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DANTESCA

Collana diretta da Enrico Ghidetti,Guglielmo Gorni e Antonio Lanza

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Tomotada Iwakura

IL pENSIEro LINGuISTICo DI DANTE ALIGhIErI

ArACNE

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Copyright © 2010ArACNE editrice S.r.l.

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via raffaele Garofalo, 133/A–B00173 roma(06) 93781065

isbn 978–88–548–]–––

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: novembre 2010

Titolo originale: Dante kenkyu, Tokyo, Sobunsha, 1988 (capp.vi e vii).

Questa edizione è stata interamente riveduta e accresciuta dall’autore.

Traduzione di Andrea Leonardi.

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ad uxorem meam

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I N D I C E

11 prefazione

i. IL DE vulgarI EloquENtIa ComE AuToIN-TErprETAzIoNE DELL’opErA DI DANTE

15 Introduzione

19 1. Il mutamento linguistico

1. Il signif icato del cap. 1 9, p. 19 – 2. L’interpretazione del cap. 1 10, p. 20 – 3. originalità delle concezioni dantesche, p. 22 – 4. La natura della lingua e il mutamento linguistico, p. 26.

29 11. Il superamento della “municipalità” come a proprio divertere

1. rif lessioni sulla distribuzione dei dialetti, p. 29 – 2. a proprio divertere, p. 30 – 3. Gli elementi comuni visti attraverso la terminologia, p. 34 – 3. Frequenza delle citazioni e contenuto dei capitoli, p. 37.

41 i11. I poeti della Scuola Siciliana

1. Definizione della Scuola Siciliana, p. 41 – 2. Il retroterra della nascita della Scuola Siciliana e le sue caratteristiche linguistiche, p. 43 – 3. Gui-do delle Colonne e Guinizzelli, p. 45 – 4. Giacomo da Lentini e rinaldo d’Aquino, p. 50.

55 iv. I poeti toscani

1. I poeti criticati da Dante, p. 55 – 2. Guittone d’Arezzo, p. 58 – 3. Bonagiunta da Lucca, p. 61 – 4. Gallo pisano e mino mocato, p. 62 – 5. Brunetto Latini, p. 63 – 6. I poeti giudicati positivamente: Cino da pistoia e Cavalcanti, p. 66.

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71 v. Natura della “dialettologia”

1. Natura e scopo della ricerca del dialetto, p. 71 – 2. I dialetti della Si-cilia e dell’Apulia, p. 74 – 3. Il dialetto toscano, p. 76.

ii. L’ESTETICA DELL’ESprESSIoNE IN DANTE

85 Introduzione

87 parte prima. L’espressione e la sua teorizzazione

1. La teoria dell’espressione nel De vulgari eloquentia, p. 87 – 2. La con-cezione dantesca della lingua, p. 93 – 3. L’esaltazione della lingua, p. 95 – 4. La difesa del volgare, p. 98.

109 parte seconda. L’applicazione della teoria dell’espressione

1. I limiti del linguaggio, p. 109 – 2. L’adeguamento di materia e forma poetica, p. 116 – 3. La forma dell’invocazione, p. 119 – 4. Lo stile co-mico, p. 125.

139 Bibliografia 149 Indice dei nomi

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t. iwakura – il pensiero linguistico di dante alighieri

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prefazione

Vorrei anzitutto porgere i miei ringraziamenti ai dirigenti della Società Dantesca Italiana, che mi hanno proposto di far conoscere ai lettori italiani alcuni miei saggi su Dante. Confesso che non avrei osato pubblicarli in Italia se non ci fosse stato l’incoraggiamento as-siduo del professor Antonio Lanza.

Vorrei spiegare brevemente, per soddisfare la curiosità dei lettori italiani, come sono arrivato a studiare il pensiero di Dante sul lin-guaggio. L’itinerario che ho percorso è stato piuttosto lungo e tor-tuoso. Dopo aver studiato sotto la guida di Bruno migliorini all’uni-versità di Firenze negli anni Sessanta, ho cominciato a interessarmi particolarmente della lingua poetica della Scuola Siciliana e del suo contributo alla formazione della lingua letteraria italiana. Con que-sta ricerca intendevo mettere in rilievo le caratteristiche linguistiche particolari del “volgare illustre siciliano” in base a una precisa analisi linguistica e stilistica e, al tempo stesso, tracciare storicamente le fasi di evoluzione attraverso le quali questa lingua giunse a costituire la fonte inesauribile del linguaggio creativo e originale di Dante. Con queste poche parole spero di aver potuto chiarire la ragione del mio particolare attaccamento al De vulgari eloquentia.

