DANTE - Parafrasi Della Divina Commedia

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Parafrasi della Divina commedia DANTE ALIGHIERI: PARAFRASI DELLA DIVINA COMMEDIA INFERNO PURGATORIO PARADISO 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 HOME PAGE 2003 - Luigi De Bellis http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/index.htm08/12/2005 9.00.15

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Parafrasi della Divina commedia

DANTE ALIGHIERI: PARAFRASI DELLA DIVINA COMMEDIA

INFERNO PURGATORIO PARADISO

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO I

A metà della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via del retto vivere.

Nel mezzo del cammin di nostra vita: " [la nostra vita] procede a imagine... di arco, montando e discendendo... lo punto sommo di questo arco... io credo, che... sia nel trentacinquesimo anno"` (Convivio IV, XXIII, 6 e 9). Mi ritrovai per una selva oscura: la selva oscura ("la selva erronea di questa vita: Convivio IV. XXIV, 12), che ciascuno di noi singolarmente, e il genere umano nel suo complesso, è costretto ad attraversare, simboleggia il peccato e le difficoltà che dobbiamo superare per vincerlo. Per aver ceduto alle lusinghe di una vita che lo ha allontanato da Dio, il Poeta si accorge all'improvviso, con terrore, di non aver più alcun saldo punto di riferimento che possa guidarlo nelle sue azioni, cammina nel buio, e le passioni, non più frenate da un principio razionale, Io dilaniano crudelmente. La sua vicenda è quella di ognuno di noi. Fin da questi primi versi Dante trasferisce quindi la sua esperienza personale su un piano di validità universale.

Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento.

Il tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho vedute.

Tant'è amara che poco è più morte: allegoricamente: il peccato è vicino alla dannazione, la morte dell'anima.

Non sono in grado di spiegare il modo in cui vi entrai, tanto la mia mente era ottenebrata dall’errore, quando abbandonai il cammino della verità.

Tant'era pieno di sonno: l'abbandono della via del bene è graduale e progressivo, e perciò non può essere determinato il momento in cui si comincia a peccare.

Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia,

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volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino.

Per Dante, come per tutti i dotti del suo tempo, che seguivano su questo punto la teoria dell'astronomo egiziano Tolomeo, vissuto nel Il sec. d. C., centro dell'universo era la terra ( teoria geocentrica ). Nel sistema tolemaico il sole era un pianeta come gli altri e come gli altri ruotava intorno alla terra. Qui, sul piano allegorico, il sole è simbolo della grazia divina ('Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi esempio di Dio che 'l sole"; Convivio III, XII, 7). È Dio, che, a un certo momento, nella sua infinita misericordia, si manifesta al peccatore; le cose, rischiarate da questa luce, riacquistano un senso, il loro vero senso: chi disperava intravede finalmente la via della salvezza.

Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la sua violenza,

La notte ch'i' passai con tanta pièta: naturalmente le tenebre. contrapposte alla luce, hanno in Dante, e particolarmente in questo canto introduttivo, una portata simbolico-allusiva che, al di là della lettera, ci pone in presenza di quello che è il dramma della coscienza impegnata a vivere moralmente. Esse stanno a significare il caotico contrastare degli istinti, laddove la luce, principio ordinatore, rappresenta il sorgere di un'armonia, di un'equa contemperazione del bene concepito secondo il principio dell'unicuique suum. Lago del cor: la parte più interna del cuore. Si tratta di quella parte che lo stesso Dante, nella Vita Nova (II), chiama "la secretissima camera" del cuore. Il Boccaccio, nel suo commento ai primi diciassette canti dell'inferno. riferisce l'opinione dei suoi contemporanei, secondo cui, in questa cavità, abiterebbero "gli spiriti vitali" ed aggiunge: "è quella parte ricettacolo di ogni nostra passione: e perciò [Dante] dice che in quella gli era perseverata la passione della paura avuta".

E con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi scatenati,

mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori.

Così il paragone del naufrago rivive nella partecipe interpretazione di un poeta: "... ancora fora è senza storia, se non latente, ancora a se stesso il naufrago è solo, il naufrago che ancora non s'è riavuto d'essersi dibattuto con la burrasca; è ancora l'assonnato, il " pieno di sonno " che si sta sbrogliando dalla notte, trattenuto nella sorpresa del risveglio. E' l'ora deserta, in mezzo alla quale, solo, sta un uomo" (Ungaretti ) . Lo passo: il luogo attraverso il quale Dante era passato, cioè la selva, ma anche, sul piano allegorico, il

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passaggio che congiunge il peccato alla dannazione.

Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento.

Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una lince snella e veloce, dal manto chiazzato:

essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro.

Più che un animale reale, la lonza, il cui nome ci ricorda quello della lince (lonce francese antico), è una fantasiosa creazione del Poeta. Questi ce la presenta come un felino di singolare eleganza, snello e quasi attraente; il suo aspetto piacevole alla vista può forse alludere alle multiformi (il pel maculato e, più sotto, la gaetta pelle) tentazioni del peccato. Terribile sarà invece l'aspetto del leone: forza, ostinazione, furore si sprigionano dalla sua statuaria figura, tanto che lo sgomento sembra da essa propagarsi a tutto il paesaggio circostante. Nella terza delle tre fiere, la lupa, il male supremo l'allegoria sembra quasi soverchiare la evidenza plastica, mentre s'infittisce l'alone di mistero e di angoscia che la circonda. Ma anche la lupa, la bestia sanza pace, vive ai nostri occhi di vita poetica propria, al di là di ogni angusta determinazione concettuale; né può parlarsi al riguardo di una raffigurazione "lievemente grottesca" (Rossi). Proprio la sua famelica magrezza, il controsenso logico che in essa s'incarna, l'aspetto irreale, continuamente contraddetto dalla sua viva presenza e in cui pare configurarsi una minaccia che non e di questo mondo, costringeranno alla fine il Poeta a tornarsene sui propri passi, a disperare. Che le tre fiere propongano una lettura in chiave allegorica è chiaro. Non facile è apparsa tuttavia ai commentatori l'identificazione delle tre inclinazioni al male che esse simboleggiano. Gli antichi hanno visto nella lonza la lussuria, nel leone la superbia, nella lupa l'avarizia, intesa in senso lato come cupidigia, avidità: "tre vizi che comunemente più occupano l'umana generazione" (Ottimo). Dei moderni alcuni hanno visto in esse le tre faville c'hanno i cuori accesi ( Inferno VI, 75 ), cioè superbia, invidia, avarizia; altri, le tre disposizion che 'l ciel non vole ( Inferno XI, 81 ), cioè malizia, matta bestialità e incontinenza.

Era l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio

creò, imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata

l’ora mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è nel segno dell’Ariete appunto in questa

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stagione), non tanto tuttavia da far si ch’io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone.

Questo sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e diffondeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava rabbrividirne.

E (oltre al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano brame insaziabili, e che già molte genti aveva reso infelici,

mi oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che disperai di raggiungere la cima del colle.

La Lupa simboleggia probabilmente la avarizia, intesa nel suo significato originario, come avidità, brama smodata di possesso. Per San Paolo, che la definisce "radice di tutti i mali, l'avidità è il vizio che ha più contribuito ad allontanare gli uomini da Dio (I Timoteo VI, 10). In questi versi, come altrove nella Commedia, l'allegoria riflette un pensiero della Sacra Scrittura. Occorre tuttavia aggiungere che qui, come quasi ovunque nel poema, Dante non precisa l'allegoria fino a farla corrispondere, in tutti i suoi particolari, a un concetto. Una simile puntuale corrispondenza non farebbe che immeschinire la poesia, privandola di quell'alone di indefinito che è ad essa essenziale. In questa pagina, ad esempio, la viva presenza delle tre fiere si ripercuote di continuo in un mondo di sublimi significati, tanto più ricco e universale quanto meno precisato. Dio, la legge morale, l'ordine del creato pervadono ogni aspetto della realtà, ma si manifestano per cenni, per balenanti illuminazioni; non possono essere imprigionati nella pochezza dei nostri concetti. Questo ha sentito Dante, questo più volte ha ribadito esplicitamente, questo è riuscito a far dire ai suoi versi, anche là dove questi sembrano più gravati da intenti dottrinali o di edificazione.

E come colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si cruccia e si addolora nel profondo del suo animo,

tale mi rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi.

Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere la sua voce.

Ruvinava: precipitavo. "Ma il sovrassenso si fonde col significato letterale perché in quel "ruinare" - che rappresenta piuttosto l'entità che la velocità della caduta - e in quel basso loco, che si riferisce ugualmente bene alla bassura della selva e alla bassezza della vita viziosa, c'è l'immagine della doppia caduta: materiale e morale. " ( Grabher ) Chi per lungo silenzio parea fioco: allegoricamente: la voce della ragione, dopo un lungo silenzio, stenta

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a farsi intendere. Ma, al di là di ogni intento allegorico, quest'ombra ingigantita dal silenzio, isolata in uno spazio vuoto, si annuncia come portatrice di un mistero ed esercita una profonda suggestione.

Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !"

Miserere: la forma latina conferisce tragica solennità all'invocazione del Poeta.

Mi rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova.

Non omo, omo già fui: la risposta di Virgilio "articolata, intorno a quella realtà umana, in negazione rispetto al presente e in affermazione rispetto al passato, sembra definitivamente ribadire la distinzione tonale del canto fra mondo infraumano e sovrumano, metafisico e simbolico, trascendente e biblico, e mondo umano, della storia e della poesia" ( Getto) .

Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità non vere e ingannevoli.

Virgilio nacque nel 70 a.C. ad Andes, presso Mantova. Giulio Cesare morì nel 44 a.C. Non poté quindi conoscere ed apprezzare l'autore dell'Eneide.

Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu incendiata.

Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia? "

La risposta di Virgilio contrasta, nella sua distaccata serenità, che è quella del saggio, dell'anima ormai immune da ogni passione - con la concitata ammirazione di Dante. Già in queste prime battute si delinea il rapporto da maestro a discepolo che caratterizzerà i dialoghi dei due personaggi.

"Sei proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia?

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera.

Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama.

Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra."

Famoso saggio: per Dante il poeta deve anzitutto essere un maestro, un sapiente. I polsi: le arterie, nell'atto di pulsare.

Virgilio, reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo impervio, seguire una altra strada:

perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo;

e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti.

Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente.

Animali: esseri animati in genere e quindi anche uomini. 'l Veltro: per aver ragione della lupa, occorre un veloce cane da caccia. In quest'allegoria dobbiamo vedere l'attesa messianica di un papa riformatore o di un imperatore giusto. Tutta l'umanità per Dante avrebbe dovuto essere ricondotta sotto una sola autorità nel campo temporale, sotto un solo magistero in quello spirituale. Ma ai suoi tempi egli vedeva questi due poteri, da Dio ordinati alla guida degli uomini, degradarsi in abusi e compromessi, offuscarsi nella mediocrità di coloro che li rappresentavano. L'interpretazione dei fatti politici di cui fu testimone è in Dante improntata al più deciso pessimismo. Da qui, da questa considerazione negativa del presente, prendono l'avvio alcune delle sue pagine di più alta poesia, animate da un ardore profetico che trova riscontro soltanto nell'Antico Testamento. I commentatori hanno dissertato a lungo nella speranza di giungere ad una plausibile identificazione del personaggio storico che si celerebbe dietro l'allegoria del Veltro. Ma anche a proposito del Veltro giova ricordare che la poesia ha una sua vita autonoma, e che l'allegoria può trasfigurarsi in lirica, nella misura in cui dà voce a un sentimento. La figura della lupa e quella del Veltro esprimono una profonda ansia di rinnovamento morale, una fede saldissima.

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Per quel che riguarda l'interpretazione degli eruditi, alcuni hanno visto nel Veltro un capo ghibellino ( Cangrande della Scala, di cui Dante fu ospite nel suo esilio, o Arrigo VII di Lussemburgo); altri Benedetto XI, pontefice dal 1303 al 1304. Non esistono però documenti che permettano di risolvere la questione in modo probante.

Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni.

Questi non ciberà terra né peltro: l'azione politica del Veltro non sarà dettata né da cupidigia di possedimenti (terra) né da brama di denaro (peltro: lega metallica di stagno, piombo e mercurio ) . Sapienza, amore e virtute: più che qualità generiche, suggeriscono le tre persone della Trinità: virtute (nel senso latino di potenza, capacità ), il Padre onnipotente; sapienza, il Figlio ("il Verbo si è fatto carne"; Giovanni I, 14); amore, l'afflato di carità dello Spirito Santo.

Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso.

Camilla e Turno combatterono e morirono in guerra contro l'esercito di Enea sbarcato nel Lazio. Eurialo e Niso s'immolarono invece per la salvezza dei Troiani. " L'aver unito nella esaltazione i vincitori e i vinti che combatterono per la patria è tratto virgiliano, ma anche dantesco." (Gallardo)

Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece uscire.

Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna,

dove udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione;

La seconda morte ciascun grida: lamentano la loro condizione di reprobi, la morte dell'anima; secondo altri interpreti, i dannati invocherebbero, dopo quello del corpo, l'annullamento anche dell'anima, la loro definitiva estinzione anche come spiriti. E' questo il primo alto annunzio della condizione morale dei dannati, del loro tormento spirituale. Alla forza della disperazione morale dei dannati si contrappone la forza della speranza delle anime purganti: perché sperano nel paradiso, son contenti nel foco. Le parole di Virgilio sono già una viva sintesi della fisionomia morale dei due regni." (Momigliano)

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e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo.

Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco;

poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè cristiano ).

Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo"

Ed io: " Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna,

Acciò ch'io fugga...: perché io eviti "lo smarrimento presente (questo male) e poi la dannazione, sua naturale conseguenza (e peggio)" ( Grabher) . La porta di san Pietro: la porta del paradiso, a guardia della quale, nella immaginazione popolare, era posto San Pietro ("a te darò le chiavi del regno dei cieli"; Matteo XVI, 19).

di condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene".

Virgilio sì incamminò, e io lo seguii.

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INFERNO CANTO II

Il giorno finiva, e l’oscurità faceva interrompere ai vivi in terra le loro fatiche; io solo

mi preparavo a sostenere il travaglio fisico e morale (del viaggio), che la memoria, esatta nel trascrivere ciò che ha appreso, narrerà.

Dante non indulge mai in descrizioni di mero colore: nella Divina Commedia la natura è sempre ricca di dramma, di umana tensione. Così nell'attacco di questo canto, che prende rilievo dal contrasto tra il destino di tutti, che è quello di riposare dopo le fatiche della giornata, e quello del Poeta, oppresso dal peso della sua responsabilità, insonne, travagliato dall'angoscia. Le parole che Dante rivolgerà a Virgilio per esporgli i propri dubbi trarranno solennità e concentrazione proprio dal fatto di essere dette in questo tramonto, simbolo del commiato di un uomo da tutto ciò che di umano ancora lo tiene legato al mondo dei vivi.

O Muse, o mia forza intellettuale, soccorretemi; o memoria, che porti impressa in te la mia visione, qui apparirà il tuo valore.

Io cominciai con queste parole: "Poeta, mia guida, guarda se le mie capacità sono sufficienti, prima di affidarmi all’arduo passaggio.

(Nell’Eneide) tu narri che il padre di Silvio (cioè Enea, che generò Silvio da Lavinia), mentre era ancora in vita, andò nel mondo dei morti (immortale: perché in esso le anime hanno vita eterna), e fece ciò in carne e ossa.

Ma, se Dio (l’avversario d’ogni male) fu con lui cortese, riflettendo sull’importanza dei risultati ( Roma, la sua storia, il suo impero) che avrebbero avuto in Enea la loro origine, e sulle sue qualità personali e sulla sua stirpe regale,

Però, se l'avversario d'ogni male: contro i presupposti dell'esegesi tradizionale, per i quali oggetto del giudizio dell'uomo assennato è la cortesia usata da Dio ad Enea, il Pagliaro sottolinea "l'impossibilità, per così dire, ideologica, di attribuire al Poeta della cristianità medievale, che nella teologia ha concentrato e trasfigurato la pienezza e la purezza del suo amore terreno, un atteggiamento irrispettoso o per lo meno distratto, al punto da fargli dire che un uomo di senno non può obbiettare nulla contro il favore

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dimostrato da Dio nei riguardi di Enea..." Il giudizio dell'uomo assennato verterebbe quindi sulla persona di Enea, non sulla cortesia di Dio. Quanto alla domanda affacciata da alcuni interpreti, se cioè Dante credeva alla discesa agli Inferi di Enea (di cui Virgilio parla nell'Eneide, canto VI, 237 sgg.) come a un evento storicamente accertato, occorre ricordare che per la mentalità medievale il problema non si poneva in questi termini: un fatto veniva accettato come vero per il momento di verità interiore che in esso appariva contenuto. Nell'empireo ciel per padre eletto: il cielo Empireo è il decimo, il più remoto dalla terra, quello che rinchiude in se tutto il creato ed è sede di Dio.

la cosa non appare ingiustificata a chi ragiona; poiché egli fu prescelto da Dio come capostipite della nobile Roma e del suo impero:

Roma e il suo impero, se vogliamo essere esatti, furono costituiti da Dio per preparare il luogo sacro dove ha sede il pontefice, successore del grande Pietro.

A causa di questa discesa ( nel regno dei morti), di cui (nel tuo poema) lo hai considerato degno, apprese fatti (il padre Anchise gli pronosticò il felice esito dei suoi travagli e la grandezza di Roma) che furono le premesse della sua vittoria (nella guerra contro i Latini e i loro alleati) e dell’autorità papale.

L'apostrofe di Dante a Virgilio inizia sul tono di un ragionamento dimostrativo, "ma si trasforma via via in una commossa apoteosi di quella Roma ideale, latina e cristiana, che, per divina elezione, doveva essere luce di vita temporale e spirituale al genere umano" (Grabher).

La seconda discesa nell’oltretomba è quella di San Paolo, l’eletto da Dio, il quale vi andò per trarne forza per la diffusione della fede cristiana, senza la quale la salvezza è impossibile.

Vas d'elezione: il vaso della scelta, il recipiente colmo, per decisione divina, di grazia; nel Paradiso ( canto XXI, versi 127-128) Dante chiamerà San Paolo il gran vasello dello Spirito Santo. Il verso allude al rapimento mistico che San Paolo rivela di aver avuto, allorché "se nel suo corpo, o fuori del suo corpo..., lo sa Iddio, fu rapito fino al terzo cielo" (II Corinti XII. 2-4).

Ma qual è il motivo per il quale io devo intraprendere questo viaggio? chi mi autorizza a farlo? Non sono né Enea né San Paolo: né io mi ritengo all’altezza del compito, né qualcun altro me ne ritiene degno.

A più riprese, nella Divina Commedia, Dante manifesta l'alta coscienza che ha di sé e della missione affidatagli; ma qui, in questo severo e tormentato dibattito con se stesso, vediamo quanto sia profonda la sua umiltà dinanzi ai supremi ideali in cui crede. L'Impero e la Chiesa si levano giganteschi davanti a

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lui nelle persone: Enea e di San Paolo, a testimoniargli la provvidenzialità del corso della storia. Di fronte a questi due fulcri della volontà di Dio in terra, il Poeta ha vivo il sentimento della sua umana piccolezza.

Perciò, se, per quel che riguarda questo viaggio, m’induco ad acconsentire, temo che la mia venuta (nell’oltretomba) sia temeraria: sei saggio; sei in grado di comprendere meglio di quanto io non sia in grado di esprimermi.

E nello stato d’animo di chi cessa di volere ciò che ha voluto prima e cambia intento per il sopraggiungere di nuovi pensieri, in modo da scostarsi dal proposito iniziale,

venni a trovarmi io su quel buio pendio (e scesa nel frattempo la notte), perché portai a termine, col pensiero ( prevedendone tutti gli ostacoli e rendendomi conto della sua folle temerarietà), l’impresa cui mi ero accinto con tanta baldanza.

Il paragone, volto a illustrare uno stato d'animo, senza avere l'ampiezza di risonanze della similitudine del naufrago del primo canto, è condotto con "energia nervosa ", cui "conferisce l'evidenza d'una scena drammatica lo scenario interposto, tal mi fec'io in quella oscura costa" (Momigliano).

"Se ho capito bene il tuo discorso" rispose l’ombra di Virgilio, "il tuo animo è fiaccato dalla pusillanimità:

Magnanimo: si contrappone alla viltate del verso 45: "Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanime, per contrario, sempre si tiene meno che non e" (Convivio I, XI, 18).

essa molte volte ostacola l’uomo tanto da allontanarlo da un’impresa onorata, così come una ingannevole apparenza fa volgere indietro una bestia quando si adombra.

Perché tu ti liberi da questo timore, ti esporrò il motivo per cui sono venuto (in tuo aiuto) e ciò che udii quando per la prima volta sentii pietà per il tuo stato.

Mi trovavo (nel limbo) tra coloro che sono in una condizione intermedia tra i beati e i dannati al fuoco eterno, quando fui chiamato da una donna di tale bellezza e soffusa di tanta letizia, da essere indotto a pregarla di comandare.

I critici hanno variamente insistito sugli aspetti che ricollegano l'apparizione di Beatrice a Virgilio in questo canto ai modi in cui la figura di Beatrice è presentata nella Vita Nova, lo scritto giovanile con cui Dante ha celebrato le virtù della donna amata. Per il Sapegno tutta l'intonazione dell'episodio riflette quel "misticismo amoroso" che aveva trovato in Dante il suo più sicuro interprete, nell'ambito della scuola poetica del dolce stil novo. Il Momigliano nota anch'egli la "continuità ideale e artistica" fra la Vita Nova e

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

la Commedia, rilevando in questo episodio maggiore maturità e sicurezza d'impianto rispetto agli scritti giovanili.

La luce dei suoi occhi vinceva quella delle stelle; e cominciò a parlarmi dolcemente e pacatamente, con voce d’angelo:

"O cortese anima mantovana, la cui fama dura ancora fra gli uomini, ed è destinata a durare tanto a lungo quanto durerà il mondo,

colui che è amato da me, ma non dalla sorte, ha trovato tali ostacoli sul deserto pendio del colle, che si è già volto indietro per la paura;

il mio timore è che egli si sia a tal punto nuovamente perduto (nel buio del peccato), da rendere ormai tardivo (e quindi inutile) il mio aiuto, per quel che di lui mi è stato riferito in cielo.

Alcuni credono che con l'espressione l'amico mio Beatrice intenda accennare all'amore di Dante per lei, anziché a quello suo per Dante. Questa interpretazione concorderebbe con quella di un antico commentatore che insiste sul senso allegorico: ''molti amano Beatrice, cioè la dottrina delle cose divine, non per lei né per aver quella, ma per acquistarne fama e reputazione mondana e ricchezze e dignità, le quali cose son beni di fortuna" (Buti).

Va dunque, e aiutalo sia con la tua eloquenza sia con tutto ciò che altrimenti occorra per la sua salvezza, in modo da rendermi contenta.

Io, che ti invito ad andare, sono Beatrice; vengo dal cielo, dove desidero tornare; sono stata spinta (fin qui) da amore e amore ha ispirato le mie parole.

Il termine "amore", ha qui una grande complessità di significati. "È' l'amore di Beatrice per il suo fedele; ma anche l'Amore inteso nel suo valore assoluto, cioè Dio, da cui deriva ogni impulso caritatevole." ( Sapegno )

Quando sarò davanti a Dio, spesso Gli parlerò degnamente di te." Allora tacque, e poi io cominciai:

"O signora di virtù, per la quale virtù soltanto il genere umano è superiore ad ogni altro essere contenuto dal cielo (quello della Luna) che compie (nel suo moto di rotazione intorno alla terra) i giri più piccoli,

Di quel ciel c'ha minor li cerchi sui: secondo il sistema tolemaico, nove cieli concentrici girano intorno alla

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

terra, che viene quindi a trovarsi come contenuta in essi. Il più basso e quindi il più piccolo (e il più vicino alla terra) è il cielo della Luna.

il tuo comando mi è così gradito, che, se anche avessi iniziato ad obbedirti, mi sembrerebbe pur sempre d’aver fatto tardi; più non occorre che tu mi manifesti: il tuo volere.

Dimmi piuttosto il motivo per cui non temi di scendere qua in basso, nel centro dell’universo ( occupato appunto dall’inferno), dal luogo sconfinato (I’Empireo), dove bruci dal desiderio di ritornare."

"Poiché vuoi penetrare tanto in profondità con la tua mente, ti dirò in breve perché non temo di scendere nell’inferno" mi rispose.

Conviene temere soltanto quelle cose che possono arrecare danno; le altre no, poiché non sono temibili.

Il Boccaccio, riportandosi a un passo dell'Etica di Aristotile, afferma: "il non temer le cose che possono nuocere... è atto di bestiale e di temerario uomo; e così temere quelle che nuocere non possono... è atto di vilissimo uomo..." Questa così ovvia risposta di Beatrice - sarebbe sufficiente alla domanda di Virgilio. "Ma Beatrice ha compreso che Virgilio desidera sapere la ragione personale, intima, della improvvisa e affatto straordinaria discesa di lei, non già di udire una sentenza filosofica." (Torraca)

Dio mi creò, per sua grazia,tale che la vostra miseria di peccatori non mi tocca, né possono attaccarmi le fiamme infernali.

In queste parole di Beatrice "non c'è disprezzo per la miseria e l'incendio... che travaglia i dannati, ma il senso di una pace, di una felicità sicura, di un distacco ineffabile dal mondo e dalla materia... e nello stesso tempo il candore della creatura celestiale, trionfante con tanta semplicità e umiltà (Chimenz).

Nel cielo una donna gentile (la Vergine) ha compassione per queste difficoltà verso le quali io ti mando (a liberare Dante), tanto da mitigare la severità della giustizia divina.

Questa chiamò Lucia e disse: "Il tuo fedele ha ora bisogno di te, ed io a te lo raccomando".

Lucia: martire siracusana, protettrice della vista, simboleggia la Grazia illuminante; forse Dante le fu particolarmente devoto in seguito ad una malattia degli occhi di cui ebbe a soffrire (Convivio III, IX, 15-16).

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Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse, e venne dove io sedevo insieme all’antica Rachele.

Rachele: personaggio dell'Antico Testamento, nel Medioevo simboleggia la vita contemplativa ed è perciò posta accanto a Beatrice, simbolo della teologia.

Parlò: - Beatrice, vera gloria di Dio (loda: lode, in quanto la sua perfezione torna a gloria di chi la creò), perché non aiuti chi tanto ti amò, colui che, per amor tuo, seppe elevarsi sulla turba dei mediocri?

Beatrice, loda di Dio vera: il senso di questa espressione così concisa si chiarisce attraverso una pagina della Vita Nova, ove è scritto che la gente, dopo aver visto Beatrice, ringrazia il Signore per la perfezione delle sue creature: "Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilmente sae adoperare!" (XXVI). Ch'uscì per te della volgare schiera: Dante è consapevole di essere riuscito, per altezza di poesia, per coerenza di vita morale, per sicurezza di dottrina. a sollevarsi al disopra dei suoi contemporanei. Questo verso può riferirsi "sia al bello stile che ha fatto onore a Dante cantando di Beatrice, sia alla superiorità spirituale sopra la gente volgare, raggiunta dal Poeta in virtù del suo amore" (Chimenz).

non odi il suo pianto angoscioso? non vedi il pericolo della dannazione che lo assale sul fiume (del peccato), sul quale il mare non può vantare la sua forza?

La fiumana ove 'l mar non ha vanto: nella fiumana dobbiamo vedere lo scorrere della vita dell'uomo nel peccato e nel male. Una interpretazione diversa è stata avanzata dal Pagliaro, il quale, accertato che ove può avere soltanto il significato di "nel luogo in cui", ricostruisce così il senso della metafora: "Dante è in pericolo come colui che si trova su una fiumana, nel punto in cui questa si incontra col mare, e il mare non riesce a vincerla". In questa interpretazione, l'immagine, circoscritta al senso letterale, non richiede l'aggiunta di un sovrassenso.

Sulla terra non ci furono mai persone così pronte a perseguire il loro utile e a evitare ciò che potesse danneggiarle, come fui pronta io, dopo che tali parole mi furono dette,

nello scendere fin quaggiù dal mio seggio di beata, confidando nella tua nobile eloquenza, che onora sia te sia quelli che l’hanno intesa (traendone profitto spirituale)."

Dopo avermi dette queste cose, volse verso di me gli occhi lucidi di lagrime; e per questo mi rese più sollecito a venire (dove tu eri);

La figura di Beatrice in lagrime suggerisce al Boccaccio questo commento: "atto d'amante e massimamente di donna; le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale desiderino, incontanente

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lagrimano, mostrando in quello il desiderio loro essere ardentissimo". Beatrice ha qui un contorno luminoso e celestiale, senza tuttavia nulla perdere della trepidazione di una donna che ama. C'è in tutto il suo discorso "una linea pura, la semplicità di una sfera remota dal mondo" (Momigliano). Nel suo saggio su Dante il Croce sembra voler suggerire una ideale collocazione di Beatrice quale appare in questo "prologo in cielo", accanto alle grandi eroine della letteratura mondiale, allorché osserva: "Beatrice è ora veramente l'eterno femminile, la pietà, la sollecitudine quasi materna, con alcunché di molle e di amoroso, una santa, e pur sempre una donna bella, che in qualche modo gli appartenne e fu di lui solo, di lui suo cantore, che la celebrò viva e morta".

e come Beatrice volle venni da te; ti portai via dal cospetto della lupa, che t’aveva impedito di raggiungere per la via più breve la cima del colle.

Che hai dunque? perché, perché indugi ? perché accogli in cuore tanta pusillanimità? perché non hai coraggio e schietta fiducia in te stesso?

dal momento che tre beate tanto potenti perorano la tua causa davanti al tribunale di Dio, e che le mie parole promettono (al tuo viaggio) un esito così felice? "

Come i gracili fiori, prostrati a terra con le corolle serrate per difendersi dal freddo della notte, appena li rischiara all’alba il primo raggio di sole si ergono sui loro steli con le corolle tutte aperte,

così mi ripresi dal mio precedente stato di abbattimento, e tanto coraggio entrò nel mio animo, che cominciai (a parlare) libero da ogni timore:

Quali i fioretti...: la similitudine riflette, attraverso un particolare aspetto della natura all'alba. il progressivo ritorno della fiducia (buono ardire) nel cuore di Dante. La preziosa sostanza dell'immagine, il delicato atteggiarsi dei fioretti, il senso di fragilità che c'è nel loro risveglio, propongono un confronto tra l'arte di Dante e la grande tradizione figurativa del Trecento. C'è in questa similitudine qualcosa che attesta... una malattia solo da poco decisamente superata: Dante puo ben paragonarsi a un convalescente. Guardate quei fiori: sono gracili, teneri fiori, sono soltanto fioretti: e il primo sole, che i color vari suscita dovunque si riposa, non fa che imbiancarli solamente, quasi non fossero ben capaci ancora di sopportare l'intensità dei loro colori; torna lo slancio vitale e si manifesta in quell'aprirsi, dilatarsi tutta, avidamente, della corolla, come a inebriarsi della luce del nuovo giorno, quasi di una nuova vita... (Chimenz)

"Oh misericordiosa colei che mi venne in aiuto! e te generoso, che non hai tardato a prestare obbedienza alle veritiere parole che ti indirizzo!

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Col tuo ragionamento mi hai a tal punto predisposto l’animo con desiderio al viaggio, che sono tornato ad avere l’intenzione che avevo in origine.

Incamminati dunque, poiché un’unica volontà ci governa: siimi guida, padrone, maestro. " Cosi parlai; ed essendosi egli avviato,

entrai (dietro a lui) nell’arduo e orrido cammino.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO III

«Attraverso me si entra nella città dolorosa, nel dolore che mai avrà termine, tra le anime dannate. Ossessiva e agghiacciante si ripete nella prima terzina "la stessa idea, come presente immobile, eterno, ripetizione di se stesso: dolore e sempre dolore, quel luogo e sempre quel luogo" (De Sanctis) . Dio, mio eccelso creatore, fu mosso dalla giustizia: sono opera del Padre (la divina potestate), del Figlio (la somma sapienza) e dello Spirito Santo ('I primo amore). Prima di me non fu creata nessuna cosa se non eterna, e io durerò fino alla fine dei tempi. Abbandonate, entrando, ogni speranza ». Se non etterne: le cose create per essere eterne, prima dell'inferno, sono i cieli, gli angeli, la materia ancora informe. Vidi questa sentenza dal minaccioso significato. incisa in cima a una porta; per cui mi rivolsi a Virgilio: « Maestro, ciò che essa dice per me è terribile ». Ed egli, da persona perspicace qual era: « A questo punto occorre abbandonare ogni esitazione; ogni forma di pusillanimità deve ora sparire. Siamo giunti dove ti dissi che avresti veduto le anime doloranti che hanno perduto la speranza di vedere Dio ». Il ben dell'intelletto: secondo Aristotile, il vero e, quindi, la verità suprema, Dio. Ivi echeggiavano nell'aria senza luce gemiti, pianti e acuti lamenti, tanto che (udendoli) per la prima volta ne piansi. Differenti lingue, orribili pronunce, espressioni di dolore, esclamazioni di rabbia, grida acute e soffocate, miste al percuotersi delle mani l'una contro l'altra creavano nell'aria buia, priva di tempo, una confusione eternamente vorticante, così come (rapida vortica) la sabbia quando soffia un vento turbinoso. Il Mazzoni ha ravvisato una suggestiva rispondenza tra il contenuto di questa similitudine e la sua struttura sintattica: "La rena si avvolge a spirale crescendo rapida dall'inerzia al moto culminante, per

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

quindi ricadere dal moto culminante all'inerzia: non altrimenti troviamo nella descrizione del Poeta un salire dal meno al più, e un ridiscendere dal più al meno". E io che avevo la testa attanagliata dall'orrore, esclamai: "Maestro, che significano queste grida? che gente è questa, che appare così sopraffatta dal dolore ?" E Virgilio: "Questa infelice condizione è propria delle anime spregevolì di quelli che vissero senza meritare né biasimo né lode. Gli ignavi non possono, a rigore, essere inclusi fra i dannati, non avendo essi trasgredito in modo esplicito la legge morale. Questo è il motivo per cui Dante li colloca al di qua del fiume Acheronte, in quel vestibolo dell'inferno che l'autore dell'Eneide aveva assegnato agli insepolti. Ma la concezione eroica ed intransigente che il Poeta ha del nostro compito in terra, conferisce alla sua parola vigore eccezionale nell'atto in cui li addita alla nostra riprovazione. Così ha osservato il Croce: ."la vera loro punizione sono i versi che li fustigano in eterno: questi sciaurati, che mai non fur vivi...; che visser senza infamia e senza lodo...; a Dio spiacenti ed a nimici sui...: che fece per viltate il gran rifiuto...; non ragioniam di lor, ma guarda e passa". Il disprezzo di Dante per coloro che per viltà si astennero dall'agire, disprezzo che il Poeta manifesta con estrema violenza, "è correlativo alla simpatia, in lui così viva sempre, per i magnanimi, per coloro cioè che, in bene o in male, seppero imprimere una potente impronta nella storia del loro tempo" (Sapegno). Sono mescolate alla malvagia schiera degli angeli che (in occasione della rivolta di Lucifero) non si ribellarono né rimasero fedeli a Dio, ma fecero parte a sé. Perché il loro splendore non ne sia offuscato, i cieli li tengono lontani da sé, né in sé li accoglie la voragine infernale, perché i colpevoli (gli angeli che parteggiarono per Lucifero) avrebbero di che vantarsi rispetto ad essi " . Ed io: "Maestro, cosa riesce loro così insopportabile, da farli prorompere in così disperati lamenti?" Rispose: "Te lo dirò in pochissime parole. Costoro non possono sperare in un completo annullamento del loro essere (cioè nella morte dell'anima) e (d'altra parte) la loro vita senza scopo è tanto miserabile, da renderli invidiosi di qualsiasi altro destino. Il mondo non lascia sussistere alcun ricordo di loro; Dio non li degna né della sua pietà né di una sentenza di condanna non parliamo di loro, ma osserva e va oltre ". E io, guardando con maggiore attenzione, scorsi un vessillo che girava correndo così velocemente, da sembrare incapace di una qualsiasi forma di quiete; e dietro ad esso avanzava una tale moltitudine, quale mai avrei immaginato fosse stata annientata dalla

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

morte. Le pene dell'inferno e del purgatorio riflettono, nella Divina Commedia, la razionalità della giustizia divina. Tra esse e il peccato che colpiscono c'è sempre una stretta relazione, il cosiddetto contrappasso: questa punizione in alcuni casi si manifesta per analogia, in altri, invece, per contrapposizione, come qui, per gli ignavi. "... indegno di riposo è chi non milita, chi non arrischia, chi non combatte. Dopo la vittoria ci si riposa, e dopo la sconfitta; o anche dopo il cammino: e costoro non vollero vincere, temerono di perdere, non si mossero mai. Vadano dunque eternamente, camminando rapidi, senza saper neppure quale insegna sia quella che li precede; e poi che per nulla mai si scaldarono, prorompano ora in accenti d'ira; poi che per nulla mai gemerono, versino ora lamenti e lagrime; poi che per nulla mai rischiarono una goccia di sangue, stillino sangue. Lagrime e sangue, che furono da loro negati al servigio delle cause umane, e di quella di Dio, scendano a impinguare i vermi che brulicano ai loro piedi con tormentoso fastidio" (Mazzoni). L'infinita moltitudine degli ignavi riecheggia, qui, un passo della Sacra Scrittura: "Degli stolti il numero è infinito" (Ecclesiaste 1, 15). Scrive il Momigliano: "il mondo, dunque, secondo Dante è fatto soprattutto di ignavi, di una folla amorfa e grigia, su cui emergono quelli che vivono con infamia o con lode". Dopo aver ravvisato qualcuno nella folla, vidi e riconobbi l'anima di colui che per pusillanimità rifiutò il trono papale (fece per viltà il gran rifiuto). L'eremita Pier da Morrone, eletto papa nel 1294 col nome di Celestino V, dopo cinque mesi rinunciò al pontificato. Gli succedette, sulla cattedra di Pietro, Bonifacio VIII, il quale, nel conflitto divampato a Firenze fra le due fazioni dei Guelfi, i Bianchi e i Neri, favorì questi ultimi. In seguito al prevalere dei Neri, Dante, che era andato a Roma in missione ufficiale presso il papa, non poté più tornare nella sua città (1302). Compresi allora d'un tratto e fui sicuro che questa era la turba dei vili, sgraditi a Dio non meno che ai suoi nemici (i diavoli). Questi miserabili, che vissero come se non fossero vivi (in quanto non seppero affermare la loro personalità), erano nudi, continuamente punti da mosconi e da vespe che si trovavano lì. Esse rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lagrime, era succhiato ai loro piedi da vermi nauseabondi. E dopo aver spinto il mio sguardo più in là, vidi sulla riva di un gran fiume una folla; perciò interpellai Virgilio: "Maestro, consentimi di apprendere chi sono queste genti, e quale consuetudine le fa apparire così ansiose di passare sull'altra riva, come intravedo attraverso la debole luce".

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Osserva il Momigliano, a proposito della scena che qui inizia: "Il tema direttivo della seconda parte del canto è questa lividità sconfinata e minacciosa, dentro cui s'inquadra così bene l'immagine autunnale delle anime che si staccano dalla riva come foglie morte dall'albero. Tutta la vita della scena spira dalla livida palude, da questa tinta, da questo tragico barlume dell'orizzonte, che Dante accenna solo e che pure si stende dovunque come il colore che evapora naturalmente da quell'affollarsi di dannati che hanno lasciato ogni speranza. Perfino il terremoto che chiude il canto, è in armonia con quella tinta di corruccio che ne domina lo sfondo". Virgilio mi rispose: « Le cose ti saranno note (conte: conosciute) quando fermeremo i nostri passi presso il doloroso fiume Acheronte ». Allora, con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che il mio discorso gli riuscisse fastidioso, cessai di parlare finché arrivammo al fiume. Questo, come altri atteggiamenti di umiltà di Dante nei confronti del maestro, rischia di apparire eccessivo rispetto al motivo che lo ha determinato, se lo si limita al suo significato più ovvio. In realtà, Virgilio, nelle prime due cantiche, non è un personaggio al pari degli altri, come d'altronde non è nemmeno solo un'allegoria, un semplice simbolo. Per capire il rapporto che si stabilisce nel corso del poema tra Dante e Virgilio, occorre tener presente che in quest'ultimo si incarnano, per Dante, le più eccelse qualità della poesia, quasi un traguardo di perfezione nella cui contemplazione egli si perde. Non si tratta di un sovrassenso meccanicamente imposto alla lettera (come potrebbe essere la ragione, o la filosofia, o - sul piano politico - l'idea imperiale, cui di volta in volta la figura di Virgilio è stata ricondotta, con scrupolo forse eccessivo, dagli interpreti), ma di un senso più vasto del significato letterale, che da quest'ultimo continuamente trabocca. La trascendenza come poesia: ecco quello che il personaggio di Virgilio incarna agli occhi di Dante. Il poeta latino - avverte il Montanari "è la persona viva che ha rivelato a Dante il più alto valore della poesia: di una poesia che sia capace di assorbire nella propria forma non solo la ragione umana che si esercita sulle cose visibili, ma l'aspirazione dell'uomo a varcare le soglie di quel cammino invisibile senza del quale l'uomo non può raggiungere il suo ultimo destino". Solo un sentimento religioso può dettare parole come quelle che la reverenza per il maestro ha ispirato a Dante. E (dopo essere qui giunti) ecco dirigersi alla nostra volta, su un'imbarcazione, un vecchio, canuto (bianco per antico pelo), che gridava: « Sventura a voi, anime malvage ! Non illudetevi di poter più vedere il cielo: vengo per traghettarvi sull'altra riva nel buio eterno, nel fuoco e nel ghiaccio. E tu che, ancora in vita, ti trovi con loro, allontanati dalla turba dei già morti». Ma dopo aver visto che non me n'andavo, continuò: « Attraverso vie e luoghi di imbarco diversi giungerai alla riva, che non è questa, da dove sarai traghettato (per passare): una barca più leggiera ti dovrà trasportare ».

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Caronte è il primo dei custodi infernali che i due poeti incontrano nel loro viaggio. La sua figura è desunta, come altre della prima cantica, dal libro VI dell'Eneide, in cui è narrata la discesa di Enea nell'oltretomba. Ma su qualunque argomento Dante si soffermi, sia esso tratto dall'osservazione diretta della realtà o invece rivissuto sulle pagine degli autori a lui cari, gli imprime i tratti della sua poesia: essenzialità, concisione, vigore drammatico ed espressivo. A proposito dei mostri passati dalla mitologia classica nell'inferno dantesco, il Momigliano osserva: "hanno tutti un'imponenza che, fusa con l'aspetto minaccioso e mostruoso, tradisce in questi guardiani sotterranei la espressione d'una potenza superiore intesa a flagellare il regno del peccato. Tutti hanno una gagliarda, quasi tutti una monumentale, violenza di atteggiamenti e di movimenti, e condensano in sé la disperata vitalità che è il carattere dominante dell'Inferno". Caronte sa che Dante è destinato a salvarsi: l'anima del Poeta, dopo la morte del suo corpo, sarà tra quelle che si raccoglieranno alla foce del Tevere, per essere trasportate in purgatorio da un vasello snelletto e leggiero (Purgatorio II, 41) , ossia dal più lieve legno cui accenna Caronte. E Virgilio gli disse: « Non te n'avere a male, o Caronte: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole (è la decisione divina presa nel cielo Empireo, dove tutto ciò che è voluto può avere immediata attuazione), e non chiedere altro ». Vuolsi così colà dove si puote: Dante non nomina mai Dio parlando con i custodi infernali, ma la perifrasi è esplicita nell'indicare Colui che ha decretato il suo viaggio nell'al di là. Un motivo più intimamente poetico può tuttavia rendere ragione di questa formula, che verrà ripetuta tale quale o con lievi modifiche in occasione di altri incontri con i guardiani infernali. "Se infatti Virgilio avesse risposto semplicemente che questo era voluto da Dio, Caronte non sarebbe stato colpito come da quel tortuoso intrico di parole, che lo circuiscono tremende e misteriose, incidendo, ossessionanti, la volontà e la potenza del Cielo..." (Grabher) Il Sapegno scorge invece in questo procedimento "un certo schematismo e una certa meccanicità d'invenzione", destinati a sparire col progressivo maturare, in senso drammatico e mosso, dell'arte del Poeta. Da questo istante si calmarono le gote ricoperte di fluente barba del traghettatore del buio fiume (livida palude: livido è, per antonomasia, il colore della morte), che aveva intorno agli occhi cerchi di fuoco. Quinci fuor quete le lanose gote: Caronte ha cessato di parlare. Dante non si sofferma. tanto sull'aspetto auditivo di questo silenzio, quanto su quello visivo. "Infatti le parole di Caronte, nella loro violenza, specialmente iniziale (guai a voi ecc.) hanno scomposto la plastica di quel volto, facendo sobbalzare l'antica e copiosa canizie. Appena Caronte tace; ciò che più colpisce Dante, fisso con stupore e terrore nel volto del vecchio, è il ricomporsi del volto stesso, nella sua compostezza plastica. Ecco perché il Poeta dice: fuor quete le lanose gote; e lanose, richiamando il vello degli animali, aggiunge qualcosa di bestiale a quella che, nel Caronte virgiliano, è solo una « abbondante, incolta canizie »." (Grabher)

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Ma quelle anime, che erano affrante e inermi, trascolorarono e batterono i denti, non appena ebbero udite le crudeli parole: maledicevano Dio e i loro genitori, il genere umano e il luogo e il tempo (in cui erano state generate) e l'origine della loro stirpe e della loro nascita. La bestemmia è, tra le manifestazioni dei dannati, forse la più tipica. Privati della possibilità del pentimento, all'ingresso dell'inferno, essi sfogano, in questa incalzante e grandiosa maledizione, che ha per oggetto il creato nei suoi principii di vita e di generazione (Dio e lor parenti... e 'l seme), la loro rabbia cieca e impotente. Ma la bestemmia solo apparentemente può sembrare in loro una manifestazione di rivolta; in realtà essi, come automi, riflettono una volontà che li trascende, glorificano, sia pure negativamente, Colui che le loro imprecazioni invano bersagliano. "Il dannato stesso è parola di Dio, esercita un ministerium, è inviato al vivente per ammonizione salvifica." (Montanari) Qui, sulla riva dell'Acheronte, i reprobi sono impazienti di varcare la livida palude. La paura che incutono in essi i prossimi tormenti infernali è vinta dal desiderio di eseguire i comandi di Chi giustamente li ha dannati, e perciò ogni bestemmia, pronunciata da loro, assume tragici riflessi. Poi si adunarono tutte insieme, piangendo dirottamente, sulla riva del fiume del male che aspetta tutti coloro che non temono Dio. II demonio Caronte, con occhi fiammeggianti, facendo loro segni, le accoglie tutte (nella barca); percuote col remo chiunque tarda (ad obbedirgli). Caron dimonio, con occhi di bragia: il virgiliano "stant lumina flamma " (Eneide VI, 300) - precedentemente riprodotto da Dante (che 'ntorno allí occhi avea di fiamme rote) "con una di quelle immagini stilizzate, quasi di pittura pregiottesca, che erano dello stile lirico" (Sapegno) - viene qui interpretato nel senso di una più intensa espressività e di un maggiore realismo: con occhi di bragia. Domina su tutta la scena il muto cenno del nocchiero, che basta da solo a far salire le anime nella barca. Come in autunno le foglie si staccano l'una dopo l'altra (dal ramo), finché questo vede sparsa a terra tutta la sua veste frondosa, allo stesso modo la corrotta progenie di Adamo si precipita da quella riva, anima dopo anima, a un cenno (di Caronte), come il falco (auge!) al richiamo (del falconiere). La similitudine delle foglie che si staccano dall'albero è già in Virgilio (Eneide VI, 305-312), a significare la sterminata turba dei defunti. Dante la ricrea conferendole movimento drammatico e un che di ineluttabile (come auge! per suo ríchiarno) che sottolinea la perdita, nei trapassati, di qualsiasi forma di libero arbitrio. La similitudine in Dante, pur nella sua immediatezza e nel suo realismo, si carica sempre

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di accenti morali. Avanzano così sull'acqua buia, e prima che questa moltitudine sia sbarcata sulla riva opposta, un'altra già s'accalca nel punto d'imbarco. « Figlio mio », spiegò cortesemente Virgilio, « tutti coloro che muoiono in stato di peccato (nell'ira di Dio) si radunano qui (venendo) da ogni luogo della terra: e sono (spiritualmente) disposti a varcare il fiume, poiché la giustizia di Dio li stimola, in modo che il timore (delle pene) si converte in loro nel desiderio (di affrontarle). Di qui non passano mai anime virtuose: e perciò, se Caronte si lamenta della tua presenza, puoi ben comprendere ormai quale significato hanno le sue parole.» Appena Virgilio ebbe finito di parlare, la terra buia tremò con tanta violenza, che il ricordo (la mente: la memoria) dello spavento provato m'inonda ancora di sudore. Dalla terra bagnata dalle lagrime dei dannati uscì un vento, che si convertì in un lampo sanguigno il quale mi fece perdere i sensi; Nel Medioevo si credeva che i terremoti fossero provocati da masse aeriformi compresse nelle viscere della terra. L'origine dei lampi era attribuita al subitaneo erompere di vapori. e caddi come chi cede al sonno.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO IV

Un cupo tuono interruppe il profondo sonno nella mia testa, così ripresi coscienza come una persona che è destata violentemente;

Un greve truono: quasi tutti gli interpreti moderni respingono l'identificazione del greve truono con il truono... d'infiniti guai del verso 9. Mentre il primo, per svegliare Dante, deve avere un carattere di subitaneità, il secondo è continuo, ininterrotto. "Inoltre, il prodigio atmosferico del lampo, che provoca l'immediato addormentamento di Dante, richiede - allegoricamente e poeticamente - un altro prodigio, laddove il preteso fragore infernale sarebbe uno stato di fatto normale, permanente e invariabile. " ( Chimenz ) Gli antichi hanno visto, tanto nel lampo che addormenta il Poeta alla fine del canto precedente quanto nel truono che qui lo ridesta, due manifestazioni della Grazia (in particolare della Grazia illuminante, in relazione al bagliore improvviso che rischiara le tenebre infernali: balenò una luce vermiglia: Inferno canto III, 133-134), la quale dapprima assopisce la concupiscenza del Poeta e poi lo risveglia nella condizione di giudicare rettamente i propri peccati.

allora, levatomi in piedi, volsi intorno gli occhi riposati, e guardai attentamente per rendermi conto del luogo dove ero.

