credetti, non capii, non immaginai nemmeno alla lontana che cosa intendesse dire. Il verde Maggiolino proseguiva quietamente lungo la strada costiera nell'aria umida dell'estate caratteristica di Tel Aviv. Alcune macchine ci sorpassarono, andavano tutti a divertirsi. A quest'ora Gerusalemme dorme, mentre qui la vita comincia. Felix smise di canticchiare e si dispose ad ascoltarmi. Ma io tacevo e, non sopportando quel silenzio, accese la radio. Del jazz rauco e felpato inondò l'abitacolo. A Gabi piaceva questo genere di musica. Chiusi gli occhi e pensai a casa mia, a lei e a papà, al fatto che in tutto il giorno non avevo neanche telefonato per dirgli come stavo, per ringraziarli di questa loro pazza idea. Del grande sacrificio di papà. Pensai: come aveva fatto, nella sua guerra contro il crimine, a permettermi di vivere questa esperienza...? Poi, senza nemmeno rendermene conto, come se stessi sognando, cominciai a parlare. Non feci troppi preamboli. La mia lingua era già piuttosto appesantita, la mente piuttosto pigra. Non avevo nemmeno voglia di raccontargli tutta la storia di Chaiim Stauber. Cominciai da quando mi ero messo in testa di essere il primo torero ebreo, e raccontai che io, Chaiim e il resto della banda avevamo fatto delle banderillas rompendo dei manici di zappa e decorandoli con carta colorata. Poi avevamo costruito i cavalli prendendo delle scope e facendogli la testa con dei calzettoni imbottiti di stracci; infine avevamo setacciato tutto il quartiere trafugando dalla biancheria stesa camicie, vestiti, gonne e asciugamani rossi - se no come si faceva a far arrabbiare il toro? Personaggi in ordine di apparizione: I banderilleros: Shimon Margolis e Avi Kabbesa. I picadores: Chaiim Stauber e Mikah Dubovsky. Matador: io, Nono. «E' molto bello che l'abbia fatto tu, il matador» soggiunse Felix. «Perché, bello?» «Mi piace l'idea che tu sia stato il protagonista. Mi piace l'idea che tu sia come me.» 0 Esattamente alle cinque della sera (ora Garcìa torca), eravamo penetrati nel giardino di Mautner attraverso una breccia nello steccato. Pesia, la mucca, stava brucando l'erba e ci ave va guardato con i suoi grandi occhi neri senza nutrire il minimo sospetto. Era una mucca di dimensioni ragguardevoli, pezzata di bianco e nero. Mautner le voleva bene e si prendeva cura di lei. Una volta all'anno le faceva l'inseminazione artificiale e, senza rimpianti, vendeva i vitellini. Non aveva né moglie né figli, e Pesia era la creatura con cui aveva maggiore intimità. Mi verrebbe quasi da dire che era la sua amica del cuore, se solo fossi sicuro che lui avesse un cuore. Era un uomo grande e grosso, con una capigliatura ispida e rossiccia di taglio militare. Era sempre paonazzo, come sul punto di sbottare di rabbia. Aveva anche dei baffetti pel di carota, sotto i quali esplodevano brevi frasi incisive e nervose. Ogni giovedì, alle quattro e mezzo in punto, saltava sulla sua Cortina e andava all'incontro settimanale dei veterani

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indossando la camicia kaki con le mostrine e i pantaloni corti. Una volta alla settimana, il giorno in cui io e papà lustravamo la perla, passava vicino al nostro cortile con passo militare, si fermava e chiedeva a papà perché aveva paura di mettere la perla su strada. La scena si svolgeva sempre seguendo un rigido rituale: papà non si alzava, limitandosi a dire: «Non è come le altre macchine, signor Mautner. Se uscisse fuori e fiutasse odore di libertà, si metterebbe a fare la pazza. Una macchina come questa ha bisogno di grandi spazi, non delle mulattiere di questo paese!.» Mautner storceva la bocca con aria di scherno, dicendo che, se papà gliel'avesse venduta, lui l'avrebbe domata, che con lui avrebbe rigato dritto come un burattino. A quel punto, sempre, con il medesimo gesto, papà gli mostrava il palmo della mano sporca di grasso e diceva: «Quando mi saranno cresciuti i capelli qui, allora lei avrà l'onore di guidarla". E i capelli un giorno crebbero. Alle cinque della sera mi presentai davanti alla mucca di Mautner. Indossavo un mantello rosso ricavato da un asciugamano con quattro calzettoni dello stesso colore che sventolavano sulle estremità, come raggi di un sole vermiglio. Era la muleta da agitare davanti al toro. Per l'occasione Shimon Margolis e Avi Kabbesa si erano messi i loro unici vestiti da festa, pantaloni di terital e camicia bianca. Avi Kabbesa, che aveva già fatto la maggiorità religiosa, aveva aggiunto un farfallino nero. Chaiim Stauber era il più elegante: indossava un completo. Era il primo bambino che avessi mai visto dotato di un abito completo. Pantaloni neri, camicia bianca e giacca con gli spacchetti. «E' per i concerti» disse come per scusarsi, «me l'ha comprato papà all'estero. Guai se si sporca.» Ci stringemmo le mani con fare solenne, poi afferrammo i nostri cavalli di legno, poi lentamente, con cupa andatura, accerchiammo Pesia. «Un fruscio di trepidazione percorre la folla» recitai, alzando progressivamente il tono di voce, gli occhi del toro brillano di furia omicida, signore e signori! Scorrazza per tutta l'arena!» Quell'anima buona di Pesia Mautner ruminava e annuiva. «Banderilleros!» urlai, agitando la mano e indietreggiando rispettosamente. Shimon Margolis e Avi Kabbesa percorsero l'arena al galoppo. Stando alle regole della corrida avrebbero dovuto essere appiedati, ma entrambi l'avevano considerata una forma di disprezzo, e avevano minacciato la creazione di un Sindacato dei banderllleros ebrei, lasciando intendere che non avrebbero partecipato alla battaglia. Ero stato costretto a cedere. All'urlo impetuoso di «olé» i due si incoraggiavano a vicenda, e sventolavano freneticamente le loro lance. Avi era il più audace: spronò il suo destriero giungendo quasi a sfiorare Pesia, poi, con uno sforzo sovrumano, riuscì a fermarlo proprio sotto il naso della mucca. La nobile cavalcatura si drizzò con un nitrito sulle zampe posteriori, e Avi colpì leggermente Pesia sulla schiena. Si udì una risatina spaventata. Chaiim Stauber, che era accanto a me, strinse le gambe una contro l'altra. «L'hai toccata» disse Mikah con voce lenta e profonda, «Mautner ci ucciderà.» Ma Avi Kabbesa era ebbro di orgoglio, galoppava per tutta l'arena lanciando urla di incoraggiamento alla sua squadra del cuore, e colpì di nuovo Pesia, questa volta sul posteriore. La grossa mucca fece un passo indietro, alzò il muso e ci guardò con occhi interrogativi. Per un istante i raggi del sole riverberarono sulle sue corna e apparve all'improvviso la sua

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furia tremenda. Furia che, però, doveva ancora svegliarsi. Per il momento sembrava assopita, avviluppata alle corna. Questo era il compito dei miei picadores, Mikah e Chaiim, con i loro destrieri e le lance-cacciavite; e questo lo scopo della danza della mosca intorno alla mucca. Mikah non era granché. Gli mancavano (per usare un eufemismo) agilità e prontezza, gli avevo offerto questo ruolo per semplice debito di amicizia. Chaiim Stauber, invece, era formidabile. Si lanciò al galoppo sul suo purosangue Morte, volteggiando intorno alla mucca come un falco rapace, sbucando nei punti più impensati, urlandole dentro le orecchie, con gli spacchetti della giacca che svolazzavano. Una volta le sfiorò persino la schiena con il cacciavite. Pesia si scostò e diede un calcio all'indietro. La battaglia s'interruppe. I picadores e i banderilleros si aggrapparono l'uno all'altro, bianchi come il gesso. Sparito ogni ardore battagliero. Vi spaventate per un calcio?» domandai, e feci un passo avanti, gettandomi sul viso il mantello rosso - un asciugamano trafugato in un albergo di Tiberiade. Chaiim Stauber si bloccò. Ansimava, fissandomi con ansia e curiosità. Aveva degli occhi davvero fuori del comune, sembravano respirare: si allargavano e si stringevano nei momenti di maggior emozione. Sei sicuro di averne il coraggio? domandavano i suoi occhi. Ho forse altra scelta? rispondevano i miei. Scesi carponi e pregai Dio di riuscire nel mio intento. E siccome ero il primo torero ebreo della storia, al posto della croce dei toreri cristiani tracciai in aria una stella di Davide. Per un lungo momento restai assolutamente immobile, come Paco Camino, come Rafael Gomez e Juan Belmonte. Forse presagivo quel che stava per accadere e volevo rendere interminabili questi ultimi momenti. Poi mi alzai e, con passo lento e fatale, mi avvicinai al mio cavallo. Dapprima girai lentamente intorno alla mucca. Era nervosa, mi seguiva con il suo lungo muso. Da vicino faceva piuttosto paura. Era grande, una spanna più alta di me, e larga come un armadio a quattro ante. Poi le sfrecciai davanti al galoppo, proprio sotto il naso, e vidi le narici spalancate, nere e umide; all'ultimo momento, andandole vicinissimo, la colpii appena sopra la coda con la mano. Il colpo suonò come uno schiocco di frusta. La mano mi faceva male e Pesia ritrasse il muso, emettendo un muggito profondo e addolorato. Quel verso mi scosse e mi eccitò. Era autentico, lo stesso che faceva quando Mautner le portava via il vitellino. Piangeva e strepitava per qualche giorno, come stava facendo ora. d'un tratto non mi riconobbi più. Mi girai. Anche Pesia si voltò, con sorprendente prontezza, tenendo gli occhi fissi su di me. Le sue mammelle dondolavano pesantemente, gonfie di latte. Pestai per terra. Anche lei. Chinai la testa. Anche lei. Attesi il muggito. Volevo sentire ancora una volta quel suono vero e minaccioso. Lei tacque. Non voleva darmi questa soddisfazione! Allora, al galoppo, con un grido rauco e gutturale, le volai fin sotto il naso, deviando solo all'ultimo momento, e sferrai un nuovo colpo a piena mano. Le sue zampe si distesero per appiopparmi un calcio, poi fece un muggito, mentre io fuggivo. La faccenda stava diventando seria. Il gruppo dei miei amici si teneva compatto vicino all'apertura nello steccato, pronto a scappare. Non li vedevo. A volte coglievo lo sguardo esaltato di Chaiim, consapevole che da quel momento sarebbe stato mio per sempre, che quella battaglia sarebbe stata il suggello della nostra amicizia: perché cosa poteva chiedermi di più,

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cosa avrei potuto dargli ancora? Cosa avevo da offrirgli oltre a questa follia? Fiotti di sangue mi inondavano il cervello e in mezzo agli occhi crepitava l'aspro ronzio delle storie, delle bugie, della voglia che si sapesse quanto ero speciale... in un ennesimo assalto caddi ai piedi della mucca, e fu solo per miracolo che riuscii a rotolare lontano. Lei venne avanti, mise una zampa sul mio cavallo e gli spappolò la spina dorsale come fosse un fiammifero. Privato della cavalcatura mi sentii disarmato, più piccolo. Corsi davanti a Pesia sventolando le braccia come un'elica di aeroplano, strillando con quanto fiato avevo in gola, sentendo che stava arrivando il momento in cui avrei cominciato a combattere davvero, fino alla morte. Se ne accorse anche la mucca: era ferma e scalpitava. Poi alzò la coda e schizzò un fiotto di urina fumante, un odore aspro di sudore, piscio e paura, mentre le zampe s'impantanavano. Mi lanciai su di lei come un proiettile. Riuscii a vedere la testa che si chinava, l'osso nero delle corna, e una mossa del capo sorprendentemente agile. Ci scontrammo. Non avevo mai preso una botta del genere. Il suo muso pesante, solido come una roccia, mi colpì sulla spalla e sul braccio, facendo volare via la mia anima. Piombai dentro il vigneto di Mautner e gli altri si precipitarono verso di me. Vidi a malapena qualcosa, avevo l'occhio sinistro chiuso, coperto di sangue, e la mano destra che grondava. Mi è rimasta una cicatrice indelebile. Ma allora mi alzai. Ero ancora nell'arena rovente. Estrassi lentamente il grosso cacciavite di papà. Non riuscivo a parlare, la mascella pesava una tonnellata, perciò confiscai il cavallo di Mikah con un cenno imperioso. A passo lento e zoppicante cominciai a trottare intorno alla mucca. Il sole era quasi tramontato. Pesia si girò verso di me, seguiva ogni mio gesto. A volte cercava di saltare e colpirmi di nuovo. Aveva gli occhi iniettati di sangue e una schiuma bianca le usciva dalla bocca. Per tre volte di seguito le sciorinai il mantello rosso sotto il naso. Perdevo sangue dalle ferite e la mia spalla era un grumo di dolore, ma continuavo a combattere. Al di là dello strazio e della paura. Al di là della ragione. I lembi del mantello rosso svolazzavano intorno a me, gli ultimi sprazzi di sole mi sembravano il luccichio dei binocoli di mille spettatori, ma più di tutto mi trafiggeva come un grande trapano quel ronzio profondo in mezzo alla fronte, oltre alla sensazione di compiere un impresa che nessun bambino prima di me aveva mai osato, una cosa assolutamente proibita, ma io ero il più grande di tutti, e anche il più disperato. Quando il sole mandò il suo ultimo raggio di luce, mi lanciai per l'ultima volta. Galoppai con tutta la forza che mi era rimasta, brandendo terrorizzato il lungo cacciavite. Pesia abbassò le sue grandi corna. Io sfrecciai davanti a lei. Saltai più alto di quanto avessi mai fatto, mi elevai fin sopra la sua spalla, infilandole il cacciavite nel fianco, fra le costole, per poi rivoltolarmi nel fango. «Con il cacciavite?» domandò Felix, schiacciando per errore il pedale del freno, e facendoci sobbalzare entrambi. Sul serio?» «Sul serio. Nel fianco destro. Dall'alto verso il basso. Sangue. Rosso scuro. E caldo. La mucca Pesia restò ferma un istante, si voltò lentamente verso di me con aria sbigottita, persino malinconica. Ci guardammo sgomenti. Poi emise un muggito e i suoi occhi si riempirono di una furia istintiva, divennero ancora più neri e brillanti. Muggì di

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nuovo, alzò la coda per aria e cominciò a correre all'impazzata. Fu uno spettacolo orribile. Era uscita di testa. Si lanciò verso la casa di Mautner e, con una sola incornata, sfondò la porta di ingresso. Il suo corpo immenso sventrò la parete di mattoni e piombò in casa. Dentro, proprio. Rimasi impalato, ammutolito e terrorizzato. Vedevo solo la porta di ingresso e una parte del salotto di Mautner, mentre la mucca impazzita infuriava dentro casa; sentii i mobili che crollavano, i vetri che s'infrangevano, schianti forti come tuoni, forse Pesia stava cercando una via di uscita, la sua non era una furia devastatrice. In pochi minuti, comunque, demolì la casa, sbriciolò i mobili, sfasciò il frigorifero... Poi calò il silenzio. Guardai a destra e a sinistra, ma i miei amici erano scomparsi. Mi fermai in mezzo al giardino di Mautner. Dalla casa provenne all'improvviso un lungo muggito carico di stupore. Ascoltai Pesia che camminava fra le rovine, spostava sedie e tavoli con le zampe e le corna. Per un attimo mi venne da pensare che stesse rimettendo a posto. Poi, sulla porta, ricomparve la sua mole. l'immenso muso, le spalle enormi. Con passo pesante tornò in giardino. Mi guardò come se non mi vedesse, come se ormai non esistessi più, e riprese a pascolare. Aveva sul corpo un grumo di sangue, proprio lì dove l'avevo colpita. Brucava l'erba con impegno, con grande concentrazione. Come cercando di rammentare a me e a se stessa come si comporta una mucca.» In macchina calò un silenzio imbarazzante. Felix mi guardò di sbieco, in un modo nuovo. Tacqui. Ero pentito di avere raccontato quell'episodio. «Però!» disse, posando le due mani sul volante. «A seguito della corrida finì la mia amicizia con Chaiim Stauber, e la banda si sciolse definitivamente. Papà fu costretto a dare a Mautner la Hamber Pullman come risarcimento. Non avevamo più la nostra perla, ma, soprattutto, non c'era più la cerimonia del martedì sera, quando restavamo soli io e lui a parlare di cose da uomini. Fra parentesi, fu allora che mi mandarono a Haifa per la prima volta, a sorbirmi la predica del fratello di papà. E ci fu dell'altro. Un giorno Mautner portò un camioncino, caricò Pesia e la riportò al kibbutz. Ai vicini raccontò che, dopo l'accaduto, non riusciva più a volerle bene. Lei l'aveva tradito e non voleva averci più niente a che fare. I compagni di classe presero a starmi alla larga. Avevo subito una specie di tacita scomunica. Non ufficiale. Non dichiarata. Ma avevano paura di me. O diffidavano. Erano attenti a non sfiorarmi, nemmeno accidentalmente, come se avessi qualcosa di brutto. Solo Mikah mi restò fedele. O meglio, mostrò di provare uno strano piacere nello stare sempre dalla mia parte e nel rievocare continuamente, con un ghigno, quegli attimi tremendi e spaventosi. Dentro di me nacque qualcosa di nuovo. Prima di tutto, diventai completamente vegetariano. Calcolai che, se per dieci anni non avessi toccato né una salsiccia né una bistecca, avrei risparmiato una mucca, espiando il male fatto a Pesia, la sua ferita, oltre alla colpa di averla fatta impazzire e cacciare di casa. Iniziai anche ad avere paura di me, perché notavo che nel mio intimo succedevano cose assolutamente fuori della mia capacità di controllo. Un grano di follia s'impadroniva di me e io diventavo all'improvviso qualcun altro, una creatura estranea che non capivo perché avesse scelto di entrare proprio nella mia anima.» Un po' di tutto questo lo rivelai per la prima volta quella sera, viaggiando con Felix Glick lungo la strada costiera. Glielo raccontai

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perché sapesse che mi stavo consegnando a lui, che gli affidavo tutto me stesso, la parte buona e quella cattiva. Forse anche per dirgli: abbi cura di me. Tu mi stai offrendo questa scorribanda fuorilegge, e io ho un po' di confusione in testa, non capisco esattamente cosa mi sta capitando, chi sei tu davvero, ora sono nelle tue mani, però ricordati di Pesia e di quel che a volte potrebbe succedermi, e quanto repentinamente. Per favore, fai attenzione a me, non cacciarmi in una brutta situazione, vedi tu stesso di che pasta sono fatto. Felix non disse una parola, e capii che stava ascoltando queste mie tacite richieste, perché lui sapeva ascoltarmi come nessun adulto aveva mai fatto. La macchina correva lungo la strada deserta. I semafori lampeggiavano sul giallo, pareva che il traffico si fosse esaurito mentre raccontavo questa storia. La radio trasmetteva un jazz soffuso, tranquillizzante. I lampioni proiettavano intorno a noi dei grandi aloni di luce gialla. Dissi a Felix che Gabi mi era rimasta fedele dopo l'accaduto. Fu il secondo adulto, dopo la mamma di Chaiim, a giungere sul luogo del delitto. E lì, nel vedermi coperto di sangue e fango, ammutolito dalla paura, mi abbracciò, dicendo: «Non preoccuparti, ti difendo io da papà.» Perché Mautner, alla fine, si riuscì a calmarlo, ma papà a momenti mi uccise. Fu allora, in un impeto di furia terribile, che per la prima e unica volta disse qualcosa su Zohara, sulla sua maledizione, passata evidentemente anche a me.

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CAPITOLO 16. UN ATTIMO Di LUCE FRA UNA TENEBRA E L'ALTRA. Aleggiava nell'aria un sentore di profumo femminile e dal paralume cinese scendeva un fascio di luce evanescente, subito assorbita dalla stanza. Ero seduto in un'accogliente poltrona, con le mani strette ai braccioli. Felix si era calmato. Ma Felix era sempre tranquillo nei momenti di pericolo. Stava seduto di fronte a me con le gambe accavallate e un bicchiere di vino in mano. Quella sera aveva già bevuto una bottiglia di champagne e tre bicchierini di whisky: mancava solo il vino, adesso. La mia anima palpitava, urlando incessantemente un'unica parola: via! Tenevo i piedi sollevati, per non sporcare l'enorme tappeto, e gli occhi ben nascosti sotto le palpebre, per non contaminare con lo sguardo quella stanza, il santuario. - Andare via. Via subito di qui. Questo è davvero troppo. Una delle pareti era coperta di fotografie incorniciate, come in un negozio specializzato. Solo che qui vi figurava un unico soggetto: Lola Ciperola. Una volta insieme a un famoso attore, un'altra con un primo ministro. Oppure da sola, con uno smisurato mazzo di fiori. C'erano anche istantanee scattate durante ricevimenti con orde di invitati, e altre in cui la si vedeva sulla scena, con le mani fissate in ampi gesti teatrali; poi di nuovo sola in una stanza vuota, col triste profilo rivolto verso la luce, o stancamente appoggiato sul palmo della mano, nell'atto di pensare all'unico vero amore della sua vita, ormai scomparso, quell'amore che sarebbe stata disposta a coronare con le nozze, perché lui non aveva cercato di sopraffare il suo corpo e la sua anima. Su quasi tutte le fotografie era vergata obliquamente qualche parola. Riconobbi una dedica in inglese di Elisaheth Taylor, oltre a frasi di David Ben Gurion, Dannye Kaye, e persino Moshe Dayan. Tutte queste personalità riempivano la stanza, incutendomi terrore. Come sarebbe stata felice Gabi di trovarsi qui con me. In fondo quante volte avevamo atteso insieme, qui fuori, cercando di immaginare com'era dentro; e adesso sono qui, senza di lei. Sentivo il dovere di tenere a mente ogni mobile, ogni fotografia, ogni pianta. Per poterglielo poi raccontare. Ma non osavo, quasi che, registrando un particolare nella memoria, potessi rompere l'intimità e la privacy di Lola. «La signora è in ritardo questa sera» osservò Felix, lanciando un'occhiata al grande orologio a muro. «Ha sempre tante ovazioni» spiegai sottovoce «e dopo lo spettacolo gli ammiratori vanno a farsi fare l'autografo...» «Gliel'hai chiesto anche tu?» «No. Mi vergognavo. Dài, andiamocene.» «Andarcene? E perché? Senza lo scialle?» Avevo lo stomaco sottosopra, stavo per vomitare sullo splendido tappeto. «Andiamo, dài, non si può mica entrare così in casa sua.» «Come così?» «Così, come tu...» cercavo di esprimermi senza offenderlo, «come sei entrato senza... be, hai aperto la serratura con un cacciavite.» «Solo perché sua signoria chiude la porta senza lasciare la chiave.» «Perché non entrino degli estranei!» «Noi, estranei?» disse Felix alzando le sopracciglia con aria stupita. «Come fa a sapere che siamo degli estranei, visto che non ci conosce?» Continuai a rimuginare su questa frase, ma senza riuscire a coglierne

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l'esatto significato. «Prima faremo conoscenza» continuò Felix, esponendo il suo terrificante progetto, «poi le chiederemo se ci vuole in casa o no. Se non vuole, alzeremo i tacchi e ce ne andremo con tanti saluti, arrivederci e molte grazie.» Scoppiò in una fiera risata. «Felix non costringe mai nessuno a riceverlo!» «E se chiama la polizia?» Questo sarebbe il segno che non ci vuole qui» rispose con un tono di condiscendenza. «Ma perché devi decidere per lei quel che vuole e quel che non vuole? A quanto mi risulta, è una signora emancipata, e non gradisce che qualcuno decida per lei.» Si alzò per servirsi da bere dalla bottiglia sul tavolo tondo nell'angolo. l'orologio a muro ticchettava. Felix si fermò accanto alla finestra. Passò un minuto e poi un altro ancora. Ogni volta che sentivo dei passi in fondo alla strada restavo pietrificato. d'un tratto Felix sospirò. «Un tempo anche Felix abitava in una casa bella come questa.» Era come se parlasse alla propria immagine riflessa nella finestra. «Andiamo via» tentai ancora, «me lo racconti fuori.» «E perché fuori? Fuori è rischioso per Felix! Qui si sta benissimo. E' una bella casa. Peccato solo che Felix non sia stato abbastanza furbo da farsi una casa così. Una casa accogliente. Una casa per la vecchiaia di Felix. Non solo una casa per i ricevimenti, per gli ospiti,» e indicò la stanza immersa in quella luce gradevole, le comode poltrone, le tovaglie ricamate, le grandi piante di appartamento. Ecco, Felix si è perso tutto questo. Avrebbe potuto possedere una casa come questa, e se l'è lasciata scappare. Perché gli premeva così tanto andare in giro per il mondo? Correre di qua e di là? E tanti soldi, ah!» Si appoggiò con le mani al davanzale della finestra, chino e appassito. «La-draku!» esclamò all'improvviso. Se anche non compresi le parole, intuii che si trattava di un imprecazione, in una lingua a me sconosciuta. Ma non era tipo da imprecare, e cominciai a sentirmi un po' teso. Felix è fatto così!» Si scosse pesantemente, poi levò il bicchiere alla sua immagine riflessa nella finestra e cercò di sorridere. «Un giorno nella polvere, un giorno sull'altare! Oggi non c'è altro che un portafoglio pieno di sabbia e una fuga da un grasso cameriere, ma domani sarà il Felix del bel mondo! Felix che tutti adorano! Felix che tutti bal...» Crollò all'improvviso. Emise un gemito soffocato e s'accasciò sulla poltrona. Mi fece cenno di avvicinarmi ma di non toccarlo. Mi precipitai: realizzai di colpo che un filo invisibile lo stava avvolgendo. Come papà, quando era malato e si rinchiudeva in se stesso. Lottava da solo contro il dolore e la sofferenza. Nessuno doveva assistere, nessuno poteva aiutare. Con mano tremante frugò in una tasca e ne estrasse una scatola rotonda. Inghiottì una pillola, poi un'altra. Chiuse gli occhi. Aveva la fronte imperlata di sudore. Era giallo in viso e continuava a mormorare: «Vecchio... e malato... nessuno piangerà quando Felix sarà finito.» Mi avvicinai un po. Mi allontanai. Non osavo. Sembrava solo, inerme, chiuso in se stesso; d'un tratto aveva perso quell'aria disinvolta, si vedeva che era terrorizzato all'idea di trovarsi solo mentre il filo trasparente lo avvolgeva. Allora tu varca quel confine, sia quel che sia. Mi inginocchiai accanto alla poltrona e lo sfiorai prudentemente. Felix trasalì. Spalancò gli occhi increduli e mi sorrise con fatica, senza ritirare la mano. Mi accorsi che stava lottando per la vita. Voleva parlare, ma non ce la faceva. Respiravo insieme a lui, per ricordargli

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come si fa, mentre cercava continuamente di stirare la sua camicia stazzonata, forse si vergognava che lo vedessi in quello stato, così in disordine, sciatto, non il solito Felix. Io stavo lì, spaventato, e mi limitavo a fargli cenno di no con la testa, perché sapesse che si stava sbagliando, che pur conoscendolo da così poco tempo, da meno di un giorno per l'esattezza, non avrei mai dimenticato le ore trascorse insieme: fra noi s'era creato un legame tutto speciale. Rimanemmo seduti così per qualche istante, finché la sua anima fece ritorno alla vita. Felix si drizzò leggermente sulla poltrona, si allentò il nodo della cravatta e mi guardò con un sorriso stentato. «Chiedo scusa... dev'essere stato solo un lieve attacco di mal di pancia... ora è tutto a posto! Tutto come sempre, yes, sir!» Cercava di usare un tono di voce forte e deciso. Andai in cucina a prendergli un bicchier d'acqua. Com'era possibile che una donna importante e famosa come Lola vivesse in tale modestia? La cucina era minuscola e antiquata, e il frigorifero più basso di me. Sul tavolo c'era mezza pagnotta di pane nero. Lola Ciperola aveva dimenticato la luce accesa. Se fosse stata in casa di mio papà, si sarebbe già beccata un'ammonizione. Versai l'acqua in un bicchiere e la portai a Felix. Si era leggermente ripreso, o faceva finta. «Va bene, allora racconta» dissi. «Raccontami di quei tempi.» Perché dimenticasse quel momento di debolezza. Per dimenticare la mia paura. «Siediti qui, non andare.» Mi tenne la mano per un istante, guardandomi negli occhi. «Sei un bravo bambino, signor Feierberg. Sento che sei un bambino di buon cuore. Com'era Felix una volta. Solo che Felix ha imparato a vincere il suo cuore. Sta attento. E' dura la vita per chi è così buono. Sta in guardia dalla gente, sono cattivi. Come lupi.» «Racconta» chiesi di nuovo. Ma non riusciva ancora a parlare. Tentò una, due volte, e dovette interrompersi. Bevve l'acqua. I suoi baffi posticci avevano ceduto da un lato, ma lui non se n'era accorto. Passò ancora qualche minuto di silenzio, e la sua mano continuava a stringere la mia. Mi sfiorò l'idea che, se fosse morto, nessuno mi avrebbe più raccontato di Zohara e di papà. «Io, ai bei tempi» la voce gli usciva storpiata, debole, «avevo tutto quello che desideravo. Una Mercedes? Subito! Una barchetta, uno yacht'? Pronti! La donna più bella del mondo? Paffete, anche lei! Nel mio salotto arriva la crema di Tel Aviv. Gente di teatro, cantanti e reginette di bellezza, giornalisti, magnati, finanzieri di alto livello, lo sapevano tutti che le feste più belle erano da Felix Glick!» Cominciava a tornargli un po' di colore sul viso. Purché continui a parlare, a consolarsi con i ricordi, dimenticando quel che gli è appena successo. Sorseggiò dell'acqua. Mi lanciò nuovamente quel suo sguardo celeste, come per mostrarmi che ne era ancora capace. Gli sorrisi, anche per cortesia, ma mi accorsi che ormai non riusciva più a incantarmi come prima. Non certo quando le sue labbra tremavano a quel modo... «E che ricevimenti davo il venerdì sera!» proseguì nelle sue vanterie. «Che cerimonie! Prima di tutto, riempivo la casa di fiori, e luce in ogni angolo. Mica corrente elettrica! Non sia mai Solo candele rosse - ci vuole stile! - e una tovaglia bianca. A centro tavola c'era l'enorme pane festivo, sarà stato lungo un metro, che preparava apposta per me un fornaio arabo di Giaffa. E un servizio di piatti di porcellana con un bordino di oro e al centro le cifre pure in oro: F.G., cioè Felix Glick...» Mi facevano già male le guance, ma pensavo che, se avessi

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smesso di sorridere, lui avrebbe ceduto, che sarebbe scoppiato a piangere o qualcosa del genere. Non so, pensavo che in quel momento tutto dipendesse dal mio modo di comportarmi e, a titolo di autoincoraggiamento, pensai: cosa importa se è una persona un po' arzigogolata? Non sono forse anch'io un bambino un po' arzigogolato? E la mia vita non è un po' arzigogolata? Se avessi un nonno, per esempio, potrebbe benissimo essere come Felix, e ce ne staremmo così, io ai suoi piedi e lui che mi racconta i suoi avventurosi ricordi, magari esagerando, vantandosi anche un po... «Accostato alla parete, di spalle agli ospiti, c'era un buffet speciale, che oggigiorno si chiama credenza, con la frutta più bella e la salumeria più squisita, per carità, tutto kasher, e shrimps, i gamberetti che arrivavano la mattina con l'aeroplano dalla Grecia. Ricorda che era l'epoca in cui qui c'era il razionamento, mancava il denaro, e chi poteva permettersi di andare al ristorante mangiava sì e no un magro pollastrello, mentre a casa mia...!» «Un momento» lo interruppi, «la gente sapeva che tu eri... cioè...» «Un fuorilegge?» sorrise Felix. «Dillo pure. Non morde mica, questa parola. Certo che lo sapevano. Forse era proprio per questo che venivano. Perché gli intelligentoni e i riccastri amano trovarsi a contatto col rischio, con il mondo del crimine... Non troppo... solo un pizzico così, con il loro smoking, purché il rischio abbia un aspetto di civiltà europea e sappia fare il baciamano alle signore, e magari abbia la faccia di Felix... certo, non è che sapessero di me proprio tutto. Non bisogna sempre raccontare tutto alla gente. Non è educato. Immaginati se improvvisamente, mentre gustavano una zuppa di ostriche, mi fossi messo a raccontare di quando una volta avevo svaligiato una banca a Barcellona ed ero stato costretto a sparare ai due poliziotti che mi avevano disturbato! Mica bello, vero? Gli avrebbe guastato l'appetito.» «Hai davvero sparato a due poliziotti?» Il mio nuovo programma, voglio dire quello di adottare Felix come nonno, aveva assunto uno spiacevole risvolto. Ma perché non poteva essere semplicemente un bravo vecchietto? «Cosa potevo fare?» Felix si strinse nelle spalle. «Il loro mestiere era quello di prendere Felix, il mio di scappare. Senza Felix, addio mestiere. Non è così?» «E sono morti?» «Chi?» «I poliziotti!» mi trattenni a fatica dall'urlare. «Morti? Ci mancherebbe! Era un tiratore scelto Felix, allora. Aveva una mira formidabile. Ma non ha mai ucciso. Per carità! Prendeva solo il denaro. Lasciava la sua spiga d'oro e paffete! Scomparso!» Deglutii. Ecco, era giunto il momento di chiederglielo. «Posso... potrei... vederne una?» «Una spiga?» Mi fissò a lungo e intensamente, poi infilò una mano nel colletto e ne estrasse una catenina. Appeso alla catenina c'era un pendaglio di oro a forma di cuore, di quelli che contengono un minuscolo ritratto. Ma a me interessavano soltanto le due spighe di oro appese alla catena. Sottili, dorate, risplendevano di una luce soffusa. Le sfiorai con la punta delle dita, di più non osai. Migliaia di poliziotti in tutto il mondo avevano aspirato a questo momento: prendere Felix insieme alla sua spiga. «Una volta, cinquant'anni fa, appena agli inizi

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della carriera, ero andato da un gioielliere di Parigi e gli avevo ordinato esattamente cento spighe. Sì! Ancora prima di diventare il vero Felix avevo già deciso quale sarebbe stato il suo stile per tutta la vita.» Posò le spighe sul palmo della mano, poi ci alitò sopra e le lucidò con la manica. «Cento. In seguito ne ordinai ancora altrettante. E cento ancora... trecento in tutto... ora tutte le spighe di Felix sono nei posti più disparati: banche, casseforti, palazzi, barche, portafogli... dovunque passassi, dovunque abbia fatto qualcosa di speciale - lavoro, o un atto di coraggio, o un grande amore - ne ho lasciata una. Un ricordo di Felix.» Idea fulminante: «Anche oggi, non è vero? Quando siamo scesi dal treno!.» Ecco cos'era quel luccichio dorato che aveva volteggiato nell'aria, quel tintinnio come di una moneta che cade... dunque l'avevo visto all'opera! «Anche oggi, certo. E' stato bello, vero, fermare un treno intero? Che stile! Non avevo mai fatto una cosa del genere! Così ho lasciato una spiga. Come Picasso che firmava i quadri in basso. E ora, quante ne restano? Soltanto due. Guardale bene, bambino mio: il segno più evidente che la carriera di Felix è agli sgoccioli.» Avrei voluto toccarle ancora una volta, ma non osai. Ora le vedevo con i suoi occhi, erano gli ultimi granelli di sabbia della sua clessidra. «Ahi" gemette Felix. «E' finita, vecchio decrepito che non sei altro, è finita.» «Ma i tuoi amici» cercai di rincuorarlo, «quelli che venivano ai tuoi ricevimenti...» «Felix non aveva amici!» disse, rimettendo la catena dentro la camicia e mostrandomi un dito minaccioso. «Soltanto persone a cui piaceva venire a divertirsi da lui e ballare alle sue feste. Va bene così! E gli facevo pure dei regali, un bel regalo per ogni compleanno! Ma amici, amici del cuore... Forse una sola donna in tutto il mondo, e per di più in segreto, senza che nessuno lo sapesse. Ecco.» «Eri sposato con lei?» «Sposato? Per carità! Non sarebbe stato un bene né per me né per lei. Ma era una donna che amava davvero Felix... forse lo considerava una specie di cavaliere, una specie di Robin Hood, uno che rubava ai ricchi per dare ai poveri... e mi amava anche perché ero fatto così, romantico, charmantico, audace... e anche perché non ero come quegli intellettualoidi dei suoi amici. Io, infatti, non solo ero capace di dirle belle parole e declamare Shakespeare, ma bisticciavo anche, facevo a botte, tenevo una pistola. E sapevo mantenere i segreti. Fra tutti quelli che le ronzavano intorno come mosche, solo su Felix poteva sempre contare...» Ascoltai. Gabi non mi aveva mai raccontato di quell'unico, grande amore della sua vita. ... Mentre tutte le altre persone che erano intorno a Felix, lo facevano solo per divertirsi, spassarsela, ballare. Va bene così. Ascoltami. Ascolta un vecchio che ha già visto tutto e sa la verità: non conviene conoscere troppo intimamente il prossimo. Già. Se penetri troppo profondamente nell'animo degli altri, non riesci più a godere la compagnia, a ballare, a ridere e a dimenticare i guai, perché nell'animo della gente trovi solo ferite su ferite, nero su nero, e allora perché?» Ingollò il vino con tale frenesia che alcune gocce gli caddero sui pantaloni. «Sappi però che anche Felix, da parte sua, non ha bisogno di amici. Felix è una persona sola. Sta meglio da solo» proseguì a voce alta, «e così non è nemmeno rimasto deluso quando alla fine la

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polizia l'ha beccato, e gli hanno fatto un grande processo, ed è finito sul giornale, e tutti a dire che Felix era una carogna internazionale, un supercriminale, tutti quei begli epiteti...» Cercò di sorridere, come se stesse raccontando qualcosa di divertente, ma gli tremavano le labbra. «Considera questa cosa, prendila come lezione: tutte quelle persone che venivano ai miei ricevimenti, a mangiare il pane bianco del fornaio di Giaffa, tutta quella gente che aveva ricevuto dei regali per il compleanno, tutti improvvisamente dimenticarono chi era questo Felix. Edificante, no? E per di più fecero scrivere sul giornale che non l'avevano mai conosciuto! Che solo una volta, per puro caso, erano andati a una sua festa! E che in fondo, a ben guardare, quel Felix lì era ridicolo, un imbecille che voleva solo far colpo, tutto sommato gli mancava la cultura e si comprava le amicizie con il denaro... d'accordo, tutto bene! Yes, sir!» Quel suo largo sorriso dava ora l'impressione di una maschera sul punto di sfaldarsi. «E la donna?» chiesi. «La donna di cui dicevi? Quella che era davvero tua amica?» «La donna...» Felix prese fiato e sospirò. «Solo lei è rimasta amica... ecco, faccio fatica a dirlo, anche se ormai sono passati tanti di quegli anni da quando è tutto finito... anche lei, la mia signora, non voleva più incontrarmi... diceva... fa troppo male, una ferita dopo l'altra...» Strinse le labbra e si portò alla fronte il bicchiere gelato. «Ed ecco il prezzo che ora Felix sta pagando. E' vecchio e solo. A volte pensa che forse proprio quelli che riescono a vivere dove c'è aria di chiuso, proprio quelli sono i più forti! Hanno la forza di sopportare, di fare per cinquant'anni lo stesso lavoro, e di rimanere sposati per cinquant anni con la stessa moglie. Forse è proprio questa la vera forza! Chissà. Forse Felix è proprio il più debole di tutti. Il più viziato. Bisogna che tutto sia esattamente come vuole lui: viaggi, emozioni, soldi, storie. Cosa ne dici, bambino?» Non sapevo cosa rispondere, ma per puro caso mi venne fuori questa bella frase: «Allora perché nei libri si parla sempre di personaggi avventurosi?.» Felix mi sorrise riconoscente. «Sì... tu sei buono...» mormorò quasi fra sé. La sua parrucca da nonno Noè, ormai caduto nel dimenticatoio, si spostò scoprendo i capelli. I baffi avevano ceduto e pendevano obliqui sopra la bocca. Aveva un'aria infelice, ma anche buffa, e soprattutto commovente. «Dunque anche tu hai avuto la tua corrida, perché la volevi, la desideravi come un sogno, vero? L'hai fatto per questo! Lo so! E anch'io mi sono creato un mondo tutto per me! Perché la gente ricordasse che un tempo c'era stato qualcuno come... qualcuno come Felix... perché nei luoghi dove Felix passava restasse ancora un po' di luce e la gente rimanesse un po' ebbra... sognando che il nostro mondo può essere migliore...» Guardai l'orologio. Quasi mezzanotte. Pensai che era il momento di portarlo fuori di lì, ora che era immerso in se stesso. Dissi delicatamente: «Sarebbe meglio andare. Basta. Ormai non verrà più.» Magari. Felix non mi ascoltò, era così in subbuglio. «Osserva la gente quando si alza al mattino e va al lavoro con l'autobus: guardali, guardali bene in viso! Sono tristi, che facce lunghe, non un filo di allegria, di speranza. Vivono come morti! Mentre Felix, lui dice: si vive una volta sola! Sessanta, settant'anni ed è finita! Dobbiamo gioire! Abbiamo il diritto di stare allegri!» La sua voce si spezzò in un urlo atroce. Era agitato come se stesse facendo con me l'intero bilancio della sua vita, e in

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quel preciso momento mi ritrovai spettatore di uno strano processo, sì, un processo in cui Felix era il pubblico ministero di se stesso per tutto quel che aveva fatto nella sua vita, per il suo carattere, i suoi peccati, e non riuscivo a capire perché avesse scelto proprio me, un bambino che conosceva appena. Accostò il suo viso al mio ed esclamò dal profondo del cuore: «Già, prima di nascere restiamo al buio per un milione di anni, e poi dopo morti la stessa storia! Buio di qua, buio di là! La nostra vita non è altro che un piccolo intervallo - paffete! - fra una tenebra e l'altra!.» Mi prese per le spalle e cominciò a scuotermi. «Per questo Felix dice: se dunque non siamo altro che comparse sul palcoscenico, allora Felix vuole lo spettacolo più bello che si può! Uno spettacolo in cui le parti le scrive lui! Uno spettacolo con più luci possibile, e colori, orchestra, applausi. Un grande spettacolo: circo! Con una stella al centro, cioè io. Cosa c'è? Non va? Non va bene?» Silenzio. Felix lasciò le mie spalle, respirava affannosamente. Pendeva dalle mie labbra, in trepida attesa di quello che avrei detto. Ed ecco che mi sfiorò un altro pensiero strepitoso: Felix aveva deciso che io sarei stato il giudice in quel processo. Non riuscivo a concentrarmi su quel che aveva detto. Io il suo giudice, ma insomma, chi sono io? Volevo che tutto finisse, volevo tornare a casa, ma volevo anche restare, sentire ancora, nessuno mi aveva mai parlato a quel modo, nessuno mi aveva mai permesso di accostarmi così tanto al luogo buio e spaventoso che è la vita degli adulti. Persino le storie di Gabi mi sembrarono improvvisamente così ingenue se confrontate con la vita di Felix, con i tormenti della sua anima... Lui continuava a parlare, mentre io tentavo di concentrarmi e di tenere a mente quel che era successo oggi, tutto quel che mi aveva detto, e come aveva recitato... sì, una specie di giostra: quando lentamente si ferma, le immagini vorticose pian piano si separano, diventano limpide, chiare. Mi resi conto che fin dal primo momento Felix aveva cercato solo di farsi voler bene da me, di far sì che lo capissi. Lo perdonassi. Ma perché proprio io? Perché aveva scelto proprio me come suo giudice? Sentii un brivido gelido salirmi dai piedi fino alla testa: di cosa dovrei perdonarlo? Cosa aveva fatto? Forse qualcosa che riguardava anche me? Qualcosa di cui ero ancora all'oscuro? Felix lesse tutto sul mio viso. Non riuscivo a nascondergli la paura, né la supplica di smetterla con quel velo di mistero, con quelle metamorfosi che mi facevano l'effetto di scariche elettriche: che si fermasse per un istante e dicesse finalmente la verità. «Ora ascoltami bene» disse senza guardarmi. E' una cosa seria, siamo in affari. Prima, quando ho avuto un piccolo attacco, quel mal di pancia, non sei scappato.» «Dove?» «Non lo so. Pensavo che, se un bambino vede un vecchio in quello stato, magari si spaventa. Magari per lui è disgustoso. Magari scappa via. Probabile! Ed ecco, io dico così: il signor Feierberg ha deciso che per dieci anni non mangia carne, vuole risarcire una mucca al posto di quella della corrida, fin qui tutto fila, no?» Dissi di sì. Non capivo dove volesse arrivare. «E il signor Feierberg adora la carne, al ristorante mi sono accorto di come rimiravi le bistecche. Ma bisogna astenersi ancora otto anni, non è vero?» «Otto e mezzo.»

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«Allora eccomi a questo piccolo affare che concludo con il signor Feierberg: Felix se ne addossa cinque. Cosa ne pensi? Affare fatto?» Mi tese la mano. «Non capisco» mormorai. Invece capivo benissimo. «Ascoltami bene: per cinque anni - purché Felix abbia ancora cinque anni da vivere - Felix non mangerà, non toccherà carne! Insomma, ti aiuto a fare quegli otto anni e mezzo che ti mancano.» «E'... è una buona idea, ma non... non si può.» Non ce la faccio. Perché, di nuovo, con quattro parole era riuscito a mettermi sottosopra, a confondermi e a farmi pentire di avere sospettato di lui, anche solo per un momento, e a farmi sentire di nuovo, mio malgrado, un grande trasporto nei suoi confronti. «Perché non si può?» urlò Felix. «Cosa c'è di male? Felix risparmia ben più di una mucca, in cinque anni! Una mandria intera, risparmia!» Non sapevo cosa rispondergli. Restai seduto tutto curvo, pensando che nessuno era mai stato così munifico con me. «Pensaci su» disse, «io mi limito a renderti un piacere. Felix non ama lasciare debiti.» Ma sapevamo tutti e due che era qualcosa di più. In quel momento udii dei passi in avvicinamento sulle scale. Felix si drizzò sulla sedia, passò frettolosamente una mano sui capelli e tentò di aggiustarsi un po' i vestiti. «Eccola che arriva» disse con voce leggermente tremula. La chiave girò nella toppa, esitò, si fermò. Forse chi la teneva aveva riconosciuto i segni dello scasso con il cacciavite. Uno spintone. Sull'ingresso apparve la figura longilinea di Lola Ciperola. La luce passava in filigrana attraverso la sua lunga silhouette. Lo scialle viola era posato sulle spalle. Quasi fosse animato, si alzava leggermente quando lei si muoveva.