I due saggi qui riuniti sono stati pubblicati originariamente in giapponese nell’Annuario della Facoltà di Lettere dell’università Statale di Kyoto, n° 24 e n° 26, rispettivamente negli anni 1985 e 1987.

una volta decisa la pubblicazione, restava da affrontare il proble-ma della traduzione dal giapponese all’italiano di testi su un argo-mento solitamente non conosciuto dai traduttori italiani competenti. Fortunatamente il professor Andrea Leonardi, del Dipartimento di Italianistica dell’università degli Studi Stranieri di Kyoto, ha gen-

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t. iwakura – il pensiero linguistico di dante alighieri

tilmente accettato di sobbarcarsi la fatica. Con la sua capacità e co-noscenza della lingua giapponese ha potuto rendere perfettamente intelligibile ai lettori italiani il mio testo, e per questo lo ringrazio. Vorrei cogliere l’occasione per ringraziare anche la dottoressa Anna-maria oscarino, bibliotecaria all’università di Bologna, che nel pe-riodo delle mie ricerche mi aiutò nella lettura dei codici del De vulga-ri eloquentia: per merito suo sono riuscito a stabilire il testo critico per l’edizione dell’università Tokai: testo critico e traduzione commentata del De vulgari eloquentia di Dante, a cura di T. Iwakura, Tokaidaigaku Shuppankai, 1984 (in giapponese).

mi sento inoltre molto riconoscente al professor Silvio Vita, Di-rettore dell’Italian School of East Asian Studies (ISEAS) di Kyoto, che con il suo costante e indispensabile appoggio ha reso possibile il completamento di questo lavoro.

Desidererei infine ringraziare la dottoressa Alessandra mulas per la sollecita e competente assistenza nella fase finale del lavoro.

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IIL DE vulgarI EloquENtIa ComE

AuToINTErprETAzIoNE DELL’opErA DI DANTE

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Introduzione

La popolare teoria secondo la quale Dante avrebbe fondato la dia-lettologia italiana e spianato la strada alla linguistica romanza nei pochi famosi capitoli del De vulgari eloquentia si trova già nell’opera di Burckhardt, la cultura del rinascimento in Italia.1 Anche al giorno d’oggi tale teoria non è stata completamente refutata; al contrario, viene ripetuta più o meno identica in tutte le storie della linguistica, laddove si cita l’opera di Dante:

La prima opera che può, a buon diritto, considerarsi come precorritrice della linguistica moderna è il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri, nel quale, sul principio del sec. XIV, si riconosce l’affinità dell’italiano col francese, col provenzale e con lo spagnolo, e si danno alcune caratteri-stiche dei principali dialetti italiani. L’opera di Dante è particolarmente importante da un punto di vista generale, perché pone per la prima volta, almeno nel mondo colto occidentale, il concetto di sviluppo storico della lingua.2

robins cita ripetutamente Dante, considerandolo da vari punti di vista il precursore delle teorie della linguistica moderna:

Dante, che taluni considerano il profeta del successivo rinascimento, aveva fatto molto per promuovere lo studio dei dialetti romanzi parlati in contrap-

1 «Seine Schrift “Von der italienishen Sprache” ist nur fur die Sprache selber wich-tig, sondern auch das erste rasonierende Werk uber eine moderne Sprache uberhaupt» J. Burckhardt, Die Kultur der renaissance in Italien, Stuttgart, A. Kröner, 1952 (la civiltà del rinascimento in Italia, trad. ital. di D. Valbusa, Firenze, Sansoni, 1996). 2 C. Tagliavini, Panorama di storia della linguistica, Bologna, pàtron, 1963, pp. 35-36; e cfr. anche m. Leroy, les grands courants de la linguistique moderne, Bruxelles-paris, presses universitaires de Bruxelles-presses universitaires de France, 1963, p. 8.