Il fatto è che mi trovai sul margine della profonda voragine del dolore, che in sé contiene il fragore di innumerevoli lamenti,

Vero è che: l'espressione è meno prosaica di quanto a una prima lettura può apparire; infatti essa "conserva in parte l'originario valore di attestazione solenne, e sta spesso a sottolineare la stranezza o l'importanza della verità rappresentata o asserita" (Sapegno). Che truono accoglie d'infiniti guai: non esprime una reale sensazione del Poeta in quel momento, ma è una perifrasi per indicare l'inferno, in una sua qualità permanente. Le grida dei dannati, tuttavia, cominceranno a farsi sentire soltanto a partire dal cerchio dei lussuriosi (ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire; Inferno canto V, 25-26).

(La voragine) era buia e profonda e fumosa tanto che, per quanto tentassi di penetrarvi fino in fondo con lo sguardo, non riuscivo a distinguervi nulla.

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"Ora scendiamo quaggiù nel mondo delle tenebre" cominciò a dirmi Virgilio, che era impallidito, "io andrò per primo, e tu mi seguirai. "

Ed io, che avevo notato il suo pallore, dissi: "Con quale animo potrò seguirti, se tu, che sempre mi infondi coraggio allorché sono preso dal timore, hai paura? "

Ed egli: "La tragica sorte dei dannati diffonde sul mio volto quel pallore che tu interpreti come un segno di paura.

Muoviamoci, poiché il lungo cammino (che dobbiamo percorrere) ci costringe a non perdere tempo". Dicendo questo si avviò e mi fece entrare nel primo cerchio che chiude tutt’intorno il baratro.

Virgilio manifesta profonda pietà per quei dannati di cui egli si trova a dividere le sorti. Il pensiero angoscioso delle pene infernali gli fa troncare il discorso: Andiam, ché la via lunga ne sospigne. Il poeta latino ha perduto la sicurezza e la baldanza dimostrate nella risposta a Caronte e negli incitamenti a Dante del canto precedente. Un'ombra di tristezza vela le sue parole.

Qui, per quel che si poteva arguire dall’udito, non vi era altra manifestazione di dolore fuorché sospiri, che facevano fremere l’atmosfera infernale.

Sospiri, che l'aura etterna facevan tremare: questi " sospiri " si contrappongono idealmente all'incomposto bestemmiare delle anime del canto precedente, e individuano una nuova tonalità: elegiaca, non più tragica.

Ciò avveniva a causa del dolore non provocato da tormenti corporali che colpiva schiere, numerose e folte, di bambini e di donne e di uomini.

D'infanti e di femmine e di viri: oltre ai bambini non battezzati, si trovano qui le anime di coloro che conobbero e praticarono le quattro virtù cardinali, senza aver avuto conoscenza delle tre virtù teologali; l'unica loro colpa è il peccato originale, retaggio comune del genere umano. San Tommaso sostiene che il peccato originale, ove non si accompagni ad altre manifestazioni peccaminose dovute al libero arbitrio, non riceve nell'al di là una punizione in senso proprio, ma soltanto il "danno" derivante dalla privazione della visione di Dio. Gli adulti virtuosi, morti prima della venuta di Cristo o senza che ne siano giunti a conoscenza, vengono definiti generalmente dai teologi ''infedeli negativi". in particolare San Tommaso sostiene che di per sé l'infedeltà negativa non è peccato, ma nega che, ove non soccorra la fede, il peccato originale possa sussistere da solo, senza indurre l'adulto in altri peccati. Soltanto i bambini non battezzati e i patriarchi dell'Antico Testamento sarebbero nella condizione di non avere in sé altro peccato fuorché quello originale. Dante, su questo punto, si allontana dalla tradizione più rigorosa e autorevole,

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per accogliere nel suo limbo anche gli infedeli negativi adulti, dell'antichità pagana e dello stesso Medioevo, seguaci di altre religioni.

l buon maestro mi disse: "Non mi chiedi che sorta di anime sono queste che si offrono al tuo sguardo? Voglio dunque che tu sappia, prima di procedere oltre,

che non hanno commesso peccato; e se hanno meriti, questi non bastano (a redimerli), perché furono privi del battesimo, che è la parte essenziale della fede in cui tu credi.

E se vissero prima dell’avvento del Cristianesimo, non adorarono nel modo dovuto Dio (come invece avevano fatto i patriarchi dell’Antico Testamento): e io stesso sono uno di loro.

Per tale mancanza, non per altra colpa, siamo esclusi dalla beatitudine, e siamo tormentati in questo soltanto, che viviamo nel desiderio (di conseguire la visione beatifica di Dio) destinato a restare inappagato".

I chiarimenti che dà qui Virgilio, prevenendo la domanda del suo discepolo e quasi intuendone lo smarrimento hanno uno sviluppo nobilmente didascalico e si concludono in un verso che sintetizza la condizione degli spiriti privati della visione di Dio. Questo verso, tuttavia, pur nella sua concisione, non ha nulla della tensione drammatica che vibra in altri endecasillabi della Commedia, nei quali la compattezza della forma pare venire sedata dall'urgenza del contenuto. Qui lo svolgimento logico è chiaro, riposato, e il tono sentimentale che ad esso corrisponde è anch'esso sereno, disteso. Se nelle parole di Virgilio c'è nostalgia per il Bene Supremo, dal quale è destinato ad essere per sempre lontano, questa nostalgia non ha nulla di drammatico e si inquadra armoniosamente in quello che deve apparire anzitutto come il discorso di un "saggio". Solo se si considera questo verso a sé, senza tener conto di quelli che precedono, si può vedere in esso "un verso disperato". E' stato detto che le parole di Virgilio si smorzano, nella definizione dello stato delle anime nel limbo, come in un sospiro. "Ma, come la tristezza di quelle anime è in certo modo placata dalla consolante memoria di una vita terrena vissuta senza peccato e dal confronto con i terribili martiri infernali di cui sono esenti, così quel verso, nel discorso e nel punto del discorso in cui si trova, non esprime più che una dolente, ma composta e consapevole rassegnazione." (Chimenz)

Provai un grande dolore nell’udire queste parole, poiché seppi che alti ingegni (gente di molto valore) si trovavano in una condizione intermedia fra la disperazione dei dannati e la felicità dei beati in quell’orlo estremo (della voragine infernale).

La terzina rende esplicito quello che è il sentimento animatore di tutto il canto. Più ancora che di pietà, si tratta di "perplessità della ragione, che al tempo stesso avverte la sua grandezza e la sua insufficienza,

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allorché non l'assista il lume della Grazia, e alla fine s'arrende, sebbene riluttante, al mistero del dogma" ( Sapegno) . Il dolore del Poeta per la sorte degli " spiriti magni ", qui appena accennato, non è destinato ad assumere neppure in seguito rilievo drammatico. Anzi, nella scena dell'incontro con i poeti, Dante sarà tutto preso da un sentimento opposto e soverchiante: la gioia di potersi trovare in presenza dei grandi che hanno incarnato un ideale di civiltà, da lui giudicato non più raggiungibile.

Desiderando avere da lui la conferma (per volere esser certo) delle verità di quella fede che è al di sopra di qualsiasi dubbio, gli chiesi: "Dimmi, maestro, dimmi, signore,

uscì mai di qui alcuno, o per merito proprio o per merito altrui, per assurgere poi alla beatitudine?"

Dimmi. maestro mio, dimmi, segnore: modo particolarmente affettuoso in cui c'è come un'eco del gran duol della terzina precedente. "La compassione dello stato di Virgilio sentita da Dante rende ragione di questo doppio titolo, ch'è una lode ' delicata e pietosa." (Tommaseo)

Ed egli, che comprese il significato nascosto delle mie parole, rispose: "Mi trovavo da poco in questa condizione, quando vidi scendere quaggiù un potente (Cristo), circonfuso dello splendore della sua divinità.

Un possente, con segno di vittoria coronato: il Redentore non è mai nominato nell'Inferno, ma la perifrasi, più che trovare la sua spiegazione in un rispetto che resta estraneo alla poesia di questo passo, mira a rendere, velandolo di mistero, un carattere essenziale della divinità: l'onnipotenza, la serenità con cui essa esercita il suo impero anche là dove ostacoli insormontabili si oppongono all'intervento degli uomini. Quanto al segno di vittoria può essere o interpretato in senso generico, come fa ad esempio il Boccaccio ("non mi ricorda d'avere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo, altro che lo splendore della sua divinità" ), oppure riferito alle rappresentazioni di Cristo trionfante nell'arte figurativa medievale, in cui appare incoronato dell'aureola crocifera", ossia dell'aureola traversata dal segno della croce. Altri ancora ricollegano questo verso a una frase del Vangelo apocrifo di Nicodemo ("e il Signore pose la sua croce, che è segno di vittoria, in mezzo all'inferno" ), e alla iconografia che ad essa si ispira: il Figlio di Dio, visto come "re forte", come un possente... coronato, calpesta le porte schiodate e abbattute dell'inferno tenendo in mano la sua croce.

Portò via di qui l’anima di Adamo, il capostipite del genere umano (primo parente: primo genitore), quelle del figlio di lui Abele e di Noè, quella del legislatore Mosè, sempre sottomesso ai voleri di Dio;

e inoltre portò via il patriarca Abramo e il re Davide, Giacobbe (Israèl) col padre Isacco e i suoi dodici figli e la moglie Rachele, per ottenere la mano della quale tanto si adoperò;

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e molti altri ancora, e li rese beati; e voglio che tu sappia che, prima di loro, nessun altro era salito in paradiso" .

L'elenco dei protagonisti della storia del popolo eletto, resi beati, inizia col capostipite Adamo per proseguire col suo secondogenito, col patriarca scampato al diluvio universale e a cui si deve il ripopolamento della terra, col grande condottiero e legislatore, che sul Sinai ebbe da Dio la rivelazione dei principii ai quali il suo popolo avrebbe dovuto attenersi per trionfare sugli avversari e raggiungere la Terra Promessa. Esso continua con la figura del patriarca che non esitò, per obbedire al Signore, a preparare il sacrificio del figlio Isacco, del re guerriero e poeta, autore dei Salmi, che, altrove, nella Divina Commedia è chiamato il cantor dello Spirito Santo (Paradiso XX, 38) e sommo cantor del sommo duce (Paradiso XXV, 72), di Isacco e del figlio Giacobbe, che dopo la lotta con l'angelo (Genesi XXXII, 25-29) fu chiamato Israele ("forte con Dio"), dei dodici capostipiti delle tribù d'Israele, di Rachele, andata sposa a Giacobbe dopo che questi ebbe servito per quattordici anni il padre di lei, Labano (Genesi XXIX, 18-30).

Per il fatto che egli parlasse non interrompevamo il nostro procedere, continuando ad aprirci un varco nella selva, nella selva, intendo, costituita da un numero sterminato di anime vicinissime le une alle altre.

Non avevamo ancora percorso molta strada dal margine più alto del cerchio, quando vidi una sorgente di luce che per mezzo cerchio intorno a sé dissipava le tenebre.

Ch'emisperio di tenebre vincìa: L'espressione risulta figurativamente e poeticamente più persuasiva se si da a vincìa il significato di " vinceva ", invece che di " avvinceva ", " legava", come vogliono taluni interpreti, e si pone quindi, come soggetto, foco invece che emisperio. Questa interpretazione tiene conto del modo di sentire del Poeta, della sua emozione "colma del pathos dell'intelligenza e concorde istintivamente con la vulgata metafora che parla di luce dell'ingegno e di tenebre dell'ignoranza ( fede dunque, nei grandi uomini della scienza e della poesia che appaiono come una luminosa visione, un'accolta capace di dissipare e vincere con la luce della cultura le simboliche tenebre della barbarie)" (Getto).

Ci trovavamo ancora un poco lontani da questa sorgente di luce, non tanto tuttavia, che io non potessi intuire che una schiera di anime degne di onore occupava quel posto.

"O tu che onori scienza e arte, chi sono costoro che hanno tanta dignità, che li distingue dalla condizione degli altri? "

E Virgilio a me: "La fama onorevole di cui godono nel mondo dei vivi, ottiene (per essi) un particolare favore presso Dio che conferisce loro un tale privilegio.

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In quell’istante fu da me udita una voce: "Onorate il sublime poeta: la sua anima, che si era allontanata, torna fra noi ",

Onorate l'altissimo poeta: la parola "onore" e quelle da essa derivate ritornano con singolare frequenza in questi versi, quasi a ribadire il carattere di entusiastica, celebrazione che l'incontro coi poeti riveste, Questa è una delle pagine della Commedia ove più compiutamente si esprime la venerazione, quasi religiosa, che Dante aveva per i supremi valori dell'intelligenza, oltre ai quali non è dato all'uomo di alzarsi con le sole sue forze.

Dopo che la voce si arrestò e ci fu silenzio, vidi venire verso di noi quattro ombre maestose: il loro aspetto non era né triste né lieto.

Sembianza avean né trista né lieta: un antico commentatore spiega: "non erano tristi, perché non aveano martirio; né lieti, perché non aveano beatitudine" (Buti). Ma più che a precisare uno stato d'animo, il verso serve a conferire a ciascuna delle quattro grand'ombre l'aspetto tradizionale del saggio, nel suo raccoglimento meditativo e solenne.

Virgilio prese a dire: " Guarda, quello che ha in mano la spada, e precede gli altri tre come un sovrano.

È Omero, il sommo di tutti i poeti; dietro di lui viene Orazio, poeta satirico; Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano.

Il Momigliano ha indicato in questa scena una difformità, sul piano della cultura e del gusto, tra lo spirito umanistico che la pervade e i particolari in cui si traduce, ancora medievali: "questo poeta che esce con una spada in mano da un nobile castello, cerchiato da sette mura per cui si entra da sette porte, è, nel complesso, una figurazione lontana dal gusto antico; e quello che c'è di fantastico nello scenario e quello che in esso è infuso di allegorico, ci trasportano nel Medioevo cavalleresco e simbolico". Di Omero Dante aveva soltanto notizia indiretta, poiché non conosceva il greco e non erano ancora state tradotte in latino l'Iliade e l'Odissea. Di Orazio apprezzava probabilmente, secondo il gusto dell'epoca, soprattutto la produzione moraleggiante (Satire ed Epistole); di Ovidio, vissuto a Roma ai tempi di Augusto, come Orazio e Virgilio, dovevano essergli care in particolar modo le Metamorfosi, da cui trasse quasi tutte le sue conoscenze sull'antica mitologia. Anneo Lucano fu poeta epico del periodo argenteo della letteratura latina ed è considerato oggi un minore. Diversa era l'opinione che di lui si aveva nel Medioevo.

Poiché ciascuno si accomuna a me nell’appellativo di poeta pronunciato poco fa da uno di loro (nel nome che sonò la voce sola), mi tributano onore, e fanno bene a tributarmelo ( perché in me onorano la poesia )".

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Vidi così adunarsi il bel gruppo guidato dal più eccelso dei poeti epici, la cui poesia si leva come aquila al di sopra di quella degli altri.

Dopo aver parlato a lungo tra loro, si volsero a me con un cenno di saluto; e Virgilio sorrise per questo segno di onore:

e mi onorarono ancora di più, poiché mi accolsero nel loro gruppo, in modo che diventai il sesto tra quei così grandi sapienti,

Procedemmo insieme fino alla zona luminosa, trattando argomenti di cui (ora) è opportuno tacere, non meno di quanto fosse conveniente parlarne nel luogo ove allora mi trovavo.

Giungemmo ai piedi di un maestoso castello, circondato da sette ordini di alte mura, protetto tutt’intorno da un leggiadro corso d’acqua.

Lo attraversammo come se fosse stato di terra solida; penetrai con quei sapienti (nel castello) attraverso sette porte: arrivammo in un prato verde e fresco.

Il castello è stato concepito in funzione chiaramente allegorica. Secondo Pietro di Dante, figlio del Poeta, esso simboleggerebbe la filosofia, intesa genericamente come sapienza; le sette mura corrisponderebbero alle sette discipline in cui la filosofia era fatta consistere: fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica. Secondo altri commentatori antichi le sette mura indicherebbero le sette arti liberali, oppure le quattro virtù cardinali e le tre speculative (intelletto, scienza, sapienza). Di meno agevole interpretazione appare il significato allegorico del bel fiumicello. Forse l'opinione più plausibile è quella del Sapegno, per il quale esso simboleggia gli ostacoli che si oppongono all'acquisto del sapere.

Ivi erano persone dagli sguardi pacati e dignitosi, di grande autorità nel loro aspetto: scambiavano fra loro poche parole, con persuasiva dolcezza.

Allora ci portammo in uno degli angoli, in una radura, luminosa e sovrastante il terreno circostante, in modo che (di qui) era possibile abbracciare con lo sguardo tutti gli spiriti (ivi raccolti).

Là dirimpetto a me, sul verde compatto e brillante dell’erba mi vennero indicati i grandi spiriti, ripensando alla vista dei quali sento ancora il mio animo esultare.

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Vidi Elettra con molti dei suoi discendenti, fra i quali riconobbi Ettore ed Enea, Giulio Cesare in armi e con occhi sfavillanti come quelli di un uccello rapace.

Vidi Camilla e Pentesilea; dal lato opposto, vidi il re Latino che sedeva accanto a sua figlia Lavinia.

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia: e isolato, in disparte, vidi il Saladino.

Il primo gruppo di " spiriti magni " è costituito in prevalenza da eroi e personaggi storici i cui nomi sono stati tramandati dai grandi scrittori dell'antichità. L'ammirazione che Dante prova per questi ultimi si estende a tutti i personaggi che, per virtù di poesia, grandeggiano nei loro scritti. Osserva in proposito il Getto: "qui si afferma incondizionato il sentimento dell'aristocrazia della cultura e della nobiltà che all'uomo deriva dagli studi e dalla poesia (non solo quando attivamente li coltivi, ma ancora quando divenga oggetto di quegli studi e di quella poesia: tale è infatti la giustificazione della presenza nel nobile castello di personaggi leggendari o politici come Ettore o Bruto)". Elettra fu progenitrice della stirpe troiana e quindi dei Romani; Camilla e l'eroina italica morta nella guerra che seguì all'insediamento dei Troiani nel Lazio, e di cui è già stata fatta menzione alla fine del canto primo (verso 107). Pentesilea è la mitica regina delle Amazzoni uccisa da Achille. È ricordata nell'Eneide (1, 490 sgg.), dove Latino e sua figlia Lavinia (promessa a Turno, re dei Rutuli, sposò poi Enea; questo matrimonio scatenò la guerra fra Troiani e Italici) sono personaggi di primo piano. Il primo personaggio storico dell'elenco è il creatore dell'impero romano, Giulio Cesare, " primo prencipe sommo (Convivio IV, V, 12 ), visto in un verso di straordinario rilievo come il prototipo del guerriero. Accanto a lui sono i due eroi più valorosi dell'antica Troia. Bruto fu il fondatore della Repubblica romana, dopo aver scacciato l'ultimo re, Tarquinio il Superbo, e Lucrezia la donna per vendicare l'onore della quale Bruto, con Collatino, capeggiò la rivolta contro i Tarquini. Giulia fu figlia di Giulio Cesare e moglie di Pompeo, Marzia moglie di Catone Uticense, uccisosi in seguito alla sconfitta del partito pompeiano in Africa ad opera di Cesare, Cornelia madre di Tiberio e Caio Gracco. La rassegna si conclude, dopo questo elenco di figure del periodo repubblicano, con un verso divenuto celebre non meno di quello che caratterizza Cesare. In esso Salah-ed-Din, sultano d'Egitto dal 1174 al 1193, celebrato dagli scrittori del Medioevo come principe di grande liberalità e giustizia, appare solo e in disparte. Il suo isolamento, dovuto al fatto che è di altra stirpe e di altra religione, conferisce alla sua figura, nel quadro di questa enumerazione, proporzioni eroiche. E' solo un accenno, ma il verso si arricchisce di risonanze segrete, se ripensiamo all'isolamento in cui grandeggiano altre figure eroiche nella Commedia (come Farinata o Sordello).

Dopo aver sollevato un poco gli occhi (il gruppo dei filosofi e degli scienziati si trova più in alto di quello degli uomini d’azione), vidi Aristotile, il maestro dei sapienti, seduto in mezzo ad altri filosofi.

Tutti hanno gli occhi fissi su di lui. tutti gli rendono onore: tra gli altri vidi Socrate e Platone, che, in http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/quartoi.htm (8 di 10)08/12/2005 9.01.07

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posizione preminente rispetto agli altri, sono a lui più vicini;

Democrito, che attribuisce al caso la formazione del mondo, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone;

Democrito, filosofo greco del V-IV secolo a. C., sostenne la teoria degli atomi che costituirebbero il mondo. Diogene il Cinico (V-IV secolo a. C.) invece predicò il disprezzo dei beni materiali. Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone furono esponenti del pensiero filosofico presocratito.

e vidi il sagace classificatore delle qualità (delle erbe), intendo dire Dioscoride; e vidi Orfeo, Tullio Cicerone e Lino e Seneca, autore di scritti di morale;

Dioscoride ( I secolo d. C. ) scrisse un trattato sulle qualità delle erbe. Orfeo e Lino sono mitiche figure di poeti greci Seneca è il famoso scrittore romano del I secolo d. C.

Euclide geometra e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, Averroè, autore del grande commento.

Euclide (IV-III secolo a. C.) fu ritenuto il più grande geometra dell'antichità. Di fama identica godettero, nel campo dell'astronomia, Tolomeo ( I-II secolo d. C. ), nel campo della medicina, Ippocrate e Galeno. L'arabo Avicenna, morto nel 1036, fu famoso per la sua scienza medica e filosofica. Averroè, morto nel 1198, anch'egli medico e filosofo, fu considerato " il commentatore " per antonomasia, di Aristotile durante tutto il Medioevo, il quale conobbe le opere del grande pensatore greco attraverso le traduzioni arabe e i commenti di Averroè.

Non posso riferire su tutti in modo esauriente, poiché la lunghezza dell’argomento (che devo trattare) mi sollecita a tal punto, che spesso il mio racconto è insufficiente rispetto al grande numero di eventi da narrare.

La schiera dei sei poeti diminuisce dividendosi in due gruppi: la mia saggia guida mi conduce per un cammino diverso, fuori dell’aria immobile (del castello), nell’aria tremante (per i sospiri delle anime);

e giungo in un punto dove, non c’è traccia di luce.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO V

Scesi dunque dal primo nel secondo cerchio, che contiene in sé meno spazio (essendo la sua circonferenza più piccola), ma una pena tanto più crudele, che spinge a lamentarsi .

L'inferno dantesco ha la forma di un imbuto: i cerchi sono tanto più stretti quanto più sono vicini al centro della terra, occupato da Lucifero. A mano a mano che il loro diametro decresce, aumenta la gravità dei peccati che in essi vengono puniti.

Ivi si trova Minosse in atteggiamento terrificante, e ringhia: valuta, all’ingresso del cerchio, le colpe (dei peccatori); li giudica e li destina (ai rispettivi luoghi di punizione) a seconda del numero di volte che attorciglia (la coda intorno al proprio corpo).

Voglio dire che quando l’anima sciagurata si presenta al suo cospetto, rivela tutto di sé; e quel giudice dei peccati

comprende quale parte dell’inferno si addice ad essa; si avvolge con la coda tante volte per quanti cerchi infernali vuole che venga precipitata in basso.

Davanti a lui ve ne sono sempre in gran numero: le une dopo le altre si sottopongono ciascuna al suo giudizio; si confessano e ascoltano (la sentenza), e poi vengono travolte nell’abisso.

Minòs: mitico re di Creta, che nel sesto libro dell'Eneide (versi 432-433) giudica le anime dei trapassati. La scena delle anime davanti a Minosse ha, nella sua straordinaria concisione, una tragica grandiosità. Il Momigliano ha visto, in questa figura di belva giudicante, "una stupenda fusione di maestà e di grottesco", rilevando, tra l'altro, nella contaminazione, che si ritrova in tutti i guardiani infernali, di elementi desunti dalla mitologia classica con elementi cristiani, una solidità di figurazione che "toglie ogni impressione anacronistica, come l'unità della composizione impedisce di vedere una stonatura nei vestiti o negli sfondi architettonici moderni dei quadri sacri o classici del Rinascimento". Da notare, anche, come l'incalzante rapidità del giudizio di Minosse si concreti in una particolare struttura del verso ( il verbo in posizione privilegiata: stavvi... giudica... vede... cignesi... vanno... dicono). Ma tutte queste osservazioni rischiano di essere inutili se non ci aiutano a cogliere il significato più profondo di queste terzine, che è quello di una brutale, spasmodica, insensata messa in scena. Il vero giudizio è già avvenuto in cielo. Qui non ne è possibile se non una sorta di grottesca contraffazione.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

"O tu che giungi alla dimora del dolore", disse Minosse a me quando si accorse della mia presenza, interrompendo l’esercizio della sua così alta funzione,

"considera attentamente il modo in cui stai per entrare (se hai cioè i meriti necessari per compiere incolume il viaggio nell’inferno) e colui in cui riponi la tua fiducia (Virgilio non è un’anima redenta): non lasciarti trarre in inganno dalla larghezza dell’ingresso!" E Virgilio di rimando: " Perché ti affatichi a gridare ?

Non ostacolare il suo viaggio predestinato: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole, e non chiedere altro".

Virgilio ripete a Minosse la formula già usata nel canto III, versi 95-96.

A questo punto cominciano a farsi sentire le voci del dolore; ora sono arrivato là dove molti pianti colpiscono il mio udito.

Giunsi in un posto privo d’ogni chiarore, che rumoreggia come un mare in tempesta, sotto la furia di venti contrari.

La tempesta di questo cerchio dell’inferno, destinata a non avere mai tregua, trascina le anime con impeto travolgente: le tormenta facendole vorticare (in tutti i sensi) e facendole cozzare (fra loro ).

Quando giungono davanti alla rupe franata, qui prorompono in grida, in pianto unanime, in lamenti; bestemmiano qui la potenza di Dio.

Quando giungon davanti alla ruina: il termine ruina indica lo scoscendimento attraverso il quale le anime, dopo la sentenza di Minosse, cadono, precipitando dall'alto, nel cerchio.

Compresi che a una siffatta pena sono condannati i lussuriosi, che sottomettono la ragione alla passione.

Il Poeta stesso ci avverte di aver intuito il significato che si adombra nel contrappasso della bufera. Tale precisazione non è affatto superflua a questo punto del canto, dal momento che "il nodo drammatico che dà vita a tutto l'episodio, ossia lo stretto legame che allaccia tra loro indissolubilmente la passione carnale, il peccato e l'eterno tormento della bufera, è messo in luce, per la prima volta, proprio attraverso questa inequivocabile denuncia, da parte del Poeta, della sostanza violenta e sovvertitrice di quella passione, dell'arbitrio, cristianamente inammissibile, che l'istinto esercita per essa sull'intelletto" ( Caretti ) .

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Enno dannati i peeeator carnali: San Gregorio Magno aveva considerato i peccati "carnali" (lussuria, gola, avarizia, ira, accidia) meno gravi di quelli "spirituali". San Tommaso aveva dato a questa valutazione un fondamento teorico. Anche nell'inferno dantesco i peccati "carnali", dovuti a semplice incontinenza, precedono, in rapporto alla loro gravità e al posto in cui sono puniti (i primi quattro cerchi dopo il limbo), quelli " spirituali ", dovuti a consapevole malizia.

E come le ali portano nella stagione invernale gli stornelli, che si dispongono in gruppi ora diradati ora compatti, così da quel vento le anime perverse

sono trascinate di qua, di là, in basso, in alto; mai nessuna speranza, non solo di una cessazione temporanea, ma nemmeno di un castigo alleviato, è loro di conforto.

E come le gru sono solite intonare i loro lamenti, quando solcano l’aria in lunghe file, così vidi avvicinarsi, emettendo gemiti,

le anime portate dal turbine sopra menzionato: per questo dissi: " Chi sono mai, maestro, quegli spiriti che il vento buio in tal modo punisce? "

La similitudine degli stornelli e quella delle gru hanno una singolare analogia d'impianto, pur differendo l'una dall'altra per la funzione che esplicano. "Come nella prima similitudine, infatti, l'elemento comune, che avvicina, agli occhi del Poeta, gli stornai agli spiriti mali, non è tanto l'andare, gli uni e gli altri, in schiera larga e piena, quanto piuttosto il particolare modo con cui improvvisamente s'impennano nel volo; così nella seconda l'elemento che accomuna le gru alle ombre non è tanto quel procedere nell'aria "faccenda di sì lunga riga ", quanto piuttosto l'identico lamento, la stessa eco lacrimosa che uccelli e spiriti lasciano dietro di sé, nella loro scia." ( Caretti )

"La prima di quelle anime di cui tu mi chiedi notizia" mi rispose allora Virgilio, "regnò su molti popoli di lingua diversa.

Fu a tal punto dedita alla lussuria, che dichiarò, sotto le sue leggi, permesso ciò che a ciascuno piacesse, per cancellare la riprovazione in cui era incorsa.

E’ Semiramide, di cui le storie narrano che fu sposa di Nino, cui succedette (sul trono): fu sovrana della regione che attualmente il sultano governa,

Semiramide, regina degli Assiri nel XIV o Xlll secolo a. C., è citata da tutti gli storiografi medievali come esempio di assoluta immoralità. Il Sultano era, ai tempi di Dante, sovrano dell'Egitto. Il Poeta scambia qui probabilmente la Babilonia assira con quella egiziana (l'attuale il Cairo ) .

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

L’altra è Didone, che si tolse la vita, per amore, e non rimase fedele al marito morto, Sicheo, e c’e anche la lussuriosa Cleopatra.

Narra Virgilio nei quarto libro dell'Eneide che Didone, innamoratasi di Enea, infranse il giuramento di fedeltà fatto sulla tomba del marito, e che, in seguito all'abbandono da parte dell'eroe troiano, si uccise. Cleopatra, regina d'Egitto, riuscì a fare innamorare di se Giulio Cesare e, dopo la morte di questi, il tribuno Marco Antonio.

Guarda Elena, a causa della quale trascorsero tanti anni luttuosi, e guarda il famoso Achille, che alla fine ebbe per avversario amore.

Per Elena, moglie di Menelao, fuggita a Troia con Paride, si scatenò la guerra, durata dieci anni, tra Greci e Troiani. Secondo una leggenda, ella sarebbe stata uccisa da una donna, che, in tal modo, avrebbe inteso vendicare la morte del marito avvenuta in battaglia. Un'altra leggenda narra che Achille, preso da amore per Polissena, figlia di Priamo, re dei Troiani, e recatosi a celebrare le nozze con lei, fu ucciso in un'imboscata da Paride.

Guarda Paride, Tristano "; e mi indicò più di mille anime, facendo i nomi di persone che amore strappò alla vita.

Vedi Paris, Tristano: il rapitore di Elena morì per mano di Filottete, un guerriero greco; Tristano, cavaliere della Tavola Rotonda, innamoratosi di Isotta, moglie di suo zio Marco, re di Cornovaglia, fu da costui ucciso. La rassegna degli eroi morti per amore non rappresenta una digressione rispetto a quello che sarà il tema dominante dell'ultima parte del canto, anzi lo prepara e gli dà un naturalissimo avvio.

Dopo aver ascoltato il mio maestro in quella lunga rassegna di donne ed eroi dell’antichità, fui colto da compassione, e fui sul punto di perdere i sensi.

Pietà mi giunse: sul valore da attribuire a pietà (una delle due " parole-tema " dell'episodio che sta per cominciare; l'altra è amore) hanno scritto a lungo i critici. Per il Foscolo e il De Sanctis il termine sarebbe qui usato nella sua accezione più consueta. Esso designerebbe la "compassione" di Dante per i peccatori e quindi anche, implicitamente, la sua "comprensione" per le ragioni che li hanno indotti a peccare. Il Sapegno, in ciò più attento alla ispirazione etico-religiosa del poema, interpreta la pietà di Dante come "turbamento, che nasce dalla considerazione delle terribili conseguenze del peccato"; esso "non importa comunque mai da parte di Dante un atteggiamento di adesione e di compartecipazione e non attenua in nessun modo la recisa condanna morale". I dannati del secondo cerchio sono tutti, per usare un'espressione dello stesso Dante, gente di molto

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

valore, anime nobili. E' questo un particolare che può aiutarci ad intendere, nella loro origine contraddittoria e sfumata, i motivi dello " smarrimento " del Poeta.

Presi a dire: "Poeta, desidererei parlare con quei due che procedono uniti, e che sembrano opporre così debole resistenza al vento".

Quei due che 'nsieme vanno: sono Francesca, figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, e Paolo Malatesta. Poco dopo il 1275 Francesca sposò, con un matrimonio dettato da ragioni soltanto politiche, Gianciotto Malatesta, signore di Rimini e uomo rozzo e deforme. Si innamorò poi del giovane e avvenente Paolo, fratello del marito, e ne fu ricambiata. Allorché Gianciotto li sorprese, li uccise entrambi. L'eco della tragedia, avvenuta fra il 1283 e il 1285, doveva essere ancora viva quando Dante fu generosamente accolto a Ravenna, negli ultimi anni della sua vita, da Guido Novello, nipote di Guido il Vecchio da Polenta.

E paion sì al vento esser leggieri: sul significato da attribuire alla minor resistenza che Paolo e Francesca oppongono alla bufera infernale, i pareri sono discordi. Alcuni vedono in questo particolare un alleggerimento della pena, altri un aggravamento di essa, perché i due sarebbero con più violenza trascinati dal turbine. Il quesito è di quelli che rischiano di rimanere insoluti. Ma se, anziché considerare in astratto il castigo dei due cognati, volgiamo la nostra attenzione ai modi in cui il Poeta ce lo rappresenta, a quella "leggerezza di toni e poi di sentimenti, un poco stilizzata com'è della poesia giovanile di Dante e del suo stilnovismo" (Gallardo), allora le interpretazioni "romantiche" (alleggerimento della pena) sembrano più legittime di quelle strettamente "dottrinali".

E Virgilio: " Farai attenzione al momento in cui ci saranno più vicini; e tu allora pregali in nome di quell’amore che li conduce, ed essi verranno.

Non appena il vento li volse verso di noi, dissi: "O anime tormentate, venite a parlarci, se qualcuno (Dio) non lo vieta ! "

Come le colombe, ubbidendo all’impulso amoroso, si dirigono nel cielo verso l’amato nido, planando con le ali spiegate e immobili, portate dal desiderio,

così esse uscirono dalla schiera delle anime di cui fa parte anche Didone, venendo verso noi attraverso l’aria infernale, tanto efficace era stata la mia ardente preghiera.

Quali colombe, dal disio chiamate: la similitudine ne ricorda due di Virgilio (Eneide canto V, versi 213-217; canto VI, versi 190-192), ma mentre nel poeta latino le colombe non sono che "graziose colombe", qui esse paiono invece " animate da una volontà quasi umana"( Parodi ).

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"O uomo cortese e benevolo che attraverso l’aria buia vieni a trovare noi che (morendo) macchiammo il mondo col nostro sangue.

se il re del creato ci fosse amico, noi lo pregheremmo di darti serenità, dal momento che provi compassione per il nostro atroce tormento.

Sulle prime parole di Francesca, cosi gentili e accorate, scrive il Momigliano, " pesa stancamente tutto il dolore di quella tragedia" e aggiunge che il verso 90 "solleva questo che fu, a quei tempi, un fatto di cronaca, all'altezza d'un esemplare eterno di sciagura". La "preghiera condizionata" (De Sanctis) dei versi 91-93, in cui alla delicatezza dell'espressione Francesca indissolubilmente unisce la consapevolezza di essere esclusa da ogni forma di speranza (Dio, rifugio e sostegno per chi soffre, non dà ascolto ai reprobi), ha ispirato una delle più belle pagine del saggio dedicato a questo episodio dal Parodi: "Francesca, laggiù nell'inferno, dove la preghiera è vana e si tramuta in bestemmia, ad un tratto, alla voce di questo vivo che ha compassione del suo affanno, ripensa alle preghiere di quando era buona e pia, e si duole di non potergli con esse impetrare da Dio, - che cosa? - quello che a lei è negato per sempre e che implora con disperato lamento, la pace! Ma che sa ella se Dante abbia bisogno di pace? Eppure, mentre l'anima di lei è sconvolta da una bufera più violenta di quella che le rugge d'intorno, come potrebbero gli uomini tutti e le fiere e tutta intera la natura non struggersi della medesima angoscia?"

Ascolteremo e vi diremo quelle cose che vorrete dire e ascoltare, per tutto il tempo che la bufera, come fa (adesso), attenuerà la sua violenza,

La città dove nacqui si stende sul litorale verso il quale discende il Po per trovare, coi suoi affluenti, quiete.

Nota il De Sanctis, a proposito del modo in cui Francesca sa animare della sua rassegnata e dolente femminilità anche i particolari di minor rilievo (come potrebbe essere, se la volgessimo nel linguaggio utilitario da noi usato quotidianamente, la precisazione topografica di questi versi), che ella "anche dicendo cose indifferenti, ci mette non so che [di] molle e soave, che rivela animo nobile e delicato". Il Parodi precisa il senso dell'immagine: "Anche il Po, che discende alla marina di Ravenna, e i "suoi seguaci", i fiumi che vanno con lui, pare a Francesca che anelino al momento d'aver pace, di scomparire, di dimenticarsi nel mare".

Amore, che rapidamente fa presa su un cuore nobile, si impadronì di Paolo per la mia bellezza fisica, bellezza di cui fui privata (quando venni uccisa); e l’intensità di questo amore fu tale, che ancora ne sono sopraffatta.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Amore, che non permette che chi è amato non ami a sua volta, mi sospinse con tanta forza a innamorarmi della bellezza di Paolo, che, come ben puoi vedere (dal fatto che siamo uniti), ancora mi lega a lui.

Amore ci portò a morire insieme: colui che ci ha tolto la vita è atteso nel cerchio dei traditori (la Caina è la zona del nono cerchio destinata ai traditori dei parenti)." Queste parole ci vennero rivolte da loro.

Nella prima parte del discorso di Francesca a Dante non c'è neppure un accenno alla sua personale vicenda: protagonisti del dramma non furono due fragili esseri in preda alla passione, ma questa passione stessa, che li soggiogò fino al punto di privarli di ogni difesa, di ogni capacità di reagire. Osserva il Sapegno che Francesca si sforza di spiegare e giustificare la sua colpa, "sottraendo l'impulso primo del peccato ad una precisa responsabilità individuale, per trasferirlo sul piano di una forza trascendente e irresistibile: Amore".

E' strano che il Momigliano abbia tacciato queste parole di eccessiva enfasi, mentre il Vossler si è, al contrario, meravigliato che una donna possa esprimere la propria passione in cadenze così nette e decise, oltre che in accenni di indubbia crudezza. In realtà questa prima parte del discorso di Francesca ha una funzione essenziale nell'episodio: sia perché in essa le illusioni del tempo felice, in cui la vita pareva destinata a scorrere come "letteratura", non meno raffinata che ignara delle esigenze del dovere, sono messe continuamente a raffronto con la realtà che da esse è scaturita, sia perché è proprio questa apologia di Amore che pone Dante di fronte alla necessità di valutare, sul piano delle loro conseguenze, le teorie di cui si era fatto in gioventù il propugnatore.

Udite quelle anime travagliate, abbassai io sguardo, e lo tenni abbassato tanto a lungo, che alla fine Virgilio mi chiese: "A cosa pensi? "

Quando risposi, cominciai: "Ohimè, quanti teneri pensieri, quanto reciproco desiderio condusse costoro a peccare (al doloroso passo)! "

Al doloroso passo: "al passo dall'amore onesto al disonesto, e dalla fama all'infamia, e dalla vita alla morte" (Buti). La risposta di Dante è come il proseguimento della sua assorta meditazione e sembra essere rivolta non tanto a Virgilio quanto a se stesso. "Gli occupa l'anima uno sgomento attonito per il mistero della vita morale degli uomini, liberi di giudizio e di volontà, eppur destinati nell'arcano consiglio della Provvidenza, altri alle vittorie della volontà buona, altri alle disfatte della ragione consigliera impotente, altri alla redenzione del pentimento e altri alle cadute irreparabili. Il senso del mistero tanto più acuto e tormentoso si accoglie nel poeta credente, quanto più viva e la pietà per ciò che al corto vedere umano sembra ineluttabile. " (Rossi-Frascino) Nel canto quinto Dante entra, per cosi dire, in uno stato di crisi, di perplessità, di lotta con se stesso.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Completo, incontrastato era stato il suo disprezzo per gli ignavi, altrettanto netta la sua simpatia per i grandi spiriti del limbo. Ma la colpa dei due cognati non era di quelle che ripugnavano al suo senso dei valori. Tutta una lunga tradizione (la Cavalleria, i trovatori, la poesia dotta siciliana fiorita alla corte di Palermo sotto gli Svevi) aveva idealizzato l'amore. Dante medesimo aveva fatto parte della scuola poetica del dolce stil novo, per la quale la donna amata era un riflesso in terra della perfezione divina e un mezzo per ascendere al Bene Supremo, a Dio. Le tre terzine in cui Francesca proclama la ineluttabile forza di Amore, riecheggiano, nel pensiero e nello stile, i principii di questa scuola poetica. Ma qui, nell'episodio di Paolo e Francesca, il cor gentil e la donna angelicata da strumenti di elevazione si convertono in strumenti di peccato. Scrive il Croce: "I due non sono aiutati a resistere, ma anzi preparati a cedere, dal cor gentile, dai dolci pensieri, dai dolci sospiri, dalle sentenze della dottrina d'amore, ch'a nullo amato amar perdona; da tutto l'idealizzamento che dell'amore avevano fatto la poesia occitanica e quella dello stil novo, e dai ricordi e dall'esempio degli appassionati e nobili eroi ed eroine dei romanzi. E' questa l'insidia che li porta all'orto del baratro e ve li spinge dentro".

Poi, rivolto a loro, parlai, e dissi: "Francesca, le tue sofferenze mi rendono triste e pietoso fino alle lagrime.

Però dimmi: quando la vostra passione si manifestava soltanto attraverso dolci sospiri, con quale indizio e in che modo Amore permise che l’uno conoscesse i sentimenti dell’altra, fino allora incerti d’essere corrisposti ? "

Non è oziosa curiosità quella che ha spinto Dante a formulare questa domanda. Egli vuole chiarire, a sé e agli altri, il rapporto che corre tra nobiltà d'animo, delicatezza di sentimenti e peccato. L'uomo nuovo, da poco ridestatosi in lui, si erge a giudice dei giovanili entusiasmi che lo avevano portato ad identificare bellezza e bontà, finezza di animo e di modi e vita morale.

E Francesca "Nulla addolora maggiormente che ripensare ai momenti di gioia quando si è nel dolore; e di ciò è consapevole il tuo maestro.

Ma se un così affettuoso interesse ti spinge a interrogarmi sul modo in cui si manifestò per la prima volta il nostro amore, farò come chi parla tra le lagrime.

Tu hai cotanto affetto: il De Sanctis rileva come qui la parola affetto non possa essere interpretata soltanto come sinonimo di "desiderio", secondo una spiegazione scolasticamente insensibile ai valori della poesia: "Quando Francesca, sforzando la grammatica, dice affetto, non è già il desiderio che Dante abbia di conoscere la sua storia che le si presenta immediatamente innanzi, ma l'affetto col quale esprime il suo desiderio... "

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Noi leggevamo un giorno, per svago, la storia di Lancillotto e dell’amore che s’impadronì di lui: eravamo soli e non avevamo nulla da temere.

Lancillotto del Lago è l'eroe di uno dei più celebri romanzi francesi del ciclo brettone, che Dante ben conosceva. Nel romanzo si raccontano non solo le imprese militari di Lancillotto, ma anche il suo amore per Ginevra, moglie di re Artù. Soli eravamo e sanza alcun sospetto: osserva il De Sanctis: "Chi mai fa quest'osservazione se non l'amore colpevole? Leggono una storia d'amore e non osano di guardarsi e temono che i loro sguardi tradiscano quello che l'uno sa dell'altro e l'uno nasconde all'altro; e quando in alcuni punti della lettura veggono un'allusione al loro stato... gli occhi immemori s'incontrano, né già osano di sostenerli e li riabbassano, e la coscienza di essersi traditi e il fremito della carne si rivela nel volto che si scolara".

Più volte quella lettura fece incontrare i nostri sguardi, e ci fece impallidire; ma solo un passo ebbe ragione di ogni nostra resistenza.

Quando leggemmo come la bocca desiderata ( di Ginevra ) fu baciata da un così nobile innamorato, Paolo, che mai sarà separato da me,

mi baciò, trepidante, la bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non proseguimmo oltre nella sua lettura".

Nel romanzo brettone il siniscalco Galehaut esorta i due innamorati a rivelarsi il loro amore, spingendo Ginevra a baciare Lancillotto. Il libro, dunque, svolge per Paolo e Francesca il ruolo che nella vicenda narrata è assegnato a Galehaut. Che mai da me non fia diviso: sempre il De Sanctis ha saputo stupendamente cogliere il senso disperato di questo inciso in tutta la sua tragica bellezza: "tra l'amante e il peccato si gitta in mezzo l'inferno, e il tempo felice si congiunge con la miseria, e quel momento d'oblio,` il peccato, non si cancella più, diviene l'eternità".

Mentre una delle due anime diceva queste cose, l’altra (Paolo) piangeva, così che per la compassione perdetti i sensi non altrimenti che per morte:

e caddi come cade un corpo inanimato.

2003 - Luigi De Bellis HOME PAGE

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO VI

Quando riprendo la conoscenza, che era rimasta in me offuscata alla vista del pianto doloroso di Paolo e Francesca, pianto che mi aveva, per la tristezza, completamente sconvolto,

vedo intorno a me nuove pene e nuovi puniti, dovunque io vada, o mi rigiri, o volga lo sguardo.

Mi trovo nel terzo cerchio, il cerchio della pioggia destinata a non aver termine, tormentatrice, gelida e pesante; mai non cambia il suo ritmo ne la materia di cui è fatta.

La monotona insistenza della piova etterna sembra ripercuotersi anche nella struttura sintattica e nel ritmo dei primi versi del canto. Da terzina a terzina non c'è quasi svolgimento: ognuna appare come chiusa in sé, ognuna ostinatamente ribadisce l'incubo paralizzante del tetro paesaggio infernale.

Grossi chicchi di grandine, acqua sudicia e neve cadono con violenza attraverso l’aria buia; la terra che accoglie tutto questo emana un fetido odore.

La legge del contrappasso ha qui, per i dannati del terzo cerchio - i golosi - un'applicazione evidente: "Questa sozzura ("fastidio" dice uno degli antichi commentatori) in forma di pioggia è appropriato castigo, quasi fetente reciticcio di crapula, agl'ingordi gustatori d'ogni più raffinata squisitezza di cibi e di bevande" (Del Lungo).

Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra, a modo di cane, attraverso tre gole, incombendo sulle turbe che in quest’acqua impura sono immerse.