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CAPITOLO 17. L'INCOLMABILE DISTANZA FRA I LORO CORPI. «Chi è là?» domandò una voce profonda, roca, quasi maschile. «Ah... amici» disse Felix immerso nella poltrona. Le dava la schiena, non si diede il disturbo di voltarsi. Lei non si mosse. Era in dubbio se entrare o fuggire via. Ma lo sapevo anch'io che, una donna come lei, non era capace di fuggire di fronte al pericolo. «Non ricordo di aver invitato qualcuno stasera» aggiunse seccamente, con la mano inguantata ancora sulla maniglia della porta. «Solo un vecchio e un bambino» borbottò Felix dentro il suo bicchiere di vino. «Un bambino?» Annuii debolmente. «Io non conosco nessun bambino. Non voglio bambini qui. Fuori!» Saltai in piedi, pronto a tagliare la corda. «Non è un bambino comune» disse Felix, facendomi segno di sedere. «Questo bambino le piacerà.» Che strano: un tono scherzoso, provocatorio, aleggiava fra loro. Si parlavano come due attori sulla scena. Per tutto quel tempo Lola Ciperola non si era mossa, mentre Felix continuava a voltarle la schiena. «E perché il bambino è vestito da femmina?» domandò lei. Ohimè. Mi ero completamente scordato di avere la gonna! «Perché, come lei, sta un po' recitando» rispose Felix. Ora Lola si era fatta prudente. Mi accorsi che stava studiando le parole da usare. «E lo sa, il bambino, quale parte sta recitando?» Silenzio. «Ogni attore conosce solo e soltanto la propria parte» disse Felix dopo aver riflettuto, «ma non sa cosa gli altri vedono in lui.» Non riuscivo a star dietro ai suoi enigmi. «Quella gonna...» tuonò improvvisamente Lola Ciperola venendo vicinissima a me, tanto che vidi lo stupore e il trauma nei suoi occhi. Non avevo idea di cosa la spaventasse tanto nella mia gonna. Tentai di tirarla verso il basso, di nascondere le mie gambette. Lola Ciperola si rivolse a Felix bruscamente: «Tu... tu... tu sei capace di tutto! Non hai limiti!.» «Né leggi» concordò amabilmente lui. «E a quanto pare anche il bambino, guarda caso, è un tuo grande ammiratore...» Così dicendo Felix si alzò e, in tutta la sua statura, si presentò davanti a Lola Ciperola. Erano molto vicini e si guardavano negli occhi. Mi accorsi che lei teneva il capo un po' all'indietro, quasi si fosse arresa, ma poi si drizzò subito, e il suo sguardo si fece più limpido; stava per dire qualcosa, ma Felix le prese la mano, senza il minimo timore, e la condusse alla poltrona. «Si sieda, prego!» disse con tono imperativo, e Lola Ciperola gli ubbidì, sedendosi come imbambolata. «Servimi qualcosa da bere» disse con un filo di voce, strofinando i piedi per togliersi le scarpe. Felix andò al tavolo nell'angolo, lesse le etichette sulle bottiglie, e versò un vino scuro e denso in un bicchiere. Lola Ciperola annuì. «Una notte giunsero in casa mia un vecchio e un bambino...» mormorava fra sé. Frugò nella borsetta con le mani tremanti e ne estrasse un pacchetto di sigarette. Felix le porse un accendino d'oro. Una fiammella risplendette tra loro. Lola Ciperola aspirò il fumo, senza staccare lo sguardo da Felix. La sta ipnotizzando, pensai. Come il macchinista della locomotiva, come il poliziotto. E me. Mi delude il fatto che si sia arresa con tanta facilità. «Presentati, bambino» bisbigliò Felix, fissando Lola. Presentarmi a lei? Recitare? Davanti a Lola Ciperola?! «Io... io non...»

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«Amnon.» E allora, forse perché per la prima volta mi aveva chiamato con il mio vero nome, forse perché non m'importava più di niente... «Sì, presentati, recita, Amnon» disse anche Lola Ciperola, scandendo il mio nome, lettera per lettera. «Io non... io...» In un angolo, fra le piante, vidi un'ombra in movimento, qualcuno che a fatica si alzava facendomi dei segni con le mani. "Iuhu!" urlò Gabi verso di me. "Su, presentati! Fa' la tua parte!" "Non sono capace." L'ombra massiccia saltò goffamente, strappandosi i capelli stopposi. Feci un cenno deciso di no. L'ombra parve rimuginare qualcosa fra sé, poi si drizzò, alzò una mano e si mise l'altra sugli occhi, come faceva Gabi quando imitava Lola. "Ho paura di lei!" imploravo Gabi. "Alzati, Nono cuor di leone! Ti aiuto io!" "Brava! Facile fare l'eroina quando non si è qui! Ho visto come tremavi quando ti sei trovata davanti a lei!" "Sta' zitto e ascolta: si comincia!" Mi alzai in piedi, anche se avevo le gambe molli. Non guardai Lola Ciperola. Tentai di dimenticare dove mi trovavo, dimenticare che lei si era tolta le sue scarpe viola ed era rimasta scalza, con dei normali piedi da donna ripiegati sotto il sedere. E che io indossavo una gonna, una camicetta e dei sandali da bambina. E che tutto era fuori da ogni schema e illogico. Continuavo a fissare quell'angolo con le piante. Con tutta l'immaginazione di cui disponevo vestii l'ombra scura con gli abiti perennemente neri di Gabi, perché il nero snellisce e perché lei portava il lutto per quella donna magra sepolta sotto i suoi rotoli di ciccia; poi sistemai il volto bonario di Gabi con il naso a patata sempre rosso, le lentiggini e la bocca un po' da rospo. Come quando, mentre sta lavando il pavimento o pelando una cipolla, d'un tratto si interrompe e tace, ascoltando una voce lontana che la chiama. Lo so quel che sta per capitare, e sorrido, mentre Gabi alza un braccio, si tira un po' su e comincia a parlare con quella voce roca, profonda, maestosa: «O terra del mio arido giardino... oh, allodole orbe», poi fa un principesco inchino, afferrando pudicamente gli orli del vestito, e si copre gli occhi che lacrimano per la cipolla. «Il principe non c'è più, maestà, è andato molto lontano con la carrozza nera, come potrò ancora chiamarmi Fedele, visto che sono rimasta qui, visto che non l'ho seguito laggiù, oltre l'ultimo confine?" Non ricordo quando esattamente mi unii a Gabi. All'inizio mi sentivo sprofondare dopo ogni parola, ma a poco a poco la mia voce divenne ferma, e ci riuscii, mi lasciai prendere, credo di ricordare che ebbi persino l'ardore di muovere le mani un po' come Gabi, come Lola Ciperola... Proprio così. Dove avevo trovato la faccia tosta di recitare davanti a lei? Sentivo ogni tanto lo scricchiolio della poltrona, la bottiglia che tintinnava contro il bicchiere. Non guardai, non aprii gli occhi. Continuai a parlare. Forse, per la stanchezza, avevo accantonato la vergogna. Forse mi aiutò il fatto che Gabi stesse parlando nelle mie corde vocali, fosse lì con me, mi proteggesse: credetti persino di vedere la sua figura confondersi con quella di Lola Ciperola seduta davanti a me, per ammorbidirla un po', come chiedendole un favore fra donne: di badare a me al suo posto. Sì, mi pareva che, dopo un giorno intero passato da solo con Felix, l'imprevedibile, caotico, estenuante, pericoloso Felix, mi ci volesse davvero questa tranquilla e gelida Lola Ciperola. Continuai a parlare fino al punto in cui toccava all'attore Aharon Meskin, che doveva rispondere a Lola Ciperola nei panni del

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vecchio re. Lì conclusi. O mi esaurii. Stanco e sconvolto di me stesso, mi accasciai sulla poltrona. Ora, dormire. Sentii tre lenti applausi. Era Lola Ciperola. Stava seduta in poltrona, con il poggiapiedi. Aveva vicino un lungo bicchiere. Gli occhi erano pieni di lacrime. Non una sola, come in quella fotografia appesa al muro, bensì molte, che scorrendo le aprivano due solchi nel cerone: d'un tratto mi resi conto che non era più così giovane. «Sei dotato, bambino» disse con la sua voce altisonante, roca e profonda come quella di un uomo. «Hai un talento innato da attore.» Poi guardò verso Felix: «Hai chiesto al bambino da dove gli viene?.» Rispose con l'aria dell'ingenuo: «Gliel'ho chiesto. Non lo sa. C'è una donna, si chiama Gabi, amica del suo signor papà, che gli ha insegnato recitazione. Forse viene da lei, chissà?.» Avrei voluto spiegare un po' di Gabi ma temevo di rubare troppo tempo a Lola Ciperola, dilungandomi nei particolari. Lei si alzò, prese in mano la lampada cinese e si tirò dietro il filo. Mi girò intorno scalza, guardandomi di sottecchi con grande curiosità. Non osai muovermi. Ricordo anche la delusione nel rendermi conto che non era più così giovane. Chissà perché avevo sempre pensato che fosse più o meno coetanea di Gabi... «Non venerare nessuno, bambino» disse. Il suo profilo mi apparve accanto in un fascio di luce gialla. «Nessuno è degno di essere venerato, Amnon.» Si pulì il naso con il dorso della mano, come fanno i bambini. Solo che lei aveva un guanto di seta viola. Mi sembrava impossibile che una donna come lei - con la celebrità, con tutto l'amore di cui era oggetto, e con tutta la sua arte - fosse infelice. «Dannato il mio mestiere» brontolò, scoppiando poi in una lunga, amara risata. Quando mi passò vicino, sentii un lieve tocco sulle guance e rimasi elettrizzato: il suo scialle mi aveva sfiorato. «I mestieri che riguardano i sentimenti della gente sono i più pericolosi...» continuò, versando un po' del suo vino nel bicchiere di Felix e sfoderandogli un sorriso da palcoscenico. «Forse è più semplice fare... l'equilibrista? Il mangiatore di fuoco? Lo scalatore? Il corpo... il corpo parla sempre e solo una lingua. Il corpo è sincero. Non mente... Ma chi per tutta la vita fa uso dei propri sentimenti per farne provare agli altri, per toccarli nella coscienza, finisce per perderli...» Si portò le mani alla bocca e si sedette. Non riuscii a capire se quel che aveva detto fosse farina del suo sacco o se avesse recitato come sulla scena. Non riuscivo a capire se dovevo prenderlo come un segnale per far partire l'applauso. Mi astenni. «Non vi ho nemmeno domandato chi siete» disse con la sua voce modulata e piena di echi. «Cioè, in veste di chi desiderate apparire qui da me.» «Il bambino in veste di bambino. Mentre io, be', come sempre: di attore errante. Mago. Ladro. Svaligiatore di casseforti e di cuori.» «Oh, il signore è un ladro?» domandò Lola Ciperola stancamente, gettando la testa all'indietro. «Qui non c'è più niente da rubare. Solo ricordi.» E con un ampio gesto della mano indicò la parete coperta di foto. «I ricordi non si possono rubare» disse Felix, «soltanto alterare. Ma io mi accontento di alterare i miei.» «Spiegati!» chiese Lola, agitando il bicchiere e scuotendo leggermente la gamba. «Cosa c'è da spiegare?» rise Felix. «C'è forse qualcuno a cui piacciono i brutti ricordi? Per questo cerco di rendere un po' più affascinanti i momenti peggiori della mia vita. Di rendere ancora più

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affascinanti le donne che ho amato. Di aumentare il denaro nelle banche che ho svaligiato...» Conversavano quasi senza guardarsi, parlavano dentro i bicchieri. Tuttavia c'era fra loro grande intimità, un'intimità occulta come se si conoscessero da lunghi anni. E io, anche senza comprendere quel che stava succedendo, intuii che stavano compiendo uno sforzo immenso: quello di due persone che si trattengono dal parlarsi come gente comune che si rivede dopo molto tempo. «E il bambino... come hai fatto a portare il bambino, Felix?» Non ricordavo che lui le avesse detto il suo nome, ma forse non avevo fatto attenzione. D'un tratto Lola Ciperola si drizzò sulla poltrona e lo fissò con uno sguardo penetrante, tremendo: «E' tutto in regola, Felix? Il bambino, intendo. Avevi l'autorizzazione? O non è che cominci di nuovo a...?.» «Il bambino? Il bambino è venuto da solo, spontaneamente... non è vero, bambino?» Annuii. Non ce l'avrei fatta a raccontare tutta la storia in quel momento, come papà e Felix si erano conosciuti e stretti virilmente la mano, e tutto il resto. «Felix» disse Lola Ciperola con una voce improvvisamente fredda, tagliente, «guardami negli occhi, Felix: badi a lui? Non gli farai niente? Non sarà mica uno dei tuoi scherzi, Felix? Rispondimi!» Dopo quel suo strano urlo calò il silenzio. Felix chinò il capo. Io le feci un sorriso rassicurante, ma mi rendevo conto che per qualche ragione quell'urlo era penetrato dentro di me e si rigirava come un coltello nella piaga. Pensai che, se solo ne avessi avuto il tempo, se solo ci fosse stato un unico istante senza parole e avvenimenti, forse sarei riuscito a capire quella cosa inquietante e oscura che mi aveva angosciato nelle ultime ore, forse sarei riuscito a prestare orecchio a quella domanda che continuava a ronzarmi nei meandri del cervello - la domanda su Felix e su questo viaggio avventuroso, su come mai papà si era rivolto a lui, e su dove si erano incontrati stringendosi la mano... «Non preoccuparti, Lola» disse Felix alla fine, con un sospiro. «Io e Amnon trascorriamo insieme un giorno o due, ecco tutto. Ce la spassiamo. Facciamo un po' di cancan. Facciamo ammattire la nostra polizia, è solo un gioco, Lola, sono prudente con lui.» Non capivo cosa la preoccupasse tanto. Mi osservava con uno sguardo cupo, agitato. Una riga tortuosa solcò la fronte, sopra gli occhi. «Bado a lui, Lola» ripeté Felix dolcemente, «è solo un gioco... non com'è stato una volta... ora non capiterà nulla... e, quando lui vuole, torniamo immediatamente a casa sua... è la mia ultima apparizione, Lola, prima che cali il sipario. Ho aspettato tanto questo momento. E fra qualche giorno lui farà il bar-mitzvah, così ho pensato: è giunto il momento di conoscerci, io e Amnon.» «Sì...» mormorò Lola Ciperola con aria assente, «questa settimana farai il bar-mitzvah... agosto... 12 di agosto... sì.» Come faceva a saperlo? Quando gliel'aveva detto, lui? Ma se ero sempre stato qui con loro! Forse mi ero assopito un istante. Lola si rivolse a Felix: «Ma cos'hai detto? Il sipario che cala? Lasci la professione?.» «La professione, sì» e non aggiunse altro. L'attrice lo guardò e fece una smorfia. «E' successo qualcosa, Felix? Hai qualche malanno?» chiese affannata, con una voce tutta diversa, con una sfumatura calda e affettuosa che spezzò il tono di sempre, stridulo e pesante, teatrale, da prima donna. E finalmente Lola tese la mano, attraversando quell'immensa, incolmabile distanza fra loro, e gli toccò la spalla;

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Felix piegò leggermente il viso, per sfiorare con la guancia la mano di lei, e si guardarono negli occhi. In quel momento ebbi la certezza che si conoscevano da molto tempo, e che si trattenevano a forza dall'avvicinarsi, dall'abbracciarsi. «Va tutto bene, Loli» disse Felix con l'aria stanca. ¢E' solo la vecchiaia. E un po' il cuore. E' vecchio, il cuore. Spezzato. E dieci anni di prigione non sono certo una casa di cura. Ma andrà tutto bene.» «Sì» lei lasciò sfuggire un lungo, amaro sogghigno, «andrà tutto bene. Come sempre, vero? Nulla va bene, Felix. Quel che abbiamo perso non lo riavremo mai più... come è andata in frantumi questa vita...» «Ora rimedieremo» disse Felix. «Io sono qui per rimediare a tutto, a tutto quel che è andato perso.» «Non si può rimediare a niente» disse sottovoce Lola Ciperola. «No, no» le rispose lui, accarezzandole teneramente la mano. «Io riparavo sempre... dove passa Felix, torna la luce... la gente resta ancora un po' ebbra... sogna che il mondo possa essere migliore...» Lola rise sommessamente, e mi parve che al tempo stesso piangesse: «Sei incorreggibile, Felix» disse, «ma io voglio crederti. A chi dovrei credere, se non a te?.» «Si può credere solo agli impostori. E' vero.» «Giuramelo.» «Lo sai che a te posso solo promettere, Loli. Giurare mai.» Lei rise di nuovo. Metà del suo viso era immerso nel buio e una debole luce si posava sulla chioma grigia. Spense la sigaretta nel posacenere poi, come sulla scena di Anna Karenina, entrò lentamente nel fascio di luce, alzò gli occhi e guardò Felix. Lo guardò come una giovane donna guarda un uomo. I suoi occhi stanchi si riempirono di sorriso, e d'amore. «Dove sei stato per tutta la mia vita?» chiese. «Già, non c'ero mai abbastanza» sospirò, «una visitina e poi subito via di corsa. Poi, negli ultimi dieci anni, ho avuto delle faccende urgenti da sbrigare, lo sai...» «Certo che lo so...» e tirò su con il naso, appoggiandosi allo schienale della poltrona. «Dieci anni. Ogni giorno ti maledicevo, e mi mancavi. Ero contenta che te li avessero dati. Uno scotto così pesante. Ti toccava.» Lola parlava serenamente, senza guardarlo. «Ma poi gli anni passavano, cinque, sei, sette, e l'odio scompariva. Quanto si può andare avanti a odiare? L'odio è fragile come l'amore, comunque è tutto un gioco. Com'è che mi dicevi? Solo un breve intervallo di luce fra una tenebra e l'altra. Cin cin!» Lui levò il suo bicchiere: «Cin cin, alla tua, Loli. Alla tua bellezza e al tuo talento.» «Che strano» disse lei sorridendo fra le lacrime, «finalmente incontro una persona che mi sembra autentica, e questa si presenta come un esperto di impostura.» Con un gesto garbato si tirò via dai capelli una molletta dopo l'altra e una cascata folta e grigia si liberò, adagiandosi sulle spalle. «Parlami ancora un po' di te» disse, «raccontami tutta la storia...» Felix tese la mano, afferrò una ciocca dei suoi capelli, l'accarezzò. Pensai che nessun altro al mondo avrebbe avuto l'ardore di fare una cosa del genere a Lola Ciperola. Lei non protestò. Abbassò la testa e si mordicchiò le labbra. Lui fece scorrere tra le dita la ciocca di capelli e cominciò a canticchiare qualcosa. Una melodia sommessa e dolce. A voce bassissima. Nel giro di un istante lei

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lo accompagnava. Avevano l'aria di due vecchi bambini che si cantano la ninna nanna, e tutto in quella stanza divenne tenero, come in un sogno. Anche i miei occhi si chiusero. Pensai che forse sarebbe stato meglio telefonare a casa. Avrei dovuto parlare con papà e Gabi, raccontargli dove mi trovavo, ringraziarli per la loro magnifica idea e poi chiedere a Gabi come mai era all'oscuro del legame esistente tra Felix Glick e Lola Ciperola, fra lo scialle viola e la spiga d'oro. Forse lo sapeva e non mi aveva detto niente. Ma com'era possibile che una donna famosa come Lola Ciperola fosse al corrente della data del mio compleanno? Chi gliel'aveva detto? Cosa stava succedendo qui? E perché mi sentivo come un burattino di cui qualcuno tirava i fili, facendogli muovere un passo dopo l'altro verso una certa meta? Chissà poi chi mi aspettava, in quel luogo. Mi svegliai di soprassalto al rumore delle persiane. Per un attimo pensai che fosse già mattina, ma fuori era buio pesto. Ero ancora seduto nella poltrona in cui mi ero addormentato. L'orologio a muro segnava le due. Felix e Lola Ciperola erano accanto alla finestra aperta e guardavano fuori. Lei teneva la mano sulla spalla di lui, che le cingeva i fianchi. Mi sentii sprofondare per l'imbarazzo. Lola Ciperola indicò un punto lontano e Felix annuì. La sentii dire qualcosa sul mare che le era stato rubato. Il braccio di lui salì fin sulla spalla, come per consolarla. Lola appoggiò la testa sull'omero di Felix e disse: «Le persone come te esistono solo nelle favole.» «Visto com'è la vita in questo nostro mondo» soggiunse Felix, «è solo nelle favole che possiamo davvero vivere un poco. Non è così?» Tossii, per far sapere che ero sveglio. Lola Ciperola si voltò e sorrise. Un sorriso incantevole, non da attrice. Da donna serena rivolta a un bambino cui vuole bene. Felix domandò: «Se io e Amnon ci riusciamo, gli farai dono del tuo scialle?.» Tastandolo, Lola Ciperola continuava a sorridermi. «Se ci riuscite, è vostro.» «In cosa dovremmo riuscire?» chiesi, intontito. Delicatamente, come se fossi di un materiale fragilissimo, lei tese la mano, passandomela davanti al viso. Non mi mossi. Morivo dalla voglia, ma non sapevo di cosa. Poi le sue dita mi accarezzarono. Mi posò sul viso la sua mano lunga e tiepida, facendola scivolare dal mento fino alla fronte. Aveva una pelle vellutata, così diversa dalla sua voce di quando recitava e dal suo viso austero. Le dita si fermarono delicatamente sui miei occhi, solo sfiorando, e uno si fermò lì in centro, proprio in quel punto, ma non udii nessun ronzio, non sentii il motorino azionarsi come un insetto, solo gli occhi sentivo, sempre più grandi e dilatati sotto il suo tocco morbido, finalmente limpidi e lucidi. «Se riuscirete a riportarmi il mare che mi hanno rubato» disse Lola tranquillamente. Non riuscii a parlare, non capivo. Annuii dentro la sua mano. Avrei fatto qualunque cosa per lei. «Dimmi un po', signora Ciperola» s'intromise Felix dopo un momento di riflessione, «ce l'hai, per caso, un bulldozer?» CAPITOLO 18. COME UN ANIMALE NOTTURNO. Lola Cipèrola si passò una mano nei capelli: «Bulldozer? Scavatrice? Ne avevo giusto una....» Corse al frigorifero e lo aprì, gridando dalla

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cucina: «Ah! Ho appena buttato via l'ultima... Che stupida!.» «Magari in qualche cassetto...» mormorò Felix, aprendo prontamente la sua valigia. Ci frugò dentro, ne estrasse una orrenda parrucca, se la mise in testa e si dotò anche di un paio di baffetti (doveva averne portato un'intera collezione) e di due protuberanze pelose sul mento. Lola gli lanciò uno sguardo, corse in un'altra stanza e tornò con una camicia lacera e dei pantaloni rattoppati, tutto quel ch'era rimasto di un suo vecchio spettacolo. Insomma, in un istante Felix era diventato un miserabile, schivo accattone, un po' gobbo, che trascinava la gamba sinistra malata. «Come andiamo, signor Feierberg? Siamo stanchi o siamo pronti a partire per un lavoretto notturno?» Ero piuttosto a terra, ma non volevo rinunciare. Domandai dove eravamo diretti. «Ti spiego tutto per strada. Poi torneremo per lo scialle. E anche per Lola.» «Non dimenticare» disse lei, sventolandogli lo scialle sotto il naso come per sedurlo, «solo in cambio del mare. Di tutto il mare, nient'altro!» Negli ultimi minuti si era fatta gioviale e spensierata come una ragazzina. Il suo corpo ballava da solo. Non l'avevo mai vista così sul palcoscenico. «Olé!» tuonò Felix strizzandomi l'occhio. Poi accostò i pugni alle tempie con gli indici puntati, pronto a incornare lo scialle, e Lola Ciperola fece un balzo, lasciandosi sfuggire uno strillo spaventato. Caricò come un toro a testa bassa, e Lola si chinò su un ginocchio accanto alla poltrona, imprimendo allo scialle un movimento circolare, facendolo volteggiare in aria. Felix si fermò scalpitando e rise, finché non mi vide. «Chiedo scusa!» esclamò, improvvisamente cupo in volto. «Era solo uno scherzo! Me n'ero scordato!» disse dandosi una botta sulla fronte. Va bene. «E' successo qualcosa?» chiese Lola, che nel frattempo si era alzata e riavvolta nello scialle. «Sono uno stupido...» brontolò Felix, «voglio soltanto vedere Amnon sorridente, ma ogni volta faccio qualche scempiaggine, e lui lì con quell'aria triste...» Lola non capì. Come avrebbe potuto? Ci guardò entrambi, poi disse: «Voi due mi nascondete qualcosa.» E sorrise: «Bello.» Poi, d'un tratto, Lola ci strinse entrambi fra le braccia e mi stampò un bacio sulla fronte. Purtroppo non c'erano fotografi, non scattò nessun flash. Lola Ciperola mi aveva baciato! Gabi sarebbe svenuta. Gabi mi avrebbe immortalato la fronte. Poi Lola baciò Felix. Sulla fronte, e sulla bocca. Lo baciò a occhi chiusi. "Felix non ha avuto amici" ricordai, "solo una donna." E per dieci anni non si erano visti. Evidentemente i dieci anni in cui Felix era stato in prigione. Lola Ciperola era forse quella donna, la sua amica? D'un tratto le cose cominciavano a collegarsi, come in un mosaico, ma il nesso era assai più misterioso e inquietante dell'enigma in sé. «Magnifico!» esclamò Felix in tono di giubilo. «Amnon e Felix vanno a prendere il mare! A che ora del mattino la signora si sveglia?» «Ai giornalisti racconto che non apro mai gli occhi prima delle dieci» disse Lola con un tono malizioso, «e questo fa crepare d'invidia alcune mie amiche. Ma la verità è che alle cinque sono già in piedi. Le persone anziane come me non dormono più molto.» Anche quelle giovani come me, pensai. Mi nascosi dietro una delle grandi poltrone, mi tolsi la gonna e la camicetta e tornai ai miei soliti vestiti. Felix mi rivolse uno sguardo carico di stupore: «E se ti vedono così?.» «Riesco a correre meglio con i miei pantaloni e le mie scarpe.» Meditò

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un momento. Strinse le spalle. Va bene. Poi si rivolse a Lola: «Alle sei di questa mattina Amnon e Felix ti restituiranno il mare. Per ora spegni tutte le luci e va' a dormire.» «Non sarai tu a dirmi cosa devo fare» rispose lei seccamente, «e si dà il caso che io abbia dei programmi per questa notte, mentre voi scorrazzerete fuori.» Ci lasciò sulla porta, mandandoci dei baci. Scendemmo in strada. Fuori era buio e faceva un po' freddo. Le fronde degli alberi stormivano leggermente, la luna era grande, bianca e quasi piena. Pensai che in quel momento tutte le persone che conoscevo stavano dormendo. La gente normale, i dilettanti, stavano tranquillamente sognando, mentre io e Felix Glick, il mitico fuorilegge, eravamo padroni delle strade immerse nel buio. «Ora facciamo così.» Felix mi fermò: «Io vado per primo. Tu resti cinquanta metri indietro. Se c'è un problema, poliziotti o qualcosa, pss! ti nascondi subito! Poi torni a casa di Lola. Non aspettarmi per strada!.» «Ma dove stiamo andando?» «Al mare. C'è un problema laggiù. Noi andiamo alla spiaggia, cerchiamo un bulldozer. E' un lavoro facile. Andiamo, facciamo quel che dobbiamo fare, tanti saluti, arrivederci e molte grazie.» «Un momento, non capisco: qual è il problema?» «Te lo spiego dopo! Ora dobbiamo andare!» Sparito. Persino prima del suo Heide e senza darmi modo di vedere dove: un'ombra nel buio, e via. Affiorò nuovamente a qualche decina di metri di distanza. Non riuscivo a capire come avesse fatto. Di corsa? In volo? Era riapparso all'improvviso in fondo alla strada, camminava a passi lenti, gobbo, trascinando la gamba malata. Lo seguii, badando a mantenere la distanza stabilita. Mi guardai intorno prudentemente, per vedere se c'era qualcuno nei paraggi. Che strana situazione: seguivo una persona che voleva essere seguita, e al tempo stesso dovevo stare in guardia da un eventuale inseguitore. Camminavo in silenzio, attento a non fare rumore. Mi sentivo vulnerabile. Ero un po' teso. Forse sono già qui, quelli che mi seguono. Cercavo di ragionare come loro: la polizia sta cercando un vecchio e un bambino scesi dal treno. Chissà se sanno già che il dirottatore del treno è Felix Glick. Conoscendoli, gli ci vorrà qualche ora per mettere insieme un identikit, fare un raffronto con le foto dei ricercati, trovare la spiga d'oro che Felix aveva gettato verso la locomotiva. Ma al poliziotto con i brufoli aveva mostrato una patente con il suo vero nome. E gli aveva anche rubato l'orologio. Solo per farmi ridere? No. Non solo. Con Felix non c'era niente che fosse "solo". C'era sempre un motivo in più, una ragione misteriosa. Ma quale motivo? Perché si era scoperto dando il suo vero nome? Perché il poliziotto cominciasse a sospettare. E cercasse di farsi venire in mente il nome del vecchio automobilista. Me lo immaginavo, lì a grattarsi la fronte coperta di brufoli. Il nome Felix Glick gli diceva qualcosa, ma vagamente. Quando Felix era finito in prigione, quel poliziotto era ancora in età da giocare a guardie e ladri. Allora aveva aspettato ancora un'oretta e, finito il turno, era andato a casa e aveva chiacchierato con la moglie prossima a partorire. Le aveva riferito quel che il vecchio aveva detto dei bambini, cioè che cambiano la vita delle persone. Le aveva domandato se per caso aveva visto il suo orologio. Era quasi sicuro di averlo prima dell'incontro con il vecchio e la nipotina

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con la treccia. E di nuovo a lambiccarsi il cervello, cosa gli diceva quel nome, Felix Glick? L'aveva forse visto scritto, pubblicato da qualche parte? Era nervoso, insofferente. Aveva detto a sua moglie: torno subito, ed era andato alla centrale di polizia. Forse aveva dimenticato l'orologio nell'armadietto. Ma l'orologio non c'era. Il poliziotto era entrato nella stanza di uno dei suoi superiori, uno che aveva molta anzianità di servizio e ricordava fatti avvenuti vent'anni prima. Uno dell'epoca di mio padre, per esempio. «Mi dica una cosa» aveva esordito un po' incerto, «ha mai sentito il nome Felix Glick?» E di colpo la faccenda era esplosa come un fuoco d'artificio, mettendo in moto un gigantesco meccanismo. Felix voleva che la polizia sapesse che era stato lui. E' più divertente scappare, se c'è qualcuno alle calcagna. Lui aveva bisogno di condire tutto col rischio. Lo guardai ammirato. Zoppicava davanti a me, ingobbito, con un'aria da derelitto. Che attore. Papà sapeva quel che faceva. C'erano cose che solo un delinquente come Felix poteva insegnarmi. Ci sono cose che solo il vero rischio può fare conoscere. E non si può diventare il più bravo detective del mondo senza imparare queste cose. La sensazione di trovarti solo nel cuore della notte, in procinto di compiere un'azione fuorilegge, braccato dalla polizia, sapendo di poterti fidare soltanto di te stesso, del tuo intuito e del tuo coraggio. Pensai che papà poteva fidarsi di me. In fondo non aveva fatto che prepararmi a questa notte; capii di colpo che la mia vita non era stata che preparazione, esercizio. Ogni cosa forniva lo spunto per una lezione di investigazione, di lotta per la sopravvivenza. Andavamo a fare la spesa insieme, per esempio, parlavamo del più e del meno, e improvvisamente mi diceva: «Guarda questa strada», e io riconoscevo subito quel tono di voce speciale, didattico. «Per otto persone su dieci questo è il luogo dove fare la spesa, incontrare degli amici, prendere l'autobus, mentre due lo vedono in modo completamente diverso. Uno dei due è un delinquente, e l'altro... sei tu. Il poliziotto.» (Io, modestamente, mi gonfiavo un pochino.) «Il delinquente vede, qui, dei possibili nascondigli, tasche da ripulire, borsette aperte, serrature cedevoli, e soprattutto vede te, Nono, il detective mascherato da innocuo passante. E tu, il detective, tu cogli tutta la via con uno sguardo, ignorando gli innocui passanti! Li scarti immediatamente e non riguardano più né te né tua nonna!» (La nonna Zitka sfrecciò a volo libero sopra i miei occhi, a cavallo di una scopa, incurante degli ingenui passanti.) «Tu devi vedere solo ciò che conta: il ragazzo con uno sguardo un po' inquieto, i due che stanno appiccicati a una vecchietta in coda per l'autobus, il signore che corre con uno strano pacco in mano. Esistono solo loro! E' contro di loro che stai conducendo la tua battaglia!» Mi piaceva andare a spasso con lui. Aleggiava su di me un senso di responsabilità. Se incontravo un compagno di scuola, annuivo e continuavo per la mia strada, per non distrarmi dal mio dovere. A volte mi faceva una gran pena la gente normale, quegli otto innocenti che camminavano senza il minimo sospetto del pericolo imminente e del duello mentale che si svolgeva sopra le loro teste. Erano magari anche più vecchi di me, ma quando andavo per le strade in missione, con papà, facevo loro da padre. Procedevo troppo in fretta, mi avvicinavo troppo a Felix. Non andava bene. Si vedeva che ero teso. Non potevo espormi in questo modo. Nessuno

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doveva capire che ero in azione. Sono un bambino che torna a casa molto tardi da una gita con gli scout. Ho fatto bene a indossare i miei vestiti. A un'ora del genere una bambina da sola dà maggiormente nell'occhio. Senza contare che mi sento meglio ora che sono tornato maschio. Non che stessi poi tanto male nei panni di quella bambina. Ci ero già un po' abituato. Dov'è Felix? Di nuovo sparito. No, rieccolo. Un cane abbaiò contro di lui. Un cagnolino arruffato. Abbaiava da un giardino. Non va bene. Attira l'attenzione. Felix si allontanò in fretta, con il suo passo zoppicante. Ma altri cani cominciarono ad abbaiare. Dentro le case. Nei giardini. Al secondo piano si mosse una tenda. Forse qualcuno si era avvicinato alla finestra per vedere cosa succedeva. Felix aveva detto che lui attirava sempre i cani. Quanto a me, ero stato morsicato già almeno dieci volte. Anche i cani più educati e tranquilli uscivano di testa quando passavo nei loro paraggi. Una volta mi aveva morsicato persino un cane per ciechi! Avanti. Non pensare. Tutta la città stava abbaiando contro di noi. Le mie gambe correvano da sole. Come se qualcuno continuasse a chiamarmi. A invitarmi: vieni, vieni... forse perché ero così solo. Lontano da Felix, lontano da mio papà, e sopra di me, sulla bianca luna, il viso si corrugava, le espressioni cambiavano: eccomi sospinto in avanti. Dove? Da chi? Zohara mi raggiunse. Era molto bella. Rigida e severa. Quanti anni avrebbe oggi, se fosse viva? Trentotto. Come le mamme dei miei compagni. Come sarebbe la mia vita se lei fosse ancora qui? Gabi non sarebbe con noi. Ma avrei una mamma. Non che mi mancasse nulla, al momento. Me l'ero cavata bene senza di lei in tutti quegli anni. Vorrei solo sapere qualche particolare. Ecco tutto. Concludere la piccola indagine appena iniziata. I cani si calmarono e scese un silenzio assoluto. Il silenzio di una città addormentata. Ero una specie di pantera in caccia. Un animale notturno. Nelle case sopra di me dormivano dei bambini, senza nemmeno immaginare di cosa era capace un loro coetaneo. Un bambino fuorilegge. Un bambino di un'altra legge. Al solo pensarci mi vennero i brividi. Alla fine della settimana farò il bar-mitzvah. Verrà tutta la polizia. Papà mi ha anche promesso di farmi salire di grado. Avevamo stipulato questo accordo. Nel corso degli anni ero già diventato sottotenente, e sabato sarei diventato tenente! Faremo la nostra solita cerimonia, dovrò scolarmi un bicchiere di birra chiara, come un vero uomo, e lui mi darà i gradi. A dire la verità, era ora. Da un anno e mezzo non avevo più avuto avanzamenti, per la faccenda della mucca. Mi fermai atterrito. Una volante della polizia aveva parcheggiato sul marciapiede di fronte. Come un fulmine mi raggomitolai nell'ingresso di un giardino, e dopo qualche secondo diedi un'occhiata furtiva. Sulla volante c'erano due poliziotti che chiacchieravano tranquillamente. Una luce azzurrognola lampeggiava annoiata sul tetto della macchina. La radio trasmetteva della musica. Due robusti agenti di pattuglia che se la prendevano comoda. Seduti in auto a chiacchierare. Venduti. Non riuscirò a passare inosservato. Guardai a destra e a sinistra, la strada era deserta. Un'occhiata anche in alto, chissà mai non ci sia una vedetta sui tetti. Via libera. Uscii dal giardino correndo lungo il muretto, piegato in due. Li evitai facilmente. In fuga dalla legge. Facile! Come un'ombra nera passai accanto a loro. Che svogliati, che pigri. Scemi, risi dentro di me. Orsi. Al primo incrocio mi alzai e

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ripresi l'andatura normale, con le mani in tasca. Anche Felix era ricomparso dalle tenebre. Avevamo evitato i poliziotti con la stessa tecnica. Fischiettavo fra me e me, cominciavo ad avvertire una sensazione meravigliosa. Estasi, l'avrebbe chiamata la nostra signora. Come se solo io e Felix vivessimo davvero, mentre gli altri non fossero che comparse. Noi gli avevamo dato l'ordine di dormire, e tutti avevano obbedito. E chi non dormiva non era propriamente sveglio, forse sognava a occhi aperti. O sognava di essere sveglio. Solo noi due, io e Felix, eravamo svegli, vigili e attenti. Passavamo come ombre per le strade buie. Estranei. Noi eravamo di un'altra specie. Un filo sottile ci separava da loro. Se ora un bambino si fosse svegliato e, ancora in pigiama, avesse guardato dalla finestra, mi avrebbe visto e avrebbe pensato che ero un sogno, il fantasma di un pipistrello umano. O un uomo rana. Camminavo rinfrancato. Diedi un calcio alla ruota di una macchina parcheggiata. Così, tanto per fare. E allora? E' tutto mio, qui. La strada, la città. Voi dormite, e io vago intorno a voi, imprevedibile, pericoloso, non appartengo a nessuno. Se ne ho voglia, vi posso demolire mezza città. Anche bruciare, perché no? Poverini. Ingenui, viziati. Buonanotte. Non abbiate paura. Non vi farò niente. Sono buono e clemente. Potrei, per esempio, prendere un chiodo e incidere il mio nome su un'intera fila di macchine. Nono è passato di qui stanotte, direste con stupore atterrito. Forse dovrei adottare un mio stile particolare. Come la spiga d'oro di Felix. Dormite, dormite tranquilli. Famigliole. Papà, mamma e due bambini in ogni casa. Cosa ne sapete voi della vita vera, e di quanto è facile mandare tutto all'aria? Cosa ne capite voi della lotta per la sopravvivenza? E dell'eterna lotta fra la legge e il crimine? Dormite, copritevi bene. Tappatevi le orecchie. Mi muovevo come una spia nelle retrovie nemiche. quando udivo dei passi che si avvicinavano, mi defilavo nei giardini o negli ingressi, e aspettavo con pazienza. Qualche raro nottambulo mi passava vicino, quasi sfiorandomi, senza accorgersi della mia presenza. Una volta, in un atrio buio, una donna si fermò a qualche centimetro da me, cercò le chiavi nella borsetta, si voltò, posò gli occhi su di me rannicchiato fra le biciclette, ma non mi vide. Più piano, continuo a correre. Circa un anno prima avevo partecipato alla cattura di un bambino come me. Papà e io eravamo tornati tardi la sera dopo una festa da Gabi, non ricordo in onore di che cosa, forse perché era riuscita a finire una delle sue diete. Tornando a casa, papà aveva saputo dalla ricetrasmittente che due ragazzi stavano tentando di rubare un'auto vicino al cinema Ron. Aveva subito cambiato direzione ed eravamo volati laggiù. Non avrebbe potuto portarmi con sé, ma temeva che, se mi avesse prima accompagnato a casa, non avrebbe fatto in tempo per la retata. E questo era da escludere. Volammo, nel vero senso della parola. La velocità mi teneva incollato al sedile. Poi restammo bloccati in un ingorgo e papà imprecò furiosamente, picchiò sul volante, non aveva né sirena né lampeggiatore. Io tacevo, vedevo le vene gonfiarglisi sulla fronte e sul collo. Poi, di colpo, partì di volata superando la colonna. Le ruote stridevano, l'auto gemeva e strillava. Papà fece un'inversione a U e si lanciò contromano! Saltò da una corsia all'altra, si arrampicò sullo spartitraffico, a momenti si scontrò con una macchina che veniva nella direzione opposta... Ero paralizzato. Non solo perché ero sicuro che stavamo per farci ammazzare,

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ma a causa della sua faccia, e della sua capacità di infrangere improvvisamente le leggi, le sacre regole. Ricordavo sempre questa sua affermazione: «Una guardia del corpo non chiede scusa se butta a terra il primo ministro quando un attentatore gli punta contro una pistola», ma mi spaventava vederlo mutare così, perdere i freni, come una gigantesca molla d'acciaio che si libera di colpo. In quel folle tragitto mi spiegò brevemente, con voce adatta alla circostanza, quel che mi era assolutamente proibito: parlare. Uscire dalla macchina. Farmi notare. Come se non lo sapessi. Lo guardai di sottecchi, sentendo accanto a me un estraneo. D'un tratto era come sbucata fuori una persona nuova. Aveva la faccia che protesa in avanti, si passava continuamente la lingua sulle labbra e negli occhi brillava una luce strana, pericolosa, quasi allegra: sembrava divertirsi un mondo in questo folle gioco, in questa corsa con la morte, come se fosse il seguito delle sue sfide giovanili, ora però con la tutela della legge. Continuavamo a ricevere informazioni via radio dai poliziotti appostati intorno al cinema. Dissero che uno dei ragazzi, il più piccolo, faceva il palo, badando a che nessuno notasse l'amico mentre armeggiava con la serratura dell'automobile. Non immaginava certo che il nostro uomo fosse appostato sul tetto del cinema, proprio sopra la sua testa, e stesse bisbigliando i suoi connotati nella ricetrasmittente. Se ne deduce che ho avuto un'infanzia piuttosto movimentata, non è vero? E invece no, non è così. Ma in questo momento non ho voglia di interrompere per raccontare com'è stata davvero la mia infanzia, al di là delle operazioni e delle pistole. Un'altra volta, se ce ne sarà il tempo. Parcheggiammo all'angolo della via, fra molte altre vetture. In un baleno sparì l'uomo che era come sbucato fuori da lui, intendo quello con il guizzo avventuroso, con il gusto del rischio. Nell'angusta utilitaria sentii l'enorme molla comprimersi nuovamente a viva forza. Papà indossò in tutta fretta degli abiti civili sopra la divisa, tirò fuori un piccolo binocolo e si mise in osservazione. Conoscevo già quella faccia. D'un tratto si rivolse a me come se solo ora si fosse ricordato che c'ero anch'io, che non ero un poliziotto ma suo figlio, e, toccandomi la guancia, mi fece un sorriso un po' triste, che veniva direttamente dal cuore. «Sono contento che tu sia qui con me» disse, lasciandomi basito. Come mai gli veniva da dire una cosa del genere nel bel mezzo diun'operazione? Cos'era successo? E la guancia bruciava, sembrava chiedere un'altra carezza. Il poliziotto sul tetto del cinema riferì che il ragazzo era già passato tre volte vicino a una Fiat gialla e che, ogni volta, aveva sbirciato dentro. Se c'era qualcuno nei paraggi, il ladro si nascondeva dietro la macchina mentre l'altro, il palo, si concentrava sulle locandine del cinema. «Settantadue a settantacinque, passo» sussurrò papà nella ricetrasmittente. Era tornato a comportarsi professionalmente. «Continua, settantadue» rispose la voce nell'apparecchio. «Non voglio mosse azzardate finché lui non è dentro la macchina. Non deve sfuggire, ci devono essere abbastanza ID, chiaro?» «Passo» rispose la voce. ID stava per Impronte Digitali. Seguì qualche minuto di silenzio e di tensione. Passò una coppia e si fermò a baciarsi proprio vicino alla macchina. Evidentemente avevano voglia di stare da soli e non immaginavano certo che molti occhi li stavano seguendo. Un mondo intero pullulava intorno a loro, binocoli, radio ricetrasmittenti,

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e loro, poveri ingenui, erano all'oscuro di tutto. «Hanno finito di pomiciare» riferì il poliziotto sul tetto del cinema. «Hai avuto il tuo film, non sei contento?» ghignò dentro la radio un altro poliziotto, nascosto nei cespugli. «Sst!» li rimproverò papà. «Niente battute via radio durante il lavoro!» Passò ancora un minuto. Le dita di papà tamburellavano sul volante e gli occhi erano sempre più stretti. Stava per balzare sulla preda. «Il ragazzo tira fuori un cacciavite» riferì il poliziotto sul tetto. «Sta forzando la serratura.» E dopo qualche secondo: «E' dentro.» ¢Contate fino a dieci, poi fuori» sussurrò papà nella radio. «Io prendo il palo. Settantacinque becca il ladro. Settantatré blocca l'eventuale fuga. Azione!» L'aveva detto così bene quell"'azione!", proprio come nei film. Scese velocemente dalla macchina. Quanto a me, mi aveva totalmente dimenticato. Era tutto preso dall'operazione. Lo guardai. Osservai attentamente i suoi gesti. Avanzò lungo la strada con aria indifferente, le mani in tasca. Il palo lo vide subito, lo notò con la coda dell'occhio e decise che era un passante qualunque. Papà sembrava proprio uno capitato lì per caso, uno che torna a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Teneva le spalle abbassate, aveva il passo stanco. Io solo sapevo che quello era l'aspetto di quando tornava a casa la sera. Sì, ora mi viene in mente che forse non era poi così contento di tornare a casa ogni sera. E anche se c'ero io, in casa, forse per lui era quasi vuota. Perché non c'era quel qualcuno, o qualcuna, che lui aspettava. Ancora trenta passi, ancora venti, avevo la bocca secca. Quindici metri li separavano e il ragazzo non sospettava di nulla. In quel momento, di scatto, papà s'avventò sulla preda. Come un toro selvaggio, con un urlo lancinante sgorgato dalle viscere- «Carogne!», agitando violentemente le mani: capii che stava commettendo un grave errore! Avrebbe dovuto arrivare vicinissimo al ragazzo, e solo a quel punto saltargli addosso. Ma non era riuscito a trattenersi. Papà odiava talmente i delinquenti che era ansioso di schiacciarli tutti con le sue mani. «Tu conduci la tua guerra come se fosse una questione personale» gli diceva Gabi in cucina, «e così mandi all'aria le indagini e gli appostamenti.» Perché era una faccenda personale? Cosa c'era di personale fra papà e loro? «Hai una tale ansia di vendicarti che sveli tutte le tue trappole.» Di cosa doveva vendicarsi? Di cosa parlava Gabi? Il ragazzo che faceva il palo lanciò un grido spaventato, quasi animalesco, e gli cedettero le gambe. Ma si riprese subito e schizzò via. Correva a una velocità incredibile, come se non toccasse terra, e seminò facilmente papà. Lo schivò come un asso del pallone. Osservai papà girarsi goffamente, impacciato, ferito, con un braccio alzato in un gesto rabbioso. Il compagno, quello che aveva scassinato la vettura, realizzò immediatamente cosa stava succedendo e fuggì immediatamente nella direzione opposta. Vidi il poliziotto nel cespuglio uscire dal nascondiglio con aria delusa e arrabbiata. Il palo era sfuggito a papà e stava correndo verso di me. Cento metri ci separavano, e io sapevo esattamente cosa fare. Uscii lentamente dalla macchina, andandogli incontro come se niente fosse. Senza rendermene conto. Il mio corpo funzionò come un ingranaggio perfettamente lubrificato e pensò per me. Non guardai il ragazzo, e lui non guardò me: un bambino non poteva destargli preoccupazione. Lui aveva paura dei poliziotti adulti. In un secondo era schizzato dal fondo della strada fino a me, ed ecco che mi