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posizione al latino scritto e, scrivendo egli stesso in vernacolo, per stabilire una varietà di italiano parlato come lingua letteraria, e poi ufficiale, della penisola.3

È innegabile che tali teorie correnti sulla storia della linguistica contengono un nucleo di verità. Tuttavia, esse colgono solo un aspet-to del De vulgari eloquentia poiché non si basano su una comprensione dell’opera nella sua totalità né nel contesto dell’intera produzione dantesca. Non si può apprezzare il significato reale delle teorie lin-guistiche di Dante, e il loro autentico valore come precorritrici della dialettologia e della linguistica moderne, senza comprendere il vero scopo della composizione del De vulgari eloquentia.

Si può facilmente notare come le teorie esposte nelle citazioni sopra riportate si basino tutte sull’analisi della parte introduttiva del De vulga-ri eloquentia che tratta dei problemi di “linguistica generale” e su quella dei capitoli che si occupano delle lingue romanze e dei dialetti italiani. Le parti relative alla poetica e alla retorica del ii libro sono quasi com-pletamente ignorate. Al contrario, coloro che considerano l’opera una sorta di trattato di retorica concernente il modo di esprimersi corret-tamente ed efficacemente in lingua volgare tendono a ignorare le parti relative alla linguistica esposte nel i libro. In altre parole, il passaggio dalla prima alla seconda parte del trattato non è adeguatamente te-matizzato e il rapporto organico fra il i e il ii libro diviene difficile da comprendere. Questa è la ragione per cui si tende a considerare il De vulgari eloquentia un’opera non unitaria che, seppur breve, tratta conte-nuti disparati in modo complicato, adducendo talvolta come semplice spiegazione l’incompletezza dell’opera, originariamente progettata in quattro libri, ma interrotta a metà del secondo.

La spiegazione, tuttavia, non è così semplice come si crede. Si può infatti pensare che tale apparente frattura derivi dalla tensione impli-cita nel duplice scopo dell’opera: da un lato il fine dichiarato di for-nire una riflessione sul metodo espressivo in lingua volgare, mirante alla creazione di un volgare illustre, dall’altro quello non dichiarato di provvedere un commentario autobiografico sulla produzione let-

3 r.h. robins, a Short History of linguistics, London, Longman, 1967, p. 9; cit. e tradotto in L. peirone, Il «De vulgari eloquentia» e la linguistica moderna, Genova, Tilgher, 1975, p. 15.

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introduzione

teraria dell’autore stesso. per cogliere questa duplicità è perciò ne-cessaria una lettura ermeneutica circolare che, dopo aver considerato la struttura complessiva dell’opera, passi ad analizzare i dettagli del testo, per poi tornare nuovamente all’architettura d’insieme. Solo in questo modo le parti problematiche possono essere collocate precisa-mente nel contesto del trattato. È inoltre indispensabile afferrare nei limiti del possibile il rapporto tra le parti in questione e la totalità dell’opera dantesca. Il De vulgari eloquentia è un’opera indispensabile per comprendere un autore come Dante, in quanto ciò che contrad-distingue questo autore è il «bisogno di rendersi conto costantemente della propria attività creativa e di fissare il proprio posto nella tra-dizione letteraria».4 Nelle parole di un altro critico, tale caratteri-stica non è che lo sforzo di «questo perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia, quest’associazione di concreto poetare e d’intelligenza stilistica».5 La poetica del De vulgari eloquentia nasce dunque dall’atto riflessivo che in Dante accompagna costante-mente l’attività creativa e si configura perciò come documento prin-cipe della pratica autointerpretativa del poeta.

4 A. Buck, gli studi sulla poetica e sulla retorica di Dante e del suo tempo, in «Cultura e Scuola», iv, 1965, fasc. 13-14, p. 151. 5 D. Alighieri, rime, testo critico, introduzione e note a c. di G. Contini, Torino, Einau di, 1946 (19702), p. viii.