Ha gli occhi iniettati di sangue, la barba unta e nera, il ventre capace, e le mani munite di artigli; graffia le anime dei peccatori, le scuoia e le squarta.

Sul piano allegorico, secondo gli antichi commentatori, gli occhi... vermigli stanno a significare l'avidità rabbiosa, la barba unta la ributtante ingordigia, il ventre largo l'insaziabilità, le unghiate mani l'indole rapace.

Anche Cerbero, come Caronte e Minosse, è figura desunta dalla mitologia classica. Tuttavia, mentre in Virgilio e in Ovidio il cane dal trifauce latrato è posto a guardia del regno dei morti, nell'Inferno esso

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

assolve la funzione di tormentatore dei dannati del terzo cerchio. Il Cerbero dantesco appare, inoltre, in confronto a quello degli antichi, assai più complesso e inquietante, sia per l'intrecciarsi in lui degli elementi ferini e umani ( rappresentati questi ultimi dalla barba, dalle mani, dalle facce) sia per la vitalità che si sprigiona da ogni suo atto: "vitalità immediata o animale", annota il Croce, tutta tesa a soddisfare il più elementare degli impulsi: la fame. E' "il laceratore - scrive il Del Lungo - il consumatore, a graffi a morsi a bocconi, dei già divoratori brutali e sfrenati, ora in ben altra condizione che di gozzoviglia, e fra ben altro tumulto che quello sconciamente giocondo dell'orgia".

La pioggia li spinge a lamentarsi in modo disumano: con uno dei fianchi proteggono l’altro; gli infelici peccatori continuano a rivoltarsi (cercando inutilmente di sottrarsi al tormento).

Volgonsi spesso i miseri profani: il termine profani può suggerire genericamente l'empietà di chi pecca, o anche riferirsi in senso più specifico ai golosi: "profani", in quanto adoratori del ventre, "perché il loro dio è il ventre", come dice San Paolo (Epistola ai Filippesi III, 19).

Quando Cerbero, l’orribile mostro, ci vide, spalancò le bocche e ci mostrò i denti; un fremito di rabbia lo agitava tutto.

Non avea membro che tenesse fermo: questo verso condensa come in una definizione quanto c'è di parossistico e inane nel furore di questo, non meno che degli altri mostri infernali, alla vista di Dante.

Virgilio tese le mani aperte, afferrò della terra, e, riempitosene i pugni, la gettò nelle tre bramose gole.

Virgilio ripete il gesto della Sibilla di fronte a Cerbero (Eneide V, I, 419-421).

Come quello del cane che, abbaiando, manifesta il suo desiderio, e si calma solo dopo aver addentato il cibo, poiché è tutto intento nello sforzo di divorarlo,

tale divenne il sozzo aspetto del triplice volto del diavolo Cerbero, che (coi suoi latrati) stordisce i peccatori a tal punto, da far loro desiderare la sordità.

(Camminando) calpestavamo le ombre che la pioggia fastidiosa prostra, e mettevamo le piante dei nostri piedi sulla loro inconsistenza materiale, che ha l’apparenza di un corpo umano.

Dopo la mossa e vibrante raffigurazione di Cerbero questa terzina ci ripropone il tema, improntato a pesante tristezza, dell'uggioso paesaggio infernale. Qui la tristezza è accresciuta dal fatto che i due poeti sono costretti, per poter procedere nel loro cammino, a calpestare le ombre dei golosi; la perifrasi sopra lor ` vanità che par persona, dandoci quasi la trascrizione in chiave morale dell'inconsistenza di questi

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

spettri, conferisce allo stato d'animo di Dante una straordinaria profondità di risonanze.

Erano tutte distese per terra, ad eccezione di una che si levò a sedere, non appena ci vide passarle davanti.

Bene osserva il Del Lungo come la terzina precedente prepari, insieme al primo verso di questa, la subitanea apparizione dell'ombra che rivolgerà la parola a Dante: "quella serie d'imperfetti passavam, ponevam, giacean, inchiude e quasi strascica qualche cosa come di preparazione e d'attesa di novità, la quale, poi, al verso fuor chiana ch'a seder si levò, scatta baldanzosa di suoni, di sintassi, d'imagine, che secondano mirabilmente l'atto dell'ignoto dannato". L'ombra che si leva a sedere al passaggio dei due poeti è quella di Ciacco, un fiorentino in cui qualcuno ha voluto ravvisare il poeta Ciacco dell'Anguillaia. Secondo altri, Ciacco (nel significato di " porco ") sarebbe soltanto un soprannome dato a questo goloso. Di questo fiorentino ci ha lasciato un vivo ritratto il Boccaccio "Era morditore di parole, e le sue usanze erano sempre co' gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, da' quali, se chiamato era a mangiare, v'andava e similmente, se invitato non era, esso medesimo s'invitava".

"O tu che sei condotto per questo inferno", parlò, "vedi se sei in grado di riconoscermi: tu nascesti prima che io morissi."

Ciacco, dolorosamente consapevole di essere sfigurato nei suoi lineamenti dal dolore che lo tormenta, propone a Dante l'enigma della sua identità: riconoscimi, se sai "E, per dire che Dante è nato prima ch'egli morisse, usa un apparente bisticcio, che serve invece a porre più forte la tremenda antitesi, anche verbale, di due decisivi momenti della vita umana, il " farsi " e il " disfarsi " la nascita e la morte; dalla quale - e ne risalta la potenza distruttrice - fu disfatto." (Grabher) L'alterarsi delle fattezze umane nei dannati è uno dei motivi sui quali la fantasia del Poeta torna con maggior insistenza e con effetti di notevole efficacia sul piano della poesia, quasi a ribadire il carattere di semplice apparenza che il nostro corpo riveste, agli occhi di Dio, di contro alla indistruttibile sostanza che è l'anima.

E io: "La pena che ti tormenta forse ti allontana dalla mia memoria, così che mi sembra di non averti mai veduto.

Ma dimmi chi sei, anima collocata in un posto così doloroso ed assegnata ad un tale tormento, che, se pur ve ne sono di più grandi, nessuno è altrettanto fastidioso".

Ed egli "Firenze, che a tal punto è colma di odio da non poterne più contenere, mi ebbe fra i suoi abitanti quando vivevo sulla terra.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Il piacevole motteggiatore di un tempo è qui serio, pensoso, amaro: quanta malinconia in quell'attributo serena, che qualifica la vita sulla terra idealmente contrapponendola alla dura condizione dei dannati! La morte conferisce, nel poema di Dante, un tragico rilievo anche a figure che, considerate in se stesse, non avrebbero nessuna delle qualità che caratterizzano l'eroe tragico.

Voi concittadini mi chiamaste Ciacco: per il peccato rovinoso della gola, come vedi, mi struggo sotto la pioggia.

Né io (qui) sono il solo spirito infelice, poiché tutti questi altri sono soggetti ai medesimi tormenti per la medesima colpa". E più non pronunciò parola.

Gli risposi: "Ciacco, il tuo dolore mi affligge tanto, da indurmi a piangere; ma dimmi, se lo sai, a quali estremi si ridurranno gli abitanti della città divisa in fazioni; se in essa si trova qualcuno che sia giusto; e dimmi anche il motivo per cui tanta discordia ha cominciato a travagliarla".

Le parole riguardose con cui il Poeta manifesta a Ciacco la sua simpatia riecheggiano quelle indirizzate a Francesca. Dante è benevolo con coloro che hanno peccato per incontinenza. Assai più aspra sarà la sua reazione alla vista delle pene che tormentano i peccatori che hanno fatto il male per fredda malizia.

Ed egli: "Dopo una lunga contesa si arriverà a un fatto di sangue, e il partito degli uomini del contado (la parte selvaggia: quella dei Cerchi, i Bianchi) manderà in esilio gli esponenti del partito avversario (quello dei Donati, i Neri) danneggiandoli gravemente.

In seguito è destino che il partito dei Bianchi soccomba prima che siano trascorsi tre anni, e che il partito dei Neri abbia il sopravvento con l’aiuto di qualcuno che attualmente si barcamena (fra le due opposte fazioni).

Le due fazioni, in cui si era divisa la guelfa Firenze sul finire del XIII secolo, erano capeggiate dalla famiglia dei Cerchi e da quella dei Donati. Un primo scontro fra cerchieschi e donateschi, soprannominati in seguito rispettivamente Bianchi e Neri, si ebbe nel 1300 in occasione delle feste di Calendimaggio. Le due parti vennero al sangue, come dice Dante, e ci furono alcuni feriti.

Per ristabilire l'ordine i Priori, tra i quali era anche Dante ne esiliarono gli esponenti più in vista, che però riuscirono ben presto a tornare in Firenze. Un anno dopo lo scontro di Calendimaggio, nel giugno 1301, i Bianchi (la parte selvaggia) espulsero dalla città i capi di parte nera, per esserne a loro volta cacciati, al rientro in Firenze di questi, nel 1302 (infra tre soli: cioè prima di tre rivoluzioni solari a partire dal 1300, data dell'immaginario viaggio di Dante nell'oltretomba ) . La riscossa del partito dei Donati avvenne con

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l'appoggio di Bonifacio VIII (con la forza di tal che testé piaggia). Questo papa, che in un primo tempo pareva deciso a mantenere un atteggiamento neutrale fra le due fazioni in lotta per il predominio in Firenze, optò alla fine per i Neri, che si mostravano propensi ad accettare le sue richieste.

Il partito dei Neri spadroneggerà a lungo. tenendo sottomessa la fazione avversa con provvedimenti iniqui, per quanto questa si lamenti e si sdegni.

I cittadini giusti sono due, ma nessuno dà loro ascolto: la superbia, l’invidia e la brama di guadagni sono le tre scintille che hanno appiccato il fuoco agli animi (aizzando i Fiorentini gli uni contro gli altri)".

Giusti son due: già i primi commentatori mostrano di non sapere a quali personaggi della vita pubblica fiorentina Dante intendesse fare riferimento con questa espressione. Ma può anche darsi come sostiene il Del Lungo - che il Poeta abbia solamente inteso "senza allusioni personali, significare che in si grande cittadinanza il numero dei giusti era piccolissimo, e quasi nullo; e quei pochissimi, non ascoltati".

A questo punto pose termine al suo discorso doloroso; e io: "Vorrei avere da te ancora altri schiarimenti, e vorrei che tu mi facessi la grazia di continuare a parlare.

Farinata e Tegghiaio, che furono così degni di onore, Jacopo Rusticucci, Arrigo e Mosca e gli altri cittadini che si adoperarono per il bene di Firenze, dimmi dove si trovano e fa in modo che io apprenda qualcosa di loro; perché grande è il desiderio che ho di sapere se il paradiso dà loro dolcezza, o l’inferno li amareggia".

Dante chiede al suo concittadino notizie di alcuni uomini politici del tempo passato. Di questi, troveremo Farinata degli Uberti, capo ghibellino e vincitore dei Guelfi a Montaperti, tra gli eretici; Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari e Jacopo Rusticucci, guelfi entrambi, tra i violenti contro natura; Mosca dei Lamberti, considerato il primo responsabile del divampare in Firenze delle lotte tra Guelfi e Ghibellini, fra i seminatori di discordia. Arrigo sarebbe un membro della famiglia dei Fifanti, il quale partecipò nel 1215 alla uccisione di Buondelmonte: da questo delitto gli storici del tempo fecero dipendere la divisione dei Fiorentini in Guelfi e Ghibellini. Non e più menzionato nel poema.

E Ciacco: "Si trovano tra i dannati più colpevoli: peccati diversi (da quello punito in questo cerchio) pesano su di loro in modo da tenerli nella parte bassa dell’inferno: se scenderai fin laggiù, potrai vederli.

Ma quando sarai tornato tra i vivi, ti prego di richiamare il mio nome alla loro memoria: più non parlerò né ti risponderò".

Il ricordo accorato della vita serena, con cui già si era iniziato il discorso di Ciacco, colora di mestizia http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/sestoi.htm (5 di 7)08/12/2005 9.01.22

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anche il commiato di quest'ombra da Dante "e s'accompagna a un disperato bisogno, così vivo nei dannati: quello di essere ancora avvinti a questo mondo delle loro passioni e del loro peccato che vivrà sempre in essi; e ciò mediante l'unica illusoria forma di sopravvivenza che salvi di loro qualche cosa: la fama presso le creature della terra" (Grabher).

Allora stravolse gli occhi che fino allora avevano guardato diritti davanti a se; per un attimo ancora mi guardò, e poi abbassò la testa: piombò giù con essa allo stesso livello degli altri dannati (ciechi: in quanto privi della luce dell’intelletto).

Cadde con essa a par delli altri ciechi: il termine "ciechi" ha qui un significato morale, e in questa accezione ricorre nel linguaggio dei mistici. Il Del Lungo cita, a questo proposito, il passo di un dottore della Chiesa: ""il non vedere" è, in questa vita mondana, la pena inavvertita dei peccatori; il "non poter vedere", cioè la cecità, è, nell'altro mondo, la pena sentita dai dannati". Tuttavia l'espressione ciechi, in questo quadro che - come ha notato il Momigliano - "ha del macabro, quasi come una scena di decapitazione, si colora, per suggestione della rima, anche di "un sinistro riflesso pittorico singolarmente armonizzato con li diritti occhi torse allora in biechi". Sempre del Momigliano è l'osservazione che questa terzina suggerisce "il primo esempio di uno dei motivi poetici più frequenti del poema: la rappresentazione della figura e della fisionomia dei dannati, stravolta dal tormento e oscurata dalla depravazione: la pittura di un'umanità imbestiata in cui la bestialità rende più miserando quel tanto di umano che ciascuno dei dannati conserva, e l'umanità fa sembrare più ripugnante quel tanto di bestiale che ciascuno dei dannati ha portato con sé dalla mala vita della terra e acquistato nella proterva o disperata sopportazione della pena".

E Virgilio mi disse: "Più non si alzerà prima del suono delle trombe degli angeli, quando verrà il giudice nemico del reprobi (Cristo):

ogni dannato rivedrà ( allora ) il suo triste sepolcro, assumerà nuovamente il corpo e l’aspetto che aveva da vivo, ascolterà la sentenza che deciderà la sua sorte per l’eternità".

Più non si desta: nota il Del Lungo che questo presente storico "dice un futuro che si distende per secoli".

La solennità di questa rappresentazione del Giudizio Universale non trova riscontro che in alcuni dei più grandi capolavori delle arti figurative.

Cosi, razionando un poco intorno alla vita d’oltretomba, camminammo lentamente attraverso l’immondo miscuglio fatto di ombre di peccatori e di acqua;

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

e pertanto mi rivolsi a Virgilio: " Maestro, queste pene aumenteranno o diminuiranno d’intensità dopo Il Giudizio Universale, o saranno dolorose come adesso? "

E Virgilio: "Ripensa alla tua dottrina, secondo la quale, quanto più una cosa è perfetta, tanto più intensamente sente il piacere non meno del dolore.

Benché i dannati non possano mai conseguire la vera perfezione (che si ha solo quando l’uomo e vicino a Dio), attendono di essere perfetti dopo il Giudizio più che non prima".

Il pensiero aristotelico-tomista, accettato da Dante, afferma che nella misura in cui una realtà è perfetta essa avverte con maggiore intensità la gioia o il dolore. Ora la vera perfezion dell'uomo, secondo la definizione della Scolastica, è nell'unione dell'anima e del corpo, che, scissa con la morte, si ricostituirà solo nel giorno del Giudizio Universale.

Percorremmo il cerchio secondo la sua circonferenza, discorrendo assai di più di quanto io non abbia qui riferito; giungemmo nel punto ove da questo cerchio si scende nel successivo:

ivi ci imbattemmo in Pluto, l’orribile diavolo.

Pluto: è il diavolo posto a guardia del cerchio degli avari e dei prodighi. Nella mitologia greca Pluto, figlio di Iasone e di Demetra, era considerato dio della ricchezza.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO VII

"Papé Satàn, papé Satàn aleppe!" prese a gridare Pluto con voce rauca; e quel nobile saggio (Virgilio), dalla sconfinata dottrina,

Papé Satàn, papé Satàn aleppe: discordi sono le interpretazioni che i commentatori hanno dato a questo verso. Per alcuni esso non avrebbe alcun significato riferibile ad una lingua umana; le parole poste in bocca a Pluto sarebbero un esempio del linguaggio dei diavoli, incomprensibile per noi, se non addirittura suono privo di qualsiasi significato, espressione di una mente confusa e abbrutita. Il Momigliano, ad esempio. ritiene che esse vogliano essere un segno dell'imbecillità a cui riduce l'avidità della ricchezza". E' più probabile, tuttavia, che esse significhino qualcosa come: "O Satana, o Satana, Dio! " oppure: " O Satana, O Satana, ahimè!" Infatti papae in latino è una interiezione di meraviglia e aleph è la prima lettera dell'alfabeto ebraico, che può essere quindi letta come se volesse dire " primo principio" ( e quindi Dio), oppure, con riferimento alle Lamentazioni attribuite a Geremia che si aprono appunto con questa parola, come una interiezione di dolore.

per rincuorarmi così mi parlò: "Il tuo spavento non ti arrechi danno; infatti, per quanto egli sia potente, non ci impedirà di scendere (dal terzo al quarto cerchio) per questo dirupo.

Quindi, rivolto verso quel tumido volto, disse: "Taci, maledetto demonio: struggiti internamente per la rabbia.

Non senza motivo è la nostra andata nella voragine infernale: così si vuole nel cielo, là dove l’arcangelo Michele punì l’orgogliosa ribellione (di Lucifero e dei suoi seguaci)".

Fe' la vendetta del superbo strepo: più che derivare dal latino medievale stropas (gregge), per cui starebbe ad indicare la schiera degli angeli ribelli a Dio, strupo sembra essere metatesi di "stupro", violenza dovuta a desiderio smodato. Giova qui ricordare che nelle pagine di un teologo del Medioevo, Scoto Eriugena, il peccato degli angeli che si ribellarono a Dio e definito "lussuria". Scrive lo Scoto che, per quanto la lussuria propriamente detta riguardi soltanto gli atti carnali, "tuttavia ogni brama smodata di qualcosa' di piacevole, in quanto piacevole, può essere chiamata lussuria", a meno che oggetto della brama non sia il bene, il che non può dirsi certo sia avvenuto nel caso della ribellione degli angeli: il loro desiderio di una maggiore beatitudine si opponeva infatti ai voleri di Dio.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Come le vele gonfiate dal vento cadono (confusamente) avviluppate, se l’albero della nave si spezza, così piombò a terra il mostro malvagio.

La figura di Pluto suscita in chi legge l'impressione di una massa enorme e amorfa e, sul piano morale, quella di un furore ottuso e impotente. Essa non ci viene infatti presentata dal Poeta attraverso questo o quel particolare del suo aspetto esteriore, come avviene per Caronte, ad esempio, e per Minosse. Il carattere rissoso del traghettatore dell'Acheronte è già tutto contenuto in una determinazione come quella degli occhi di bragie, mentre l'enigmatico conoscitor delle peccata del secondo cerchio resta indissolubilmente legato nella nostra memoria - all'atto bestiale - di avvolgere la coda, per significare un giudizio dettato dalla più pura razionalità. Scrive il Torraca, a proposito di Pluto: "Enfiata labbia suggerisce, si, l'imagine di un gran faccione, ma vanamente. Ma ecco le vele gonfiate dal vento e l'albero della nave portar in questa indeterminatezza qualche cosa di enorme, di gigantesco..." Per quanto riguarda il significato morale di questa inaspettata similitudine, un altro acuto lettore del settimo canto, il Vallone, osserva come essa racchiuda in sé l'intera vicenda di questo guardiano infernale "protervo, bestemmiatore, superbo e poi schiacciato umiliato e vinto'', e aggiunge un'osservazione generale sull'umiliazione cui, nell'inferno dantesco, le potenze del male soggiaciono di fronte all'affermarsi della razionalità chiarificatrice ( Virgilio ): "Forse il destino dei diavoli è più inesorabilmente crudele di quello delle anime malvagie che essi custodiscono. Queste, almeno, di tanto in tanto, possono reagire, a loro modo e nella loro misura, contro un potere ch'è a tutti superiore... i diavoli, vinti che siano e sempre son vinti, si degradano a " poveri diavoli ", arnesi di idiota materia...

Scendemmo in tal modo nella quarta fossa, percorrendo un altro tratto della china dolorosa che contiene tutto il male dell’universo.

Ahimè, giustizia di Dio! chi mai ammassa tanti inimmaginabili supplizi e dolori, quanti io ne vidi? e perché l’umana colpa a tal punto ci strazia ?

Come (nello stretto di Messina) presso Cariddi le onde (del mar Ionio) si infrangono cozzando contro quelle del mar Tirreno, così necessariamente avviene che qui le turbe ballino.

Scrive il Marti, a proposito di questa grandiosa similitudine, che Dante con essa ci suggerisce non già un "urto di persone, di individui, ma urto di gente, di masse informi: anonime superfici in movimento che si infrangono reciprocamente l'una contro l'altra; vaste chiazze brulicanti e semoventi, che tristemente spumeggiano a quel loro pendolare scontrarsi. Nessuno stacco fra le anime e i massi che esse voltano... la figurazione è risolta in movimento ritmico, eterno e sempre uguale, ma anche meccanico ed insensato, di superfici e di colore"

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Così convien che qui la gente riddi: il richiamo alla ridda, ballo circolare dal ritmo molto veloce, che in altra circostanza evocherebbe una scena lieta, è qui sarcastico e sferzante.

Qui vidi una moltitudine più numerosa che in altri luoghi, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed emettendo alti lamenti.

(Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: "Perché conservi? " e "Perché sperperi ? "

La pena degli avari e dei prodighi ricorda quella di Sisifo, oppure quella delle anime che nel Tartaro Enea vede intente a rotolare enormi macigni (Eneide VI, 616-617). I pesi che essi spingono stanno a significare probabilmente i mucchi di denaro che in vita passarono per le loro mani.

In tal maniera tornavano indietro attraverso il cerchio tenebroso da entrambe le direzioni fino al punto diametralmente opposto, gridandosi di nuovo (anche) il loro ritornello ingiurioso;

poi, una volta qui arrivato, ciascuno tornava indietro, ripercorrendo il suo semicerchio fino allo scontro successivo. E io, che mi sentivo quasi turbato, dissi: "Maestro, spiegami ora quale moltitudine è questa, e se costoro che sono alla nostra sinistra e hanno la tonsura, furono tutti ecclesiastici ".

Ed egli: "Tutti quanti ebbero la mente così ottenebrata durante la vita in terra (la vita primaia: la prima vita), che non fecero alcuna spesa misuratamente.

Le loro parole lo dichiarano abbastanza esplicitamente, allorché giungono nei due punti del cerchio dove i loro opposti peccati li separano.

Assai la voce lor chiaro l'abbaia: il verbo "abbaiare", riferito alla voce di quei dannati, aggiunge una caratteristica disarmonica, scostante, alla descrizione, così esatta e impietosa, della loro inumana fatica. Un antico commentatore, il Lana, spiega l'uso di questo termine con il disprezzo che il Poeta intenderebbe qui manifestare nei confronti degli avari e dei prodighi, trattandoli come se fossero cani. Tra i moderni, il Grabher mette in rilievo "la sintetica potenza di abbaia costruito transitivamente con l'accusativo lo e piegato a riferirsi a voce umana. E' voce d'uomini che abbaia parole; trasfigurata in qualcosa di non più umano e quasi di bestiale".

Questi, che portano la tonsura, furono ecclesiastici, e papi e cardinali, nei quali l’avarizia si manifestò in modo eccessivo".

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E io: "Fra costoro, maestro, dovrei certo riconoscere qualcuno che si macchiò di queste colpe".

E Virgilio: "Accogli nella tua mente un pensiero assurdo: la dissennata vita che li rese turpi, li rende ora oscuri ad ogni tentativo di riconoscerli.

Come gli ignavi, così anche coloro che posero lo scopo della loro vita nel denaro sono destinati a rimanere anonimi nell'inferno di Dante. Il Poeta che ha vivo l'interesse per le forti personalità e che non si stanca mai di frugare, con curiosità insaziata, nell'animo umano, non considera nemmeno degni di attenzione coloro che tutto hanno sacrificato ad una divinità così impersonale e vile qual è il denaro. Virgilio enuncia in questa terzina una sorta di contrappasso morale: l'anonimato si aggiunge, infatti, come una condanna supplementare, ai tormenti corporali che affliggono questi peccatori.

Per l’eternità accorreranno ai due punti per scontrarsi: gli uni risorgeranno dalla tomba coi pugni chiusi, gli altri con i capelli recisi.

Come già nel cerchio dei golosi, anche qui, in un immagine allucinante e sinistra, il giorno del Giudizio Universale si impone alla fantasia del Poeta: il pugno chiuso degli avari denuncerà, alla fine dei tempi, il loro interesse rivolto al solo possesso dei beni materiali, mentre lo sperpero, che in vita li privò di tutto, sarà simboleggiato nei prodighi dai loro capelli recisi: come se il loro peccato li avesse privati anche di quelli.

Lo spendere e il risparmiare in misura smodata li ha privati del paradiso, e condannati a questa mischia: per farti capire di qual genere essa sia, non c’è bisogno che io l’adorni di belle parole.

Già nel Convivio (X-XIII) Dante aveva polemicamente preso posizione contro coloro che attribuivano alle ricchezze un valore formativo nella vita dell'uomo e, opponendosi ad un parere espresso dall'imperatore Federico II, aveva sostenuto che la vera nobiltà è una qualità dell'animo, sulla quale non può in alcun modo influire il possesso dei beni materiali, per loro natura caduchi e incerti. Nella canzone "Doglia mi reca ne lo core ardire", raccolta tra le sue Rime, viene drammaticamente prospettata dal Poeta all'avaro l'assurdità del suo cieco affannarsi: di fronte alla morte tutte le sue fatiche sono inutili ("dimmi, che hai tu fatto, cieco avaro disfatto? Rispondimi, se puoi altro che nulla").

Puoi ora vedere, figlio, quanto sia breve l’inganno dei beni che sono affidati alla Fortuna, per i quali il genere umano si accapiglia;

poiché tutte le ricchezze che sono e furono sulla terra, non potrebbero dar pace neppure a una sola di queste anime affaticate ".

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Nel presentare il tema della ricchezza perturbatrice dell'animo umano Dante si è ispirato al De consolazione philosophiae di Severino Boezio. In una pagina del Convivio (IV, Xll, 7) e citato, nella traduzione in volgare, il seguente passo del filosofo latino: "Se quanta rena volve lo mare turbato dal vento, se quante stelle rilucono, la dea de la ricchezza largisca, l'umana generazione non cesserà di piangere". Il Momigliano richiama, nel suo commento, l'attenzione sulla funzione di pausa che hanno questi versi, tra la parte del canto che descrive il duro tormento degli avari e dei prodighi e quella in cui viene evocata, in un'aura di estatico silenzio, la paradisiaca figura della Fortuna. Essi infatti "suggellano il senso di eternità ineluttabile che spira qua e là nella rappresentazione della travagliosa giostra; e, non più duri, ma ispirati da una pateticità solenne, lasciano nel lettore, nel momento che il cerchio si allontana dal suo sguardo, un'immagine pensosa che sfuma l'asprezza dello spettacolo".

" Maestro ", dissi a Virgilio, " spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi artigli i beni della terra? "

E Virgilio: "O esseri stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno! Voglio dunque che tu accolga la mia spiegazione (come il bambino riceve in bocca il cibo ).

Nella digressione che a questo punto interrompe la tesa atmosfera del canto, e a proposito della quale più di un critico si è richiamato alle serene atmosfere del Paradiso, Dante espone, per bocca della sua guida nel viaggio oltremondano, una sua personale concezione di quella che gli antichi avevano immaginato come "la dea bendata", modificando altresì il punto di vista già manifestato nel Convivio, in un passo del quale la distribuzione delle ricchezze era definita ingiusta: "Dico che la loro imperfezione primamente si può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade è proprio effetto d'imperfezione" (IV, Xl, 6).

Qui invece la Fortuna, pur non identificandosi con la Provvidenza di Dio, di cui è soltanto ministra, svolge una funzione provvidenziale. La concezione di Dante è nuova e profonda.

Dio, la cui sapienza oltrepassa ogni realtà, creò i cieli e assegnò a ciascuno di loro una guida in modo che ogni gerarchia angelica trasmette la luce al suo cielo,

distribuendola equamente: allo stesso modo prepose a tutte le glorie del mondo una guida che le amministrasse tutte e che trasferisse a tempo debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini potesse a lei opporsi;

per questo una nazione domina, mentre un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei presa, decisione che resta nascosta come il serpente nell’erba.

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Il senso di queste terzine si chiarisce se teniamo presente che, nella cosmologia di Dante, ad ognuno dei nove cieli mobili è assegnata da Dio, perché ne regoli il moto, una gerarchia angelica ( intelligenza motrice ) . La Fortuna è anch'essa un'intelligenza, ministra della volontà di Dio ma, invece di presiedere ai movimenti di un cielo, governa quelli dei ben vani della terra.

L’accortezza degli uomini non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le intelligenze angeliche svolgono il loro.

L'uso della parola dei per indicare le pure intelligenze (sprovviste quindi di attributi sensibili ) motrici dei cieli, si spiega con la funzione nobilitante che il Poeta attribuisce di solito al vocabolo di origine latina. L'impasto linguistico della Commedia, in cui il termine comune è accostato di continuo a quello aulico o dotto, traduce, sul piano dello stile, la dialettica del temporale e dell'eterno, che rappresenta il fondamentale motivo animatore dell'epos dantesco.

I cambiamenti da essa causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso Dio l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene spesso che qualcuno muti il proprio stato.

Questa è colei che tanto è avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, laddove invece la biasimano ingiustamente e la denigrano; ma essa se ne sta beata e non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze angeliche, governa il moto della sua sfera e gode della sua beatitudine.

Ma è tempo di scendere ormai verso un dolore più grande; già ogni stella che, quando venni in tuo aiuto, saliva in cielo, tramonta e non ci è concesso un lungo indugio ".

Il Momigliano avverte acutamente la grande solennità dell'accenno al cielo stellato che Virgilio fa qui, per la prima volta, da quando i due poeti sono entrati nella voragine infernale. Il Getto, dal canto suo, nota come Dante sappia cogliere,"in quel declinare di stelle, in quella inesorabile vicenda di astri che è la vicenda del tempo'', il "solenne ritmo universale, e l'assorto respiro... che ad esso si accompagna".

Attraversammo il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente che ribolle e si riversa in un fossato che da essa deriva.

L’acqua era più nera che livida; e noi, insieme alle onde torbide, scendemmo nel cerchio quinto attraverso un cammino malagevole.

Questo triste ruscello sfocia nella palude chiamata Stige, dopo essere sceso fino alla base dei crudeli e foschi dirupi.

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Nel quinto cerchio il paesaggio e la atmosfera appaiono profondamente diversi rispetto a quelli del cerchio precedente; lo stile stesso della terzina dantesca ne risente e non abbiamo più una sensazione di asperità, ma di diffusa tristezza. A questa sensazione contribuiscono le note coloristiche (buia.., bige... grige ).

Ed io, che ero intento a guardare, vidi in quella palude moltitudini imbrattate di fango, tutte nude, con l’espressione crucciata.

Questi peccatori si colpivano l’un l’altro non solo con le mani, ma con la testa e col petto e coi piedi, e si dilaniavano a pezzo a pezzo coi denti.

Virgilio disse: "Figlio, puoi ora vedere gli spiriti di coloro che furono sopraffatti dall’ira; e voglio che tu inoltre sappia che sotto il pelo dell’acqua vi sono dannati che sospirano, e fanno gorgogliare quest’acqua alla superficie, come puoi vedere, da qualunque parte tu guardi.

Immersi nella fanghiglia, dicono: "Fummo malinconici nell’aria dolce allietata dal sole, portando nel nostro animo la caligine dell’accidia:

ora ci addoloriamo nella nera melma". Si gorgogliano questo lamento (inno: qui in senso ironico) in gola, perché non lo possono pronunciare con parole chiare e complete".

Secondo Pietro Alighieri nella palude stigia si troverebbero gli iracondi e i superbi e, sotto di essi, immersi interamente nel fango, gli accidiosi e gli invidiosi. Questo parere non sembra tuttavia suffragato da alcun richiamo al testo. Più plausibile è l'opinione che alla superficie della palude si trovino gli " iracondi acuti " ( la cui collera suole cioè prorompere con impetuosa violenza), mentre immersi in essa sarebbero gli accidiosi, che corrisponderebbero, in questa partizione dantesca, agli "iracondi amari" di Aristotile e San Tommaso. L'accidioso fummo starebbe quindi ad indicare l'ira a lungo repressa. Il contrappasso risulta evidente nel caso degli iracondi acuti: il loro sbranarsi a vicenda esemplifica in modo inequivocabile la passione dell'animo che li indusse a compiere il male. Per gli iracondi amari la corrispondenza tra pena e peccato potrebbe essere la seguente: come in vita hanno soffocato dentro di se l'ira, pur continuando ad alimentarla segretamente, così ora sono soffocati dalla melma.

Quest'inno si gorgoglian nella strozza: nota il Grabber come questa ardita immagine (vicina, per vigore espressivo all'abbaia del verso 43) "fonde in un tutto la voce umana e quella dell'acqua, che ne la strozza soffoca le parole umane per trasformarle nel gorgogliare dell'acqua stessa".

Costeggiammo così per lungo tratto la sozza palude, tenendoci tra il pendio asciutto e la melma, con lo

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sguardo rivolto a coloro che ingurgitano fango:

giungemmo alla fine alla base d’una torre.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO VIII

Proseguendo il mio racconto, dico che, molto prima di giungere ai piedi dell’alta torre, i nostri sguardi si diressero verso la sua sommità attratti da due fiammelle che vedemmo apparire lassù, e da un’altra che rispondeva ai segnali da tanto lontano, che a stento il nostro sguardo poteva distinguerla.

In questo canto, uno dei più ricchi di movimento di tutto il poema, anche il paesaggio si anima, quasi ad incarnare visibilmente lo stato di attesa e la trepidazione del Poeta.

I segnali luminosi che, accendendosi nella notte infernale, sembrano preannunciare un evento insolito e misterioso, sono uguali a quelli che, in terra, servivano a trasmettere informazioni militari. I diavoli che difendono le mura della strana città, alla quale i due viandanti si stanno avvicinando, sono organizzati militarmente: diversamente che nei guardiani dei cerchi superiori, in essi il male è guidato da una intelligenza viva.

Allora mi rivolsi a Virgilio, dicendo: " Che significato ha questo segnale? e quale risposta dà quell’altra luce? e chi sono quelli che l’hanno accesa ? "

E Virgilio di rimando: " Sull’acqua melmosa puoi già scorgere colui che è atteso (da chi ha fatto i segnali), se i vapori che lo stagno esala non lo celano ai tuoi occhi ".

Nessuna corda d’arco scoccò mai una freccia che volasse nell’aria con una velocità paragonabile a quella della piccola imbarcazione che vidi in quell’istante dirigersi sull’acqua verso di noi, pilotata da un solo nocchiero, che urlava: " Ti ho finalmente raggiunto, spirito malvagio! "

La similitudine è già in Virgilio: "fugge sulle onde, più rapida di un dardo e di una saetta che uguaglia i venti" (Eneide X, 247-248). Dante la ricrea conferendole maggiore essenzialità e vigore, e imprimendo alle parole "un movimento rapido e incalzante, in cui viene a culminare il senso di tensione e di attesa delle terzine che precedono e si preannunzia il movimento drammatico, violento e concitato, dell'episodio che seguirà" (Sapegno).

Da notare anche la sapiente scelta delle parole e la suggestione che queste esercitano anche al di là del loro significato più immediato. Come nota il Venturi, nel primo verso corda non pinse mai da sé saetta, "i

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suoni esprimono il sibilar della freccia; nel verso successivo il celere volo".

" Flegiàs, Flegiàs, tu gridi inutilmente contro di noi " ribatte il mio maestro, "a non ci avrai in tuo potere che il tempo necessario per attraversare la palude fangosa."

Flegiàs, figlio di Marte, per avere incendiato, accecato dall'ira, il tempio di Apollo a Delfi, fu punito nell'Averno (cfr. Virgilio, Eneide VI, 618-620). E questo un altro dei personaggi tratti dalla mitologia e ricreati da Dante in forme nuove, meglio rispondenti alla sostanza profondamente religiosa e morale del suo poema. La figura di Flegiàs è "drammatizzata nella sua qualità essenziale: l'ardore dell'ira: per cui diventa uno scorcio appena balenante ma tempestoso: scolpito proprio nel secco rilievo della sua violenta irruzione e del furioso gridare (versi 13-18) e poi ( verso 24 ) nel torbido silenzio dell'ira accolta" (Grabher).

La risposta di Virgilio a Flegias non ha la calma solenne delle risposte da lui date ai guardiani dei cerchi superiori. Una impazienza irosa sembra trasmettersi alle sue parole. Il peccato punito in questo cerchio - l'ira - "si propaga all'intorno, nello scenario, in Virgilio, in Dante, che proprio qui dà il primo e più continuato segno del suo aspro spirito combattivo" (Momigliano).

Come colui che apprende di essere stato gravemente ingannato, e allora prova rammarico, così divenne Flegiàs per l’ira che in lui si raccolse.

Virgilio scese nella barca, e poi mi fece scendere dopo di lui; soltanto quando anch’io fui entrato, essa sembrò carica (gli abitanti dell’oltretomba, essendo esseri privi del corpo, non hanno peso).

Non appena Virgilio e io fummo a bordo, l’antica (perché coeva dell’inferno) barca cominciò a fendere l’acqua, immergendosi in essa più profondamente di quanto non faccia di solito, quando trasporta le anime.

Mentre solcavamo l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: "Chi sei tu che arrivi anzitempo (prima del termine stabilito, cioè prima della morte ) ? "

In questa terzina, alla stagnante immobilità dello Stige, si contrappone l'aspra repentinità dell'apostrofe del dannato che, nella maligna domanda rivolta a Dante, rivela il suo godimento per le sofferenze altrui. Il suo apparire improvviso può ricordarci quello di Ciacco nel cerchio dei golosi, ma il dialogo con Dante è improntato qui a tutt'altro spirito.

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Nell'episodio del canto sesto il Poeta era preso da un sentimento di compassione e quasi di riverente rispetto per il concittadino che aveva conosciuto di persona i grandi uomini politici della passata generazione; qui invece reagisce violentemente contro il suo interlocutore e, come vedremo fra poco, gode del suo strazio. Possiamo restare meravigliati per tale atteggiamento di Dante, in cui il Momigliano ha ravvisato addirittura "qualcosa di satanico", ma non dobbiamo dimenticare che l'iracondo nei riguardi del quale egli manifesta tale spirito vendicativo, come osserva il Grabher, "non è che lo spunto realistico, cui Dante sempre attinge, per passare dal contingente all'eterno, dal particolare all'universale; per colpire quanti si tengono or là su gran regi e tuffarli tutti, idealmente, come porci in brago". Il dannato è il fiorentino Filippo dei Cavicciuli ( un ramo degli Adimari )',

Ed io: " Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso cosi sporco dal fango?" Rispose: "Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (cioè un dannato) ".

Il motivo che spinge Filippo Argenti a celare il suo nome è il desiderio, comune anche agli altri dannati, di non avere cattiva fama tra i vivi. Egli cerca di reagire al disprezzo manifestatogli dal Poeta ostentando la propria infelice condizione (un che piango). Ma le sue parole tradiscono un'insofferenza sprezzante e amara. Il loro senso è: lo vedi da te che sono un dannato; che bisogno c'è di farmi questa domanda?

Ed io: " Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango ".

Il tono della replica di Dante, in cui egli riprende le parole del suo interlucatore per ritorcerle contro di lui (chi se' tu che vieni... s'i' degno, non rimango...; un che piango... con piangere e con lutto), è dettato da un'ira repressa, che finirà col manifestarsi esplicitamente nella soddisfazione con cui il Poeta assisterà al tormento del peccatore.

Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: " Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti ! "

Poi mi abbraccio: mi baciò in viso, e disse: "Anima fiera, sia benedetta colei che ti ha portato nel grembo!

Quello fu in vita un prepotente; nessuna azione buona abbellisce il ricordo che di sé ha lasciato: per questo la sua anima e qui in preda al furore.

Quanti che si considerano adesso nel mondo persone di grande importanza, qui staranno come porci nel fango, lasciando di sé il ricordo di atti spregevoli ! "

L'intervento di Virgilio conclude l'incontro del suo discepolo col dannato e conferisce a questo episodio http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/ottavoi.htm (3 di 8)08/12/2005 9.02.03

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una dignità esemplare. Ma la figura del saggio, che il poeta latino di solito incarna, ci appare qui singolarmente animata. Egli non è soltanto il commentatore distaccato dell'episodio al quale ha assistito, ma ne diventa uno dei protagonisti. Il personaggio di Virgilio perde in tal modo ogni schematicità inerente alla sua funzione di simbolo, per riflettere in sé l'animo appassionato del discepolo ed inserirsi, con polemica asprezza, in quello che è uno dei temi etici dell'Inferno: la condanna della superbia che boriosamente ostenta la propria autosufficienza.

Ed io: "Maestro, sarei molto desideroso, prima di uscire dalla palude, di vederlo immergere in questa melma".

E Virgilio: "Prima che tu possa vedere la riva, sarai appagato: è giusto che tu goda del soddisfacimento di questo tuo desiderio" .

Poco dopo vidi gli iracondi fare di lui un tale scempio, che per esso ancora glorifico e rendo grazie a Dio.

Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio: Dante gioisce dello spettacolo offerto dai dannati che puniscono Filippo Argenti, sia per motivi di carattere contingente, come potrebbe essere la sua inimicizia determinata da motivi politici nei confronti della oltracotata schiatta (Paradiso XVI, 115) degli Adimari, sia perché questo spettacolo è una dimostrazione inoppugnabile della giustizia di Dio, vendicatore delle offese e riparatore dei torti. Ciò non toglie che la scena, considerata in sé, sia manifestazione, da parte dei dannati che vi partecipano, di uno spirito ottuso e brutale: i seviziatori appaiono, non meno della loro vittima, lontani dalla ragione e da Dio.

Tutti insieme gridavano: " Addosso a Filippo Argenti! "; e il rabbioso dannato fiorentino volgeva contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti.

Lo abbandonammo a questo punto, in condizioni tali, che non occorre aggiungere altre parole; ma ecco che un suono doloroso colpì il mio udito, per la qual cosa spalancai gli occhi guardando attentamente davanti a me.

In questo canto il linguaggio è sempre teso e ricco di movimento drammatico; il presente storico sbarro sottolinea la subitaneità della nuova impressione che il Poeta avverte.

Virgilio mi disse: " Ormai, figlio, si avvicina la città chiamata Dite, coi suoi abitanti oppressi dal dolore, col grande esercito (dei diavoli)".

Dite, o Plutone, era per gli antichi il sovrano del regno dei morti, Dante lo identifica con Lucifero. La città che da lui prende nome è l'insieme dei cerchi infernali dal sesto al nono, che costituiscono il basso

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inferno, di contro all'alto che racchiude i primi cinque cerchi. In essa sono punite due categorie di peccati: quelli di violenza e quelli di malizia.

Ed io: " Maestro, distinguo già chiaramente laggiù nell’avvallamento le sue torri, rosseggianti come se fossero uscite dal fuoco ".

Già le sue meschite... : secondo il Boccaccio le torri fortificate poste a difesa della città di Dite sono chiamate meschite (moschee, dall'arabo masghid "siccome edifici composti ad onor del demonio, e non di Dio".

Il paesaggio squallido e geometrico nel cerchio degli avari e prodighi, intriso di tristezza e umor nero in quello degli iracondi, assume qui un rilievo allucinato, che trascende ogni possibilità di riferimenti umani. Intorno alla città di Dite, nota il Grabher,"il Poeta... crea un senso di ermetico isolamento e di grandiosità desolata". Già in Virgilio (Eneide Vl, 548 sgg.) la città del Tartaro era difesa da torri di ferro rovente. Ma, nell'abbondanza dei particolari, l'aspetto sinistro delle fortificazioni infernali non spiccava come nei pochi cenni che vi dedica Dante.

E Virgilio mi disse: "Il fuoco eterno che all’interno le arroventa, le fa apparire rosse, come puoi vedere in questa parte bassa dell’inferno ".

Arrivammo infine dentro i profondi fossati che difendono quella città desolata: mi sembrava che le mura fossero di ferro.

Non senza aver prima fatto un ampio giro, giungemmo in un punto dove il nocchiero gridò ad alta voce: " Uscite da qui (dalla barca): ecco la porta (della città di Dite) ".

Vidi più di mille diavoli a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: " Chi e costui che ancora in vita visita il regno dei morti?". E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte.

A proposito dell'immagine da ciel piovuti, il Romagnoli rileva in essa una certa ambiguità: "collocate così le parole, pare che si tratti di gente piovuta allora allora". In realtà, leggendo questi versi, è difficile soffermarsi sul valore logico che in essi le parole assumono, tanto vigorosa è la capacità del Poeta di infondere vita e concretezza alle creazioni della sua fantasia. Giustamente osserva il Bosco: "con quella semplice parola, piovuti, Dante riesce a trasformare il concetto del loro gran numero, in un'immagine: una pioggia di angeli; tutta l'aria piena di angeli precipitanti".

Allora frenarono un poco la loro grande ira, e dissero: "Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/ottavoi.htm (5 di 8)08/12/2005 9.02.03

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ardire e penetrato in questo regno.

Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un paese così buio, resterai qui ".

Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi.

Come nei cerchi superiori, anche all'ingresso del sesto il cammino dei due poeti è ostacolato dalle potenze infernali. Ma i difensori della città di Dite sono - come abbiamo già detto dotati di intelligenza oltre che malvagi. Assai più difficile sarà averne ragione. Mentre Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, simboli di cieco furore, si trovavano disarmati e impotenti di fronte all'intelligenza, simboleggiata da Virgilio, i demoni posti a custodia dei cerchi inferiori del regno di Lucifero sono in grado di opporre ragione a ragione, intelligenza a intelligenza: il male non si configura in loro nelle sue forme più vistose e brutali, come disordinato imperversare degli istinti, ma si nasconde insidiosamente dietro le apparenze di un vivere disciplinato. Qui appunto è il grande pericolo che Dante e Virgilio devono fronteggiare: a sbarrare il cammino loro prescritto in cielo trovano non la natura deforme, ma una città. L'intelligenza al servizio del male ha nelle mura di Dite la sua prima, indimenticabile espressione visiva. La scena drammatica che qui comincia e si svilupperà per buona parte del canto seguente ha un significato allegorico ( la ragione che vuole il bene non può trionfare su quella indirizzata al male senza il soccorso della Grazia ), ma, come ha rilevato il Croce, "ne ha uno altresì effettivo e poetico, che tutta l'informa e la rende per se comprensibile e chiarissima".

Questo significato fa "tutt'una cosa con lo svolgimento stesso della scena: è la tensione che si prova tra le difficoltà e gli ostacoli, la fiducia che si avvicenda con la sfiducia e pur la vince, nella lotta del giusto contro l'ingiusto, della virtù contro l'iniquità, del diritto contro la forza".

" Mia amata guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, non mi abbandonare " dissi " in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui). "

E Virgilio, che mi aveva condotto li, mi disse: "Non aver paura; perché nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto.

Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con lasperanza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’inferno (nel mondo basso)".

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Così dicendo il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza.

Dante è in ansia per l'esito del colloquio di Virgilio coi diavoli, anzi ha già cominciato a disperare: è la prima volta che i ministri di Satana osano ribattere alle parole del suo maestro; e ribattono con una proposta terribile, in tutto degna della loro natura: Virgilio resti prigioniero nelle loro mani e Dante sia pur libero di tornarsene indietro, ammesso che ne sia capace. Virgilio lo rincuora, ma Dante continua a dubitare della potenza della sua guida, pur sentendo che in essa sono riposte tutte le sue speranze di salvezza. Da ciò quella ricchezza di espressioni affettuose verso il maestro, in cui e tutto il suo timore e il desiderio insieme di confidente abbandono.

Non potei udire quello che disse loro: ma egli non si trattenne a lungo là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura.

Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti.

Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando: "Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore! ".

Anche in questo suo mesto ritorno dal colloquio con i guardiani della città del male Virgilio è, non meno che nell'episodio di Filippo Argenti, personaggio vivo e umanissimo. Egli non è il maestro che impartisce la verità dall'alto, ma partecipa all'azione e si getta allo sbaraglio per trarre in salvo il suo discepolo. Le qualità del suo animo non sono didascalicamente enunciate, ma risultano da tutti i suoi atti.

E rivolto a me: "Anche se io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi per vietarci l’ingresso.

Questa loro presunzione non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata.