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passava vicino, con gli occhi quasi fuori delle orbite. Con un gesto repentino, proprio come papà mi aveva insegnato decine di volte in palestra, mi buttai sui suoi piedi e lo scaraventai a terra. Tutto avvenne nel giro di un secondo. Lanciato in velocità, nel cadere rotolò per qualche metro, fino a schiantarsi contro una macchina parcheggiata, e restò lì privo di sensi. In un attimo gli furono addosso due poliziotti per mettergli le manette. «Ma questo non è il bambino di Feierberg?» disse Alfas uno dei poliziotti, che mi aveva riconosciuto. «Non è la nostra mascotte?» «Cosa ci fai qui, Nono?» chiese l'altro, quello con la barba. Tutti i poliziotti del distretto mi conoscevano. «Ho visto che scappava e gli ho fatto lo sgambetto.» «Senti, sei grande! Hai salvato l'operazione!» Mio papà arrivò di corsa, sbuffando e ansimando. «Mi dispiace. Non avevo calcolato la distanza» brontolò, «gli sono saltato addosso troppo presto.» «Non fa niente, comandante.» «Non fa niente, comandante.» I due si misero ad armeggiare con le manette del ragazzo, perché papà non vedesse l'espressione sui loro volti... «L'altro è scappato, comandante, ma suo figlio ha preso questo qui, che ci aiuterà a scrivere un bell'invito per il suo amico, non è vero, tesoruccio?» E il poliziotto soprannominato Barbalunga diede un calcio nel sedere al ragazzo. Ma sapevamo tutti a chi avrebbe veramente voluto darlo. Restammo lì ancora qualche minuto. Papà aspettò l'arrivo della scientifica che avrebbe preso le ID sulla serratura della macchina. Una piccola folla si era radunata intorno a noi, e i poliziotti diedero ordine di sgombrare. La gente indicava me, sussurrando qualcosa. Restai impassibile. Con le mani in tasca, controllai le ID, cercai indizi eventualmente utili alle indagini, feci insomma quel che bisogna fare in queste circostanze. La mia vittima restava distesa sul marciapiede, ammanettato dietro la schiena. Era illuminato da un lampione e sembrava una bestiolina presa in trappola. Non osai guardarlo negli occhi. Tutta la sua vita stava per cambiare, e io ero stato il suo destino. I suoi occhi invece mi cercavano. Si rivoltò sul marciapiede per guardarmi. Non mi mossi. Guardasse pure. Mi parve di riconoscere in lui un tono di sarcasmo nei miei confronti, come il cocco della legge. Mi rivolse un sorriso maligno. Ostile, ma anche di amare congratulazioni. Ero riuscito a prenderlo. Già, si fa così da noi: i professionisti sanno riconoscere la grandezza dell'avversario. Fa parte della nobiltà del mestiere. Come Felix e papà. Come con quella loro stretta di mano, con il loro accordo riguardo a me, che in quel momento mi parve così improbabile; eppure ne ero sicuro. Già, e se invece non fosse andata così? Papà salutò i poliziotti e tornammo a casa in silenzio. Era così imbarazzante il fatto che a momenti avesse mandato tutto a monte, non fosse stato per il mio provvidenziale intervento. Avrei voluto dirgli che era stato solo un caso. Che non avevo avuto realmente nessuna intenzione d'intromettermi. Che alla mia età si è semplicemente molto pronti. Comunque era chiaro che lui era più saggio e più esperto di me. Ma alla fine non dissi nulla. La cosa peggiore, però, era pensare che si sarebbe pentito di quel che mi aveva detto in macchina prima dell'operazione. Per un anno intero non ripensai più a quell'episodio. Non lo raccontai nemmeno a Mikah. Volevo soltanto

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dimenticare quei terribili momenti di silenzio, in macchina, dopo. Non ne parlammo mai più. Anche Gabi, che era al corrente dell'accaduto perché aveva battuto a macchina il rapporto, taceva. E solo adesso, di notte, mi tornò in mente. Il sorriso maligno di quel ragazzo. Forse aveva sorriso per disprezzo verso i bambini viziati. Forse aveva sentito in me qualcosa, già allora. Ma cosa intendeva Gabi quando diceva: «La tua guerra personale contro il crimine»? Cosa gli avevano fatto per avercela così a morte con loro? E di cosa si vendicava? A dire la verità, stavo iniziando a capire. Intuivo la risposta, ma m'imponevo di essere prudente, di non trarre conclusioni affrettate. E, come in un meticoloso interrogatorio, mi formulai, una dopo l'altra, tutte quelle domande che mi avevano sempre ronzato in testa, pur non avendole mai poste direttamente: come mai affronta una guerra personale contro i delinquenti? L'hanno ferito? E come? Chi gli hanno ucciso, per esempio? E perché hanno ucciso lei che li combatte a questo modo? Mi dimenticai che stavo scappando e che dovevo fare attenzione. Mormoravo dentro di me quelle domande, borbottavo e non me ne importava più che qualcuno mi vedesse e mi notasse. Insomma, perché l'hanno uccisa? Cosa gli avevano fatto? Forse l'avevano uccisa per punire papà. E chi l'aveva uccisa? E dopo che era morta, avevano smesso di perseguitarlo? O avevano cercato di colpire un'altra persona molto vicina a lui? Forse era per questo che mi aveva insegnato a stare in guardia, fin da piccolo? A tenere gli occhi aperti? A sospettare di tutto? Di tutti? Ma forse io non ero abbastanza professionale nei miei sospetti. Per esempio, questo Felix che corre lì davanti a me... qual è il nesso fra lui e tutta la storia? Sarà poi vero che papà gli ha stretto la mano e ha fatto questo accordo per me? E perché mi piace cosi tanto stare con lui? Ne sono attratto e spaventato, eppure... eccomi qui, forse questo è il momento giusto per fuggire. Per salvarmi... Camminavo lentamente, un po' intimorito, un po' angustiato. Andavo avanti e mi sentivo attratto indietro. Come se all'improvviso avessi avuto la possibilità di sbirciare in un luogo proibito. Dove avrei visto papà, al buio, con i muscoli tesi, le vene sporgenti sul collo, che a denti stretti faceva braccio di ferro con il crimine. Difendeva il mondo intero da un gigantesco nemico che aveva mille volti, e difendeva soprattutto me. Mi addestrava a quest'unica, eterna guerra. Solo, infelice, lottava contro il crimine, senza chiedere aiuto a nessuno, senza cedere. Ecco che corro di nuovo troppo.

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CAPITOLO 19. UNA PARIGLIA DI DESTRIERI DELLE SABBIE. D'un tratto sentii il mare. Mi piombò addosso con il suo odore, la sua umidità e lo sciabordio delle onde. Il mare! L'avevo lasciato qualche ora prima e già mi mancava. Lo amavo molto, l'ho già detto, anche se ero di Gerusalemme, sapevo nuotare come uno di Tel Aviv. Ogni occasione era buona per convincere Gabi ad andare al mare, e lei rideva di me che entravo in fibrillazione già in piazza Diezengoff, come un pesce fuggito dall'acquario in procinto di tornare nella sua vera casa. La povera Gabi si sedeva scomodamente su una sdraio, vestita sempre di nero, ma con un coprinaso di plastica bianca, tutta - e quando dico tutta intendo anche la borsetta - spalmata di crema contro l'abbronzatura. Sembrava uno spettro su quell'allegra spiaggia. Il mare la disgustava, il sole la terrorizzava, ma soprattutto pativa le belle ragazze che le passavano davanti con irrisori costumi da bagno. Scuoteva la testa, costantemente indecisa fra il dolore e l'invidia. «Sono l'unica persona che soffre il mal di mare sulla spiaggia» sospirava quando una stangona le sculettava davanti. «Dio mi ha mandato in terra a stabilire il supremo traguardo della sofferenza.» Anche a papà non piaceva il mare. Credo di non averlo mai visto in acqua (solo a dieci anni scoprii, per puro caso, che non sapeva nemmeno nuotare!). Gabi sulla spiaggia soffriva, ma siccome sapeva quanto io ero felice fra le onde, era disposta a portarmici almeno una volta al mese. Era il nostro giorno di libero divertimento... nostro, cioè mio: credo che a Gabi non piacessero gran parte delle cose che facevamo a Tel Aviv. Tuttavia, per cinque anni, da quando ne avevo otto, non si era persa una sola escursione: sulla spiaggia si scottava, poi faceva la posta davanti a casa di Lola Ciperola per un'ora o due; le facevano male le gambe, ma non si lamentava mai. Al ristorante si ingozzava con un'aria contrita, scrivendo sul tovagliolo le calorie che si annidavano nelle innocue patatine fritte e nella bistecca, di per sé dimagranti ogni tanto, dopo qualche ghiotto boccone, si buttava indietro sulla sedia e si toccava timidamente i rotoli di ciccia sulla pancia. «Non va bene, Gavrielusha» diceva sottovoce, «non va bene per la tabella.» Da lì prendevamo l'autobus diretti a un altro nostro luogo segreto di piacere: la fabbrica di cioccolato alla periferia di Ramat Gan. Anche questa era una di quelle cose per le quali avevamo giurato di mantenere un rigoroso silenzio, il riserbo dei nostri dolci e personali segreti, guai se lui veniva a sapere che Gabi mi rovinava così! Una volta al mese, ogni giovedì alle quattro precise, alla fabbrica di cioccolato aveva luogo una visita organizzata, e per cinque anni noi due, io e Gabi, siamo stati praticamente ospiti fissi, nonché a volte unici partecipanti, del tour. Passavamo un'ora intera al seguito della solita, sonnacchiosa guida, una donna magra come un grissino, divorando ansiosamente le sue spiegazioni sul processo di fabbricazione del cioccolato, e sulla macinatura del caffè, sulla solubilità del burro, sull'impasto fluido, tenero, viscoso, denso. La guida era una donna davvero originale. Con tutta se stessa esprimeva astio e disgusto per i piaceri della vita in generale, e per il cioccolato in particolare, senza che questo le impedisse di assolvere il suo ruolo con la precisione di un automa. Non cambiò mai lo stile delle sue spiegazioni,

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nonché le sue uniche due battute di spirito. Non chiese mai cosa ci portava a seguirla da ormai cinque anni. Solo in un'occasione fece una piccola deviazione dal solito percorso. Anche quella volta eravamo gli unici visitatori e, davanti alla sala in cui si impacchettavano le tavolette di cioccolato con della carta colorata, ci disse: «Scusatemi se m'intrometto, ma voi siete già stati qui, allora magari oggi potremmo saltare questa parte, ho un appuntamento urgente alle cinque meno un quarto.» Gabi e io ci eravamo scambiati un rapido sguardo turbato: già, la sala confezione era uno dei momenti clou del giro! Come visitare il camerino degli attori subito prima di vederli comparire sulla scena! Gabi fece uno sguardo severo e chiese con aria ostile: ·«Un appuntamento con un ragazzo?.» «No» disse la donna, «con il dottore.» «Se è con il dottore, allora d'accordo» la graziò Gabi «ma solo per questa volta.» A questo punto devo fare una breve pausa per chiarire una questione importante: ci sono persone, gente rozza, gretta e priva di senso artistico, per le quali un giro del genere rappresenterebbe solo una gran noia. E quand'anche per puro caso amino il cioccolato, sono interessate solo al prodotto finito. Al risultato definitivo. Mentre io e Gabi eravamo innamorati del processo di fabbricazione del cioccolato: i tubi, le vasche, i montacarichi che portavano i secchi con il cacao in grani, gli enormi setacci dove lo tostavano prima della macinatura, i giganteschi imbuti dentro i quali si versava il magico liquido, la bellezza distillata e brillante di un'intera tavola di cioccolato prima di ricavarne le tavolette, e la seducente modestia con la quale la materia si faceva coprire dalla stagnola luccicante, ammantandosi poi ancora di un involucro variopinto: come è bello il ciclo della vita in natura! Chiedo scusa se mi dilungo così in questa descrizione. Sono consapevole dell'inquietante eventualità che fra i lettori di questo libro ce ne sia magari qualcuno insensibile alla seduzione del cioccolato. Nel nostro mondo vivono anche creature di questa fatta e noi dobbiamo accettarle di buon animo, come parte di quei fenomeni che la scienza non arriva a spiegare. Io stesso conosco personalmente un bambino, di cui non voglio fare il nome, che dall'alba della sua infanzia ha optato per i salatini. Ebbene sì: egli divora avidamente solo e soltanto grissini, taralli e stuzzichini friabili, ricoperti di grani di sale. Che scelta stramba, se mi è consentito dirlo. Sotto questo punto di vista io e lui apparteniamo purtroppo a due razze distinte: come tutti sanno, gli inquilini della casa del sale sono persone pratiche, implacabilmente logiche, decise, sospettose nei confronti delle favole e pragmatiche. Più di una volta mi è giunta notizia che nelle loro congreghe segrete, in qualche antro nella zona dei monti di Sodoma che danno sul Mar Morto, i salatomani usano dar luogo a raccapriccianti cerimonie nel corso delle quali annegano intere confezioni di cioccolato negli abissi del mare salato! Abominio! Ma d'altra parte si sa che, dopo anni trascorsi a sgranocchiare indefessamente l'arido sale, la facoltà di discernere è irrimediabilmente compromessa. Mentre io, a volte, mi convinco che nelle mie vene scorre densa cioccolata (aromatizzata all'amarena). Ancora oggi, quando vedo gente della mia specie, apparentemente adulta, in importanti cene d'affari, so che le discussioni e le chiacchiere durante

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il pasto sono solo la tassa che si deve pagare per arrivare finalmente al dolce. E quando arriva, oh! Con aria indifferente, perso in futili conversari, faccio fluire dentro di me la pingue mousse al cioccolato, la materna torta dei dolci sogni", i minuscoli pasticcini a forma di cigno, gli spumosi dolcetti "neve dell'Himalaya"... e l'uomo o la donna che mi siedono di fronte in quel pranzo d'affari non immaginano nemmeno lontanamente che dentro di me, dentro il loro cordiale e cortese interlocutore, in due fanno capolino dalle tenebre della memoria: un bambino con la chioma bionda rasata e una donna corpulenta, con un vestito nero perché snellisce; e senza tanti preamboli si lanciano entrambi sul bottino, addentano, leccano e spalmano fino a perdere i sensi... Vorrei fare un'altra breve pausa nel corso del racconto e sfruttare questo momento di generosa confessione, di dolce intimità fra chi scrive e chi legge, per esprimere qui le mie ultime volontà su questa terra, il mio testamento spirituale: Vorrei essere sepolto in una bara di cioccolato. Dolci mi saranno le zolle della terra. Prima vidi la ruspa, poi Felix. Lo vidi prima che lui scorgesse me. Spuntò dal vicolo proprio nel momento in cui raggiungevo la riva. Avanzava con quell'andatura da mendicante zoppo, lanciando sguardi apparentemente casuali, ma, come un pescatore che tira a bordo la rete con ampio gesto, notava tutto quel che era nei paraggi... Sapeva come si deve osservare: per esempio, quando una persona qualunque vuole guardarsi indietro, normalmente si volta verso sinistra. Proprio così, provate voi stessi. Perciò, quando un buon investigatore sta seguendo un indiziato, farà sempre in modo di trovarsi sulla sua destra, per non farsi scoprire E Felix questo lo sapeva, ovviamente, perché ogni tanto lanciava uno sguardo anche verso destra. Per questo scorse la mia figura nascosta nell'ombra. Non era sicuro che fossi io. In un attimo sparì, non riuscii a vedere dove. Come inghiottito dalla sabbia o dissolto nel buio. Già, dicevano di lui che era inafferrabile come l'acqua: centinaia di poliziotti e ispettori lo consideravano ormai in trappola, convinti di averlo in pugno, e, quando aprivano la mano per vedere, scoprivano che si era dileguato. Fatta naturalmente eccezione per chi l'aveva tenuto stretto così forte che, aperta la mano, ce l'aveva ritrovato. Aspettai. Dov'era? Esitai un istante, poi cominciai a fischiare tranquillamente una canzoncina. Al chiaro di luna vidi qualcosa muoversi nella sabbia, come un serpente che scivolava fra le dune, e subito dopo mi rispose un debole fischio. Così ci lanciavamo dei segnali senza nemmeno esserci accordati prima. Ci avvicinammo nel buio. «Ecco» dissi indicando la ruspa. «Dinosauro» soggiunse Felix. Non sapevo se intendesse dire che era antiquata o che sembrava un animale preistorico. Piccola. Robusta. Gialla. Aveva una pala, grande come tutto il resto, che teneva sollevata per aria. Ci trovavamo dentro un'ampia fossa scavata nella sabbia. Evidentemente stavano gettando le fondamenta di un edificio. Non avevo ancora capito cosa fossimo venuti a fare. Camminavamo in silenzio, controllando il terreno. Intorno alla fossa c'era uno steccato di legno e un cumulo di ferri, lunghi e sottili, deposto accanto alla sega elettrica. Una piccola baracca. E il casotto del custode. Nessuna luce dalle fessure. Ci avvicinammo. Mi parve che Felix, più che guardare, fiutasse. «C'è qualcuno dentro» fece segno con il dito. «Sta dormendo.» «Come lo sai?» chiesi sottovoce. «C'è stato un falò» sussurrò indicando

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un piccolo cerchio di cenere. «Solo una tazza di caffè.» "Ottimo, Holmes" mi disse Gabi dentro la testa. «E come fai a sapere che sta dormendo?» «Non lo so» rispose Felix, sempre sottovoce. «Spero solo che sia così. Non sono mica il profeta Elia!» Girammo intorno alla baracca. Non aveva finestre. Felix fu molto felice di questa scoperta, fece ok con la mano, in segno di contentezza, e si mise a cercare. Trovò un asse di legno e la misurò a occhio davanti alla porta della baracca. In silenzio, come un gatto che attraversa l'incubo di un topo in punta di piedi, si avvicinò all'ingresso della baracca. Un attimo di sosta e poi, con una mossa rapida e decisa, fissò l'asse fra la maniglia e la porta, trasformando il casotto in una prigione. «In fretta» disse, e avvertii nella sua voce la forza che il pericolo faceva nascere in lui. Si precipitò sulla ruspa come fosse un cavallo da domare. Armeggiò qua e là, trovò due grandi chiodi e una tenaglia. Non capii cosa stava facendo. Mi parve che dentro la baracca qualcuno si fosse svegliato e stesse alzandosi, ancora intorpidito. Felix piegò i chiodi con l'aiuto della tenaglia e creò una piccola forchetta di metallo, che infilò nel blocco accensione dietro il posto di guida. Tutt'intorno, ancora silenzio. Non sapevo cosa stesse per succedere. Successe che di colpo il silenzio cessò. Felix girò quella chiave improvvisata e la ruspa si mise a rombare. Faceva un effetto terribile, in quel silenzio. Pensai che a Tel Aviv nessuno sarebbe più riuscito a dormire. Felix zompò sul sedile, mi fece segno di raggiungerlo e io, con un balzo, schizzai su. Liberò il freno a mano e il bulldozer partì di scatto. Sobbalzavamo come sul dorso di un cammello. Felix tirò le grandi leve che aveva davanti, schiacciò i due grossi pedali, fece qualche tentativo, prese confidenza con il mezzo e cominciò a guidarlo. La ruspa gli ubbidì subito, come consapevole della sua forza. Quando passammo accanto alla baracca, mi parve di vedere una debole luce fra le fessure. Notai che la maniglia della porta sbatteva freneticamente. Il guardiano stava tentando di uscire ma era bloccato dall'asse. Cominciò a picchiare sulla porta. Chi commette un errore paga, mio caro. Questa è la lotta per la sopravvivenza. Va', torna a dormire. Arrivammo quasi subito alla rampa di terra. Era un bastione enorme, alto qualche metro e largo alcune decine. Una muraglia di sabbia pressata e solida: evidentemente tutto il materiale di riporto scavato nella fossa dove ci trovavamo prima. «Questa è la montagna che toglie a Lola il panorama!» spiegò Felix urlando. «Le nasconde il mare!» «Ma quando avranno costruito la casa, glielo nasconderà ancora di più.» urlai. «Sono tre anni che hanno interrotto i lavori!» rispose con voce stentorea. «Hanno mollato tutto così. La sabbia, la ruspa e persino il guardiano! Hanno finito i soldi! Hanno rubato il mare e se ne sono andati! Ora tieniti forte! Heide!» E con quel grido di guerra lanciò la ruspa contro il monte, facendo girare al massimo il motore. Volai. Con una mano mi aggrappai al telaio della ruspa e chiusi gli occhi. La pala di metallo colpì il bastione di terra proprio in centro e lo spaccò. In tre anni l'umidità e il sale avevano incrostato la sabbia. Ma la ruspa la frantumò con un colpo solo. Si formò una nuvola di polvere soffocante che mi entrò negli occhi, nel naso, in bocca. Felix ingranò la retromarcia e portò la ruspa indietro. Con un gesto sicuro girò il muso della macchina e tornò all'attacco. La ruspa ripartì, la pala si alzò

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leggermente, poi si riabbassò, tutto in frenetica corsa, e di nuovo colpì le pendici del monte. Enormi macigni di sabbia si sfaldavano crollando intorno a noi e levandosi in polvere verso il cielo. Felix rideva, buttando la testa all'indietro e ruggendo come un leone, ululando come uno sciacallo, urlando di felicità. Gli diedi una pacca sulla spalla per ricordargli che c'era un collega! Lui si scostò un po' sul sedile e mi lasciò premere il pedale. La pala rombava e sussultava, la tirai fuori dai cumuli di sabbia che scrosciavano intorno a noi e sulle nostre teste, ed eccoci di nuovo a perlustrare il bastione in cerca di un punto dove far breccia. Grandioso, folle. Urtammo il bastione di terra come dei conquistatori all'assalto di una muraglia, e io aggiunsi "ruspa" dopo "locomotiva" nella mia lista immaginaria, alla voce "esperienze di guida". Felix esclamò qualcosa a voce altissima, mi parve che stesse cantando: Chi ruberà, ruberà il treno per Tel Aviv?», rispondendosi da solo, forte come un tuono: «¢Noi, i pionieri, ruberemo Tel Aviv!,» e poi ancora: «Azzurro, il pomeriggio è sempre azzurro per noi, che qui demoliamo un porto, un porto!.» Allora pensai che fosse arrivato il momento di cantare un inno personale, un inno di squadra in missione, e così, sbraitando, tra i nuvoloni di polvere e lo sciabordio del mare, componemmo la seguente canzonetta: Brillano i tuoi occhi come diamanti, un addio dal molo Ti hanno rubato il mare Ti riporteremo il mare E avremo lo scialle! Non saprei dire chi di noi due abbia composto l'inno. Cominciai io, continuò Felix, e nel giro di un minuto cantavamo insieme in coro. Felix agitava le braccia in ogni direzione, con gli occhi che lacrimavano di gioia. Saltando sulla ruspa con quegli abiti da mendicante sembrava un antico pagano in atto di celebrare un rito alla luna, e pensai che forse era contento perché in tutta la sua vita da fuorilegge non gli era mai capitato di fare le cose che stava facendo adesso insieme a me, misfatti a fin di bene. Così ci mettemmo a ballare sulla ruspa, agitando le mani e strillando, e anche la saura gialla fu invasa da un senso di libertà. Non avevo mai visto una ruspa così spensierata. Forse ci era riconoscente perché l'avevamo svegliata da un lungo letargo. Danzava flessuosa da un punto all'altro, si avvicinava di soppiatto al bastione e solo all'ultimo attaccava di sorpresa con un grido di battaglia, colpendo con la sua enorme pala. Era tenera e devastante come un cucciolo di mammut, dopo ogni colpo alzava al cielo la pala dentata e sembrava sul punto di scoppiare in una muta risata ruspante. A volte dovevamo darle un colpo sulle costole ansimanti, per calmarla... (Ora tutti insieme: Ohi ohi Lola... Ohi Lola Ciperola. Ohi ohi Lola... Lola Ciperola!) Il buio calava pian piano dal cielo sul mare. Strisce d'azzurro chiaro apparvero dai corridoi che avevamo aperto nella muraglia. Respirai il mare fino a sentire l'asprezza del sale nei polmoni. Urlai, ululai, non ricordo quel che feci, l'avevo conquistato da me! Ora è mio! Nessun bambino prima di me! Mai! Alle cinque del mattino improvvisamente la ruspa tacque. Forse si era guastata, forse era solo finito il carburante. Sull'orizzonte il cielo divenne più chiaro e dei gabbiani presero il volo gracidando. La muraglia era demolita, sbriciolata in tutta la sua lunghezza, e le agili onde del mattino correvano a mordicchiarla, trascinandone i resti in mare. Felix e io eravamo coperti di sabbia dalla testa ai piedi. Mi sentivo pungere fin sulle palpebre. Una maschera di sabbia umida e sale si era rappresa

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sulle nostre facce. Gli occhi azzurri di Felix luccicavano come quelli di un bambino felice. Infilò una mano che pareva di argilla sotto la camicia strappata e tirò fuori la catenina. Il pendaglio a forma di cuore e le due spighe d'oro brillavano meravigliosamente nella mano striata di sabbia. «Sei proprio come tua mamma» disse ridendo. «Lei era così con il mare. Matta come te. Il mare era la sua casa. Un pesce. Ti ha persino dato un nome da pesce.» «Amnono.» Pesce persico. Tolse una spiga e l'accarezzò. «Adesso la getti tu» disse d'un tratto, mettendomela in mano. «lo?!» (lo?!) «Vuoi che sia io a lasciare il tuo simbolo?» (Vuole che sia io a lasciare il suo simbolo?!) «Sì. Prego. Così è più giusto, prego.» Dorata e leggera. Una piccola spiga nella mia mano. Mi misi in piedi sulla ruspa. Notai che lui mi guardava di sottecchi in modo particolare, come quando mi aveva visto per la prima volta, sul treno. La gettai verso il cielo e verso il mare, con tutta la mia forza. La spiga volteggiò in aria, si rigirò lentamente, scintillò- e scomparve fra le onde. Un gabbiano si tuffò dietro di lei. Chissà se poi l'ha trovata? Scendemmo con un balzo e cominciammo a correre. Dovevamo sparire di lì prima che la città si risvegliasse. Per un attimo mi guardai indietro e sentii una punta di tristezza nel cuore: la nostra piccola ruspa era ferma sul bagnasciuga, con la pala in alto. Solo per una notte l'avevamo liberata dal sortilegio, dal sonno in cui adesso era di nuovo sprofondata. Dalla baracca del guardiano provenivano colpi e urla. Felix esitò, poi tornò indietro e allentò leggermente l'asse sopra la maniglia. I colpi all'interno cessarono. Forse l'uomo si era spaventato. Corremmo via, ma, prima di lasciare la spiaggia, Felix mi fermò, indicandomi la città. «Guarda laggiù, Amnon.» Sulla facciata delle case, le tapparelle erano quasi tutte abbassate. Tel Aviv dormiva ancora il suo placido sonno, indugiava nell'ultimo sogno. Da una finestra dei piani alti spirava un alito lieve, etereo, un vapore viola che volteggiava nell'aria del mattino, fremendo nella brezza che lo riempiva di vita. Lo scialle di Lola Ciperola. Adesso era mio.

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CAPITOLO 20. ESISTE LA REINCARNAZIONE? E INOLTRE: SONO SUL GIORNALE. TITOLI DI TESTA. Innanzitutto mi feci una doccia. Era la prima volta in vita mia che facevo la doccia a Tel Aviv, ed era proprio come si diceva a Gerusalemme: un getto potente d'acqua corrente che spumeggiava sulla testa. Non come il beffardo zampillo delle nostre docce, che ti schizzava addosso qualche goccia per poi tornarsene nella conduttura con un beffardo gorgoglio. Tolsi lo strato di sabbia che mi si era appiccicato e rimasi ancora una bella mezz'ora sotto il getto, finché l'acqua mi ebbe calmato. Sotto la doccia mi venne in mente che non avevo ancora telefonato a papà e Gabi, ma quando uscii Felix disse che era pronto in tavola e che bisognava sedersi a mangiare. Lola ci aveva preparato una colazione da re in stile "6 uova, cioccolata in tazza, verdure tagliate sottili, composta di mele, che si meritò a mio parere un secondo posto nella scala "GIPI" (preceduto solo dalla cena al ristorante). Dissi a Lola che il suo stile nel fare le insalate assomigliava a quello di Gabi, e lei mi chiese chi era. Raccontai, con la bocca piena (l'unico modo per parlare di Gabi). Ero sempre più dispiaciuto che Gabi non fosse lì con me, perché mi rendevo conto che lei e Lola si sarebbero intese alla perfezione, per via della loro comunanza d'opinioni sulla vita e sugli uomini. Ma mi dispiaceva anche un po' che Gabi non potesse vedermi ed essere fiera di me per come sapevo parlare con una tale celebrità. Infatti la chiamavo già confidenzialmente Lola. Ma lei, in casa, non si sentiva certo una celebrità. Era semplicemente una donna di una certa età, piuttosto pratica, senza traccia di trucco, senza quella voce tutta alti e bassi, che avevo capito essere posticcia, da palcoscenico, e senza quei movimenti esagerati delle braccia. Una donna in carne e ossa, con un leggero accento straniero nella sua parlata quotidiana, con le sue piccole facezie, con un bel viso abbronzato, un corpo flessuoso, delle macchie scure di vecchiaia sulle mani, e un collo un po' rugoso - forse per questo aveva sempre lo scialle. Era tenera e premurosa con me. Mi seguiva ovunque andassi, o restava seduta a guardarmi, e questo mi faceva un certo effetto, perché fino al giorno prima ero stato io a dover fare un mucchio di sforzi per guardarla anche solo un istante, almeno una sbirciata, e spesso avevo pagato un biglietto per poterla osservare, mentre qui... Lei mi divorava con gli occhi. «Avvisami quando sei stufo di me, Nono» disse, «mi diverto così tanto a guardarti.» «Cosa c'è da vedere?» scoppiai a ridere, pieno d'imbarazzo. «Sei bello. D'accordo: non bellissimo, non montarti la testa, ma hai un viso interessante. Sei anche pieno di contraddizioni interiori, e mi piacerebbe saperne di più! E quelle orecchie... quasi feline. Sei così dolce quando sorridi, e tutto quel che fai mi tocca il cuore. Op!» si pizzicò le guance, e rise scuotendo la testa. «Ma cosa sto blaterando? Sciocchezze di una vecchia. Devi aver comprensione per me: i bambini che conosco, a teatro, sono solo donne travestite da bambini, era molto tempo che non ne vedevo uno vero. Raccontami ancora.» «Di che?» «Di tutto. Dei tuoi amici e della tua stanza. Chi ti compra i vestiti, e

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cosa fai dopo la scuola? Ti piace leggere?» Prima Felix, e adesso lei. Era molto tempo che non suscitavo tale curiosità. Ma cosa gli sarà preso, a quei due? «Allora vieni, dammi una mano con le fotografie, ho bisogno di un uomo giovane e forte che me le porga.» Lola salì in piedi su una sedia e io le passai, una dopo l'altra, tutte le fotografie che fino al giorno prima erano state appese al muro. Ecco quel che aveva fatto durante la notte: le aveva tolte, aveva tirato via i chiodi, riempito i buchi con del dentifricio, e all'alba aveva ridato il bianco. «Tutto per merito vostro, che mi avete aiutato a decidere!» ci aveva accolto al nostro ritorno dalla spiaggia. Indossava pantaloni e camicia da uomo pieni di macchie di calce. «Erano dieci anni che volevo farlo, ma non ne avevo il coraggio!» disse festosamente agitando la pennellessa, e centinaia di piccoli schizzi bianchi colpirono Felix da capo a piedi. «¢Erano dieci anni che non respiravo più, con tutte quelle facce gonfie intorno, tutte quelle foto, i miei spettacoli, le mie pose. Ma adesso via, tutto nel ripostiglio! Voglio cambiare aria!» Le porsi una dopo l'altra le foto di Elisabeth Taylor, di Ben Gurion, e di Moshe Dayan; sopra di me sentivo la sua risata, mentre spingeva tutto dentro il buio ripostiglio nel soffitto. «Mai fatto una dieta così efficace!»? mi disse scendendo dalla scala. «Avrò perso in una sola notte almeno una tonnellata di apparenze e ipocrisia!» «Ma il teatro è la tua vita!» dissi sorpreso e anche un po' deluso. E lei: «Errore, signor Feierberg! La mia vita sta cominciando ora. Oggi! Forse addirittura... grazie a te!.» Detto ciò mi agguantò, coinvolgendomi in un ballo scatenato; a momenti ci ritrovammo tutti e due per terra. Così divento pazzo, pensai. Non ci capisco niente. Però nulla da dire: mi stavo divertendo. Mentre eravamo seduti a tavola, udimmo le tapparelle della casa accanto che si alzavano, poi un grido di sorpresa e strepiti di gioia. Da ogni parte si aprivano finestre e imposte, la gente guardava fuori, si chiamava concitatamente, senza riuscire a capire cosa fosse successo nello spazio di una notte, dicendo che era un miracolo. Dal piano di sotto udii una voce di anziano spiegare con tono saccente che probabilmente le radiazioni siderali erano state così forti, quella notte, da far salire la marea più del solito, tanto che il mare aveva invaso e disciolto il terrapieno. Un altro vicino avanzò l'ipotesi che il Comune intendeva mettere un'imposta anche sul panorama, e per questo aveva prontamente provveduto a restituire il mare al caseggiato... «Come hai modo di sentire, bambino» disse Lola, «a Tel Aviv la gente la prendono anche senza esame d'ammissione.» Si mise fra me e Felix, posando le braccia sulle nostre spalle: «Gli avete fatto un gran bel regalo, anche se loro non lo sanno.» Avrei voluto telefonare a casa, ma Felix cominciò di nuovo a raccontare come avevamo demolito la muraglia, come ci eravamo dati da fare, della sabbia che volava e del custode che avevamo imprigionato dentro il casotto, e... sembrava proprio papà dopo un'operazione riuscita. Parlava con aria tronfia e sicura, con un certo disprezzo per chi aveva tentato di opporgli resistenza. In quei momenti a papà spariva la tristezza, mentre in Felix l'aura nobile si intorbidiva leggermente. Guardandolo, pensai che tutti e due amavano molto vincere, e che Felix doveva avere molto sofferto quando papà aveva avuto la meglio nel duello. Poi Lola ci mandò a dormire. Felix sul divano in salotto, e io

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in una stanza che non avevo ancora visto. Una piccola stanza affacciata sul mare. «Di qui si vede il mare meglio che altrove» disse indicando il letto. «Una volta, anni fa, restavo seduta qui a guardarlo per delle ore. Sola o in compagnia di un'altra persona. Anche da lontano, il mare riesce a calmarmi. E ora, per merito vostro, è tornato.» Restò ferma un istante, poi si appoggiò al davanzale della finestra. «Di qui il mare è più aperto, più azzurro che mai» disse sottovoce, come citando qualcun altro. Tirò giù le tapparelle di colpo, perché il sole del mattino non mi disturbasse; ma con quel gesto così brusco, fu come se avesse voluto troncare un ricordo doloroso. Sussurrò: «Buonanotte, Nono» e se ne andò. Buio. Ero disteso. Tentai di prendere sonno. La udii bisbigliare con Felix, ma senza riuscire a capire cosa si dicessero. Mi irritava un po' il fatto di essermi di nuovo dimenticato di telefonare a casa. Comunque. Appena mi alzo... Il letto era stretto, un letto per bambini, però ci stavo comodo come Riccioli d'Oro nel giaciglio dell'orsacchiotto. Ero un po' raffreddato, a causa dell'operazione notturna, e facevo fatica a respirare. Inoltre, l'aria nella stanza sapeva di chiuso. Doveva essere passato molto tempo da quando qualcuno l'aveva usata o c'era anche solo entrato. Di fronte a me si trovava un grande armadio, e sul muro un quadro con un paesaggio. Mi alzai per guardare: cartoline incorniciate. Montagne svizzere e la torre Eiffel. Grattacieli di New York. E un branco di zebre in corsa, dall'Africa. Mi mossi in silenzio, non volevo che si accorgessero che mi ero alzato. Non so perché, sentivo di avere qualcosa da nascondere, qualcuno da cui stare in guardia. Sullo scaffale nell'angolo c'erano dei soldati di pezza con la divisa di paesi lontani. Sembrava una collezione. Una persona doveva averli raccolti e sistemati lì, chissà quanti anni prima. Ne presi uno in mano e andò in frantumi. La divisa rossa sembrò dissolversi al tatto. Mi dispiaceva averla rovinata così ero turbato, avevo come il presentimento che, toccandoli troppo, anche gli altri si sarebbero sbriciolati, appassiti. Tornai velocemente a letto. La stanza era piuttosto buia, ma mi muovevo con sicurezza. Come se conoscessi le distanze, come se non mi fosse nuovo il contatto con le ruvide piastrelle del pavimento. Come se ci fossi già stato. Ma se solo ieri ero entrato in casa di Lola! Stava tornando il ronzio in mezzo agli occhi. Lo sentivo avvicinarsi come il rombo di una motocicletta che giunge da lontano. Forse avevo mangiato troppo. Mi coricai, ma tornai subito a sedermi. Chi va là? Solo un'ombra. Tirai le coperte fin sopra la testa. Coprii anche le orecchie, contrariamente agli insegnamenti di papà. Lasciai solo una fessura per sbirciare. Tentai di interpretare i suoni. L'armadio, gli oggetti, le bambole in divisa sullo scaffale, le cartoline con i paesaggi di tutto il mondo... provavo un senso di oppressione. Questa stanza mi accerchiava nel vero senso della parola. Mi voltai sulla schiena. Niente. Mi rigirai sulla pancia. Il cuscino aveva un odore familiare, mi sembrava di averlo già respirato altre volte. Cosa mi stava succedendo? Ogni cosa in quella stanza mi parlava. La colazione mi si era bloccata sullo stomaco. Senza più un briciolo di forze allungai la mano per toccare la parete, e il dito trovò il solco a forma di fulmine, un'incisione profonda, molto più profonda della mia. Chi aveva dormito qui doveva avere fatto sforzi immensi per non piangere: la percorsi in tutta la sua lunghezza, sentendo il dito che impallidiva. Infilai di scatto la mano fra il

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materasso e la rete del letto. Trovai esattamente quel che cercavo, e che temevo di trovare, fossili di chewing-gum. Non è possibile, pensai, è tutto come in camera mia. Tastai il materasso e trovai lo strappo nel tessuto, proprio nel punto che immaginavo. A chi aveva dormito qui prima di me evidentemente piaceva frugare dentro il materasso nel punto esatto in cui piaceva anche a me. Speriamo solo che non ci siano le caramelle al lampone, mi dissi. Sobbalzai atterrito e mi misi seduto. Non può essere, pensai, non è normale. Il moccio al naso si era di colpo prosciugato. Era proprio come nella storia che mi aveva raccontato Chaiim Stauber una volta: una bambina indiana improvvisamente ricorda chi è stata in una precedente vita. Allora porta i suoi genitori in un villaggio in cui non hai mai messo piede e gli mostra dove ha nascosto un suo giocattolo cent'anni prima di nascere. Ma cose del genere capitano solo in India. Mica qui. Mica a me. Cosa mi sta succedendo? Chi sono io? Paralizzato dalla paura, scartai la caramella e la infilai in bocca. Era secca come una scaglia di quarzo. Persino la muffa era rinsecchita. La leccai e la succhiai fino a farle tornare in mente la sua vera natura. Una parvenza di gusto, una reminiscenza di lampone si sciolse sulla lingua, diffondendosi nel cervello. Succhiavo la caramella con tutta l'anima, non ero più che bocca, lingua e memoria. Tutto ciò che mi stava intorno si dissolse, scomparve, per lasciar spazio a quell'evanescente gusto di lampone. Forse è così che si sente un bambino quando succhia il latte dalla mamma. Mi risvegliai da quella dolce abulia, non ero più stanco. La stanza mi rimandava delle voci, dei richiami, dei flussi. Come le fitte di dolore che trasmette una mano anchilosata. Perché vuole svegliarsi. In silenzio mi diressi verso l'armadio a muro e l'aprii. Era un guardaroba per bambini. Niente di strano, pensai per tranquillizzarmi: una sfilza di vestiti da bambino. Ma non mi tranquillizzai. Anzi. Avevo la pelle d'oca. Insomma, vestiti da bambino. Non riuscivo a capire se di un maschio o di una femmina. Forse di entrambi: abitini, gonne, e biancheria femminile. Ma anche pantaloni e camicie da maschio, cinturoni di pelle, calze sportive. Maschio o femmina? E la collezione di bambole sullo scaffale: era di un maschio o di una femmina? Perché erano bambole, sì, ma di soldati. Chissà, magari molti bambini e bambine erano passati come me per questa stanza. Erano stati condotti qui con ogni sorta di stratagemmi, pretesti e adescamenti. E cosa gli avevano fatto? E dov'erano, adesso? Toccai gli abiti appesi. Emanavano la stessa frescura della gonna che Felix mi aveva dato durante il giorno. Anche i colori erano simili a quelli dei vestiti che mi aveva dato lui. Tinte forti, rosso, viola, verde. C'è qualcosa che non torna, pensai, perché mi hanno lasciato proprio in questa stanza? Gabi non mi aveva mai raccontato che con Lola abitava un bambino. O una bambina. Allora, di chi erano i vestiti nell'armadio? E cosa legava Lola a Felix? E perché Felix mi aveva portato qui? Voglio telefonare a casa. Devo assolutamente parlare con papà. Subito. Sentii dei passi che si avvicinavano e saltai dentro il letto, facendo appena in tempo a infilarmi sotto la coperta. Lola Ciperola e Felix Glick entrarono in punta di piedi. Chiusi gli occhi. Mi prese una fredda paura, un sentimento che svolazzava nel buio, come un pipistrello nelle favole di paesi lontani, e aleggiava nei discorsi che si sentivano fare alla polizia sui rapitori di bambini e sulle loro malefatte. Combattevo

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all'ultimo sangue contro quella paura, che non si conciliava certo con Felix e Lola. No? E perché no? Probabilmente i rapitori di bambini avevano sempre l'aria di persone care. Perché dovevano pur ingannare i bambini, per farsi seguire, non credete? Forse questi due lavoravano sempre in coppia, e Felix portava sempre qui le sue vittime. Lola non gli aveva forse fatto delle domande a proposito delle sue follie, e non gli aveva chiesto se aveva avuto il permesso di prendermi? Dove si erano procurati tutti quei vestiti da bambino? Sbirciai fra le palpebre chiuse e li vidi vicino a me. La testa di Lola era appoggiata sulla spalla di Felix, che la cingeva con il braccio. Restarono a guardarmi in silenzio, finché Felix disse sottovoce: «Il bambino.» E Lola sospirò. Poi mandò fuori Felix, chiuse la porta e si sedette accanto al letto. Mi guardava, senza quasi respirare. Ero molto confuso, non avevo più la forza di capire cosa stesse realmente accadendo intorno a me. Forse Felix era stato a suo tempo un delinquente, forse lo era ancora, ma in fondo ero stato io a portarlo qui, io che avevo scelto di venire! E Lola? Cosa c'entrava lei in tutto questo? Se era complice in quel complotto ordito contro di me, per chissà quale malefatta, allora non me ne importava più di morire, perché non c'era più niente che valesse la pena. Sopraffatto dall'angoscia sospirai. Immediatamente lei si alzò e si precipitò verso di me, mi passò una mano sulla fronte e mi asciugò il sudore. «Dormi, ci sono qui io» sussurrò. Mi rimboccò delicatamente la coperta e diede qualche colpetto sul cuscino. In fondo sapevo che Lola non poteva essere complice di un misfatto. I suoi sguardi mi avvolgevano in qualcosa, attesa... o nostalgia. Mi girai leggermente e ci guardammo nel buio. «Non aver paura, Nono» disse con la sua voce morbida, affettuosa. «Ci sono solo io. Vuoi che me ne vada?» «Va bene così.» Ma cosa voleva da me? «Felix mi ha raccontato che ti piaceva aspettarmi vicino a casa, anche se io non ti guardavo nemmeno» disse. «Scusami.» «Non fa niente. Venivo a vederti anche a teatro.» «Sì, mi ha raccontato anche questo. Come ti sembra la mia recitazione, Nono?» «Ottima. Io pensavo... penso che sei un'attrice eccezionale. Ma...» «Ma cosa?» chiese lei, sporgendosi in avanti. Accidenti a me e alla mia linguaccia! «No... pensavo solo, cioè, che a casa tua, sei così, sei più vera.» Nel buio la sentii ridere piano. «Anche Felix la pensa così. Lui dice che io so recitare solo parti di regine e principesse, ma che in ruoli di semplice donna sono un vero disastro. Me lo dice da anni. Forse ha ragione.» Avrei voluto protestare, difenderla, come facevo quando Gabi disprezza la sua bellezza esteriore. Ma non ne avevo più la forza. «Raccontami di te, Nono.» «Sono un po' stanco.» «Che stupida. Sono così contenta di averti qui, di avere un bambino, che non smetto di tormentarti. Me ne vado subito. Dormi.» «No, resta. Non andartene.» Certo, avevo paura di restare solo in quella stanza, in quel mistero. Ma volevo che si trattenesse perché stavo così bene con lei. Insieme a Lola provavo qualcosa di assolutamente nuovo. Come con una nonna. A dire il vero ne avevo già una, nel mio repertorio. Nonna Zitka. Relazioni complesse. Era la mamma di papà e di zio Shemuel, oltre che di altri tre fratelli. Una donna alta ed esile, con una