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i

Il mutamento linguistico

1. Il significato del cap. i 9

Come viene detto nell’ultimo capitolo (19) del i libro del De vul-gari eloquentia, l’opera avrebbe dovuto consistere di quattro libri; di fatto, Dante si arresta a metà del cap. 14 del ii libro. Trascurando la divisione in capitoli, e soffermando l’attenzione sugli argomenti trattati, l’opera si può suddividere a grandi linee in quattro parti te-matiche principali: la lingua in generale, il volgare, le lingue volgari d’Italia, l’espressione artistica in volgare. Tenendo conto della par-tizione in capitoli, lo sviluppo dei temi avviene nel modo seguente: dal cap. 1 al cap. 8 del i libro, dopo aver descritto la natura della locutio vulgaris, l’autore tratta l’origine e la divisione delle lingue, sulla base soprattutto dell’autorità della genesi. Dal cap. 10 al cap. 15 di-scute specificamente le lingue parlate in Italia, giudicate le più adat-te a diventare volgare illustre; identifica quattordici dialetti italiani, ognuno dei quali è esaminato come candidato al titolo. Dal cap. 16 al cap. 19 la ricerca del volgare illustre abbandona il metodo indutti-vo, rivelatosi infruttuoso, e adotta un metodo deduttivo basato sulla logica e la dialettica. La parte che va dal cap. 1 al cap. 14 del ii libro è completamente dedicata allo sviluppo della poetica dell’espressione artistica in volgare illustre. Il cap. 9 del i libro, in quanto collega-to sia alla prima sia alla seconda parte del libro, è tradizionalmente considerato l’anello di congiunzione fra l’introduzione di carattere linguistico generale (1-8) e l’esame delle lingue specifiche (10-15). Il tema principale del capitolo è il mutamento delle lingue. Tuttavia, se si considera attentamente lo sviluppo delle tematiche nella totalità

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dell’opera, l’interpretazione del cap. 9 come semplice anello di con-giunzione si rivela problematica. pertanto, nei paragrafi seguenti cer-cherò di collocare questo capitolo nello schema generale dell’opera.

2. L’interpretazione del cap. i 10

Nel cap. 10 la trattazione si incentra sul problema dell’ydioma tri-pharium, ossia delle lingue romanze, che a loro volta si dividono nel-le parlate degli Ispanici (ossia i provenzali)1 che assentono usando il termine oc, dei Francesi che usano oil e dagli Italiani che usano sì.2 per Dante è evidente che le lingue parlate da questi tre popoli «ab uno eodemque ydiomate […] progrediantur» (De vulg. el. i 8 5)3. Egli compara le lingue del triplice idioma «secundum quod trisonum fac-tum est» (i 10 1), per stabilire una gerarchia di valore e allo scopo di identificare in una di esse il mezzo espressivo volgare illustre. Anche se tutte e tre le lingue sono lodate per la loro eccellenza – che rende difficile la valutazione – il fatto che i gramatice positores4 abbiano adot-tato come avverbio affermativo sic costituisce un argomento a favore degli Italiani che usano il sì. riflettendo ulteriormente sui rispettivi meriti delle tre lingue, Dante afferma che la lingua d’oil è adattissima alla prosa, «propter sui faciliorem se delectabiliorem vulgaritatem» (i 10 2) mentre la lingua d’oc è preferibile per la poesia, in quanto «vulgares eloquentes in ea primitus poetati sunt» (ibid.). La lingua del sì invece possiede ambedue i pregi: in primo luogo, «quod qui dul-cius subtiliusque poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta Cynus pistoriensis et amicus eius», in secondo luogo «quia magis videtur initi gramatice que comunis est» (i 10 4).

In questo passo sono stabiliti i criteri per la scelta del volgare illu-stre, tema dei capitoli seguenti, e le condizioni fondamentali dell’elo-

1 «Dico Yspanos qui poetati sunt in vulgari oc» (ii 12 3). L’interpretazione letterale di marigo (Yspani=Spagnoli) appare insostenibile. 2 i 8 5. 3 Le citazioni dal De vulgari eloquentia sono tutte dalla mia edizione critica testo critico e traduzione commentata del «De vulgari eloquentia» di Dante [tit. or. Zokugo shiron], a c. di T. Iwakura, Tokyo, Tokaidaigaku Shuppankai, 1984. 4 T. Iwakura, Il contenuto del «De vulgari eloquentia», in testo critico e traduzione com-mentata del «De vulgari eloquentia» di Dante, cit., p. 255.