In questa terzina è evidente l'allusione alla discesa di Cristo nel regno dei dannati: il Redentore, dopo la sua morte, liberò dal limbo le anime dei Patriarchi dell'Antico Testamento, scardinando la porta dell'inferno, esterna (men secreta) rispetto a quella di Dite.

Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione,

colui ad opera del quale la città ci sarà aperta". http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/ottavoi.htm (7 di 8)08/12/2005 9.02.03

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INFERNO CANTO IX

Quel colore smorto che la paura aveva diffuso sul mio volto, quando avevo veduto Virgilio tornare indietro, fece sparire più presto il pallore che da poco era apparso sul suo.

Si arrestò attento come chi cerca di percepire un suono; lo sguardo, infatti, non poteva portarlo a distinguere lontano attraverso l’aria buia e la densa caligine.

"Eppure dovremo vincere questa battaglia" prese a dire, "a meno che... (ma no, non è possibile). Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno! "

Virgilio, respinto dai difensori della città di Dite, è preso per un attimo dal dubbio, ma poi riacquista fiducia: ecco il senso generale, sul quale sono tutti d'accordo, del breve soliloquio contenuto in questa terzina, Quanto al significato più preciso adombrato nell'espressione se non, varie ipotesi sono state avanzate. Ad esempio Virgilio può aver pensato per un momento di non aver ben capito il discorso fattogli da Beatrice nel limbo, oppure addirittura che il procedere oltre fosse ormai del tutto impossibile. Ma per penetrare il valore poetico di questa apertura di canto, che, come rileva lo Zannoni, "prende l'avvio proprio dal giuoco psicologico dei due personaggi, Dante e Virgilio, dai loro silenzi e dalle loro parole, dalle ansie e dalle speranze loro, sullo sfondo di quella fantastica e fiammeggiante città infernale", non occorre andar oltre le intenzioni del Poeta e voler chiarire termini che traggono forza suggestiva proprio dall'essere circondati da un alone di mistero.

Mi accorsi facilmente come Virgilio cancellasse il senso delle prime parole con quelle aggiunte in seguito, diverse dalle prime;

ciò nonostante il suo discorso mi diede timore, poiché io attribuivo alla frase non conclusa un significato forse peggiore di quello che aveva.

La peggior sentenzia che Dante attribuisce alle parole del suo maestro, completando nella sua mente la frase dubitativa da questi lasciata interrotta (se non...), é probabilmente questa: " a meno che l'opposizione dei diavoli non ci costringa a tornarcene indietro ". La domanda che egli sta per rivolgere al suo maestro, esprime appunto questo stato d'animo angosciato del discepolo che vede ad un tratto la sua guida, il mar di tutto 'l senno, fin qui apparsa infallibile, umiliata e schernita dalle forze del male.

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"Nel fondo della dolorosa voragine infernale avviene mai che discenda qualcuno del primo cerchio (il limbo), dove le anime hanno come sola punizione la speranza (di vedere Dio) destinata a non realizzarsi mai ?"

Feci questa domanda; e Virgilio mi rispose: "Raramente avviene che qualcuno di noi faccia la strada che io sto percorrendo.

E’ bensì vero che già un’altra volta fui quaggiù, richiamato dagli scongiuri di quella crudele Eritone che faceva tornare le anime nei loro corpi,

Virgilio aveva nel Medioevo fama di mago. Nessuna tuttavia delle leggende che si erano formate intorno alla sua figura accenna a questa discesa agli Inferi. E' probabile quindi che Dante abbia tenuto presente, nell'immaginare questo primo viaggio di Virgilio fin dentro il cerchio più profondo della voragione infernale ( il nono, dove sono puniti i traditori), un passo della Farsaglia di Lucano, in cui è detto che la maga Eritone fece ritornare nel corpo l'anima di un soldato morto, per predire a Sesto Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo (VI, 507 sgg.).

Da poco tempo il mio corpo era privo dell’anima, allorché costei mi fece entrare nella città di Dite, per fare uscire un’anima del cerchio dove e dannato Giuda.

Quello è il posto più basso e più buio, e più lontano dal cielo che imprime il movimento all’universo: conosco bene il cammino; perciò rassicurati.

Nella cosmologia della Commedia, il ciel che tutto gira è, rispetto alla terra, l'ultimo dei nove cieli fisici. E' chiamato Primo Mobile, perché da esso si trasmette il movimento a tutto il creato.

L’acquitrino da cui emana il grande fetore circonda tutt’intorno la città dei dannati, nella quale non possiamo ormai entrare senza lotta.

Le informazioni che Virgilio fornisce in questo discorso al suo discepolo, sono state considerate da molti come una digressione oziosa, la quale interromperebbe la tesa atmosfera drammatica che Dante aveva saputo creare, con un crescendo di effetti, sin dal canto precedente. Cosi, ad esempio, il Porena ha l'impressione che, soprattutto nella parte finale del suo discorso, Virgilio parli al discepolo solo per "occuparlo e distrarlo in qualche modo".

Assai difficile riesce, tuttavia, aderire a simili opinioni, che risolvono, in modo troppo semplicistico e ovvio, i non sempre facili problemi che pone l'interpretazione di questo e di altri passi della Commedia. In

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particolare, per quel che si riferisce all'episodio di Eritone, in esso, scrive lo Zannoni, "il mondo mitologico dona alla suggestiva vicenda del pellegrino medievale uno sfondo remoto di più solenne, di più oscuro, di più alto mistero" e, possiamo aggiungere, preannuncia l'apparizione delle figure mitologiche destinate a svolgere un ruolo così importante nel canto. Inoltre il tono pacato e didascalico con il quale il poeta latino fornisce a Dante ragguagli sulla palude che'l gran pazzo spira, serve a mettere maggiormente in rilievo la drammaticissima sostanza delle terzine successive.

E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata, dove all’improvviso si erano levate tutte nel medesimo istante tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamentodi donna, e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua d’intenso color verde; per capelli avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste,

Le Furie o Erinni, figlie di Acheronte e della Notte, erano, nella mitologia, le dee della vendetta e del rimorso. Esse perseguitavano il colpevole fino a fargli perdere il lume della ragione. La loro rappresentazione, in questi versi dell'Inferno, è di una potenza mai raggiunta dai poeti dell'antichità. Ciò è dovuto proprio al fatto che in queste, come nelle altre figure della mitologia, Dante sa infondere un significato morale nuovo, derivante dalla sua profonda fede. Qui, ad esempio, le Furie non sono vedute soltanto nel loro aspetto negativo, come emblemi cioè di un male dal quale non ci si riscatta, ma anche nel loro aspetto positivo: esse sono sì ostacoli a quell'itinerarium mentis in Deum, che il viaggio nell'al di là dei due poeti simboleggia, ma ostacoli concepiti anzitutto come strumenti di perfezionamento morale. Tale è il senso più profondo di questa allegoria del male, al di là di ogni interpretazione troppo particolare di essa. I critici hanno concordemente sottolineato la perfetta riuscita fantastica ed espressiva di questa creazione dell'arte di Dante, rilevando il carattere convulso e irreale di questa visione d'incubo.

E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: " Ecco le implacabili Erinni.

Dalla parte sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone"; ciò detto, tacque.

Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio.

"Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra" dicevano tutte quante guardando verso il basso: "fu male non punire nella persona di Teseo l’assalto (portato al regno dell’oltretomba). "

Medusa, altra figura mitologica, era una delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forco; fu uccisa e

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decapitata da Perseo. La sua testa trasformava in pietra chi la guardava. Un'antica leggenda greca narrava della discesa nel regno dei morti dell'eroe Teseo, il quale vi era penetrato per rapire Proserpina, regina del mondo sotterraneo. Fatto prigioniero dalle potenze delle tenebre, era stato in seguito liberato da Ercole (Virgilio- Eneide Vl, 392 sgg.).

"Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra. "

Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue.

O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi.

L'insegnamento morale cui Dante esplicitamente allude in questa terzina ha dato luogo alle più disparate interpretazioni. Tra le opinioni degli antichi commentatori le più interessanti sono quelle del Lana, che vede simboleggiata in Medusa l'eresia, che "fa diventare 1'uomo pietra, perché lo eretico vuole più credere alle sensualitadi che alla Sacra Scrittura'' e di uno dei figli del Poeta, Pietro, per il quale Medusa è una raffigurazione allegorica del terrore.

Le Furie, simbolo dei rimorsi, invocando Medusa, cercano, secondo Pietro di Dante, di paralizzare col terrore l'animo e la mente del Poeta, per impedirgli l'accesso al basso inferno.

Fra i moderni lo Scartazzini ha visto nelle Erinni il simbolo della mala coscienza e in Medusa quello del dubbio, "che ha la virtù di rendere l'uomo insensibile come pietra". Una spiegazione assai convincente di tutta la scena delle Erinni ci è data dallo Steiner: "Le Furie, i rimorsi, condurrebbero Dante a guardare la testa della Medusa, cioè a impietrarsi nello stato della disperazione: Virgilio, la ragione corretta dalla fede, vuole che Dante guardi le Erinni, cioè che ascolti la voce del rimorso, ma non guardi la Gorgone, cioè non vuole che cada per questo nella indifferenza del disperato, che poi ricade nuovamente, secondo la sentenza di San Paolo, nella vita sensuale, senza riscattarsi mai più".

E già si stava avvicinando sulla superficie fangosa della palude un rumore fragoroso e terrificante, che faceva tremare sia l’una che l’altra riva dello Stige,

non diverso da quello di un vento reso violento dal calore delle masse d’aria (che trova sul suo cammino), il quale colpisce la foresta e senza che nulla possa trattenerlo

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spezza i rami, li scaglia a terra e li trascina fuori (della selva); avanza imponente, in una nuvola di polvere, e causa la fuga dei greggi e dei pastori.

Dante, con gli occhi ancora coperti dalle mani di Virgilio, ode approssimarsi come un uragano; in tal modo, con questa impressione di maestosa ed inarrestabile potenza, si preannuncia al pellegrino smarrito l'arrivo dell'angelo che aprirà le porte della città di Dite e che, sul piano dell'allegoria, simboleggia l'intervento della Grazia nel punto in cui la ragione (Virgilio) non riesce ad impedire che l'anima disperi. La similitudine del vento impetuoso è già negli autori dell'antichità (Virgilio, Stazio, Lucano) più cari al Poeta, ma egli la ricrea interamente, arricchendola di tratti realistici, che testimoniano un appassionato spirito di osservazione della natura.

Nota giustamente il Gallardo, a questo proposito, che in Dante, diversamente da quanto avveniva nella poesia classica, spesso "I'immagine poetica non si basa solo sull'osservazione del fenomeno e dei suoi effetti", ma anche su quella delle cause. Qui, ad esempio, Dante non si contenta di caratterizzare il vento attraverso quella che appare la sua qualità più rilevante (l'impeto), ma specifica anche il motivo del determinarsi di questa qualità (li avversi ardori).

Questo spirito di osservazione e l'insaziato interesse per tutti gli aspetti del mondo visibile, tipici di Dante, fanno sì che, anche ove lo spunto iniziale di una sua immagine è libresco, egli riesca sempre a dare a questa immagine la freschezza di una cosa viva e reale. Tra i critici che si sono più attentamente soffermati su questa similitudine, il Momigliano ha osservato come fin dall'inizio (e già...) essa sia colma di religiosa aspettazione, rilevando altresì nel verso dinanzi polveroso va superbo "una delle più stupefacenti sintesi poetiche di Dante".

Sempre a proposito di questo verso il Sapegno ha indicato in esso, e particolarmente nell'attributo superbo, il trasferirsi sul piano psicologico di un dato della realtà esteriore, con il quale "l'attenzione del lettore è riportata dal paragone alla cosa paragonata, dal vento al messaggero in cui s'incarna il volere dell'Onnipotente". Anche qui, come altrove nel poema, la natura è profondamente penetrata di ragioni umane, senza con ciò perdere nulla della sua concretezza; anche qui stato d'animo e mondo visibile sono così perfettamente fusi da apparire inscindibili.

Virgilio mi liberò gli occhi (che erano coperti dalle sue mani) e disse: "Dirigi adesso la forza del tuo sguardo sulla superficie schiumosa dell’antica palude, verso quella parte dove la nebbia è più molesta".

Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra, così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi.

Anche la similitudine con le rane, già presente in Ovidio (Metamorfosi VI, 370-381), rivive in Dante con tanta concretezza di determinazioni, da risultare cosa nuova e del tutto originale. La fuga delle rane all'avvicinarsi della biscia, oltre a costituire un quadro a se, serve, come ha osservato il Sapegno, "a portare ancor più sul piano della realtà" la figura sovrannaturale dell'inviato dal cielo, senza per questo privarla della sua grandezza.

Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione.

Il gesto con cui l'angelo allontana da sé la densa caligine infernale esprime assai più il carattere del personaggio, un essere sceso dal mondo della perfezione e della luce in quello della irrimediabile disarmonia e del buio di quanto non farà l'aspro rimprovero che rivolgerà fra poco agli angeli ribelli, Pochi tratti bastano a Dante per dar vita ai suoi personaggi: la sua è soprattutto un'arte di concentrazione e di sintesi.

Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui.

Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo.

Con una verghetta: il diminutivo mette in risalto l'estrema facilità con cui l'angelo riesce ad avere ragione dell'impedimento opposto dalle forze del male al proseguimento del viaggio dei due poeti. Egli non tocca la porta della città di Dite con le proprie mani (anche questo particolare contribuisce a farcelo apparire distaccato da tutto l'orrore che lo circonda), ma con un piccolo scettro, quasi a riaffermare su di essa il potere assoluto di Colui che lo ha inviato.

"O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata", prese a dire sullo spaventoso limitare, " da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi ?

Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore?

A che serve opporsi ai decreti divini ? Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo. "

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Secondo il racconto di Virgilio (Eneide VI, 395-396 ), Ercole, sceso nell'Ade, vinse e incatenò Cerbero. I critici sono concordi nel giudicare il rimprovero dell'angelo ai custodi della città di Dite assai meno efficace dei versi che solo indirettamente ne suggerivano la figura. Precisandosi, questa viene a perdere quell'aura di mistero con cui si era preannunciata da lontano alla fantasia del Poeta. Il ministro della volontà di Dio qui indulge forse ad una polemica troppo umana.

Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione diversa da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette.

Entrammo in essa senza incontrare opposizioni; e io, che desideravo osservare lo stato delle cose contenute dentro quelle mura fortificate, non appena entrato, mi guardai d’attorno; e vidi da ogni parte una grande pianura colma di dolore e di supplizi crudeli.

Il paesaggio sinistro delle mura della città di Dite, davanti alla quale si è svolto il dramma dell'anima tentata dalla disperazione, cede il posto, una volta che i due viandanti sono entrati in questa città, a una natura diversa, di uno squallore desolato, in cui predominano le linee orizzontali. "La grande campagna - osserva il Momigliano - è piena di lamenti: ma non si vede un'anima; di qui un'impressione sospesa, che è tanto più sensibile dopo la scena affollata e mossa di prima."

Come ad Arles, dove la corrente del Rodano (sfociando nel mare) si arresta, e come a Pola, presso il golfo del Quarnaro che delimita l’Italia e ne bagna i confini,

le tombe rendono tutto il terreno vario, così facevano qui in qualsiasi punto, solo che la forma della sepoltura era più angosciosa;

poichè fra i sepolcri erano sparse fiamme, a causa delle quali erano tanto roventi, che nessun’arte (di fabbro) chiede che il ferro lo sia di più.

Ad Arles, in Provenza, e a Pola, erano ben visibili nel Medioevo i ruderi di vaste necropoli romane. Si diceva che quella di Arles fosse sorta miracolosamente nel corso di una sola notte per consentire a Carlo Magno di seppellire i suoi soldati morti in uno scontro con gli infedeli. Il richiamo a questi cimiteri abbandonati precisa da vicino la visione che si offre agli occhi di Dante e le conferisce al tempo stesso una sua mesta solennità.

Le pietre tombali erano tutte sollevate, e uscivano dai sepolcri lamenti così disperati, che parevano davvero (lamenti) di infelici e di suppliziati.

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E io: "Maestro, quali sono quelle turbe che sepolte dentro quelle tombe, si fanno udire attraverso i loro dolorosi gemiti ? "

E Virgilio: "Qui si trovano i capi di eresie con i loro seguaci, di ogni setta, e i sepolcri sono molto più pieni di quanto tu creda.

Collocati fra i cerchi degli incontinenti e quelli del basso inferno, gli eresiarchi costituiscono una Categoria a sé.

Il fuoco che li tormenta negli avelli arroventati può forse essere messo in relazione con quello dei roghi a cui venivano condannati sulla terra, o meglio, in base ad un più sottile contrappasso, con le " fiammelle sotto la cui forma discese agli Apostoli lo Spirito Santo, infondendo in essi l'ardore della vera fede: di che tutti questi dannati furono privi" (Chimenz).

Un nesso profondo unisce, come osserva il Bozzetti, il significato del posto assegnato a queste anime con quello del grande dramma allegorico che si è concluso con l'entrata dei due poeti nella città di Dite: "Il controllo della ragione (Virgilio) non è stato sufficiente alla vittoria e ha dovuto intervenire la Grazia. Orbene, qui, negli eretici delle arche infuocate, sulla linea di confine fra i peccatori per incontinenza e i peccatori per malizia, sono puniti gli esseri che non offesero Dio altro che per essersi privati volontariamente della sua Grazia".

I seguaci di una stessa eresia sono sepolti insieme, e i monumenti sepolcrali sono ora più ora meno caldi". E dopo essersi volto a destra,

ci incamminammo fra il luogo dei supplizi e le alte mura.

Poiché i due pellegrini, nello scendere da un cerchio al successivo, girano sempre alla loro sinistra, si è voluto vedere anche in questo particolare un significato simbolico. Solo qui, e quando si dirigono verso il gruppo degli usurai (canto XVII, 31), Dante e Virgilio girano a destra.

Lo Scartazzini, a questo proposito, osserva che "l'andare a man destra si prende per segno o simbolo di dirittura, lealtà, sincerità, schiettezza". .

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO X

Ora il mio maestro avanza per uno stretto sentiero, tra il muro che cinge la città e i sepolcri roventi, e io lo seguo.

"O virtù eccelsa (Virgilio), che mi conduci, come tu vuoi, attraverso i cerchi degli empi" presi a dire, "parla ed esaudisci il mio desiderio.

Sarebbe possibile vedere i peccatori che giacciono dentro le tombe? tutti i coperchi, infatti, sono sollevati, e nessuno fa ad essi la guardia. "

La scenografia dei primi cerchi infernali si ispira ai grandi fenomeni naturali della terra: l'unico elemento che distingue la bufera che mai non resta dei lussuriosi o la pioggia maledetta del terzo cerchio da una bufera o da una pioggia reali, è la loro durata infinita. Dio si manifesta appunto attraverso questo carattere di eternità impresso a forme e movimenti altrimenti pienamente verosimili, in virtù della loro naturalezza, anche agli occhi di chi non riesca a vedere nella natura nulla che la trascenda. La stessa osservazione può ripetersi per la giostra degli avari e prodighi, che viene espressamente riallacciata dal Poeta a un particolare, l'urto delle onde di due mari nello stretto di Messina, e che, indipendentemente da questo accostamento, ha, del fenomeno naturale, la rigorosa periodicità e monotonia.

Ad accrescere l'orrore di questi spettacoli - orrore immediato e quasi fisico, non ancora pervaso nel profondo da quella problematica religiosa e morale che troverà le sue soluzioni più ricche soltanto in un secondo tempo - contribuisce il commento di grida e invocazioni con cui i dannati manifestano la sopravvivenza in loro di un barlume di libertà spirituale: la libertà del dolore, del rifiuto, della bestemmia.

Ma nel quinto cerchio la sofferenza delle fangose genti è muta: gli iracondi si troncano a brano a brano senza che Dante accenni ad un solo lamento da loro emesso. Il dramma allegorico, che prelude all'arrivo del messo celeste e che non è già più traducibile in termini "naturali" con la stessa facilità con cui lo erano gli spettacoli dei cerchi superiori, si svolge anch'esso in uno spazio che, per essere vuoto di suoni, si arricchisce di risonanze spirituali e parla direttamente all'anima. Il paesaggio del cerchio degli eretici, desolato nella sua quasi assoluta orizzontalità e cosparso di avelli aperti, sembra esso pure immerso nel silenzio, nonostante il cenno ai duri lamenti di questi peccatori (Inferno IX, 122 ).

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Ma anche qui il silenzio non è se non la condizione in cui meglio si ascolta la voce di Dio. La campagna cosparsa di tombe evoca uno scenario da Giudizio Universale. Anche il particolare, solo in apparenza secondario, del sentiero angusto che egli deve percorrere dietro la sua guida, accentua il senso di solitudine e lo sbigottimento del Poeta. Da tale stato d'animo nascono gli appellativi, ora solenni ora affettuosi, con cui Dante si rivolge in quest'apertura di canto a Virgilio, e tutto il tono sospeso delle sue parole.

E Virgilio: "Tutte le tombe saranno chiuse quando (nel giorno del Giudizio Universale) le anime torneranno qui dalla valle di Giosafàt insieme ai corpi che hanno lasciato in terra.

In questa zona del cerchio hanno il loro luogo di sepoltura Epicuro e i suoi adepti, i quali credono che l’anima muoia insieme al corpo.

Il filosofo greco Epicuro (341-270 a. C.) aveva negato la sopravvivenza dell'anima al corpo, opinione questa, come scrisse Dante nel Convivio ( Il, VIII, 8), "intra tutte le bestialitadi... stoltissima, vilissima e dannosissima". Le sue teorie erano conosciute nel Medioevo soltanto indirettamente, attraverso gli scrittori latini, e in modo incompleto; per tale motivo poterono essere qualificati "epicurei" tutti coloro che si mostravano indifferenti in materia religiosa. In particolare i Ghibellini vennero spesso designati come epicurei.

Perciò ben presto dentro questo stesso cerchio sarà data soddisfazione alla domanda che mi fai, e anche al desiderio che mi nascondi ".

E io: "Mia buona guida, io non ti tengo celato il mio animo se non per parlare poco, e tu stesso mi hai indotto a ciò non soltanto ora".

"O Toscano che ancora in vita percorri la città infuocata parlando in modo così decoroso, abbi la compiacenza di fermarti qui.

Il tuo modo di parlare rivela che sei nato in quella nobile terra alla quale forse arrecai troppo danno."

Il dannato che rivolge queste parole a Dante è Manente, detto Farinata, degli Uberti. Nato a Firenze all'inizio del secolo XIII, fu dal 1239 capo del partito ghibellino e come tale ebbe un ruolo di primo piano nel determinare la cacciata dei Guelfi dalla città nel 1248. Tornati questi nel 1251, dovette, a sua volta, allontanarsi da Firenze insieme ai suoi seguaci. Trovò rifugio a Siena, dove preparò la controffensiva contro il partito avverso. I Guelfi fiorentini subirono nel 1260 una sanguinosa disfatta a Montaperti ad opera dei fuorusciti ghibellini e dei Senesi comandati appunto da Farinata, Rientrato in patria, vi mori nel

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1264. Dopo la sua morte, e in seguito alla definitiva disfatta del partito ghibellino in Italia, gli Uberti furono messi al bando da Firenze e le loro case rase al suolo. Farinata, dopo la sua morte, fu processato per eresia.

Nel Farinata dantesco i romantici videro soprattutto l'eroe tutto d'un pezzo, il prodotto di un'epoca ancora barbarica, quasi un "superuomo" del Medioevo. In realtà il suo carattere è assai più sfumato, contraddittorio e umano; proprio in questa umanità è la sua grandezza. Bene osserva il Romani, a proposito di queste prime parole rivolte a Dante: "Nel violento impulso di affetto verso la sua patria, e nel subitaneo crescere e innalzarsi dell'immagine di lei, Farinata intravede, forse per la prima volta, di non averla in vita amata abbastanza, anzi di averle indegnamente recato offesa; e, in quell'impeto d'amore, l'anima s'apre alla sincerità, e confessa nobilmente la sua colpa".

Questa voce si levò all’improvviso da uno dei sepolcri; mi avvicinai, intimorito, un po più a Virgilio.

Ed egli mi disse: "Voltati: che cosa fai? Ecco là Farinata che si è levato: lo vedrai interamente dalla cintola in su ".

Dalla cintola in su tutto 'I vedrai: il De Sanctis interpretava questo verso in senso morale, come un equivalente di: "lo vedrai in tutta la sua grandezza".

Il Barbi ha voluto invalidare questa esegesi, mostrando come espressioni del tipo "dalla cintola in su" e "dalla cintola in giù", accompagnate a volte anche dalla specificazione "tutto", fossero comuni ai tempi di Dante, per designare "la parte superiore o inferiore del corpo". Ma uno dei pregi più rilevanti dell'arte del Poeta sta appunto nel saper conferire un significato nuovo, più ricco e profondo, ad espressioni che in nulla sembrano scostarsi dal parlare comune.

Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; ed egli stava eretto con il petto e con la fronte quasi avesse l’inferno in grande disprezzo.

La rappresentazione di Farinata che si erge solitario e immobile in mezzo alla pianura del dolore, ha ispirato le più suggestive pagine del saggio del De Sanctis; questi, peraltro, non si è soffermato abbastanza su quanto di complesso e di tormentato c'è nella figura di questo eroe, vincitore in terra, ma definitivamente perdente agli occhi di Chi lo ha giudicato per l'eternità. Scrive il De Sanctis, a proposito dell'"ergersi" di Farinata, che questo verbo "è sublime non per il suo significato diretto, ma come segno ed espressione d'una grandezza tanto maggiore quanto meno misurabile, dell'ergersi, dell'innalzarsi dell'anima di Farinata sopra tutto l'inferno..."

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

E le mani incoraggianti e sollecite ti Virgilio mi sospinsero fra le tombe verso quel dannato, con questa esortazione: "Le tue parole siano misurate".

Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi osservò un poco, e poi, quasi sprezzante, mi chiese: "Chi furono i tuoi antenati ? "

C'è un grande divario fra il tono appassionato, affabile e nobilmente ornato della preghiera che Farinata ha poc'anzi rivolto a Dante e il tono brusco e imperioso con cui gli pone la domanda circa i suoi antenati. Ma, come ha giustamente notato il Sansone, "lì Farinata parlava a quell'ignoto concittadino, a colui che gli rimenava alla memoria la sua terra, nell'inferno, li dov'è una distanza immensa ed implacabile da ogni cosa terrena. Qui si rivolge a un solo determinato Fiorentino, e sta guardingo come se preavvertisse il nemico".

Io, che desideravo obbedire, non glieli nascosi, ma tutti glieli indicai; per cui egli sollevò un poco le ciglia,

poi disse: "Furono acerrimi nemici miei e dei miei avi e del mio partito, tanto che per due volte li debellai".

Farinata bandi due volte da Firenze i Guelfi (nel 1248 e nel 1260), ma dispersi suggerisce l'idea di una sconfitta in battaglia (il che, se può essere vero per la cacciata dei Guelfi nel 1260, in seguito allo scontro di Montaperti, non lo è certo per quella del 1248). Scrive il Romani, sempre in merito al tono che assume questo termine guerresco nelle parole del Ghibellino: "Farinata non dice: In conseguenza della loro inimicizia li combattei; ma semplicemente li dispersi: per lui il combattere i suoi nemici e il disperderli sono una cosa sola; egli non conosce battaglia senza vittoria".

" Se furono mandati in esilio, tornarono da ogni luogo" gli risposi "sia la prima che la seconda volta; ma i vostri non impararono bene l’arte del ritornare".

Dante rettifica l'espressione con cui Farinata ha accennato alla messa al bando degli Alighieri: essi non furono dispersi, ma soltanto cacciati, mandati in esilio. Poi, da vero uomo di parte che si trova a dover difendere l'onore politico della propria famiglia e l'integrità delle tradizioni domestiche, "gli ritorna quel plurale [due fiate] distinto in due singolari [l'una e l'altra fata]; due colpi, l'uno appresso all'altro; e niente pareggia il sarcasmo dell'ultimo verso [ma i vostri non appreser ben quell'arte] " ( De Sanctis).

A questo punto si levò dall’apertura scoperchiata un’ombra accanto a quella di Farinata, visibile dal mento in su: penso si fosse alzata sulle ginocchia.

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L'ombra che interrompe, nel punto della sua più alta tensione, il dialogo tra Farinata e Dante è quella di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido, il migliore amico di Dante, che gli dedicò la sua opera giovanile, la Vita Nova. Cavalcante ebbe in vita fama di miscredente: in particolare, non avrebbe creduto all'immortalità dell'anima. Guelfo, dette il suo consenso al fidanzamento del figlio Guido con Beatrice, figlia di Farinata, allorché nel 1267 le due opposte fazioni tentarono una riconciliazione.

La figura di Cavalcante è l'antitesi di quella di Farinata. La grandezza del capo ghibellino deriva, infatti, dalla forza con cui egli riesce a dominare il dolore per la definitiva sconfitta dei suoi, la pena segreta del suo fallimento umano (identificando patria e partito, ha creduto di agire per il bene della patria, mentre non ha fatto altro che opporsi ad essa in nome di una fazione), e tale forza si riflette nel suo atteggiamento statuario. Cavalcante, di fronte a questa statua, è un'ombra, e delle ombre ha la fuggevole inconsistenza. Come ha notato l'Agliana: "La figura di Cavalcante sembra dominata dal dubbio sin dal suo primo apparire. Una condizione d'incertezza è nella sua positura fisica, nello sguardo che egli rivolge intorno, nella domanda che pone a Dante".

Guardò intorno a me, come se avesse desiderio di vedere se con me c’era qualcun altro; e dopo che ebbe finito di dubitare,

tra le lagrime disse: "Se il tuo alto ingegno ti consente di attraversare la buia prigione infernale, dov’è mio figlio? perché non è con te? ".

L'ateo Cavalcante crede bastino, per visitare il regno dei morti, le sole forze umane (altezza d'ingegno); ignora la dimensione della Grazia. Perché suo figlio Guido, anch'egli, come l'amico Dante, cultore di studi filosofici, non è con lui in questo viaggio? Guido Cavalcanti, più giovane di qualche anno di Dante, fu con l'Alighieri il più cospicuo rappresentante della scuola poetica del dolce stil novo. Come studioso di filosofia egli si interessò soprattutto al pensiero dell'arabo Averroè. Guelfo bianco, fu esiliato dai Priori, tra i quali era anche Dante, nel giugno del 1300, a Sarzana. Mori due mesi dopo.

Ed io: "Non giungo per mio merito: Virgilio, che là mi aspetta, attraverso questo luogo mi conduce, se riuscirà a seguirlo, fino a colei (Beatrice, simbolo della fede) che il vostro Guido ebbe in dispregio".

Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno: è uno degli endecasillabi più controversi dell'intero poema. L opinione oggi prevalente è che in esso Dante contrapponga, al proprio interesse per la teologia (simboleggiata nella Commedia da Beatrice), il disprezzo manifestato per questi studi dall'eretico ( e forse ateo) Guido, seguace in ciò del padre. Ecco dunque la ragione per la quale il figlio di Cavalcante non ha potuto intraprendere anche lui il viaggio nel regno dei morti; questo viaggio non è opera di una volontà e di una intelligenza umane; esso è stato voluto in cielo; chi lo compie ha la fede.

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Le sue parole e la qualità del supplizio mi avevano già palesato il nome di questo peccatore; perciò la mia risposta fu tanto esauriente.

Alzatosi di scatto in piedi gridò: "Come hai detto? egli ebbe? non vive più? la dolce luce non colpisce più i suoi occhi? "

Quando si avvide di un certo indugio che io facevo prima di rispondergli, cadde nuovamente indietro e non si mostrò più fuori.

E' bastato un verbo riferito al passato piuttosto che al presente (ebbe invece di " ha ") perché il padre angosciato subito pensasse alla morte del suo Guido.

Le tre domande che rivolge a Dante per ottenere un chiarimento al suo dubbio non trovano risposta immediata. Non occorre altro perché Cavalcante, sopraffatto dal dolore, cada come fulminato nella tomba. Egli ha creduto che il silenzio di Dante significasse: " Tuo figlio non è più tra i vivi ", mentre il Poeta in realtà, come spiegherà poi a Farinata, era tutto preso da un altro pensiero: "se Cavalcante ignora che Guido è ancora in vita, vuol dire che questi dannati non conoscono il presente, pur conoscendo l'avvenire. Come può la profezia di Ciacco accordarsi con questa cecità di Cavalcante nei riguardi degli eventi contemporanei? "

Ma il magnanimo Farinata, a richiesta del quale mi ero fermato, non cambiò espressione, né mosse il collo, né chinò il suo fianco;

e proseguendo il discorso di prima, disse: " Se hanno male imparato l’arte del ritornare, ciò mi procura un dolore più grande di quanto non faccia la tomba in cui sto a giacere.

Farinata rimane insensibile allo strazio di Cavalcante perché - come osserva il De Sanctis - "egli non vede e non ode, perché le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio senza andare sino all'anima, perché la sua anima è tutta in un pensiero unico, rimastole infisso come uno strale, l'arte... male appresa, e tutto quello che avviene fuori di sé, è come non avvenuto per lei". Ma nell'intermezzo, in cui è racchiuso tutto il dramma umanissimo di questo morto che, soggetto ai supplizi infernali, ad altro non pensa che alla sorte del figlio rimasto sulla terra, l'atteggiamento di Farinata si è approfondito, si è fatto più intimo e raccolto: abbiamo lasciato l'uomo di parte per ritrovare solo l'uomo. Un nuovo dolore si è aggiunto a quelle pene infernali che egli ostentava poco fa di tenere in nessun conto: il dolore per l'arte... male appresa. Il superbo Farinata non ha riguardo adesso di confessare la sua sofferenza "con un verso fatto sublime dalla terribile antitesi di due strazi ugualmente sconfinati: ciò mi tormenta più che questo letto" (Parodi).

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Ma il volto della donna che qui governa non si riaccenderà nemmeno cinquanta volte, che tu stesso apprenderai quanto sia dura l’arte di ritornare in patria.

L'esilio che qui Farinata predice a Dante è menzionato indirettamente, nello stile oscuro delle profezie. Richiamandosi alla mitologia, il Poeta definisce la luna signora dell'inferno: essa infatti veniva spesso identificata dagli antichi con Proserpina, moglie di Plutone, re dell'Ade. Il senso delle parole di Farinata è questo: " non trascorreranno nemmeno cinquanta mesi lunari da ora fino al momento in cui dovrai rassegnarti alla tua condizione di esule " (dall'aprile 1300, anno in cui avviene l'immaginario viaggio, al giugno 1304, quando Dante si staccò dai Bianchi, insieme ai quali aveva fino allora tentato di rientrare in Firenze).

Ancora il Parodi analizza con grande finezza, in rapporto alla profezia contenuta in questa terzina, il progressivo umanizzarsi della figura di Farinata: "mentre nell'annunziare a Dante la sua prossima sventura dovrebbe provare una soddisfazione o quasi un sollievo, è costretto a riconoscere che il dolore purtroppo non risparmia nessuno, onde il colloquio viene ad assumere un tono sempre più pacato".

E voglia il cielo che tu possa ritornare nel mondo dei vivi, dimmi (per questo augurio che ti faccio): perché il popolo fiorentino è così spietato in ogni sua legge contro quelli della mia famiglia? "

Gli risposi: " La crudelissima strage che tinse del colore del sangue il fiume Arbia, fa prendere tali decisioni nelle nostre assemblee ".

L'Arbia è il fiume che scorre presso Montaperti. In uno scritto dell'epoca è detto che nel giorno della battaglia, tutte le strade, e poggi e ogni rigo d'acqua pareva un grosso fiume di sangue.

Tali orazion la lar nel nostro tempio: non è da credere che nelle chiese di Firenze, come hanno sostenuto alcuni, si tenessero suppliche di deprecazione contro i discendenti di Farinata. Tutta l'espressione ha un senso traslato, che tuttavia "aggiunge qualcosa al nudo senso letterale, trasfigurandolo: dà la rappresentazione concreta dell'avversione generale diffusa nel popolo contro gli Uberti" (Malagoli).

Dopo aver sospirato e scosso la testa, disse: " Non fui io solo a provocare questa strage né certamente senza un motivo mi sarei mosso insieme agli altri esuli.

Ma fui io solo, là dove fu da tutti tollerato che Firenze venisse rasa al suolo, colui che la difesi apertamente "

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Come tutti i dannati, anche Farinata, inappellabilmente giudicato agli occhi di Dio. cerca di addurre ragioni umane per giustificare il proprio operato di fronte a Dante (a ciò non fu' io sol... né certe sanza cagion ... ). Ma tutte queste giustìficazioni passano in seconda linea di fronte a quello che costituisce il maggior titolo di Farinata alla riconoscenza dei posteri: l'aver perorato senza infingimenti la causa della sua città allorché, nel convegno di Empoli, subito dopo la vittoria di Montaperti, tutti i Ghibeilini toscani ne decretarono la distruzione. Fu proprio per l'opposizione di Farinata che questo spietato provvedimento fu alla fine respinto. Anche uno storico guelfo come Giovanni Villani ha parole di elogio per l'atteggiamento preso in quell'occasione da Farinata. che non esita a paragonare al "buonoantico Cammillo di Roma" (VI, 81).

"Deh, possa aver pace un giorno la vostra discendenza " lo pregai, "scioglietemi (in nome di questo augurio) quel dubbio che in questo cerchio ha confuso le mie idee.

Sembra che voi prevediate , se intendo bene, quello che il tempo porta con sé (il futuro), ma per il presente vi trovate in una condizione diversa. "

" Noi vediamo " disse " come colui che ha la vista difettosa, le cose che sono da noi lontane; di tanto ancora ci illumina Dio.

Quando esse si avvicinano o sono presenti, la nostra mente non ci è di nessun aiuto; e se qualcun altro non ci porta notizie, non sappiamo nulla del vostro stato sulla terra.

Quale differenza tra il Farinata che pareva avere l'inferno in gran dispitto e il Farinata che adesso, consapevole della sua condizione di dannato, parla con tanta reverenza di Dio! Questa ultima parte del canto è stata generalmente giudicata impoetica dai critici, ma a torto: l'umiltà di Farinata di fronte al sommo duce è il punto d'approdo necessario di quel processo di interiore approfondimento, di meditazione sul dolore, che, lungi dal diminuirne la figura, la completa, dando un significato etico e religioso alla monumentalità un po' schematica della sua presentazione iniziale. Anche il superbo Farinata testimonia la grandezza di Dio. Il Poeta, che lo ha innalzato su un piedistallo di gloria, lo ha portato a riconoscere la vanità della sua come di tutte le glorie umane, ove non siano illuminate dai valori che trascendono l'umano metro di giudizio.

Puoi pertanto capire come la nostra conoscenza sarà del tutto offuscata dal momento in cui (dopo il Giudizio Universale) la porta del futuro si chiuderà. "

Un sottile contrappasso è adombrato nella pena morale che si aggiunge ai tormenti che straziano gli epicurei nelle loro arche infuocate: essi, che in vita non hanno prestato fede che alle cose visibili,

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presenti davanti ai loro occhi, ora non possono percepire che il futuro, gli eventi che infallibilmente si preparano nella prescienza di Dio.

Allora, come punto dal rimorso per una colpa da me compiuta, parlai: " Ora direte dunque all’ombra che è ricaduta (nel sepolcro) che suo figlio è ancora unito ai vivi;

e riferitele che, se poc’anzi tacqui invece di risponderle, lo feci perché già stavo pensando al dubbio che mi avete chiarito ".

Ormai Virgilio mi stava richiamando; perciò con maggior sollecitudine pregai Farinata che mi facesse i nomi dei suoi compagni di pena.

Mi disse: " In questa parte del cerchio giaccio con moltissimi altri: qui dentro ci sono Federico Il, e il Cardinale; e taccio dei rimanenti ".

Su Federico Il di Svevia, vissuto e morto in fama di eretico (anche Dante, che pur mostra di stimarlo, avvalla nel Convivio questa opinione), uno storico dell'epoca scrisse che era epicureo e che poneva ogni sforzo nel cercare di dimostrare, servendosi di passi della Sacra Scrittura, che l'anima è mortale.

Il Cardinale è il vescovo ghibellino di Bologna, Ottaviano degli Ubaldini, morto nel 1273.

Gli antichi commentatori sottolineano concordi la sua miscredenza. A proposito dell'anima sosteneva, riferisce il Lana , che, seppure esiste, egli l'aveva perduta per essersi fatto ghibellino.

Poi si nascose (nel sepolcro); ed io mi diressi verso Virgilio, riandando col pensiero a quella profezia che mi sembrava ostile.

Egli s’incamminò; e poi, mentre procedevamo, mi chìese: " Perché sei così turbato? " E io risposi alla sua domanda.

"La tua memoria serbi ciò che di ostile ti è stato predetto " mi ingiunse Virgilio. "Ed ora fa attenzione a queste parole " ed alzò l’indice:

" quando ti troverai in presenza della soave luce che si sprigiona da colei (Beatrice) che vede tutte le cose, apprenderai da lei il corso della tua vita. "

Poi si diresse verso sinìstra: ci allontanammo dal muro e procedemmo, verso la parte centrale del cerchio

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

seguendo un sentiero che terminava in un baratro

il quale faceva giungere fin lassù il suo puzzo nauseabondo.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO XI

Sull’orlo di un alto pendio, formato da grandi macigni spaccati disposti circolarmente, Giungemmo al di sopra di una folla sottoposta a più dolorosi tormenti;

e qui per lo spaventoso insopportabile fetore che esala il basso inferno, cercammo riparo dietro il coperchio

di una grande tomba, sul quale vidi la seguente iscrizione: " Custodisco papa Anastasio, che Fotino allontanò dalla giusta strada ".

Secondo una tradizione diffusa nel Medioevo, Anastasio II, pontefice dal 496 al 498, sarebbe incorso nell'ira di Dio per aver aderito all'eresia monofisita (secondo la quale la persona del Cristo aveva accolto in sé una sola natura, quella umana) in seguito ai suggerimenti di Fotino, diacono di Tessalonica.

"Occorre che la nostra discesa sia ritardata, in modo che prima il nostro olfatto si abitui un poco alla pestifera esalazione; dopo non dovremo più prendere, riguardo ad essa, alcuna precauzione."

Così parlò Virgilio; e io gli dissi: "Trova un compenso (alla nostra sosta), in modo che il tempo non scorra inutilmente ". E Virgilio: " E’ proprio ciò a cui sto pensando".

La richiesta che qui Dante rivolge al maestro non si ispira al concetto che occorre in un modo qualsiasi riempire il tempo per sfuggire alla noia, ma alla profonda concezione morale secondo la quale siamo responsabili di fronte alla nostra coscienza del tempo da noi speso male o nell'ozio. Il tempo è prezioso per colui che concepisce la vita anzitutto come dovere: perder tempo a chi più sa più spiace dirà Virgilio al discepolo durante l'ascesa del purgatorio (canto III, verso 78).

"Figliolo, all’interno di questa riva pietrosa" prese poi a dire "si trovano tre cerchi piccoli, (rispetto ai precedenti), digradanti come quelli dai quali sei uscito.

Sono tutti pieni di anime dannate; ma perché poi ti sia sufficiente soltanto vederle (senza più bisogno di spiegazioni), odi in che modo e per quale motivo si trovano in essi stipate.

Lo scopo di ogni cattiva azione, che suscita ira in cielo, è la violazione di un diritto, ed ogni scopo di http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/undicii.htm (1 di 7)08/12/2005 9.02.26

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questo genere (ogni ingiuria) offende qualcuno o con la violenza o con la frode.

Tre sono le fonti principali da cui Dante attinge i criteri che presiedono alla struttura morale e topografica del basso inferno: Aristotile, il diritto romano e il pensiero scolastico nella formulazione di San Tommaso. Qui in particolare i termini malizia e ingiuria sono usati in un'accezione specificamente giuridica: la " malizia " è quella disposizione al male, il cui fine, deliberatamente voluto e perseguito, è l'infrazione (iniuria: violazione di un diritto) di una legge fissata da Dio. La ingiuria può essere perseguita e per mezzo della violenza e per mezzo della frode: questa distinzione, fondamentale nel dìritto romano, si trova enunciata nel De Offlciis di Cicerone.

Ma poiché la frode è malvagità propria dell’uomo, essa spiace maggiormente a Dio; perciò i fraudolenti stanno in basso e sono sottoposti a tormenti maggiori.

La violenza è comune sia agli uomini che agli animali; non così la frode, il raggiro, l'inganno premeditato, che si fondano sulla ragione e designano colpe specificamente umane. L'uomo si addentra tanto più nel male quanto più consapevolmente e freddamente lo compie. Già Aristotile aveva indicato, nella consapevole partecipazione del raziocinio all'atto moralmente negativo, il criterio per distinguere le colpe in base alla loro gravità.

Il primo dei tre cerchi è interamente occupato dai violenti; ma poiché si compie violenza contro tre specie di persone, esso è stato costruito e suddiviso in tre zone concentriche.

Si può usar violenza contro Dio, se stessi, il prossimo, e precisamente tanto contro loro personalmente quanto contro le cose che loro appartengono, come ti sarà spiegato attraverso un ragionamento più chiaro.

La gravità dell'azione violenta cresce in misura proporzionale all'amore che il peccatore avrebbe dovuto avere per la persona da lui offesa. L'amore per il prossimo è naturalmente meno forte di quello per se stessi; perciò suicidi e scialacquatori si trovano in un girone più basso - il secondo - di coloro che hanno attentato all'integrità fisica e alle ricchezze altrui. Ma i più gravi peccati di violenza sono quelli compiuti contro Dio; infatti l'amore che la creatura deve al suo Creatore è più grande di quello che deve a se stessa o agli altri. Nel terzo girone, il più basso, è quindi punita la violenza che offende Dio nella sua persona (bestemmiatori).

Al prossimo si possono infliggere morte violenta e dolorose ferite, e ai suoi beni distruzioni, incendi ed estorsioni dannose;

perciò il primo girone punisce, divisi in gruppi (per diverse schiere), tutti quanti gli omicidi e chiunque

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colpevolmente ferisce, i saccheggiatori e i ladroni.

Si può usar violenza contro se stessi e contro i propri averi; e perciò è giusto che nel secondo girone si penta inutilmente

chiunque priva se stesso della vita, dilapida al gioco e sperpera le sue ricchezze, e (quindi) piange là dove avrebbe dovuto essere lieto.

Dell'ultimo verso di questa terzina si danno due interpretazioni, a seconda del senso che si attribuisce alla determinazione locale là; per alcuni, gli scialacquatori piangerebbero in terra dopo aver dato fondo a tutte le loro sostanze; per altri, invece - e questa sembra l'esegesi più aderente allo spirito del passo - il pianto di questi violenti sarebbe la conseguenza della loro dannazione che li ha privati nell'al di là della felicità eterna.

Si può usare violenza contro Dio, rinnegandolo in cuore e apertamente bestemmiandolo, e recando oltraggio alla sua bontà nella natura;

perciò il girone più piccolo segna del suo marchio sia Sodoma sia Cahors, sia colui che parla disprezzando Dio nel suo animo (il bestemmiatore).

I sodomiti (violenti contro natura) e gli usurai (violenti contro l'arte, intesa, in senso lato, come lavoro, operosità) sono designati indirettamente in questa terzina attraverso i nomi delle due città che, nell'antichità e nel Medioevo, dovettero la loro celebrità a quei vizi. Nella Genesi (XIX, 24-25) è narrata la distruzione di Sodoma ad opera del fuoco celeste: i suoi abitanti si erano macchiati infatti del peccato contro natura. La città francese di Cahors godeva fama, ai tempi di Dante, di essere un covo di usurai.

Significativa in proposito è la seguente frase del Boccaccio: "Come l'uomo dice dì alcuno - egli è Caorsino - come s'intende ch'egli sia usuraio".

La frode, che offende ogni coscienza, può essere usata tanto contro colui che si fida quanto contro colui che non ha fiducia.

Questo secondo tipo di frode sembra distruggere soltanto il vincolo d’amore creato (tra gli uomini) dalla natura; perciò nel secondo cerchio (della città di Dite, ottavo di tutto l’inferno) sono raccolti

i peccati di ipocrisia, adulazione e magia, falsificazione, latrocinio e simonia, seduzione, baratteria e colpe ugualmente immonde.

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L’altro tipo di frode fa dimenticare sia il vincolo dell’amore naturale, sia quello che ad esso si aggiunge in seguito, dal quale nasce la fiducia specifica;

perciò,nel cerchio più piccolo, dove si trova il punto dell’universo occupato da Lucifero (Dite), chiunque tradisce è dilaniato da tormenti eterni. "

Anche la gravità della frode è in rapporto alla persona che essa colpisce Meno grave appare quindi l'inganno esercitato contro chi non ha particolari motivi per fidarsi, più grave quello che si configura come tradimento. Il vincolo che dovrebbe legare tutti gli uomini tra loro è l'amore naturale, poiché, come Dante scrive nel Convivio (I, I, 8), Per natura "ciascun uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico". Ma al vincolo comune dell'amore naturale si aggiungono vincoli più specifici, come la parentela, la patria, l'ospitalità, il beneficio ricevuto, l'amicizia. I fraudolenti contro chi non si fida infrangono il solo vincolo dell'amore naturale, quelli contro chi si fida (i traditori) distruggono anche i vincoli umani che ad esso si aggiungono e dovrebbero consolidarlo. Nell'inferno di Dante i traditori, imprigionati nel ghiaccio dello stagno Cocito, occupano l'ultìmo dei nove cerchi.