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crocchia di capelli grande come una noce sulla nuca, con un occhio coperto da un velo opaco di vecchiaia, e delle mani magre e giallastre. Non vorrei che questa vi sembrasse la descrizione di una strega smarrita. Ma aveva inequivocabilmente questo aspetto. Non mi era per niente affezionata. Su tutto quel che facevo, su ogni mio gesto, trovava qualcosa da ridire. Dal momento in cui mi vedeva, il suo unico occhio buono non mi mollava un minuto, mi restava attaccato come la punta di un compasso, mentre lei cominciava a girarmi intorno facendo osservazioni. Finché non ne potevo più e scoppiavo a piangere, o mi scatenavo. Ero convinto che, fin dalla nascita, non mi avesse potuto soffrire e così già a tre anni avevo smesso di chiamarla "nonna" impuntandomi su "Zitka", che pronunciavo in un modo tutto particolare, perché trapelasse quel che provavo per lei. A quattro anni - dopo che Gabi mi aveva letto Cappuccetto Rosso - cominciai a nutrire pesanti sospetti nei suoi confronti, e dissi a papà che non volevo più andare a trovarla, almeno fino a quando non si fosse fatto vedere il cacciatore, per chiarire alcuni dubbi sulla sua identità. Papà non provava nemmeno a mettere una buona parola. Si limitava a concordare su tutto quel che lei diceva di me, e faceva del suo meglio perché non ci vedessimo. A volte mi sorprendeva la felice disinvoltura con cui troncava ogni rapporto fra me e lei. Ma papà non era un tipo particolarmente attaccato alla famiglia. Non favoriva nemmeno i miei legami con gli altri nipoti di nonna Zitka, i miei sette cugini. Erano tutti, senza eccezione, dei tipici esemplari Shilhav, e senza alcuna fatica riuscivano a sopire ogni trasporto per un tipo come me. In tutti quegli anni li incontrai solo ai matrimoni e nelle altre riunioni di famiglia. Loro restavano seduti tutta la sera vicino ai loro genitori, mangiavano usando la forchetta e il coltello e parlavano solo quando gli si rivolgeva la parola. Poiché si ostinavano a lanciarmi quel certo tipo di sguardi, non volendo deludere la pessima opinione che avevano di me, mi piazzavo per tutta la sera vicino al tavolo delle bevande e facevo finta di trangugiare un bicchiere dopo l'altro, finché il cameriere chiamava uno zio perché portasse via il bambino ubriaco. Allora mi accertavo con la coda dell'occhio che nonna Zitka stesse guardando e mi dirigevo a testa alta a chiacchierare con il batterista. Invece qui, con Lola, un'estranea, stavo così bene. La sua tenerezza, e quel suo strano affetto nei miei confronti... Insomma, era bello. «Raccontami di te» dissi praticamente addormentato. «Non come attrice. Di te.» «Ecco uno che capisce» rispose Lola sorridendo. Ripiegò le gambe sulla sedia, proprio come piaceva a lei, e si mise a pensare a voce alta. «Hai ragione, Nono. Io e la recitazione... come dici tu... non è più la stessa cosa. E' ormai qualche anno che sento una certa estraneità e, insomma, in pratica...» mi venne vicinissima e sussurrò: «Non mi piace più così tanto recitare davanti al pubblico.» Mi emozionai. Che scoop avevo per le mani: "Lola Ciperola odia il teatro!". Ma era chiaro che non ne avrei fatto menzione con nessun giornalista. Si trattava di una questione privata fra me e Lola. «Guarda tu che cosa strana» sorrise, «non l'ho mai detto con questa sicurezza. Solo che quando sono con te, come dire, mi si chiariscono una quantità di cose: quel che è importante nella vita, e quel che non lo è. E quel che voglio fare negli anni che mi restano.» Sfoderai un sorriso imbarazzato. Lei era davvero gentile

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con me. «Ho proprio voglia di raccontarti di me» riprese, «perché tu possa conoscermi un po'. Non voglio stancarti, ma non riesco a trattenermi. Sono tremenda, non è vero? Dimmi che sei stanco, che sei stufo di me.» «Raccontami com'eri da bambina.» «Vuoi davvero saperlo? Sul serio?» Era così contenta che me la ritrovai davanti bambina. «Ma raccontami solo...» esitavo. Come dirlo senza offenderla? «Solo cose che non hai mai detto sui giornali. Cose di prima mano.» Mi osservò a lungo, poi scosse la testa lentamente: «Per questo ti meriteresti un bel bacio, Nono, ma mi trattengo. D'un tratto mi manca la voglia di parlare. Posso cantarti una canzone?.» «Luccicano i tuoi occhi?» «No. un'altra. Una che mi cantava mia madre quando avevo più o meno la tua età. Quand'ero bambina, in un paese lontano, e mi chiamavo ancora Lola Katz, non avendo ancora un nome d'arte così celebre e ridicolo. Allora, però, avevo un cane che si chiamava Viktor. E due amiche, Elka e Katia...» «Lola Katz? E' il tuo vero nome?» «Proprio così. Sei deluso?» «No... io solo... che strano... In fondo Lola Ciperola era bello.... Lei sorrise piano, chiuse gli occhi e cominciò a cantare sottovoce, in una lingua straniera, una canzone triste e soave. Poi, dopo qualche ora, o minuto, la sentii mormorare: «Ora dormi, tesoro. Abbiamo tempo.» Quando mi risvegliai, era già sera. Ormai avevo scambiato il giorno con la notte. Rimasi disteso nel letto, a sognare un po'. A quest'ora, a casa, papà non era ancora tornato dal lavoro. Ero libero. Potevo giocare a calcetto, sfogliare un catalogo di armi o anche viaggiare con il dito sul mappamondo e tentare nuovi percorsi tra i vari paesi, oppure niente. A volte mi convincevo che era passata già un'ora, che papà stesse per arrivare, mentre l'orologio mi diceva che era trascorso solo un minuto. E allora, cosa fare? Non avevo voglia di stare in casa, i compiti senza Gabi non li facevo, e da Mikah andavo proprio solo quando non avevo alternative. Andavo da lui, parlavamo di qualche scemata! quand'ecco che le bugie si aprivano un varco. Allora cominciavo a mentirgli, e lui mi guardava a bocca aperta, con quei suoi lobi cascanti come zavorre ai lati della testa... Lui lasciava che mi impantanassi nelle mie sciocchezze, così finivo per innervosirmi, lo provocavo, a volte ci picchiavamo così, tanto per fare, per noia. Poi mi alzavo e me ne andavo come intontito. Da tempo non era più una vera amicizia. Soltanto una noia reciproca. Dopo il bar-mitzvah gli dirò che non siamo più amici. Basta, chiuso. Se mi fosse piaciuto leggere... ma non mi piaceva, così aspettavo che Gabi leggesse per me. Se avessi suonato qualcosa, la batteria per esempio... per la batteria mica ci vuole orecchio, bastano il senso del ritmo e la forza, cose che effettivamente possedevo. Ma papà non me l'aveva voluta comprare. E allora, cosa facevo in quelle migliaia di ore, in quegli interminabili pomeriggi della mia infanzia? Con che cosa riempivo la mia vita? Ricordo, per esempio, che mi sottoponevo a delle specie di esami, tentavo di identificare le macchine dei vicini in base al rumore del motore. Oppure trascorrevo lunghe ore a sfogliare la mia collezione di annunci di persone scomparse, pensando a dove potevano essere e progettando di mettere su, insieme a loro, una

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polizia segreta privata: visto che ormai non erano più di nessuno, perché non farli diventare miei scudieri...? A volte andavo con i pattini al giardino pubblico, facendo i miei soliti esercizi con i nomi dei caduti sulla lapide. O così. Niente. Non facevo. Mi limitavo a esistere, aspettando che capitasse, cominciasse qualcosa. Non cominciò mai nulla. L'unica volta in cui qualcosa, un'amicizia vera, era sbocciata, l'avevo persa. Se oggi è giovedì, allora esattamente a quest'ora sto percorrendo fra i cespugli l'intero tragitto dal centro commerciale: sono la guardia del corpo della mamma di Chaiim. Alle sei e mezzo di sera lei torna dal suo appuntamento fisso dal parrucchiere. Benché mi abbia scomunicato, non la lascio mai senza copertura difensiva. La seguo, attento a ogni minaccia di pericolo nei paraggi, studiando una via di scampo alternativa in caso di difficoltà o di attacco frontale. A volte si ferma a fare quattro chiacchiere con una vicina. Io sono subito all'erta, pronto a una sortita suicida nell'eventualità che la vicina tenti di compiere un attentato contro di lei. Mi urla in testa una voce forte: "Fuori! Via!". Da dietro le siepi osservo le sue lunghe ciglia che vanno dolcemente su e giù. A volte, se riesco a nascondermi molto vicino a lei, mi pare di sentirla. L'orologio a muro di Lola segnava un quarto alle sette. Mi alzai e feci un'altra doccia, per togliermi di dosso il sudore di quella calda giornata. Non capisco proprio come si faccia a vivere a Tel Aviv. Lola era già andata in teatro lasciandoci soli, ma aveva consegnato a Felix un lungo papiro di "istruzioni per l'uso di: casa, cucina e Nono". Come se io fossi un bambino di tre anni, e magari anche di vetro. Felix era seduto in salotto e stava leggendo il giornale alla luce del paralume cinese. Indossava una vestaglia rossa con una cintura di stoffa. Si era lavato i capelli e aveva fatto la messa in piega alla sua chioma candida, e paglierina sulle punte. Quando mi vide si alzò di scatto, piegò il giornale e mi domandò cosa volevo mangiare. C'era una specie di tensione nella sua voce e la notai. Preparammo la tavola in cucina senza parlarci. Mi sedetti, ma subito mi rialzai. Avrei voluto telefonare a casa. Felix osservò che la frittata era quasi pronta e che era un peccato lasciarla raffreddare. Risposi che avrei solo detto che stavo bene, mi bastava un minuto. Felix sottolineò che a quell'ora le linee per Gerusalemme erano sicuramente intasate. Parlava in fretta, con una specie di ostinazione. Mi sedetti. Cos'era questa storia delle linee intasate? Mi servì la frittata, con due fette di peperone intorno e un ciuffo di prezzemolo di lato, come la firma dell'autore. Pensai che forse era la nostalgia per i tempi in cui aveva a cena trenta persone alla volta. «Va bene così, Amnon?» «Certo. Che stile, eh?» Fece un sorriso malinconico, e mi spaventai. Ogni volta che Felix era di cattivo umore, avevo come l'impressione che qualcuno stesse per soffiare su una candela che eravamo riusciti ad accendere insieme, io e lui. Gli rammentai di nuovo la notte scorsa e la carica con il bulldozer. E il muro che aveva capitolato. «Cosa vuoi che facciamo stanotte?» mi interruppe. Gli rivoltai la domanda: «Cosa vuoi che facciamo?.» «Puoi tornare a casa, Amnon, se vuoi.» «Come? E' già finita? Vuoi dire che è finita qui?» Ma se avevo appena cominciato a divertirmi. ««Non necessariamente» sospirò, «sei tu che

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devi decidere.» «Io, per me, starei così per sempre» dissi scoppiando a ridere, «ma sabato ho il bar-mitzvah. Cosa ti ha detto papà? Come vi siete messi d'accordo?» «Lo dico ancora una volta, Amnon: sei tu che devi decidere.» Strana, questa risposta. Come se Felix volesse evitare la mia domanda. «Un momento: e se decido che restiamo qui una settimana? O un mese? E se non torno più a scuola e continuiamo ad andare in giro la notte a fare delle bravate?» Felix rispose seriamente: «Per me sarebbe il più bel complimento.» A mio parere avrebbe dovuto dare una risposta diversa. Insomma, non era possibile che papà gli avesse permesso di tenermi per sempre. Il campanello d'allarme cominciò a suonare dentro di me. Si usa dire che suona nel cervello, ma in me era sempre nella pancia, sotto il cuore, leggermente a destra. Felix si muoveva avanti e indietro per la cucina, lavava bicchieri, si riallacciava continuamente la cintura, apriva il frigorifero, lo richiudeva... Smisi di mangiare e mi misi a osservarlo. Cosa succede? «Fra parentesi, Amnon» disse dandomi la schiena, «c'è una cosa di cui io e te dobbiamo parlare prima di proseguire.» «Cos'è successo? E' successo qualcosa?» Speriamo di no, che questo sogno magico non vada distrutto. Almeno per un po'. Ancora un giorno, due. Comunque sabato devo tornare. Felix cercava qualcosa e la trovò sulla sedia. Un giornale. Un giornale ripiegato. Lo buttò sul tavolo, proprio dentro il mio piatto. Cosa diavolo succede? Mi fece cenno di aprire e leggere. Non sapevo cosa cercare. Ma non dovetti faticare molto. Il titolo in rosso gridava: SI ESTENDONO LE RICERCHE DEL RAPITORE E DEL BAMBINO. E sotto, in grandi caratteri neri: MASSIMO RISERBO DELLA POLIZIA. IL BAMBINO E' FIGLIO Di UN ALTO UFFICIALE DELLA POLIZIA. C'erano anche la foto del macchinista della locomotiva e quella del treno fermo in aperta campagna. I miei occhi notarono ancora: "Il padre del bambino coordina le ricerche. Si conosce l'identità del rapitore. Il bambino potrebbe essere in pericolo di vita".

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CAPITOLO 21. RIECCOCI ALLA PISTOLA SGUAINATA. SI PARLA D'AMORE. Sentii un gran freddo, questo me lo ricordo. Freddo in tutto il corpo, come se qualcuno fosse venuto con delle forbici ghiacciate a ritagliarmi da una bella e luminosa immagine. «Cos'è» domandai. O meglio: dissi. Perché mi mancò la forza di piegare la voce in un punto interrogativo. «Devo raccontarti una storia» rispose Felix stancamente. Teneva gli occhi chiusi. «Cos'è...» domandai di nuovo, con la voce che tremava come il giornale che avevo in mano. Le parole "pericolo di vita" mi avevano fulminato. Sul tavolo, fra me e Felix, c'era un lungo coltello per il pane, dal quale non riuscivo a staccare gli occhi. «Mi hai rapito?» chiesi guardingo. Non riuscivo a crederci, sapevo di averlo sempre saputo e di non averlo voluto capire. «Si potrebbe dire così» rispose. Non aveva ancora aperto gli occhi. Il suo volto era come contratto. «Davvero mi hai rapito?» La voce si spezza fra una parola e l'altra. «Sei venuto da me di tua spontanea volontà.» Aveva ragione. Io mi ero rivolto a lui, in treno, chiedendogli: "Chi sono?". «E' una storia, come dire... molto arzigogolata» continuò Felix, appoggiando la testa contro il muro. «Ma se non hai voglia di sentirla, dimmelo subito.» Non provavo nulla. Nessuna emozione o sensazione. Avrei soltanto voluto non esistere. Ormai non potevo più nemmeno tornare a casa. Come avrei potuto presentarmi da papà? Come accettare il fatto che tutto quel che avevo compiuto insieme a Felix tutte le nostre avventure erano atti di delinquenza? Perché non si poteva definirli diversamente. Pura delinquenza. Avevo compiuto dei crimini. Il ronzio mi trapanava dolorosamente l'occhio sinistro. Me lo meritavo. Doveva farmi maLe. Ma com'era potuto accadere? Era veramente successo questo? Allora non era stato papà a organizzare tutto. Non ne sapeva nulla. E domani non sarebbe andato a lasciare nessuna mancia al cameriere. E io? Dovevo considerarmi complice di Felix in tutte queste nefandezze? Come avevo fatto a credergli? Cosa mi stava succedendo? Chi sono io davvero? Come mai d'altra parte mi ero divertito così tanto? «Perché mi hai rapito?» domandai scivolando prudentemente sulla parola rapito che mi sembrava tremenda persino crudele. Tacque. «Perché mi hai rapito?» gridai. Lui si contrasse leggermente apparendomi ancor più fragile e vecchio. «Solo per... per... voglio raccontarti una cosa» disse. «Raccontarmi? Che cosa? Un'altra delle tue bugie?» urlai come un forsennato. Il coltello era vicinissimo alla sua mano. «E' una storia che riguarda te Amnon. Anche un po' me. Ma soprattutto te.» «E ora cosa mi farai? Chiederai il riscatto a mio padre?» All'improvviso mi sembrava di capire: si stava vendicando a mie spese! Sì. Era rimasto il delinquente di sempre e voleva vendicarsi. Me lo aveva anche lasciato intendere e io da vero stupido non l'avevo capito: cercava vendetta perché papà l'aveva catturato e messo in prigione! Ma io di cosa avevo colpa? Cosa gli avevo fatto? Altro che accordo segreto per farmi conoscere da vicino il mondo del crimine e farmi diventare il miglior detective del mondo, altro che virile stretta di mano! Era tutto frutto della mia fantasia. «Io non voglio nulla da tuo papà. Non voglio il suo denaro.»

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«Allora cosa vuoi da lui?» «Voglio il suo bambino.» «Per farne cosa?» Questa domanda fu come una deflagrazione e mi lacerò il cuore. Perché ormai mi ero affezionato a lui ed ero convinto che lui si fosse affezionato a me. Perché non avevo capito che mi aveva semplicemente rapito. Era finita. Come avevo potuto credere che mio padre avesse organizzato tutto? Adesso realizzavo che lui e Gabi avevano pensato al mago e alla contorsionista forse anche al poliziotto mascherato e al finto galeotto. Ma questo era niente se paragonato a quel che avevo poi fatto con Felix. «Mi hai rapito per vendetta» gli dissi. Ogni suono mi usciva di bocca con una sottolineatura d'odio. «Per vendicarti di papà mi hai catturato. Ecco perché!» Con gli occhi sempre chiusi Felix scosse la testa facendo segno di no. Avevo la sensazione che avesse paura di aprirli perché anche a lui dispiaceva che finisse tutto così. «No Amnon. Io ti ho preso solo perché avevo voglia di vederti e di stare con te. Papà non c'entra niente. E' qualcosa fra me e te.» «Me e te? E perché proprio io? Non sono una celebrità. Sono un bambino come tutti gli altri! Non avresti nessuna probabilità di ottenere qualcosa in cambio se non fossi suo figlio!» «Amnon se vuoi andare via sei libero» disse Felix. «Non ti trattengo. Ma sappi che solo tu conti per me. Non tuo papà. Solo tu Amnon.» «Vuoi dire che volendo posso alzarmi in questo preciso momento e scappare via?» «Non hai bisogno di scappare. Si scappa solo se si è inseguiti.» «E tu... non mi inseguirai?» Finalmente aprì gli occhi. Erano coperti da un velo, una patina di tristezza o di sconfitta. Ci credetti pur sapendo di quanta gente aveva ingannato con quegli occhi. «Come mi hai guardato ora...» disse prendendosi il volto fra le mani e scuotendo forte la testa. Ecco questa è la pena più grande dopo settant'anni di menzogne: i tuoi occhi come mi hai guardato...» Mi alzai. Mi tremavano le ginocchia mi tremavano anche le mani. Non volevo che se ne accorgesse. Non doveva capire che avevo paura. Mi allontanai a passo lento ma senza voltargli la schiena. Lui restò seduto respirava rumorosamente. Capii quanto male gli faceva la mia mancanza di fiducia. Ma come potevo fidarmi? «Me ne vado» dissi. «Sei tu che decidi. Te l'ho sempre detto: sei tu che decidi quando finisce il gioco.» Camminai così, all'indietro, fino alla porta. «Vorrei raccontarti una storia» disse sottovoce, «una storia importante. La storia della tua vita.» Al diavolo tu e le tue storie, pensai. Mi hai rovinato il sogno, hai rovinato tutto quel che abbiamo fatto insieme. Improvvisamente tutto appariva brutto e terrificante. «Sappi solo» disse Felix «che se mi concedessi ancora qualche ora, non tante, solo fino a domani mattina, potrei raccontarti questa storia.» «E se no? Se decidessi di non credere a una tua parola?» A ogni mia frase piegava il capo un po' di più, come se lo stessi frustando. «Se te ne andrai, nessuno te la racconterà più.» «Sei pronto a giurarlo?» dissi in tono di scherno. Toccai la maniglia della porta con la schiena. Ero sicuro che non si sarebbe aperta, che lui avesse la chiave e che me l'avrebbe sventolata in faccia sorridendo in quel suo modo folle; allora sarebbe stata la mia fine, uguale a quella degli altri bambini da lui condotti in quella casa. Mi avrebbero

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messo nelle liste delle persone scomparse, la polizia avrebbe chiesto collaborazione per le ricerche, e alla fine avrebbero trovato i miei resti in un bosco di Gerusalemme. «Amnon, non ti giuro niente» disse Felix sottovoce. «Posso solo promettere.» Ma la chiave era al suo posto. La girai e la porta si aprì. Uscii di slancio e corsi di sotto.. Scesi gli scalini due o tre alla volta. Per un attimo me lo immaginai lanciato all'inseguimento. Forse strillai. Avevo i capelli ritti, ero tutto teso, ma lui non mi inseguì. Uscii di volata dall'edificio. Era sera. Per strada c'era un certo traffico e i lampioni erano accesi. Mi fermai accanto a un muretto, ansimavo come un cane. Continuavo a ripetermi a voce alta: «Sono salvo! Sono salvo!» ma, chissà perché, non provavo gioia, solo dolore e prostrazione. Ricordo che nell'aria c'era un intenso profumo di caprifoglio. Ma era tutto come sempre. Nessuno poteva immaginare cosa avevo provato in quei momenti e da cosa mi ero salvato. Mi passarono accanto due ragazzi abbracciati, poi un uomo con un cane. Teneva sottobraccio il giornale con i titoli che mi riguardavano. Cosa avrebbe fatto se l'avessi fermato per dirgli che ero io, ero il bambino che tutto il paese stava cercando? L'uomo passò oltre ma il cane si fermò, annusò le mie scarpe e mi guardò con circospezione. Incominciò a ringhiare come fanno sempre i cani quando fiutano la mia presenza. Ma l'uomo tirò il guinzaglio e il cane venne trascinato via prima di riuscire a svelarmi. Camminavo spedito lungo il marciapiede. Pensai che avrei avuto bisogno di un anno intero di tranquillità per uscire dal labirinto in cui mi ero cacciato in quegli ultimi due giorni. La cosa che mi sconvolgeva maggiormente era il fatto di non aver capito cosa stava succedendo intorno a me. E cioè che molte persone erano in agitazione per me, correvano avanti e indietro, mi cercavano, mentre io ero tutto preso dalla mia piccola favola. Come al solito. che Scemo, imbecille. Cosa pensavi? Che papà ti avrebbe lasciato nelle mani di un delinquente patentato per farti imparare qualche piccolo trucco del mestiere? Per un corso accelerato di criminalità? Proprio papà, che per tutta la vita non ha fatto altro che conformarsi alla legge? Che ha combattuto con tutte le sue forze i criminali come Felix Glick? Cosa mi era successo? Come avevo potuto prendere un simile granchio? Mi sentivo come se nel sonno mi avessero condotto lungo una falsa pista e io continuassi a percorrerla, con il mio sorriso ebete, fermamente convinto di essere sulla strada giusta. Invece era tutto menzogna. Menzogna e infamia. A forza di bugie ero riuscito a ingannare perfino me stesso. L'edicola all'angolo era ancora aperta. Le passai davanti con circospezione, leggendo di sfuggita qualche titolo. Tutti i giornali parlavano di me in titoli a caratteri cubitali. Pareva che non ci fosse altro da raccontare se non il mio rapimento. Ma il mio nome non era riportato, perché la polizia lo copriva con il massimo riserbo. Rapimento. Rapito. Sono stato rapito. Pericolo di vita. Mormoravo continuamente quelle parole che alla fine mi suonavano fesse. Non c'era alcun nesso fra quelle espressioni e il modo in cui Felix mi aveva trattato. E non ero certo stato in pericolo di vita. Perché raccontano tutte queste bugie sui giornali? Solo per vendere più copie? Passai sul marciapiede opposto. Camminavo spedito senza sapere dov'ero diretto. Da qualunque parte, purché lontano da Felix. Fuggire da lui. Dal pericolo che egli rappresentava. Cosa starà facendo adesso, da solo, in cucina?

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Di sicuro sarà già scappato via. Sinuoso come un'ombra. Pronto a ingannare un altro bambino. Feci un lungo giro e tornai nella via dietro la casa di Lola. Volevo anche verificare se per caso non avesse cercato di fuggire dalla finestra. Niente. Meglio spostarmi di qui e andare a fare rapporto alla polizia. Potrei chiedere di telefonare dal chiosco dei giornali. Non ho soldi, ma spiegherò al proprietario che sono il bambino del giornale. Quello rapito, sì. Camminavo un po' più lento. Mosse del genere bisogna valutarle con attenzione. Chissà se Mikah lo sa e se i miei compagni di classe hanno capito che sono io. Quei bambini che non sono mai stati miei amici. Ridevano di me e di mio papà, dei nostri giochi polizieschi e dei nostri saluti sull'attenti, dei gradi che mi assegnava, o mi negava, e del fatto che la mascotte della polizia non fosse stata accettata nemmeno nelle squadre scolastiche di sicurezza stradale perché, per un motivo o per l'altro, non ci si poteva fidare di uno così. Chissà cosa diranno adesso, costoro. La signora Markus, per esempio, che ha sempre così tanta voglia di espellermi da scuola, forse si asciugherà una lacrima e dirà: «Non era cattivo. Aveva solo un animo da artista. Proprio così: ci sono bambini quadrati e ce ne sono a zigzag. E noi non l'abbiamo capito in tempo". Mentre gli altri insegnanti si telefoneranno: «E' lui. Poverino. Forse l'abbiamo spinto a questo con il nostro comportamento. Bisognerebbe pensare a un bel libro commemorativo. Comunque era un bambino speciale. Anche se un po' scatenato, a volte.» Chissà cosa penserà Chaiim Stauber. Se cambierà qualcosa in lui. Se ne parlerà in casa. Misi le mani in tasca, per calmarmi un po'. Perché dovevo correre così? Bisogna pensare, prima di agire. Senza volerlo mi trovai di nuovo davanti a casa di Lola Ciperola. Qui le strade sembrano tutte uguali. Andai fino all'angolo e passai di nuovo di fronte all'edicola per sbirciare i titoli dei giornali. In quel momento probabilmente migliaia di persone li stavano leggendo. Forse anche il primo ministro Golda Meir ci aveva dedicato un po' di tempo, chiedendo ai suoi criminologi se la polizia stesse facendo effettivamente tutto il possibile per salvare quel bambino, chiedendo di conoscere il suo nome top secret. L'esperto glielo avrà sussurrato nell'orecchio e il primo ministro avrà detto "ah" con quella sua voce particolare, trascurando per un istante i suoi urgentissimi affari. Ma cosa starà facendo ora Felix, che avevo lasciato accanto al tavolo della cucina? Quell'uomo, il mio complice, il compagno di due giorni così belli, quasi un sogno, forse i giorni più felici della mia vita fino a quel momento, eccolo d'un tratto diventato oggetto dei titoli del giornale, estraneo, nemico. Quando me n'ero andato, mi era apparso completamente svuotato di energia vitale. Qualcuno potrà mai spiegarmi perché per lui era così importante che io gli credessi? Perché aveva cercato in tutti i modi di farmi divertire in quei due giorni? Mi aveva proposto un patto sulla questione del mio vegetarianesimo. E io gli avevo promesso (dentro di me) di essergli fedele. L'avevo tradito. Ma lui aveva tradito per primo. Mi sedetti sul marciapiede. Non sapevo cosa fare. Sulla via principale udii una sirena della polizia. Se fossi andato lì, sarebbe tutto finito immediatamente. Così non avrei saputo la storia che Felix voleva raccontarmi. E non avrei più potuto fargli domande. Papà certo non me l'avrebbe mai raccontata. Non voleva che io sapessi. Aveva persino proibito a Gabi di parlarmene. E Felix aveva

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detto che conosceva Zohara. E sapeva della sua vita con papà, della montagna su cui erano andati ad abitare. E quella storia dei cavalli? Che tipo di coppia erano? E poi aveva detto che mi aveva rapito per raccontarmi questa storia. La storia. La storia. La storia mi ronzava intorno. Per tredici anni era rimasta zitta, la storia, e ora non mi dava pace. Un momento: la fotografia. La fotografia che mi aveva mostrato in treno. Santo Dio! Mi presi la testa fra le mani: nella foto mia e di Mikah indossavo il cappotto. Quindi Felix aveva progettato questa operazione fin dall'inverno. Quanti sforzi e pensieri doveva averci dedicato. Solo per raccontarmi una storia? E la Bugatti che aveva fatto arrivare con la nave? E l'altra macchina per il cambio? E le altre cose che, probabilmente, ci stavano ancora aspettando? Aveva anche detto a Lola che era l'ultima impresa di Felix. Lo spettacolo d'addio. Lui sapeva qualcosa di me. Qualcosa di importante per lui. Se non fosse stata importante, non ci si sarebbe dedicato con tanto impegno. La mia storia era importante per lui. E, se non me l'avesse raccontata, nessuno al mondo l'avrebbe più fatto. Già per tredici anni nessuno era stato disposto a farlo. Non ho paura di lui, mi dissi pieno di paura. Potrei tornare, sentire la sua storia, poi prenderlo e consegnarlo alla polizia. Sarebbe magnifico, tentai di darmi la carica: il padre poliziotto l'ha catturato dieci anni fa, e ora lo cattura il poliziotto figlio. Così si chiuderebbe il ciclo generazionale. Che imbroglione, mi arrabbiai: come aveva potuto convincermi che papà avesse approvato l'operazione? Ma dentro di me lo ammettevo: Felix non era riuscito a convincermi di niente. Io gli avevo fatto delle domande e lui mi aveva risposto, a essere sinceri, senza mai mentire. Era questa la cosa strana: da quando ci eravamo conosciuti, non mi aveva mai mentito - se non quella volta con la pistola, ma per farmi ridere. Per lui era importante parlarmi di sé. E quando lo faceva, diceva solo la verità (così almeno mi sembrava). Come se desiderasse che ci fosse almeno una persona al mondo, anche se un bambino, con la quale era stato completamente sincero. Ma perché proprio io, il figlio del poliziotto che l'aveva acciuffato? Mi alzai e tornai indietro. Felix non mi aveva mentito. Non aveva mai cercato di farmi del male. Non aveva nemmeno tentato di impedirmi di fuggire. Perché non avevo ascoltato quel che aveva più volte ripetuto: «Sei tu che decidi. Sei tu che stabilisci»? Tutto dipendeva da me. Se solo ne avessi avuto il coraggio, avrei saputo tutto. Se invece non l'avessi avuto, sarei potuto tornare come un eroe fuggito dalle grinfie del rapitore, e solo io avrei saputo la verità. Salii lentamente le scale. Sì: tornavo da lui spontaneamente. L'avrei ascoltato e poi, con uno stratagemma, l'avrei preso in trappola. Proprio così. Avrei espiato per tutto quello che avevo fatto insieme a lui, e papà sarebbe stato costretto a perdonarmi. Mi fermai un istante, prima di bussare alla porta. Sii ragionevole, mi dissi, ha una pistola. E' disperato. Rifletti, prima di doverti pentire. Se entri, forse non ne uscirai vivo. Bussai alla porta di Lola, ma non sentii nessun rumore. E' già scappato, pensai. Cosa avrebbe dovuto fare? Aspettare pazientemente che io tornassi con la polizia? Era scappato, non avrei più sentito la storia. Avvertii come una fitta al cuore, sia per la storia che avevo perso per sempre, sia perché intuivo che questo Felix, grande furfante, mi sarebbe mancato. Abbassai la maniglia e la porta si aprì. Entrai

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guardingo, attento a non espormi. Ritrovavo l'istinto di papà. Silenzio. «C'è qualcuno?» chiesi prudentemente. Una tenda si mosse, e spuntò Felix. Teneva in mano la pistola. Lo sapevo. Ero stato così scemo da cadere nella trappola. «Sei tornato» disse. Sotto l'abbronzatura era pallidissimo. Gli tremava la mano. «Sei tornato solo, senza la polizia, vero?» Annuii. Non osavo muovermi, ero come congelato dalla paura e dalla rabbia per la mia ingenua stupidità. Lasciò cadere la pistola sul tappeto e si coprì il volto con le mani, premendo forte sugli occhi. Non mi mossi. Non mi precipitai sulla pistola. Aspettai che si calmasse, che le spalle smettessero di tremare. Quando tolse le mani, aveva gli occhi rossi e gonfi. «Sei tornato» mormorò. «Che bello, Amnon, sei tornato.» Mi passò davanti ondeggiando. Trascinava le gambe a fatica, aveva i capelli arruffati e bagnati di sudore. Aspettai che entrasse in cucina. Corsi a raccogliere la pistola e me la ficcai in tasca. Ora ero più sicuro. Ma il mio cuore batteva sempre più forte, non sapevo perché. Rimasi sulla porta della cucina. Felix bevve un bicchier d'acqua e si sedette con un sospiro, appoggiando la fronte sulle mani. Era bianco come un cencio, come i volti dei deceduti nelle fotografie della polizia. Sul tavolo c'erano un foglio di carta e una matita. Qualche riga era stata scritta. Quando si accorse di me, Felix prese precipitosamente il foglio e lo appallottolò. «Non hai idea di cosa significhi per me il fatto che sei tornato» disse. «Stavi per scappare?» domandai. La mia voce era ancora secca e rigida, ma l'astio s'era come volatilizzato. «Devi sapere una cosa: tornando, mi hai salvato la vita» continuò. «Non che la vita di Felix Glick valga molto, ora. Ma, tornando, tu le hai dato un certo valore... capisci cosa sto dicendo?» Non capivo. «Se avessi tardato anche solo cinque minuti, non ci saremmo mai più visti» disse. «La storia» brontolai impaziente. Ero di nuovo pentito d'essere tornato. Sapevo di avere perso l'ultima possibilità di uscirne fuori, rivedere casa mia e dimenticare questa strana e angosciante faccenda. «Mi hai promesso una storia: raccontala, su!» Oh, se solo avessi raggiunto la sirena della volante, giù in strada, ora starei parlando al telefono con papà. «E' la storia di una donna» disse Felix, esitando. Il mio cuore era come impazzito. Zohara, Zohara. Il sangue mi pulsava nelle tempie. Felix si infilò una mano nel colletto della camicia. Inconsciamente passai il dito sul grilletto della pistola che avevo in tasca. L'istinto agiva prima di darmi il tempo di pensare, anche se non ce n'era bisogno. Felix non stava per estrarre un'arma. Solo la catenina d'oro, la catenina su cui erano rimasti una spiga e il ciondolo a forma di cuore. Con una leggera pressione delle dita aprì il coperchietto del cuore, me lo porse e disse con voce rotta: «Una donna che tanto io quanto tuo padre amavamo molto.» Zohara mi sorrise dal cuoricino, col suo bel viso e quegli occhi un po' distanziati l'uno dall'altro.

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CAPITOLO 22. LA CINCIALLEGRA E L'INVERNO. C'era una volta, tanti anni fa, una bambina. Quando compì sei anni, le organizzarono la festa di compleanno. La misero in piedi su una seggiola decorata di fiori e tutti gli ospiti contarono in coro i suoi anni. Mentre la portavano in tripudio per la settima volta, all'improvviso la bambina dichiarò, con un sorriso pieno di felicità, che aveva deciso in che giorno sarebbe morta: esattamente vent'anni dopo. Il silenzio calò nella stanza. La bambina osservò sorpresa quei volti turbati che la guardavano muti, e scoppiò a ridere: «Ma c'è ancora un mucchio di tempo!.» Aveva un viso affusolato con gli zigomi sporgenti, come se avesse perennemente fame, e membra filiformi, sempre coperte di brutti graffi che si procurava dormendo, o quando sognava da sveglia. Passava lunghe ore alla finestra in camera sua, con i suoi occhi neri perennemente semichiusi, e non sentiva mai quando la chiamavano. Crescendo, cominciò a divorare libri su libri. O meglio: a farsi divorare dai libri. Leggeva tutto quel che le capitava a tiro, libri per bambini e libri per adulti, serbando un suo segreto: non era una bambina. Era una spia mandata nel mondo da un libro particolarmente amato - ogni volta era protagonista di un racconto diverso, la cui missione consisteva nel vivere una vita normale fra gli altri esseri umani senza farsi scoprire. Se la gente avesse capito che era solo la finzione di un essere umano, un personaggio sotto le spoglie di una bambina, sarebbe stata punita. Zohara non rivelò nemmeno al suo diario quale sarebbe stata la punizione. Oggi, che sono persino più vecchio di Zohara nel giorno in cui morì, penso che avrei potuto capirlo: il castigo era che la spia sarebbe stata costretta a rimanere fra gli uomini fino alla fine. Divenuta ancora un po' più grande, Zohara (o Pippi Calzelunghe, o Dorothy o Huckleberry Finn, o David Copperfield, o Lassie, o Romeo e Giulietta insieme, o lo zio Tom) annotava nel suo diario precise descrizioni del paese che lei chiamava "la terra dei mortali", scriveva di famiglie che continuavano a vivere insieme ma nella morte, e disegnava bambini che nascevano, bambini diafani e senza occhi. La portarono dal dottore, ma nessuno riuscì a curare la sua tristezza. Uno specialista consigliò di comprarle uno strumento musicale, per spezzare la malinconia con la musica. Così, in un negozietto di via Ben Yehudah a Tel Aviv, le comperarono un flauto di legno nero, che lei suonava molto volentieri; solo che, quasi sempre, smetteva dopo appena qualche istante, si rinchiudeva in se stessa, con il flauto in bocca e le dita sospese sui fori per assecondare un ritmo occulto, senza produrre il minimo suono. Nei suoi rari giorni buoni Zohara era gaia come una cinciallegra scampata alle bufere dell'inverno: era radiosa e chiacchierona, camminava a passo di danza, pronta ad abbracciare mille volte le persone che amava, ad appoggiare la guancia su ogni cuore. In quei giorni s'illuminava e dal viso le scomparivano quelle rughe di rabbia e tristezza che lo deturpavano. D'un tratto si capiva quanto era bella. In quei giorni felici la bambina indossava dei vestiti particolari, per nulla adatti alla sua età - scialli, copricapi multicolori - e passeggiava per Tel Aviv insieme a sua madre come un francobollo raro, assorbendo gli sguardi stupiti di chi la incontrava,

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come se stesse stipando delle provviste prima di partire per un lungo viaggio solitario. In quei giorni Zohara sommergeva di parole le persone che le stavano intorno. Aveva un gran bisogno di parlare e inventava storie fantasiose, le raccontava in famiglia, ai compagni di classe, a chiunque avesse avuto la pazienza di ascoltarla. Con un linguaggio ricco, poetico, raccontava di mondi in cui era stata una volta, forse in vite precedenti, o di creature minuscole che volavano nelle sue palpebre esibendosi a suo piacimento, o di un giovane figlio di re vissuto in una terra lontana, di cui non poteva pronunciare il nome, perché era un sortilegio, e il ministro del re aveva già deciso che il principe z avrebbe sposato una bambina della terra d'Israele, della piccola città di Tel Aviv, cose di questo tenore raccontava, con la massima serietà, gli occhi socchiusi, le labbra strette, come se stesse ascoltando qualcuno che gliele raccontava dentro di lei e lei si limitasse a riferirle. Erano storie così belle e divertenti che la gente non le chiamava panzane, bensì favole. Le favole di Zohara, dicevano; e i compagni di classe non la chiamavano fanfarona, anzi, l'ascoltavano con meraviglia, e un leggero ritegno. Ma non riuscivano a capire se lei credeva o meno a quel che raccontava. Perché, se ci credeva, dove trovava il coraggio, l'energia, la voglia di esprimersi con tanta convinzione? Ma vai a capire una bambina che ora è in un modo e un attimo dopo in un altro! Prima di tutto, decida chi vuol essere! C'era poi un'altra cosa, che ancor oggi mi addolora: nei giorni buoni Zohara sceglieva un compagno e si innamorava di lui. Avrà avuto allora otto, nove anni al massimo, ma il suo amore era onesto e totale, la dedizione assoluta, da adulto. Il bambino prescelto ne era ovviamente turbato: che farsene di quest'ansia di nome Zohara sempre addosso, Zohara la pazza, che ti infliggeva un amore opprimente come quello dei grandi, mentre tu diventavi lo zimbello di tutti? Ma Zohara non cedeva e non disperava; gli scriveva lunghe lettere, lo aspettava per ore sotto casa, gli diceva davanti a tutti cose ridicole, si umiliava, non si accorgeva che lui tentava cortesemente di evitarla (se andava bene, se il prescelto era un bambino di buon cuore) o (più spesso) derideva i suoi languori, le faceva solenni promesse d'amore, con i compagni dietro la porta che trattenevano il riso. Ma a Zohara non importava, lui era il favorito, lei l'aveva scelto e non si curava certo delle prese in giro, consapevole che quella era un'età in cui i maschi odiano le femmine per legge di natura. Peccato che anche il prescelto fosse soggetto a questa legge. Ma Zohara teneva duro, lei aveva più pazienza della natura e forse era anche al di là di essa, perché aveva un codice di leggi tutto suo e avrebbe aspettato senza protestare che lui superasse questa fase insulsa e passeggera. Era sicura che di tutto quel che lei gli donava, qualcosa sarebbe rimasto dentro di lui. Una parola detta, o uno sguardo, gli avrebbero illuminato il cuore in uno dei tanti momenti che trascorreva da solo, senza i suoi amici strafottenti, e forse un giorno, dopo un anno o due, esaurita finalmente quella fase, una gran luce si sarebbe accesa. E questo le bastava a essere felice, facendola camminare a passo di danza per le strade, perché la vita è bella, e lei era viva, non era una spia, ma una bambina in carne, ossa e anima! Eppure, tutt'a un tratto i suoi occhi si spegnevano, gli angoli della bocca si storcevano verso il basso, come tirati da un filo, il volto si contraeva

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e Zohara sembrava l'immagine accartocciata di una vecchia che ne ha viste troppe ed è ormai stanca della vita. Ogni cosa le procurava un dolore insopportabile: un vaso che si rompeva, uno zoppo che incrociava per strada, una promessa non mantenuta. Anche in primavera, quando tutto fiorisce e sboccia, quando i bambini si sentono come la frutta o i fiori e il corpo è pieno di linfa, Zohara rimaneva seduta alla finestra della sua stanza, guardava la sua mano in controluce, vedeva la fragile e delicata struttura delle ossa e delle articolazioni, e scoppiava in un pianto dirotto, senza che se ne capisse il motivo. Una volta in classe, durante la lezione, si era alzata e, con gli occhi sbarrati, come dopo un brutto sogno, aveva urlato: «Non c'è protezione, non c'è protezione!.» L'insegnante aveva tentato di calmarla e capire che cosa la spaventava a quel modo, ma Zohara aveva cominciato a correre all'impazzata per tutta la classe come un animale spaventato, urlando con voce rotta che non c'era protezione, non c'erano muri di cinta intorno al mondo e la gente poteva cadere. Più o meno a quattordici anni, quando ormai i medici disperavano, quelle reazioni scomparvero quasi completamente. Come per magia. Gli specialisti non seppero fornire spiegazioni. Lasciarono intendere che doveva essere una questione di sviluppo... chissà... metabolismo ghiandolare... L'importante era che finalmente fosse successo... In effetti, Zohara cominciava a crescere. Sparì la bambina cupa e infelice, tutti tirarono un sospiro di sollievo e al suo posto comparve una creatura nuova, libera, agile, allegra, dotata di una risata squillante, assetata di spazi, colori e dei piaceri del mondo; diventava ogni giorno più bella, e non solo bella: spettacolosa. Slanciata, occhi e capelli neri, gli zigomi arcuati che davano al suo viso un aura nobile e selvaggia al tempo stesso. Una ragazza più audace dei maschi, sboccata come loro, persino più incurante di loro nel vestire, con pantaloni, graffi e camicie strappate, una bambina che non voleva specchi in camera sua - «Non voglio vedere e non ho niente da vedere!» - che sfidava i maschi e li spingeva contro le femmine, che infieriva sulle bambine smorfiose, terrorizzate dai suoi modi; e sfacciata con gli insegnanti, -un giorno a scuola e due al mare, bigiando - abbronzata, con gli occhi vispi, il corpo scattante e muscoloso come quello di una nuotatrice. Quasi volesse recuperare, tutto in una volta, gli anni di smarrimento e «di gelo. Non avrebbe mai più sfiorato un libro, non sarebbe più caduta ingenuamente nelle trappole della depressione nascoste fra le variopinte copertine dei libri. Solo il flauto a volte la chiamava, soprattutto al tramonto e nei cambi di stagione, tentando. di farla tornare a sé; ma quando Zohara si sedeva distrattamente sul davanzale della finestra, e le sue labbra baciavano il flauto, le succedeva d'un tratto che no! Assolutamente no! Ormai lei dominava anche quello, decideva lei cosa suonare, e come! Se poi il flauto cercava di ribellarsi, di infrangere questo accordo e attingere da lei altri suoni, note dimenticate, negate all'orecchio, veniva prontamente rimesso nella sua buia cella foderata di velluto nero, dove sarebbe rimasto finché non avesse imparato il fatto suo! In terra d'Israele quello fu un periodo molto tempestoso. Comandavano gli inglesi e gli ebrei volevano liberarsi di loro, conquistare l'indipendenza. Così, ragazzi e ragazze dell'età di Zohara aderivano a movimenti clandestini e compivano atti eroici, subivano le percosse dei soldati

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inglesi e venivano messi in prigione. A scuola si sussurravano segreti, parole d'ordine, voci, tutti parlavano un'unica lingua, ma Zohara era fuori da tutto questo: «La politica non mi interessa, vado al mare a nuotare e ad abbronzarmi, non a far sbarcare gli immigranti clandestini». Una volta qualcuno l'aveva vista ballare in un caffè frequentato dai soldati inglesi, e quando avevano cercato di dirle gentilmente di fare attenzione e stare lontana dagli invasori, aveva risposto con tale brutalità che un suo compagno di classe, membro di un'unità clandestina, le aveva detto: «Lasciatela stare, dovunque la metti è fuori posto. Fate conto che sia caduta dalla Luna.» Forse aveva ragione. La mia storia sta per arrivare al momento in cui Zohara percorre di volata tutta la Luna, fa un salto e, per via di quella Luna, per via di una montagna della Luna, nasco io. «Non so nulla di lei» dissi a Felix nella cucina di Lola. «Papà non mi parla mai di lei. E anche Gabi tace.» «Io penso» disse Felix «che la nostra signora Gabi abbia escogitato un modo molto bello e molto saggio per parlarti di Zohara.» «Ma se non mi ha raccontato niente!» «Pian piano capirai quanto ti ha raccontato, invece.» «Una volta mi hanno detto che a lei piaceva la marmellata di fragole.» «L'ha detto papà o Gabi?» «Né papà né Gabi. Zitka. La mamma di papà.» Le avevo fatto fuori un barattolo di marmellata e aveva detto che ero proprio come lei. Ma con che tono l'aveva detto! «Allora posso svelarti, Amnon, che tua madre amava tutte le cose dolci. Ma soprattutto il cioccolato, per quello andava pazza.» Come me. Mi venne in mente che qualcosa nella corrida aveva mandato papà su tutte le furie, facendogli ricordare Zohara. «Hai mai conosciuto la famiglia della mamma? Zii, zie, qualcuno?» «Non ha famiglia...» così mi avevano detto, e così riferivo. O pensavo. O non pensavo. «Davvero? Hai mai visto qualcuno senza parenti? Nemmeno uno? Nemmeno uno zio o un lontano cugino? E qual era il suo lavoro? Che mestiere faceva? Non l'hai mai chiesto? Come mai?» Tacqui. «Guarda, Amnon, devo raccontarti questa storia. Non sarà facile per te. Ti farà anche male. Ma poi capirai molte cose che non capivi. Ti devo parlare. Perché io... come dirtelo... io... per questo volevo che ci incontrassimo, noi due.» «Bene, racconta.» Sia quel che sia.» «Aspetta. Forse dovresti pensarci un momento. Forse non vuoi sapere tutto. Perché le cose, finché non le si sa... non fanno male.» Pensai che ora mi faceva molto male quel che non sapevo. Feci cenno di continuare. «Bene.» Si drizzò sulla sedia e bevve un sorso d'acqua. «ho già detto che conobbi Zohara fin da piccola. Perché conoscevo sua madre. Poi incontrai Zohara quando aveva la tua età. Ma la conobbi a fondo quando aveva diciott'anni. Era la donna più bella e più speciale che avessi mai conosciuto, credimi Amnon, e questo vecchio» soggiunse indicando se stesso «ha conosciuto non poche ragazze.» «Tu... L'hai amata?» Non avevo certo bisogno di chiederlo, glielo si leggeva in faccia. Secondo me era impossibile non amarla.» Per me era piuttosto imbarazzante venire a sapere che Felix era stato l'innamorato di mia madre. «Ma fu un amore molto speciale» disse. «Come nei film!» «Peggio ancora.» Lentamente e sottovoce Felix mi raccontò la storia sua