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i. il mutamento linguistico

quenza in volgare. Nel primo enunciato sul primato dell’italiano Dante afferma che la lingua e lo stile suo e di Cino, i viri prehonorati che si sono distaccati dal proprio volgare, sono da considerarsi uno dei parametri del volgare illustre. Dante suggerisce già qui che i due poeti hanno potuto rendere manifeste le potenzialità intrinseche del-la locutio vulgaris – Cino come poeta dell’amore (dulcius) e Dante come poeta filosofico (subtilius) – grazie alla tradizione linguistica e stili-stica che dalla Scuola Siciliana arriva al Dolce Stil Novo, passando per il bolognese Guinizzelli. Nel secondo enunciato la parola videtur è omessa dal manoscritto B e sostituita da videntur nei manoscritti G e T, lezione seguita da molti editori. In questo caso Cino e Dante devono essere cosiderati soggetto del verbo. Tuttavia, analizzando attentamente il contesto, risulta chiaro che il soggetto della frase è la parola tertia (lingua) che compare poche righe prima, ossia la lingua italiana. Difatti Dante adduce due ragioni per il primato dell’italiano come volgare illustre, affrontando il problema da due punti di vista differenti. mentre il primo enunciato fa riferimento alle condizioni storiche, il secondo si riferisce al primato relativo ai compiti pratici. Dante propone di attualizzare nell’italiano la qualità che possiede in potenza di lingua universalis al pari del latino «perpetuo e non corrut-tibile» (Conv. i 5 7), rendendolo “stabile” come la gramatica tramite l’applicazione delle regole dei classici.5 È a tal fine che Dante nel cap. 6 del ii libro afferma che «fortassis utilissimum foret ad illam [constructionem] habituandam regulatos vidisse poetas» (ii 6 7), ossia scrittori come Virgilio, ovidio e Stazio.

Vi è un’essenziale correlazione tra il primo e il secondo enunciato del cap. 9 che tratta dei mutamenti linguistici. Dante identifica la causa di tali mutamenti nell’animo umano «instabilissimum atque variabilissimum» (i 9 6). Egli valuta però positivamente tale natura mutevole, dando importanza alla possibilità positiva di creare nuo-ve lingue impicita nella capacità umana di modificare liberamente

5 «Ciascuna cosa studia naturalmente a la sua conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse, studierebbe a quella; e quella sarebbe acconciare sé a più stabilitade, e più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime» (Dante Alighieri, Convivio i 13 6, in opere Minori, I, ii, a c. di C. Vasoli e D. De robertis, milano-Napoli, ricciardi, 1988.

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t. iwakura – il pensiero linguistico di dante alighieri

(«a nostro beneplacito reparare»)6 la lingua, capacità fondata sul libero arbitrio. Nel primo enunciato Dante delinea con grande acume sto-rico la successione dei poeti che, esercitando il libero arbitrio nello sforzo costante di elevare la lingua, hanno portato al perfezionamen-to della lingua e dello stile. Nel secondo enunciato, Dante afferma che nel processo pratico di produzione della nuova lingua seguendo gli exempla dei classici, i poeti danno al volgare una stabilità analoga a quella della gramatica, applicandovi regole stabilite sulla base dei testi eccellenti del passato.

Vista la posizione centrale che il mutamento storico della lin-gua ha nel pensiero linguistico di Dante, si può certo affermare che il cap. 9 è un pilastro indispensabile dell’intera costruzione teorica dell’opera.

3. Originalità delle concezioni dantesche

All’inizio del cap. 11, come per enfatizzare l’importanza della sua riflessione sul mutamento linguistico, Dante enuncia il suo propo-sito: «nos autem nunc oportet quam habemus rationem periclitari, cum inquirere intendamus de hiis in quibus nullius autoritate fulci-mur» (i 9 1).

Dante sembra affermare che mentre le opinioni generali pre-cedentemente espresse sulla natura della lingua non sono necessa-riamente nuove,7 il problema del mutamento linguistico che si ap-presta ad affrontare è un territorio ancora inesplorato, per il quale egli dovrà formulare il proprio punto di vista originale. Il fatto che «nullius autoritate fulcimur» si riduce al fatto che «hoc est de unius eiusdemque a principio ydiomatis variatione secuta» (i 9 1). In tale situazione, il metodo migliore per comprendere il fenomeno univer-

6 Secondo A. Blaise, Dictionnaire latin-français des auteurs chrétiens (Turnhout, Bre-pols, 1954), la parola reparare ha il significato di ‘renouveler (le genre humaine détruit)’, ad esempio: «una domus Noe remanserat ad reparandum genus humanum» (Augustinus, De civitate Dei 16 12). 7 «Non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum aurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis» (i 1 1). Anche se questa affermazione ha carattere retorico, essa dimostra comunque che nella parte introduttiva del trattato, dal cap. 1 al cap. 8 del i libro, Dante si ritiene debitore dell’auctoritas.