Ed io: " Maestro, il tuo ragionamento si svolge con grande chiarezza, e descrive assai bene questo abisso e le genti in esso contenute.

Ma spiegami: quelli della palude melmosa, quelli travolti dal vento, e quelli che la pioggia percuote, e quegli altri che, incontrandosi, così aspramente si insultano, perché non sono puniti dentro la città arroventata, se Dio li ha in odio? e se non li ha, perché si trovano in tali condizioni ? "

Tra i peccatori elencati da Virgilio non hanno trovato posto gli iracondi (quei della palude pingue), i lussuriosi (che mena il vento), i golosi (che batte la pioggia), gli avari e prodighi (che s'incontran con sì aspre lingue). Da ciò Dante, nella falsa opinione che tutti i peccati siano riconducibili alla malizia, è tratto ad argomentare: se essi sono peccatori, dovrebbero trovarsi dentro la cinta di mura che delimita il basso inferno; se invece non lo sono, perché sono in quel modo puniti? Il Poeta, che vuole rappresentare tutta l'umanità, sembra prevedere i dubbi, le domande del lettore, anche se talvolta, come in questo caso, la sua preoccupazione di offrire una risposta conferisce un tono eccessivamente didascalico alla poesia. Il Boccaccio sottolinea che "delirare" significa "uscire dal solco": è l'affettuoso rimprovero della ragione a Dante, il quale sembra dimenticare in questo momento quei principi filosofici che Virgilio subito gli richiamerà alla memoria.

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Non ti ricordi delle parole con le quali I’Etica, libro a te familiare, tratta a fondo le tre inclinazioni che Dio disapprova,

l’incontinenza, la malizia e la sfrenata bestialità? e di come l’incontinenza offenda meno Dio, e attiri su di sé una condanna minore?

Se tu riesamini attentamente questa affermazione, e ricordi chi sono coloro che vengono puniti nella parte alta dell’inferno, fuori della città di Dite,

Il pensiero di Aristotile era molto studiato nel Medioevo. Si riteneva che il grande filosofo greco avesse trovato le risposte più persuasive ed esaurienti a tutti i problemi che l'uomo può risolvere servendosi della sola ragione.

Nell'Etica Nicomachea Aristotile classifica il male in base alla maggiore o minore partecipazione della volontà cosciente al suo compimento. Virgilio, richiamando alla memoria del discepolo il capitolo primo del libro VII, intende sottolineare la razionalità del criterio secondo cui sono distribuite le pene infernali. Dio ci giudica, infatti, tenendo conto di quel lume naturale che è in ciascuno di noi e che ci mette in grado di distinguere con chiarezza il bene dal male e di agire conseguentemente.

comprenderai perché si trovino separati da questi malvagi, e perché la giustizia di Dio li colpisca meno adirata ".

Virgilio ricorda al suo discepolo che nell'Etica Nicomachea di Aristotile gli atti peccaminosi non sono tutti riconducibili alla malizia: il filosofo greco aveva infatti considerato non una, ma tre disposizioni moralmente negative, l'incontinenza, la malizia e la bestialità. Ora, nei cerchi superiori dell'inferno sono puniti i peccati d'incontinenza. Questa rappresenta una disposizione al male in quanto l'incontinente è portato a ricercare al di là del lecito cose che, di per se stesse, entro i limiti loro assegnati nell'economia della creazione, sono un bene. Il peccato d'incontinenza è quindi un peccato di dismisura. Per questo esso si distingue radicalmente da quello di malizia, deliberatamente volto al male, ed è punito al di fuori della città di Dite. Poiché in questa sono presenti solo i peccati dovuti a malizia (divisi a loro volta, come è stato chiarito da Virgilio nella prima parte del canto, in violenza e frode), i commentatori si sono chiesti in quale parte dell'inferno sia punita la matta bestialitade. Alcuni hanno voluto identificarla nella violenza dei settimo cerchio, altri nell'eresia del sesto. Ma, come ha dimostrato il Nardi, l'Etica di Aristotile è menzionata da Virgilio a questo punto non tanto al fine di convalidare con l'autorità del maestro di color che sanno l'intero ordinamento dell'inferno, quanto per dimostrare soltanto che l'incontinenza non può essere accomunata alla malizia, essendo peccato assai meno grave. Nella partizione del peccati Dante ha fatto uso di due delle categorie stabilite da Aristotile, tralasciando la terza (la bestialità).

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"O luce che come sole liberi la vista (dell’intelletto) da ogni offuscamento, mi riempi di tanta gioia quando sciogli i miei dubbi, che il dubitare non mi è meno gradito del sapere.

Le parole di Dante, che a prima vista possono apparire improntate a una certa retorica, esprimono invece la gioia profonda dell'uomo che comprende, con il suo intelletto, la razionalità del creato e che ha la sicurezza che ogni altro dubbio potrà essere sciolto.

Torna ancora un po’ indietro " dissi, " nel punto in cui dici che l’usura oltraggia la bontà di Dio, e chiarisci questa difficoltà. "

"A colui che sa capirla " disse " la filosofia dimostra e non in un solo punto, come la natura prende origine

dalla mente e dall’opera di Dio; e se tu leggi attentamente la Fisica (di Aristotile), a te ben familiare, troverai, dopo non molte pagine,

che l’operato umano imita, per quanto può, la natura, come l’alunno imita il maestro; tanto che il vostro operare è quasi nipote di Dio.

Il pensiero medievale sosteneva, d'accordo in ciò con la speculazione degli antichi, che i prodotti del lavoro umano (arte) avevano il loro fondamento nei prodotti della mente divina, nelle opere cioè della creazione (natura). L'uomo doveva quindi tendere, al fine di conferire valore sempre più alto alle proprie opere, ad imitare la natura, concepita appunto come il veicolo del Verbo divino, il suo ricettacolo in terra. Essendo quindi l'arte una riproduzione della natura, ed essendo quest'ultima opera diretta di Dio, anche l'arte, l'umana operosità, ha in Dio la sua origine e la sua legittimazione; perciò se metaforicamente la natura può essere chiamata figlia di Dio, l'arte può apparirne come la nepote. Con questa spiegazione Virgilio intende chiarire al suo discepolo la sostanziale affinità che lega il peccato contro la natura a quello contro l'arte: entrambi infatti, attraverso la natura e l'arte, offendono, per analoghe ragioni, Dio.

Se tu richiami alla tua memoria l’inizio del libro della Genesi, vedrai che è dalla natura e dall’arte che gli uomini devono trarre i mezzi per vivere e migliorare le proprie condizioni;

e poiché l’usuraio segue un altro cammino, offende la natura in se stessa e nella sua imitatrice, affidando ad altro la sua speranza.

Ma è tempo ormai che tu mi venga dietro, poiché ritengo che dobbiamo incamminarci; la costellazione dei Pesci (che precede di tre ore l’apparizione dell’alba), infatti, sale scintillando sopra l’orizzonte e quella dell’Orsa Maggiore si trova esattamente nella direzione del vento Cauro,

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e si discende il dirupo assai più in là."

Alla fine di questo canto dottrinale la poesia torna ad affermarsi in una precisazione cronologica (in terra sta per spuntare il sole; un nuovo giorno comincerà tra poco; è tempo di riprendere il cammino) che fa balenare per un attimo, sulla desolazione dello scenario infernale, la solenne maestà del cielo stellato.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO XII

Il luogo in cui giungemmo per scendere lungo il dirupo era scosceso e, per di più a causa di ciò che in esso si trovava (il Minotauro), tale, che ogni sguardo lo avrebbe evitato.

Quale è la frana che a valle di Trento colpì in una delle sue rive l’Adige, o a causa di un terremoto o per l’erosione del terreno sottostante,

in modo che il pendio dalla vetta della montagna, dalla quale la frana si staccò, alla pianura è così inclinato, da offrire una via di discesa a chi si trovasse in alto,

Dante precisa le forme del paesaggio infernale mediante riferimenti a luoghi della terra. Questi riferimenti sono, condotti a volte con uno scrupolo che può apparire scientifico, come qui, dove è indicato non solo il risultato, di un fenomeno (la particolare configurazione del terreno: è sì la roccia discoscesa), ma il fenomeno stesso (la ruina che percosse l'Adige) e le sue più probabili cause (terremoto o erosione del terreno).

Come giUstamente osserva Montanari, occorreva vedere "in queste insistenze descrittive più ancora che la mentaIità realistica, esatta, scientifica di Dante, l'impegno verso il suo tema sentito come cosa assolutamente seria e più che poetica". Diversamente infatti che nelle altre visioni medievali dell'oltretomba, dove l'elemento immaginativo prevale sempre su quello reale, nella Commedia, più la situazione è irreale, fantastica, più appare convalidata , dall'assoluta serietà con cui il Poeta la descrive. In perfetto accordo con il pensiero cristiano, per Dante la vera realtà è l'oltretomba; essa, appunto perché reale, appare dotato di leggi proprie e intimamente coerente con se stesso. Di qui la scientiflcità di cui spesso l'elemento fantastico si colora in Dante. La frana a sud di Trento, alla quale è paragonato il dirupo che porta dal sesto al settimo cerchio, va probabilmente identificata negli Slavini di Marco, dei quali una esatta descrizione è in un passo del trattato Sulle meteore di Alberto Magno.

tale era la discesa di quel burrone; e nella parte superiore della Costa franata giaceva distesa la vergogna, dei Cretesi

che fu concepita nella finta vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come colui che è sopraffatto internamente dall’ira.

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Il Minotauro, che per gli antichi era un uomo con la testa di toro, ma che Dante, equivocando forse un'espressione di Ovidio ("uomo per metà bovino, bove per metà umano"), immagina come toro con la testa di uomo, è definito infamia in quanto rappresenta la testimonianza vivente del degradarsi dell'umano nel bestiale. Sua madre Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, presa d'amore per un toro, si fece rinchiudere in una vacca dì legno. Nato che fu, il Minotauro venne imprigionato in un luogo da cui era impossibile uscire: il Labìrinto. Nel Minotauro dantesco i richiami mitologici si fondono con il realismo della scena colta dal vivo. Il simbolo (l'infamia) non resta confinato nell'ambito del riferimento dotto (la leggenda di Parsifae), ma acquista concretezza, esprime una vitalìtà disperata nella descrizione del mostro che prima morde se stesso, poi, quando l'ira è al culmine (versi 22-24), saltella come il toro morente.

Il mio saggio maestro gli si rivolse gridando: " Pensi forse di trovarti in presenza del signore d’Atene, che sulla terra ti diede la morte?

Allontanati, bestia: costui non giunge infatti guidato da tua sorella, ma si reca a vedere i vostri tormenti".

Osserva giustamente il Sapegno come le parole che Virgilio rivolge al Minotauro, mentre sembrano volerlo rassicurare, in realtà, richiamandogli alla memoria la sua cruenta uccisione e il tradimento della sorellastra Arianna, figlia di Minosse, ne accrescono l'ira e "la portano a sfogarsi in gesti dissennati e bestiali, sui quali facilmente. anche questa volta, avrà il sopravvento l'astuta ragione dell'uomo" Secondo una leggenda, Arianna aìutò Teseo a raggiungere il Minotauro perché lo uccidesse; e, affinché l'eroe non si smarrisse nell'intrico del Labirinto, gli diede un gomitolo da dipanare lungo il suo cammino.

Come fa il toro che si scioglie dai nodi che lo legano nell’istante in cui, mortalmente colpito, non è più capace di camminare, ma barcolla qua e là,

tale io vidi diventare il Minotauro; e il sagace Virgilio gridò: " Corri al punto di discesa; è bene che tu scenda, mentre è infuriato ".

L'immagine del toro colpito a morte è già in Seneca e Virgilio. Questi autori, nel descrivere l'uccisione dell'animale in occasione di un sacriflcìo agli dei, sanno infondere a tutta la scena un senso di nobile pietà. In Dante il quadro sembra ritrarre piuttosto la scena di un macello, e si concretizza in una accentuazione dei tratti più crudi e realistici. Come Cerbero, il Minotauro è anch'esso animalità allo stato puro, forza cieca che l'umana ragione non può non disprezzare e deridere.

Così ci avviammo attraverso l’ammasso di quelle pietre, che si muovevano spesso sotto i miei piedi per l’insolito peso.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Dante ravviva sovente la narrazìone del suo viaggio nell'al di là con osservazioni, come questa, solo in apparenza insignificanti; in realtà esse hanno tutte la funzione di insistere sulla singolarità della sua esperienza nel mondo dei morti. Egli è il vivo, dotato di consistenza e peso, nel regno degli spettri, egli ha il potere, come osserverà in questo stesso canto il centauro Chirone, di muovere ciò che tocca. Questo motivo si ripresenterà diverse volte nel corso del poema e darà luogo, soprattutto nella seconda cantica, a momenti di delicata poesia.

Procedevo meditabondo; e Virgilio disse: "Tu pensi forse a questa frana custodita da quella belva irosa che ora ho reso inoffensiva.

Voglio dunque che tu sappia che la volta precedente, allorché scesi nella parte inferiore dell’inferno, questo pendio non era ancora franato.

Ma, se non mi inganno, senza dubbio poco prima della venuta di colui che tolse a Satana il glorioso bottino del limbo,

il profondo abisso immondo tremò in ogni sua parte tanto, che io credetti che l’universo fosse preso da quell’amore, a causa del quale alcuni ritengono

che più di una volta il mondo sia ritornato nel caos; e allora questa antica rupe subì, in questo luogo e altrove (nella bolgia degli ipocriti; Inferno XXI, 106-108), tale franamento.

Virgilio spiega al discepolo come il terremoto che determinò la frana tra il sesto,e il settimo cerchio abbia preannunciato la discesa di Cristo nel limbo, e la liberazione delle anime, in esso racchiuse, dei Patriarchi dell'Antico Testamento. Tutto l'inferno tremò; il poeta latino credette per un istante che l'universo stesse per tornare nel caos primigenio.

Secondo la teoria del filosofo greco Empedocle, riportata e discussa da Aristotile nella Metafisica, il mondo esiste infatti in virtù dell'odio reciproco tra gli elementi costitutivi della materia; qualora a quest'odio dovesse sostituirsi l'amore, essi si confonderebbero l'uno nell'altro, dando origine al caos.

Ma guarda attentamente in basso, poiché si avvicina il fiume di sangue bollente in cui è immerso chiunque rechi danno ad altri con la violenza ".

O irragionevole avidità e ira sconsiderata, che a tal punto ci stimoli nella breve vita terrena, e poi in tanto dolore ci immergi in quella eterna!

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Vidi un largo fossato circolare, in quanto cinge tutto il piano (del settimo cerchio), secondo quello che aveva detto il mio accompagnatore;

e tra la base del dirupo e questo fossato, dei centauri correvano raccolti in gruppo, armati di frecce, come solevano fare sulla terra quando andavano a caccia.

I centauri, cavalli fino al busto e uomini dal busto in su, sono protagonisti, nelle leggende dell'antica mìtologia, di episodi di violenza (alle nozze di Piritoo la loro impulsività provoca uno scontro armato coi Lapiti; Nesso rapisce Deianira, ecc.), ma anche di episodi che ne mettono in rilievo i tratti umani e la saggezza (Chirone istruisce Achille). Secondo l'opinione di antichi commentatori, come il Boccaccio e Benvenuto da Imola, essi rappresenterebbero, per la legge del contrappasso, gli armigeri di cui i tiranni, qui immersi nel sangue bollente, si sono serviti in vita per opprimere i loro sudditi. Ora, nell'al di là, l'oggetto delle violenze di questi esecutori d'ordini sono i tiranni stessi. E' indubbio che nei loro atteggiamenti, nel loro andare in gruppo, nella pronta obbedienza agli ordini di un capo, nella semplicità imperiosa del loro linguaggio c'è qualcosa di militaresco, ma si tratta di un elemento interamente calato in una raffigurazione concreta, la quale non ha bisogno dell'aggiunta di interpretazioni allegoriche per riuscire persuasiva. Opportunamente osserva in proposito il Sapegno: "Ia ragione morale non sopravviene in Dante a limitare e impoverire la pienezza dell'immaginazione, sempre attenta alla ricchezza e alla complessità del dato fantastico. Egli può pertanto darci delle belle fiere una rappresentazione attenta e vivacissima, tutta rivolta a far campeggiare quelle immagini di agilità e di potenza fisica, di cui ricavava lo spunto da qualche verso di Virgilio, di Ovidio e di Stazio; con un'intensità di rilievo plastico, che è il segno del suo robusto realismo, alieno da ogni compiacimento meramente estetistico e decorativo e sempre contenuto, e come trasportato, nel ritmo incalzante e grave del racconto".

Vedendoci scendere, ciascuno si fermò, e tre di loro si separarono dalla schiera con archi e frecce scelte in precedenza;

e uno gridò da lontano: " Verso quale pena vi dirigete voi che scendete il pendio ? Ditelo dal punto in cui vi trovate; altrimenti tendo l’arco ".

La minaccia di questo centauro, così diversa dalle incomposte manifestazioni di sdegno e rabbia bestiale degli altri guardiani infernali, esprime un'intelligenza pronta e decisa. I centauri non hanno nulla di abbietto nella raffigurazione che ne fa il Poeta. Sono i ministri della giustizia divina, non i tormentatori (come Cerbero) dei dannati. Il loro compito è quello di far rispettare le leggi imposte da Dio all'oltretomba, non di infliggere il dolore per il gusto perverso di fare del male. Tra i custodi dell'inferno sono inoltre gli unici che si dimostrano in grado di sostenere un dialogo con Virgilio.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Virgilio disse: " Risponderemo a Chirone quando vi saremo vicini: con tuo danno la tua volontà fu sempre così impulsiva ".

Poi mi toccò, e disse: "Quello è Nesso, che perdette la vita per amore della bella Deianira e vendicò da sé la propria morte.

Il centauro Nesso, preso da amore per Deianira, moglie di Ercole, aveva tentato di rapirla; colpito a morte dall'eroe, con una freccia avvelenata, aveva fatto dono a Deianira di una camicia intrisa del suo sangue, facendole credere che aveva la virtù di far innamorare chi la indossasse. Deianira, volendo riacquistare l'amore di Ercole, che si era invaghito di Iole, ne fece dono al marito. Ma, non appena l'ebbe indossata, l'eroe fu preso da spasimi atroci e dopo poco morì. In tal modo Nesso fu il vendicatore della propria morte.

E quello che sta In mezzo, e tiene lo sguardo abbassato, è il grande Chirone, che educò Achille; l’altro è Folo, che fu così iroso.

Chirone è qui ritratto in un atteggiamento meditativo che concorda con quanto la leggenda ha tramandato di lui (fu maestro di Achille). Folo, secondo quanto narra Ovidio nelle Metamorfosi (XII, 219 sgg.), invitato con altri centauri al banchetto per le nozze tra Piritoo e Ippodamia, tentò di rapire la sposa e le donne degli altri Lapiti.

Girano a migliaia intorno al fossato, colpendo con frecce qualsiasi dannato si trae fuori dal sangue più di quanto il suo peccato gli diede in sorte ".

Ci avvicinammo a quegli animali ve1oci: Chirone prese una freccia, e con la cocca trasse indietro la barba sulle mascelle.

Il gesto di Chirone che, prima di parlare, si serve della freccia per allontanare la barba dalla bocca, ha in sé dell'umano e del ferino, ma resta un gesto nobile, che sottolinea la maestà di questa figura. Tutta la raffigurazione, dei centauri si ispira ad un senso vivissimo dei decoro esteriore.

Quando la grande bocca fu completamente libera disse ai compagni: "Vi siete accorti che colui che sta di dietro è un essere vivente ?

E Virgilio, che già gli era di fronte, e arrivava all’altezza del suo petto, là dove le due nature (di uomo e di cavallo) si uniscono,

rispose: " E’ veramente vivo, e a lui, a lui solo, devo mostrare l’inferno: ci spinge a ciò la necessità, non il http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/dodicii.htm (5 di 8)08/12/2005 9.02.33

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

piacere.

Dal cielo si mosse qualcuno che mi affidò questo straordinario incarico: non è un ladrone, né io sono l’anima di un ladro.

Ma in nome di quel potere divino, ad opera del quale percorro un cammino cosi impervio, dacci uno dei tuoi, a cui possiamo stare vicini,

e che ci indichi il punto dove il fiume può essere attraversato e trasporti costui sulla sua groppa, poiché egli non è uno spirito che possa volare ".

Il tono di questa risposta di Virgilio a Chirone si differenzia nettamente da quello delle risposte date ai guardiani dei cerchi superiori. Questi sono stati trattati finora, se non sempre con aperto disprezzo (come Cerbero, Pluto e il Minotauro), con un'impazienza che non ammetteva repliche (nel caso di Caronte, Minosse, Flegiàs). Qui, per la prima volta, Virgilio non si accontenta della solita formula, breve, solenne ed enigmatica, per rivelare ad un ministro dell'inferno la volontà di Dio. Egli tenta di convincete Chirone della fondatezza delle sue ragioni, non di imporgliele dall'alto della sua superiorità intellettuale. Questo perché in Chirone si esprime un'intelligenza forse "elementare ed aliena da sottigliezze" (Sapegno ), quale è quella che meglio si addice alla sua indole militaresca ed autoritaria, ma pronta ed acuta. Virgilio crede quindi doveroso ricordare a Chirone gli antefatti della discesa di Dante nel regno dei morti (l'incarico affidatogli da Beatrice), protesta l'innocenza propria e del suo compagno (non è ladron, né io anima fuia) e motiva (ché non è spirto che per l'acre vada) la sua richiesta di una guida che indichi il punto di più facile guado del fiume.

Chirone si volse a destra, e parlò a Nesso: "Volgiti indietro, e fa loro da guida, e fa scansare qualunque altra schiera s’imbatta in voi".

Ci avviammo dunque insieme col sicuro accompagnatore lungo la sponda del sangue bollente, nel quale i dannatì emettevano grida laceranti.

Vidi una rnoltitudine immersa fino agli occhi; e Nesso spiegò: "Essi sono tiranni che uccisero e depredarono.

Qui si sconta il male arrecato agli altri senza pietà; qui si trovano Alessandro, e il crudele Dionisio, che fu causa alla Sicilia di anni dolorosi.

Alessandro potrebbe essere il tiranno di Fere, in Tessaglia, della cui crudeltà parla fra gli altri Cicerone, oppure il re dei Macedoni, che alcuni autori latini hanno descritto come un tiranno sanguinario (Seneca lo

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

chiama "ladro e distruttore di popoli", Lucano lo definisce fortunato predone"), ma che Dante elogia tanto nel Convivio quanto nella Monarchia. Questo peraltro non sarebbe motivo sufficiente per farci ritenere impossibile la sua destinazione all'inferno; molti tra i personaggi della storia che il Poeta ammira maggiormente sono infatti, nella Commedia, fra i reprobi, essendo i criteri della giustizia divina necessariamente superiori a quelli del giudizio degli uomini.

E quella fronte coperta di così neri capelli, è (la fronte) di Ezzelino; quello biondo è invece Obizzo d’Este, il quale davvero

fu ucciso in terra dal figlio snaturato ". Allora mi rivolsi a Virgilio, ed egli disse: " Nesso sia ora la tua guida, io verrò secondo ".

Ezzelino III da Romano, capo ghibellino e signore della Marca Trevigiana, morto nel 1259, è definito da uno storico di parte guelfa, il Villani, il più crudele tiranno della cristianità (Cronaca VI, 72). Obizzo II d'Este, marchese di Ferrara, fu, secondo una leggenda che qui Dante sembra voler confermare, ucciso dal figlio Azio VIII nel 1293.

Poco più oltre il Centauro si arrestò presso una moltitudine che appariva immersa in quel bollore fino alla gola.

Ci indicò un’ombra isolata in un angolo e disse: " Quel dannato trafisse in chiesa il cuore che è ancora venerato a Londra ".

Guido, conte di Montfort, vicario in Toscana di Carlo I d'Angiò, pugnalò nel 1272, in una chiesa di Viterbo, Arrigo, cugìno del re d'Inghilterra Edoardo I, che gli aveva ucciso il padre. Sulla tomba di Arrigo, posta sul ponte del Tamigi a Londra, una statua dorata, secondo quanto riferisce un antico commentatore, Benvenuto da ImoIa, reggeva un calice contenente il suo cuore imbalsamato.

Vidi in seguito una moltitudine che teneva fuori del fiume il capo ed anche tutto il petto; e riconobbi parecchi di costoro.

A questo modo il livello del sangue andava sempre più diminuendo, fino a bruciare soltanto i piedi; qui guadammo il fossato.

" Così come vedi che il liquido bollente si abbassa progressivamente da questa parte " disse il Centauro, " voglio che tu sappia

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

che dalla parte opposta il suo alveo diventa sempre più profondo, finché si ricongiunge al punto dove è giusto che i tiranni espiino.

Da quest’altra parte la giustizia di Dio punisce Attila che sulla terra fu strumento di dolore e Pirro e Sesto; e per l’eternità spreme

le lagrime, che fa sgorgare con il supplizio del sangue bollente, a Rinieri da Corneto, a Rinieri dei Pazzi, che resero così pericolose le strade. "

Attila, re degli Unni dal 433 al 453, fu soprannominato, per la sua crudetà, il " flagello di Dio". Pirro è qui, probabilmente, non il re dell'Epiro che mosse guerra ai Romani, ma Neottolemo, il sanguinario figlio di Achille, uccisore, secondo quanto narra Virgilio nel secondo libro dell'Eneide (versi 526-558), del giovane Polite, figlio di Priamo, e poi di Priamo stesso. Sesto è probabilmente il figlio di Pompeo, datosi alla pirateria dopo la morte del padre. Rinieri da Corneto fu un brigante ai tempi del Poeta, terrorizzò tutta la Maremma. Rinieri dei Pazzi di Valdarno, anch'egli un famoso ladrone di quei tempi, fu scomunicato da papa Clemente IV e dichiarato ribelle dal comune di Firenze.

Poi si voltò indietro, e riattraversò il pantano.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO XIII

Nesso non era, ancora arrivato di là (dal guado), quando noi entrammo in un bosco che non aveva alcuna traccia di sentieri.

Non c’erano foglie verdi, ma di colore scuro; non rami lisci e diritti, ma nodosi e contorti; non frutti, ma spine con veleno:

quegli animali selvaggi che (in Maremma) tra il fiume Cecina e la località di Corneto odiano i luoghi coltivati, non hanno (per loro dimora) macchie così irte e pungentì e così folte.

Il bosco è rigido, scheletrico, innaturale; l'armonioso scorrere della vita qui è fissità, desolazione, morte. Fosco il colore delle fronde; aggrovigliati e come rivolti contro se stessi ('nvolti) i rami; infine la cattiveria: spine avvelenate, strumenti di dolore. L'antitesi, ripetuta tre volte, suggerisce l'innaturalità del paesaggio. Questo a sua volta è come un'introduzione a una tragedia innaturale: il suicidio. Come ha finemente osservato il Sapegno, lo stile elaborato e aspro di questo canto si accorda, fin dalle terzine iniziali, "con un proposito di strane e orrende fantasie, in cui si rifletta e prenda consistenza poetica l'incubo dì una tragedia che trascende la norma comune dell'umano sentire".

Qui fanno i loro nidi le sozze Arpie, che costrinsero alla fuga dalle isole Strofadi i Troiani con la funesta profezia di mali futuri.

Le Arpie, mostri della mitologia classica, per metà donne e per metà uccelli, cacciarono i Troiani di Enea dalle isole Strofadi con la profezia della fame che essi avrebbero dovuto sopportare nel viaggio verso le rive dei Lazio (Virgilio -Eneide III, 209 sgg). Qui appaiono come annunciatrici dì un male misterioso che si cela nel bosco.

Hanno ali larghe, colli e facce di esseri umani, piedi con artigli, e il grande ventre coperto di penne; si lamentano, in modo strano, sugli alberi.

E il valente maestro: " Prima che tu ti inoltri, sappi che sei nel secondo girone " cominciò a dirmi, " e vi starai fino a quando

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tu arriverai all’orribile distesa sabbiosa: perciò guarda ripetutamente e con attenzione; così facendo vedrai cose tali che toglierebbero credito alle mie parole".

Un momento di pausa: la ragione (Virgilio) interviene. L'uomo (Dante), guardando e esaminando (riguarda ben), prenda coscienza della realtà; si basi anche sull'esperienza maturata da altri, ma faccia le proprie esperienze dirette; la ragione indica la via, dà suggerimenti di metodo; la sperimentazione è diritto e dovere dell'individuo.

lo sentivo da ogni parte emettere lamenti acuti, e non vedevo nessuno che li facesse; per questo tutto smarrito mi fermai.

Ritengo che Virgilio pensasse che io credessi che voci così numerose uscissero, (passando) tra quegli alberi secchi, da gente che si nasc:ondesse a noi.

Alcuni critici hanno voluto attribuire l'uso di artifici retorici come quello del verso cred'io ch'ei credette ch'io credesse all'intento di parafrasare lo stile concettoso di Pier delle Vigne, il protagonista dell'episodio che sta per cominciare, ma questa spiegazione non chiarisce la funzione che simili moduli espressivi hanno sul piano della poesia. In essi dobbiamo vedere altrettanti mezzi dei quali il Poeta si serve per esprimere, attraverso la distorsione del linguaggio, l'errore intellettuale e morale che ha condotto i suicidi al loro peccato, nonché, al tempo stesso, l'allucinante atmosfera in cui il loro empio proposito è maturato.

Qui gli occhi, i sentimenti, l'atto perplesso e interrogatorio di Dante vanno da Virgilio agli alberi, da questi alla ricerca dell'origine delle voci, poi ancora a Virgilio: all'intrico dei rami si aggiunge questo intrico psicologico, dell'incertezza di Dante.

Perciò il maestro disse: " Se tu spezzi un qualsiasi ramoscello di una di queste piante, i tuoi pensieri si dimostreranno tutti erronei ".

Gli interventi di Virgilio (versi 16 -21, 28 -30) sono quelli del " maestro "; partecipi ma controllati, calmi, come di chi assolve un grave dovere; Virgilio sa, dunque non c'è stupore o timore in lui, ma la sicurezza precisa e quasi impassibile del chirurgo che guida la mano incerta (allor porsi la mano un poco avante) dell'allievo sul corpo dell'ammalato: sappi... riguarda ben... se tu tronchi.

Allora stesi la mano un poco in avanti, e colsi un ramoscello da un grande albero spinoso; e il suo tronco gridò: " Perché mi schianti ? "

L'inquietante crescendo dei primi trentatré versi, l'ansia tesa che dal paesaggio, si trasmette all'animo di Dante, si raccolgono e culminano in questo grido innaturale: e 'l tronco suo gridò. Un vegetale con voce

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

umana. E voce che si articola nell'atto più alto dell'intelletto umano, l'interrogazione, lo strumento teso alla ricerca della conoscenza perché... Fin qui Dante aveva, in silenzio, maturato domande; le aveva tradotte in un gesto (e colsi); ora la risposta è arrivata, ma rimbalza, terribile domanda, quasi atto d'accusa, sul richiedente: non hai tu ... ?

Poi, dopo che si coprì di sangue, ricominciò a dire: " Perché mi strappi ? non hai tu alcun senso di pietà?

Fummo uomini, e ora siamo trasformati in piante selvatiche: la tua mano dovrebbe essere anche più pietosa, se fossimo state anime di serpi ".

Il bosco ha rivelato il suo segreto: fummo uomini, e ora siamo fatti sterpi. Le anime dei suicidi che rifiutarono violentemente il corpo, sono degradate alla prigionia in queste forme arboree dove, impotenti, soffrono contorcendosi e contorcendole, con un dolore che spasima, muto, cieco, sordo, murato nelle fibre del legno, fino a quando le Arpie, pascendosi delle foglie fosche, lo accrescono ma anche gli aprono una via di sfogo: fenestra.

Come da un tizzone verde al quale ad una estremità sia appiccato il fuoco, che dall’altra stilla gocce di umore e stride a causa dell’arla interna che ne esce,

allo stesso modo dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; perciò io lasciai cadere il ramoscello, e rimasi immobile come chi ha paura.

La similitudine dei legno che lagrima è gìá nel provenzale Gaucelm Faidít: "Dagli occhi piango - per dolore - come la legna verde che nel fuoco ardente s'accende piangendo. In Dante essa esprime un'attenzione tesa a cogliere nella natura un significato drammatico, non la pausa lirica, e si inserisce mirabilmente nel tema che è alla base di questo canto: il perdersi dell'umano nella natura arborea, il cristallizzarsi degli alberi nella rigidità della morte. Quando, attraverso il dolore (il ramoscello spezzato), l'albero-uomo riprende a vivere, ad esprimersi (sanguina, parla), questa manifestazione di vita è simile in tutto ad un processo meccanico, non c'è nulla di libero in essa. Così, in conseguenza del calore che ne prosciuga una estremità, l'umidità di cui il pezzo di legno messo sul fuoco è pregno, affluisce tutta all'estremità opposta, e di qui geme, si riversa, condensata in gocce, all'esterno. La reazione di Dante all'innaturale spettacolo non è analizzata: si concretizza in un gesto (lasciai la cima cadere) e in un atteggiamento (stetti come l'uom che teme). "Come spesso avviene in Dante, un fatto si commenta con un altro fatto, e non con termini soggettivi." (Aglianò)

"Se egli avesse potuto credere senza provare" rispose il saggio Virgilio: "o anima ferita, ciò che ha veduto soltanto per mezzo della mia poesia,

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

non avrebbe stesa la mano contro di te; ma la cosa, in sé incredibile, mi spinse a indurlo a compiere un atto che rincresce a me per primo.

Rima sta per poesia; qui in particolare indica il poema di Virgilio, l'Eneide. Nel libro terzo (versi 19 -68) Virgilio narra l'episodio di Polidoro, figlio di Priamo re di Troia, fatto uccidere a tradimento da Polinestore, re della Tracia, e sul cui tumulo crebbero dei virgulti. Enea, giunto sul luogo, ne strappò alcuni; dai rami spezzati e sanguinanti usci la voce di Polidoro. Ma il senso della trasformazione dell'uomo in pianta è profondamente diverso, nei versi di questo canto, rispetto a quello dell'episodio virgiliano. Il contrasto così netto fin dall'inizio in Dante, tra natura arborea e natura umana (dal ramo escono parole e sangue), appare in Virgilio assai più attenuato. Ciò che atterrisce Enea è il sangue che sgorga dal virgulto spezzato. Solo in un secondo momento Polidoro parlerà; le sue parole non saranno più allora motivo di terrore, ma soltanto di meraviglia. L'idea tragica si diluisce così in una successione cronologica. Bene osserva in proposito l'Aglianò: "In Virgilio gli effetti sono sempre anticipati... e al momento culminante, al gemito e alle parole di Polidoro, si arriva progressivamente, attraverso un regolare crescendo... La linea ascendente è invece in Dante rapidissima". E ancora: "A Virgilio interessava l'episodio nel suo complesso, il fatto prodigioso, l'avventura sensazionale, nel quadro generale delle peripezie di Enea; a Dante interessa far sentire l'angoscia, la pena anche morale dello stato in cui si trovano i suicidi".

Nell'episodio di Polidoro il dramma dell'anima-pianta si risolve in un raffinato contrappunto di impressioni naturalistiche, non prorompe, come qui, nel grido di una coscienza offesa (ben dovrebb'esser la tua man più pia).

Va aggiunto inoltre che, mentre questa metamorfosi ha in Virgilio un valore positivo, essendo per Polidoro "il risarcimento, accordato dal cielo in compenso dell'iniqua morte datagli da Polinestore" (Medin), in Dante è la espressione della condanna inflitta da Dio a chi si è privato da sé della vita.

Di qui anche la diversità di tono tra i due episodi: elegiaco nell'Eneide, tragico in questo canto dell'inferno.

Ma digli chi tu fosti, cosicché invece di un qualche risarcimento ravvivi la tua fama nel mondo dei vivi, dove gli è lecito ritornare. "

Tua fama rinfreschi: quasi tutti i dannati manifestano il desiderio che la loro memoria continui a vivere in terra; soprattutto quelli che, pur essendo peccatori, furono anche magnanimi e degni, per alcuni aspetti, di ammirazione. Pier delle Vigne sembra crucciarsi, più che della sua condizione presente, delle calunnie con le quali è stata offesa la sua fama, la sua onorabilità. Dante sentirà pietà di questo cruccio fino a esserne accorato. Non sarà pietà per la sorte del peccatore che è voluta dalla giustizia di Dio, alla quale il

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Poeta cristiano non può non consentire; sarà invece partecipazione alla giusta sofferenza di Pier delle Vigne provocata dal misconoscimento della sua lealtà.

E il tronco (disse) : " Mi attiri, con l’esca delle tue dolci parole in modo tale, che io non posso tacere; e a voi non pesi se io mi trattengo un poco a discorrere.

Io sono colui, che tenni tutte e due le chiavi del cuore di Federico, e che le girai, aprendo e chiudendo, così delicatamente,

che esclusi quasi ogni altra persona dalla sua intimità: fui tanto fedele al mio glorioso incarico, che a causa di ciò perdetti la quiete e la salute.

L’invidia, rovina di tutti è male delle corti, che mai ha distolto il suo sguardo disonesto dalla corte imperiale,

aizzò tutti gli animi contro di me; e gli aizzati aizzarono tanto l’imperatore, che le gloriose onorificenze si convertirono in cupi dolori.

Pier delle Vigne nato a Capua alla fine del secolo XII, studiò legge a Bologna; in gioventù conobbe la miseria e gli stenti; acquistatosi suoi meriti, fece parte come notaio della corte imperiale di Palermo, dove entrò nelle grazie di Federico Il di Svevia, fino a diventare consigliere segreto, " protonotaro ", giudice della Magna Curia e cancelliere del Regno di Sicilia. Accusato - e Dante ritiene a torto - forse di arricchimenti illeciti, di eccesso di potere e di tradimento, da cortigiani invidiosi e offesi dalla sua fortuna, dopo vent'anni di onori, cadde in disgrazia del suo signore che lo fece incatenare e accecare (1248); l'anno dopo, disperato, si uccise. Fu uomo colto, raffinato, poeta in volgare, rinomato per la sua eloquenza e per la maestria del suo comporre in latino.

Il mio animo, per sprezzante compiacimento, credendo che con la morte si sarebbe sottratto al disprezzo, mi rese ingiusto contro me stesso (che ero invece) giusto.

Ingiusto fece Me contra me giusto: la ingiustizia che Pier delle Vigne fa a se stesso è anzitutto violazione di un diritto inalienabile: il diritto alla vita. Per un cristiano l'uomo non può togliersi la vita, essendo questa un dono di Dio. Con molta penetrazione si esprime in proposito un antico commentatore, il Buti: "Quelle cose che l'uomo non si può dare, non si dee togliere; anzi le dee tenere quanto vuole colui che gliele dà; e, se le rifiuta, ragione è che non le riabbia". L'ingiustizia, che il protonotaro imperiale ha commesso uccidendosi, non va quindi considerata soltanto in rapporto alla sua vita giusta, ma in rapporto alla sua vita senza ulteriori specificazioni di valore. In altri termini, agli occhi di Dio l'atto del suicida è altrettanto riprovevole qualunque sia la validità morale delle

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

opere da questo compiute in vita. Naturalmente, sul piano umano, e agli effetti della poesia, il fatto che Pier delle Vigne si uccida senza aver nulla da rimproverarsi colora di patetico la sua tragedia.

Giova ricordare ìn proposito come tutte le vicende che, nella Commedia, le anime narrano di se stesse, sono dal Poeta concepite come messaggi di verità morale che ci giungono dal mondo dove più non si può mentire; le azioni più abominevoli, per il fatto di proporsi come esempi negativi, acquistano la dignità del sacro. Nessuna però di queste storie, messe nella cornice dell'al di là, a contrasto con la condizione eterna, di chi ne fu il protagonista, è in Dante soltanto un esempio: quale più quale, meno, tutte sfuggono ad una definizione unilaterale e aprioristica delle nozioni di bene e di male in esse contenute. Come in tutta la grande arte, questa definizione è in Dante sempre proposta, mai imposta: lo schema, concettuale si invera di continuo nella varia e ricca umanità dei suoi personaggi.

Per le mostruose radici di questo albero vi giuro che mai venni meno alla fedeltà verso il mio signore, che fu tanto degno di rispetto.

E' del De Sanctis l'osservazione che fino a questo appassionato giuramento Pier delle Vigne ha parlato senza commuoversi, esprimendosi in una forma ricercata (in cui è come un compiacimento per la propria perizia di maestro dell'ars dictandi) e sottile, e che solo di fronte all'accusa di tradimento egli palesa, attraverso il dolore, la propria umanità, mentre il suo linguaggio, libero infine da ogni preoccupazione formale, ritrova la schiettezza delle grandi passioni: "vi è una cosa, una sola cosa seria che gli pesa, l'infamia che si tenta gittare sulla sua memoria, l'accusa che gli è lanciata di traditore. Qui è il patetico del racconto: qui la sua immaginazione si scalda, di sotto alla veste del cortigiano spunta l'uomo, e il suo linguaggio diviene semplice ed eloquente".

E se l’uno o l’altro di voi torna nel mondo, renda giustizia alla mia memoria, che è ancora prostrata per il colpo che l’invidia le inferse ".

Virgilio attese un poco, e poi mi disse: " Dal momento che egli tace non perdere tempo; ma parla, rivolgigli domande, se hai piacere di sapere di più ".

Perciò io dissi a lui: " Domanda ancora tu ciò che credi possa appagarmi; perché io non potrei, da così grande pietà sono toccato nel cuore! "

Perciò riprese: " Se ti verrà fatto spontaneamente il favore che le tue parole chiedono in tono di preghìera, spirito prigioniero, ti sia gradito ancora

di dirci in che modo l’anima si rapprende in questi duri nodi; e rivelaci, se puoi, se mai qualche anima si libera da simili membra.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Allora il tronco soffiò forte, e poi quel soffio si convertì in tali parole " Vi sarà data una risposta breve.

Il suo secondo discorso - premette Pier delle Vigne - sarà una breve comunicazione. In realtà i sedici versi di cui è composto non sono pochi, soprattutto se paragonati ai ventiquattro del primo. Brevemente sta però a significare la volontà dell'anima di non parIar troppo del proprio supplizio; il tono è staccato, oggettivo, impersonale: sarà risposto a voi.

Quando l’anima crudele (contro il corpo) si separa dal corpo dal quale essa stessa si è strappata, Minosse la manda al settimo cerchio.

Cade nella selva, e non le è prescelto il luogo; ma là dove il caso la scaglia, qui germoglia come seme di frumento.

Cresce in forma di virgulto e di pianta selvatica: poi le Arpie, pascendosi delle sue foglie, le procurano dolore, e un varco alle manifestazioni di esso.

Come le altre (anime) verremo (nella valle di Giosafàt) a riprendere i nostri corpi, ma non per questo alcuna di noi se ne rivestirà, poiché non è giusto avere ciò di cui ci si è privati.

Trascinererno penosamente i nostri corpi (fin qui), ed essi saranno appesi nella mesta selva, ciascuno alla pianta in cui è chiusa la sua anima nemica a se stessa ".

L'anima, mentre dà le notizie richieste sul proprio itinerario attraverso l'inferno (si parte... la manda... cade... la balestra... germoglia... surge), si fa a poco a poco nuovamente partecipe, della sua estrema vicenda: l'anima del suicida è feroce contro il corpo dal quale s'è divelta, strappata con violenza e sforzo come radice dal proprio terreno, e contro se stessa; e alla fine - dopo la prefigurazione oggettiva della processione che seguirà al Giudizio Universale - scopre con un brivido, fra tanti corpi, il suo: ciascuno al prun..

Noi eravamo ancora tutti intenti all’albero, credendo che ci volesse dire altre cose, quando fummo sorpresi da un rumore,

come colui che sente arrivare il cinghiaie e i cani e i cacciatori al luogo dove si è appostato, e ode le bestie e lo stormire delle fronde.

Finora questo canto è stato quasi totalmente privo di azione apparente, anche se ricchissimo di svolgimenti psicologici. Qui, con notevolissimo risalto, irrompe nell'immobile il movimento. "La selva che

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credevamo ormai di conoscere ci rivela ignote paurose profondità sprigionando dal suo oscuro seno inattesi esseri umani e inattesi mostri, in un tumulto di caccia, dove con infernale travolgimento il cacciato è l'uomo." (Parodi)

Ed ecco apparire due dal lato sinistro, nudi e pieni di graffi, che scappavano così in fretta, da rompere ogni fronda del bosco.

Quello (che correva) davanti (gridava): " Presto corrimi in aiuto, corrimi in aiuto, o morte ! " E l’altro, che si accorgeva di restare pericolosamente indietro, gridava: " Lano, non furono così abili

le tue gambe nella battaglia del Toppo! " E poiché forse gli mancava il fiato, di sé e di un cespuglio fece un viluppo annodato strettamente.

Dilapidatori dei propri beni, quindi nudi, inseguiti dalle cagne (forse i rimorsi o, secondo alcuni, i creditori), i due sono Lano da Siena (forse Ercolano Maconi), ucciso a Pieve del Toppo in una battaglia fra Senesi e Aretini (alle giostre: ai tornei; è detto con crudele ironia), e Giacomo da Sant'Andrea, padovano, morto nel 1239, famoso per le sue stravaganze. Lano grida invocando una seconda morte impossibile; il compagno è colui che "si sente rimaner solo nel pericolo e grida dietro all'altro uno scherno ch'è una maledizione, in cui si fondono insieme invidia e disperazione"(Parodi).

Dietro di loro c’era la selva piena di nere cagne, bramose e veloci come cani da caccia sguinzagliati in quel momento,

Azzannarono quello che si era nascosto (nel cespuglio), e lo lacerarono pezzo per pezzo; poi se ne andarono portando (con sé) quelle membra dolenti.

Allora la mia guida mi prese per mano, e mi condusse al cespuglio che piangeva inutilmente attraverso gli squarci sanguinanti.

Diceva il cespuglio: " O Giacomo da Sant’Andrea, a che ti è servito farti scudo di me? che colpa ho io della tua vita colpevole? "

Quando il maestro si fermò presso di lui, disse: " Chi fosti, che attraverso tante ferite emetti parole dolorose insieme a sangue? "

Il bosco non è costituito di soli alberi; come le selve maremmane non tocche ancora dall'uomo, che Dante prende come punto di partenza naturale per la sua fantasia: esso è un intrico quasi impenetrabile

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

di piante grandi e piccole, sterpi, alberi, bronchi, pruno, vermena, pianta silvestra, e poi ancora una proliferazione di fronde, rami, ramicel, stecchi, frasche, fraschette, rosta, punte, cesto. Pier delle Vigne, anima nobile, è un gran pruno; ora invece Virgilio è fermo, ritto presso un cespuglio: un'anima da poco.

Chi fosse non si sa. Il Boccaccio parla dei molti suicidi fiorentini di quel tempo: forse Dante lo ha lasciato di proposito anonimo. E' un fiorentino: i' fui della città... e tanto basta. La selva infernale scompare in dissolvenza, e dietro, a chiusura di canto, si profila Firenze, l'altra città di Satana, gemella di Dite, la tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore (Paradiso IX, 127-128). Ancora una volta l'inferno ha la sua controfigura in terra.

Ed egli (rispose) a noi: " O anime che siete arrivate per vedere lo strazio indecoroso che ha staccato con tanta violenza le mie fronde da me stesso,

radunatele ai piedi del cespuglio miserevole. Io fui della città (Firenze) che mutò il primo patrono (Marte) con il Battista (San Giovanni Battista); onde egli (Marte) a causa di ciò

sempre la affliggerà con la sua arte (la guerra); e se non fosse che sul ponte dell’Arno rimane ancora un’immagine di lui,

quei cittadini che più tardi la fondarono nuovamente sulle ceneri rimaste dopo Attila, avrebbero fatto fare il lavoro inutilmente.

La distruzione di Firenze ad opera di Attila - confuso con Totila re dei Goti, che assediò la città nel 542 - è leggenda. Come osserva l'Aglianò, Firenze appare, nelle parole di questo suicida, "dominata da un potere diabolico". Il suo destino sembra dipendere "da quel frammento di statua, quasi da un idolo". Al riparo dell'effigie (coniata sul fiorino) del patrono cristiano operano ancora gli influssi malefici dell'antico dio della guerra: una minaccia di annientamento incombe sulla città dilaniata dalla discordia e induce i suoi abitanti al suicidio.