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e di Zohara. Con assoluta franchezza, senza pose, senza un battere di ciglia. Mi accorsi che faceva immensi sforzi per essere logico, per riferire solo e soltanto i fatti, per quanto fossero assolutamente sorprendenti. Voleva davvero che io sentissi questa storia senza trabocchetti da parte sua. Non saprei dire per quanto tempo parlò. Fuori calarono le tenebre e dalle case vicine s'incominciò a sentire il tramestio che accompagna la cena. Udii più volte il cicalare del giornale radio. Mi consegnai a lui, e lui mi portò per tutto il mondo, in paesi dai nomi strani, su carrozze, aerei e battelli fluviali. Parlava con circospezione per raccontare una storia vera, anche se a tratti riuscivo a prenderla come una favola, bella e triste. C'era una volta, molto tempo fa, una giovane bellissima di nome Zohara che viveva a Tel Aviv. Una fanciulla di mare, libera e impertinente, esuberante e vulcanica. A sedici anni smise di andare a scuola. Aveva deciso così, e nessuno avrebbe potuto sostenere che fosse meno colta delle sue coetanee. A diciassette anni era la più bella ragazza di Tel Aviv. Non erano solo i soldati inglesi a struggersi per lei: un miliardario famoso che aveva il doppio della sua età, un direttore d'orchestra olandese e un attaccante della nazionale di calcio del paese, le fecero una corte spietata, ma Zohara rifiutava tutti. Perché? Non trovava la persona degna di lei? O aveva paura di amare qualcuno come aveva amato un tempo? A diciotto anni andò per la prima volta all'estero, con Felix Glick, furfante internazionale, uomo di stile, dotato di uno sguardo celeste e ammaliante. Il viaggio durò due anni, due anni di avventure in terre lontane e misteriose. Terre che quando il dito le indica sull'atlante, la pagina diventa un bagno di sudore. Per due anni Felix Glick e Zohara andarono in giro visitando luoghi che lei sceglieva solo in base alla magia dei loro nomi: Madagascar, Honolulu, Hawaii, Paraguay, Terra del Fuoco, Tanzania, Zanzibar, Costa d'Avorio... Laggiù, in alberghi di lusso, i due incontravano persone che parevano uscite dalle pagine di un vecchio libro: principi in esilio, imperatori spodestati, generali e mercenari, rivoluzionari falliti, stelle del cinema muto con la voce troppo stridula per il sonoro... «Io mi presentavo come un collezionista d'arte d'origine italiana» disse Felix ridendo, «o come il direttore di un museo di Firenze costretto a fuggire per evasione fiscale, mentre Zohara... be', dicevamo che era mia figlia, unica erede dei quadri di Picasso e Modigliani che custodivo in banca. Facevamo così.» «Che senso aveva?» dissi ridendo anch'io, senza capirci nulla. «Anche Zohara, eh, raccontava... un momento...» «Ascolta e saprai. Piano piano.» Si fermavano per un po' nella capitale, poi facevano delle gite a piedi lungo il fiume o affittavano una carrozza con dei fregi d'oro falso, e la devota figlia posava sulle ginocchia del falso padre una coperta di angora, per scaldargli le gambe. Così i due finivano fatalmente per incontrare qualche re in esilio, che con il suo occhio di lince notava il candido fazzoletto caduto di mano alla bella fanciulla, li rincorreva, glielo porgeva, si levava il cappello e le faceva il baciamano. Ne nasceva una breve conversazione e il re invitava a cena nel suo fastoso alloggio quel padre e quella figlia così simpatici e timidi - e lei così bella. Alla fine del pasto, un po' brillo, incantato dalla singolare bellezza di Zohara, ma anche dagli occhi azzurri di Felix, li invitava a fare una

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crociera lungo il fiume sulla sua nave. Loro esitavano un po', non volevano disturbare. «Ma quale disturbo! Sarà per me un vero piacere!» «Sua maestà non è un tipo troppo buono con noi?» «Ma per carità, venite! Domani!» E loro acconsentivano. Salivano sul lussuoso bastimento con sette valigie vuote, per fargli credere che erano molto ricchi,. con dei cappelli tropicali, per proteggersi dal sole, e con il piccolo flauto comprato a Zohara nel negozio di Tel Aviv, per attirare le mitiche sirene. «Sempre la solita storia» disse Felix senza guardarmi, «quindici volte, sempre la stessa storia. Stesso metodo. Cambiavano solo i posti, e ogni volta erano persone diverse. Ogni volta una vittima diversa. Noi cacciavamo lui... mentre lui era convinto di cacciare noi. Ma non c'era miglior cacciatore di tua madre.» «Cosa? Che...? Non capisco!» Ma che panzane racconta? Cosa c'entra tutto questo con mia madre? Che parli di Zohara, su. Felix tacque un istante. Strinse le spalle. «Non deve essere facile per te, Amnon. E' una storia complicata. Ma devo raccontartela. L'ho promesso. Così aveva chiesto lei.» E io, come tarantolato: «Chi l'ha chiesto? Cosa ha chiesto?» «Tua madre, Zohara. Prima di morire. Mi disse di trovarti e raccontarti tutta la storia, prima della tua maggiorità religiosa. Mi disse che tu dovevi sapere tutto di lei. Ecco, è per questo...» «Per questo...?» «Insomma, per questo che ti ho preso così. Per raccontarti la storia. Il tuo bar-mitzvah è imminente.» «Ah» dissi scuotendo lentamente il capo, «ah.» Non avevo capito un bel niente. «E poi devo darti qualcosa di suo» aggiunse con un certo ritegno. «Un suo regalo per te. Per la maggiorità religiosa.» «Ma se è morta! Che regalo?» Riuscivo a malapena a muovere le labbra. «E' morta, certo. Ma prima di morire ti ha preparato un regalo. Che però potrai prendere soltanto domani mattina. E in banca. L'ha messo in una cassetta per te, dove è rimasto tutti questi anni. Per questo volevo che tu restassi con me fino a domani. Se verrai con me in banca, prenderai l'ultima spiga. Poi potrai andartene e dimenticare Felix.» Sorrisi. Dimenticare Felix. E come? «Mia mamma...» attaccai. Avevo la voce roca, e quelle due parole mi schiacciarono, mentre la bocca si riempì di miele, sale e altri bizzarri sapori. «Era una donna davvero speciale» disse Felix accarezzandomi le mani per calmarmi. «Bella e selvaggia, era come una tigre. Così giovane, e già la più bella di tutta Tel Aviv, regina di tutte le feste, le bastava un cenno e venti uomini erano lì, pronti a dare la vita per lei. Non c'era nulla al mondo che non potesse ottenere, se lo voleva. Nessuno al mondo che potesse dirle cosa fare.» Ascoltavo meravigliato. Era questa mia madre? Era così? Non me l'ero praticamente mai immaginata, ed eccola d'un tratto così inimmaginabile. «E forte, Amnon, aveva la forza di cui sono dotate le persone molto belle. Ed era persino, come dire, un po' crudele. Forse non si rendeva conto della forza che aveva. Non capiva che bellezza e forza insieme sono un rischio. C'è gente che si è rovinata la vita per lei. Perché si erano innamorati, e Zohara aveva giocato con loro, poi s'era stancata, e via.» «Crudele?» Non poteva essere. Sta parlando di un'altra donna. Mente! E' tutta una bugia, da cima a fondo! Ma il suo viso esprimeva verità. «Crudele. Come un gattino che gioca con un topo e non sa quanto sono

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forti i suoi artigli. Lui è convinto di giocare ma il topo, poverino, è già morto.» «E come mai si era sposata con mio papà? Come si sono conosciuti? Perché non mi racconti questo?» Sentivo l'impellente necessità di cambiare il corso della sua storia, o quanto meno di portare Zohara vicino a papà. Verso una vita normale. «Non ha conosciuto tuo padre così presto, Amnon» sospirò Felix. «C'è ancora molta strada da fare prima che incontri il tuo signor papà.» «Un momento» gridai, «allora è per questo che mi hai rapito? Per vendicarti del fatto che papà te l'ha portata via? Che amava più lui di te?» Felix fece segno di no con la testa: «Chiedo scusa, Amnon! Ma bisogna che tu ascolti tutta la storia! Dal principio alla fine. In ordine. Così ha detto lei! Altrimenti non capirai nulla!.» Bene. Che raccontasse. Volevo e non volevo sentire. Non sapevo più cosa volevo. A ogni sua parola la mia vita si capovolgeva e mi diventava estranea. Ecco, mi sento svenire. Quando avrà finito di raccontare, dovrò cominciare a conoscermi da zero. Nono Feierberg, molto piacere. Neanche poi così molto. «Era mia complice, tua madre. Così voleva!» aggiunse come per scusarsi, quando vide il mio sguardo. «Diceva che questa era la vita che le piaceva. Sul serio!» «Una vita... da fuorilegge?» Abbassò lo sguardo e tacque. «Mia madre era una cri...? Stai mentendo! Mi stai di nuovo mentendo!» strillai. Mi alzai. Mi sedetti. Guardai il soffitto. Il pavimento. «Ascolta un momento!» invocò Felix. «Era quello che voleva! Non ero io! Mi diceva: "Felix, tutti gli altri sono dei fifoni! Fanno una vita così noiosa!". E io le rispondevo: "Zohara, la vita da delinquenti dura poco! Si può morire in ogni momento!". E lei diceva: "Se dura poco, viviamo quel che ci resta da vivere. Foss'anche un solo anno. Un solo mese. Ma viviamolo come vogliamo! Una vita grandiosa! Come nei film!".» Insomma, avevo una mamma delinquente. Ecco. Per questo me l'avevano tenuta nascosta. Una mamma delinquente. Si verificano anche casi del genere. Esistono carceri femminili, piene di donne delinquenti. Eppure sembrava impossibile che fosse capitato proprio a me. Perché no? Poteva capitare a chiunque, e allora perché non a me? Cosa me ne importava di lei. Non l'avevo nemmeno conosciuta! Invece, me ne importava, solo di questo m'importava ora. Ma forse lui stava solo raccontando bugie. No, diceva la verità. Mia mamma aveva commesso atti di delinquenza in tutto il mondo. Per questo papà non parlava di lei, tranne quella volta, dopo Pesia, quando se l'era presa con la maledizione che mi aveva trasmesso Zohara. Ma come... perché l'aveva sposata? Come aveva fatto mio padre a sposarsi con una delinquente? Sono figlio di un poliziotto e di una delinquente. Roba da esplodere. Da spaccarmi in due. «Fummo complici per quasi due anni» disse Felix, «due anni all'estero, era tutto come in un sogno. Poi lei si stancò. Prima o poi tutto la stancava. Ma non ho mai conosciuto nessuno che si divertisse come tua madre, in questo lavoro. Per lei era come un gioco. Rideva continuamente.» Fissavo i quadretti della tovaglia. Rossi e bianchi. Che dire dei quadretti? Desideravo che Gabi e papà venissero ad abbracciarmi e che nessuno, tranne loro, mi vedesse. «Continuo?» domandò Felix prudentemente. CAPITOLO 23.

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PROPRIO COME AL CINEMA. E la notte, sulle nere acque fluviali, insieme al frinire di grilli e cicale, sotto stelle portoghesi o malgasce, e la luna di Zanzibar o della Costa d'Avorio, il re in esilio raccontava agli ospiti della sua landa tanto amata, delle montagne e dei laghi, della prosperità che il suo governo illuminato aveva dato ai cittadini, del tradimento di quegli stessi che un giorno si erano ribellati, senza che lui avesse fatto nulla di male, piombando nei suoi settantasette palazzi, saccheggiando le sue sette carrozze dorate, senza risparmiare nemmeno le sue settecento paia di scarpe. Perché l'esule nutriva un'insana passione per le scarpe. I falsi padre e figlia ascoltavano, scuotevano il capo tristemente partecipando al dolore del reietto, rimproverando con uno schiocco della lingua i sudditi infedeli che non valevano una caviglia del re, e forse per questo si erano vendicati sulle sue povere scarpe. Si rallegravano venendo a sapere che, fuggendo dai suoi ingrati sudditi, il re era riuscito a mettere in salvo, oltre a se stesso, anche qualche paio di sandali dorati, delle pantofole di velluto incastonate di rubini nonché - a questo punto l'esule sorrideva timidamente, guardando circospetto a destra e a sinistra - qualcuno dei gioielli più preziosi, ma acqua in bocca. Terminato che avevano di sospirare e tacere, con un silenzio pieno di rispetto per il dolore del reietto, il vecchio padre, la cui diffusa canizie era prodotto dei suoi trucchi, cominciava a raccontare al re la vita sua e di sua figlia, i loro vagabondaggi, le loro fughe dagli avidi esattori delle tasse e, fra una sventura e l'altra, menzionava anche la sua collezione di quadri custodita nelle grandi casseforti di una banca svizzera - quadri che valevano chissà quanto a questo punto. Quando una vampata accendeva le regali guance avvizzite, il padre sapeva che l'esca era pronta, il pesce ne aveva sentito il profumo e stava girando intorno all'amo. Con gran disinvoltura il padre passava a un altro argomento, cioè sua figlia, placida e cordiale ereditiera di miliardi, che sbatteva timidamente gli occhi dietro un ventaglio dipinto, accendendo un fuoco a ogni suo sguardo. D'improvviso al vecchio padre si spezzava la voce e dal profondo scaturiva una tosse terrificante, che lo scuoteva tutto. La figlia devota gli stendeva allora sulle gambe la coperta di angora, ma la tosse continuava, una brutta tosse convulsa, e il padre affondava la bocca nel fazzoletto per tossirci dentro, e al re, che aveva già dimostrato la sua prontezza in materia di fazzoletti, bastava una rapida occhiata per rendersi conto che era diventato rosso. A quel punto il padre malato chiedeva il permesso di ritirarsi nella sua cabina, lasciando soli sul ponte la bella e lo spodestato. Si dirigeva faticosamente verso il letto, con la tosse che gonfiava le vene anche nell'avido cuore del re. I due restavano a chiacchierare, il re rievocava le storie di quando era un giovane audace, e la ragazza, rapita, pendeva dalle sue labbra. «Ma lo era davvero, o faceva solo scena?» domandai sottovoce a Felix, perché anch'io ero un po', come dire, incantato. «Sì e no.» Fu questa la sua risposta. Incantata, perché era tutto come in un sogno: il fiume che scorreva, le stelle, i grilli, lo champagne nel secchiello, e il re malinconico. Disincantata, perché era vigile come un cacciatore che tende l'agguato, come una pantera,

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pronta a deviare la conversazione nella direzione voluta da lei e da Felix. Ma più che interessarsi al denaro del re, Zohara si appagava delle carezze nell'aria che aleggiava intorno a lei, come uno scialle immaginario, quando inscenava questa farsa. In quel momento era convinta con tutta se stessa di essere l'unica figlia, nonché erede miliardaria, del padre agonizzante, e riusciva a far sì che i suoi occhi si riempissero di lacrime nel sentire i tormenti del re, perché pensava: "E' proprio come al cinema...". La cosa strana era che le lacrime, per quanto nate da un'illusione, erano vere, bagnate e salate. E il cuore del vecchio re palpitava. Al termine di una cena prelibata il re chiedeva alla bella di suonargli il flauto. Zohara all'inizio declinava l'invito, ma alla fine accondiscendeva. Allora estraeva dall'astuccio di velluto il suo strumento di legno nero, si alzava per andare ad appoggiarsi alla balaustra della nave, e suonava Quanto sono belle le note Canaan e Venne alla fonte un piccolo capretto bianco. Qualche volta era così rapita dal suo stesso incantesimo che, dimentica di tutto, si sporgeva sull'acqua con il flauto in bocca e le dita sui fori, senza produrre alcun suono. Tuttavia dei suoni : impercettibili gocciolavano dal ponte, diffondendosi negli abissi e risvegliando sirene evanescenti, che lentamente risalivano a galla, avvolte nei lunghi capelli di alghe. Tutto il nero fiume si riempiva di bagliori: erano gli sguardi dei loro occhi bianchi, gialli, viola. Ascoltavano e sospiravano. Il re, dopo essersi raschiato più volte la gola per svegliare la suonatrice addormentata (così almeno pensava lui), alla fine si alzava spazientito, le afferrava una spalla e la scrollava delicatamente. Zohara si scuoteva tutta e per un istante il re guardava in quei due occhi scuri come l'abisso, poi si ritraeva. Ed ecco che le ciglia calavano come un sipario, giocando a nascondino con quei due astri che il re tanto amava, così timidi e seducenti. Egli allora si guardava intorno per accertarsi d'essere solo, si chinava sulla ragazza e le confidava un dolce segreto. Forse le sfuggirà, diceva il sovrano spodestato con la voce tremula per l'emozione, forse il suo cuore non ha tempo per questioni materiali, ma lui era riuscito a far evadere, oltre a se stesso, diversi gioielli, i frutti più maturi, lasciati incolti nel ventre della terra, nelle famose cave del suo paese: in sostanza, alcune casse di diademi e di brillanti, qualche baule di scarabei e lingotti d'oro, e altra varia provvigione, quella che i re sono soliti portare con sé quando hanno molta fretta, in particolare nei momenti di esproprio. Tutto questo sarebbe stato suo se avesse acconsentito a sposarlo. Sposarlo? La bella sbatteva gli occhi, il ventaglio fremeva, lo scialle immaginario volteggiava intorno a lei, il cuore del re era ormai una vampa di fuoco. Forse si era innamorato di lei, forse era consapevole del valore dei quadri che alla triste nonché imminente morte del padre lei avrebbe ereditato. Il re aveva poi qualche piccolo progetto: si preparava a tornare in patria, a far passare dalla sua parte alcuni generali e a risalire sul trono; per questo aveva bisogno di molto denaro, i generali si pagano a caro prezzo e il re sapeva bene che, a volte, un quadro di Picasso vale più di dieci brillanti. Ma io devo consultarmi con il babbo, diceva la bella sventolando le ciglia (le piaceva guardare il mondo così: un'occhiata e giù le ciglia; in quel modo sembrava tutto come in un vecchio film...), e il re l'interrompeva: «Solo un momento!.» Correva nella sua cabina,

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apriva tremando la cassaforte nascosta dietro un ritratto di suo padre, suo nonno e il padre di suo nonno, e tornava rubizzo in viso come una luna ubriaca, tenendo in pugno uno di quei melograni di cristallo rosso colti nel ventre della terra nera. Sotto la luce siderale riverberavano i bagliori del frutto maturo, cadendo nel torbido fiume in colate oziose, viola e rosse. La ragazza guardava e rimaneva a bocca aperta, mai visto niente di più bello. Allora lui accostava il gioiello al lungo collo, già ornato da una catenina d'argento, con la regale mano bagnata di sudore e desiderio, ma soprattutto bramosia; mentre Zohara stava pensando alla lontana Tel Aviv, dove la luce è sempre intensa e abbacinante, dove non c'è sufficiente penombra per momenti come questi e per queste pigre cascate di riflessi. Del resto Tel Aviv non aveva nemmeno un fiume in cui specchiarsi quando il re le metteva al collo la gemma. Dentro di lei vigilava un'esile bambina di nove o dieci anni, con due occhi neri duri come granito, una bambina cupa, incapace di ingannare gli altri e tanto meno se stessa. Zohara cresciuta offriva a questa bambina implorante quel frutto maturo e luccicante: un dono, un'elargizione, una medicina, una pozione per dimenticare le paure. Ma la bambina scuoteva la testa e diceva: no. Passava qualche giorno e il viaggio si prolungava. La fanciulla era ancora indecisa. Il re era già andato almeno quindici volte nella cabina del padre malato per vedere come stava, e aveva tristemente notato le macchie di sangue sul cuscino ricamato. Verso sera sua altezza passeggiava sul ponte insieme alla fanciulla, poi cenava con lei nella sua cabina, conquistandola con le sue storie amene e i suoi ricordi sconvolgenti, con i suoi diamanti e le sue pietre preziose piccole come frutti di bosco, che di tanto in tanto le faceva scivolare sul palmo della mano al posto dei baci che avrebbe ardentemente desiderato ma che lei ancora non concedeva. Le condizioni del padre si aggravavano. Convocava la figlia in cabina, insieme al re, e chiedeva alla fanciulla di mettersi nelle mani dell'illustre esule; il re giurava di aver cura della ragazza; negli ultimi momenti di lucidità il vecchio li vedeva promettersi amore e fedeltà eterna e riusciva ancora a mormorare nell'orecchio peloso del re la combinazione segreta della sua cassaforte nella banca svizzera, mentre il sovrano, sconvolto, correva in cabina a registrare quelle cifre soavi nel suo taccuino, sulla porta, sul palmo della mano e sulla fronte del mozzo che passava di lì. Poi agguantava uno dei suoi frutti più maturi e lo deponeva sul candido collo della più bella fra le donne, a suggello del patto stipulato, e cioè "quel che è mio è tuo, quel che è tuo è mio, per sempre". Dopo breve tempo iniziava ufficialmente l'agonia del padre. La figlia passeggiava piangendo per i corridoi della nave, il capitano chiamava per radio la città più vicina, e un anziano medico veniva convocato sul ponte, insieme a una suora dall'aspetto severo. Restavano qualche tempo nella cabina del moribondo e poi uscivano a passo lesto, con il volto coperto perché, a quanto pareva, la malattia era contagiosa. Solo dopo una lunga ora, quando dalla cabina del moribondo, chiusa a chiave, si udivano urla sommesse, il capitano sfondava la porta e trovava il vecchio medico e la suora legati l'uno all'altro loro malgrado, con indosso i vestiti del moribondo e di sua figlia, mentre i due lestofanti travestiti erano già bell'e che scappati verso la città, e di lì all'aeroporto più vicino, tanto che forse in

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quel preciso momento stavano sorvolando la nave, sbracciandosi per salutare il vecchio re in esilio. Quindici brillanti, nonché gemme varie, scarabei d'oro e altri frutti di bosco assortiti, stavano ben nascosti dentro gli abiti della fanciulla intenta a coccolare il padre agonizzante, anche se aveva l'aria di essere sano come un pesce e si scompisciava dal ridere. Questa era solo una delle tante storie. Felix finì e tacque. Anch'io. Cosa avrei potuto dire? Intorno a noi era già calata la notte. Sapevo che avrei dovuto ascoltare molte altre cose, e avevo tanta paura. Ma non solo paura. «D'un tratto il mio cuore aveva preso il ritmo di Zohara. Era stata la sua storia a provocarlo: la nave, il fiume nero, il re, i diamanti, le parole... Sentivo la sua forza rivivere dentro di me. Il ciondolo d'oro era aperto: «Guardami» reclamavano i suoi occhi. «Non avere paura di me. Non avere paura di te. Tu sei anche parte di me.» «Avresti dovuto vederla...» sorrise Felix con quell'aria nostalgica che ormai conoscevo. «Una principessa delle favole... vestiva come nessun altro... i suoi vestiti, i suoi cappelli... una bambina in un perenne carnevale... e dava subito via tutto il denaro che ricavava... non le restava un centesimo in mano... diceva: "Questo è denaro sporco, soldi rubati", e io le replicavo: "Zohara, bambola mia, il denaro non è né pulito né sporco, il denaro è denaro e basta, quel che conta è come lo si usa", ma lei... per carità! Lei amava soltanto il nostro gioco, faceva male al cuore vedere come lo buttava via! Paffete! Per strada, o al cinema, d'un tratto gettava per aria, al buio, dieci piccoli brillanti, oppure cadeva all'improvviso una pioggia di soldi dalla mongolfiera su cui stavamo volando...» Stavo seduto, teso e incantato. Conoscevo bene quella voglia di alzare la mano così, con un gesto ampio, e scagliare verso l'alto, far volare... Noi due, Felix e io, ci riscuotemmo spaventati quando lo squillo del telefono spezzò l'incanto. Ero così preso dalla storia che mi ero dimenticato tutto: il rapimento, il mondo fuori, i titoli sui giornali. Felix alzò la cornetta, ascoltò e divenne tutto allegro. «Veniamo subito» disse riattaccando. «Dài, Amnon, dobbiamo andare.» «Dove? Chi era?» Già, dovevo sempre sospettare di lui. «Era Lola. Telefonava dal teatro. Ho lasciato lì la Rolls Royce. Lola ci sta aspettando.» «Una Rolls Royce?» «E' così che la chiamo. Una battuta. Vieni, mettiti subito i vestiti da bambina, dobbiamo essere prudenti. Lola dice che si parla di noi su tutti i giornali e può darsi che la polizia sia già qui, nei paraggi. Dovremo scappare per tutta la notte fino a domattina, quando andremo in banca per il tuo regalo.» Non feci obiezioni. Mi misi gli abiti di quella bambina, cominciando finalmente a capire di chi erano; e mi percorse un brivido. Già, finalmente capivo, che misero detective! e non in base a un ragionamento logico, bensì nel modo in cui tutta questa storia s'andava chiarendo in me, per le vie del cuore e grazie al fatto di avere percorso io stesso quegli itinerari battuti un tempo da mia madre, Zohara, quando era non molto più grande di me. , Questa era infatti la legge della storia, la legge stabilita da Felix nei mesi che avevano preceduto l'operazione. Soltanto ora, finalmente, cominciavo a capire l'intenzione e l'idea che avevano governato questo viaggio dal

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momento in cui avevo incontrato Felix, dal momento in cui avevo lasciato l'ameno percorso preparatomi da papà e da Gabi: ogni mio passo era stato stabilito fin dall'inizio, anche quando ero io a volerlo e a proporlo. Tutto era stato previsto da Felix e, per qualche via misteriosa, anche da Gabi, che mi aveva raccontato di Felix, portandomi qui senza che io me ne rendessi conto. Ma soprattutto era stata Zohara a fissare le tappe di questo viaggio, la Zohara che era dentro di me, ansiosa di fare la sua comparsa nella mia vita. Tornai da Felix con indosso quei vestiti, la gonna rossa e la camicia verde. Con gli anni i colori si erano un po' sbiaditi. Ora non mi pareva estraneo il contatto con quel tessuto. I vestiti mi accarezzavano, mi abbracciavano con morbido tocco. «Sono i suoi vestiti, non è vero?» domandai. Felix annui. «I suoi vestiti da bambina.» «Già.» Ricordai come mi aveva guardato in treno, quando mi aveva visto per la prima volta, e come si erano velati i suoi occhi quando mi ero messo i suoi vestiti, mentre viaggiavamo sul Maggiolino. «E le assomiglio un po', non è così?» chiesi timidamente. «Come due gocce d'acqua.»

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CAPITOLO 24. IL FIGLIO DELL'ISPETTORE. Ci dividemmo in due squadre. La prima composta da Felix, l'altra da me. Lui mi spiegò esattamente come arrivare da casa di Lola al Teatro Nazionale, dicendomi di fare attenzione ai poliziotti, che dovevano essere già molto vicini. Il suo intuito gli diceva che la zona ne era piena. Gli chiesi come faceva a saperlo. «Se mi sento le formiche nella schiena, così... è segno che c'è polizia nei paraggi» disse. Allora cominciai anch'io a sentire qualcosa, un solletico fra le spalle, come se qualcuno le stesse fissando. Forse anch'io stavo sviluppando un sesto senso per i poliziotti. La squadra numero uno si avvicinò alla finestra e controllò che ci fosse via libera. La squadra numero due diede gli ultimi tocchi al suo travestimento da accattone. La squadra numero uno sbirciò nello spioncino della porta e riferì che anche il pianerottolo era libero. La squadra numero due diede istruzione di uscire in strada, cinque minuti dopo la squadra numero uno. La squadra numero due si fermò davanti alla squadra numero uno. «Ciao, Amnon. Sta' attento per strada, bada a non farti pizzicare. Sii prudente. Devi ancora sentire la sua storia e come ha conosciuto il tuo signor papà. E poi c'è il regalo!» «Allora sta' attento anche tu.» «Qua la mano, socio.» Socio! Non mi ero più sentito così fiero da quando papà mi aveva nominato sottotenente. Gli diedi la mano. Ci abbracciammo. «Arrivederci» sussurrai, pensando: il delinquente complice della madre dopo qualche anno diventa complice del figlio. Il cerchio si chiude. «Su, dài, vai» borbottò Felix girandosi, chissà perché, di scatto. Ecco, si comincia. L'ultima mia notte con Felix. L'ultimo capitolo della mia storia con lui. Felix aveva ragione: era pieno di polizia in giro. Appena uscito da casa di Lola cominciai a riconoscerli. Qualcuno si era premurato di spegnere i lampioni di tutta la zona e le volanti andavano avanti e indietro con i fari bassi. A ogni incrocio c'erano dei gruppetti di poliziotti in divisa che studiavano sulle mappe la zona dell'operazione. Da ogni angolo un po' buio sentivo provenire dei fruscii di radio ricetrasmittente. Mi parve anche di scorgere un ispettore in borghese ritrarsi dietro un serbatoio d'acqua su un tetto. Ma forse mi sbagliavo. Con un buio del genere era difficile scoprire qualcuno appostato su un tetto. Non ero ancora riuscito a capire come avesse fatto la polizia a indovinare che ci trovavamo proprio in quella zona. Se non avevano trovato la spiga che avevo lanciato in mare la notte scorsa, non c'era motivo per collegare lo scavo sulla spiaggia al dirottamento del treno! Comunque subodoravano qualcosa e stavano lentamente accerchiando il quartiere. Pensai: forse sanno qualcosa che Felix non mi ha ancora svelato. Un giovane venne a sedersi sulla panchina. Un tipo troppo giovane per crollare con tanta stanchezza. Un rapido sguardo alle sue scarpe, perché sono l'ultima cosa di cui uno si preoccupi in caso di travestimento. Il giovane calzava delle Palladio in dotazione alla polizia. Una bambina gli camminava allegramente davanti, con la treccia che le saltellava sulla schiena. Gli lanciò uno sguardo penetrante, erano gli occhi di Zohara che sfidavano la polizia, occhi coraggiosi, beffardi. «Vai via, bimba, non disturbare» brontolò il giovane. Come sono ubbidiente. Voltai a destra, seguendo le istruzioni

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di Felix. Mi immaginavo papà mentre organizzava le ricerche, seduto davanti alla mappa di Tel Aviv a dare ordini alle varie pattuglie. Aveva un talento particolare per gli agguati. Sapeva sempre indovinare in che direzione i malviventi sarebbero scappati e dove si sarebbero nascosti durante l'inseguimento. Una volta aveva piazzato un agente dentro un enorme bidone della spazzatura, a un chilometro e mezzo dal luogo dell'agguato, nei pressi di una gioielleria. Il ladro, sfuggito all'imboscata, era corso via come un fulmine, aveva evitato altri tre poliziotti che lo aspettavano lungo il percorso che papà aveva previsto con esattezza, e alla fine si era lanciato nel fetido bidone, fiero della propria astuzia, e sorpreso dal clic delle manette che si chiudevano sui suoi polsi. "Un buon detective pensa come il delinquente." Solo che a quel punto non ero più sicuro del mio ruolo. Buio assoluto. Sussurri e gesti silenziosi. Continuavo a dirmi che, sotto il profilo professionale, papà poteva davvero fidarsi di me. Non l'avrei deluso. D'accordo, avevo solo tredici anni, ma quasi dieci di servizio. Avevo cominciato a tre anni per volere di papà. Aveva sentito dire che anche il padre di Mozart aveva iniziato suo figlio alla musica a quell'età, e per questo a tre anni sapevo già descrivere nei particolari l'abbigliamento di una persona. Papà mi sottoponeva a esercizi di memoria: di che colore era la camicia del conducente dell'autobus? Chi portava gli occhiali, nel negozio? Com'erano vestiti i bambini all'asilo? Di che colore era la gonna della maestra il giorno del tuo compleanno? Non sorrideva. Era serissimo e andava su tutte le furie se sbagliavo. Quel che non sapevo un giorno, avrei dovuto studiarlo per l'indomani. Per non dire dei castighi, il più tremendo dei quali era un grugnito di disprezzo quando sbagliavo la risposta. A cinque anni: qual era la targa della macchina che si è fermata vicino a casa stamattina? Quanti semafori ci sono da casa nostra a quella di nonna Zitka? Con che mano il nuovo postino regge la borsa delle lettere? Che accento aveva l'uomo venuto a chiedere un'offerta? Come si fa partire una macchina senza chiave? Perché hai di nuovo dormito con tutt'e due le orecchie sotto la coperta, dov'è andato a finire il tuo senso di vigilanza? Hai perso la tua paga settimanale. Non piangere. Un giorno mi ringrazierai per questo. Corro troppo in fretta, si accorgeranno di me. Quando compii dieci anni mi regalò un identikit, come ho già detto; a dodici mi diede il permesso di esercitarmi al poligono di tiro della polizia. Non con pallottole vere, sparavo i proiettili a salve contro bersagli di legno. Ma la pistola era molto, molto vera. Una Wembley 0.38. Così, una sera al mese, andavamo al poligono deserto. Ricordo le cuffie di pelle calda sulle orecchie e la pistola gelida fra le mani, il suo peso e il rumore della pallottola sparata che mi faceva rinculare, il suo respiro tiepido sulla guancia mentre mi indirizzava la mano e i bersagli verdi a forma di corpo umano: «Mira alla testa! Mira al cuore! Fuoco! Fuoco! Fuoco!». Cento, mille volte. Spara! Fuoco! Cammini per strada e un tizio cerca di piantarti un coltello nella schiena. Spara! Stai dormendo e in casa s'infiltra qualcuno, si avvicina al tuo letto. Spara! Qualcuno ha rapito un bambino sotto i tuoi occhi e l'ha spinto dentro una macchina. Spara! Cerca di fuggire? Sta' dritto. Allarga le gambe per essere più stabile. Tieni ferma la destra con la sinistra. Chiudi l'occhio che non mira, più

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veloce! Fuoco! Prima ancora che tu ti sia mosso, ti hanno già ucciso due volte! Spara! E' chi spara per primo che lo racconta ai nipotini! Spara! Lascia che sia l'istinto ad agire! Non perdere tempo! Non hai più molti anni per imparare, poi dovrai farlo sul serio! Hai tredici anni! Spara! Spara, Fuoco! Quando Gabi diceva che io passavo troppo tempo alla polizia o dietro a quei giochetti da cowboy e vedevo cose che un bambino della mia età non avrebbe dovuto vedere, papà replicava che solo così avrei imparato a vincere il mio debole carattere e sarei diventato forte, deciso, virile. Perché con quei giochetti da cowboy, come lei li chiamava ironicamente, io imparavo le cose più importanti della vita: mi preparavo all'eterna guerra fra l'ordine e il caos, fra la legge e il crimine. Gabi ascoltava pazientemente e diceva: d'accordo, un bambino può davvero essere un eccellente investigatore, perché per lui il mondo è come un immenso indovinello che non può fare a meno di risolvere, ma ogni età ha i suoi indovinelli, e alla mia avevo prima da risolvere altri enigmi riguardanti la mia vita privata. Allora papà cominciava a protestare che non era compito di Gabi insegnargli come si allevano i bambini, poteva anche darsi che stesse sbagliando, ma il suo primo dovere di padre era prepararmi alla vita vera, alla lotta per la sopravvivenza. E Gabi concludeva: «Alla fine verrà su come vuoi tu, e a quel punto te ne pentirai.» Un grillo frinì in un cespuglio e un alito di vento mi portò l'odore del mare. Lo respirai con gioia, traendone forza. Mi drizzai, alzai la testa. Questa notte sarà la mia grande prova. Ora devo essere bravo come lui. Più di lui. Tentare di pensare come lui, e a quel punto ingannarlo. La conoscenza è forza, la conoscenza è forza! Sapevo come ragionava, e come avrebbe progettato un'operazione di questo genere. Ma lui non sapeva chi ero io. Non aveva informazioni precise su di me. Conosceva un altro Nono. Era sicuro che io sarei scappato da Felix appena possibile. Mi aveva insegnato a fuggire da un rapimento. Non mi conosceva più, ormai. Provai un'insolita tristezza, perché ero consapevole di essere fuggito così lontano da mio padre che, per la prima volta, avevo delle buone probabilità di sorprenderlo. Accelerai il passo. Il vento del mare mi accompagnava, e mi accarezzava. Il solletico sulla schiena mi fece capire che stava per tendere tutte le sue reti. Tentai di immaginarmelo mentre faceva il punto della situazione con i suoi uomini. Primo: Felix ha rapito Nono e lo trattiene contro la sua volontà. Secondo: Felix è nascosto nella zona. Terzo: bisogna prendere Felix prima che faccia del male a Nono. Ma c'era anche un quarto punto, che papà non aveva detto ai suoi uomini, un punto molto importante per noi due: bisogna prendere Felix prima che racconti a Nono la storia di Zohara.. Io, invece, avevo una gran voglia di sentirla tutta. Dal principio alla fine. Era la storia della mia vita, avevo ben il diritto di saperla. E non avrei permesso a nessuno di interromperla, foss'anche mio padre. Anzi, men che meno a lui. Finiamola. con questo segreto! Finiamola con i segreti e i misteri! Mi sentivo un prode cavaliere. Forte, pronto a rischiare il tutto per tutto, per la prima volta, in nome di Zohara e della sua storia. E se avesse cercato di fermarmi sarei scappato.. E se avesse attaccato... mi sarei difeso. Dovevo finalmente sapere chi ero. Strano: avevo bisogno di un uomo che mi aveva rapito e scappavo da colui che voleva salvarmi. Teso com'ero, mi dimenticai del travestimento e presi a camminare

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stringendo i pugni in aria, una posa molto poco femminile, e poco graziosa. Ma neanche Zohara lo era poi tanto. Certo che no. Me la immaginavo, alla mia età. Una bella bambina, un po' spigolosa, esile, con gli occhi vivaci. Una di quelle bambine che le compagne odiano e che i bambini temono, mentre gli insegnanti consigliano ai genitori di metterle in un'altra scuola, più adatta a un tipo a zigzag come lei. Sua madre? Chi sarà stata sua madre? Ce l'avrà pure avuta, una madre. E un padre. Insomma. Perché sto tremando? Mi costrinsi di nuovo a rallentare. Cosa sta succedendo? Come faceva papà a sapere che Felix si sarebbe nascosto in questo quartiere? Come mai tutti sapevano, e io no? Cos'era che tutti capivano, e io no? Con le forze rimaste cercavo di concentrarmi sul mio travestimento. Solo grazie ad anni di esercizi mantenevo il sangue freddo. All'angolo mi passò da vanti una volante che parcheggiò sul marciapiede. Il poliziotto non mi notò. Seguii con lo sguardo un uccello scuro staccatosi da un cipresso per andarsi a posare sui fili della corrente. La piccola Zohara era molto attratta dal mondo dei volatili. Guardai più attentamente, cercando di fendere l'oscurità. Lo sapevo! Eccoli, i due uomini con i giubbotti scuri. Erano sul tetto più alto con un treppiede per gli infrarossi. Papà stringeva la morsa intorno a me. Erano pronti all'inseguimento. Come al cinema. Addosso a Felix, addosso a me. Avrebbe fatto irruzione in tutte le case pur di stanarci. Sentii dei brividi lungo la schiena. Avevo tutti i muscoli contratti, eppure andavo avanti. Purché non vedano la mia faccia terrorizzata. Con tutti i posti che ci sono, come faceva papà a sapere di dovermi cercare proprio qui? Evidentemente tutti sapevano qualcosa che io non riuscivo a capire. Perché non riuscivo a sfondare quel blocco di cemento che s'era creato nel mio cervello? La risposta era sotto i miei occhi, ma io non riuscivo a vederla. avanti, non inciampare, ora. Nel giro di qualche minuto ci saranno decine di poliziotti e di ispettori qui intorno. Occuperanno ogni possibile punto di osservazione, e nessuno potrà sfuggire al loro sguardo. Ti aspetteranno pazientemente: sanno che anche un rapitore astuto come Felix, prima o poi, deve uscire dal suo nascondiglio per comprare del cibo. o per portarti via. per condurre il bambino rapito in un altro rifugio. Papà sarà già qui, pensai. Ma certo. Non sta mai in ufficio quando i suoi uomini sono sul campo. E' sicuramente qui. Forse è in una delle volanti e sta studiando la mappa alla luce di una pila. Riuscii davvero a sentirlo intorno a me. Percepivo il suo sguardo indagatore, avvertivo la presenza del suo corpo robusto, prorompente, energico. Era molto vicino. In agguato. Scrutava. Sentii nell'aria la sua presenza, fiutai il suo odore. Era qui. I suoi occhi erano forse già fissi sulla mia schiena. I suoi piccoli occhi penetranti. Comincerà a chiedersi cosa sta veramente succedendo fra me e Felix, comincerà a sospettare che ignoro di proposito i muti richiami del suo cuore. E la ruga scura in mezzo agli occhi si sarà fatta nel frattempo più profonda. Accelerai il passo, col cuore che batteva forte. Un animale braccato, ero come un animale braccato. In una via lontana una sirena si mise a suonare ed ebbi un soprassalto, ma nessuno se ne accorse. Sul marciapiede di fronte c'era un poliziotto che controllava i documenti di un anziano passante all'oscuro di tutto. Era molto arrabbiato e agitava le mani ma il poliziotto gli spiegò qualcosa e l'uomo si calmò. Scappare. Via di qui. Papà non deve prendermi. Non sono

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suo. Non solo suo. Ci misi tutto il mio ingegno e tutta la mia esperienza, quello che lui mi aveva insegnato fin dal giorno che ero nato. Vidi tutto, di colpo. Le targhe false delle macchine dei detective, i riflessi dei binocoli a infrarossi sui tetti, le scarpe Palladio di una giovane coppia abbracciata. E vidi quel che stava succedendo con mio papà, contro di lui, e come stavano cambiando le nostre vite. Camminavo normalmente, guardando le cose che avrebbero potuto interessare la piccola Zohara. Ero Zohara da piccola. Riuscii a trovare dei pretesti anche per lanciare delle occhiate dietro la spalla destra. Ogni tanto controllavo i tetti. Il tranquillo quartiere di Lola aveva un'intensa vita nascosta. Ovunque c'erano poliziotti indaffarati a prendere posizione, a preparare il loro equipaggiamento. Li riconoscevo, conoscevo tutto quel che aveva attinenza con loro. Fiutavo nell'aria il loro nervosismo. Speravo che Felix fosse riuscito a scappare prima che loro avessero bloccato la strada. Sarei diventato pazzo se me l'avessero preso ora, quando stava per raccontarmi il seguito della storia. E prima che mi desse il regalo di Zohara. «Chissà cosa mi aveva lasciato. Cosa mi mandava dal mondo dei defunti. c'era una notte strana. Nelle fronde scure dei cipressi soffiava una brezza leggera. Tutto stormiva e frusciava. Mi sentivo come sospeso in aria. Come fuori da tutto. Come assente. Perso. Una strana sensazione. Veleggiare nello spazio. Forse per questo la polizia non riesce a trovare tutti gli scomparsi, perché non sempre vogliono farsi trovare. Perché quando non ci sei, appartieni solo a te stesso. Decidi tu cosa essere in ogni momento. Sei unico. Mi sentivo così solo in quegli istanti. un minuscolo puntino nel vasto mondo. Ma chi sono io? Com'era potuto succedere che nel giro di due giorni le circostanze avessero fatto di me un delinquente in fuga, e in fuga da mio padre? Qual era la forza che mi spingeva avanti, dentro la storia? Mi immergo, sono in un vortice, non ho più volontà. Dentro di me, dalle profondità dell'anima, affiorava una personalità sconosciuta che dilagava come una nube fin nelle pieghe più nascoste, m'inondava il cuore e il cervello sussurrando: "Sei tu. Stai scappando da lui. Sei sempre stato un po' così. L'hai sempre un po' sentito questo, ma avevi paura. Ora devi conoscere il segreto: sei davvero così. Non tutto. Una parte di te. E per via di quella parte sarai sempre un po' braccato, un po' delinquente. Per questo probabilmente non sarai mai il degno erede di tuo padre, l'ispettore più bravo del mondo". Insieme alla dolorosa tristezza di quell'ultimo bisbiglio udii dentro di me anche una voce diversa, un po' gracchiante, un po' satanica, che rideva maliziosamente: "Ma potrai, se vuoi, essere il discepolo di tua madre e di Felix". E mi venne in mente una cosa: forse lui mi aveva rapito per insegnarmi qualche segreto del mestiere. Per trasmettermi un po' della sua esperienza, della sua professionalità. Indossavo i vestiti di Zohara. Ne godevo il soffice contatto, che sussurrava insieme a me, al ritmo dei miei passi. C'era una volta una giovane donna di nome Zohara. Prima d'allora era stata una bambina. Non sapevo ancora molto di lei, come bambina, ma i suoi vestiti parlavano. Si esprimevano sulla mia pelle. Filtrava dentro di me, la bambina. Dalla gonna e dalla camicetta, persino dai suoi sandali, impregnati del sudore dei suoi piedi. Procedevo con gli occhi quasi chiusi, come se conoscessi a memoria la strada dalla casa di Lola al Teatro Nazionale. Per un attimo smisi di

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pensare, lasciandomi trasportare dai sandali di Zohara. Conoscevano tutte le buche, le strisce pedonali, le aiuole. Quando tentai, per sbaglio, di voltare a destra, a viva forza portarono i miei piedi verso sinistra. Non avevo mai incontrato dei sandali così risoluti. Erano passati venticinque anni da quando avevano percorso quella strada, ma il ricordo era come impresso in loro. E così, grazie alle vibrazioni che mi trasmettevano attraverso i piedi, cominciavo a capire. Sono così lento a volte, che disperazione! C'era una volta una bambina di nome Zohara. Guai se la chiamavi bambina. Ti beccavi subito una sberla. Viveva in un mondo di solitudine, isolata da tutti i suoi coetanei, preda dei pensieri dei grandi, in fuga per brevi momenti verso favole e fantasie, creaturine annidate nelle sue palpebre che si producevano in spettacoli e filmini. Cosa ancora? Sì, adorava la marmellata di fragole e il cioccolato. Abitava in una casa a molti piani, e aveva una stanzetta da dove si poteva vedere il mare. Una stanza da dove il mare sembrava più libero, più azzurro. Amava nascondere le caramelle al lampone dentro un nascondiglio che aveva ricavato nel materasso. Amava appendere al muro cartoline di terre lontane e collezionare soldatini di terre lontane. Come mai questa collezione? Chi le mandava queste bambole? Chi le mandava le cartoline? Forse suo papà. Questo papà a cui fino ad ora non avevo pensato. Ce l'aveva di sicuro un papà, no? Andavo avanti come un ubriaco. I sandali mi facevano danzare come se fosse sgorgata in me una repentina allegria I miei occhi erano pieni di stupide lacrime. Un bambino che piangeva come una femminuccia. Come una bambina che si iponeva di smettere di piangere. Che aveva fatto un graffio sul muro a forma di fulmine, per non piangere. Come avevo Sfatto a non capire nulla di quel che mi era capitato in quei due giorni? La stanza in casa di Lola. L'odore del cuscino, i vestiti nell'armadio. Le cartoline di tutti quei posti lontani. Ho paura, ho paura di sapere. E Lola, che era rimasta una notte intera seduta sulla sedia, a sospirare. Lola che conosceva la data del mio compleanno. Come avevo fatto a non capirlo? E papà che aveva indovinato: Felix mi avrebbe portato qui, proprio a casa di Lola. E il tragitto seguito in questo viaggio, un tragitto previsto fin dall'inizio. Come il destino. La storia che Felix mi stava raccontando. Andavo avanti, barcollavo. Quanto ancora potevo stupirmi, cosa ancora mi sarebbe successo, in questo viaggio? «Sulla collinetta, vicino ai semafori, gira a destra, e poi a sinistra,» mi aveva detto Felix. Voltai a destra e poi a sinistra. «A quel punto guarda bene a sinistra.» Feci salire lo sguardo come la lancetta di un orologio che avanza verso le nove. Vicino a un palo della luce c'era una donna che sventolava un grande fazzoletto. Lola. Lì accanto c'era una motocicletta con il sidecar, e un lontano ricordo mi assalì: una moto con il sidecar e una piantina di pomodori. E un uomo scatenato, con la risata equina. Finché smise di ridere e divenne un uomo severo e triste. Sulla motocicletta però c'era Felix, con degli strani occhialini e un casco di pelle. Ovviamente era riuscito a sfuggire all'assedio dei poliziotti di papà, e ovviamente mi aveva preceduto. Diede gas e il motore rombò. La nostra Rolls Royce. E Lola Ciperola, la celebre attrice. Cioè la mamma di Zohara. E Felix Glick, l'uomo della spiga d'oro. L'uomo che aveva amato mia madre. Ma non come un innamorato. Non come un uomo che ama una donna. Come un padre che ama sua figlia. Come avevo fatto a non capirlo

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prima? Lui era suo padre. Lola era sua madre. Spiga d'oro e scialle viola. Papà e mamma di Zohara. Insieme mi facevano segno di correre da loro. Mio nonno e mia nonna.