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i. il mutamento linguistico

sale del mutamento linguistico consiste nell’analizzarlo basandosi sul concreto esempio delle lingue con cui si ha familiarità, utilizzando la conoscenza pratica e sicura che esse provvedono. Il corretto im-piego dell’inferenza logica garantisce infatti che le scoperte relative a lingue particolari possano essere generalizzate come caratteristiche comuni a tutte le lingue. Il testo dell’ultima proposizione è uguale in tutte le lezioni:

secundo quia magis videntur initi gramatice

L’edizione critica di mengaldo adotta la lezione letteralmente, ma in tal modo il significato non risulta chiaro. Seguendo la correzione di rajna, penso si debba invece leggere:

secundo quia magis videtur initi gramatice

Questa lezione ben si addice al significato del passo in cui si trova. Quel che Dante sottolinea qui è infatti l’universalità del mutamento storico delle lingue e la necessità di comprenderlo adeguatamente per poter svelare il mistero della creazione di una nuova lingua.

per Dante le lingue familiari (notiora itinera) equivalgono all’ydioma tripharium ed egli si appresta dunque ad analizzare il fenomeno del mutamento linguistico nell’àmbito concreto di queste tre lingue e in particolare dell’italiano. Che prima della confusione delle lingue causata dalla torre di Babele questi tre idiomi «unum fuerit a prin-cipio confusionis […] apparet, quia convenimus in vocabulis multis, velut eloquentes doctores ostendunt» (i 9 2); alla divisione di una lin-gua originale in tre si accompagna poi l’ulteriore frammentazione di ciascuna di esse. Nel caso dell’Italia, a est e a ovest degli Appennini si parlano dialetti diversi, e differenze dialettali si possono notare in ogni città, al punto da poter affermare che «quod mirabilius est, sub eadem civilitate morantes, ut Bononienses Burgi Sancti Felicis et Bononienses Strate maioris» (i 9 4).

Chiedendosi da cosa derivino queste differenze dialettali, Dante affema:

omnis nostra loquela – preter illam homini primo concreatam a Deo – sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimum atque variabilissimum

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animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet (i 9 6).

Come causa del mutamento, Dante dà importanza soprattutto al tempo:

si alia nostra opera perscrutemur, multo magis discrepare videmur a vetustissimis concivibus nostris quam a coetaneis perlonginquis […] si ve-tustissimi papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum mo-dernis papiensibus loquerentur. Nec aliter mirum videatur quod dicimus quam percipere iuvenem exoletum quem exolescere non videmus: nam que paulatim moventur, minime perpenduntur a nobis, et quanto longio-ra tempora variatio rei ad perpendi requirit, tanto rem illam stabiliorem putamus (i 9 7-8).

un punto di vista simile è espresso nel Convivio:

onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cin-quanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico che, se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante (i 5 9-10).

Identificando la novità del De vulgari eloquentia nell’attuazione di un’analisi storica e concreta del mutamento linguistico, Bruno Nardi afferma: «Nel De vulgari eloquentia, il concetto del variare delle lingue non è più concetto astratto, come presso i trattatisti scolastici, ma diventa concreto, solido, storico: e coscienza dello storico divenire del linguaggio di un popolo. In ciò sta appunto la novità del trat-tato dantesco».8 pagliaro accoglie e sviluppa questa tesi, sottoline-ando come la modernità del pensiero linguistico di Dante consista nel riconoscimento del divenire e della storicità delle lingue, non-ché nell’importanza attribuita ai fattori sociali.9 Secondo pagliaro, lo studio delle lingue nell’antichità e nel medioevo in generale ha il

8 B. Nardi, Dante e la cultura medievale, nuova ed. a c. di p. mazzantini, roma-Bari, Laterza, 1983, p. 190. 9 A. pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, messina-Firenze, D’Anna, 19712, p. 238.