Io mi impiccai nella mia casa ".

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INFERNO CANTO XIV

Poiché l’amore di patria mi riempì di commozione, raccolsi le fronde disperse, e le restituii a quell’anima, che ormai era muta.

Qui finisce il racconto delle cose vedute nella selva dei suicidi, cosicché questa terzina si lega idealmente, per quanto riguarda il contenuto, più che al canto che inizia, a quello precedente. Quest'ultimo non poteva tuttavia terminare con una nota patetica e di raccoglimento (nel verbo strinse sono presenti le due connotazioni, quella affettuosa e quella che indica l'intensità, la concentrazione di questo affetto), senza contraddire il senso intimo del suo sviluppo. Il tredicesimo canto è infatti il canto dell'orrore, del paradosso divenuto realtà, del dolore che non può sfogarsi che per mezzo di un dolore momentaneamente più vivo (le piante si esprimono soltanto attraverso le " fenestre " che in esse aprono le Arpie; Pier delle Vigne è messo nella condizione di parlare dopo che Dante ha reciso un membro del suo corpo vegetale), del suicidio che assurge, nelle parole del fiorentino anonimo, a simbolo della rovina della sua città. D'altra parte questa terzina iniziale si isola, sia per l'argomento sia per il tono, anche dal canto di cui fa parte. Il tema della violenza (Capaneo) le è estraneo, come le è estraneo quello dell'universale corruzione da cui si origina il pianto della umanità peccatrice (Veglio di Creta). Lo Spitzer ha messo in rilievo il parallelismo tra i due gesti che Dante compie all'inizio e alla fine dell'episodio dei suicidi: "Dante fa ammenda al suo atto involontario di aprire ferite, col suo atto, deliberato e compassionevole, di ristorarle; l'episodio giunge ad una conclusione con il suo gesto, che intende placare il turbamento che l'altro gesto aveva provocato".

Giungemmo quindi al confine dove il secondo girone si separa dal terzo, e dove si contempla una spaventosa opera della giustizia.

Per spiegare bene le cose qui vedute per la prima volta, dico che arrivammo presso una pianura che respinge dalla sua superficie ogni forma di vegetazione.

La triste foresta (dei suicidi) la circonda, come il fiume di sangue circonda quest’ultima: qui ci arrestammo sul margine.

Il terreno era una sabbia asciutta e compatta, non dissimile da quella che fu calpestata un tempo da Catone.

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I critici hanno variamente notato l'andamento discorsivo di questa prima parte del canto. Dante indugia stranamente qui nella descrizione e nella precisazione. Come giustamente osserva il Varese, ivi "l'abbondanza delle pause, delle inflessioni di raccoglimento, d'indicazione, imprimono sin da principio un senso di chiarezza, direi di minuziosa logicità: sono punti di passaggio e d'obbligo, che ci danno tuttavia il segno della lucidità preoccupata della mente dantesca, nel suo bisogno di aiutare e non di confondere il lettore".

Per quello che riguarda l'accenno a Catone Uticense, occorre ricordare che Dante non aveva mai veduto un deserto. Il riferimento storico (la guerra combattuta in Libia tra Cesare e i Pompeiani guidati da Catone nel 45 a. C.) serve qui, come nei versi 31 -36, a suggerire per via indiretta il riferimento reale per uno spettacolo fantastico. Lo scrupolo della realtà non abbandona mai Dante; è questo un altro aspetto della serietà del suo impegno morale e, nello stesso tempo, un elemento indispensabile alla sua poesia, la quale, quanto più ritrae l'irreale, tanto più lo convalida attraverso l'oggettiva fermezza della cosa vista e documentabile. Il linguaggio, di Dante non è quello del sogno, ma sempre, anche nel Paradiso, alle soglie dell'inesprimibile, quello delle distinzioni nette.

O castigo di Dio, quanto devi essere temuto da chiunque legge ciò che apparve ai miei occhi!

Vidi molte schiere di dannati indifesi che piangevano tutte con grande strazio, e appariva imposta a ciascuna una diversa punizione.

Alcuni (i bestemmiatori) giacevano in terra in posizione supina; altri (gli usurai) sedevano tutti rannicchiati, altri ancora (i sodomiti) camminavano senza posa.

Quelli che camminavano girando intorno erano più numerosi, mentre quelli che sostenevano il castigo distesi erano in minor numero, ma più pronti a manifestare il dolore.

Sulla distesa dì sabbia, per tutta la sua ampiezza, scendevano lentamente, larghe falde di fuoco, come (falde) di neve su una montagna senza vento.

L'idea della pioggia di fuoco è venuta a Dante probabilmente dalla Bibbia (distruzione di Sodoma, Genesi XIX, 24). Ma nuovo, e tipicamente dantesco, è l'accostamento di questa pioggia ignea ad una nevicata. La precisazione sanza vento suggerisce indirettamente la lentezza del fenomeno, come rilevava già un antico commentatore, il Buti: "nevica la neve a falde nell'alpi quando non è vento; impero che quando è vento, la rompe, e nevica più minuta". Il verso come di neve in alpe sanza vento è la rielaborazione di un analogo verso di Guido Cavalcanti: "e bianca neve scender sanza venti". Ma, come ha mostrato il Sapegno, mentre nel Cavalcanti si afferma un gusto decorativo "da gotico fiorito", gusto che si manifesta attraverso una specificazione elegante, ma non necessaria, "bianca", in Dante tutto è ridotto

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all'essenziale, messo in rapporto con lo spettacolo innaturale che intende presentarci. Dove, come nell'inferno, la natura contraddice se stessa, anche l'arte deve saper trovare i mezzi per esprimere questa contraddizione. La forza dell'immagine contenuta in questa terzina nasce dall'accostamento immediato, senza mezzi toni interposti, di due termini (foco, neve) che nella nostra comune percezione si escludono reciprocamente.

Come le fiamme che nelle calde regioni dell’India Alessandro vide cadere compatte fino a terra sul suo esercito,

e perciò fece calpestare il terreno dalle schiere, perché il fuoco si spegneva meglio, finché era isolato,

allo stesso modo, scendeva il fuoco eterno; e perciò la sabbia si infiammava, come materia infiammabile sotto l’acciarino, per raddoppiare la sofferenza.

Dante attinge le notizie riguardanti Alessandro Magno ad un passo del trattato sulle meteore di Sant'Alberto Magno, ma in questo passo appaiono fusi insieme due eventi descritti separatamente in una lettera attribuita ad Alessandro e diretta ad Aristotile: una abbondante nevicata, dopo la quale il re macedone ordinò ai suoi soldati di calpestare il suolo, e una pioggia di fuoco dalla quale si ripararono opponendo ad essa i loro indumenti.

Il movimento frenetico delle misere mani era incessante, nello scostare dai corpi il fuoco appena caduto.

La tresca è, secondo la definizione del Buti, un "ballo saltereccio, ove sia grande e veloce movimento e di molti, inviluppato". Qui il termine è usato in senso figurato come l'analogo riddi del settimo canto (verso 24). Soltanto che mentre là riddi acquistava rilievo dallo stile volutamente " aspro " del brano in cui era inserito (lo preparava un crescendo di rime intenzionalmente disarmoniche) ed esprimeva un atteggiamento di sarcastica condanna, qui tresca, immesso in un contesto rispondente ad altre esigenze stilistiche, implica soprattutto un sentimento di commiserazione e di stupito orrore.

Cominciai a parlare: " Maestro, tu che superi ogni difficoltà, tranne i diavoli ostinati che ci uscirono incontro mentre stavamo per entrare attraverso la porta (di Dite),

chi è quel grande che non sembra tenere in considerazione le fiamme e giace sprezzante e torvo, in modo che la pioggia (di fuoco) non sembra fiaccarlo ?"

E quello stesso accortosi che chiedevo di lui a Virgilio, gridò: " Come fui da vìvo, così sono da morto.

Chi parla è Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe. Già nella Tebaide di Stazio (III, 602, 605, http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/quattordicii.htm (3 di 9)08/12/2005 9.02.59

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661) appare come empio e disprezzatore degli dei. Il poeta latino narra che, dopo essere salito sulle mura di Tebe, osò sfidare Bacco ed Ercole, protettori della città, e infine lo stesso Giove, che, sdegnato, lo fulminò (Tebaide X, 845 sgg.).

Il par, due volte ripetuto in questa terzina (versi 46 e 48), è stato addotto da alcuni critici a conferma dell'interpretazione secondo la quale il tratto che contraddistinguerebbe il personaggio di Capaneo sarebbe la vanagloria; par starebbe così ad indicare una contraddizione tra apparenza e realtà, ostentazione di forza e intima debolezza. In realtà, come altrove in Dante, il termine ha qui soltanto il significato di " essere manifesto ", "essere visibile ". Del resto, la presentazione della figura di Farinata avviene in modo analogo: com'avesse l'inferno in gran dispitto. La tesi che vede in Capaneo un personaggio privo di forza morale, compiaciuto di sé e vacuo, avanzata dal De Sanctis, è stata ripresa recentemente, tra gli altri, dall'Apollonio, che riduce il mitico bestemmiatore alla statura di un eroe da melodramma: "Intona il suo pezzo canoro, al primo pretesto che gli si presenta: dipana il suo dire senza sosta, in una unica cadenza di parola e di canto, d'un fiato... quando il periodo oratorio, metrico e musicale è al suo culmine, all'acuto, e accompagnato dal gesto mimico contratto con cui il protagonista istituisce da solo la battaglia contro l'antagonista invisibile, chiude con un riso di scherno proclamandosi da sé vittorioso: non ne potrebbe aver vendetta allegra". Per altri (Scherillo) Capaneo sarebbe la "personificazione della forza materiale".

Più nel giusto appare il Croce, allorché avverte in questa figura "una forza che è qualcosa di più che forza fisica e materiale, è ancora energia spirituale, volontà, ma volontà rabbiosa, indomita e ostinata, che, appunto perché tale, inclina in qualche modo verso la forza materiale e irrazíonale. Dante lo chiama grande, e non solo per la prestanza della persona; e nella risposta di lui: qual io fui vivo, tal son morto, si sente l'ammirazione, che non è abolita ed è solo repressa dal rimbrotto morale-religioso, messo in bocca a Virgilio".

Né meno esatta è la seguente osservazione del Varese: "Capaneo permane nella sua situazione umana, nel suo peccato, che era in lui la ribellione, come Francesca nel suo amore colpevole, nel momento stesso del peccato. Di questo atteggiamento... Capaneo ha coscienza, unico forse fra tutti i dannati, appunto perché il suo stesso peccato consiste in questa coscienza, ed è, in questo senso, esemplare".

Anche se Giove facesse lavorare fino all’esaurimento delle forze il suo fabbro (Vulcano) dal quale adirato prese il fulmine acuminato con cui mi colpì nell’ultimo giorno della mia vita;

anche se facesse stancare gli altri (i Ciclopi), un gruppo dopo l’altro, nella nera fucina dentro l’Etna, invocando: "Esperto Vulcano. Aiuto, aiuto!",

così come fece durante la battaglia di Flegra (combattuta tra i giganti che tentavano di scalare l’Olimpo e

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gli dei), e mi fulminasse con tutta la sua forza, non potrebbe gioire della sua vendetta".

Nel discorso di Capaneo, l'accavallarsi tumultuoso delle subordinate e degli incisi, se dà l'impressione di una forza immane e quasi gioiosamente scatenata, che non conosce limiti, si svolge in realtà per nessi rigorosissimi ed esprime un forte potere di sintesi e organizzazione logica. Nel suo tono beffardo non c'è traccia di quella fiacchezza morale che alcuni hanno voluto vedervi. Così giustamente osserva il Varese: "L'ampiezza del periodo serve questa volta alla concentrazione e a mettere in evidenza, nello sfondo di questa scena agitata e goffa, la immobilità tetragona di Capaneo..." La contrapposizione fra il gruppo delle prime due condizionali (se Giove... o s'elli ... ) e la terza (e me saetti) è l'espressione sintattica della irriducibilità di questo grande, che oppone se stesso inerme a suo onnipotente antagonista.

Allora Virgilio parlò con tanta veemenza, come non lo avevo udito mai fino allora: " O Capaneo, proprio nel fatto che non si modera

la tua superbia, tu sei maggiormente punito: nessun supplizio, all’infuori della tua rabbia, sarebbe una sofferenza adeguata al tuo furore " .

Poi si rivolse verso di me con viso più sereno dicendo: "Quello fu uno dei sette re che assediarono Tebe; ed ebbe e sembra abbia

Dio in dispregio, e sembra che poco lo stimi; ma, come gli dissi, i suoi atteggiamenti di disprezzo sono ornamenti assai appropriati al suo animo.

Il Momigliano nota una certa affinità fra l'episodio di Capaneo e quello di Filippo Argenti. In senso generico, sia l'uno sia l'altro prospettano un esempio di superbia punita, ma il critico ravvisa in essi anche una somiglianza più stretta: nelle parole di cui Virgilio si serve per condannare la presunzione di questi dannati, in cui "ritornano...le rime regi e fregi, e la seconda sembra aver suggerito tutta l'idea della frase li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Identico appare. inoltre, l'atteggiamento benevolo del maestro verso Dante. Più che all'episodio di Filippo Argenti, tuttavia, il rimprovero di Virgilio a Capaneo fa pensare al discorso con cui il poeta latino apostrofa Pluto: in esso è già anticipato il concetto dei furore impotente che tormenta, nell'inferno, sia i dannati che i loro carnefici.

Seguimi adesso, e stai attento, anche ora, a non mettere i piedi nella sabbia bruciata; ma tieni sempre i piedi a contatto col suolo del bosco ".

In silenzio giungemmo, nel punto dove scaturisce dalla selva un fiumicello, il cui colore rosso ancora mi fa raccapricciare.

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Come dal Bulicame esce un ruscello che le pettinatrici (della canapa) dividono poi fra di loro, similmente quello scorreva attraverso la sabbia.

Fin dal XIII secolo la lavorazione della canapa si svolgeva intorno a Viterbo in piscine che derivavano l'acqua dal Bulicame, piccolo lago d'acqua sulfurea bollente, nelle vicinanze della città. Le pettatrici potrebbero essere qui le donne addette a cardare la canapa. La lezione peccatrici, che si ritrova nei manoscritti, non trova conferma nelle testimonianze del tempo; non risulta in alcun documento che le meretrici di Viterbo usassero servirsi delle acque del Bulicame per i loro bagni, come spiegano basandosi su questo verso, gli antichi commentatori.

Il suo letto ed entrambe le sponde erano fatti di pietra, come pure gli argini laterali; e perciò mi accorsi che lì era il passaggio (attraverso la sabbia infuocata).

" Fra tutte le altre cose che ti ho mostrato, dopo che entrammo attraverso la porta (dell’inferno) il cui ingresso non è precluso a nessuno,

i tuoi occhi non videro nessuna cosa notevole come questo corso d’acqua, che sopra di sé smorza tutte le fiammelle. "

C'è un contrasto fra l'apparenza modesta di questo ruscello e la portata universale del suo significato. Virgilio prepara l'alunno alla grandiosa leggenda che sta per raccontargli: il suo vocabolario è scelto, non senza un'ombra di pedanteria; Dante dovrà accogliere le sue parole come espressione di una verità che non nega, ma convalida i sistemi dottrinalí da lui appresi nelle scuole.

Queste furono le parole della mia guida; perciò la pregai che mi concedesse il cibo di cui mi aveva dato il desiderio (che mi spiegasse le cose che, dopo il suo accenno, desideravo sapere).

" In mezzo al mare si trova una terra desolata " disse Virgilio allora, " che si chiama Creta, sotto il cui re un tempo il mondo fu virtuoso.

Sotto il re cretese Saturno il mondo godette della favolosa " età dell'oro ", durante la quale gli uomini vissero in perfetta pace e in completa felicità (cfr. Virgilio - Eneide VIII, 319 sgg.). Anche la rappresentazione dell'isola di Creta un tempo ricca e ora caduta in rovina, è di origine virgiliana (Eneide 111, 104 sgg.).

Vi si trova una montagna una volta allietata da acque e vegetazione, il cui nome fu Ida: ora è abbandonata come cosa vecchia.

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Rea la scelse una volta come nascondiglio sicuro per suo figlio, e per celarlo meglio, quando piangeva, ordinava di gridare.

Rea, moglie di Saturno, per. sottrarre il figlioletto Giove al padre che voleva divorarlo, lo nascose sul monte Ida e quando il bambino vagiva, i Coribanti, seguaci del suo culto (cfr. Virgilio, - Eneide III, 111-113), facevano un grande fragore perché non lo si udisse.

Dentro il monte sta eretto un gran vecchio, che tiene le spalle volte verso Damiata (Damietta, su una delle foci del Nilo: indica qui l’Oriente) e guarda Roma come fosse il suo specchio,

Il discorso di Virgilio procede. come ha, osservato il Momigliano, "senza legami sintattici, per tempi staccati, che isolano via via i luoghi e i fatti in una stupita lontananza, in un magico silenzio". La favola del Veglio di Creta, che qui inizia, è poetica soprattutto nella sua parte iniziale, dove prevale il senso del mistero, come afferma anche il Croce.

L'idea profonda che è alla base dell'allegoría del Veglio è il legame che unisce il peccato al dolore, il mondo in cui il peccato si compie a quello in cui esso è punito. Dante fonde in questa leggenda un passo della Bibbia e uno di Ovidio.

Nel Libro di Daniele (II, 31-33) è detto della statua apparsa in sognò a Nabucodonosor: essa appare fatta di materiali sempre più vili a mano a mano che lo sguardo del re babilonese la percorre dalla testa ai piedi.

Nelle Metamorfosi (I, 89-150) il progressivo decadere dell'umanità dallo stato di innocenza è adombrato nel mito delle "quattro età dell'uomo": l'aurea, l'argentea, quella del rame, quella del ferro.

Il suo capo è fatto di oro puro, le braccia e il petto sono di puro argento, poi è di rame fino al punto in cui le gambe si biforcano;

da questo punto in giù è tutto di ferro scelto, eccetto il piede destro che è di terracotta; e si appoggia più su questo che sull’altro piede.

Stabilito che la statua del Veglio simboleggia il decadimento del genere umano, l'interpretazíone più plausibile di questa allegoria è che i metalli di cui la statua è formata, alludano alle " età dell'uomo " elencate da Ovidio. In particolare, la parte meno nobile di essa, quella dalla forcata in giù, indicherebbe l'era della massima corruzione. Nel piede di ferro occorrerebbe allora vedere l'Impero, e in quello di terracotta la Chiesa che si è arrogata il potere temporale ed erroneamente, secondo Dante, pretende di essere la suprema autorità politica in terra.

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Ogni parte, fuorché quella d’oro, è incisa da una fessura che stilla lagrime, le quali, raccolte insieme, perforano la roccia.

Esse precipitano di roccia in roccia in questo abisso: formano l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; poi scendono attraverso questo stretto canale

fino al punto ove più non si scende: formano il Cocito; e che aspetto abbia quella palude, lo vedrai; perciò adesso non ne parlo."

Cocito è lo stagno ghiacciato che occupa il nono cerchio; in esso sono immersi i traditori e lo 'mperador del doloroso regno, Lucifero, che tradì la fiducia in lui riposta da Dio. L'origine dei fiumi infernali è un elemento nuovo che non si trova nei modelli biblico e classico, che hanno ispirato l'allegoria dei Veglio. Dante voleva, come scrive lo Steiner, "che il dolore, in quanto è conseguenza dei peccato, fosse restituito a colui che del peccato è la prima origine". Perciò il pianto dell'umanità intera "cinge l'inferno, lo attraversa, diventa strumento della punizione di quei tristi che lo hanno fatto versare più copioso ai loro simili, ma infine scende a cercare nel profondo di quello il signore d'ogni malizia e al ripugnante contatto di esso si muta in ghiaccio e costituisce così i ceppi eterni del superbo che ha scatenato nel mondo il peccato e la morte, e che fu agli uomini causa prima di infelicità".

L'allegoria dei Veglio di Creta e la teoria dei fiumi infernali non hanno soltanto un valore strutturale (in quanto ci mettono al corrente della topografia infernale), ma anche e soprattutto poetico, nella misura in cui si concretano in una solenne, accorata meditazione sul corso della storia umana. Quello simboleggiato nella figura del Veglio di Creta e nella teoria sulla formazione dei fiumi infernali è tuttavia soltanto l'aspetto negativo - indispensabile, ma non definitivo - del pensiero di Dante sulla storia: cardine di questo pensiero è infatti la provvidenzialità divina, la ferma fede nel trionfo del bene e della razionalità, oltre ogni ingiustizia e dolore.

E io: " Se questo fiumicello scaturisce quindi dalla terra, perché ci si mostra soltanto su questo margine ? "

E Virgilio: "Tu sai che questo luogo ha forma circolare; benché, scendendo verso il fondo, tu ti sia inoltrato parecchio procedendo sempre a sinistra,

non hai ancora compiuto un giro intero: perciò, se appare una cosa nuova, essa non deve apportare un’espressione di stupore sul tuo volto ".

E io ancora: " Maestro, dove si trovano il Flegetonte e il Letè ? poiché di uno di questi non parli, e http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/quattordicii.htm (8 di 9)08/12/2005 9.02.59

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dell’altro dici che ha origine da questa pioggia (di lagrime)".

Il Flegetonte è il fiume di sangue bollente in cui sono puniti i violenti contro il prossimo; il Letè scorre sulla vetta del monte del purgatorio (dove è il paradiso terrestre) e fa perdere alle anime che si sono pentite, e sono sul punto di ascendere al cielo, la memoria delle loro colpe.

" In tutte le tue domande riscuoti certamente la mia approvazione " rispose; "ma il ribollire dell’acqua rossa doveva ben risolvere uno dei due quesiti che proponi.

Vedrai il Letè, ma fuori di questo abisso, là dove le anime vanno a detergersi quando ogni peccato di cui si sono pentite è cancellato. "

Quindi disse: " Ormai è tempo di allontanarsi dal bosco; fa in modo di seguire i miei passi: gli argini, che non sono bruciati dal fuoco, indicano la strada,

e sopra di loro ogni fiamma si spegne "..

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INFERNO CANTO XV

Ora ci porta una delle due salde sponde; e il vapore del ruscello fa schermo, in modo da riparare dalle fiamme l’acqua e gli argini.

Come la diga che i Fiamminghi, temendo la marea che si scaglia contro di loro, innalzano tra Wissant e Bruges perché il mare si ritiri,

e come quella che i Padovani (innalzano) lungo il corso del Brenta, per proteggere le loro città e i loro borghi fortificati, prima che la Carinzia (comprendeva anche la Valsugana dove nasce il Brenta) senta il caldo (che, sciogliendo le nevi, fa ingrossare i fiumi),

in tal modo erano costruiti quegli argini, benché l’artefice, chiunque egli fosse stato, non li avesse fatti né così alti né così larghi.

Nell'impegno di dar consistenza visiva e verosimiglianza alle scene da lui immaginate, Dante spesso non si contenta di un solo termine di riferimento, ma raffronta il dato fantastico a diversi aspetti della realtà a noi più consuete. La prima di queste due similitudini grandiosa e cupa; i suoni stessi suggeriscono la lotta senza quartiere l'uomo e il mare, veduto come un mostro scatenato. Di fronte all'impeto alla paura espressi in s'avventa e fuggia è posto il semplice, disadorno impersonale fanno, quasi a significare che la forza dell'uomo inerme è nella sua operosità e nel suo essere sociale. La seconda similitudine, più iíposata precisa (l'avversario da combattere non è l'oceano misterioso e lontano, ma un fiume noto al Poeta), evoca, qui per contrasto, nel momento in cui dopo il lungo letargo invernale le nevi sciolgono, un clima dolce e sereno.

Già ci eravamo allontanati dalla selva tanto, che non avrei veduto dove essa era, anche se io mi fossi voltato indietro,

quando incontrammo un gruppo di anime che camminavano lungo l’argine, e ognuna ci osservava come ci si scruta di sera

nel periodo del novilunio; e aguzzavano lo sguardo verso di noi avvicinando l’una all’altra le palpebre così come il vecchio sarto fa (nello sforzo di introdurre il filo) nella cruna dell’ago.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Due immagini tratte dalla nostra esperienza più comune suggeriscono, più che l'oscurità del luogo, la difficoltà (una pena che si aggiunge al loro consueto dolore) che hanno queste anime di riconoscere forme e aspetti del mondo, e la loro tesa attenzione. La prima si ispira a due passi dell'Eneide (VI, 268 sgg. e 452 sgg.), ma non ha nulla della solennità distaccata del suo modello; è un momento di vita colto nella sua più fresca e felice immediatezza. L'accenno alla nuova luna (innocente dunque, appena nata) nel buio di questo cerchio, dove la sola luce è quella crudele della pioggia di fuoco che solca l'aria, propone il tema della nostalgia per il mondo dei vivi, ribadito, con maggiore insistenza che altrove, nell'episodio di Brunetto Latini che qui ha inizio. Soltanto alcune trasparenze notturne dei cieli del Leopardi hanno, la casta evidenza di questa evocazione. La seconda immagine "ci introduce decisamente nell'atmosfera del canto. Troveremo più innanzi un Brunetto paterno rispetto a Dante, e dunque anziano, ma non descritto propriamente come vecchio: se la nostra fantasia lo vede tale, ciò si deve anche alla suggestione che su essa opera questa similitudine iniziale; e sulla tenerezza che la figura di Brunetto ci ispirerà, nella sua debolezza umiliata, influisce certo anche questa immagine del vecchio tremante sartore" (Bosco).

Osservato in tal modo da questa schiera, fui riconosciuto da uno, che afferrò l’orlo della mia veste e gridò: "Quale sorpresa! "

E io, allorché tese il suo braccio verso di me, fissai lo sguardo in quei lineamenti bruciati, in modo che il volto ustionato non impedì

alla mia mente di riconoscerlo; e chinando il mio viso verso il suo, risposi: "Qui vi trovate, ser Brunetto? "

La domanda è breve, scarna, il suo altissimo potenziale affettivo può passare inosservato, l'accento batte sul qui, in posizione di forte rilievo prima della seconda cesura, e sul ser che ad esso si giustappone: l'uomo da tutti onorato in terra, il maestro di sapienza e di rettitudine, il politico esperto è, nell'al di là, tra i peccatori lerci, secondo la definizione che poi (verso 108) egli stesso darà di un vizio infamante. Gli scrittori dell'antichità classica avevano sempre cercato di moderare, entro una cornice di decoro formale, gli aspetti più dolorosi della condizione umana. Dante non ha queste preoccupazioni. Egli esprime, con una violenza priva di riscontri nella letteratura mondiale, il contrasto tra il nostro modo di manifestarci agli occhi, dotati di vista insufficiente, dei nostri simili e il nostro apparire agli occhi di Dio.

E quello: " Figliolo, non ti rincresca il fatto che Brunetto Latini torni un po’ indietro con te e abbandoni la schiera ".

Brunetto Latini, nato a Firenze intorno al 1220, fu uomo di lettere (scrisse in francese i Lívres du Trésor, enciclopedia della scienza medievale, e un breve poemetto didascalico in italiano, il Tesoretto; tradusse le opere retoriche di Cicerone), notaio (di qui la qualifica di ser) e cancelliere del comune. Partecipò alla vita

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politica militando tra i Guelfi. Morì nel 1294. Nelle parole che Brunetto rivolge in questa terzina al suo discepolo di un tempo "cozzano insieme - come scrive il Parodi - mirabilmente contraddittorie e concordi, la preghiera e l'accorato rimprovero, l'angoscioso riconoscimento dell'umiliazione presente e l'allusione al tempo così diverso che fu, e questa culmina in quel nome pronunciato lentamente, e per intero. Brunetto Latini, che dice tante cose, ed è soprattutto una malinconica e velata ma energica affermazione della propria dignità personale, offuscata ma non in tutto perduta".

Gli dissi: " Ve ne prego di tutto cuore; e se volete che mi sieda con voi, lo farò, se la cosa incontra l’approvazione di costui insieme al quale cammino ".

Brunetto ha pregato Dante di permettergli di percorrere un tratto del cammino insieme a lui; ma il tono della sua preghiera esprimeva dolorosa incertezza: il suo antico discepolo non Io avrebbe rinnegato? Nella sua risposta Dante sottolinea la sua immutata venerazione (quanto posso, ven preco; e se volete ... ), si fa umile egli stesso, pone il notaio fiorentino sullo stesso piano di Virgilio (faròl, se piace ...).

" Figlio ", disse, " chiunque di questa schiera si ferma per un attiimo, giace poi per cento anni senza poter difendersi quando la pioggia di fuoco lo colpisce.

Perciò continua a procedere: io ti camminerò accanto; poi raggiungerò la mia schiera, che sconta dolorosamente la sua pena eterna. "

Io non osavo scendere dall’argine (della strada) per camminare al suo stesso livello; ma tenevo la testa china come chi cammina pieno di riverenza.

A questo punto ha termine la parte introduttiva dell'episodio. Le parole pronunciate sin qui da Brunetto Latini, così sommesse e dignitose al tempo stesso, fanno di lui un personaggio al quale va tutta la nostra simpatia; la riverenza dimostratagli dal Poeta lo innalza al di sopra dei suoi compagni di pena e ci fa sentire che siamo in presenza di un non comune ingegno e di una forte personalità. E' stata così preparata la parte centrale dell'episodio, nella quale l'indignazione di Dante per l'ingratitudine dei Fiorentini troverà, proprio nelle parole di Brunetto Latini, e per la prima volta nel poema, le espressioni del suo stile più alto e immaginoso: quello profetico.

Egli cominciò a parlare: "Quale caso o quale volere divino ti conduce quaggiù prima dell’ultimo giorno (prima della morte)? e chi è costui che indica la strada? "

" Lassù, nel mondo luminoso " gli risposi " mi perdetti in una valle, prima che la parabola della mia vita http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/quindicii.htm (3 di 8)08/12/2005 9.03.10

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

fosse giunta al suo culmine.

Soltanto ieri mattina l’ho lasciata: costui mi si mostrò nel momento in cui stavo per rientrare in essa, e mi riconduce a casa (sulla retta via) attraverso questo cammino."

Dante cerca quasi di mettere in ombra, per reverenza verso il suo antico maestro, i propri meriti e racconta l'antefatto dei suo viaggio con dimessa semplicità (là su di sopra... in una valIe-... e reducemi a ca ... ).

Nell'episodio di Brunetto Latini il vero protagonista è Dante. Argomento dell'incontro è il destino del Poeta, la sua persecuzione ad opera dei concittadini. Le parole del notaio fiorentino, nella parte centrale dell'episodio, esprimono anch'esse la passione civile di Dante. Lo stile è qui l'opposto di quello che, nel canto tredicesimo, caratterizzava le effusioni di un personaggio intimamente incoerente, egli pure vittima dell'odio politico, Pier delle Vigne. Lì un discorrere raffinato ma contraddittorio, concettoso e fiorito, qui la semplicità delle cose evidenti e corpose, dei simboli elementari e perenni (la valle, la stella, il porto, il monte, il macigno ecc.).

Ed egli: " Se tu segui l’astro che ti guida, non puoi non approdare alla gloria, se non errai nel mio giudizio mentre ero tra i vivi;

e se io non fossi morto tanto presto, vedendo il cielo a te così favorevole, ti avrei incoraggiato e sostenuto nella tua opera.

La profezia di Brunetto si articola in due tempi. Nel primo è predetto al Poeta, genericamente, un futuro di gloria; nel secondo, che fa seguito alla espressione del suo desiderio che il vecchio maestro fosse ancora in vita (è il momento in cui Dante, non più impacciato dalla necessità di convincere Brunetto della propria venerazione nei suoi confronti, manifesta liberamente la piena del suo affetto), si accenna, con maggiore dovizia di particolari e di riferimenti, all'odio dei Fiorentini per Dante, conseguenza del suo disinteressato operare. L'immagine della stella che guida il Poeta nella sua vita (ripresa, nella terzina successiva, da quella del cielo a lui benigno) poggerebbe, per alcuni, su un presupposto astrologico. Dante è nato nel segno dei Gemelli, dagli astrologi ritenuto favorevole allo studio delle arti liberali, in quanto, come scrive un antico commentatore, l'Ottimo, "significatore di scrittura, e di scienza e di cognoscibilitade". Il presupposto astrologico che pur non è da escludersi, non appare tuttavia indispensabile.

Per il Bosco questa immagine non è astrologica, ma, come risulta dall'immagine che la completa, quella del porto, soltanto nautica.

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"La stella è quella che guida i naviganti: se la seguono, questi giungono al loro porto. Brunetto dice insomma a Dante: se seguirai la tua stella, se non devierai dal tuo cammino, se terrai il timone della tua vita dritto verso la meta che ti sei prefissa, non potrai mancarla."

Ma quel popolo ingrato e perverso che anticamente scese da Fiesole, e ancora conserva l’indole della rupe e della pietra,

diventerà, per il tuo retto agire, tuo nemìco: ed è giusto, poiché il dolce fico non deve produrre i suoi frutti in mezzo ai sorbi aspri.

Secondo una leggenda diffusa nel Medioevo, Firenze era stata fondata dai Romani subito dopo la distruzione di Fiesole, che aveva aiutato Catilina nella sua ultima disperata impresa. La nuova città sarebbe stata popolata, secondo questa leggenda, in parte con abitanti di Fiesole, in parte con cittadini romani. Dante attribuisce qui le miserie della sua patria alla natura, ancora barbara ai suoi tempi, dei discendenti dei Fiesolani. Anche il Villani (Cronaca I, 38) vede l'origine delle discordie intestine di Firenze nella convivenza entro la stessa cerchia di mura "di due popoli così contrari e nemici e diversi di costumi, come furono gli nobili Romani virtudiosi, e Fiesolani ruddi e aspri di guerra". La rozzezza di cui parla il Villani, in Dante è condensata in un'immagine che ripropone, in forma nuova ed energica, e nel tono di popolare saggezza che è caratteristico di questa parte del canto, il tema tradizíonale dell'insensibilità della natura inorganica: tiene ancor del monte e del macigno. Di fronte alla pervicacia del rifiuto opposto dal popolo maligno ad ogni forma dì educazìone spirituale, di ingentilimento dei costumi, si profila, nella terzina successiva, il doloroso contrasto fra i sorbi selvatici (i Fiorentini incivili) e il dolce fico (Dante). L'immagine è di ispirazione biblica, e nello stile biblico, come avverte il Marzot, "le piante e i frutti sono piuttosto idee che cose, e perciò entrano meglio nel linguaggio del proverbiare". Nelle profezie della Commedia la realtà, che nelle similitudini è colta sempre nella sua immediatezza, anche là dove il riferimento letterario appare evidente, si carica di un solenne peso di pensieri, si circonda di echi che vanno al di là del visibile e, più genericamente, al di là dell'esperienza storica nel suo complesso.

Un antico detto nel mondo dei vivi li definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: fa in modo di mantenerti immune dai loro costumi .

Un antico detto accusava di cecità i Fiorentini per essersi lasciati ingannare dal re goto Totila, che, dopo essersi detto loro amico, ne distrusse la città, oppure, secondo altri, per aver accettato come buone due colonne spezzate che i Pisani inviarono loro, avvolte in panno scarlatto, come ricompensa per l'aiuto dato da Firenze a Pisa in una spedizione alle Baleari. La citazione di questo proverbio si accorda con il tono generale della profezia di Brunetto Latini, espressa nelle forme vigorose dei linguaggio popolaresco.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

La tua sorte ti riserva tanto onore, che sia l’uno che l’altro partito (sia i Neri che i Bianchi) vorranno divorarti; ma l’erba sarà lontana dal caprone,

Le belve discese da Fiesole facciano foraggio di loro medesime (si divorino fra di loro), e non tocchino l’albero, se in mezzo alla loro sozzura se ne eleva ancor uno,

nel quale riviva il sacro seme di quei Romani che lì si fermarono allorché si costituì il covo di tanta malvagità ".

Come rileva il Rossi, il discorso di Brunetto Latini, cominciato "con largo movimento oratorio", esprime, nei versi 65-66 una mordace ironia, per traboccare quindi "in accenti di scherno e di ingiuria (versi 67-68) e in frasi e immagini di rude gagliardia popolaresca (versi 69-72)", e placarsi infine "nella ampia trama di un solenne e risonante periodo (versi 73-78)", in cui Dante, nato da stirpe romana, giganteggia in mezzo alle risse dei suoi concittadini. La logica dei fatti è, in questa profezia, adombrata in una trama di richiami analogici, attraverso i quali i simboli si legano fra loro. Alla compattezza indifferenziata del mondo minerale (monte, macigno) fa seguito la varietà delle forme vegetali e animali: i lazzi sorbi contrastano col dolce fico, l'immagine dell'erba suggerisce quella del becco malefico che la bruca, continuandosi poi in pianta e sementa, cui si contrappone strame.

" Se la mia preghiera fosse stata interamente esaudita " gli risposi, " voi non sareste ancora morto (dell’umana natura posto in bando: esiliato dalla vita umana).

poiché nella mia memoria è impresso, e adesso mi addolora, il caro e buon aspetto paterno che avevate quando in vita di tanto in tanto

mi insegnavate come l’uomo acquista gloria imperitura: e quanto (il vostro aspetto) mi sia gradito, è giusto che si veda attraverso le mie parole.

Quello che mi raccontate sul corso della mia vita lo annoto nella memoria, e lo conservo per farlo interpretare insieme con un’altra predizione (la profezia di Farinata) da una donna (Beatrìce) che ne sarà capace, se sarò in grado di arrivare fino a lei.

Questo soltanto voglio che sappiate: sono preparato ai colpi della Fortuna, comunque voglia colpirmi, purché la mia coscienza non mi rimproveri.

Una tale promessa non è nuova al mio udito: perciò la Fortuna giri pure la sua ruota come vuole, e il contadino la sua zappa."

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Nella risposta di Dante a Brunetto alla malinconia dei ricordi fa seguito un sentimento più deciso, vigorosamente scandito nella sua dichiarazione di essere pronto a raccogliere la sfida della Fortuna. Esso prorompe alfine impaziente nel motto che accomuna, fatte oggetto di una medesima sdegnosa indifferenza, le misteriose operazioni della Fortuna all'innocuo lavoro del contadino. Il tema della Fortuna, già trattato ampiamente nel canto degli avari e prodighi, è qui ripreso, ma in una prospettiva mutata. Mentre nella digressione di Virgilio del canto settimo la Fortuna è veduta nel suo aspetto impersonale ed astratto, come la reggitrice delle sorti di tutti gli uomini, qui appare invece come colei che volontariamente insidia il corso della nostra vita e che, in quanto tale, deve essere affrontata a viso aperto. La Fortuna non è onnipotente sostiene il Poeta basta la coscienza del dovere compiuto per poterla affrontare.

Virgilio si volse allora indietro verso destra, e mi fissò; poi disse: "Ascolta con profitto una cosa chi sa ricordarla ".

Nondimeno continuo a camminare parlando con ser Brunetto, e chiedo chi siano i suoi compagni più celebri e più egregi.

Ed egli: " E’ bene apprendere qualcosa intorno ad alcuni (di loro); degli altri sarà cosa lodevole non fare menzione, poiché il tempo non basterebbe a un discorso così lungo.

Sappi in breve che furono tutti ecclesiastici e dotti di grande valore e di grande rinomanza, insozzati in vita da un medesimo peccato.

Con quella folla infelice se ne vanno Prisciano e Francesco d’Accorso; e se avessi avuto desiderio di guardare una tale sozzura,

avresti potuto vedere in essa colui che dal pontefice fu trasferito da Firenze a Vicenza, dove lasciò la sua vita peccaminosa.

Fra i dotti e gli ecclesiastici che fanno parte della sua schiera, Brunetto ne menziona tre soli, senza indugiare peraltro in una loro caratterizzazione; solo a proposito dell'ultimo, definito genericamente tigna (malattia ripugnante della pelle), un particolare incisivo e grottesco (li mal protesi nervi); allude al vizio di cui si macchiò.

I tre sono: Prisciano di Cesarea, autore delle Institutiones gramaticae, vissuto nel sesto secolo dopo Cristo, Francesco d'Accorso (c. 1225-1294), docente di diritto all'università di Bologna e di Oxford, e Andrea de' Mozzi, vescovo di Firenze, trasferito poi a Vicenza (nel 1295) da Bonifacio VIII. L'espressione servo de' servi (servus servorum Dei), con cui i pontefici sogliono designare se stessi, è

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

forse qui usata, trattandosi di Bonifacio VIII, in senso ironico.

Parlerei più a lungo; ma il camminare e il parlare non possono essere prolungati, poiché vedo laggiù levarsi nuova polvere dalla distesa sabbiosa.

Si avvicina una schiera alla quale non devo unirmi: ti sia raccomandato il mio Tesoro nel quale sopravvívo, e non chiedo altro ".

Tutti i dannati si preoccupano della fama che hanno lasciato fra gli uomini. E' il loro modo più tipico di partecipare ancora alla vita. In Brunetto c'è però qualcosa di più: la certezza di sopravvivere attraverso un'opera di cultura. Del suo Tesoro parla come di una persona cara, sottolineando che gli appartiene (mio... nel qual io vivo ancora). Anche qui, non diversamente che nella prima domanda rivolta dal Poeta al suo antico maestro, una carica affettiva fortissima si traduce in una estrema semplicità di espressione.

Poi si voltò, e sembrò uno di quelli che a Verona corrono nella campagna (gareggiando per vincere) il drappo verde; e sembrò

quello che tra costoro vince, non quello che perde.

Nei dintorni di Verona, come in quelli di altre città italiane, si correva il palio, gara di velocità che prendeva il nome dal drappo che il vincitore otteneva in premio; l'ultimo arrivato riceveva invece un gallo ed era oggetto di scherno da parte degli spettatori. Dante, volendo indicare la rapidità con cui Brunetto si allontana da lui per raggiungere la sua schiera, lo paragona al vincitore del palio. Ma l'ultimo verso sembra quasi distaccarsi dagli altri e alludere al riscatto della figura di Brunetto, per virtù di poesia, dalla colpa infame che lo costringe tra i dannati.

2003 - Luigi De Bellis HOME PAGE

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO XVI

Mi trovavo già in un luogo dal quale si udiva il fragore dell’acqua (del fiumicello) che precipitava nel cerchio seguente, simile a quel ronzio cupo che producono gli alveari,

allorché tre ombre si staccarono contemporaneamente, correndo, da una schiera che passava sotto la pioggia del crudele supplizio.

I due poeti sono giunti in un punto in cui è percepibile il rumore che fanno le acque del Flegetonte, convogliate nel fiumicello che esce dalla selva dei suicidi, precipitando nell'ottavo cerchio. A un rumore ancora avvertito in lontananza e come indistinto. E' stato messo in rilievo, nel succedersi dei suoni cupi della similitudine contenuta nell'ultimo verso della prima terzina, come un equivalente fonico dell'immagine che essa ci comunica. Questa immagine non ha tuttavia nulla di terribile come è parso ad alcuni; essa anzi, introducendoci nell'atmosfera di questo canto - nel quale l'orrore della pena infernale è di continuo attenuato dall'affettuoso rispetto dei Poeta per i dannati che ivi incontra - mira a dissipare, con l'evocazione di una natura docile all'uomo, quello che di misterioso e di ineluttabile era contenuto nei primi due versi della terzina. Al rimbombo del fiume infernale si sovrappone il più familiare rombo delle arnie, alle tenebre che non consentono al Poeta di individuare il posto in cui si trova se non attraverso un confuso dato acustico, si sostituisce, implicitamente contenuta nell'immagine, la campagna serena e assolata, nella quale le api armonicamente, in fervida concordia, attendono al loro lavoro.

Venivano verso di noi, e ciascuna gridava: " Fermati tu che dall’abito ci sembri essere uno della nostra città malvagia ".

Le tre ombre che corrono verso l'argine sul quale si trovano Dante e Virgilio sono quelle di tre uomini politici fiorentini di parte guelfa, appartenenti alla generazione che precedette di poco quella del Poeta. Non deve apparire strano il fatto che riconoscano in lui immediatamente un loro concittadino. Scrive il Boccaccio, che a quei tempi "quasi ciascuna città aveva un suo singular modo di vestire, distinto e variato da quello delle circunvicine" . I Fiorentini portavano il " lucco " (veste senza pieghe stretta alla vita) e il cappuccio.

Fin da questi versi di apertura dell'episodio è fortemente messo in rilievo il sentimento che spinge le tre anime dannate a interrogare Dante: l'amore di patria. Come in Farinata, questo sentimento sembra quasi

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

abolire in esse per un attimo la coscienza del luogo in cui si trovano. Ma Farinata è immobile, torreggia solitario in un atteggiamento di disprezzo: la tragedia nel canto degli eretici si sviluppa a poco a poco entro una cornice di epica grandezza. Qui la situazione fin dall'inizio appare diametralmente opposta a quella dell'incontro con Farinata: i tre concittadini del Poeta, ch'a ben far puoser li 'ngegni (Inferno VI, 81), corrono verso di lui e neppure si fermano nel rivolgergli la parola. Il loro affanno è bene messo in evidenza in un verso all'apparenza puramente descrittivo - venìan ver noi, e ciascuna gridava - in cui al generico plurale venìan, inteso ad esprimere l'automatico accordarsi dei loro movimenti esteriori, si contrappone il singolare gridava, ad indicare l'incoercibile spontaneità del loro sentire.

Ahimè, quali ferite recenti e antiche, aperte dalle fiamme, vidi nelle loro membra! Ne provo ancora dolore soltanto a ricordarmene.

Alle loro grida Virgilio fermò la propria attenzione; volse il viso verso di me, e disse: " Aspetta: bisogna essere cortesi con costoro.

E se non fosse per le fiamme che la natura del luogo scaglia, direi che converrebbe a te più che a loro l’affrettarsi ".

Non appena ci fummo fermati, essi ripresero (a muoversi) nel solito modo; e quando furono giunti presso di noi, si disposero in cerchio tutti e tre,

come sono soliti fare i lottatori nudi e unti, nel momento in cui cercano con gli occhi la presa più vantaggiosa, prima di colpirsi e ferirsi a vicenda;

e così girando, ciascuno volgeva il viso verso di me, in modo che il collo si muoveva continuamente in direzione opposta a quella dei piedi.

L'immagine della rota con tutto quello che di meccanico essa evoca (non un movimento indirizzato a un fine, ma una periodicità insensata), sottolinea in senso grottesco la reale condizione di queste anime: nonostante i loro grandi meriti sono dei dannati. La loro libertà interiore, la schiettezza del loro modo di esprimersi, propria di chi è stato uomo d'azione (quale differenza fra i loro discorsi e quelli di un Pier delle Vigne, ad esempio!), il loro appassionato disinteresse, per cui i loro dolori personali sono come obliati nella contemplazione delle sciagure di Firenze, vengono di continuo contraddetti da quanto c'è di ridicolo nei loro movimenti: la rota e il continuo viaggio che fanno i loro colli. A sua volta, però, l'immagine della rota si umanizza e si nobilita in quella dei campion, attraverso la quale è anche suggerita la figura morale di questi dannati, che in vita furono dei lottatori, sostenitori dell'idea guelfa in Firenze. La similitudine dei campion si riferisce, secondo alcuni, ad un uso diffuso nel Medioevo: il giudizio di Dio,

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al quale si faceva ricorso allorché due parti non avevano argomenti sufficienti per dirimere una controversia.

E " Se la triste condizione di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto annerito e devastato rendono spregevoli noi e le nostre preghiere" cominciò uno di essi

" la nostra fama induca il tuo animo a dirci chi sei tu, che così immune da tormenti cammini ancora vivo nell’inferno.

In queste prime parole che Jacopo Rusticucci (dirà egli stesso il proprio nome alla fine del suo discorso) rivolge a Dante, si sente l'esitazione, il dubbio che tormenta questi dannati: "temono che vedendoli... [il Poeta] li abbia in dispregio. E perché sentono che così meriterebbero, al noi aggiungono subito: e nostri prieghi, ben sapendo la durezza d'animo che ci vorrebbe a disprezzare anche le preghiere degli infelici" (Pietrobono).

Questo, di cui mi vedi calpestare le orme, benché cammini nudo e spellato, fu di condizione più elevata di quanto tu possa credere:

fu nipote della virtuosa Gualdrada; ebbe nome Guido Guerra, e nella sua vita si distinse per ingegno e valore,

Il primo dei dannati presentati a Dante da Jacopo Rusticucci è Guido Guerra, appartenente alla famiglia dei conti Guidi, valoroso combattente di parte guelfa, nato verso il 1220. Bandito da Firenze dopo la sconfitta di Montaperti (1260), fu capo dei fuorusciti guelfi nella battaglia di Benevento (1266), combattuta contro i Ghibellini di re Manfredi, figlio di Federico II. Questa battaglia segnò il crollo delle fortune del partito ghibellino in Italia. Guido Guerra era, come qui viene ricordato. nipote di Gualdrada, figlia di Bellincione Berti de' Ravignani, il quale sarà presentato dal Poeta, attraverso le parole dell'antenato Cacciaguida (Paradiso XV, 112-113), come il modello del fiorentino frugale di antico stampo. Molte leggende celebravano, ai tempi di Dante, insieme alla sua bellezza, la virtù di Gualdrada.