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CAPITOLO 25. ZOHARA ATTRAVERSA LA LUNA E CUPIDO PASSA ALL'ARMA DA FUOCO. Viaggiammo tutta la notte sulla motocicletta con il sidecar. Io, Felix e Lola Ciperola. Il vento ci sferzava il viso e scompigliava i capelli, e per sentire quel che dicevamo bisognava urlare. Felix guidava, Lola era aggrappata ai suoi fianchi e io stavo nel sidecar come una fava nel suo baccello. Ogni tanto ci davamo il cambio: Felix alla guida, io seduto dietro di lui e Lola nel sidecar. Viaggiavamo nel buio della notte. Le luci della città sfavillavano sopra di noi, ci vedevamo riflessi negli occhiali scuri dei mendicanti e nelle vetrine lussuose. L'ombra della motocicletta lambiva i marciapiedi, i cartelloni pubblicitari, le panchine con gli amanti. Appiccicati uno all'altro, passavamo fulminei come un colpo di forbici davanti ai piccoli caffè notturni, lungo viali tenebrosi, di fianco agli spazzini e a strane bande di cani in spedizione notturna che ci abbaiavano a più non posso: un dalmata, un cane lupo e un barboncino bianco che faceva il capo; o una piccola e lunga bassotta, un enorme alano e un brutto mops. Come se i rappresentanti di tutta la popolazione canina di Tel Aviv ci fossero venuti incontro per farci da scorta nel nostro viaggio sulle orme di Zohara. Ma forse dovrei cominciare con la descrizione del nostro incontro vicino al teatro. Dal mio incontro con il nonno e la nonna, questo duplice e stupefacente regalo che avevo avuto per il bar-mitzvah, senza lo scontrino per poterlo cambiare. Andavo loro incontro dal fondo della strada, tutto tranquillo, come se niente fosse; ma dopo appena qualche passo, mi ero già messo a correre. Lola sventolava il fazzoletto. All'inizio si trattenne, come si conviene alla primadonna del Teatro Nazionale, ma quando fui più vicino mi venne incontro di corsa. Nessuno lì in strada (e nessuno al mondo) avrebbe potuto riconoscerla così, in jeans, con i capelli sciolti e senza trucco. Volavamo l'uno verso l'altra. Lei mi lesse in volto che sapevo. Ci incontrammo, ci scontrammo, ci abbracciammo. Affondai la testa nella sua spalla e le dissi: «Tu sei la mamma di Zohara.» E lei: (Sì, sì, sono così contenta che tu l'abbia capito, non ce la facevo più a tacertelo» e il mio collo si ritrovò completamente bagnato in conseguenza di un'improvvisa depressione barometrica nel cielo del Teatro Nazionale. Felix era rimasto in disparte e scuoteva il capo con le mani sui fianchi: «Insomma, la piantate? Chiedo scusa, ma dobbiamo muoverci! Ci sarà tempo più tardi per le smancerie e le lacrime!.» «Non fare il furbo!» gli disse Lola, soffiandosi il naso. «So bene perché ti sei messo il casco. Ma riesco comunque a vedere i tuoi occhi!» «E lui è mio nonno. So anche questo» dissi a Lola. Ero un po' sconvolto, per come mi ero buttato su di lei. «Se mi chiami nonno in presenza di estranei, ti denuncio subito alla polizia,» brontolò Felix. «Sono ancora troppo giovane per farmi chiamare nonno!» «Povero bambino» disse Lola sconsolata, «avere Felix Glick per nonno.» «Perché povero?» protestò Felix. «Conosci un altro nonno che ti faccia dirottare un treno?» Aveva ragione. «Con me non c'è problema, chiamami pure nonna» disse Lola. E col tempo anche Felix si abituerà.» Ancora una volta mi persi nel suo profumo. Ho una nonna. Una nonna vera, che

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abbraccia, non una nonna compasso. «Allora ti sei sposata!» mi sfuggì. Avrà pur avuto i suoi principi. «Se mi sono sposata?» mi guardò divertita. «Ti sembra la prima domanda che un nipote fa a sua nonna?» «No, perché una volta hai detto che...» Scoppiò a ridere: «Hai ragione, Nono. Ma ascolta bene la verità: io sono una donna che ama vivere da sola e fare quello che le piace. Sono sempre stata libera come una zingara e, se amavo qualcuno, non aspettavo che venisse a dichiararsi. Andavo e gli dicevo: Caro mio, questo è quanto!. E ho amato davvero questo vecchietto...» soggiunse accarezzando teneramente il casco di Felix. «Ma mai e poi mai gli avrei consegnato le chiavi della mia vita.» «A me basta un cacciavite» disse Felix scoppiando a ridere. Ero orgoglioso di Lola, della mia nuova nonna, perché sapevo con certezza che sarebbe rimasta fedele a se stessa. «Dove hai trovato una moto come questa?» chiesi a Felix. Lui sfoderò quel suo sorriso misterioso, si strinse nelle spalle, e farfugliò qualcosa a proposito del mago Felix che può tutto. Si vantò anche di altre cose, giusto per irritare Lola. Ma lei rideva e, dandogli un buffetto sul collo, sospirò: «Settant'anni, e sei ancora un bambino!.» «Heide!» nitrì Felix, e partimmo al galoppo. Avevo un mucchio di domande per lei. E per lui. Perché in tutti quegli anni Lola non aveva cercato un contatto? Sapeva comunque di me? Mi aveva riconosciuto, quando io e Gabi l'avevamo incontrata vicino a casa? Gabi. Gabi Gabi Gabi. Come aveva fatto, in tutti quegli anni, a nascondermi la cosa più importante a proposito di Lola Ciperola, e cioè che era stata l'amante di Felix Glick? E che aveva avuto una figlia? E che sua figlia era morta? E che sua figlia, come dire, era stata una delinquente, e che solo per puro caso era anche mia madre? In tutti quegli anni Gabi aveva lasciato vagamente intendere che Lola e Felix erano molto importanti per me, per la mia vita, per il mio destino; aveva piantato in me piccoli semi di curiosità riguardo a Lola, e anche a Felix: le spighe d'oro, lo scialle viola, e le sue imitazioni, le canzoni, e le storie riguardanti la vita di Felix. Tutto sembrava succedere al momento giusto, tre giorni prima del mio bar-mitzvah. uno all'insaputa dell'altra, Gabi e Felix mi avevano guidato con mosse accorte e segrete. Entrambi volevano intrappolarmi. E io volevo farmi intrappolare. Lo volevo proprio molto. Con la coda dell'occhio continuavo a guardare Lola e Felix, cercando di abituarmi al fatto che erano i miei nonni. Mi pareva ancora strano, perché, nei modi in cui l'avevo conosciuta, Lola era stata una figura sempre lontana; ora invece, e di colpo, me la trovavo così vicina da entrare addirittura nella mia vita. Una differenza stratosferica, come quella fra Lola Ciperola e Lola Katz, mentre io non sapevo ancora cosa sarebbe successo da lì in avanti, quanto vicini saremmo stati, cosa vuol dire avere una vera nonna... All'improvviso il mio sguardo incontrò quello di Lola. «Ti guardo» mi disse, sporgendosi verso di me, «e penso: che scema sono stata a non oppormi a tuo padre per tutti questi anni, a non cercare di incontrarti nemmeno una volta.» «Lui non voleva?» urlai, non solo a causa del vento. «Perché dopo la morte di Zohara, non voleva che ci fosse più alcun legame fra te e la sua vita! Temeva che qualcosa di Zohara si trasmettesse a te, e così decise di cancellare anche me. Sì, sì!» Si legò i capelli sopra la testa, perché potessi sentirla nonostante il frastuono. «Ma ora basta!

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Ora mi metto d'accordo con te, non con lui, e voglio essere la tua nonna a tempo pieno. Mi vuoi?» Scoppiai a ridere. Le donne vogliono sempre farmi da mamma o da nonna a tempo pieno. Ci stringemmo la mano. Certo che la volevo. «Il palazzo dei diamanti!» urlò Felix. All'incrocio girò, uscì dalla strada asfaltata e imboccò un sentiero di terra battuta che attraversava un campo incolto vicino all'edificio. Si fermò. Il vento si calmò. Lola e io respirammo sollevati. Felix saltellava vicino a noi, cercando di estrarre la testa dal fastidioso casco di pelle, simile a quello dei piloti della seconda guerra mondiale. Nell'aria c'era un intenso aroma di cioccolato. Riconobbi subito il luogo. Era l'oggetto del dolce segreto fra me e Gabi, la fabbrica di cioccolato, che per merito mio e di Gabi negli ultimi cinque anni si era notevolmente ampliata. «Come fate a sapere che mi piace venire qui?» dissi ridendo. «Non ve l'ho mica raccontato.» «Che cosa non hai raccontato?» domandò Lola, aggiungendo indispettita: «Su, dài Felix, vieni fuori da questo stupido coso!.» «Che Gabi e io... veniamo qui una volta al mese. Alla fabbrica. A vedere come si fa il cioccolato.» «Sì. Sempre. Già da alcuni anni. Poi veniamo sotto casa tua ad aspettarti.» Lola guardò me, poi Felix e scosse la testa meravigliata: «Devo proprio conoscerla, questa Gabi. E' semplicemente magnifica!.» Non capivo quell'entusiasmo. Le nonne dovrebbero, fra le altre cose, preoccuparsi dei denti dei nipotini, e non esaltarsi così per delle visite a una fabbrica di cioccolato. «Dimentica un momento il cioccolato!» strillò Felix. Con uno sforzo supremo era riuscito a sfilarsi quello strano copricapo e guardava Lola con aria desolata, quasi a chiedere umilmente scusa: «E' colpa del naso. Era il naso che non passava, «ecco!.» E Lola fece un gesto crudele, mimando le cesoie con due dita. Felix si contrasse come per proteggersi. Avevo la sensazione che Lola lo mettesse un po' in soggezione. «Dimentica il cioccolato!» mi ripeté. «Ora guarda solo da questa parte. La parte dei diamanti! Qui comincia la tua storia.» «Mia?» «Yes, sir! Molti anni fa questo era il centro nazionale dei diamanti! L'edificio era pieno di diamanti. E di sorveglianti, di telecamere che riprendevano ogni mosca che volava, e di allarmi fra i più moderni. In breve, io e Zohara un giorno passiamo per questa strada, e Zohara vede, scoppia a ridere e dice: Cosa ne pensi, paparino - mi chiamava così -, potrei entrarci di notte, salire fino al tetto, e poi uscirne fuori senza farmi beccare?.» Un momento, più piano. Stavo quasi per tapparmi le orecchie. Mi sembrava impossibile che mia madre dicesse cose del genere, come al cinema. Dove a dirle, comunque, è sempre qualcuno che non ha figli. «Allora io cerco di farla ragionare: Zohara, bambola mia, perché dovresti? Se vuoi del denaro, ti darò io ciò di cui hai bisogno. Molto denaro, come una volta, se necessario. Se invece vuoi giocare andiamo all'estero, in un posto dove ancora non ci conoscono, e troviamo qualcosa da fare!.» Lola si avvicinò, cingendomi le spalle. «Quando per te è troppo, dillo!» sussurrò. «Lui adora impressionare, e a volte esagera.» «Come, esagera?» brontolò Felix. «Io sto solo raccontando la sua vera storia! Lo porterò dappertutto, gli farò vedere quel che è stato, come è

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andata veramente?» Cominciavo a capire come mai quei due non erano riusciti a vivere insieme. «Continua» dissi, «voglio sapere.» «Ah!» Felix era tutto inorgoglito. «Tuo nipote vuole sapere! Ottimo! E' un suo diritto, questa è la sua storia! Per farla breve, Zohara mi dice: "Paparino, non voglio più denaro sporco, non voglio più prendermi gioco degli imbecilli, voglio solo giocare ancora un po', sentire il mio cuore che batte forte, perché da quando siamo tornati a casa facciamo una vita normale noiosissima, e di noia si può anche morire; allora mettiamo che io salga sul tetto e incominci a suonare col flauto una canzone, una breve melodia, poi scenda, e nessuno mi becchi, cosa ne pensi, paparino?".» Guardai in su, rovesciando completamente la testa all'indietro - cosa non facile, perché mi veniva anche da ridere. «Solo per suonare sul tetto?» Una breve melodia s'insinuò nella mia mente. «Era davvero un'imprudenza» continuò Felix. «Certo, se si fosse trattato di prendere un po' di merce buona, l'avrei anche capito. Lavoro. Ma solo per fare sfoggio di abilità? Il guaio è che Zohara era fatta così. Quando le dicevo di non fare qualcosa, lei la faceva subito. Quando le dicevo: "Zohara, tesoro mio, fa' attenzione!", lei rispondeva: "Insomma, papà, è sempre e solo no!".» Lo guardai. Proprio così dovevano essere state le discussioni fra loro. «Era come parlare ai muri» sospirò Felix, «io le dicevo no e lei diceva sì. Alla fine smettevamo di discutere e io pensavo che avesse rinunciato, che volesse dimenticare la faccenda, meno male, saluti e buonanotte. Partivo per un lavoro all'estero e lei restava qui. Ma cosa succedeva? Be', che dopo due settimane ricevevo una telefonata da tua nonna: Zohara l'aveva fatto!» «Salì sul tetto? Ci riuscì?» «Certo che ci riuscì! Ma non chiedermi come, non lo so! Il palazzo era pieno di guardiani e lei li fregò tutti! A ogni modo, una telecamera doveva averla ripresa, perché ecco che scatta l'allarme! Saltano su tutti, sirene, guardiani, polizia, cani... e Zohara si mette a correre. Ma ride anche! Invece di scappare fuori, lei corre fin sul tetto. Doveva suonare il flauto, no? Per lei era tutto un gioco!» Felix scosse la testa con aria sbigottita. «Ma cosa sia successo dopo, non lo so» disse allargando le braccia, «forse me lo puoi dire tu.» «Io? Ma come...» «E' la tua storia, no?» Come potrei saperlo? Non ero ancora nato! Felix chiuse la bocca. Le sue folte sopracciglia si inarcarono ancora di più. Dove? Sul tetto? Sì, è arrivata sul tetto. Come aveva promesso. Ma aveva promesso anche un'altra cosa. Sogghignai. Non può essere, non avrà mica osato suonare mentre la poliz...? Ma Felix chiuse gli occhi e annuì con decisione. Allora, dunque, sì. Estrasse il flauto dalla tasca, il suo piccolo flauto di legno e... suonò? «Sì, certo. Cosa pensavi?» Sul tetto, lassù, la luna illuminava tutto. Mi immaginavo Zohara là in cima, magari seduta sul cornicione, con le gambe nel vuoto e il chiarore della notte sui capelli, mentre sotto, nel campo in cui ci trovavamo ora, era pieno di poliziotti e di volanti con i lampeggiatori blu. Lei si pulì la bocca prima di suonare. Sapevo già cosa, e mi vennero in mente le sirene incantate del fiume nero. All'improvviso, silenzio! Il flauto. Semplice e delicato. Sentivo la melodia scendere dolcemente dal tetto, le note calare sulle teste dei poliziotti stupiti. Alcuni si tolsero imbarazzati il berretto, restando immobili ad ascoltare quella musica lieve,

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infantile, vivace come un capriolo nei pascoli del cielo. Nessuno sapeva ancora che si trattava di una donna. Zohara suonò la canzone per intero, una nota dopo l'altra, e i poliziotti restarono ammutoliti come di fronte all'inno nazionale. Ma questo era un inno all'audacia, alla leggenda e alla follia. Zohara terminò. Si pulì diligentemente la bocca e ripose il flauto nell'astuccio di stoffa nera. Cosa avrebbe fatto, ora? Nel momento in cui tacque, l'incanto si ruppe e riprese il trambusto. Poliziotti su e giù da un piano all'altro dell'edificio, cani che abbaiavano, ricetrasmittenti che lanciavano ordini... E lei? Cosa fece lei in quel momento? «Racconta» disse Felix sottovoce, «tu lo sai.» «Io? E come fa...?» Bene. Un po' la conoscevo, ormai. E, tenendo abbassate le palpebre con forza, sentivo il suo ronzio in mezzo agli occhi. Mi fu subito chiaro che non era rimasta ad aspettarli. «E' fuggita, vero?» "Sì" risposero gli occhi di Felix. Ma dove? Certo non poteva tornare giù. E sopra c'era solo il cielo. Cosa fece? Cosa avrebbe potuto fare? Prendere al volo un aereo di passaggio? Lasciarsi scivolare lungo un palo della luce? Felix sorrideva, e stava zitto, mentre Lola mi guardava piegando la testa, come se stesse leggendo il pensiero di sua figlia sul mio volto. Abbassai di nuovo le palpebre e mi concentrai. Sentivo riscaldarsi quel punto in mezzo agli occhi. Zohara in cima all'edificio. Mia madre. La figlia di Felix. Io sono il discendente di una stirpe di delinquenti. Già, tutt'a un tratto eccomi parte di questa stirpe... cos'avrei fatto io, al suo posto? Perché non riesco a trovare un bel trucco per liberarla? Una via di scampo? Perché non mi concentro? Forse a causa dell'aroma, di quell'intenso aroma di cioccolato che mi stordisce... l'oggetto del dolce segreto fra me e Gabi... una volta al mese, mi porta qui... «venne alla fonte un piccolo capriolo.» quell'aroma che mi attira e mi parla di magie... «Laggiù» mi voltai di scatto, indicando la fabbrica di cioccolato, «mia mamma è fuggita di lì.» E poi, con voce seria: «Adorava il cioccolato.» «Sia benedetto Iddio» sospirò Felix con sollievo, come se in quel momento avessi superato un esame d'ammissione alla tribù. I due si sorrisero a vicenda. Forse perché avevo detto "mia mamma". Era scappata nella fabbrica di cioccolato. Per questo, Gabi... Una volta al mese. Per cinque anni. Decine di volte. Con ostinata fedeltà. «Ma com'è arrivata dal centro dei diamanti alla fabbrica di cioccolato?» sussurrò Felix. 274 , «Come?» Già, come. I due edifici erano molto lontani. Di saltare neanche parlarne. Scendere al piano terra e correre... Impossibile, per via dei poliziotti che la stavano aspettando. Un momento. «Qui, a quell'epoca, c'erano già delle gru?» domandai. «Qui ce ne sono sempre» disse Lola. «Secondo me, qui costruiscono delle gru aiutandosi con le case, non il contrario.» Allora lo sapevo. Zohara saltò sull'enorme gru che stava, supponiamo, qui. Allungò una gamba nel vuoto e fece la prova: le sarebbe bastato un saltino. Un metro. Non molto. Ma, sotto, c'era un abisso di decine di metri. Felix seguiva il mio sguardo. Non parlavo, ma la mente turbinava: Zohara che si fa la treccia, la ficca nel colletto e mette in tasca il flauto. E via! Senza paura. Eccola che salta. Sorvola

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l'abisso, si lancia sul braccio d'acciaio della gru... Non mi fermai per chiedere conferma a Felix delle mie ipotesi, delle mie fantasie. Ero sicuro, come se fossi lì con lei: sentii lo schianto quando cadde, i denti che battevano. Rimase distesa un momento, un po' stordita dal dolore, forse anche dalla paura, poi cominciò a strisciare... No. Errore. Chiedo scusa: se fossi stato lì, io avrei deciso di strisciare. Ma c'era Zohara sulla gru. E lei, strisciare, no. Mai. Lentamente tese il corpo, forse le tremavano un po' le gambe, e con molta cautela si mise carponi. un'occhiata giù, e si tirò in piedi. Cominciò a camminare. Guardai il cielo scuro. Un lungo braccio d'acciaio spaccava in due la luna. Immaginai mia madre che camminava lungo quel braccio. Attraversava la luna, badando a non guardare l'abisso sotto di lei. Forse aveva voglia di dare un'occhiata giù. Felix, davanti a me, rabbrividì. E i poliziotti? Cosa fecero? Puntarono le pistole? Fischiarono? Sapevo con precisione come dovevano sentirsi, intuivo lo sbigottimento, l'imbarazzo, la sorpresa davanti a quell'esile figura incurante della legge e dell'ordine, che era penetrata nel cuore della fortezza, si era seduta sul cornicione del tetto a suonare una nenia infantile e poi era partita per un viaggio sulla luna, con un portamento eretto come quello di una funambola, sfidando qualcosa di molto più grande, più immenso di loro. Per questo, forse, non si erano quasi mossi, limitandosi a fare un gran chiasso e a urlare senza riuscire a prendere una decisione. «Non proprio tutti i poliziotti» Felix corresse il mio pensiero, «perché uno di essi capì subito dov'era diretta Zohara. Uno solo. Un poliziotto. Un detective.» I loro sguardi erano fissi su di me. Gli occhi di Lola e quelli di Felix. Ora toccava a me continuare la storia, descrivere questo poliziotto. L'unico ad avere capito cosa stava architettando Zohara. Cercai d'immaginarmene uno come quelli dei film americani, un bel fusto tirato a lucido con degli occhi di ghiaccio. Ma non mi andava. Cosa potevo fare? Presi l'esempio che avevo in casa. «Uno così, non alto ma forte. Una testa grossa. Quasi senza collo. Ben piantato.» E un po' trasandato, pensai con affetto, un po' irritabile. Sembra sempre che stia pensando a qualcos'altro. Insomma: arrabbiato, nervoso-Sudaticcio-Arruffato. In breve, ANSA. «Esattamente» ridacchiò Felix, «proprio così.» «E lui?» chiese Lola tenendo gli occhi bassi. «Lui era l'unico che sapesse cosa fare. Senza farsi notare, si precipitò verso la base della gru e cominciò ad arrampicarsi, come su una scala di ferro...» Bene, pensai in cuor mio, sentendo caldo: lui aveva una certa esperienza di scalate su tetti, pennoni, aste di bandiera... Una notte, non più di quattro o cinque anni prima, aveva compiuto un'ascensione del genere sui tetti di nove ambasciate di Gerusalemme, armeggiando furtivamente con funi e bandiere. Insomma, la mattina l'ambasciatore d'Italia si svegliò sotto la bandiera d'Etiopia, che tanto odiava, mentre quello di Francia alzò gli occhi dal suo croissant e si sentì mancare vedendo che, mon Dieu, su lui e il suo croissant vigilava la bandiera inglese! Nel giro di qualche minuto nove ambasciatori si telefonavano furiosi e riempivano l'aria con un pastrocchio di lingue e fiele diplomatico: tutta Gerusalemme si sbellicava dalle risate, compreso papà, che aveva vinto la scommessa. Rieccolo dunque nel ruolo di scalatore. Arrivato sul braccio della gru, a qualche metro dal misterioso equilibrista, papà si

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sedette, guardò giù e si sentì svenire. Poi fissò l'intrepido ladro e capì di avere di fronte un rivale impareggiabile. Si conobbero in cielo, pensai. Un passo e poi un altro. L'equilibrista era quasi arrivato in fondo al braccio d'acciaio, sopra il tetto della fabbrica di cioccolato. Papà tentò di mettersi carponi, ma la paura e le vertigini lo tenevano incollato alla gru. Decise di ingoiarsi l'amor proprio e si mise a strisciare. Sentiva nella pancia le vibrazioni provocate dai passi dell'equilibrista. Gli si irradiavano per tutto il corpo come brividi di pericolo ma anche di un'incomprensibile delizia. L'equilibrista si voltò un istante e scorse l'inseguitore. Zohara sorrise, mischiando l'orgoglio per il proprio coraggio al disprezzo per quel verme che strisciava raso terra. Era andata davvero così o era solo la mia immaginazione? Non importava. Speravo che fosse andata così. Ancora oggi, quando passo vicino a una fabbrica di cioccolato, ho subito davanti agli occhi quell'immagine: i due che avanzano in silenzio sull'enorme gru, dominando la città illuminata; e un'impalpabile trama d'intimità comincia a ricamarsi fra loro. Forse fu proprio per questa piega imprevista che Zohara accelerò il passo. Allora papà strisciò più veloce, ma Zohara arrivò in fondo al braccio, sopra il tetto della fabbrica di cioccolato, prima che lui potesse raggiungerla. Respirai profondamente: «E quando lei arrivò sopra la fabbrica, saltò.» «Ma è alto!» replicò Felix. «Saranno stati quattro metri!» «Lei saltò!» dissi ostinatamente. «E non le successe nulla!» «Esatto, cadeva sempre in piedi» mormorò Felix, stupefatto. «Era notte» continuai, ormai non riuscivo più a smettere. Anche se non la conoscevo, la storia fluiva dal più profondo di me, da quel punto sulla fronte. «La fabbrica era deserta, e Zohara correva avanti e indietro» Me la vedevo davanti, cercava una via d'uscita, sfrecciava come un fulmine da una parte all'altra del locale. Appariva e spariva, saltava e si muoveva con grande leggerezza. Vedevo tutto, una piuma mi solleticava il cervello, raccontavo attingendo direttamente dalla fantasia, e questa volta non erano bugie, era la mia storia che finalmente si liberava, si dipanava come un gomitolo rimasto a lungo aggrovigliato, ridando vita a Zohara, Zohara che danzava fra i grandi macchinari, in mezzo a enormi bacini immersi in un dolce sonno: si fermava continuamente, non ce la faceva a trattenersi, allungava un dito, leccava e rideva. Si udì un tonfo: un corpo di grandi dimensioni era caduto sul tetto della fabbrica. Il poliziotto. L'unico, il solo. Rotolò sulla schiena, imprecò, si rialzò e, dal tetto, penetrò nell'enorme sala dove si fabbricava il cioccolato. Avanzò con circospezione, la pistola puntata, guardando in ogni direzione. Cercava il ladro. Il suo intuito non gli permetteva di sbagliare: se sentiva caldo alla pancia, intorno all'ombelico, voleva dire che il ricercato era nei paraggi. E in quel momento aveva un gran caldo. Alla pancia, dappertutto. "Chi va là!" urlò papà, e l'eco gli rimbalzò da ogni lato, caricandosi dell'aroma di cioccolato. "Il luogo è circondato! Non hai scampo! Vieni fuori con le mani in alto!" L'eco si spense. Silenzio. Papà si guardò intorno con circospezione. L'odore del cioccolato gli penetrava nelle narici. Forse per una frazione di secondo ricordò di aver trascorso l'infanzia in una fabbrica come questa, con suo padre. Fra macchinari come questi, sacchi di zucchero e farina. Sì, biscotti e cioccolato insieme, ah...! Ma ricacciò indietro questi

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pensieri. In un mestiere come il suo non ci si può distrarre, perché ogni errore può essere fatale. Avanzava a passi lenti, con la pistola che fiutava in ogni direzione. E cosa successe a questo punto? La mia immaginazione si arrestò, il punto caldo si raffreddò di colpo. Un sipario nero, rosso, sembrava fremere davanti alla mia mente. «Allora» disse Felix, «lei gli sparò.» «Lei gli sparò?» trasalii. Non immaginavo nemmeno lontanamente che avesse una pistola. «Ha sparato a papà?» «Be', sì. Con la pistola che ora tu hai in tasca, Amnon. Quella che mi hai preso. Era sua.» Una pistola da donne, ricordai. Certo. Ecco perché papà l'aveva osservata così attentamente alla mostra di armi. E accarezzata. «L'ha ferito?» «Alla spalla. Mi dispiace. Devi saperlo: non aveva mai sparato in vita sua. Non sarebbe stata capace di uccidere nemmeno una mosca. Ma, proprio con tuo papà, improvvisamente le partì un colpo. Forse l'ha fatto solo per scherzo, per giocare, forse... chissà.» «Forse cosa?» sospirai. «Perché gli ha sparato?» «Forse s'era accorta che lui era pericoloso» disse Lola serenamente. «Non come poliziotto. Ma come uomo. Forse intuiva che sarebbe stato così importante nella sua vita, così fatale, e s'era spaventata.» Mi accasciai all'indietro, scivolando dentro il sidecar. Mi ci vorranno duecento anni per digerire tutto questo. Rimasi in quella posizione per circa cinque minuti. Lola sussurrò qualcosa a Felix e lui tirò su con il naso. In cielo passò un aereo e l'antenna sul palazzo dei diamanti gli ammiccò, facendo lampeggiare una lucina rossa. Stavo supino, e il proiettile attaccato alla catenina rotolò fuori dalla camicia, andando a posarsi sulla mia bocca. Era freddo, gelido. Lo avevano estratto dal suo corpo. Gliel'aveva sparato lei. L'avevo addosso da sempre, senza saperne niente. «Come una freccia di Cupido» disse Lola, tirandomi delicatamente fuori dalla motocicletta. «Tuo padre s'innamorò di lei a prima vista.» «Perché rise quando gli sparò» disse Felix, «e lui s'accorse che era una ragazza.» Papà rimase sbalordito. Sono convinto che il dolore provocato da un proiettile del genere equivale, più o meno, a quello dell'incornata di una mucca. Si portò una mano alla spalla, tentando di arrestare l'emorragia. "Come? Una donna?" domandò stupefatto. Zohara rise di nuovo e quella risata cristallina si propagò dappertutto, traendolo in inganno. Sparò di nuovo, ma questa volta per non ferire. "Non avrai scampo!" gridò papà. Poi, del tutto involontariamente, sorrise, in contrasto col dolore che gli stava penetrando in tutto il corpo e nel cuore. Sparò di nuovo, facendo esplodere il grande lampadario sulla testa di papà. Ma lui sfuggì alla pioggia di cristalli e si nascose dietro una pila di sacchi di caffè. Ancora uno sparo. Una cascata di chicchi marroni e profumati rischiò di sommergerlo. Lui saltò indietro. Si piegò. Lei sparò. Lui contò il numero delle pallottole già esplose. Fece il conto di quante gliene restavano nel tamburo. La conoscenza è forza, stavolta... più sapeva e più si sentiva inerme, più il suo cuore s'arrendeva. Erano soli, mentre il tempo sembrava essersi fermato. Lei rideva, si prendeva gioco di lui. Scivolava fra le macchine, si arrampicava sui carrelli elevatori. Gli mostrava una lunga lingua rosa dietro il nastro delle lingue di gatto - per le quali io vado matto ancora oggi - sventolava la sua maglia dietro i sacchi di

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zucchero e, quando lui piombava sulla preda, lei non c'era più, ma riappariva da qualche altra parte, sparava sopra la sua testa, attenta a non colpirlo, solo così, per gioco. Lui continuava a sorridere. Involontariamente, a dispetto del dolore. «Fu così che cominciò» spiegai con improvvisa competenza ai miei due attenti ascoltatori. «Fu così che lei cominciò a farlo ridere.» «E' vero» confermò Lola. «Quando voleva far ridere, nessuno riusciva a rimanere indifferente.» Sì, pensai. Solo lei riusciva a farlo ridere sul serio. Povera Gabi. «Una volta in Giamaica» rammentò Felix, «la elessero Reginetta della Risata 1951! Ricevette tremila dollari solo per la sua risata!» «E così, soli nella fabbrica deserta, cominciarono a ridere» continuai col cuore gonfio al pensiero di quei due, mio papà e mia mamma che si inseguivano nell'enorme sala di produzione del cioccolato, sfidandosi a vicenda, giovani, allegri, come se non fossero un poliziotto e una ladra, ma soltanto un uomo e una donna, mentre un'unica risata riempiva lo spazio, la risata squillante e cristallina di lei unita a quella roca ed equina di lui. Non l'ho mai sentito ridere davvero, di cuore... «Finché, all'improvviso...» A volte penso che in quel momento fu scritto in cielo che di mestiere avrei inventato storie. «All'improvviso» dissi con una strana certezza, «mentre lei correva su un binario sopraelevato, il suo piede si scontrò con qualcosa, e lei cadde giù, e...» «E...?» chiedevano in coro Lola e Felix, sporgendosi in avanti. «Cadde giù...» «E...?» «Cadde nella vasca del cioccolato» conclusi con fierezza. Tre metri di larghezza, altrettanti di lunghezza e due di profondità, con un enorme frustino che rimestava lentamente il dolce intruglio. Conoscevo le misure di tutte le vasche della sala centrale. A Gabi piaceva sostare vicino alla più grande di tutte. Fissava lo sguardo lì dentro, e sospirava. E io, da vero scemo, pensavo che volesse immergersi in quel mare di cioccolato. «Papà saltò dentro anche lui, e con qualche bracciata vigorosa avanzò nel cioccolato, per andare a salvarla.» Parlavo come un cronista di calcio. M'interruppi di colpo. Papà non sapeva nuotare. «Proprio così» osservò Felix. «A momenti annegava! L'hai mai visto, tu, un poliziotto del genere?» E a Lola, in tono ironico: «Annegare nel cioccolato.» «Ma Zohara sapeva nuotare» disse Lola ignorandolo «e lo afferrò immediatamente per i capelli, tirandolo con tutte le forze in quel mare di cioccolato. Finché arrivarono alla scaletta.» L'ha tirato per i capelli. E per il cuore. Completamente. All'epoca li aveva, i capelli. E anche un cuore. «Uffa'» sospirò Lola. «Dev'essere dura per te, raccontare così, e sentire queste cose, vero?» «Sì» risposi. «O meglio, sì e no» soggiunsi, sedendomi di nuovo nel sidecar. «Non avrei mai immaginato di saper raccontare questa storia.» «Queste sono le più belle» disse Felix. Occhi, divisa, pistola, papà era interamente coperto di cioccolato, che si rapprese rapidamente. Non osava muoversi. Il suo cuore di scapolo incallito batteva come un tamburo: ecco la donna dei suoi sogni, una donna che lo aveva catturato, e ripescato... Zohara, pur col fiatone, rideva, e scrutava con tenerezza infantile le sue spalle larghe, il suo corpo ben piantato... Ce l'ho

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davanti agli occhi, come se fossi lì: Zohara sola e felice, ricoperta di cioccolato dalla testa ai piedi. I capelli, il collo, le spalle, le orecchie un po' appuntite, tutto ammantato di cioccolato che cola a terra. Una mandorla amara dentro una glassa di cioccolato. «Due pupazzetti di cioccolato» disse Lola sottovoce, «un poliziotto e una ladra.» «E tutti e due che ridevano» borbottò Felix. Papà che rideva? Povera Gabi. Divora quintali di cioccolato e non riesce a farlo ridere. «Mani in alto» disse il poliziotto, puntando la pistola di cioccolato. Perché aveva fatto il conto e sapeva che Zohara aveva finito i colpi. «Mi piaci» disse la ladra. Forse allungò anche un dito per assaggiare un po' di cioccolato dal suo naso. «Non ho mai incontrato un uomo come te. Se me lo chiedi nei dovuti modi, ti sposo.» «Dunque, prego... mani in alto, ecco» farfugliò mio padre, che non aveva capito bene. Zohara scoppiò a ridere, perché pensava che quella frase fosse dovuta al suo senso dell'umorismo. CAPITOLO 26. MAI VISTE DUE PERSONE cosI' POCO FATTE L'UNA PER L'ALTRA. Lasciammo la fabbrica di cioccolato e ci dirigemmo verso nord. Non feci domande. Durante il viaggio mi tolsi i vestiti di Zohara e indossai nuovamente i miei. Non avevo più bisogno dei suoi. Ormai, era dentro di me. I lampioni ci sfrecciavano di lato e le poche persone che passavano per strada si fermavano a guardarci. Proprio uno strano terzetto: Felix con il suo orrendo casco di pelle, piegato in avanti come un fantino in corsa; Lola con la folta chioma nel vento che sembrava la testa della Medusa; e un bambino del tutto fuori posto data l'ora. Anche la motocicletta suscitava lo stupore generale: era molto antiquata, tozza e rumorosa come un carro armato. Il sidecar sembrava sempre sul punto di staccarsi. Mi vedevo schizzare via a un tornante, muto come una pianta di pomodoro, mentre Felix e Lola continuavano per la loro strada, abbracciati l'una all'altro sulla motocicletta. Verso il tramonto. Cioè, l'alba. Ogni tanto lanciavo un'occhiata verso di loro. Guardavo Lola rannicchiata e felice, con i lunghi capelli grigi che, svolazzando, avvolgevano entrambi in un manto. Felix continuava a parlarle, urlava nel vento, e lei gli rispondeva gridandogli nell'orecchio. Forse stavano litigando, forse stavano amabilmente conversando. Capii quanto erano stati uniti, una volta. «Questo è solo l'inizio della storia!» mi gridò Lola dietro il velo dei suoi capelli. «Va bene! Ascolto!» risposi urlando. «Nella fabbrica di cioccolato papà era stato chiaro con Zohara, spiegandole quel che le sarebbe successo: l'avrebbe portata fuori e avrebbe badato a che nessuno le facesse del male. Avrebbe cercato di farsi assegnare l'inchiesta, e lei gli avrebbe spiattellato tutto, dicendogli perché aveva deciso di fare quella pazzia, perché si vedeva che era una ragazza di buona famiglia. Era forse rimasta invischiata in qualche scommessa? Cose del genere capitavano, nessuno lo sapeva meglio di lui. In cambio di una confessione esauriente, lui avrebbe cercato di farle avere una pena leggerissima, che non avrebbe sporcato la fedina penale, così Zohara avrebbe potuto continuare a fare una vita normale,

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come ogni cittadino per bene, e forse un giorno, quando tutto fosse finito, magari sarebbe andata al cinema con lui, eh? Mia mamma rimase incantata da quell'uomo. Dalla sua forza e dalla sua determinazione, dalla fermezza e dalla virilità. Dal fatto che non l'aveva aspettata di sotto, come tutti gli altri poliziotti, ma l'aveva seguita. Fra i tanti che Zohara aveva conosciuto, uomini che a parole le avevano giurato solennemente il loro amore, e ancor più solennemente avevano minacciato di buttarsi dalla finestra se lei li avesse lasciati, lui era stato l'unico che si era arrampicato dietro di lei e non l'aveva abbandonata lassù. Zohara, la donna che aveva disdegnato miliardari e calciatori, guardò mio padre, e le sue labbra mormorarono: "Sarai fedele?". Con tutto se stesso papà ringhiò la sua risposta, come se un intero battaglione di soldati fosse scattato sull'attenti, conquistandola. «Una come Zohara), mi disse Lola nel vento, «che viveva di fantasie e non ricordava mai dove stesse il confine tra il vero e il falso, restò evidentemente affascinata da uno come tuo padre. Forse pensava che le avrebbe mostrato la via che conduce alla serenità...» Credo che Lola avesse ragione. Pur essendo sempre stato un combinaguai, uno che si arrampicava sui tetti delle ambasciate per sistemare i croissant francesi all'ombra del vessillo inglese, non si può dire che papà si fosse mai dimenticato del confine fra lecito e illecito, fra realtà e illusione. Lui per esempio, non si impappinava mai quando gli chiedevano chi fosse. "Gran cowboy" sorrise la bambola di cioccolato, senza sapere che una volta lo chiamavano davvero così. "Non ti sei ancora reso conto di chi hai preso?" E sui due piedi, peraltro immersi nella pozza di cioccolato, cominciò a raccontargli. Lo sommerse con nomi di sovrani in esiLio, di paesi lontani per i quali l'atlante si bagnava di sudore eccetera, gli parlò d'ingenti somme di denaro, di frutti fosforescenti, di casseforti svizzere. Papà restò a bocca aperta, e Zohara scoppiò a ridere alla vista di quello stupore, di quella sua benedetta innocenza - l'innocenza di un bambino cresciuto. Nell'intimo di papà, ne sono certo, qualcosa si congelò, una fitta acuta gli spezzò il cuore, perché lei no, gli urlava dentro una voce, è molto diversa da quello che pensavi, non fa per te! Sentiva già suo fratello maggiore rimproverargli quell'amore inconsulto per una donna così perversa. Sentiva sua madre Zitka sibilargli: Dovrai passare sul mio cadavere, prima di sposare una ladra". Sentiva i suoi colleghi che lo escludevano da ogni incarico di responsabilità per via dei suoi rapporti con il nemico. Tutto questo papà lo sapeva fin dal primo momento, e tutto ciò si verificò puntualmente. Ma in quel momento il cuore di papà era colmo del primo nettare d'amore, il più dolce e gustoso di tutti, e quindi no e poi no, non avrebbe mai rinunciato all'unica donna che era riuscita a penetrargli così in fondo, a catturarlo, a pescarlo. Si accorse di avere nell'anima dei muscoli di cui non conosceva l'esistenza: erano le fibre dell'ostinazione, della pazienza, della costanza. Cominciò così. In quei pochi istanti il destino di papà deviò su un nuovo binario, persino i tratti del suo viso mutarono, assumendo una cupa gravità, come ispirati da un nuovo senso del dovere. Sembrava che solo in quel momento fosse passato dalla giovinezza all'età adulta. Il collo si fece più tarchiato e le spalle

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gli divennero più larghe, per accogliere il calore del suo affetto, e permettergli di sostenere il nuovo fardello. Se aveva ballato con un frigorifero, poteva anche fare lo sforzo di sobbarcarsi questo peso immenso: la vita tumultuosa della splendida creatura che gli stava davanti. Mentre lei gli raccontava col sorriso sulle labbra i suoi atti più nefandi, cose da far rizzare i capelli in testa, lui notò che Zohara emetteva tra le righe muti richiami di soccorso, scrutandolo con uno sguardo penetrante: sarà poi un vero detective? Riuscirà a penetrare oltre la maschera del riso? Riconoscerà, per esempio, quel che è imprigionato nelle profondità di quegli strani occhi, nella sua solitudine di bambina, infelice e troppo saggia, sempre in cerca di colui che non ne avrà paura? Nonostante le lunghe ore trascorse con mio padre, e a dispetto di tutto quel che avevo sentito dire di lui, in quell'attimo lo amai di più (anche se non era fisicamente con me): perché, con uno sforzo sovrumano, aveva vinto le sue piccole paure, aveva sconfitto le sue logiche razionali, aveva abbandonato un comodo percorso per imboccare un'altra strada, ignota e rischiosa. Insomma, aveva rinunciato a qualcosa di chiaro e tangibile in cambio di qualcosa d'ineffabile: l'amore. Papà ebbe l'incarico di seguire l'inchiesta. Per un mese andò da lei in prigione, ogni giorno per otto ore, e mise per iscritto tutto quel che lei gli riferì nel corso dell'istruttoria. «Istruttoria? Non fu un'istruttoria» gemette Felix. «Fu una vera e propria confessione!» E con rabbia furiosa lanciò la motocicletta in velocità. «Cosa pretendevi dalla bambina?» gli chiese Lola, puntandogli addosso il dito come nonna compasso. «Di te non ha fatto parola! Non ti ha mai menzionato, neanche una volta! Voleva solo sgomberare il campo da tutte le falsità! Ricominciare da capo, perché no?» «Che bisogno aveva di raccontargli tutta la storia, da Adamo in poi?» Felix digrignò i denti. «Non tralasciò nessun segreto!» «Perché era fatta così, e quando amava» sospirò Lola, parlando forse anche a se stessa, «non taceva nemmeno il più piccolo segreto. Dava tutta se stessa, Felix...» Proseguimmo in silenzio per qualche minuto. Felix teneva le spalle alzate, come per difendersi da Lola, da qualcosa che io non riuscivo ad afferrare. Finché lei respirò profondamente e tornò a raccontare di Zohara, di papà e di quella strana istruttoria. Zohara gli parlò dei viaggi, dei diamanti che scorrevano nella sua mano come semi di melograno, fece nomi di terre e isole lontane di cui lui aveva soltanto sentito dire o aveva letto qualcosa sui giornali, e seppe farlo in modo tale che tutto sembrò reale e immaginario al tempo stesso. Ma a papà non importava più cosa era vero e cosa no, perché sentiva che Zohara lo stava portando oltre il contine, oltre tutti i confini, tirandolo per i capelli. E una parte di lui aderiva gioiosamente, mentre l'altra puntava i piedi, impaurita e testarda... «Fu davvero un'istruttoria speciale» proseguì Lola urlando per superare l'ostacolo del vento, «lui voleva sapere tutto di lei, tutto! Ormai le sue malefatte non lo interessavano più... era affascinato dal carattere di lei... dall'enigma... Zohara...» «Venne persino a interrogare Lola!» gridò Felix con rabbiosa strafottenza. Ma andavamo così veloci che le parole si persero nel vento. «Non interrogare. Parlare... in cucina da me, per molte sere... settimane... mi chiedeva com'era quando... com'era da bambina... i suoi