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i. il mutamento linguistico

difetto di considerare le lingue come fenomeni statici, senza tener-ne in considerazione lo sviluppo storico. Tale approccio improntato all’immobilità è appropriato qualora si voglia edificare un sistema linguistico sincronico: da esso nascono, infatti, la grammatica, che si basa sull’osservazione della forma logica della lingua, e la logica classica, che enfatizza la struttura logica delle proposizioni, come già si vede in Eraclito.10

maria Corti ha avanzato in anni più recenti un’interpretazione differente da quella di Nardi e pagliaro i quali, nella concezione dantesca della lingua, considerano rilevante soprattutto l’intuizione della mutevolezza essenziale, basata sulla variabilità dell’uomo e della società umana.11 Secondo Corti, l’idea dell’instabilità della lingua si trova già in restoro d’Arezzo e difficilmente può essere considerata una concezione originale di Dante. Comparando il passo in questio-ne della Composizione del mondo di restoro con il testo dantesco, si notano chiaramente le somiglianze indicate da Corti e appare inne-gabile che Dante si sia basato sulla Composizione. Tuttavia un’ulte-riore analisi del testo di restoro rivela che questi esprime opinioni assai diverse da quelle di Dante riguardo ai fattori del mutamento linguistico:

E emperciò non se trova nulla provincia e nulla citta e nulla villa e nullo castello che non abbia diversi regimenti e diversi atti e diverso par-lare; e trovaremo li abetatori d’una citta e demeno en regimenti e en atti e∙llo parlare essere svariati, ché da l’uno lato dela la citta parlaranno d’uno modo, da l’altro parlaranno svariato d’un altro; e so’ provenzie che no entende l’uno l’altro. E s’alcuno omo tornasse e∙lla sua provinzia en meno di mille anni, non conosciarea le sue contadie, che trovarea travalliati e variati li monti, e li valli, e li rii, e li fiumi, e le fonti, e le citta, e le castella, e le ville, e lo parlare de le genti.12

Le forti somiglianze tra questo passo della Composizione e il testo del De vulgari eloquentia poste in evidenza da Corti sono manifeste:13 la con-cezione del mutamento linguistico come fenomeno analogo alla tra-

10 Ivi, p. 219. 11 m. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Sansoni, 1981, pp. 56-58. 12 restoro d’Arezzo, la composizione del mondo colle sue cascioni, ed. critica a c. di A. morino, Firenze, Accademia della Crusca, 1976, ii 7 4 24-25. 13 m. Corti, Dante a un nuovo crocevia, cit., p. 57.

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sformazione della tradizione e dei costumi; l’osservazione del fatto che in diverse zone della stessa città si notano differenze linguistiche, come nell’esempio dantesco di Bologna; l’esempio dell’uomo ritornato nel suo paese dopo mille anni; dal punto di vista lessicale, l’uso dell’espres-sione rigimenti e atti che corrisponde al dantesco mores et habitus.

Tuttavia, proseguendo la lettura del testo di restoro, si nota che egli considera il mutamento linguistico analogo al mutamento dei molteplici fenomeni naturali, identificandone la causa nel movimento e stato dei cieli.

Adonqua per magiure operazione e per magiure diversità de rascione deano essere e∙llo mondo diverse lingue e diverse operazioni de voci e de parlare per lettera e per vulgare; e emperciò trovamo lettera greca e lettera latina e lettera ebraica e molte altre: e delle genti avere vulgari e parlare che non entende l’uno l’altro, come so’ Greci, Ermini, e Tedeschi, e La-tini, e Saraceni e molti altri. E questo è per magiure operazione, en tale modo che l’altissimo Deo per magiure grandezza sia laudato e glorificato per diverse lingua.14

Da questa citazione risulta chiaro che non vi sono punti di con-tatto tra la spiegazione di restoro e le idee di Dante, il quale cerca le cause del mutamento linguistico nella natura umana. È invece possi-bile che Dante, per illustrare il fenomeno del mutamento linguistico, abbia semplicemente preso in prestito i brillanti esempi di restoro e che di conseguenza le somiglianze tra i due autori siano meramente superficiali.

4. La natura della lingua e il mutamento linguistico

Vorrei ora esaminare la concezione dantesca del mutamento lin-guistico sviluppata nel cap. 9. Dante ne ricerca la causa nell’uomo in quanto utente della lingua, sulla base del principio aristotelico secon-do cui «nullus effectus superat suam causam, in quantum effectus est» (i 9 6).15 In altre parole, «quia nil potest efficere quod non est» (ibid.),

14 restoro d’Arezzo, op. cit., ii 7 4 29-30. 15 Cfr. Conv. ii 4 14: «nullo effetto è maggiore de la cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha».