L’altro, che dietro me calpesta la rena, è Tegghiaio Aldobrandi, le cui parole avrebbero dovuto essere apprezzate nel mondo.

Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Il "cavaliere savio e prode in arme e di grande autoritade" (Villani - Cronaca VI, 78), appartenne anch'egli al partito guelfo. Si narra che tentò vanamente di dissuadere i suoi concittadini dall'intraprendere la spedizione contro i Senesi e i fuorusciti ghibeilíni comandati da Farinata degli Uberti, spedizione destinata a concludersi tragicamente a Montaperti (1260). Per questo Dante fa dire a Jacopo Rusticucci che i pareri espressi da Tegghíaio avrebbero dovuto essere tenuti in maggior

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considerazione.

Come di Tegghiaio Aldobrandi, anche di Jacopo Rusticucci Dante aveva chiesto notizie a Ciacco, ricordandolo tra i protagonisti della storia recente di Firenze. Secondo l'Anonimo Fiorentino fu "valoroso uomo e piacevole". Non abbiamo molte altre notizie di lui. Nelle parole che il Poeta gli attribuisce appare un velato cenno al suo peccato (e certo la fiera moglie più ch'altro mi noce).

Se io fossi stato al riparo dal fuoco, mi sarei lanciato di sotto in mezzo a loro, e credo che Virgilio lo avrebbe permesso;

ma poiché sarei stato arso dalle fiamme, il timore prevalse sul mio lodevole desiderio che mi rendeva bramoso di abbracciarli.

Poi cominciai: "La condizione nella quale vi trovate non ha suscitato in me disprezzo, ma un dolore tanto grande che passerà molto tempo prima che io me ne liberi completamente,

allorché Virgilio mi disse parole dalle quali argomentai che si avvicinassero anime grandi quali voi siete.

Appartengo alla vostra città, e ho sempre appreso e ascoltato le vostre opere e i vostri nomi onorati con commozione.

Nota opportunamente il Montanari come l'affetto che Dante sente per questi concittadini "è più impetuoso e fiero di quello per Brunetto che pur aveva, a differenza di questi, conosciuto familiarmente". L'incontro con queste tre anime è "più drammaticamente concitato" di quello col suo antico maestro, risolto in una tonalità elegiaca, poiché in Dante "la passione di patria ha accenti più sonori dell'affetto familiare".

Lascio l’amarezza del peccato e mi dirigo verso i dolci frutti del bene a me promessi dalla mia guida (Virgilio) veritiera; ma occorre che io precipiti prima fino al centro (della terra) ".

In questa terzina il Poeta riassume, come già nella risposta a Brunetto Latini, ma in forma più concisa, armonizzando così il suo modo di parlare a quello dei suoi interlocutori, la vicenda del suo viaggio nell'al di là. Riappare per un attimo il linguaggio simbolico, di chiara intonazione scritturale (lo tele... dolci pomi), che aveva caratterizzato il suo colloquio con il notaio fiorentino nel canto precedente.

"Possa tu vivere a lungo" rispose ancora quello, " e la tua fama risplendere dopo la tua morte,

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

ma di’ se nella nostra città abitano ancora cortesia e valore così come solevano, o se sono completamente scomparsi;

poiché Guglielmo Borsiere, il quale da poco soffre qui con noi, e cammina là con i compagni, ci addolora molto con le sue parole."

Come già nell'episodio di Farinata, sembra che anche per questi tre Fiorentini i tormenti dell'inferno passino in seconda linea di fronte all'interesse che essi nutrono per la sorte della loro città. Ma in loro la carità del natìo loco (Inferno XIV, 1) è più pura che in Farinata: essi non guardano agli interessi della patria attraverso quelli del loro partito; la loro dedizione va intera a Firenze, al di là di ogni discordia intestina; la loro attenzione si rivolge, non al fatto politico in sé, ma ai suoi riflessi civili e morali (cortesia e valor di' se dimora).

Guglielmo Borsiere fu, secondo il Boccaccio, "cavalier di corte, uomo costumato molto è di laudevol maniera".

" La gente nuova (pervenuta di recente alle cariche politiche e arrivata in gran parte dal contado) e gli improvvisi guadagni hanno prodotto superbia e sfrenatezza, in te, Firenze, tanto che già te ne duoli."

L'apostrofe di Dante, una delle più celebri della Commedia, ripropone, in questa terzina, quelli che già negli episodi di Ciacco e di Brunetto Latini sono stati considerati i motivi determinanti del corrompersi delle antiche virtù in Firenze. Qui, alla domanda di Jacopo Rusticucci, ansioso di sapere la sorte toccata in Firenze a cortesia e valor, il Poeta risponde rivolgendosi, nel tono degli antichi profeti, direttamente alla sua città: al binomio cortesia e valor, se ne oppongono, nelle sue parole, due, quasi a rafforzare, col peso delle determinazioni, la durezza della sua affermazione: la gente nova e' subiti guadagni, cui fa eco, subito dopo, il duplice complemento oggetto orgoglio e dismisura. Nel drammatico prorompere del suo dolore Dante insiste sulla presenza in Firenze del male, più che soffermarsi sul suo primo manifestarsi nel tempo: ecco perché i quattro sostantivi che questo male denunziano sono anteposti, come a formare un unico indissolubile blocco, al verbo che sintatticamente li unisce (han generata).

Così gridai a testa alta; e i tre, che interpretarono queste parole come una risposta, si guardarono l’un l’altro come ci si guarda quando si ode una verità (che rattrista).

" Se ti costa sempre così poco sforzo " risposero tutti " accontentare gli altri, te fortunato se riesci ad esprimerti così bene !

Perciò, possa tu scampare a questi luoghi oscuri e tornare a rivedere le belle stelle, quando ti sarà dolce dire "Io fui (nell’inferno)",

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(in nome di questo augurio) fa in modo di parlare alla gente di noi. " Quindi ruppero il cerchio, e le loro agili gambe sembrarono ali nel fuggire.

Il Momigliano attira l'attenzione, a proposito di questa immagine, sulla "precisione visiva di rupper" e sull'impressione che da tutto il periodo scaturisce, "d'una ruota che si spezza in tanti raggi sbalestrati nell'aria".

Non si sarebbe potuto pronunciare un amen così rapidamente come essi sparirono; e perciò Virgilio giudicò opportuno che ci allontanassimo.

lo lo seguivo, ed avevamo percorso poco cammino, quando il fragore dell’acqua ci fu così vicino, che se avessimo parlato ci saremmo uditi appena.

Come quel fiume che, per primo (per chi guarda) dal Monviso verso levante, ha (tra i fiumi che nascono) dal versante sinistro dell’Appennino, un corso interamente suo,

il quale nella parte superiore si chiama Acquacheta, prima di scendere nel suo alveo in pianura, e a Forlì non ha più quel nome

rimbomba sopra San Benedetto dell’Alpe per il fatto che precipita attraverso una sola cascata ove dovrebbe essere ricevuto da mille (cascate),

così trovammo che rimbombava quell’acqua oscura, riversandosi attraverso un pendio ripido, in modo tale che avrebbe in poco tempo danneggiato l’udito.

Anche questa similitudine, così ricca di riferimenti ad una realtà che non pare concedere nulla all'insorgere del sentimento, così minuziosa nella determinazione di particolari apparentemente superflui (come, ad esempio, quello riguardante il nome che il fiume, il Montone, ha, prima di precipitare nella cascata sopra San Benedetto dell'Alpe), è concepita in funzione di quella umanizzazione della cupa atmosfera infernale già rilevata nelle similitudini delle arnie e della rota. Come opportunamente scrive il Caretti, "tutta la serie delle precisazioni geografiche (inutili soltanto per chi tenga d'occhio la similitudine in se stessa) hanno lo scopo di togliere ogni carattere fantomatico al fragore ormai vicino e di prepararci progressivamente all'incontro con la ripa discoscesa e con l'acqua tinta".

Io avevo una corda legata intorno (ai fianchi), e con essa avevo pensato una volta di catturare la lonza dal manto screziato.

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Il significato del simbolo adombrato nella corda è piuttosto oscuro. Non sembra che in essa possa vedersi, come voleva un antico commentatore, il Buti, il cordiglio francescano. Tra le varie ipotesi avanzate al riguardo, grande credito ha goduto quella dello Scartazzini, secondo il quale la corda alluderebbe alla castità che vince la lussuria (simboleggiata dalla lonza). La corda non servirebbe ormai più a Dante, "dal momento che egli ha lasciato dietro di sé l'ultimo cerchio dove si puniscono peccati di lussuria" (quelli dei violenti contro natura). Egli può quindi a questo punto liberarsene. Secondo un'altra interpretazione, essa non designerebbe soltanto una difesa contro la lussuria, ma anche contro la frode (il peccato punito nei due cerchi che il Poeta si appresta a visitare) : in essa dovremmo pertanto vedere, oltre la mortificazione della carne, anche il senso della legalità, il potere della legge. "La corda è gettata via prima che Dante scenda tra i fraudolenti, perché la legge si rivela insufficiente quando a sostegno della colpa sopravviene l'ausilio dell'intelletto, quando il peccatore si arrocca nelle agili formule del farisaismo leguleio..." (Pasquazi)

Dopo essermi completamente slegato, così come mi aveva ordinato Virgilio, gliela porsi stretta e avvolta.

Per cui egli si volse verso destra, e la gettò giù in quel profondo precipizio alquanto lontano dalla sponda.

" Eppure occorre che qualcosa di nuovo appaia " dicevo fra me stesso " in risposta al segnale inusitato che Vìrgìlio segue con lo sguardo così attentamente. "

Ahi quanto prudenti devono essere gli uommi davanti a coloro che non vedono soltanto le azioni, ma penetrano con l’inteffigenza dentro i pensieri !

Egli mi disse: " Fra poco salirà ciò che attendo e che il tuo pensiero confusamente immagina : fra poco dovrà apparire alla tua vista ".

L’uomo deve sempre tacere, finché può, quella verità che ha apparenza di menzogna (per il fatto che è incredibile), poiché essa, senza che egli ne abbia colpa, lo pone nella condizione di vergognarsi;

ma a questo punto non posso tacere (la verità); e sui versi di questa commedia, o lettore, ti giuro, così possano essi non essere privi di accoglienza gradita che duri a lungo,

che vidi attraverso quell’aria densa e tenebrosa venire nuotando verso l’alto una figura, tale da destare sgomento in ogni animo forte,

così come torna alla superficie colui che scende talvolta a disincagliare l’ancora impigliata o in uno scoglio o in altra cosa chiusa nel mare,

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il quale si tende nella parte superiore del corpo, e si rattrappisce in quella inferiore.

Per conferire maggior credibilità alla scena irreale che si prepara a descrivere (l'arrivo del mostro Gerione, simbolo della frode), Dante giura sui versi del proprio poema. Secondo quanto il Poeta dice nella lettera da lui indirizzata a Cangrande della Scala per dedicargli il poema (XIII, 29-31) e in un passo del De vulgari eloquentia (II, IV, 5-6), il termine comedia designerebbe ogni componimento poetico trattato in uno stile familiare e in una lingua semplice e caratterizzato da un lieto scioglimento. Nel Paradiso (XXV, 1-2) il poema sarà invece definito 'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra.

Il mostro che sale dall'abisso, in risposta al segnale della corda gettata da Virgìlio, è per ora ancora soltanto una immagine indeterminata (figura), animata però da una vitalità possente e armonica. La similitudine del sommozzatore mette in rilievo l'energia controllata di ogni suo movimento. Proprio perché simboleggia la frode, Gerione appare, fin da questi primi versi, del tutto diverso, nelle sue manifestazioni, dalle potenze infernali poste a custodia dei cerchi degli incontinenti e dei violenti .

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO XVII

"Ecco il mostro dalla coda acuminata, che varca le montagne, e infrange ogni ostacolo; ecco quello che appesta col suo fetore l’intero universo! "

Virgilio annuncia l'arrivo di un altro custode infernale, Gerione, simbolo della frode. Soltanto un particolare dell'aspetto fisico del mostro è messo in rilievo in questa terzina - la coda - ma è il particolare che meglio ne caratterizza l'indole ambigua e pericolosa e sul quale con maggior insistenza si soffermerà la fantasia del Poeta. E' solo col guizzare della coda che Gerione, protagonista muto di questo canto, di una quasi agghiacciante sottomissione ai comandi di Virgilio (è il primo dei custodi infernali che non tenta di ostacolare il cammino dei due poeti), mostrerà il nervosismo della bestia non doma. La frode colpisce a tradimento, senza dichiarare le proprie intenzioni; ecco perché vedremo, dietro la faccia di uomo giusto di Gerione, enigmatica nella sua immobilità, celarsi l'insidia, rappresentata dalla sua coda armata di aculei velenosi. Anche la figura di Gerione deriva, come quelle dei custodi infernali sin qui incontrati dai due poeti, dalla mitologia. Le leggende ne parlavano come di un re crudelissimo, che accoglieva gli ospiti benignamente per poi ucciderli; fu a sua volta ucciso da Ercole. I poeti latini lo descrivono come un gigante che aveva tre corpi e tre teste. "Ma non solo quella natura tricorporea non aveva una descrizione precisa, essa non appariva chiara come simbolo, e a Dante importa ritrovare nelle favole della mitologia, almeno adombrato, un valore simbolico. Per questo la stranezza di quei tre corpi gli suggerì l'idea dell'inganno, della frode, ma egli volle dare concretezza visiva e simbolica a quella figura e la immaginò non con tre corpi, ma con tre nature diverse in un corpo solo." (Gallardo)

Ma nella figura di Gerione confluisce, insieme all'ispirazione mitologica, anche quella scritturale. E probabile, infatti, che nell'immaginarla il Poeta abbia tenuto presente un passo dell'Apocalisse (IX, 7-11) ove si parla di locuste dal volto umano e dalla coda di scorpione. Il re di queste locuste, Abaddon, chiamato "angelo dell'abisso", salirà, secondo la profezia di San Giovanni - e in ciò è forse un'altra concordanza fra questa pagina della Commedia e il testo biblico, - dal "pozzo dell'abisso" per dirigersi verso Gerusalemme. Anche il moto ascendente di Gerione, tenuto conto di quella che è la posizione dell'inferno dantesco, è diretto verso Gerusalemme. Occorre altresì ricordare che nella pittura, nella scultura e nella miniatura del Medioevo è frequente la rappresentazione di figure mostruose o grottesche. Nell'immaginare Gerione Dante può quindi essersi ispirato anche alle arti figurative del suo tempo. Scrive al riguardo A. Venturi: "Da una sfinge, scolpita dai Cosmati sotto le cattedre vescovili, sotto le colonne tortili dei pulpiti, innanzi ai parapetti degli altari, Dante ricava la figura di Gerione, che poi colora secondo

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

le rappresentazioni comuni di belve nelle stoffe orientali, con la cute dipinta di nodi e di rotelle".

Così cominciò a dirmi Virgilio; e gli fece segno di accostarsi all’orlo del burrone, vicino al termine degli argini pietrosi che avevamo percorso.

E quell’immondo simbolo di frode gíunse, e portò sull’orlo la testa e il tronco, ma non depose sulla riva la coda.

Il suo volto era volto di uomo onesto, tanto benevolo era il suo aspetto esteriore, e tutto il resto del corpo era quello di un serpente;

Diversamente da quello degli altri custodi infernali, il viso di Gerione non ha nulla di bestiale, anzi suggerisce una perfetta equità di pensieri ed azioni (era faccia d'uom giusto).La frode è per essenza un male che non si rivela, occultato sotto apparenza di bene. Un passo del Convivio chiarisce il significato simbolico di questi versi: "quelle cose che prima non mostrano li loro difetti sono più pericolose, però che di loro molte fiate prendere guardia non si può; sì come vedemo nel traditore, che ne la faccia dinanzi si mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d'amistade chiude lo difetto de la inimistade" (IV, XII, 3).

aveva due zampe artigliate pelose fino alle ascelle; aveva il dorso e il petto e ambedue i fianchi disegnati con nodi e piccoli cerchi:

né Tartari né Turchi fecero mai tappeti con più colori, con maggior varietà di fondi e di disegni a rilievo, né simili tele furono tessute da Aracne (espertissima tessitrice della Lidía che sfidò Minerva e fu dalla dea trasformata in ragno).

Le zampe pelose e artigliate ricordano quelle del drago, animale che ossessionò la fantasia dei narratori, pittori e scultori del Medioevo e si riferiscono alla crudeltà del male da Gerione simboleggiato; il complicato arabesco che stria la pelle del mostro allude probabilmente alle tortuose macchinazioni di cui i fraudolenti si servono per sorprendere la buona fede altrui. Nessuno dei custodi infernali è stato descritto con tanta dovizia di particolari come questa immagine di froda. Erano tutti stati colti sinteticamente in una manifestazione di vitalità incomposta, che da sola bastava a denunciare il male che personificavano. Ma Gerione appare tranquillo, per nulla turbato dalla presenza di un vivo nel regno delle ombre. Anzi, nella prima parte del canto, se non fosse per il minaccioso guizzare della coda nel vuoto, dal quale, come abile nuotatore, è emerso, sembra quasi non avere vita. A determinare in noi questa impressione contribuiscono, oltre che il volto inespressivo e la sincronia di ogni suo movimento, messa in luce nelle due ultime terzine dei canto precedente, le símilitudini usate per dare verosimiglianza alla sua figura. Queste similitudini, fatta eccezione per quella del castoro (versi 21-22), riallacciano la figura di Gerione al

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mondo inorganico anziché a quello della vita. Tuttavia si tratta di mondo inorganico che porta in sé la traccia dell'intelligenza umana (i drappi, le tele, i burchi). La frode smentisce ogni forma di passionalità, proprio perché la passionalità, quale, che sia il giudizio morale che su di essa possiamo formulare, non può non essere schietta e manifestarsi per quella che è. L'inganno invece richiede calcolo, pazienza, capacità di dissimulazione, sangue freddo. Gerione, misterioso e immobile nella prima parte del canto, scenderà poi lentamente, docile alle ingiunzioni di Virgilio, fino a deporre i due poeti alla base del costone roccioso che dal settimo cerchio precipita nell'ottavo, ma soltanto dopo avere adempiuto a questo suo ufficio manifesterà compiutamente, per un attimo, l'estrema mobilità di cui è capace.

Come a volte le barche sono ferme a riva, con una parte del loro scafo in acqua e una parte sulla terraferma, e come nelle terre abitate dai Tedeschi crapuloni

il castoro si dispone a cacciare i pesci, così il peggiore dei mostri, stava sul margine che, pietroso, cinge la distesa di sabbia.

Calzante il paragone con le barche per questa figura che era venuta nuotando attraverso l'aria ed ora giace in subdola calma sull'orlo pietroso del sabbione. Nota il Soldati come Gerione sia "bestia e veicolo insieme" e suggerisce un accostamento, per quel che riguarda il loro aspetto esteriore, fra il mostro e quelle navi da corsa la cui poppa era sormontata da un fregio alto e ricurvo. Figuriamocene una, di notte, appoggiata alla riva nella posizione dei burchi. Gerione, nave-fiera-demonio, è così!". Il secondo paragone richiama, come ha giustamente rilevato il Grabher, non solo la posizione di Gerione sull'orlo interno del cerchio, ma anche "l'intenzione di lui: quel disporsi a far sua guerra e in modo così insidioso".

L’intera sua coda si agitava nel vuoto, contorcendo in alto la velenosa estremità biforcuta che aveva le punte munite di aculei come quella di uno scorpione.

La coda biforcuta di Gerione sta ad indicare la doppiezza dell'azione fraudolenta. Secondo alcuni interpreti le due punte della coda alluderebbero ai due tipi di frode: la frode contro chi si fida e quella, contro chi non si fida (cfr. Inferno XI, versi 53-54). Occorre notare che il paragone con la coda dello scorpione si riferisce al veleno di cui è munita quella di Gerione, non alla biforcazione, che richiama piuttosto le due pinze poste sul capo dello scorpione, dato che la coda finisce in una punta sola.

Virgilio disse: " Occorre adesso che il nostro cammino sia deviato un poco fino a quella bestia perversa che si trova là ".

Così un antico commentatore, l'Ottimo, spiega la deviazione che a questo punto i due poeti compiono, allontanandosi dalla direzione fino allora seguita: Il non si potea per diritto calle andare alla frode, anzi

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

per tortuoso; nulla via mena a lei diritto".

Perciò scendemmo verso destra, e percorremmo dieci passi sull’estremità del cerchio, per evitare completamente la sabbia e la pioggia di fuoco.

E quando fummo giunti vicino a lei, vidi un po’ più in là sulla sabbia gente che sedeva vicino all’abisso.

Qui Virgilio: " Affinché tu abbia una conoscenza completa di questo girone" mi disse, "avvicinati a loro, e osserva la loro condizione.

I tuoi discorsi siano lì brevi: finché non sarai tornato, parlerò con questa (bestia), perché ci offra le sue vigorose spalle ".

Dante non assiste al colloquio di Virgilio con Gerione, il quale rimane chiuso, in tutto il canto, in un assoluto mutismo. Il silenzio che circonda il mostro rende con grande evidenza il carattere ambiguo e sfuggente della fiera, che presenta ai due pellegrini, assoggettato ed obbediente, il solo corpo.

Così me ne andai tutto solo ancora sull’orlo estremo del settimo cerchio, dove sedeva la gente tormentata.

Il dolore di questi dannati prorompeva in lagrime attraverso gli occhi; si proteggevano con le mani, agitandole di qua e di là, ora dalle fiamme, e ora dal terreno infuocato:

non diversamente fanno i cani d’estate ora con il muso, ora con la zampa, quando sono morsicati o dalle pulci o dalle mosche o dai tafani.

Per esprimere l'inanità degli sforzi, destinati a ripetersi in eterno, di questi dannati (gli usurai), il Poeta ricorre ad una similitudine efficace nella sua brutale immediatezza: quella dei cani che cercano di difendersi dal morso fastidioso di parassiti ed insetti. "L'assíllo della pena e il meccanico ripetersi dei gesti sono sottolineati anche da certe insistenti ripetizioni: quando... quando ... ; or col... or col ... ; o da... o da... o da." (Grabher) L'atteggiamento degli usurai esprime qui e alla fine del discorso di Reginaldo degli Scrovegni (versi 74-75) tutta la degradazione del loro essere.

Dopo che ebbi fissato lo sguardo nel volto di alcuni, sui quali cade il fuoco tormentatore, non riconobbi nessuno; ma osservai

che a ciascuno di loro pendeva dal collo una borsa, che aveva un colore determinato e un determinato

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disegno, e sembrava che il loro sguardo traesse nutrimento da queste borse.

Come nel canto degli avari e prodighi, Dante mostra di ignorare l'identità di questi peccatori: la borsa, simbolo della loro sfrenata cupidigia di beni materiali, appare come l'espressione più esauriente della loro personalità. Per maggior irrisione, sul sacchetto che pende dal collo dei dannati è dipinto lo stemma della loro famiglia.

E a mano a mano che li andavo osservando più attentamente, vidi su una borsa gialla dell’azzurro che aveva sembianza e atteggiamento di leone.

Il leone azzurro in campo giallo rappresenta lo stemma dei Gianfigliazzi, famiglia guelfa fiorentina, alla quale apparteneva Catello Gianfigliazzi, usuraio in Francia. L'attenzione dei Poeta non si ferma sulla persona di questo peccatore, che rimane del tutto nell'ombra, come se non esistesse, ma sull'emblema del suo peccato.

Poi, mentre il carro dei mio sguardo procedeva, oltre, ne vidi un’altra rossa come sangue, che ostentava un’oca candida più del burro.

L'oca bianca in campo rosso è lo stemma degli Obriachi, nobile famiglia. ghibellina, i cui membri esercitarono l'usura. Quanto al raffronto del colore dell'oca con quello del burro il Sapegno rileva che "I'immagine gastronomica si intona... aI tono beffardo e sarcastico, che serpeggia per tutto questo gruppo di terzine". Ma forse, nella descrizione degli stemmi degli usurai, prevale, sull'intento moraleggiante, il puro gusto degli accostamenti di colore.

E uno che aveva disegnata sulla sua borsa bianca una scrofa azzurra e pingue, mi disse: " Che fai in questa voragine?

Parla, secondo la maggior parte dei critici, il padovano Reginaldo degli Scrovegni. "L'interrogazione stizzosa - scrive il Torraca - lascia intendere che l'usuraio s'è accorto di aver innanzi un vivo, e ne è scontento".

Ora vattene; e poiché sei ancora vivo, sappi che il mio concittadino Vitaliano siederà qui alla mia sinistra.

Reginaldo si compiace di riversare sui suoi compagni di pena (verso 70) l'onta che gli deriva dall'essere stato veduto dal Poeta, che riporterà questa notizia nel mondo dei vivi. Egli perciò ne denuncia, non richiesto, la presenza accanto a lui e il prossimo arrivo nel suo girone. Osserva ancora il Torraca: "Dopo l'interrogazione scortese, l'ingiunzione sgarbata. E non basta: non per usar cortesia a quel vivo, ma per sfogare la sua stizza, se la piglia con due, che sono ancora in terra, e con i suoi stessi compagni di pena;

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di questi fa la caricatura, di quelli proclama il peccato e annunzia la punizione, di sé e degli altri cinicamente dice la patria".

L'usuraio qui menzionato è probabilmente Vitaliano del Dente, podestà a Vicenza nel 1304 e a Padova nel 1307.

Insieme a questi fiorentini sono padovano: molte volte mi assordano l’udíto gridando: "Venga il grande cavaliere,

che porterà la borsa coi tre caproni !" " A questo punto storse la bocca e tirò fuori la lingua come un bue che sì lecca, il naso.

Il cavalier sovrano è il fiorentino Giovanni Buiamonte della famiglia dei Becchi, morto nel 1319. Il Poeta "vuol mettere proprio in vista che l'usuraio atteso in inferno era cavaliere, e dei più rinomati, a maggior vergogna di Gianni Buiamonte e della città che dava l'onore della cavalleria a siffatta gente", poiché "è ben più vergognosa l'usura in tale che si teneva o era tenuto primo dei cavalieri, come è, d'altra parte, vergogna dar l'onore della cavalleria a siffatta gente" (Barbi).

E io, temendo che un ulteriore indugio infastidisse Virgilio che mi aveva raccomandato una breve sosta, tornai indietro (allontanandomi) da quelle anime afflitte.

Trovai Virgilio che era già salito sulla groppa del mostro terrificante, e che mi disse: " Ora sii forte e coraggioso.

D’ora in poi si scende con tali mezzi: sali davanti, perché io voglio stare nel mezzo, in modo che la coda non possa nuocere ".

Omaí si scende per sì latte scale: i due poeti scenderanno dal settimo all'ottavo cerchio sulle spalle di Gerione, saranno deposti sulla superficie ghiacciata dello stagno Cocito (nono cerchio) dalla mano del gigante Anteo e raggiungeranno il centro della terra calandosi lungo il corpo di Lucifero. Il loro viaggio diventerà sempre più pericoloso a mano a mano che si inoltreranno nel regno della frode.

Come colui che sente così vicino il brivido della malaria, da averne già le unghie livide, e che trema in ogni sua fibra al solo vedere un luogo pieno d’ombra,

tale divenni dopo le parole pronunciate (da Virgilio); ma mi ammonì il pudore, il quale rende il servo coraggioso in presenza di un valente padrone.

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Vivissimo è in Dante il senso della concretezza, l'attenzione ai particolari che tutta una tradizione letteraria, prima e dopo di lui, ha sdegnato. In questa similitudine, ad esempio, il Poeta non si limita a dire che il malarico impallidisce, ma ci pone sotto gli occhi questo pallore e ne suggerisce il subitaneo diffondersi attraverso la relativa c'ha già l'unghie smorte.

lo mi sedetti su quelle paurose spalle: provai bensì a dire, ma la voce non uscì come credetti: " Fa in modo di cingermi con le tue braccia ".

Ma egli, che già altre volte mi aveva aiutato in altri momenti di pericolo, appena fui salito, mi cinse e mi sorresse con le braccia;

e disse: " Gerione, è tempo di partire: i giri siano ampi, e la discesa graduale: tieni conto del carico inusitato che trasporti ".

Corne la barca si stacca dal punto dove ha attraccato procedendo a ritroso, così si staccò di lì; e dopo che si sentì del tutto a suo agio,

volse la coda, là dove prima era il petto, e, tesa, la mosse come un’anguilla, e con le zampe tirò a sé l’aria.

Non credo che fosse maggiore la paura quando Fetonte lasciò andare le redini, motivo per cui il cielo, come ancora si vede, fu bruciato;

né quando l’infelice Icaro sentì le spalle perdere le penne a causa della cera che si era scaldata, mentre il padre gli gridava: " Fai un percorso sbagliato! ",

di quanto fosse la mia, allorché vidi che mi trovavo circondato da ogni parte dall’aria, e vidi scomparire la vista di ogni cosa fuorché quella del mostro.

Fetonte, figlio del Sole, avendo ottenuto dal padre il permesso di guidarne il carro, fu colpito da un fulmine di Gíove per aver deviato dal giusto cammino e precipitò nell'Eridano. Secondo questa leggenda la Via Lattea è il segno della bruciatura provocata sulla superficie del cielo dal passaggio del carro del Sole guidato da Fetonte. Dante rappresenta il giovinetto nel momento in cui, perduto il controllo dei cavalli, è colto dal terrore (Ovidio - Metamorfosi II, 1 sgg.). lcaro, figlio di Dedalo, l'architetto che aveva edificato a Creta il labirinto, era stato imprigionato insieme con il padre in questa costruzione. I due riuscirono ad evadere servendosi, delle ali che Dedalo aveva fabbricate e incollate alle proprie spalle e a quelle del figlio con la cera. Mentre volavano sul

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Mediterraneo, per essersi Icaro troppo avvicinato al sole, la cera che teneva attaccate le ali alle sue spalle si sciolse, le ali caddero ed egli precipitò nel mare (Ovidio - Metamorfosi VIII, 182-235). Il Poeta ricorre a questi due richiami mitologici per esprimere la paura da lui provata durante la navigazione aerea, sul dorso di Gerione. Ma tanto è l'interesse con cui si sofferma sul volo dei due personaggi ovidiani (notiamo il vigore di un termine così inconsueto come questo si cosse, riferito a ciel, e lo scorcio grandioso del verso 111: quel padre isolato in uno spazio senza confini, padrone delle vie dell'aria, che con tanta semplicità - tre parole in tutto sa manifestare la sua angoscia, per la sorte del figlio), che finisce, quasi per dimenticare la sua paura.

Esso procede nuotando lentamente: scende compiendo cerchi, ma non me ne rendo conto se non per il fatto che l’aria mi colpisce in volto e dal basso.

Io sentivo già a destra la cascata (del Flegetonte) fare sotto di noi uno spaventoso fragore, per cui sporsi verso il basso la testa per vedere,

Opportunamente il Getto rileva come in questi versi non sia la paura ad occupare la fantasia del Poeta, "ma la sostanza, profondamente assaporata, delle immagini della discesa lenta, progressiva e circolare, che avvicina e rende percepibile ai sensi quel che ne era prima lontano ed estraneo, e, intrecciate a queste, quelle della posizione del corpo nell'aerea cavalcata, gli occhi e il capo che, si piegano in giù curiosamente, e le cosce che solo timidamente, ad assecondare quello sguardo nel vuoto, si scostano dalla cavalcatura e subito istintivamente vi si stringono".

Allora temetti maggiormente di cadere, perché vidi fuochi e udii pianti; perciò tremando strinsi fortemente le gambe (al dorso di Gerione).

E mi resi conto allora, poiché non me ne ero accorto prima, dello scendere in cerchio a causa dei grandi supplizi che si avvicinavano ora da una parte ora dall’altra.

Come il falco che è stato a lungo in volo, il quale, senza aver veduto il richiamo del cacciatore o alcuna preda, fa dire al falconiere " Ahimè, tu stai calando! ",

scende stanco verso il luogo dal quale si era mosso agile, con innumerevoli giri, e si posa lontano dal suo padrone, sdegnoso e crucciato,

così Gerione ci depose sul fondo, proprio ai piedi della rupe tagliata a picco e, liberatosi del peso dei nostri corpi,

sparì come freccia che si stacchi dalla corda dell’arco.http://xoomer.virgilio.it/brdeb/Dante/prosa/diciassettei.htm (8 di 9)08/12/2005 9.03.24

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Di queste due similitudini, quella del falcone disdegnoso e fello sembra per un istante avvicinare a un mondo di consuetudini umane (la caccia) la figura di Gerione; quella della cocca ne ripropone appieno l'enigma. Nulla giustifica, infatti, questa sparizione improvvisa se non l'obbedienza del mostro a un volere che trascenda ogni nostra capacità di intendimento.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

INFERNO CANTO XVIII

Vi è nell’inferno un luogo chiamato Malebolge, fatto interamente di una pietra del colore del ferro, come la parete rocciosa che tutt’intorno lo circonda.

Il canto inizia con la descrizione della topografia dell’ottavo cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi non si fida. Il cerchio è diviso in dieci bolge (borse, sacche: cioè fossati, avvallamenti) concentriche. Il verso di apertura, così solenne e sobrío, segna un netto distacco dalla fine del canto precedente, tutto dominato dalla presenza del sovrannaturale e culminante nella miracolosa sparizione di Gerione. Esso, se da un lato rimanda, per la sua struttura, ad altri inizi di discorsi o di narrazioni dell’Inferno, come, ad ‘esempio, all’endecasillabo, così delicatamente atteggiato, siede la terra dove nata fui del canto di Francesca, e a quello che apre la leggenda del Veglio di Creta, in mezzo mar siede un paese guasto, da questi si distacca per la scansione severa, che nulla concede al patetico o al fiabesco.

Proprio nel centro di questo piano malvagio si apre un pozzo molto largo e profondo, del quale descriverò la struttura quando sarà il momento.

Il pozzo che si apre nel centro di Malebolge porta dall’ottavo al nono cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, cioè i traditori. In questa descrizione preliminare della parte più bassa dell’inferno la natura è "contemplata con distacco, nella sua definizione architettonica" (Sanguineti) : di qui l’uso del termine pozzo per designare l’ultimo precipizio della voragine infernale. La rigorosa geometria dell’ottavo cerchio è la manifestazione visibile "della mente ordinatrice che ad ogni colpa ha assegnato il suo luogo di punizione" (Gallardo).

Quella fascia che resta tra il pozzo e la base dell’alta parete rocciosa è pertanto circolare, e ha la superficie suddivisa in dieci avvallamenti.

Quale aspetto presenta, dove numerosi fossati circondano i castelli, per proteggerne le mura, il luogo in cui questi si trovano,

tale figura offrivano lì quegli avvallamenti e come tali fortezze hanno dalle loro soglie fino alla riva esterna dell’ultimo fossato dei piccoli ponti,

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così dalla base della parete partivano ponti di pietra che attraversavano gli argini e i fossati fino al pozzo che li interrompe e nel quale convergono.

Opportunamente il Grana rileva che in questa descrizione "la grandiosa topografia del basso inferno è come rimpicciolita in un plastico, semplificata e spoglia di particolari, ridotta a forme e dimensioni rigorosamente geometriche. Nel corso della discesa, Malebolge rivelerà un cumulo di forme sconvolte, informi, con tutti gli orrori che la giustizia divina vi ha racchiusi; ma ora, nella sua conformazione generale, offre una visione gelida, e impressionante di armonia, una forma orrida ma mirabile per precisione e simmetria: orma dell’Eterno Fattore impressa anche nell’inferno, come in tutto il creato, secondo il disposto d’una " alta Provvedenza ", visibile nella natura del luogo di pena, come nei tormenti inflitti ai dannati". Eppure anche in una descrizione così volutamente distaccata e impersonale, il linguaggio prepotentemente dinamico e drammatico del Poeta sa ricondurre la vita. Movìen, ricidìen, tronca e racco’gli sono immagini che rendono la natura geometrica di questo cerchio "quasi partecipe dell’atto di giustizia che l’ha plasmata" (Grana).

In questo luogo ci venimmo a trovare, scesi dal dorso di Gerione; e Virgilio si diresse verso sinistra, e io mi avviai dietro di lui.

Vidi verso destra nuovo dolore, pene mai prima vedute e fustigatori di nuovo genere, di cui il primo avvallamento era pieno.

I dannati stavano nudi nel fondo: dalla metà della bolgia verso l’esterno procedevano in direzione contraria alla nostra, dall’altra parte camminavano nella nostra stessa direzione’, ma più velocemente’,

come i Romani a causa della grande folla, nell’anno del giubileo, hanno trovato un espediente per far transitare la moltitudine sul ponte (di Castel Sant’Angelo),

in modo che da un lato del ponte tutti avevano la fronte rivolta al Castello e si dirigevano verso San Pietro; dall’altro lato andavano verso il monte (Giordano: collina sta alla sinistra del Tevere).

Nel 1300, anno del giubileo indetto Bonifacio VIII, Roma fu visitata da un gran numero di pellegrini. Scrive in proposito il Villani (Cronaca VIII, 36): "al continuo in tutto l’anno durante avea in Roma, oltre al popolo romano, duecentomila pellegrini, sanza quegli ch’erano per gli cammini andando e tornando". Per regolarne il transito sul ponte di Castel Sant’Angelo, esso fu diviso con un tramezzo, in modo che tutti quelli che camminavano nella medesima direzione si trovassero dalla stessa parte.La prima bolgia è idealmente divisa in due zone concentriche. In quella esterna camminano, sferzati dai diavoli, i seduttori per conto altrui (ruffiani), nella seconda, sottoposti ad analogo tormento, i seduttori per conto proprio. L’ordine rigoroso messo in luce nella descrizione della topografia del cerchio è presente anche in questa

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

veduta d’insieme della bolgia. "Senza posa, per l’eternità, con una simmetria, che piace a quell’architetto che è Dante (come piaceva ai suoi contemporanei educati alla logica della scolastica) conservare anche nello inferno, circolano così i frodatori dell’onore e della verginità femminile." (Gallarati-Scotti)

Da tutte le parti, sulla buia pietra vidi diavoli cornuti con grandi fruste, che Ii percuotevano spietatamente sulla schiena.

Ahi come facevano loro alzare le calcagna fin dai primi colpi! nessuno certo aspettava i secondi e i terzi.

Il linguaggio astratto e solenne delle prime terzine è qui dei tutto dimenticato. Ancora nel presentare la visione della bolgia (versi 22-24) il Poeta si era servito di termini estremamente generici (pièta, tormento, frustatori nel senso di tormentatori) o letterari (il latinismo repleta). Qui la stessa scena, veduta nella sua concretezza, dopo il paragone con l’essercito molto, che mirava a cogliere in essa un significato di portata universale - l’ordine che si riflette, in quanto manifestazione della mente di Dio, anche nell’inferno - si rivela comica e volgare. "I frustatori sono adesso ritrascritti come i demon cornuti, il tormento, così astrattamente posto all’ínizio, si traduce ora in aperta visione: li battien crudelmente; la nova pieta trova alfine una esauriente illustrazione." (Sanguineti)

Mentre camminavo, il mio sguardo s’imbatté in uno di loro; e immediatamente dissi: "Non è la prima volta che vedo costui ";

perciò per poterlo osservare meglio mi fermai: e la mia cara guida si fermò con me, e acconsentì che tornassi un po’ indietro.

Dante non solo rinuncia a darci un ritratto di questo personaggio, ma, quasi a sottolinearne l’abiezione, il nessun conto in cui deve essere tenuto, lo indica attraverso un pronome indefinito: uno. Questa designazione anonima acquista tuttavia il suo intero significato soltanto se messa in rapporto con l’episodio che qui ha inizio e nel quale Dante costringerà il dannato a confessare la sua colpa, facendogli capire di averlo riconosciuto e chiamandolo per nome.

E quel frustato credette di nascondersi abbassando il viso; ma a poco gli servì, poiché io gli dissi: " O tu che volgi lo sguardo a terra,

se le tue fattezze non sono ingannevoli, tu sei Venedico Caccianemico: ma quale peccato ti conduce a così brucianti supplizi ? "

Il bolognese Venedico Caccianemico (c. 1228-1302) fu a capo del partito guelfo nella sua città e ricoprì la carica di podestà in diversi comuni dell’Italia centrale e settentrionale. Favorì la politica degli Estensi, che

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

miravano ad estendere la loro influenza su Bologna, e, secondo la diceria alla quale Dante mostra di dar credito, indusse sua sorella Ghisolabella, già sposata, a concedersi a uno di loro (Obizzo II o Azzo VIII). Le parole che Dante rivolge a questo dannato sono, "sotto l’apparenza della corretta educazione" (Caretti), crudeli e sarcastiche. Il frustato ha cercato di non farsi riconoscere: non vuole che nel mondo dei vivi si sappia che egli è nell’inferno per una colpa così abietta. Il Poeta, per mostrare di averlo riconosciuto, ne pronuncia il nome, ma, per maggiore derisione, finge di non essere del tutto certo del suo riconoscimento (se le fazion che porti non son false). Infine, per far ben capire a Venedico di averlo identificato, si serve del termine salse, che, se in un’accezione immediata è soltanto una metafora per " supplizi ", rappresenta anche il nome di una valle nei pressi di Bologna, dove venivano gettatí i cadaveri dei giustiziati, dei suicidi e degli scomunicati.

Ed egli: " Lo dico controvoglia; ma mi costringono le tue precise parole, che richiamano alla mia memoria la vita terrena.

lo fui colui che indusse Ghisolabella a cedere alle brame del Marchese, comunque venga narrata questa turpe storia.

Ma non sono il solo bolognese che qui dolorosamente sconta la sua colpa; al contrario, questo luogo è così pieno di Bolognesi, che attualmente non vi sono tante lingue avvezze

a dire "sia" tra i fiumi Sàvena e Reno; e se di questo fatto vuoi una prova sicura, ricordati del nostro animo avido ".

"Sipa": è forma dell’antico dialetto bolognese per la terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo essere. La risposta di Venedico - osserva il Caretti - "non fa che perfezionare il tono di cinica commedia, già reperibile nell’allusiva interrogazione... Costretto a ricordare il mondo antico, Venedico non sa infatti far altro che sciorinare impudicamente il poco onorevole catalogo delle proprie benemerenze ....."

Mentre così parlava un diavolo lo colpì con la sua frusta, e disse: " Vattene, ruffiano! qui non ci sono donne da prostituire ".

lo mi riaccostai alla mia guida; poi, percorsi pochi passi, arrivammo in un punto dove dalla parete rocciosa si staccava un ponte di pietra.

Salimmo su di esso con molta facilità; e, diretti verso destra, su per la sua superficie scheggiata, ci allontanammo da quell’eterno girare.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Quando fummo nel punto in cui (il ponte) è vuoto sotto di sé per consentire ai frustati di passare, Virgilio disse: " Fermati, e fa in modo che cada

su di te lo sguardo di questi altri sciagurati, dei quali ancora non hai veduto il volto poiché hanno camminato nella nostra stessa direzione ".

Dal ponte antico osservavamo la fila che avanzava nella nostra direzione percorrendo l’altra parte della bolgia, e che la frusta sospingeva così come faceva con i ruffiani.

E Virgilio, senza che io facessi domande, mi disse: " Guarda quel grande che si avvicina, e che non sembra versare lagrime per il dolore.

Quale portamento regale ancora conserva! Quello è Giasone, che con il coraggio e la saggezza privò i Colchi del montone.

Giasone è un personaggio della mitologia del quale Dante ebbe notizia probabilmente attraverso la Tebaide di Stazio (V, 404-485). Figlio di Esone re della Tessaglia, questo eroe guidò la spedizione degli Argonauti nella Colchide per conquistare il vello d’oro. La figura di Giasone si isola nella folla grottesca dei dannati di questa bolgia. Egli non alza le berze per fuggire, ma incede dignitosamente, come si addice ad un sovrano: vene. Non diversamente da Capaneo, egli è additato come quel grande, non diversamente da Capaneo anche Giasone sa dominare il proprio dolore. La presentazione di questa figura ad opera di Virgilio richiama anche il modo in cui lo stesso Virgilio indica Omero al suo discepolo, nel quarto canto (versi 86-88).Come nota il Fubini, a Virgilio è affidato, nella grottesca commedia dell’ottavo cerchio, "il compito di ricordare gli eroi e i miti della poesia antica, e per le sue parole si dischiude nella greve atmosfera di Malebolge un’apertura verso un mondo diverso, quello che già commosse l’animo suo e degli altri antichi poeti e che commuove tuttora l’animo di Dante".

Egli passò per l’isola di Lemno, dono che le audaci donne senza pietà avevano ucciso tutti i loro uomini.

Qui con gesti e con parole lusinghiere ingannò Isifile, la giovane che prima aveva ingannato tutte le altre donne.

La abbandonò lì, incinta, sola; questo peccato lo rende meritevole di tale supplizio; e si rende giustizia anche per il male da lui fatto a Medea.

Con lui va chi usa l’inganno in tal modo: e basti questa conoscenza della prima bolgia e di coloro che essa strazia ".

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

Ci trovavamo già nel punto dove l’angusto sentiero s’incrocia con il secondo argine, e di questo fa sostegno per un altro arco di ponte.

Di qui udimmo gente che emetteva lamenti soffocati nell’altra bolgia e soffiava rumorosamente, e percuoteva se stessa con le palme aperte.

Le sponde erano incrostate di muffa, a causa delle esalazioni che, provenendo dal basso vi si solidificavano formando come una pasta, la quale irritava la vista e l’olfatto.

Il fondo è così profondo, che non vi è luogo adatto per vedere in esso, a meno di salire sulla sommità dell’arco, là dove il ponticello di píetra è più alto.

Arrivammo in quel punto; e di là vidi in basso nella bolgia una moltitudine immersa in uno sterco che sembrava provenire dalle latrine umane.

E mentre io percorrevo con lo sguardo il fondo della bolgia, scorsi uno con la testa, così imbrattata di sterco, che non si distingueva se avesse o no la tonsura.

Quello mi apostrofò " Perché sei così avido di fermare il tuo sguardo su di me più che sugli altri insozzati ? " E io: " Perché, se ricordo bene,

io ti ho già veduto quando i tuoi capelli erano puliti, e sei Alessio Interminelli di Lucca: per questo ti osservo più di tutti gli altri ".

Ed egli allora, picchiandosi il capo: " Mi hanno fatto affondare in questo luogo le adulazioni delle quali non ebbi mai sazia la lingua ".

Poi Virgilio mi disse: " Fa in modo di spingere lo sguardo un po’ più avanti, in modo da raggiungere con gli occhi la faccia

di quella sudicia e scarmigliata donnaccia che si graffia laggiù con le unghie lorde, e ora si siede in terra, e ora è dritta in piedi.

E’ Taide, la meretrice che al suo amante, quando costui le chiese "Ho io per te grandi meriti?" rispose: "Più che grandi, straordinari!"

E di questo spettacolo i nostri occhi siano sazi ".