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album di foto... i quaderni di scuola... restava per ore... non capiva...» Il vento mi faceva lacrimare gli occhi e quelle parole mi perforavano le orecchie. Pensai a papà in cucina, da Lola. Proprio dov'ero stato oggi. «E ci fu un processo» continuò Lola, «ma tuo papà garantì di persona al giudice che Zohara non avrebbe più fatto nulla di male. Fu per merito suo che Zohara ebbe un trattamento di favore. Venne condannata a due anni di prigione, una pena molto lieve per quel che aveva fatto.» «Due anni di prigione?» Ero sconvolto. «Rimasero separati per due anni?» «No, Nono, anzi. Era un grande amore, quello! Ecco, siamo arrivati!» «Dove?» Ma Lola mi posò un dito sulla bocca, e tacqui. Il vento cessò e le cose riacquistarono i loro colori naturali: il viale alberato, una macchia di eucalipti, le dune di sabbia, le siepi. Felix, con la consueta grazia, svoltò di nuovo per inoltrarsi in un sentiero laterale. La Rolls Royce sollevò un po' di polvere, sobbalzò sul sentiero sterrato, tossì fra gli eucalipti e si fermò. «Eccoci» sussurrò Lola. «Due anni.» Scendemmo dalla moto. Sentivo ancora i brividi della velocità. Barcollavamo tutti e tre e ci tenevamo aggrappati l'uno all'altro. Poi Felix riprese a battagliare con il casco, mentre Lola mi abbracciò da dietro, posando la sua guancia sulla mia. «Ti prenderai un raffreddore» disse. «Ecco, fa già la nonna» sghignazzò Felix Nel chiarore della luna si ergeva davanti a noi uno squallido edificio a forma di cubo: la prigione. Un carcere femminile, protetto dal filo spinato e circondato da un muro di cemento con torrette di guardia esagonali a ogni angolo. Dei cupi figuri armati passeggiavano sul tetto. Un grosso proiettore girava e un fascio di luce frugava nei campi vicini. Per due lunghi anni mia madre era rimasta qui. Chiusa. Soffocata. Ad appassire. «Per niente» disse Lola, «nel giro di un mese era diventata una guida per tutte le detenute. La loro rappresentante presso le autorità del carcere. L'animatrice. E poi... tuo padre veniva qui ogni giorno. Proprio così.» Ogni giorno. Finiva il lavoro, salutava la sua giovane segretaria (Gabi) e si recava alla prigione. Qui, in questo parcheggio riservato ai visitatori, fermava la sua motocicletta con sidecar (aveva tolto la pianta di pomodori, sentendo che faceva parte di un'era ormai conclusa, un'era di spensieratezza e ardori giovanili), restava seduto ancora un momento a capo chino, immobile come una roccia, poi respirava profondamente, come sempre nell'affrontare i guai della vita, scendeva dalla moto e si dirigeva all'ingresso dei visitatori. Giorno dopo giorno. Niente avrebbe potuto fermarlo, né il tempo né le sfuriate dei suoi superiori alla polizia. A quell'epoca, come aveva previsto, cominciarono a fargli dell'ostruzionismo. Sospesero la sua promozione. Ridussero le sue mansioni. Gli dissero: «Lasciala e ti sarà spianata la strada verso le cariche più alte!.» Ma lui continuava ad andarla a trovare. Si arrabbiarono: «Come fai a rovinarti la carriera per una delinquente. qualsiasi?.» Papà ascoltò. Tacque. Alla fine della giornata salì sulla sua motocicletta e andò al carcere. Non c'era logica né opportunismo in tutto questo, non era né coerente né professionale. Ma devo sempre tenere a mente che si trattava di un amore nato in una pozza di cioccolato, e perciò destinato a essere illogico, pieno di passione, rimorso, abbandono, oltre che di senso di colpa e profumo di peccato. Ogni giorno alle sei si incontravano nella sala

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delle visite. Una guardia armata sorvegliava da un angolo. I miei genitori conversavano sottovoce, a capo chino. Mamma gli raccontava della vita nel carcere, delle compagne di cella, delle solite discussioni con la direzione e le secondine. Papà le raccontava della casa che le stava costruendo sul fronte della Luna, presso il confine con la Giordania. Aveva comprato un appezzamento e stava erigendo un palazzo per loro due. Una casetta di legno, dei mobili che costruiva con le sue mani, il recinto per il gregge la stalla per i cavalli, il pollaio. Passava ogni fine settimana da solo lassù, sulla cima battuta dai venti, a costruire il loro nido d'amore. Comprò legna, attrezzi, tubi, finestre, porte, comprò un antico aratro di legno, sementi, fertilizzanti, diserbanti, e cominciò a interessarsi di pecore, muli, cavalli... Quando veniva a trovare Zohara, le mostrava con degli schizzi quel che aveva in mente, l'ovile, la stalla, disegnava la forma del recinto e gli armadi che stava per montare. Traduceva il suo amore prigioniero in una lingua di assi, muretti, serramenti. Zohara era affascinata dal suo puntiglio, dalla sua serietà. L'attenzione con cui parlava dell'altezza degli scalini le infondeva un senso tutto nuovo di serenità. Le sue spalle larghe, le sue mani squadrate, esprimevano forza e senso di responsabilità, e Zohara si crogiolava nel pensiero di quanto sarebbe stata felice in quella casetta, a cui si accedeva da tre scalini di legno dell'altezza di diciotto centimetri ciascuno. «Sarà come al cinema" rideva Zohara con il cuore tutto per lui, quel cuore volubile, facile alla noia e al tradimento. «Ohi» sospirò Lola, rabbrividendo. «Ohi" sospirò Felix. «Mai viste due persone così poco fatte l'una per l'altra» disse Lola. «Ancora oggi non riesco a capire cosa trovassero l'uno nell'altra» borbottò Felix. I due mi guardarono. Come se io avessi la risposta. Come se io fossi la risposta. Invece non sapevo cosa dire. Ancor oggi me lo domando, ma forse non sono abbastanza intelligente per capire quella reciproca attrazione. Benché io sia la combinazione di quei due esseri, la miscela delle loro contraddizioni e della loro somiglianza. «Il tuo signor papà pensava che si somigliassero» sghignazzò Felix. Mi era sempre più chiaro che non amava mio papà, e pensavo che dev'essere un bel pasticcio quando tuo papà e tuo nonno sono così ostili. «Essendo stato un giovane di mondo, il tuo signor papà era convinto di sapere come prenderla. Ma Zohara era troppo selvatica per lui. Se lui era un gatto... be', lei era una pantera.» Lola sospirò: «Lui era soltanto troppo buono e troppo onesto... e anche un po', come dire, un po' troppo normale, per capire un carattere come il suo..;» Non mise ironia in quelle parole, anzi, le disse con tenerezza e malinconia. Pur senza capire tutto quel che lei intendeva dire, intuii che Lola aveva ragione, e una goccia di amarezza stillò dal mio cuore. Per la prima volta in vita mia mi trovai a dubitare del suo talento di investigatore, e capii che quel mestiere non può risolvere tutti gli enigmi della vita e dell'animo umano. «Anch'io sono un po'» balbettai. Non sapevo come dirglielo. «Come Zohara, quel che hai detto di lei, che era. Volevo che Lola sapesse tutto di me, fin dall'inizio. Doveva. conoscere l'amara verità. Non volevo che fra noi ci fosse la minima falsità. «Non per niente sei figlio di Zohara e nipote di Felix» disse Lola con naturalezza. «Hai un po' di tutti e due nel sangue.» Questa sì che era una novità! Non ci avevo ancora pensato. Ma era un fatto

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positivo o negativo? Era possibile che io fossi così per via di Zohara? Ma se non l'avevo quasi conosciuta! Cosa significava che avevo un po' di lei e di Felix nel sangue? Osservai Felix sbigottito. Sembrava un soldato in parata. Ma parve un po' intimorito dal mio sguardo, come se si sentisse in colpa o dispiaciuto. Aveva proprio la stessa espressione del giorno prima, in casa di Lola, quando aveva cominciato a parlarmi di sé come se fossi il suo giudice: forse voleva farsi perdonare per quel che aveva trasmesso a Zohara nel sangue e per quel che lei aveva trasmesso a me... non ressi e guardai Lola, implorandola con gli occhi perché mi salvasse, dicesse qualcosa. lei capì (era una nonna perfetta), e disse con un sorriso pietoso: «Pensate alla felicità di quei due il giorno in cui lei fu finalmente rilasciata.» Respirai sollevato. E anche Felix. Vidi Zohara che usciva dal portone di ferro. Papà l'aspettava sulla motocicletta, qui nel parcheggio. Eccola che esce, guarda a destra e a sinistra. Le guardie la stanno osservando dalle torrette. Ed ecco, lui scende dalla moto e le va incontro. Si abbracciano. Anche se lui si vergogna, non ama le effusioni in pubblico. Loro... Chissà perché, non ero propriamente contento. Forse per ciò che era avvenuto fra me e Felix un attimo prima, forse perché intuivo, e con dolore, come quei due non fossero fatti l'uno per l'altra. Salirono sulla motocicletta e si diressero al Monte della Luna. Ci andarono direttamente dalla prigione, di questo ero sicuro. Non avevano scelta, in nessuno luogo li volevano insieme. Papà guidava, Zohara era seduta nel sidecar. Li vidi allontanarsi. Forse tirava vento come adesso, rendendo difficile parlarsi. Fatto è che il silenzio calò fra loro. Eccoli soli con se stessi, senza la magia della fiaba che li aveva avvolti fino a quel momento: non erano più due pupazzetti, non erano più una storia d'amore scatenata da un colpo di pistola e nemmeno un amore cinematografico, un amore sbocciato dietro le sbarre di una prigione... erano solo un uomo e una donna, un po' estranei l'uno all'altra, molto diversi. Come sarebbe stato vivere insieme? Erano impauriti, e lo fui anch'io. Zohara affondava lentamente nel sidecar. Avvertii le loro presenze, fu come se fossi lì con loro, lungo la strada deserta, con il vento che sferzava la faccia, mentre nel cuore si profilava a entrambi un destino diverso, separato, e papà sentì nell'intimo una specie di resistenza, qualcosa contro di lei... in un gesto di supplica la mano di Zohara si posò su quella di papà, ma lui la respinse bruscamente. Proibito guidare con una mano sola. «Ora andiamo lassù» disse Felix. «Dobbiamo tornare in mattinata. Per il regalo di Amnon, in banca.» «Dove andiamo?» domandò Lola. «Sento freddo, dài, torniamo indietro.» «Al Monte della Luna. Al loro rifugio.» Lola lo fissò con aria sconvolta: «Fin lassù? E' tremendamente lontano! E' su al confine!.» «Non possiamo evitarlo» replicò Felix. «Ho promesso ad Amnon che gli avrei mostrato in una notte tutta la loro vita insieme!» «Felix» tentò di opporsi timidamente, «ci vorranno delle ore per arrivare lassù! La tua carretta cederà lungo il tragitto!» «Un'ora e ci siamo! Parola di Felix!» r Nel carcere i cani avevano già fiutato la mia presenza, e le urla di quei due li agitarono ulteriormente. Si misero a correre all'impazzata con le loro catene, abbaiando fino a perdere la voce. Lola e Felix, naso contro naso, discutevano rabbiosamente, sputandosi addosso le parole: «Pensi sempre

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di potere decidere per me, vero? Hai sempre voluto combinare tutto tu!.» «E tu non mi hai mai ascoltato! Se mi avessi ascoltato, saresti...» «Lui sa sempre più degli altri! Cosa bisogna mettersi, con chi fare amicizia, e che ruolo interpretare a teatro! Un uomo di mondo! Un vero intenditore!» «Be', insomma, ne so davvero più di te» sogghignò Felix, indietreggiando. «So persino cosa stai pensando!» «Davvero?» disse Lola con aria di sfida. «Davvero? Allora, sapientone, di' un po': cosa sto pensando?» «Stai pensando» disse Felix cantilenando, «stai pensando; che quell'albero è vero.» Indicò una macchia che risaltava nella vegetazione. «E non lo è?» domandai. «Non è vero che stavi pensando questo, Loli?» gracidò Felix soddisfatto, cercando di pizzicarle il mento. Ma Lola, offesa, di voltò dall'altra parte. «E cosa ci hai nascosto, un'altra sorpresa? Oh, Felix, ma quando crescerai?» Non aspettai di sentire il seguito della loro discussione e mi precipitai. Da vicino notai che c'era qualcosa di misterioso. Un oggetto molto grande, immenso, che qualcuno aveva coperto di rami e cespugli. Mi ci buttai sopra e cominciai a toglierli, facendoli volare in ogni direzione. La vidi quasi subito, ma non riuscivo a crederci. Era al di là di ogni immaginazione. Come aveva potuto organizzare una cosa del genere? Quand'era riuscito a nasconderla qui? Chi l'aveva aiutato? Chi gliel'aveva procurata? Prima riportai alla luce la portiera nera, luccicante, poi lo pneumatico destro, compatto, da deserto, e il parafango tondo, con la striscia bianca che ci avevano dipinto durante la guerra perché i passanti, in Inghilterra, la vedessero... Caddi in ginocchio. La mia, la nostra perla. La Hamber pullman che avevamo dovuto cedere a Mautner, poi lui aveva capottato al primo viaggio, alleluia, e l'aveva venduta sostenendo che fosse stregata, e noi basta, capitolo chiuso, non ne parlammo più, solo ogni tanto, a quel ricordo ci si stringeva il cuore. Eccola qui, tornata dall'aldilà. Aprii la portiera con sacra reverenza. Conoscevo ogni centimetro quadrato di quella vettura. Migliaia di volte avevo lucidato il suo corpo metallico, il cruscotto, il volante. Sembrava che le fosse rimasto impresso qualcosa di me. Mi sentii travolgere da un'ondata di sollievo, come mi succedeva sempre alla fine di "Torna a casa, Lessie". Mi sedetti sul sedile di fianco al guidatore, al colmo della contentezza. Chissà dov'era stata tutto questo tempo, chissà chi l'aveva guidata. E chissà se ricordava le mie mani, che l'avevano tanto accarezzata. Arrivò Felix e mi osservò dal finestrino: «Allora, cosa ne dici del tuo nonnino?.» «Dove l'hai trovata...? Come l'hai portata...?» «Ho pensato che se s'incominciava la gita con una Bugatti, bisognava finirla con la Hamber Pullman. Questione di stile.» «Ma... sapevi che era nostra?» Rise sommessamente, divertito dalla mia venerazione. «E' così che dicevano sempre di Felix» mormorò, cingendo Lola con un braccio. «Un mago. Semplicemente un mago!» «Macchina ex deus» disse Lola teatralmente, e chiese che le venisse spiegato cosa c'entrava con noi questa macchina. Le raccontai che papà e io l'avevamo trovata tutta scassata in un deposito di rottami, e che papà, pezzo per pezzo, l'aveva portata nel nostro cortile, curandola come un animale ferito. Insieme l'avevamo poi rimontata come un mosaico,

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una tessera dopo l'altra, e l'avevamo conservata gelosamente. «Il'signor papà non voleva che uscisse dal cortile» rise Felix, «hai mai sentito una cosa del genere, Loli? Insomma, è un'automobile o una porcellana?» Poi salì a bordo e invitò Lola ad accomodarsi sul sedile posteriore. Io sprofondai in quello davanti, come svenuto. Sapevo che non aveva alcun senso chiedergli dove l'avesse trovata. Felix amava circondarsi di mistero anche in eventi meno sorprendenti di questo. Cosa me ne importava, in fondo? La conoscenza è forza, ma non sempre ci dev'essere una spiegazione. Non feci domande. L'impietoso fascio di luce del proiettore ci investì, mentre i guardiani s'erano fatti inquieti come i cani. Forse pensavano che stessimo per far evadere un detenuto. Udimmo una voce nasale gracchiare da un altoparlante. Guardai Felix, e lui guardò me. Ci sentivamo le formiche nella schiena. Bastò un lieve, quasi impercettibile cenno del capo. Felix mise in moto. Contai mentalmente i tre colpi di tosse del motore, deboli, lontani, così poco adeguati al suo cuore a sei valvole. Poi il motore sembrò agguantare la macchina, che vibrò tutta come la Bella Addormentata dopo il bacio del Principe, e si riempì di vita. Allora Felix tolse il freno a mano, ingranò la marcia, e i quattro pneumatici da deserto, come quelli del generale Montgomery nella guerra contro Rommel, partirono ruggendo e schizzando sabbia. Ed eccoci di nuovo in viaggio. Un lungo viaggio. Non sulla strada principale. Su una secondaria, fra i campi, fuori dei tracciati. «Vuoi guidare un po' tu?» «Cos'hai detto?» «Vuoi guidare un po' tu, ho detto.» Se volevo guidare? «Felix!» Mia nonna gli puntò un dito tra le spalle, perché a volte sapeva essere proprio zitkesca. «Piantala con le tue stupidaggini!» «Lascialo fare. Cosa c'è di strano? Non c'è mica la polizia, qui. Non c'è nessuno. Ha già guidato una locomotiva!» Implorai: «Solo per poco, Lola!.» «Ma solo se gli tieni le mani, Felix! Non mi piace per niente questa cosa!» Lui mi fece l'occhiolino e ci fermammo per scambiarci i posti. Arrivavo con difficoltà ai pedali. Premetti l'acceleratore. La perla balzò in avanti con straordinaria energia. Rallentai e cambiai marcia. Lei mi ascoltava. Mi conosceva. Sapevo come risvegliarla e come dominarla, avevo i gesti nel sangue. La sfera in cima alla leva del cambio si adattava perfettamente alla mia mano, e da questo mi accorsi che ero cresciuto. Mautner sarebbe dovuto venire a lezione di guida da me. Poi cercai di pensare a quel che avrebbe detto papà, se fosse stato qui. Si sarebbe sicuramente infuriato vedendo che la guidavo fuori dal cortile. Ma quando glielo avrei raccontato? Forse mai. E come mi sarei tirato fuori da questo pasticcio? Sentii mia nonna implorare dietro di me: «Nono, Nono!», e a volte: «Felix, Felix!.» Viaggiavo su un campo di rovi, saltavo fra le rocce, finalmente capivo come mai, quando uno guida, vedi che con brevi mosse gira il volante a destra e a sinistra, anche se la macchina prosegue diritta; e cominciavo a sentire il calore in mezzo agli occhi. Andava e veniva. Il piede schiacciò l'acceleratore a tavoletta per volare, decollare... Mi fermai. Un attimo prima dell'esplosione mi dominai. Avevo già perso una volta la perla, per una stupidaggine, e non volevo che succedesse di nuovo. «Ora tocca a te.» Lasciai il posto a Felix, che mi guardò, un po' sorpreso: «Già finito?

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Pensavo che saremmo andati così fino al Monte della Luna!.» «No, basta. Mi è sufficiente. Grazie.» Lola da dietro mi strinse una spalla. «Vieni a sederti accanto a me» disse. Passai sul sedile posteriore e mi accoccolai vicino a lei. Era come se avessi rimediato a qualcosa, come se avessi vinto qualcuno dentro di me. Felix continuava a guardarmi nello specchietto retrovisore mostrando una leggera delusione. Lola alzò maestosamente un braccio e, con la stessa voce con cui una volta aveva detto al taxista «Paga il teatro!», ordinò: «Al Monte della Luna.» Felix tirò su col naso e partì.

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CAPITOLO 27. LA CASA VUOTA. Felpata e silenziosa avanzava la vettura nella notte. La radio trasmetteva canzoni in inglese, Felix guidava, Lola stese il suo (il mio) scialle, e ci accoccolammo lì sotto. Parlavamo sottovoce, un po' per non disturbare Felix concentrato nella guida, un po' per goderci un briciolo d'intimità. «Comincia pure a chiedere» mi disse subito, «abbiamo perso molto tempo, adesso chiedi tutto quel che vuoi. Perché ho tanta voglia di rispondere.» Bene. «Quando Zohara era bambina, sapeva che Felix era suo... cioè...» «Molto bene» mi interruppe, «vai dritto al dunque. Come me. Avrai pure ereditato qualcosa da tua nonna, oltre al talento per la recitazione.» «Cosa? Viene da te? Non da...?» e stavo per dire "Gabi", dimostrando quant'è difficile sbarazzarsi delle vecchie idee. «Io spero che venga da me. Del resto, anche di tua madre non si può dire che fosse mediocre, come attrice! Era dotata, aveva un sesto senso; da bambina, viveva in teatro con me. Ohi...» Lola sorrise: «Il teatro la ipnotizzava, il sipario con le sue pieghe, il velluto, e poi le maschere, i re, gli eroi, i cattivi... alcuni attori dicevano che Zohara era la mascotte del Teatro Nazionale. Be'» sospirò, «questo talento le risultò piuttosto utile nella vita, chissà quante persone ha illuso... ma tu hai fatto una domanda importante.» «Se lei sapeva che lui era un delinquente.» Ora questa parola mi veniva con facilità. «Non solo non sapeva che lui era un delinquente» rispose Lola, «fino a sedici anni non sapeva nemmeno che fosse suo padre!» «Cosa?» Questo proprio non l'avevo capito. «Sei grande ormai, Nono, e con te si può parlare sinceramente, non è vero?» «Certo.» E allora? «Per esempio, ci sono vari tipi di nonne... tu ne hai una da parte di papà, ed è una nonna di un certo tipo, va benissimo, e le sei di sicuro affezionato. Mentre io sono una nonna di tipo un po'... diverso.» «Come diverso?» «Con idee un po' diverse, con un altro comportamento... ognuno ha il suo carattere, no?» «Sì» ma non capivo. Intuivo soltanto che adesso era molto prudente con me, preoccupata per quello che potevo pensare di lei. «E avevo intorno sempre molti uomini, corteggiatori, innamorati... insomma hai una nonna un po' birichina...» Lanciò un lungo sguardo nello specchietto, finché Felix alzò gli occhi. Scoccò una scintilla. «...Per Zohara, Felix era uno dei tanti uomini che mi giravano intorno, una specie di zio ricco e simpatico, che le spediva cartoline e le portava bambole e regali da tutto il mondo. Quando si trovava di passaggio nel nostro paese stava un po' con noi e un po' con tutti, poi se ne andava così com'era arrivato, uno dei tanti, cioè, dei miei tanti amici, capito?» «Sì.» Mi sembrava di aver capito: era veramente una nonna alternativa. «Dunque, quando Zohara compì diciott'anni, lui mandò un telegramma con una proposta magnifica: regalare alla bambina una specie di viaggio di maturità. Si trattava solo di un mese, ma quando lessi la prima lettera che lei mi mandò da Parigi, capii che ormai era sua.» Lanciò a Felix uno sguardo un po' scostante, privo d'affetto. «Hai visto anche tu com'è

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facile farsi incantare dalle sue magie, dalle sue storie... soprattutto una persona come Zohara, con un carattere così impetuoso e volubile...» O come me. «La verità, Nono» mi soffiò nell'orecchio, «è che non fu solo per quel che Felix le raccontò, non fu solo per quel che lui le insegnò e nemmeno per il modo in cui la incantò. Fu per quel che Felix le aveva trasmesso nel sangue, la sua eredità. Una volta insieme, in quel loro viaggio grandioso, le mostrò che lei era fatta così, anche se non lo sapeva ancora, o ne aveva paura. Le mostrò proprio questo: che lei poteva.» Saltai su: la cosa mi suonava familiare. Felix pigiò allegramente l'acceleratore e la Hamber sfrecciò come un fulmine. Vedevo una parte del suo viso nello specchietto. Sorrideva, fiero e felice. Lola lo guardò e fece una smorfia. D'un tratto pensai che forse per questo Felix aveva organizzato il mio rapimento: per rivelare a me, suo unico e naturale erede, quella parte ancora nascosta nel mio intimo. Per dire a quel Nono di svegliarsi, perché scoprissi la sua esistenza, e al mondo restasse la memoria della personalità di Felix Glick. Perché capissi che non ero solo parte della famiglia di papà. Bum. Il mio mondo cambiava a ogni momento. A ogni momento quel che mi era successo in quegli ultimi giorni assumeva una luce del tutto nuova, come se la realtà non fosse niente affatto concreta, certa, ma piuttosto mutevole, duttile, sfuggente. Mi scoppiava la testa per i tanti pensieri: qual era il senso di ciò che Lola aveva detto riguardo al sangue di Felix, di Zohara e mio? Che anch'io dovevo fare il delinquente? Che questo era il mio destino? E se io non avessi voluto? E se io avessi voluto restare il più grande detective del mondo? Come la mettevamo col sangue di papà che mi scorreva nelle vene? Lui non aveva influito per niente? E il fatto che fossi stato allevato da papà e Gabi, che fossero stati loro a educarmi? Il sangue di Zohara doveva vincere su tutto? La delinquenza era sempre più forte della rettitudine? Quante gocce erano necessarie per far saltare la legge? Mi concentrai: lo sentivo, questo sangue che scorreva dentro di me, caldo, bollente, tormentoso; me lo sentivo nella pancia, nel petto, intorno alle gambe. Non avrei mai pensato che fosse possibile sentirlo così, che avesse un carattere così spiccato. Ma forse dal sangue di Zohara avevo preso anche qualche goccia diversa, non quelle della delinquenza, no, qualcosa di buono che c'era in lei. Fantasia, storie? Perché no? Le domande si susseguivano turbinando nelle vene, il sangue ribolliva e si rimestava, come se qualcuno stesse facendo degli esperimenti dentro di me. Chi me ne avrebbe comunicato i risultati? E cosa sarebbe stato della mia vita, d'ora in poi? Insomma, qualcuno mi può dire finalmente chi sono? «Una cosa è certa, tu non sei Zohara» disse Lola con aria severa. «Non dimenticartene mai: non devi percorrere la sua strada. Tu puoi scegliere.» «Io non sono Zohara» mormorai, «non sono Zohara.» «Certo hai qualcosa di lei. E di Felix. Ma anche qualcosa di molte altre persone. Mi pare che tu abbia anche ereditato molto da tuo padre, e da quella nonna di cui s'è detto, perfino da quello zio famoso che scrive libri per gli insegnanti, non è vero?» Per la prima volta in vita mia sentii che forse non era un male avere anche qualcosa degli Shilhav; d'altra parte era nato in me un nuovo sentimento d'orgoglio. Sì, e anche di sicurezza, perché in fondo non ero più solo di fronte a quella tribù. Mi accorgevo all'improvviso di quanto mi fossi sempre vergognato di

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fronte a loro, di come mi fossi sentito una nullità: erano una famiglia, unita e compatta, si assomigliavano persino, mentre io ero sempre stato solo. Senza nessuno al mio fianco, una specie di orfano appiccicato a quella famiglia. Capii inoltre che, fin dall'inizio, erano sempre stati contro di me, già prima che nascessi, a causa di Zohara; ma ora avevo al mio fianco Lola, Felix e Zohara, e quelle due famiglie stavano l'una contro l'altra. Da una parte dottori, pedagoghi e Zitke, dall'altra attori, lestofanti e impostori... Chiusi gli occhi e mi vidi davanti i due gruppi schierati. Avanzai un po' fino a trovarmi proprio in mezzo ed esaminai la mia reazione: non mi sentivo ancora al posto giusto. Arretrai di un'inezia, mezzo passo verso Felix, e provai una specie di pace. «Tu hai un altro carattere» continuò Lola, che non aveva notato nulla. «Tu sei un'altra persona. Solo Zohara era Zohara, non devi mai dimenticarlo! Ricordala, sentila, ma sappi che tu sei una creatura diversa. Un nuovo individuo.» Mormoravo con lei quelle parole, cercavo di incidermele nella memoria. Sapevo che prima o poi ne avrei avuto bisogno, nella vita. «E ora, Nono, come nuovo individuo, ti ordino di dormire un po'. Abbiamo davanti una lunga notte.» Mi distesi con la testa sulle sue ginocchia e chiusi gli occhi, cercando di dormire. Non presi sonno. I pensieri mi galoppavano nella mente al ritmo con cui si era svolto il viaggio. Sentii che le cose si stavano chiarendo e ordinando dentro di me. Ero diverso. Mi avevano cresciuto diversamente. Avevo un altro papà. Ora sapevo che non ero più la sua copia, e che avrei potuto essere la copia di lei. Sono una creatura nuova. Posso scegliere chi essere. E avrò sempre Gabi a indicarmi la strada. Gabi. Gabi Gabi Gabi. La saggia, l'astuta. Gabi che in tutti quegli anni aveva ritenuto che io meritassi di sapere di mia madre, malgrado la severa proibizione di papà, e che mi aveva parlato di lei per allusioni... pensai a lei, seduta sul lungomare con il coprinaso e la pomata antiabbronzante, e poi di fronte alla vasca del cioccolato, e poi, ancora, fedelmente al mio fianco sotto la casa di Lola Ciperola... Sorrisi. Gabi che desiderava lo scialle e la spiga d'oro, forse per diventare una donna libera e forte come Lola, ma anche un po' delinquente e traditrice come Felix. Per essere una miscela di Felix e Lola. Il risultato di una simile accoppiata... Insomma, per essere come Zohara. Perché papà s'innamorasse di lei... Eppure era così diversa, pensai, per fortuna non è come Zohara. Lei è viva. Non come nei film. Il cielo che scorreva nel finestrino non era più così scuro. Albeggiava. Lola chiuse gli occhi, forse si assopì, forse sprofondò nei ricordi, e nel pensiero di com'era andata a finire con Zohara. Pensai: io ho perso la mamma e lei ha perso una figlia. Per questo siamo insieme in questa cosa così grande. Una cosa che ormai non c'è più. Ma se io e lei ne parleremo, se la ricorderemo, questa cosa continuerà a vivere. Chiusi gli occhi anch'io e strinsi forte la sua mano. La strada scivolava sotto di noi, la Hamber Pullman pareva volare. Insieme erano passati di qui, una giovane coppia su una moto col sidecar. Forse dopo un po' smisero entrambi di aver paura di se stessi. Lo spazio si apriva davanti a loro. Cominciarono a chiacchierare, a godersi la nuova libertà. E la grande avventura che stava per cominciare, perché papà si era liberato del suo lavoro, della sua famiglia... Incominciava il tratto ripido e il cielo era ormai chiaro sull'orizzonte. Già la notte scorsa avevo assistito a

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quella suggestiva mescolanza di tinte sulla riva del mare, con la scavatrice. Cosa non avevo visto in quegli ultimi due giorni... Rievocai il bambino che dal finestrino del treno salutava, sbracciandosi, suo padre e la sua Gabi. E pensava di essere un professionista. Che ingenuo! «Guarda» sussurrò Lola, «il monte.» Nella pallida luce dell'alba apparve la montagna, scura, storta, strana a vedersi: un versante tondeggiante e l'altro tutto sporgenze. La macchina si arrampicò su per le curve della strada di terra battuta, sollevando un gran polverone. Delle grasse pernici evitarono d'un soffio le nostre ruote e si fermarono a guardarci, stupefatte: forse erano anni che una macchina non passava di lì. Più salivamo e più l'aria diventava fredda e tersa. Sotto di noi si apriva un'ampia vallata avvolta nella nebbia del mattino e spaccata in due da una tortuosa linea verde. «Quello laggiù è il Giordano» indicò Felix con il mento, «il confine.» Con un ultimo rombo la Hamber schizzò in cima al monte, avanzò sulla spianata di pietre ed erba selvatica, e si fermò. Il Monte della Luna. Soffiava un vento fresco e il paesaggio sotto di noi appariva e spariva nelle nebbie. Alto nel cielo, un rapace ci sorvolò ad ali spiegate, lanciando brevi richiami. Avevo freddo e mi sentivo sperduto. Lola mi avvolse nel suo scialle. C'era una casetta di legno, vecchia e malconcia, senza vetri alle finestre e con l'erba che spuntava fra le travi. Il vento fischiava sordo, facendoci rabbrividire. Ci dirigemmo lentamente verso la casetta, come se avessimo paura di arrivarci. Salimmo i tre sbilenchi scalini e Felix spinse la porta, che emise un cigolio e cadde all'interno, provocando un bel rumore. Rimbalzava da ogni parte un'eco deprimente, dolorosa. Procedevamo guardinghi, sollevando a ogni passo una gran polvere. Ci scostammo dalle pareti nude, dai telai delle finestre, vuoti e deformati. Cespugli di finocchio selvatico spuntavano anche dalle assi del pavimento. Lola mi cinse le spalle. «Ricordati come sono stati bene insieme» disse sottovoce, per non rompere il silenzio. «Volevano un posto che tosse solo loro. Dove non arrivassero gli altri, con i loro discorsi e le loro leggi. Un luogo dove il passato non li potesse perseguitare.» «Guardate» sussurrò Felix. In fondo alla casetta, dietro un pannello di legno sbrecciato, c'era una piccola stanza, forse la loro camera da letto. Era vuota, c'era soltanto una grande stufa arrugginita e nel toccarla il mio dito sfregò uno strato di polvere ferrosa. Come le bambole nella camera di Zohara, pensai spaventato: ogni cosa che toccavo andava in pezzi. Devo tenere tutto a mente. «E guarda questo» indicò Lola. Appeso al muro c'era un foglio di carta che sventolava nella corrente. Un foglio strappato e ingiallito con un disegno sbiadito a matita: il volto di un uomo con un cavallo sullo sfondo. I tratti erano a malapena riconoscibili, ma tutti e tre sapevamo chi era. «Ma lei sapeva disegnare?» chiesi subito. «Quando voleva» rispose Lola, «sapeva fare di tutto.» Allora anch'io ero così. «Guarda qui tuo papà» disse Felix. Non disse "il signor papà". Non aveva più quel suo tono sarcastico. Papà appariva giovane, avvenente. Una capigliatura folta, il sorriso negli occhi e sulle labbra. Dal disegno si capiva che stava bene. «Lui l'amava, ma lei?» Lola sospirò e rispose a se stessa: «Lei evidentemente amava il suo amore. Ma amare lui, come aveva sempre desiderato...? Non lo so....» Ora scrivo qualcosa di cui non sono completamente sicuro. Posso solo presumerlo da quel che Lola mi

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raccontò, e sperare che fosse davvero così: Zohara stava bene lì con papà, sulla montagna. Almeno all'inizio. Non faceva la viziata: andava al pascolo con il gregge, mungeva, puliva la stalla, cucinava sul fornellino. Insomma, amava quella loro casetta. Giorno dopo giorno aveva la sensazione che la sua anima fosse più pulita, purificata. Sentiva le scorribande di un tempo cascarle di dosso come brandelli di pelle morta, come la storia di qualcun altro. La sera si sedevano a guardare il tramonto, mangiavano in silenzio una cena sana e frugale. A volte partivano con i loro due cavalli e si spingevano fin sull'orlo del precipizio. Soli in quelle altitudini, parlavano poco. In un posto come quello le parole erano superflue. Ogni tanto Zohara suonava il flauto... Tutte congetture. Forse la loro vita era molto più tumultuosa, e la mia fantasia limitata non riesce ad andare oltre. Ma devo accontentarmi di questo, perché papà non raccontò mai com'era andata lassù. Anche dopo il mio viaggio con Felix, papà continuò a tacere. Resta una quantità di cose che non so, e non saprò mai. «Una volta venni a trovarli qui» disse Lola. «Restai un'intera settimana e, tornata a Tel Aviv, pensai che quei due si erano costruiti il loro paradiso terrestre. Adamo ed Eva. E senza serpente.» «Sei stata qui? Te lo hanno permesso?» «Mi invitarono. Scrivendomi anche una bella lettera. Volevano che vedessi il nipotino.» Me. Sono nato qui? «Perché, non lo sai? Non ti ha proprio raccontato niente.» Lola scosse la testa malinconicamente e fece un respiro profondo. «E' proprio come ti ho detto: voleva cancellare tutto, perché tu non sapessi niente! Come se solo a lui dovessi la vita.» «Zohara era intelligente e sapeva che il signor papà avrebbe voluto cancellarla» brontolò Felix. «Per questo mi ha detto di farti fare questa gita!» «Guarda bene, Nono» continuò Lola tirando il fiato. «Qui, in questa casetta, in questa stanza, sei nato tu. Senza medico e senza levatrice. Tuo papà non fece in tempo a portare Zohara all'ospedale di Elberiade. E' stato lui che ti ha fatto nascere, lui a tagliare il cordone ombelicale.» Mi abbracciò da dietro, posando la guancia sul mio viso. «Penso che non ci sia posto più bello per nascere.» La sua voce cominciò a tremare. «Fu come la creazione del mondo. Papà, mamma e bambino. Proprio a quest'ora. Quattro e mezzo del mattino. Tredici anni fa, meno due giorni.» Non ce la facevo più. «Non resisto» disse Lola improvvisamente, e uscì. Felix le corse dietro. Anche per me era dura, ma volevo restare ancora un po'. Tornare qui con loro. Noi tre soli, come agli inizi. Mi inginocchiai e tastai il pavimento di legno, le teste arrugginite dei chiodi, gli incavi scuri lasciati dai piedi del letto. Poi mi sedetti sul pavimento. Ero calmo e assorto. In vita mia non avevo mai riflettuto tanto su me stesso. In quel momento sparirono tutti gli echi, quelli che avevo avuto intorno a me da quando Zohara era morta ed erano cominciati i bisbigli e i misteri. Risonanze confuse, che avevo sempre cercato di capire, e a cui avevo sempre cercato di adeguarmi. Rimasi ancora qualche momento nella casetta. Trovai un cucchiaino deformato. Trovai la cinghia di uno zaino, una cornice rotta, una vecchia scatola di fiammiferi. Una scarpa da donna. Un fazzoletto scolorito da uomo. Raccolsi tutte quelle cose e le deposi in camera da

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letto, ai piedi della stufa. Misi in ordine la casa. «Era felice con te come non lo era mai stata» mi disse Lola. Aveva il naso e gli occhi rossi. Anche il naso di Felix sembrava un po' arrossato. «Si scatenava insieme a te, come foste due cuccioli. Ecco, qui, in questo punto, tuo papà ti aveva fatto uno spazio per giocare con la sabbia. Due giorni dopo ch'eri nato! E qui lei stendeva la tua coperta, perché era un punto riparato dal vento. Si rotolava per terra con te, e tuo papà stava qui, appoggiato con la mano così, e rideva.» Che regali, che regali ho ricevuto per il mio bar-mitzvah! Improvvisamente fu mattina. La valle venne inondata dalla luce del sole e si dipinse d'oro. A volte mi viene da pensare: forse è per via dei grandi spazi in cui ho vissuto da neonato che oggi faccio fatica a stare in una stanza chiusa. Vicino alla vetta, nella luce del mattino, vibrava una macchia di colore. Un brandello di tessuto aggrappato a un cardo. Un tessuto che un tempo era stato rosso, o viola. Forse uno dei suoi scialli rimasto agganciato mentre passava al galoppo sul suo cavallo. Non osai avvicinarmi, ma non per via dello strapiombo. «Sei cresciuto nel paradiso terrestre» sussurrò Lola, come recitando una litania. «Ma non per molto tempo» mormorò Felix. «Lei aveva il serpente con sé.» Chissà quando si svegliò, quel serpente. E quando iniettò il veleno dell'erranza, la nostalgia del movimento, della velocità, delle contorsioni. Perché non poteva essere felice e basta, lassù, insieme a lui. Non è facile da raccontare e ancor più difficile da ascoltare» disse Lola. «Preparati, Nono.» E raccontò. Ogni giorno che passava Zohara diventava più nervosa e insofferente. Il paesaggio le sembrava monotono, le pecore noiose; era stufa dei lavori di casa, del campo, dell'odore di letame di cui erano impregnati i suoi vestiti. E di papà. Qualcosa le fece perdere la ragione, non so cosa. E quando provo a fare delle ipotesi, mi fa male. Forse perché era così taciturno? Forse l'annoiava un po'? Cerco di vedere la situazione dal punto di vista di lei, perché è sempre meglio guardare le cose anche dall'altro verso. Forse gli occhi di papà le parvero improvvisamente piccoli e avidi? Aveva questa tendenza, papà: gli piaceva accarezzare le cose, le tastava con un gusto particolare, come volesse costringerle a riconoscere che erano roba sua, e che era suo diritto toccarle quando gli pareva. Forse questo la irritava? Sono ipotesi che mi addolorano. Anche perché mi ritrovo in alcuni suoi aspetti, e più invecchio più gli somiglio. Forse le dava fastidio che lui non fosse stato disposto a tagliare completamente i ponti con il suo vecchio mondo: aveva promesso a sua madre di telefonarle una volta alla settimana; non poteva fare a meno di comprare il giornale del venerdì con i supplementi; la sua vita non era vita senza una birra dopo cena; non rinunciava alle radiocronache delle partite di calcio... Una volta, al mercatino della città più vicina, papà comprò una gigantesca poltrona con un pacchiano tessuto a fiori, un oggetto che a Zohara fece venire in mente un donnone di nome Dobzi (proprio Dobzi!). Allora cominciò a sgridarlo, cosa aveva mai fatto, avevano giurato di trasformare questo posto in un paradiso terrestre, di essere liberi come zingari, senza il peso di oggetti superflui o di proprietà. E invece si rendeva conto che lui non aveva smesso di coltivare il suo spirito piccolo borghese. Zohara aveva il volto sfigurato dalla rabbia: i suoi capelli neri danzavano come serpenti intorno alla candida fronte e gli zigomi sporgevano come se

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fosse malata. Dunque s'era sbagliata attribuendo a entrambi la stessa grandezza d'animo, e sperando che lui l'accompagnasse sempre a testa alta! No! Non era assolutamente in grado di capire una persona come lei! Era un uomo così limitato, così squallido! Con l'anima di un bambino cresciuto in una bottega di biscotti! Dobzi! Dobzi che non sei altro! A un certo punto si avventò su di lui coi pugni chiusi, e papà la prese con mano ferma, ma Zohara continuava a sbraitare, imprigionata in quella mano, voleva respirare, uscire, volare... L'aria tersa s'intorbidì. Ogni giorno la vallata rabbrividiva per quelle sfuriate lassù, in cima alla montagna. Zohara s'accorse che papà la sorvegliava. Ricordava bene la promessa che aveva fatto al giudice, garantendo personalmente che lei non ci sarebbe ricascata. Forse non avrebbe dovuto promettere una cosa del genere: d'accordo, il giudice le aveva ridotto la pena per merito suo, ma questo aveva fatto di lui il suo carceriere. "Non venirmi dietro..." gli sibilava. "Non ti vengo dietro. Dimmi solo dove vai con il cavallo." "Dove mi pare, commissario Feierberg. Sono una persona libera." "Zohara, tesoro, il confine è qui vicino. Ci sono i contrabbandieri, ci sono i terroristi armati, e tu sei sola." "Non sono sola. Ho me stessa, e la pistola." "Zohara, cosa devo fare con te? Cosa devo fare perché tu sia contenta? Dimmelo. Insegnami e io imparerò. Sono un bravo allievo!" In sella sul suo cavallo Zohara lo scrutò come se lo vedesse per la prima volta. "Sì, sei un buon allievo" disse con tono compassionevole. "E diligente" aggiunse con ironia. Poi voltò il cavallo e partì al galoppo. «A volte stava via anche due giorni» raccontò Lola. «Dormiva su per i monti, nelle grotte, chissà. Tornava contusa e affamata. "Dove sei stata, Zohara?" Ma non raccontava mai niente. Non parlava. A volte inforcava la moto e scendeva a Tel Aviv. Dormiva da me. Andava a una festa, ballava, si ubriacava. E lui veniva giù a riprenderla. Dei litigi tremendi... Lei strillava... non voleva tornare... ormai non si sentiva più a suo agio in nessun luogo. Né qui né lassù...» Lola parlava sommessamente, tenendo gli occhi bassi. Divoravo ogni sua parola. «Partì ancora una volta col suo cavallo ma non tornò. E fu la fine» disse Lola succintamente. «Forse attraversò il confine e i soldati giordani le spararono. O forse il cavallo cadde in un dirupo e lei rimase uccisa. Forse la colpirono dei terroristi. L'esercito fece delle ricerche, setacciarono tutta la zona. Alcuni amici di papà dai tempi del servizio militare passarono il confine di notte e andarono a cercarla anche laggiù. Niente. Sparita. Da un giorno all'altro non c'era più.» «Da un giorno all'altro» sospirò Felix, «tutta la sua vita era stata così.» Guardai le distese intorno a me, inondate di luce dorata. Non volevo, ma non potevo farne a meno. Sentii Zohara che correva al galoppo, forse sull'altro lato della montagna. Continuava a scalpitarmi nell'intimo la domanda che Zohara si era posta da bambina: perché non c'è un muro di cinta intorno al mondo, in modo che la gente non cada? Così, bisogna andare avanti con cautela, e fermarsi prima del precipizio. Se Zohara aveva ventisei anni, esattamente l'età che aveva deciso. Pensai: come ha potuto abbandonarmi, e abbandonarci tutt'e due? Come mai non ha pensato a me e a quel che mi sarebbe successo senza di lei? «Ma prima di fare... quel che ha fatto, prima di quella stupidaggine, mi telefonò» disse Lola tremando. «Una telefonata d'addio

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con un solo gettone... "Mamma" mi disse, e dal tono di voce ebbi la certezza che sarebbe finita così. Che se ne andava. "Mamma, l'ultima volta che sono stata a Tel Aviv, ho lasciato qualcosa per mio figlio, per Nonik"...» «Nonik? «Mi chiamava così?» «Sì, sempre. Nonik.» Che bel nome. «Mi disse che era un regalo per te. Ma che era meglio dartelo quando avessi raggiunto la maggiorità religiosa.» Nonik. Avevo un nuovo nome. Nessuno al mondo mi aveva mai chiamato così. E che nome allegro. «Ma cos'è questo regalo?» osai finalmente domandare. «Disse che era un segreto. Una sorpresa. Adorava i segreti e le sorprese. Ma voleva che tu andassi a prenderlo con Felix. Solo con lui.» Udendo le parole "segreto" e "sorpresa" fui scosso dai brividi. «Ed è questo il regalo che ha lasciato nella cassetta in banca?» «Sì. Voleva farti una sorpresa: una cassetta di sicurezza, come per i grandi. Nel caveau di una banca. Perché salti così? Ha pensato a una cosa che ti ricordasse le sue avventure e che solo tu potessi tirare fuori. Così sta scritto lì in banca.» Solo Nonik lo tirerà fuori, aveva detto mia madre. Forse non sapeva essere una buona mamma, però pensa già al mio bar-mitzvah, e a come mi sarei sentito solo, alla nostalgia che avrei avuto di lei. Malgrado tutto, aveva una grande sensibilità nei miei confronti. E questo non lo posso dimenticare. «A te lasciò un dono» borbottò Felix accanto a noi, «mentre a me lasciò il tuo signor papà.» Già, papà. Aveva trasformato la rabbia e il dolore per la sua morte in desiderio di vendetta su Felix. A quel tempo cominciò anche a nutrire dei sospetti sul misterioso legame fra Zohara e il mitico Felix Glick. Non sapeva ancora che Felix era suo padre. Lei non gliel'aveva detto, Lola non aveva parlato, e lui non aveva fatto domande. Forse non voleva nemmeno sapere. Correva voce che Felix fosse un amico di Lola, ma Felix era amico di molte donne... papà scese dalla montagna, lasciò la casetta ai predoni, ai pastori dei villaggi della valle, ai terroristi e ai contrabbandieri che oltrepassavano il confine. Andò dal suo capo, alla polizia, e gli chiese di tornare a lavorare. Rimase chiuso per tre mesi in un minuscolo ufficio che gli avevano assegnato, mattina pomeriggio sera e notte, non faceva che lavorare. Gabi gli portava dei panini, gli preparava il caffè e badava al suo bambino. A quell'epoca s'innamorò di lui. Forse a causa del ciuccio nella fondina della pistola, forse così, semplicemente perché ci s'innamora. Papà rilesse tutto il fascicolo relativo alle indagini su Zohara. Una volta andò anche all'estero e s'incontrò con qualcuno dell'Interpol; poi parlò al telefono con dei poliziotti di Zanzibar e del Madagascar, della Costa d'Avorio e della Giamaica, e ricompose il quadro completo, l'incredibile e sinistro itinerario di Zohara attraverso il mondo, questa volta con Felix Glick. «Tranquillo e beato, e all'oscuro di tutto» disse Felix con sincero stupore, «io intanto eseguivo dei lavoretti all'estero: E svaligiavo una banca, mi impadronivo di una collezione di francobolli o diamanti, mi guadagnavo insomma da vivere, mentre lui, il tuo signor papà, così astuto e diligente, tendeva intorno a Felix un filo, e poi un

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altro, come una rete...» «Felix era diventato per lui il nemico numero uno, il simbolo del crimine. Il serpente che insegnò a Eva il gusto della trasgressione. Voleva prenderlo, sognava solo di acciuffare la sua ombra sfuggente, di strappargli la sua lingua biforcuta, dalla doppia verità. Lavorava giorno e notte, come un pistone infaticabile. Se aveva avuto due cuori nell'amare Zohara, ora si ritrovava con due cervelli nel pedinare Felix. «Un bel giorno torno in visita qui, nella cara patria, senza sapere nulla, e oplà! Beccato!» La sua bocca si spalancò in un'espressione di rabbia e gli occhi luccicarono nel ricordo dell'umiliazione. «Quindici anni di prigione. Mi hanno liberato solo sei mesi fa per motivi di salute, e per buona condotta. Ci sono rimasto dieci anni, e tutto per colpa sua!» «Veramente, per colpa tua!» replicò Lola. «Su, basta parlare di questo. Tutti noi abbiamo pagato un prezzo altissimo. Tutti. Anche Yakov.» Tenero e familiare suonò il nome di papà sulla sua bocca. Risalimmo in macchina, lanciando un'ultima occhiata alla valle sotto di noi e alla casetta sperduta dove aveva avuto inizio la mia vita. Ero stato bene qui, anche se qui tutto si era guastato. Avrei voluto correre verso la vetta e prendere quel lacero pezzo di stoffa che tremava nel vento, ma non osai avvicinarmi. Afferrai un sasso e me lo misi in tasca. Un sasso tondo e grigio, simile a un uovo ma coperto di graffi. Ce l'ho ancora, sulla scrivania. Lasciammo quei luoghi in un greve silenzio. Lungo la strada mi addormentai, risvegliandomi solo mentre entravamo a Tel Aviv. Mi stropicciai gli occhi e tutto mi si ripresentò subito alla mente: quello che avevamo fatto nella notte, la notte più lunga della mia vita, e quel che dovevamo ancora fare. A quel punto mi ricordai anche della parola "banca", e cominciai a sentire un certo solletico nel cervello. Ero prontissimo: banca e Felix. Suonava un po' pericoloso, questo binomio. «Hai detto che andavamo in banca...» dissi. «Banca. Certo. Buongiorno!» «A prendere il regalo di Zohara...» «Sì. E, se ce la farai, avrai da me la spiga d'oro. Te l'ho promessa per la nostra signora Gabi.» «Sarà difficile prelevare in banca?» «Ma no. Prendere dei soldi in banca non è mica difficile.» Non ce la farò, pensai. Non sono un rapinatore. Più in là del dirottamento di un treno non vado, bisogna conoscere i propri limiti. Lola dormiva e tentai di appellarmi alla coscienza di Felix: «Non ce la faccio a rapinare una banca, adesso.» Silenzio. Fingeva di badare alla strada. Tentai di appellarmi al nonno che era in lui: «Sono stanco, ho avuto una notte faticosa.» «Non è un lavoro difficile» borbottò, «non devi mica fare del male. Devi solo entrare e prendere il tuo pacco, poi riceverai da Felix l'ultima spiga d'oro.» «Senza sparare a nessuna guardia?» ringhiò Lola. L'istinto nonnesco l'aveva svegliata. «Senza.» «Senza strisciare, diciamo, lungo un tunnel?» chiesi. «Ma quale tunnel? Cosa credete? Si va in banca, si dà il tuo nome all'addetto, si entra in una stanza, si apre la cassetta, si prende, si esce e...» «Tanti saluti, arrivederci e molte grazie» conclusi insieme a lui. Mi

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guardò sorpreso e sorrise: «Proprio così.» Ci fu ancora un attimo di silenzio. «Guardami negli occhi, nonno.» Guardai i suoi occhi nello specchietto. Azzurri e limpidi come quelli di un bambino.