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l’uomo deve avere in sé il principio del mutamento linguistico che produce. poiché l’uomo è «instabilissimum atque variabilissimum animal» anche la lingua che l’uomo utilizza «nec durabilis nec conti-nua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet» (ibid.). poiché il mutamento linguistico è inerente alla lingua, per prima cosa è necessario fare luce sulla concezione dantesca della natura della lin-gua. Lo scopo dell’atto linguistico è «nostre mentis enucleare aliis conceptum» (i 2 3). Tale atto è necessario solo all’uomo, a differenza degli angeli e dei bruti. Contrariamente all’opinione di Tommaso d’Aquino e di altri scolastici dell’epoca, Dante ritiene che gli angeli non siano dotati della funzione linguistica. Questi sarebbero sostan-ze immateriali intelligenti, in grado di comprendersi a vicenda senza bisogno della mediazione linguistica, grazie alla perfetta trasparenza dei loro intelletti, in accordo con la definizione del Convivio: «sustan-ze separate da materia, cioè intelligenze» (ii 4 2).

I bruti, invece, «cum solo nature instinctu ducantur, de locu tio-ne non oportuit provideri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt per proprios alienos cognoscere» (i 2 5). Gli uomini hanno una posizione intermedia fra angeli e bru-ti, in quanto il loro intelletto non è trasparente come quello degli angeli e «grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus» (i 3 1); ma essi non agiscono meccanicamente mossi dall’istinto cieco al pari degli animali, bensì vivono seguendo il libe-ro intelletto. Tuttavia l’intelletto umano è al tempo stesso universale e particolare. Da un lato, l’anima appena creata da Dio riceve l’in-telletto possibile, in cui sono impresse le forme universali comuni a tutti gli esseri umani cosicché qualsiasi intelletto è provvisto della facoltà di comprendere tali forme. D’altro lato, l’intelligenza direttamente data da Dio è una disposizione meramente possibile e nel momento in cui tale potenza è attualizzata nella pratica sorgono le differenze individuali.16 perciò «ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudi-cium vel circa electionem diversificetur in singulis» (i 3 1). È questa

16 «La quale, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intel-letto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è» (Conv. iv 21 5).

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la ragione per cui l’uomo può avere nella mente pensieri che gli altri non conoscono, ma che al tempo stesso gli altri possono compren-dere alla luce della natura universale dell’intelletto. La capacità degli uomini di comunicarsi a vicenda le conceptiones animae dipende da un lato dall’universalità dell’intelletto, dall’altro dalla presenza di segni sensibili capaci di esprimere il pensiero. La lingua consiste dunque nella sintesi tra il concetto mentale e i segni sensibili.

per Dante la lingua è un segno sonoro, ma di natura rationale et sensuale (i 3 2). La lingua è un fenomeno sensibile in quanto il suono è oggetto dei sensi e, contemporaneamente, una realtà intelligibile in quanto la sintesi tra il suono e il signficato non dipende dalla ne-cessità naturale, ma dal beneplacitum dell’uomo: «oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod ra-tionale signum et sensuale habere […] sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum» (i 3 2-3). La tesi secondo cui le parole sono segni sonori a cui è stato arbitrariamente attribuito un significato si trova in un notissimo passaggio del De interpretatione di Aristotele: «”Onoma mn

oân estˆ wn¾ shmantik¾ kat£ sunq»chn»17. Trasmessa al medioevo latino da Boezio, essa divenne dottrina comune tra i filosofi della scolastica. Si confrontino per esempio i seguenti passi di Tommaso d’Aquino e Aristotele: «significare conceptus est homini naturale, sed determinatio signorum est ad placitum humanum»;18 «oratio si-gnificat ad placitum, id est secundum istitutionem humanae rationis et voluntatis».19

Il beneplacito dell’uomo altro non è se non la totalità delle sensi-bilità e abitudini che variano necessariamente da individuo a indivi-duo e da popolo a popolo. È grazie ad esso che l’uomo può creare la propria lingua. Dante si sofferma sul concetto di beneplacito perché ritiene che esso abbia in potenza la capacità poietica in grado di ren-derlo forza motrice della creazione linguistica.

17 Perˆ ˜rmhne‹aj ii a 20. 18 S. theol. ii 2 85, 1 ad 3. 19 De interpr. lectio ii.