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CAPITOLO 28. QUESTO E' TROPPO. Alle otto e mezzo del mattino mio nonno parcheggiò la Hamber Pullman in una tranquilla viuzza di Tel Aviv, non lontano dal Teatro Nazionale. Lola Ciperola (per me, Lola Katz), la primadonna del teatro, vincitrice del premio d'arte drammatica (mia nonna), attraversò la strada ed entrò in banca, indossando dei pantaloni logori e sporchi, e con i capelli scompigliati dal vento. Contrariamente alla sinistra previsione di Felix, riuscì a calarsi perfettamente nei panni di una donna normale. Né regina, né imperatrice o antica dea, né eroina tragica che leva le mani in alto o si copre tristemente gli occhi. No, una donnetta qualunque che vuole prelevare cinquanta shezlel dal suo conto, ma che, a causa del gran caldo o dell'età, svenendo lunga distesa, strillando, gemendo e lanciando popolareschi grugniti, non può fare a meno di distrarre l'attenzione degli astanti da quel vecchio e quel bambino che svicolano dietro la folla. Non l'avevo mai vista così convincente sul palcoscenico, non mi ero mai accorto che si divertisse così tanto a recitare. A volte penso che fu a causa di quel che le era successo in quei due giorni, e per il fatto d'essere improvvisamente diventata nonna, che le riuscì anche un ruolo così normale... peccato che non avessi tempo di assistere allo spettacolo. Intorno a lei si era formato un capannello, la gente urlava, chiamava aiuto, dava consigli, e intanto noi due scivolavamo lungo la scala a chiocciola verso il caveau della banca, dove si trovavano le cassette di sicurezza. C'era solo una guardia di una certa età che stava sbocconcellando un panino. Gli dissi il mio nome e ci fu un attimo di tensione. Sul tavolo era posata una copia del "Davar" con una mia fotografia che campeggiava in prima pagina. C'era anche il mio nome, finalmente l'avevano pubblicato! I miei occhi strabuzzarono di stupore e d'orgoglio. "Amnon Feierberg, il bambino rapito" stava scritto. Era dunque il mio giorno di gloria, anche se una tale pubblicità rischiava di mandare tutto a monte. La guardia aprì un grande registro e lo sfogliò, continuando a mormorare il mio nome con dei residui di formaggio appesi ai baffi. Per un istante gli cadde l'occhio sul giornale e vi lesse il mio nome, ma senza far alcun collegamento. Continuò a sfogliare le sue liste, finché alla fine trovò: «Ecco. Amnon Feierberg. L'autorizzazione di tua madre per accedere alla cassetta. Oho! E' passato molto tempo! Fra poco questa autorizzazione farà il bar-mitzvah!» e scoppiò a ridere, schizzando il giornale di formaggio. «Prego, accomodatevi. Questo è tuo nonno?» Sì. Quello era davvero mio nonno.. A volte la verità sembra proprio una bugia.. L'uomo armeggiò con un mazzo di chiavi e aprì una porta d'acciaio, poi un'altra che chiuse alle nostre spalle, lasciandoci soli.. «Avete dieci minuti» disse. Lo udimmo trascinarsi fino alla. sua sedia e al suo panino. Ci trovavamo in un piccolo locale con le quattro pareti tappezzate di cassette di sicurezza. Dal pavimento fino al soffitto,. una distesa di cassette di metallo grigie e quadrate, tutte fornite di una targhetta rotonda con dei numeri e una lancetta. Felix individuò subito la nostra. «Dieci minuti» disse, «fra dieci minuti anche Lola dovrà alzarsi da terra. E' davvero poco. Pensi che ce la faremo?» «A fare che?»

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«Ad aprire.» «Certo che ce la facciamo, se mi dai la chiave.» «Be', è questo il problema» disse Felix raschiandosi la gola. «La chiave non c'è.» «Lo fissai. «Cosa vuol dire che la chiave non c'è? Come facciamo ad aprire?» «A questo devi pensarci tu. Senza chiave.» Disse così, poi alzò le spalle come per scusarsi. «Devi indovinare le cinque cifre nell'ordine. A quel punto, zacchete, si apre.» Gli rivolsi uno sguardo poco affettuoso. «E' un numero segreto» aggiunse, come se con questo il problema fosse risolto. «Come una parola d'ordine, mettiamola così. Un numero che ha dato Zohara e che tu devi indovinare.» «Un momento» dissi inquieto, «vuoi dire che lei non ti ha dato questo numero?» «No. Ha detto solo che tu l'avresti indovinato.» Alzò le spalle con la stessa aria di prima. «E' un problema. Lo so! Sì. E [ un problema. Certo.» «Un momento, un momento!» gridai. «Tu pensi che io possa indovinare cinque numeri nell'ordine esatto che gli ha dato lei?» «Sì. Be'. E' così. Conviene darsi da fare.» «Ma è impossibile!» esclamai, in uno scatto di rabbia, delusione, disinganno, perché sotto il mio naso, protetto dalla targhetta di metallo, c'era l'unico regalo che mia madre mi avesse fatto, e io non avrei mai potuto prenderlo! «Non si possono indovinare così cinque numeri!» urlai a mezza voce, perché la guardia non sentisse. «Non c'è una probabilità su un milione di indovinare la combinazione!» Perché mi aveva fatto questo? Perché da questa famiglia non potevo ricevere un regalo normalmente? «Sì, si, non urlare. Lo so, è difficile. Però, Amnon, ricordati che è stata tua madre a decidere quei numeri.» «E allora?» «Allora... così! Mamma mia! Sei suo figlio, l'unico che abbia avuto! Sei del suo stesso sangue!» Chissà perché, quella frase mi toccò il cuore. Era del tutto illogica, ma non mi aspettavo più niente dalla logica, dopo gli ultimi tre giorni. Pensai: sono suo figlio, sono l'unico nelle cui vene scorra il suo sangue. Lei non è più al mondo, io sì. dovevo tentare. «Va bene» dissi a Felix, «sono pronto. Controlla solo che non mi disturbino.» Chiusi gli occhi per prendere le distanze da tutto quello che mi circondava: la guardia che masticava il suo panino al di là delle porte di ferro, Felix che mi guardava con occhi languidi, e mia nonna Lola, distesa sul pavimento al piano di sopra, che tentava di farmi guadagnare qualche secondo prezioso. E poi mio padre, quel che mi avrebbe detto quando ci saremmo rivisti e come gli avrei spiegato tutto quello che era successo. E Gabi. Chissà se era ancora con lui o se l'aveva lasciato per sempre. Chissà se avevo qualcuno da cui tornare. Cinque numeri. Zohara. Zohara. Ho indossato i tuoi vestiti. Ho dormito nel tuo letto. Ho succhiato la caramella al lampone che avevi lasciato lì. Avevi i capelli scuri e gli occhi neri, un po' distanziati. Ho preso da te solo la distanza fra gli occhi, non il colore. Pronto pronto, Zohara, sono Nonik. So di te più di quanto sapessi l'altro ieri, ma è ancora poco. Lola mi racconterà tutto. Farò delle ricerche. Voglio sapere che bambina eri, e quanto ti piaceva stare in teatro, e come ti

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sembrava tua madre sulla scena. Voglio sapere tutto: cosa ti piaceva mangiare, oltre al cioccolato e alla marmellata, e che film amavi quando avevi la mia età, e qual era il tuo colore preferito (blu? come me?), e come sarebbe stata la mia vita se tu fossi rimasta. Zohara, di sicuro portavi sempre i pantaloni. Sono certo che la gonna che mi ha dato Felix la tenevi solo per le feste. Forse non ti piaceva. Vero che eri un po' come un maschio? Una bambina acuta e spigolosa? «Uno» mormorai con gli occhi chiusi. Mi venne così. Mi ero completamente dimenticato che stavo cercando delle cifre. Ma nel pronunciarlo seppi che era il primo numero scelto da Zohara. Sia perché è il primo, davanti a tutti, sia perché gliene piaceva la forma, un unico tratto solitario e filiforme. Sentii Felix che spostava la lancetta. Tornai a pensare intensamente a lei. Crebbe un po', ma era sempre sola. Non perché venisse respinta: la sua bellezza cominciava a sbocciare e la gente la notava, notava quegli occhi, la loro luce. La forza di Zohara. Pensai a lei con rinnovata intensità. Ma non mi veniva da farlo con le parole, quelle le aggiungo adesso. Allora invece mi tuffai verso il calore, l'impeto, le sensazioni, dove il corpo si muoveva, si rigirava, come se stesse cercando il perno intorno al quale era stato creato. Zohara crebbe. Divenne una ragazza, un po' più femminile ma anche più selvaggia. Si tirava dietro una scia di corteggiatori lasciandosi talvolta coinvolgere nelle loro scorribande. Ma era sempre sola, anche quando si trovava al centro dell'attenzione e attraversava come una saetta le notti di Tel Aviv. Sempre la prima nelle bravate, nelle sfide, nelle beffe, anche quelle crudeli. Sempre imprevedibile. Una donna, ma come Felix: prima rotonda e poi, subito, a zigzag... «Due» dissi. Udii il rumore della lancetta. Poi Felix la portò a Parigi e lei non voleva più tornare. Proseguirono il loro viaggio verso terre lontane e misteriose, tra sovrani in esilio e carrozze dorate, con diamanti trafugati che sprizzavano scintille, e battelli, capitani, suore. Zohara veleggiava su tutto, faceva coincidere fantasie e immagini reali, fino a non sapere più cos'era vero e cos'era sogno; tutto si chiudeva in cerchi, volteggiando come gli anelli di fumo dalla pipa del re, e Zohara chiudeva gli occhi, abbandonandosi alla propria inventiva e alle menzogne tortuose come un groviglio di serpenti. Imparava anche lei a intrecciare storie vere con bugie verosimili, come gli anelli di un prestigiatore, e per tutto quel tempo precipitava, come in un vortice, in ampi cerchi... «Otto.» La lancetta si mosse. Mi sentii stanco, quest'operazione mi spossava. Nel momento in cui avevo chiuso gli occhi ero confuso, sprofondato sotto me stesso, privato del lume dell'intelletto.. Temevo questo momento. Il mio cuore stava diventando pesante, colava verso il basso come una goccia troppo grande, attratto verso l'abisso, la palude nera e vischiosa. Non riesco più ad andare avanti» dissi a Felix, «ho paura di svenire» «Ancora un po'» lo udii implorare, «non basta, ti prego!» Colonne di numeri mi sfilavano sotto gli occhi come un enorme libro contabile, file di sei, di sette e di otto mi turbinavano davanti, tentando di convincermi a pronunciarli. Abbassai le palpebre, cercando Zohara in quel vortice di cifre... La vidi con mio padre in quei giorni meravigliosi sul Monte della Luna. Lei e lui, il fianco della montagna rotondo come la luna e Zohara al tramonto, davanti a un sole grande,

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bello, puro, con la pancia già un po' ingrossata: ci sono io lì dentro! Nonik! Lei che si lava in una tinozza di metallo, lei che senza amarlo cerca ancora di essere felice in quel nido caldo che papà ha costruito e reso confortevole per lei. Forse c'erano momenti in cui si sforzava onestamente di essere contenta per lui, felice dell'intimità che li avvolgeva...? Zero? Le mie labbra esitavano. Non era proprio uno zero. Non uno zero pieno. Un cerchio, ecco, non uno zero. Curvo e gonfio? Sì. Come una pancia gravida? Sì. Ma non zero! Non vuoto e pieno come uno zero! Qualcosa mi turbava, qualcosa si contorceva dentro lo zero, come se volesse sfondarlo. Già allora, in quei primi giorni di vita con papà, c'era qualcosa di angolare, appuntito, che deformava la serenità della gravidanza e il nido caldo, tracciando a viva forza... su! Fuori! 5? «Prova cinque» mormorai.., «Manca solo un numero» sussurrò timidamente Felix. L'ultimo numero..», Non può essere, pensai, è illogico. Io me ne sto qui con gli occhi chiusi e un'aria seria a fare l'idiota. Tiro a indovinare cinque stupidi numeri che qualcuno ha combinato tredici anni fa. Incredibile... Sono stanco. Esausto come se mi avessero spremuto l'anima... Ma scrutando ancora una volta nell'intimo di Zohara, ebbi di nuovo la percezione della sua solitudine. E' nato il suo bambino. Lo ama. Sicuro. Ma dopo qualche tempo è come se si fosse appena svegliata da un sogno. Zohara si guarda intorno, vede la montagna brulla, un mondo vuoto intorno a lei. E papà che l'annoia un po'. Non è bello da ammettere, ne è un po' delusa. Lei già lo sa, e lo sente, che non si trova a suo agio da nessuna parte, né qui né altrove, e a volte cavalca fino all'altro versante del Monte della Luna, fino all'orlo del precipizio, e sta lì, sul sottile confine che la separa dall'abisso a guardare gli spazi deserti che la invitano a volare, come un uccello disperato, a lanciarsi nella vita come una freccia "Sette" pensai. E «Sette» dissi. «Sei sicuro?» sussurrò Felix. «Pensaci bene, perché è l'ultimo numero.» «Sette» confermai. Silenzio. Poi sentii la lancetta di metallo che girava sulla targhetta. Si udì un lievissimo clic. E il respiro pesante di Felix. Poi, cigolando, si mosse uno sportellino. Aprii gli occhi. Felix era in piedi, con i capelli ritti per lo stupore. Teneva in mano una scatoletta di legno bislunga a cui era attaccato un cartellino. «Ci sei riuscito» disse Felix con un filo di voce. Anch'io avevo la gola secca ed ero più stanco di quanto fossi mai stato in tutto il viaggio. Avevo solo voglia di accucciarmi e dormire, anche sul pavimento. Pur di non esistere. «L'hai letta dentro di te» disse Felix con la voce affievolita dall'emozione. «E' stato il vostro sangue a parlare.» Mi porse la scatoletta. Sul cartellino, con una grafia giovanile, piccola e aguzza, c'era scritto: "A Nonik, per il suo bar-mitzvah. Con amore, mamma". «Devo aprire?» chiesi sottovoce. «Non qui, non c'è tempo. Andiamo. Scappiamo. L'aprirai.» Infilai la scatoletta nella tasca posteriore. Mi era bastato toccarla per recuperare interamente le forze. Felix chiuse per sempre la cassetta e io girai la lancetta di metallo, componendo i cinque numeri segreti. Uno. Due. Otto. Cinque. Sette. «Che scemo sono» dissi quando ebbi terminato. «Avrei dovuto indovinarlo subito che aveva scelto questi numeri.» «Come?» «E' la data della mia nascita. 12-8-57.»

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«Uno e due, otto, cinque e sette! Bravo!» mormorò. Ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere. «Questo ti fa capire che è stato il giorno più importante per lei» commentò, «ricordatelo.» «Vieni, andiamo» dissi, «prima che si accorgano di noi.» «Un momento, Amnon. Felix ha promesso. E Felix mantiene la parola data.» Estrasse dalla camicia la catenina d'oro, sfilò la spiga e me la porse. Gli rimaneva solo il ciondolo a forma di cuore. Lo prese in mano, guardando la catenina. «Ecco» disse con l'aria abbattuta ma cercando di sorridere, «sono finite le spighe.» La presi e l'infilai nella mia catenina vicino al proiettile. Ci lasciammo alle spalle le due porte d'acciaio e capimmo subito, contemporaneamente, che fuori qualcosa non andava. Ci scambiammo una rapida occhiata: la guardia non era più al suo tavolo. Felix arretrò leggermente, accostandosi al muro. Aveva gli occhi di un rapace. «Mi hanno beccato» sibilò in una smorfia di rabbia. Non sopportava di aver fallito e di essere stato sconfitto in quel modo. «Bastardi! Come hanno fatto?» Si appoggiava con forza alla parete, come cercando di farsi inghiottire dal muro. Gli occhi scrutavano in tutte le direzioni, la fronte era imperlata di sudore e sul viso apparve un'espressione di terrore. Non riusciva a muoversi, fuggire, trasformarsi. Dalla scala a chiocciola spuntò la canna di una pistola. Non avevo tempo da perdere, nemmeno per pensare. Tutto dipendeva dalla mia prontezza e dalla mia bravura. Estrassi la pistola di mia madre e la caricai con un solo gesto. Divaricai le gambe, per stabilizzare il corpo, e tenni ferma la mano destra con la sinistra. Alzai la pistola all'altezza dell'occhio. Il tutto in un secondo. Senza pensare. Agivo grazie a centinaia d'ore di esercizio. «Non pensare. Agisci!» mi aveva insegnato lui. «Lascia che sia l'istinto a salvarti! Spara!» Chiusi l'occhio sinistro e puntai un po' sopra la canna della pistola che avevo di fronte. L'uomo che stava scendendo faceva molta attenzione a non rivelarsi. Si muoveva con circospezione e con molta lentezza lungo la scala a chiocciola. Quel fare deciso e cauto mi rivelava la presenza di un professionista. Niente paura. Mi rendevo conto che le ore di allenamento con papà mi avevano preparato proprio per questo momento. Il mio dito era pronto sul grilletto. Poi apparve la mano che reggeva la pistola. Grossa e abbronzata. Poi la faccia. Grande e larga. Poi un corpo robusto e ben piantato. Poi una testa incollata al busto, quasi senza collo. «Altolà! Polizia! Glick, due passi a destra. Nono, getta la pistola.» Papà aveva un'aria stanca e non si era fatto la barba. CAPITOLO 29. VEDIAMO SE A QUESTO MONDO ESISTONO ANCORA I MIRACOLI. E adesso? «Non pensare! Spara!» Quante volte me l'aveva urlato? «Solo chi spara per primo può raccontarlo ai nipotini!» Ma qui il nipotino ero io! «Lascia agire l'istinto!» Quale istinto aveva inteso esattamente, urlando così forte, per tanti anni? L'istinto del professionista o quello del figlio? E come la mettiamo con l'istinto del nipote, che vuole difendere suo nonno? (Da suo padre.) Che pasticcio! «Nono, getta la pistola» ripeté con voce tesa e grave. A lui la pistola tremava in mano. Come a me. E prendendoci di mira a vicenda disegnavamo in aria dei piccoli cerchi irregolari. Poi, d'un tratto, papà strabuzzò gli occhi.

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Aveva finalmente messo a fuoco la mia pistola. Una pistola da donna, con l'impugnatura di madreperla. La pistola di mia madre. Che già una volta l'aveva ferito. E che gli aveva cambiato la vita. Riaffiorato da un passato lontano, vidi il ricordo conquistarlo con prepotenza. In una frazione di secondo eccolo tornato davanti a lei, nella fabbrica di cioccolato... per un istante si dimenticò di me. Non mi vedeva, in quel momento esistevano solo loro due. E io non riuscivo a dominare il tremito dell'arma che avevo in mano: una di fronte all'altra, due pistole si sfidavano in una danza sinuosa di attrazione e ripulsa. «Gettala, perdiana!» Urlò quelle parole implorando, quasi con disperazione. Ma io non la gettai. Ancora oggi, se penso a quest'episodio, mi sento male: più cresco e più penso a mio padre in quel momento, non a me. A cosa dovette passargli per il cuore quando vide suo figlio puntargli addosso quella pistola. Come se gli anni passati a far progetti per me e a prendersi cura di me fossero stati cancellati nell'istante in cui avevo impugnato quell'arma. Era come se lei l'avesse sconfitto due volte. «Va bene, papà» sussurrai, «non aver paura. Non sparo.» «Abbassa lentamente la canna, non agitarti, poi lascia cadere la pistola.» «Bene.» Abbassai la canna ma a quel punto mi bloccai. «Prima dimmi cosa ne sarà di Felix.» «Glick tornerà dove si merita. In gattabuia.» «No» La mia pistola schizzò di nuovo su. «No. Non accetto.» «Tu cosa?» Conoscevo bene quella sua faccia, ed ebbi paura. Stava diventando viola, con gli occhi piccoli e cattivi, e sulla fronte si disegnava quel terribile punto interrogativo, simile a uno scettro, o a una verga minacciosa. «Non sono d'accordo. Lascialo scappare.» «Nono, sei diventato matto? Getta subito la pistola!» «No. Prima promettimi che lo lascerai scappare.» Il suo volto si contorse in una smorfia di rabbia: «Ti ha rapito, mi capisci? Rapito!» «Non è stato un rapimento.» «Zitto!» sbraitò. «Non te l'ho chiesto!» «Se tu non lo lasci scappare» Ma una nuvola rossa mi si addensò dentro la testa. .. «Allora? Cosa mi fai?» disse con aria di scherno, e con rabbia, mentre la sua pistola tremava davanti a me. «Allora io... io sparo!» «A chi?» strillarono in coro papà e Felix. «A...» «lui! A Felix!» La risposta mi venne immediata. Calò il silenzio. Anch'io stavo tentando di capire me stesso. «Cosa vuoi dire» disse papà. «Gli spareresti? è tuo nonno!» «Non m'importa! Non m'importa di niente, né di lui né di te! Piantatela di farmi diventare matto! Lascialo andare o gli sparo!» La nebbia divenne più fitta. Gli avrei sparato. Mi sarei sparato. Avrei sparato a mio papà, a lui e a me. Una strage, un principio di genocidio. Mi sarei ucciso e sarei scappato. Avrei combattuto, nel bene e nel male. Avrei vissuto fuori del bene e del male! Strillai, sputando spezzoni di frasi. Scalciai sul muro, picchiai contro la porta d'acciaio. Il vulcano Feierberg in eruzione! Ma volevo che papà vedesse di cosa ero capace quando uscivo dai gangheri. Che capisse quanto ero pericoloso, se mi arrabbiavo. Non so per quanto tempo andai avanti, ma di una cosa sono

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sicuro: da quella volta non sono più riuscito veramente a perdere i freni. (Chissà se Lola aveva inteso questo quando aveva detto: «Chi fa uso dei propri sentimenti per farne provare agli altri, finisce per perdere i propri.» «Un momento!» urlò papà. «Perché dici che non è stato un rapimento?» La sua voce aveva perso sicurezza. Forse la mia esibizione aveva sortito qualche effetto. «E' la verità!» dissi pestando un piede, ma non troppo forte, per aprire la trattativa. «Sono andato da lui spontaneamente! Non mi ha rapito!» «Cosa significa? Spiegati!» «E' cominciato tutto per errore» risposi. «Sono entrato nello scompartimento sbagliato, sul treno.» Papà aveva un'aria indispettita. «E cosa ci faceva lui, sul treno?» Nel dire "lui" la pistola disegnò un cerchio pieno di disprezzo verso Felix. Rimasto curvo fino a quel momento, come pietrificato nel momento della fuga, Felix si drizzò e rilassò i muscoli, poi si passò una mano nei capelli e sorrise dolcemente a papà. «Qual è il problema, signor papà? Volevo solo guardarlo. Cosa c'è, non è forse mio nipote?» E sorridendo ancora, mi indicò con un gesto teatrale, come se stesse mostrando qualcosa di speciale interamente frutto della sua opera. Ne fui sconvolto, perché mi accorsi che nel giro di appena due giorni e mezzo Felix era riuscito a trasformarmi, allontanandomi da mio padre. Forse era questa la sua vendetta. Non riuscii a muovermi, tanto ero sbigottito. Perché se le cose stavano così, lui si era comportato in modo veramente diabolico con me, usandomi contro mio padre... D'altra parte sapevo benissimo che, se non mi avesse rapito, non avrei mai sentito la storia di Zohara, e non avrei ricevuto il suo dono; e intuivo che comunque, alla fine, aveva fatto tutto per me, comportandosi da amico e compagno. Di più: da nonno. Papà gemette, diede un colpo violentissimo sul muro e tuonò a Felix: «Nono non è tuo! Tu non lo vedrai mai più! Né tu né quella lì, che sta facendo scene turche su di sopra.» «Ma Lola è mia nonna!» urlai offeso. Papà si girò lentamente verso di me, come un toro stremato: «Dunque, lo sai? Ti hanno già raccontato tutto, quei due.» «Sì, tutto. E della mamma. E di te. Non preoccuparti. Per me non è cambiato niente.» «Non è giusto...» mormorò papà. La sua pistola si piegò leggermente, accompagnando la testa, «non volevo che sapessi. Sei ancora troppo giovane.» La rabbia era di colpo svanita. Si sedette sugli scalini, lasciando cadere la pistola fra le ginocchia. Solo allora, finalmente, riuscii a vederlo nel modo che volevo. E lessi sul suo volto tutta la storia, così come ero venuto a saperla in quegli ultimi giorni. Si prese la testa fra le mani, e io cercai nei tratti del suo viso il ragazzo che, quella notte, si era arrampicato sulla gru e aveva rischiato di affogare. Cercai l'uomo che ogni giorno era andato a trovare Zohara in prigione, l'uomo che le aveva costruito un palazzo sul Monte della Luna. e mio padre, che mi aveva messo al mondo con le sue mani, tagliando il «cordone ombelicale. Non lo trovai. Il viso di mio padre non diceva più nulla. Era quello di un uomo che serrava continuamente le labbra, perché i ricordi non traboccassero. Evidentemente ce l'aveva fatta: non ne usciva nessuno. Né allora né oggi. Quand'ero più giovane riuscivo almeno

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a percepirne l'esistenza. Ora quasi non li sento più. Ce l'ha davvero fatta. Peccato. Sì, vidi soltanto la faccia di un poliziotto, un professionista. Di uno che, per dodici anni, aveva continuato ad accusare se stesso e a torturarsi per aver amato una delinquente, per essersi lasciato tentare da quell'avventura al di fuori della legge. Vidi l'uomo che s'ostinava impietosamente a non perdonare a se stesso il grave errore, o ciò che lui considerava tale; l'uomo che per castigo si negava tutto ciò che poteva procurargli gioia, sollievo, consolazione. Prigioniero di se stesso, della sua indole inflessibile. «Avevo intenzione dì raccontarti tutto» disse gravemente, «ma aspettavo che crescessi ancora un po'. Pensavo che non fossi abbastanza grande e maturo per ascoltare queste storie. Ora sai tutto. Peccato.» «Sì. E va bene così. Non mi è successo nulla.» Mi era successo molto, ma non era quello il momento di turbarlo. «E lui si è comportato bene con te? Non ti ha fatto del male?» «Felix è veramente grande, papà.» E siete piuttosto simili,» aggiunsi mentalmente. Papà guardò Felix negli occhi e Felix ricambiò il suo sguardo. Per un lungo momento restarono così. Ero ancora molto giovane, ma riuscii a capire cosa passò in quel lungo sguardo. Un po' di astio, certo, ma anche il sentimento di un destino comune, l'affinità di due uomini che s'erano ritrovati ad amare: profondamente la stessa donna. «E adesso cosa facciamo?» chiese papà. «La polizia vi sta cercando per tutto il paese» sospirò. «E io sono venuto qui da solo, perché immaginavo che il tuo scopo finale...» fissò lo. sguardo su Felix «fosse quello di prendere il regalo che Zohara aveva lasciato per Nono...» «Sei solo?» Un lampo di sollecitudine illuminò gli occhi di Felix. «Solo» rispose papà con uno sguardo imperturbabile. «Perché, avresti qualcosa da proporre?» «Per carità. Cosa vuoi che Felix possa proporre al signor papà. Pensavo soltanto, e...» «Sentiamo.» «Pensavo che magari si potrebbe fare così: io, supponiamo, ho improvvisamente estratto la pistola...» «Supponiamo» disse papà. «L'ho puntata alla testa di Amnon e ho detto: se il signor papà non mi lascia uscire, io sparo.» «Diciamo così.» «E allora, che alternativa avevi? Così sono scappato.» Silenzio. Quei due si capivano senza tante parole. «cioè» papà sghignazzò, «sarebbe che tu mi batti? Hai idea di che figura farei sui giornali? E alla polizia?» «Ma cosa te ne importa della polizia?» chiese Felix con un bel sorriso. «Non devi più pensare alla polizia. Felix l'hai già preso una volta. Adesso è la seconda, e nessun altro poliziotto al mondo è riuscito a fare nemmeno la metà di questo. Pensa!» «Ma se io ti lascio scappare, chi saprà che ti ho preso anche stavolta?» «Lo saprai tu.» Felix fece una faccia ingenua. «E lo saprà il tuo Amnon, che è la cosa più importante, no?» Papà scosse più volte la testa. Ma era sempre stato rapido nelle decisioni. «E sia» sospirò, «qualunque altra soluzione sarebbe troppo dolorosa. soprattutto per il bambino. Legaci.» si alzò, infilò la pistola nella fondina e si tolse la cintura dei pantaloni. Felix e io lo guardavamo con una certa inquietudine. Avevo ancora la pistola in mano. se mi fosse piombato addosso

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all'improvviso? Papà si fermò sulle scale. Vide le nostre facce, la mia pistola che seguiva i suoi movimenti. si fermò e sospirò profondamente. «Ah, Nono» soggiunse con un accenno di sorriso, «stai facendo proprio quello che un professionista deve fare, e non so come mai la cosa mi angusti così.» Allora capii che non avrebbe cercato di prenderci alla sprovvista, e rimisi la pistola in tasca. Papà storse la bocca e disse a Felix: «Va sempre a finire così, usano contro di noi quel che noi gli abbiamo insegnato». Felix annuì. Papà mi venne di fronte. Alto, sudato, scarmigliato. Relativamente ANSA. Non ci vedevamo da tre giorni e avevo una gran voglia di saltargli al collo urlando di gioia perché tutto finiva in quel modo. Invece, non ci stringemmo nemmeno la mano, e forse fu meglio così. Come succede fra uomini. Felix ci ordinò di entrare nella stanza delle cassette e di sederci schiena contro schiena. Ci legò stretti, canticchiando com'era sua abitudine quando si metteva in azione. Finì di legarci facendo un nodo dietro la mia schiena, ma sentii molto bene mio padre che gli mormorava di non stringermi troppo. «Non fare male al bambino» disse. Poi Felix sfilò le manette dalla tasca di papà e ci legò l'un l'altro per i polsi. Quando sentii il clac, mi venne in mente il finto galeotto con cui avevo diviso lo scompartimento sul treno. Che strano viaggio era stato, cos'altro dire? Con la coda dell'occhio vidi Felix che si chinava su mio papà. «Era una donna molto speciale, Zohara» disse, «so che tu l'amavi veramente. Ma basta. Bisogna dimenticare i morti. Intanto per te la vita continua, hai un bravo bambino. E un bambino ha bisogno di una mamma. Ascoltami, signor Feierberg: questo vecchietto ha conosciuto molte donne in vita sua, ma nessuna come la signora Gabi. E una donna molto saggia. Tienila nella giusta considerazione. Chiedo scusa se mi sono immischiato in faccende private. Grazie e saluti.» Sentivo sulla schiena il respiro profondo di papà e temevo che stesse per scoppiare. Poi Felix venne da me, sorridente. All'inizio nel suo solito modo, con quel sorriso che ipnotizzava, e dipingeva tutto d'azzurro. Ma lo ricacciò subito indietro, e mi sorrise dal cuore. «siamo stati bene insieme, vero?» Feci cenno di sì con la testa. «Sei un bambino senza eguali. Un po' delinquente, un po' anima bella. Che miscuglio! Adesso che ti ho visto, non ho più bisogno di nulla. Ormai lo so: qualcosa di Felix resterà sempre.» Tirò su col naso. «Bene, basta. Devo andare. Faccende urgenti da sbrigare. Magari ti vedrò ancora. Magari no. Magari un giorno sarai a spasso per strada e qualche nonno Noè ti verrà vicino per salutarti. Può capitare di tutto in questo mondo. La cosa più importante è che hai conosciuto Felix, e che io ho conosciuto te.» Tese la mano e toccò teneramente la spiga d'oro appesa alla mia catenina, come per dire addio anche a lei. «Ma la cosa più importante è sapere che Lola baderà a te, perché tu non venga su, per carità; troppo Felix. Solo un po', così, per ricordarti che nella nostra vita non ci sono soltanto le regole. Nella vita devi far spazio anche a una legge esclusivamente tua!» Si avvicinò a me e improvvisamente, senza che me lo aspettassi, mi baciò sulla fronte. «Ricordati bene, Nono: la nostra vita è soltanto un attimo di luce fra una tenebra e l'altra. Tu hai visto meglio di tanti altri la luce di Felix passare in questo mondo.» Un lampo celeste e poi... sparito. Restammo muti. Io e papà, schiena contro schiena. Da dove si poteva cominciare, ora? Sentivo il suo respiro. Sulla mia schiena. Sulla

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sua. Sulla mia. Gabi. «Come va con Gabi?» azzardai. Silenzio e poi un sussurro: «Aspetta a casa.» «Non è che... ci lascia?» Lo sentii che sfregava la barba contro la spalla. «Mi ha dato un ultimatum. Devo decidere entro domenica.» Come avevo immaginato. Tutto, sapevo tutto. Silenzio. Poi papà brontolò: «Hai ancora la pistola?.» Tastai la tasca con il gomito ma sentii solo lo scialle ripiegato. Nient'altro. Felix me l'aveva sfilata baciandomi! Incominciai a ridere sommessamente, ma mi trattenni subito per rispetto della sofferenza di mio padre, cui ero molto legato. «Il rendi conto che fra due giorni farai il bar-mitzvah?» Non potei più resistere, il riso esplose fragorosamente. Papà restò muto, con la schiena immobile. Ridevo dalla pancia, dalla punta dei piedi. Ridevo avanti e indietro... finché a un certo momento lo sentii muoversi un po', tentando di frenarsi. E d'un tratto scoppiò in una risata che mi fece sobbalzare come su una nave nella tempesta, strattonandomi da ogni parte come un frigorifero. E così, si può dire, lo feci ridere per la prima volta in vita mia. La prima, l'unica e l'ultima: e fanno tre. Che risata aveva: come un cavallo! «Un bel pasticcio» disse alla fine, quando ci fummo calmati. «Mi mancavi» dissi subito. «Anche tu» soggiunse lui, e non ebbi più bisogno di nulla. Dopo qualche istante riuscii a dire: «Hanno scritto di me sul giornale.» «Non solo! L'intero paese è in ansia per te. E vuoi farmi credere che non è stato un rapimento.» «Perché è andata così..» «Finisce che danno ancora a me la colpa di tutto questo casino. Come al solito. Non fa niente. Un'altra sfuriata non cambierà nulla al mio curriculum.» Tacqui. Avevo già deciso per lui sulla questione del lavorare nella polizia. Pensavo che non importava nemmeno se gli Shilhav non venivano al mio bar-mitzvah. Cosa me ne facevo dei loro regali? Avevo già ricevuto abbastanza. «Mi accusino pure» disse d'un tratto, irrigidendo i muscoli della schiena tanto da sollevarmi un po'. «Sono già dodici anni che mi accusano! Dodici anni che non ho promozioni. Mi affidano solo i casi meno importanti. Cosa vuoi che mi facciano ancora?» Fuori sentimmo una sirena. E trambusto, corsa, urla, ordini. «Sono qui» disse papà quasi con rabbia, «avevo lasciato detto a Etinger di venire qui alle nove zero zero. Senza dirgli perché. Ora farà festa.» Poi aggiunse una frase sorprendente: «Spero almeno che tuo nonno sia riuscito a scappare.» La sera andammo al ristorante, Gabi papà e io. Fu la cena più felice della mia vita, per quanto debba ammettere che dove avevo mangiato con Felix era un po' più speciale. Mentre ci avventavamo sui cibi, raccontai loro tutto, o quasi tutto; in realtà, molto poco. Appena cominciai a parlare mi resi conto che non sarei riuscito a esprimere la cosa più importante, perché era così incomprensibile, vaga e poco logica. Mi sentivo come uno che si è appena svegliato e racconta con entusiasmo il sogno che ha fatto; ma, mentre parla, il sogno svanisce. Una cosa concreta però mi restava: perché dal sogno qualcuno mi aveva mandato un regalo. Lo tenevo sulle ginocchia, ben stretto fra le mani, e da allora è sempre rimasto con me. Peccato che io non abbia orecchio musicale e che non sia capace di suonare questo flauto, quest'umile flauto di legno che Zohara aveva voluto lasciarmi. Però, quando mi sento particolarmente male, quando mi sento solo, mi siedo

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sulla finestra in camera mia, con le gambe nel vuoto, ci appoggio la bocca e odo suoni ineffabili. Poi parlammo del futuro di papà nella polizia, e fu chiaro che non ne aveva più. «Domani mattina presento le mie dimissioni. Guarda, eh, Gabi... voglio cominciare una vita nuova.» Gabi arrossì e abbassò lo sguardo sulla tovaglia. Improvvisamente capii un'altra cosa: non diceva «eh, Gabi...» per innervosirla, niente affatto. Esitava invece un attimo prima del nome per essere sicuro che non gliene uscisse un altro, quello. che aveva sempre a fior di labbra. «E' stata proprio una follia restare così tanti anni nella polizia dopo la storia di Zohara» disse papà, e mi resi conto che aveva ragione. Mi deliziava sentire quel nome, così libero e limpido, sulla sua bocca. «La vita vera è sempre stata lì davanti a me, e io non la vedevo. Mi sono sommerso di lavoro, perdendo anni preziosi.» Ascoltavo a bocca aperta. In tutti quegli anni non l'avevo mai sentito parlare in quel modo. Sembrava quasi che fosse stata Gabi a preparare il discorso. Lei tacque per quasi tutta la sera, come in attesa di sentire la sua decisione. «Questi ultimi giorni mi hanno insegnato tanto su cosa e chi conta veramente, e su quale vita voglio fare, su cosa è meglio per me. Vorrei cominciare da questa sera a mettere in atto il cambiamento» disse. Cercò qualcosa nella tasca della giacca e tirò fuori una scatoletta quadrata, come quelle che nei film sfoderano i vedovi quando vogliono offrire qualcosa di speciale alla governante dei loro figli. «Un momento, papà!» urlai. «Non rovinarmi tutto!.» E tirai fuori di tasca l'etereo scialle viola, ormai tutto stropicciato; lo lisciai come una sciarpa uscita dalla manica di un prestigiatore (ero davvero un prestigiatore) e lo distesi sul tavolo. Aspettai che cessassero i suoi respiri affannosi e a quel punto, con calma solo apparente, ci posai in mezzo la spiga d'oro. «E' per te» dissi a Gabi. «Ho fatto quel che mi hai chiesto.» Lei si coprì il volto con le mani, e cominciarono a colare le lacrime. «Non piangere» la pregai sussurrandole nell'orecchio, «se no rovini tutto.» «Lasciala piangere» mormorò papà, «sono lacrime di gioia.» Ebbi l'impressione che anche in loro era cambiato qualcosa durante la mia assenza. Gabi tastò lo scialle di seta viola e prese in mano la spiga d'oro. «Ora ho tutto» disse. «Tutto quello che occorre per esprimere un desiderio. Vediamo se a questo mondo esistono ancora i miracoli.» Si mordicchiò il labbro, guardò coraggiosamente papà. Chiuse forte gli occhi e parlò senza voce. Solo le labbra si muovevano. Mentre lei aveva ancora le palpebre chiuse, papà aprì la scatoletta e posò sul tavolo un bell'anello luccicante. Ai tavoli vicini la gente smise di mangiare e guardò. «Che ne dici, eh... Gabi? Se non hai niente da fare la prossima settimana, potresti sposarmi» disse papà tutto intimidito. Aveva saputo chiederla davvero bene, a entrambe, la mano. «Un anello» mormorò Gabi semisvenuta. «Un brillante... non avresti dovuto...» Con le mani che tremavano cercò di infilarselo, e spinse, faticò, gemette, sorridendo a papà con aria di scusa. Poi cambiò dito, e anche lì niente. Tentò con un terzo, spinse di più, e papà si raschiò la gola, guardando di traverso gli altri tavoli finché, alla fine, Gabi riuscì a infilarlo nel mignolo. Ma non avrebbe più potuto toglierlo, e papà fece un sorrisetto dicendo: «Già, è perché tu ci fai girare tutti sul tuo dito mignolo....» Gabi ci lanciò un'occhiata e cominciò a ridere. Una risata sommessa e pacata, lunga e misteriosa, del tutto nuova per lei. Per un attimo mi sfiorò

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un'idea strana, sconvolgente, assolutamente improbabile: forse nella storia del mio rapimento Gabi aveva svolto una parte un po' più importante di quanto pensassi; forse non aveva lavorato da sola, ma con un complice nascosto, furbo, un po' delinquente, trasformista, qualcuno che insieme a lei, in una morsa... no... impossibile... non poteva essere! La osservai stupefatto, con curiosità: sì o no? Ma il suo sguardo restò impassibile. Così non avrò mai la risposta a questa domanda, che da allora occupa un posto nel settore "questioni irrisolte". Ma me la tengo e me la godo così, senza alcuna voglia di sapere la risposta, perché è vero che la conoscenza è forza, ma è anche vero che il mistero possiede una dolcezza speciale. Poi Gabi si voltò verso papà, con aria solenne, beata, e in quel momento affiorò finalmente la sua bellezza interiore, illuminandole il viso. Disse a voce alta: «D'accordo, Yakov. Ti sposerò.» E con immenso, infantile orgoglio, guardò trionfante i clienti del ristorante. Poi, con un sorriso radioso rivolto a me, a papà, a tutti, gli disse con voce dolce e amabile: «Oh, Yakov....» A quel punto si alzò e gli buttò le braccia al collo. Camerieri e commensali guardavano senza imbarazzo. Io, come al solito, volevo sprofondare. Prima Felix e Lola, ora papà e Gabi. Evidentemente in me c'era qualcosa che induceva uomini e donne a buttarsi gli uni addosso alle altre. Guardai il pavimento, poi il soffitto. Pensai che Yakov era un nome adatto a un investigatore. Pensai di dire loro che d'ora in poi dovevano chiamarmi Nonik. A quel punto non mi restò più niente a cui pensare. In un bagno di lacrime Gabi cercò tentoni la mia mano dietro la schiena di papà, e la strinse con riconoscenza. Poi la sollevò e scrisse nell'aria, come un messaggio segreto fra noi due: "alla fine...?"