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO I

La navicella dei mio ingegno, che lascia dietro di sé un mare così tempestoso (l'inferno), si prepara a una materia più serena (il purgatorio); e canterò del secondo regno (dell'oltretomba) nel quale l'anima umana si purifica e diviene degna di salire al cielo. Ma qui la poesia, che ha avuto finora per argomento la morte spirituale (dei dannati), riviva (trattando della vita spirituale di coloro che raggiungeranno la beatitudine), o sante Muse, poiché a voi ho consacrato la mia vita; e a questo punto si levi più alta la voce di Calliope (la maggiore delle nove Muse, rìtenuta dagli antichi l'ispiratrice della poesia epica; il nome, etimologicamente, significa « dalla bella voce »), accompagnando il mio canto con quella melodia della quale le sciagurate figlie di Pierio, poi trasformate in gazze, avvertirono la superiorità a tal punto che disperarono di sottrarsi alla punizione che le attendeva. Narra Ovidio (Metamorfosi V, versi 300 sgg.) che, avendo le figlie del re Pierio osato sfidare le Muse nel canto, furono sconfitte da Calliope e trasformate in piche. Anche nel Purgatorio Dante fa grande uso dei miti dell'antichità classica. Osserva il D'Ovidio: "nel simbolismo, che permetteva di veder sotto a quei fantasmi una verità leggiadramente velata, egli acquetava la sua coscienza di cristiano; e accarezzava con il immaginazione compiacente le belle favole, alle quali come poeta e come studioso dell'antichità teneva assai". Nell'esordio del Purgatorio il Raimondi nota che il discorso del Poeta corre su un pìano retorico e su uno morale. " Il mar crudele che ci lasciamo dietro, non è soltanto il mare delle rime aspre e chiocce, il pelago della poesia di cui si parlerà più tardi nel Paradiso; ma è insieme l'acqua perigliosa che s'era intravista attraverso una comparazione nel primo canto dell'Inferno: ossia, come spiega il Convivio, il « mare di questa vita» che ogni cristiano ha da percorrere per giungere al suo «porto ». Ed è poi ancora lo stesso mare a cui pensa il lettore della Bibbia, ogni volta che ricorda la vicenda degli Ebrei fuggiti dall'Egitto: un mare-simbolo, che si converte in certezza di acque migliori, perché prefigura, come mistero della fede, l'idea del battesimo e, a un tempo, quella della vittoria di Cristo sulla morte." Per quel che riguarda la tonalità di questo proemio, in esso si preannunciano quell'euritmia e quella delicatezza di sfumature che saranno caratteristici del canto. "La stessa proposizione ha un accento riposato e fidente, piuttosto che squillante: né inganni la lieve impennata, piuttosto verbale ed apparente

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

che reale, dell'«alzar le vele», giacché essa sta come espressione asseverativa e non ortativa o iussiva... Non dice: tu, o ingegno, alza le vele, ma semplicemente: la navicella del mio ingegno alza le vele per correre ora acque più pacate e tranquille, quella navicella che lascia dietro di sé il mare crudele dell'inferno. Era mare, ed ora son solo acque; era vasto pelago, ed ora è navigazione per acque più chiuse e quiete." (Sansone) Un tenero colore di zaffiro orientale (la più pura e splendente fra le varie qualità di zaffiri, secondo quanto attestano i Lapidari medievalì), contenuto nella limpida atmosfera, pura fino al cerchio dell'orizzonte, procurò nuovamente gioia ai miei occhi, appena uscii dall'aria infernale, che aveva rattristato la mia vista e il mio animo. Per un poeta romantico come il Coleridge il cielo assumeva l'aspetto delI' "interno di un bacino di zaffiro". Dante è assai più preciso nel determinare le sue sensazioni; le sue metafore, pur radicate in un fondo analogico, non sono mai considerate in se stesse, in quanto pure intuizioni, attimi di felice contatto con una realtà più ricca dì quella che il linguaggio comune ci offre, ma si ordinano in una gerarchia razionale di significati. L'immagine del Coleridge può servire "a mostrare per contrasto come in Dante la gioia della scoperta sensitiva sia subito controllata dall'intelligenza: nella terzina, a parte il contrappunto allusivo-simbolico dello sfondo, interviene infatti, quasi a frenare ogni suggestione pittorica, il gusto didascalico della descriptio temporis con i tecnicismi di aspetto del mezzo e primo giro in corrispondenza di aggettivi affettivi come sereno e puro (Raimondi). Venere, il bel pianeta che predispone all'amore, faceva gioire tutta la parte orientale del cielo, attenuando con la sua luce quella della costellazione dei Pesci, con la quale si trovava in congiunzione. L'accenno al pianeta Venere, attraverso qualificazioni (bel... rider) che si riferiscono direttamente alla dea della bellezza e dell'amore, ha un significato allegorico, per cui l'amore paganamente celebrato dai poeti dell'antichità classica viene interpretato come una semplice, imperfetta prefigurazione dell'unico amore degno di questo nome: la carità cristiana. Nel Convivio (Il, V, 13) è detto: "...ragionevole è credere che li movitori... [del cielo] di Venere siano li Troni; li quali ... fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno di amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore, secondo la loro disposizione". Mi volsi a destra, e diressi la mia attenzione al polo australe, e vidi quattro stelle che soltanto i primi uomini (Adamo ed Eva) videro. Il cielo sembrava gioire delle loro luci intensissime: o luogo settentrionale spoglio, dal momento che ti è preclusa la possibilità di vederle! Le quattro stelle splendenti nel cielo australe e che solo Adamo ed Eva, prima della loro cacciata dal

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paradiso terrestre (situato, per Dante, sulla sommità del monte del purgatorio) poterono vedere, simboleggiano le quattro virtù cardinali. Questo simbolo deve essere interpretato - secondo quanto scrive, sulla base di alcune osservazioni del Singleton, il Raimondi - nel senso che Dante rimpiange (oh settentrional vedovo sito) "una perdita irrimediabile, iscritta per sempre nella storia dell'uomo, per cui nessuno potrà mai far ritorno al paradiso terrestre con la stessa innocenza e la giustizia onde Dio aveva fatto dono nella persona di Adamo alla natura umana". Questo rimpianto "si colora di tristezza... e reca in sé, al fondo, la mestizia della condizione umana, della nostra umanità postedenica, necessariamente affaticata e corrotta, fuori per sempre della dolcissima felicità dell'innocenza. Ed è perciò che il simbolo... trapassa in accenti umani che hanno la vibrazione della poesia" (Sansone). Appena mi fui distolto dal guardarle, volgendomi un poco verso il polo boreale. nel quale l'Orsa Maggiore non era più visibile, vidi vicino a me, solo, un vecchio, degno nell'aspetto di una riverenza tale, che nessun figlio è tenuto ad una riverenza maggiore verso suo padre. Portava la barba lunga e brizzolata, simile ai suoi capelli, dei quali due ciocche scendevano sul petto. A tal punto i raggi delle quattro stelle sante ornavano di luce il suo volto, che io lo vedevo (illuminato) come se davanti a lui ci fosse il sole. Il veglio, sul cui volto convergono, quasi isolandolo "in una sacra oasi di luce". (Momigliano) i raggi delle quattro stelle che adornano e rendono santo il cielo australe, è Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a. C.), strenuo difensore della libertà e delle istituzioni repubblicane in un periodo in cui, attraverso lotte sanguinose, maturavano in Roma quelle nuove forme di governo, imposte con la forza e basate sull'accentramento di tutti i poteri nelle mani di un singolo, che avrebbero condotto, con Augusto, all'impero. Si oppose in gioventù alla dittatura di Silla, poi, insieme con Cicerone, al tentativo eversore di Catilina; denunciò i pericoli insiti in una forma di governo, quale il primo triumvirato, tendente a sovrapporsi alle magistrature della repubblica. Nella guerra civile tra Cesare e Pompeo fu seguace di questo ultimo. Dopo la morte di Pompeo comandò un esercito di anticesariani in Africa. Sconfitto ad Utica, si diede la morte per non cadere prigioniero di Cesare e per non sopravvivere al crollo della libertà repubblicana. Dopo avere, nel Convivio (IV, XXVIII, 15-19) e nella Monarchia (II, V, 15), manifestato la sua ammirazione per Catone, Dante pone questo pagano, suicida ed avversario dell'idea imperiale, quale custode del purgatorio, tra le anime alle quali è assicurata la beatitudine. Osserva l'Auerbach che questo avviene perché la "storia dì Catone è isolata dal suo contesto politico-terreno... ed è diventata figura futurorum [simbolo di cose future]. Catone è una « figura », o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità dì quell'avvenimento figurale. Infattì la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto umbra futurorum: una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire". Nel personaggio di Catone - scrive il De Sanctis - "vi è il savio antico, e qualche altra cosa

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

ancora; il savio cristianizzato, sulla cui fronte il poeta ha versato l'acqua battesimale della nuova religione... Vi è dunque in quell'aspetto iI savio antico, ma qualche altra cosa ancora; vi è il paradiso, la grazia illuminante, le quattro mistiche stelle dei purgatorio, che comunicano splendore e vita alla calma de' suoi lineamenti, e lo fanno parere un sole". Già in Lucano, la fonte alla quale Dante ha maggiormente attinto per delineare i tratti fisici e morali del personaggio di Catone, la figura di questo seguace della dottrina stoica appare permeata di un sentire religioso in cui sono come presagiti alcuni dei più sublimi temi del messaggio cristiano. Nel momento in cui decide di prendere parte alla guerra civile, l'eroe di Lucano (Farsaglia II, versi 306-313) esclama: "E così piacesse agli dei del cielo e dell'inferno che sul mio capo si potesser raccogliere tutte le espiazioni. E, nuovo Decio, cadessi trafitto da ambe le schiere, ed io trapassato da tutte le aste stessi in mezzo a ricevere le ferite di tutta la guerra; e questo sangue redimesse i popoli, e questa morte redimesse tutte le corruttele romane" (traduzione del D'Ovidio). E quando il suo luogotenente Labieno lo esorta ad interrogare l'oracolo di Giove Ammone, Catone risponde che Dio non ha scelto le sterìli sabbie del deserto africano "per ricantare il vero a pochi, né lo ha sommerso in questa polvere. C'è forse una sede di Dio, fuorché la terra e il mare e l'aria e il cielo e la virtù ?... Giove è tutto quanto tu vedi, dovunque ti muovi". «Chi siete voi, che seguendo una direzione opposta a quella del fiume sotterraneo (il ruscelletto di cui al verso 130 dei canto XXXIV dell'Inferno) siete evasi dal carcere eterno (l'inferno)?» disse, muovendo la sua veneranda barba. « Chi vì ha fatto da guida ? o che cosa vi ha rischiarato il cammino, mentre uscivate dalle tenebre profonde che rendono sempre nera la voragine infernale? A tal punto sono violate le leggi dell'inferno ? o in cielo é stato fatto un nuovo decreto, per cui, pur essendo dannati, giungete alla montagna da me custodita ? » Nelle domande che Catone rivolge ai due pellegrini è stata indicata una espressione di sdegno (Scartazzini), di sbigottimento (Grabher), di stupore (Fassò). Il Mattalia scorge in Catone i "trattí psicologici del duro legalitatario, del sospettoso (non vogliamo proprio dir burocratico) custode del Regolamento". Simili caratterizzazioni tuttavia, per eccesso di realismo psicologico, non rendono conto della maestà della figura di Catone, dell'aura di miracolo che la circonda, del sovrannaturale che in essa si incarna. Rileva opportunamente il Sansone che "al fondo del suo domandare c'è il presentimento di qualcosa di provvidenziale che regga il viaggio dei due pellegrini", mentre il Raimondi, analizzando i versi 40-48, osserva: "Sono tutte domande le sue, come di persona sorpresa che voglia sapere e incalzi I'interlocutore; ma la didascalia delle piume oneste, che interrompe il discorso diretto quasi per indicare il tono della scena con un lontano riferimento, forse, alle lanose gote di Caronte, e più ancora le formule numinose e le antitesi gravi che affollano la sua apostrofe (da lucerna a profonda notte, da valle inferna a leggi d'abisso, da novo consiglio a dannati, venite alle mie grotte) rivelano che, interrogando Virgilio, Catone non mira a informarsi, quanto a provocare in chi gli sta davanti una presa di posizione che deve poi valere, in fondo, come una specie di abiura, di decisa rinunzia".

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Virgilio allora mi afferrò,e mi fece inginocchiare e abbassare gli occhi in segno di riverenza, incitandomi a ciò con parole e con l'atto delle sue mani e con segni. Poi gli rispose: « Non sono arrivato di mia iniziativa: scese dal cielo una donna (Beatrice), grazie alle cui preghiere soccorsi costui con la mia compagnia. Ma poiché è tuo desiderio che la nostra condizione, quale essa è veramente, ti venga maggiormente chiarita, non può essere mio desiderio che questo (chiarimento) ti sia negato. Costui non vide mai la morte (Sia quella corporale che quella spirituale; non morì cioè e non è dannato); ma a causa dei suoi peccati fu così vicino alla morte spirituale, che pochissimo tempo sarebbe dovuto trascorrere (perché egli la vedesse). Come ti ho detto, fui inviato da lui per salvarlo; e non era possibile percorrere altra vìa che questa per la quale mi sono incamminato. Gli ho mostrato tutti i dannati; ed ora intendo mostrargli quelle anime che si purificano sotto la tua giurisdizione. Lungo sarebbe riferirti come l'ho portato fin qui: dal cielo scende una forza che mi aiuta a guidarlo per vederti e per ascoltarti. Voglia tu dunque considerare benevolmente il suo arrivo: egli va in cerca della libertà, che è tanto preziosa, come sa colui che per essa rifiuta di vivere. Tu lo sai, poiché in suo nome (per lei: la libertà) non fu per te dolorosa la morte a Utica, dove lasciasti il tuo corpo che il giorno della risurrezione dei morti risplenderà (con l'anima) di tanta gloria. Nota finemente il Momigliano che nella terzina 73 "il discorso di Virgilio si accende e si fa, per un momento, inno: e l'inno si corona con la fiammeggiante immagine dì Catone splendente di gloria nel giorno della resurrezione, quando le anime riprendono il loro corpo (la vesta) : bastano a quest'apoteosi due parole: al gran dì, sì chiara". Le leggi di Dio non sono state violate da noi; poiché costui è vivo, ed io non sono un dannato, assegnato a Minosse (e Minòs me non lega. la giurisdizione di Minosse inizia con il secondo cerchio dell'inferno; cfr. Inferno V, 4-15); ma provengo dal limbo, dove sono gli occhi pudichi della tua Marzia, che nel sembiante ancora ti prega, o animo venerabile, che tu la consideri tua: per l'amore che ella ti porta accondiscendi dunque alla nostra richiesta.

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Marzia, moglie di Catone e poi di Quinto Ortensio, dopo la morte di questi si rimaritò con Catone. Nel Convivio (IV, XXVIII, 13-19) Dante interpreta allegoricamente il ritorno di Marzia al suo primo marito, scorgendo in esso adombrato il ritorno dell'anima a Dio nel periodo della vecchiaia. Improntate a profondo affetto sono le parole che Dante fa rivolgere da Marzia al suo primo marito: "« Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio »; che è a dire che la nobile anima dice a Dio: « Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua ». E dice Marzia: « Due ragioni mi muovono a dire questo: l'una si è che dopo me si dica ch'io sia morta moglie di Catone; l'altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti »". Lasciaci andare per i sette gironi del tuo dominio (il purgatorio): riferirò a lei, nei tuoi riguardi, cose gradite, se hai piacere di essere nominato laggiù». Come quello di Catone, anche l'atteggiamento di Virgilio in questo episodio è stato generalmente interpretato su un piano angustamente psicologico, senza tener conto della dimensione allegorico-figurale che in esso si esprime. Il D'Ovidio è giunto addirittura a vedere in esso, con alquanto discutibile gusto, quello di "una buona istitutrice, che guida per mano alla signora incollerita la figlioletta colpevole e penitente". E' più che naturale che, considerando l'episodio da un tale punto di vista, sia sfuggito al critico il carattere religioso e rituale che il colloquio tra Catone e Virgilio riveste. Nel turbamento di Virgilio - osserva il Bigi - "Dante ha voluto significare l'atteggiamento della scienza o ragione umana di fronte alla sopraggiunta consapevolezza della nuova condizione di libertà: un atteggiamento complesso, in cui la sicurezza di possedere l'autorizzazione teologica per poter affrontare l'alto compito che attende l'anima penitente, non esclude il tentativo di ricorrere anche ai nobili ma qui inadeguati mezzi umani della parola ornata e affettuosa. Questo significato di Virgilio (su cui poco o nulla dicono i commentatori moderni) non sfugge ai commentatori antichi: e il Buti, a proposito dell'accenno di Virgilio a Marzia, osserva: "Si può notare che in questo finga l'autore che Virgilio parli a questo modo, per dare ad intendere che la ragione umana non apprende de le cose dell'altra vita se non come pratica in questa de le cose mondane ". « Marzia mi fu tanto cara (piacque tanto alli occhi miei) mentre fui in vita » disse Catone allora, « che le concessi tutte le cose a lei gradite e da lei desiderate. Ora che ella risiede al di là dell'Acheronte, non può più influire sul mio volere, in virtù di quella legge (che separa in modo netto gli spiriti dannati da quelli salvati) la quale fu stabilita quando uscii fuori dal limbo (insieme ai patriarchi dell'Antico Testamento; cfr., Inferno IV, versi 53-63). Ma se una beata ti incita ad andare e ti guida, come tu dici, non occorre che tu mi lusinghi: ti sia sufficiente rivolgermi la tua richiesta in nome suo. Dunque vai, e fa in modo di cingere costui di un giunco liscio e di lavargli il volto, in modo da cancellare da esso ogni sudiciume;

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poiché sarebbe disdicevole, con l'occhio offuscato da qualcosa di torbido, presentarsi davanti al primo esecutore dei decreti di Dio, che è un angelo (di quei di paradiso; si tratta dell'angelo posto a custodia della porta del purgatorio; cfr. Purgatorio canto IX, versi 78 sgg.). Questa piccola isola, nella sua parte più bassa, sulla spiaggia percossa dalle onde, è coperta tutt'intorno sull'umida sabbia da giunchi: nessun'altra pianta, di quelle che portano rami con foglie o diventano rigide, può vivervi, poiché non asseconda (flettendosi) i colpi (delle onde). Il vostro ritorno non avvenga poi da questa parte; il sole, che sta per sorgere, vi indicherà da che parte affrontare più agevolmente la salita del monte. » Gran parte dei critici hanno veduto in Catone soltanto il guardiano rigoroso ed ìnflessibile, accentuandone indebitamente la severità e la rudezza. Valga per tutti il giudizio del Croce, per il quale Catone è "la figura in cui il Poeta attua uno dei lati del suo ideale etico: la rigida rettitudine, l'adempimento dell'alto dovere, che par che non possa adempiersi, né operare sugli altri affinché a lor volta lo adempiano, senza rivestirsi di una certa asprezza, senza l'abito ritroso e alquanto diffidente di chi vigila sempre su se stesso e sugli altri". Questa interpretazione « laica » del personaggio di Catone non tiene conto del progressivo interiorizzarsi e spiritualizzarsi della sua figura in questo secondo discorso che rivolge ai due pellegrini. Nota il Sansone che nella figura del veglia "la severità e rigidità del filosofo stoico appare attenuata di affettuosità e umana temperanza" e che, per quel che riguarda in particolare la terzina 97, Catone lascia trasparite nelle sue parole "una distanza dalle pure essenze divine, che, quasi Io agguaglia ai suoi due ascoltatori, e che distende ogni tensione e insieme riapre l'atmosfera dell'attesa e del prodigio. Gli angeli sono quei di paradiso, creature di così alto privilegio che Catone non osa indicarle se non con una perifrasi". Poi, a poco a poco, il suo dire perde ogni residua asprezza: "l'accento è queto e quasi intimo, e la semplicità degli annunzi ribadisce la consuetudine del soprannaturale, nei modi che qui assume la condizione lirica del meraviglioso, cioè non nel rilievo, ma in una sua naturale misura". Ciò detto si dileguò; ed io mi levai in piedi senza parlare, e mi accostai con tutto il corpo a Virgilio, e rivolsi a lui lo sguardo. Egli cominciò a parlare: « Segui i miei passi: volgiamoci indietro, poiché da questa parte la pianura scende verso il suo orlo basso (la spiaggia) ». L'alba trionfava dell'ultima ora della notte (l'ora mattutina è l'ultima delle ore canoniche della notte), la quale le fuggiva dinanzi, in modo che da lontano distinsi il tremolio della luce sul mare. Più che nelle due altre cantiche, in cui riflette una condizione remota - nell'orrore delle tenebre o nel tripudio di una luce che non tramonta - da quella terrestre, e partecipa, fuori del tempo, di una certa astrazione, il paesaggio del purgatorio appare intimo, vibrante di umana trepidazione, penetrato di

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spiritualità. Le vicende della luce e del buio, che accompagneranno i due pellegrini nell'ascesa della montagna dell'espiazione, ne interpreteranno gli stati d'animo, ad essi docilmente accordandosi. Qui in particolare il "cielo notturno e sereno che via via si stenebra, è un maestoso e pensoso preludio dell'ascesa purificatrice a cui Dante si prepara" (Momigliano). Nella terzina 115 il gusto prezioso delle personificazioni - per cui l'apparire della luce si configura come una gioiosa vittoria di quest'ultima sulle tenebre debellate e messe in fuga - si risolve sul piano di una impressione direttamente ed intensamente rivissuta dalla memoria: il mare si annuncia di lontano attraverso la mobilità della luce che in esso si specchia. Nel tremolar della marina è la traduzione visiva della fiduciosa trepidazione dei due viandanti, il partecipe, beneaugurante consenso del creato alla speranza che li anima. Noi avanzavamo nella pianura solitaria come colui che torna alla strada che ha smarrito, il quale ritiene che il suo cammino sia inutile finché non l'abbia ritrovata. Quando fummo là dove la rugiada resiste, opponendosi, al sole e, per il fatto di essere in una zona dove spira un venticello, evapora poco, Virgilio posò delicatamente entrambe le mani aperte sulla tenera erba: per cui io, che compresi lo scopo del suo gesto, gli porsi le guance bagnate di lagrime: su di esse egli fece riapparire interamente quel colore (il mio colorito naturale) che l'inferno aveva occultato (con la sua caligine). Il combattimento della rugiada col sole ripropone, sul piano di una maggior discrezione, quello trionfale e squillante dell'alba che mette in fuga le tenebre. Qui il calore tarda ad essere vittorioso; la rugiada mantiene intatta la sua freschezza, la sua forza purificatrice, perché Dante possa, con l'aiuto del maestro, detergersi degli orrori della notte trascorsa fra i dannati. Giungemmo quindi sulla spiaggia deserta, che mai vide solcate le sue acque da qualcuno che sia poi riuscito a tornare indietro (Ulisse infatti, giunto in vista della montagna del purgatorio, naufragò). Qui mi cinse come Catone aveva voluto: o meraviglia! infatti l'umile giunco ricrebbe tale quale egli l'aveva scelto (cioè schietto, liscio) immediatamente, nel punto in cui l'aveva strappato. Il giunco pieghevole e puro simboleggia l'umiltà; il suo istantaneo rinascere la fecondità di questa disposizione dell'animo, per cui un atto d'umiltà non si esaurisce in se stesso, ma dà origine ad altri atti d'umiltà. Il sovrannaturale, ovunque presente nel canto, e al quale hanno alluso allegorie, simboli, riti, trova, nel miracolo dei giunco che ricresce, la sua conferma esplicita ed inequivocabile.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO II

Il sole aveva già toccato l'orizzonte il cui cerchio meridiano sovrasta col suo punto più alto (lo zenit) Gerusalemme; e la notte, che ruota intorno alla terra agli antipodi del sole, sorgeva dal Gange, nella costellazione della Libra (con le Bilance: durante l'equinozio di primavera, quando il sole è nella costellazione dell'Ariete), che le cade di mano quando (dopo l'equinozio d'autunno: il sole entra allora nella Libra) supera la durata del giorno (entrando nella costellazione dello Scorpione); in modo che nel purgatorio le gote, prima bianche, poi rosse, della leggiadra Aurora col passare del tempo divenivano gialle. I due poeti sono emersi sul lido del purgatorio poco prima dell'alba. La prima luce è apparsa loro mentre si avviavano in silenzio verso la spiaggia bagnata dall'onda per compiere i riti prescritti dal veglio: un rito lustrale, inteso a cancellare il passato, il peso del male e dell'errore, e un rito orientato verso il futuro, una promessa di umiltà gioiosa e riconoscente. La descrizione dell'alba (canto I, versi 115-117), animata da una stilizzata contrapposizione della luce alle tenebre, si era risolta in una notazione soggettiva (conobbi), in un grido trionfale, in una panica professione di fede nella bellezza del creato. Il canto Il inizia con una precisazione rigorosa, fondata sulla scienza astronomica, dell'ora nella quale ha inizio, dopo i due riti di purificazione, il cammino dei due pellegrini. Il sole è apparso all'orizzonte del purgatorio, situato agli antipodi dì Gerusalemme. Come nei versi 112-115 del canto XXXIV dell'Inferno, è messa anche qui in rilievo l'esatta opposizione, agli estremi di un segmento che passa per il centro della terra, della montagna sulla cui cima l'uomo visse innocente e peccò, e della città in cui Cristo versò il suo sangue per redimere il genere umano dal peccato. La prima terzina del canto non contiene dunque, come molti critici ritengono, una semplice precisazione erudita, priva di risonanze che oltrepassino il senso letterale, poiché l'astronomia - come del resto ogni branca del sapere - non si può mai considerare in Dante nella sua opaca empiricità, essendo permeata, nella sua stessa geometrica esattezza, di ragioni morali, di significati che trovano nella sfera del divino la loro determinazione ultima. Nella seconda terzina viene ulteriormente indicata l'ora della gran secca (cfr. Inferno, canto XXXIV, verso 113) che occupa l'emisfero boreale, il quale ha come punti estremi le sorgenti dell'Ebro e la foce del Gange, distanti fra di loro 180 gradi: tramontando, nel momento in cui sorge all'orizzonte del purgatorio, il sole a Gerusalemme, 90 gradi ad oriente di Gerusalemme là dove il Gange sfocia nell'Oceano Indiano, è mezzanotte. Dovendo infatti il sole percorrere l'intera rotazione intorno alla terra (360 gradi, una circonferenza completa) in 24 ore, l'arco di circonferenza di 90 gradi sarà percorso in 6 ore (per cui alla

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mezzanotte alle foci del Gange corrisponderanno le sei di sera a Gerusalemme) e quello di 180 gradi in un tempo doppio (per cui alle 1 6 pomeridiane di Gerusalemme corrisponderanno lé 6 antimeridiane del purgatorio). Questa seconda terzina è stata giudicata da taluno (Pistelli) superflua, ma a questa osservazione si deve obiettare che ciò che ad una lettura immediata può apparire puro sfoggio di crudizione, evoca, nella poesia di questo passo, il senso dell'ordinato svolgersi delle vicende del cosmo, per cui ad ogni apparizione di astri in un emisfero della volta celeste risponde un'apparizione contraria agli antipodi, in un quadro smisurato in rapporto alle nostre capacità di giudicare e intendere, ma che trova la sua esatta misura nella mente ordinatrice di Dio. Per quello che riguarda i particolari di questa terzina, è arduo non cogliere la sicura energia che si sprigiona da un'espressione pregnante come che opposita a lui cerchia, la quale ha la funzione di conferire, attraverso una determinazione razionale, un più intenso rilievo al miracolo della notte personificata (regge in mano le bilance) che emerge, ai limiti del mondo, dalle acque del mitico Gange. Neppure la terzina che trae le conseguenze (sì che ... ) dalle premesse poste nelle due precedenti, ha generalmente incontrato il favore dei critici. Il trasformarsi delle guance dell'Aurora da bianche e vermiglie in rance è, sempre per il Pistelli, "mutamento non bello e non desiderabile", poiché "l'oro scintillante del sole non può farci in nessun modo pensare a un viso ingiallito per vecchiezza mentre è tutt'insieme e immagine e causa e fonte di forza, di vita piena e vigorosa. In realtà questa immagine (le guance della bella Aurora) che riproduce modi della tradizione letteraria classica, filtrati attraverso l'esperienza stilnovistica ed adeguati all'andamento intellettualmente robusto, aderente alle determinazioni del reale (per troppa etate) proprio della poesia della Commedia, è valida in virtù della semplicità del disegno, della stringatezza delle sue determinazioni dell'ordine logico in cui queste risultano disposte. Ci trovavamo ancora lungo la riva del mare, come coloro che meditano sul cammino da percorrere, i quali con l'animo camminano e col corpo stanno fermi. Nella sua struttura questa terzina riecheggia la musica stanca dei versi 118-120 del I canto. I due pellegrini sono soli, lungo la riva di quel mare sul quale videro compiersi - dopo la lunga, interminabile notte infernale -il rinnovato, prodigio dell'alba. Pensano al cammino da percorrere, che sarà duro anch'esso ed aspro, per quanto illuminato da una Grazia ormai benigna, ed evidente nel suo fulgore. Virgilio, il savio gentil, che tutto seppe, non è più qui la guida autorevole che è stato nell'inferno, perché "se nell'inferno la sapienza dell'antica poesia poteva dire tutto, poiché all'inferno è sufficiente la sola natura umana, ora Virgilio stesso è di fronte a un mondo totalmente nuovo non più colmato dalla ragione umana: nel canto XI dell'Inferno la ragione di Virgilio comprende in sé e domina perfettamente la struttura infernale. Ora qui no: il paesaggio stesso è, fin dal primo canto, espressione di un vuoto che non può essere colmato dalla natura umana, ma invoca un aiuto superiore che' elevi la natura a una profondità metafisica più intensa, alla vita di Dio stesso" (Montanari). Ed ecco, allo stesso modo in cui mentre si abbassa, tramontando, sulla superficie del mare, il pianeta Marte colora di rosso all'avvicinarsi del mattino, a causa dei densi vapori che lo avvolgono,

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si palesó ai miei occhi, e tale possa io vederla, nuovamente (allorché, morto, mi troverò ancora una volta sul lido del purgatorio), una luce (il volto dell'angelo nocchiero) avanzante sul mare con tanta celerità, che nessun volo uguaglia il suo movimento. Dopo avere per poco distolto lo sguardo da essa per chiedere schiarimenti a Virgilio, la rividi divenuta più luminosa e più grande. Poi mi apparve ai due lati di essa un bianco di cui non riuscivo a precisare la forma, e sotto, questo bianco (sono le ali dell'angelo) un altro bianco si rese gradatamente manifesto (è la veste dell'angelo). I versi 10-12 hanno segnato come una battuta d'arresto nella esposizione oggettiva dei fatti, una pausa nello svolgersi della narrazione, un meditativo ripiegamento dell'anima, ancora trepidante dopo la dolorosa prova infernale, ancora incerta sui modi della propria redenzione, e come soverchiata dall'atmosfera di miracolo nella quale si trova immersa (le terzine iniziali del canto hanno ribadito il trionfo della luce come vittoria implacabile, necessaria - irriducibile alle sfumature, ai cedimenti, che caratterizzano la nostra soggettività - legata ad un ritmo che, per vastità di tempi e spazi, e per rigore, di sviluppi, paurosamente ci sovrasta). A partire dal verso 13 la narrazione riprende, la trepidazione si muta in aspettazione colma di fiducia, il paesaggio, carico sin qui di presentimenti ma immobile, accoglie in sé un movimento velocissimo. E' una semplice luce, che determinata per analogico richiamo all'intonazione «Scientifica» dell'esordio, in termini astronomici appare dapprima . corrusca, minacciosa (l'accenno a Marte, la pesantezza dei vapori che lo avvolgono, l'energia espressa da rossieggia collocato in fine di verso sembrano per un attimo suscitare un clima di minaccia analogo a quello in cui venne celebrata, nella dignitá profetíca dell'ultimo discorso di Varmi Fucci a Dante, la travolgente vittoria di Moroello Malaspina), per poi spogliarsi di ogni terrestre opacità nel lume del verso 17, e successivamente cingersi, da tre lati, di un ancora informe candore. Il realismo, in virtù del quale Dante identificava immediatamente nella prima cantica l'aspetto essenziale di una forma del mondo sensibile, di un atteggiamento umano, di un carattere, cede il posto nel Purgatorio ad una rappresentazione graduale della realtà, poiché la realtà del purgatorio non si configura nella definitività di una sentenza già applicata e pertanto nella stasi, che un solo colpo d'occhio è in grado di rilevare plasticamente, ma in quanto itinerario verso la perfezione, in quanto espletamento di atti simbolici che hanno luogo nel tempo si rivela progressivamente all'anima che si è resa degna di percepirla. Questa, gradualità nella manifestazione del reale - in cui artisticamente si concreta il processo di graduale conquista del Bene da parte delle anime purganti - è alla base dello stile della seconda cantica, che alcuni critici hanno definito "pittorico", in contrapposizione a quello più rilevato, caratterizzato come "scultoreo", dell'Inferno. Virgilio si trattenne dal parlare, finché i bianchi apparsi ai lati della luce rosseggiante apparvero essere ali: ma nel momento in cui fu certo di riconoscere il nocchiero, gridò: « Fa in modo di inginocchiarti: ecco l'angelo di Dio: congiungi le mani: da ora in poi vedrai simili ministri di Dio.

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L'enfasi con cui Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, non interrompe il processo attraverso il quale si è progressivamente definita - dal paragone iniziale con Marte alla individuazione delle ali nell'indistinto candore che si affiancava ai due lati del lume - la figura del noccbiero delle anime, ma ne rappresenta il coronamento naturale e armonico. Osserva il Montanari che il grido deI poeta latino, più che esprimere stupore, è grido "di esultanza e quasi di trionfo poiché Virgilio constata, di aver condotto il suo discepolo nel sicuro porto della Grazia: perciò ...è più lieve ed agile che non il corrispondente comportamento di fronte a Catone, (canto I, versi 49 sgg.); là dopo il primo, emergere dalla profondità della terra qualche cosa c'era ancora disticamente duro e quasi forzato (mi dié di piglio); qui invece dal silenzio pieno d'aspettativa sboccia un punto luminoso, e dall'ingrandirsi di questo fino a figura d'angelo, nasce il grido esultante di Virgilio, alto eppur libero e lieve, esultante, nella libertà ormai della grazía". Vedi che non si serve di strumenti umani, in modo da rifiutare i remi e le vele che non siano le sue ali per percorrere il tragitto tra spiagge così lontane (dalla foce del Tevere, come sarà spiegato nei versi 100-105, al lido del purgatorio). Vedi come le tiene alte verso il cielo, penetrando nell'aria con le penne eterne, le quali non sono sottoposte al cambiamento che il pelo (o le penne) degli esseri destinati a morire subisce ». Poi, nell'avvicinarsi a noi, il santo uccello appariva sempre più luminoso, per cui, da vicino, lo sguardo non ne sostenne lo splendore, ma fui costretto ad abbassarlo; e quello approdò con una navicella rapida e priva di peso, tanto che di essa l'acqua non sommergeva alcuna parte. Il celeste nocchiero stava a poppa, tale che sembrava portare scritta in tutto il suo aspetto la beatitudine; e più di cento anime sedevano nella navicella. La figura dell'angelo nocchiero ricorda, per certi tratti, quella del messo celeste che apre ai due pellegrini le porte della città di Dite (vedi che sdegna li argomenti umani esprime lo stesso potere sovrannaturale che, nell'episodio del IX canto dell'Inferno, è reso da passava Stige con le piante asciutte o da con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno), distinguendosi tuttavia da quella per un aspetto meno maestoso, meno imperatorio, e plasticamente saliente, rria in compenso più spiritualizzato. Il linguaggio, pur esprimendo, come nel canto IX deII'Inferno, il potere, da Dio trasmesso ai suoi officiali, di vincere le leggi della, natura (che l'ali sue tra liti sì lontani... che non si mutan come mortal pelo), non mira ad imporre questo potere ad una ostinazione ad esso estranea (Inferno, canto IX, Versi 76-81 e 91-99), ma a risolverlo piuttosto nel principio, da cui promana, avvicinandosi in tal modo, nonostante la struttura razionale che lo sostiene, al linguaggio infuocato dei mistici, come risulta da una definizione quale l'uccel divino, inconcepibile nello stile della morta poesia infernale. Tutti insieme, concordi, cantavano « Quando uscì Israele dall'Egitto » (è l'inizio del Salrno CXIII) con

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quello che, in quel salmo, segue. In un passo del Convivio (Il, I, 7) nel quale sono elencati i quattro sensi che può avere un componimento di stile "alto" (o "tragico"), ad esemplificare il quarto di questi sensi (I' "anagogico") è citato il Salmo CXIII, a proposito del quale viene espressa l'opinione che, per quanto siano veri i fatti in esso narrati (l'uscita dei popolo d'Israele dall'Egitto e la libertà da esso riacquistata), "non meno è vera quello che spiritualmente (in questo salmo) s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate". Poi fece, rivolto a loro, il segno della santa croce; essi allora si precipitarono tutti sul lido: ed egli se ne andò con la stessa velocità con la quale era venuto. La moltitudine rìmasta sulla riva sembrava ignara del luogo, e guardava intorno come colui che sperimenta cose nuove. Il sole, che aveva messo in fuga con le sue frecce precise (saette conte: presso gli antichi, Apollo, dio dei sole, era arciere infallibile) dal punto più alto del cielo la costellazione dei Capricorno (che, distando 90 gradi da quella dell'Ariete, si trovava allo zenit del meridiano mentre il sole stava sorgendo), scagliava la sua luce in tutte le direzioni, allorché la gente allora arrivata sollevò lo sguardo verso di noi, dicendoci: « Se la conoscete, indicateci la via per raggiungere il monte (del purgatorio) ». Osserva, in un passo della sua penetrante analisi di questo canto il Montanari, che, a partire dal verso 13, il "primo tempo deI motivo proprio di questo canto: è terminato: dalla attesa quasi spaurita, alla rivelazione serenatrice. Ora comincia il secondo tempo, riprendendo in altro tono il tema dell'attesa: la turba che rimase lì, selvaggia... L'attesa non è più sottolineata dall'alba, ora, bensì dalla piena luce del sole; e le prime parole della nova gente allargano ulteriormente il senso dell'attesa: queste anime non sanno nulla della via da compiere: Dante e Virgilio, che attendevano chi li indirizzasse, sanno ora che neppure le anime li possono indirizzare (52-60). Lo smarrimento, ora, sarebbe perció più forte se la luce non fosse più intensa e sicura; ma siamo nella luce, e il vuoto dell'attesa è un vuoto sereno". Occorre tuttavia rilevare che la determinazione di questa luce "più intensa e sicura" è ottenuta anche qui, come nei versi dell'esordio, attraverso una, rigorosa determinazione della posizione del sole, (con effetto analogo a quello dei versi 1-12), e il ritmo impassibile del cosmo soverchia dì tanto le capacità dell'umano sentire ed intendere da accentuare lo sbigottimento dei pellegrini all'inizio del loro viaggio. A ciò contribuisce l'impeto guerriero impresso all'avvicendarsi degli astri sulla volta celeste dalla trasposizione in chiave mitologica, per cui l'ascesa del sole assume il ritmo incalzante di una caccia (ove il Capricorno è la selvaggina stanata ed inseguita). E Virgilio rispose: «Voi immaginate forse che conosciamo questo luogo; ma noi siamo forestieri al pari dì voi.

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Siamo giunti poco prima di voi, attraverso un altro cammino, il quale fu così arduo da percorrere e duro, che la ascesa del monte ci sembrerà da ora innanzi cosa piacevole». Le anime che 'si resero conto, per il fatto che respiravo, che ero ancora in vita, impallidirono per lo stupore. E come la gente accorre verso un messaggero apportatore di liete notizie per esserne messa a conoscenza, e nessuno rifugge dal far ressa intorno a lui, così tutte quante quelle anime fortunate fissarono il loro sguardo su di me, quasi dimenticando di andare a purificarsi dei loro peccati. Il motivo della meraviglia delle anime messe in presenza di un vivo, accennato sporadicamente nella prima cantica, è tra quelli destinati a ritornare con maggiore frequenza nel Purgatorio. Qui la condizione delle anime è la più vicina a quella di Dante: come il Poeta, non sono sottratte al tempo, ma peregrinanti, in un tempo che, se non e più quello umano, è pur sempre segnato dall'alternarsi di giorni e notti, di luci e ombre sulle cose e negli animi. Il tema, della meraviglia dei penitenti rappresenta, l'avvio al colloquio tra i morti e il vivo, che insieme ad essi percorre lo stesso cammino, è mosso dalla stessa fede, ne condivide le ansie. Esso non costituisce, come nell'Inferno, una barriera al di qua e al di là della quale il vivo e i morti si trincerano polemicamente nei limiti delle loro soggettività, ma l'avvio ad una concordia destinata a perfezionarsi a mano a mano che gli ostacoli del monte renderanno più fruttuosi gli atti di penitenza, più luminosamente fervido lo spirito di carità. Io vidi una di esse uscire dalla schiera per abbracciarmi, con affetto così grande, che mi indusse a fare altrettanto. O ombre inconsistenti, tranne che nell'appírenza! Tre volte congiunsi le mani circondandola, e altrettante volte tornai con esse al mio petto. L’anima che si fa avanti per abbracciare Dante è quella di Casella, del quale l’Anonimo Fiorentino scrive: “ Fue Casella, da Pistoia grandissimo musico e massimamente nell’arte dello ‘ntonare; e fu molto dimestico dell’autore, però che in sua giovinezza fece Dante molte canzone e ballate che questi intonò; e a Dante dilettò forte l’udirle da lui e massimamente al tempo ch’era innamorato di Beatrice”. Altri antichi commentatori ne parlano come di un musicista fiorentino. Il motivo del triplice, vano abbraccio all’ombra di un defunto, è stato ispirato al Poeta da un passo dell’Eneide (VI, versi 700~702): Enea tenta vanamente di abbracciare l’ombra del padre Anchise, ma questa sfugge al suo abbraccio. Dante condensa, precisandolo, il motivo virgiliano, e lo rende più concitato e drammatico, privandolo delle similitudini che conferivano all’incontro di Enea con Anchise un tono di mesta elegia, Se infatti per un pagano la vita dell’al di là rappresentava una dIminuzione, una pallida eco della pienezza della vita terrena, per un cristiano è la vita terrena che appare monca,

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incompleta, rispetto a quella dell’oltretomba. Per questo il tema del triplice abbraccio, desolato e patetico in Virgilio ha in Dante unicamente la funzione di far risaltare l’affetto che sopravvive alla morte, l’amicizia di due spiriti che trova il suo compimento nel mondo della vita eterna. Nel mio aspetto, credo, si manifestò lo stupore; per questo l'anima sorrise e si trasse indietro, ed io, seguendola, mi spinsi avanti. Con dolcezza mi esortò a fermarmi: riconobbi allora chi era, e la pregai di fermarsi un poco per parlare con me. Mi rispose: « Così come ti volli bene mentre era chiusa nel corpo destinato a morire, così ti voglio bene ora che dal corpo sono libera: perciò mi fermo; ma tu perché percorri (essendo vivo) questo cammino ? » Casella ci appare remoto da ogni assillo che rende combattuta, problematica, irreale la ricerca della felicità sulla terra (soavemente disse ch'io posasse), ma, al tempo stesso, legato a quanto, sulla terra, è apparso come un'anticipazione del modo di sentire che è proprio delle anime del purgatorio: la spiritualità degli affetti, una, mansuetudine. una dolcezza, che esprimono un'ardente carità. Il suo affetto per il Poeta "ora il concreta nel desiderio di sapere come mai Dante è lì, con le sue spoglie mortali nel regno delle.anime e «va», come vanno loro che sono ormai sciolte dal corpo mortale. Non dice dove va; avvolge invece la meta di suggestiva indeterminatezza, adattissima al luogo, che è lontananza estrema ed assoluta da ogni determinatezza terrena" (Chiari). « Casella mio, percorro questo itinerario per essere degno di tornare un'altra volta (dopo la morte) nel punto in cui adesso mi trovo» dissi; « ma perché tanto tempo è stato sottratto alla tua espiazione (perché, essendo morto da tempo, giungi soltanto adesso alla spiaggia del purgatorio) ? » Alla domanda di Casella ma tu perché vai? fa riscontro quella di Dante ma a te com’è tanta ora tolta? Osserva in merito il Pistelli: “Nulla potrebbe esprimere l’interessamento scambievole dei due amici meglio di questo e due domande rotte, rapide, quasi affannose. Dove i ma interpongono un altro discorso incominciato e significano ambedue le volte: ma lasciamo quel che riguarda me: parlami di te, ché questo solo mi preme”. Ed egli: « Non mi viene fatto nessun torto, se colui (l'angelo nocchiero) che imbarca le anime che ritiene giusto imbarcare, e lo fa nel Momento da lui ritenuto giusto, mi ha più volte negato questo tragitto, poiché la sua volontà procede da una volontà giusta (quella di Dio): tuttavia da tre mesi a questa parte (cioè dalla promulgazione del giubileo ad opera di Bonifacio VIII, avvenuta nel Natale 1299, alla cui indulgenza poterono partecipare anche le anime in attesa di essere traghettate nell'isola del purgatorio) egli ha imbarcato chiunque ha voluto entrare (nella navicella), senza fare opposizione.

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Perciò io, che allora volgevo lo sguardo al mare nel quale l'acqua del Tevere (che in esso sfocia) diventa salina, fui da lui benevolmente accolto (nella navicella). Ora egli ha alzato le ali verso quella foce, poiché là si raccolgono sempre tutte le anime non destínate all'inferno». Casella non spiega il motivo della lunga attesa alla quale è stato costretto, alle foci dei Tevere, prima di essere accolto nel vasello dell'angelo. Per il Montanari è "inutile, forse, cercare quello che Dante non ha detto: ma non è, forse, del tutto arbitrario vedere nel ritardo una espressione della ancora imperfetta volontà di Casella, ancora pauroso d'incominciare, dalle foci dei Tevere, il viaggio verso l'ignoto creduto, ma non sperimentalmente conosciuto. Così interpretato, anche questo passo si legherebbe al tema generale del viaggio verso l'ignoto", che, per il critico, caratterizza il canto. Il Chiari, dal canto suo, ritiene che il Poeta, lasciando "indeterminata e misteriosa - ma d'altra parte indicandola come giustissima - la ragione del ritardo, rende in qualche modo l'idea della impenetrabilità delle cose spirituali, di questa specie di ineffabilità dell'indefinito e indefinibile mistero dei rapporti tra l'anima e Dio". Ed io: « Se una prescrizione propria del purgatorio non ti priva del ricordo dei canti d'amore che solevano placare tutte le mie inquietudini, o della facoltà di intonarli, L'espressione amoroso canto indica, secondo i più, il canto di poesie d'amore; ma amoroso può significare anche « dolce », « caro », tanto più che la canzone intonata da Casella esalta in forma allegorica la filosofia. voglia tu in tal modo confortare un poco la mia anima, la quale, insieme al mio corpo, è tanto stanca per il cammino sin qui percorso (attraverso l'inferno)! » « Amor che ne la mente mi ragiona » cominciò egli allora a cantare così dolcemente, che la dolcezza di questo canto echeggia ancora nel mio animo. « Amor che ne la mente mi ragiona » e il verso con cui inizia la canzone commentata nel III libro del Convivio. Dante interpreta questa canzone allegoricamente, cercando di dimostrare che le lodi della donna amata sono lodi rivolte alla filosofia e conclude il suo commento esortando gli uomini a seguire gli insegnamenti dei filosofi. Ma, prescindendo da questa interpretazione dottrinale, il componimento, che in più luoghi si risolve in melodia purissima, riecheggia motivi e forme di alcuni fra quelli inclusi nella Vita Nova. E' - nota il Chiari - la canzone del gaudioso rapimento d'amore, così smemorante che l'intelletto sovr'esso disvia... ed è la canzone dell'assoluta impossibilità di esprimere a parole quel che l'anima sente". Per quanto riguarda il senso dell'intero episodio di Casella risultano di grande interesse le seguenti osservazioni del Montanari: "Il mito virgiliano dell'incontro di Enea con il padre defunto significava l'illusione del ricordo che ti fa presente per un attimo lo scomparso, con lo stesso senso che ne avevi nella presenza viva, e poi d'un tratto nell'attimo stesso ti abbandona, rendendo più desolato il sentimento dell'irrimediabile assenza. Di tale umana esperienza non è certo ignaro Dante: ma al mito

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dell'illusione subito delusa si aggiunge qui un soprassenso, senza distruggere il primo: l'amicizia più alta ed eterna... non si appaga più dei sensi corporei: e pure, nello sbalzo dal temporale all'eterno, dal corporeo allo spirituale, soffre un distacco dolente... L'antico tema della consolazione dell'amicizia, rivissuto prima nell'atmosfera dell'amore cortese, rivissuto poi nel clima della solenne lode della filosofia sentita come suprema vetta della grandezza umana, risuona ora come umana consolazione in cui sono fuse insieme musica, amicizia, filosofia..." Virgilio e io e le anime che erano insieme con lui apparivamo così felici, come se a nessuno di noi un altro pensiero occupasse la mente. Noi tenevamo tutti lo sguardo fisso su di lui e la nostra attenzione era interamente rivolta al suo canto; ed ecco apparire il venerando vecchio (Catone), il quale gridò: « Cosa significa questo, anime pigre ? che senso ha questa negligenza, questo indugio? Affrettatevi verso il monte per liberarvi della scorza peccaminosa che non consente che Dio vi appaia ». Alla stasi delle anime, ancora avvinte, attraverso lo spirituale legame della musica, a quanto di parzialmente puro e felice in loro riaffiora del passato, si contrappone drammaticamente l'imperativo di Catone. Essendo lo stato contemplativo prerogativa dei beati (ai quali soltanto Dio è manifesto in tutto il suo splendore), occorre che esse rinuncino a guardare nel passato le oasi di bene in cui credettero di intravedere prefigurata la felicità eterna. Il loro sguardo deve tendersi invece verso il futuro, non sfuggire al ricordo delle colpe, ma superarlo espiandole (correte al monte). "Casella e Catone sono come i due temi fondamentali del canto Il del Purgatorio: quello dello stupefatto smarrimento, dell'incertezza un po' lenta e nebbiosa, e l'altro della indiscutibile ed assoluta sicurezza, della certezza salda ed infallibile. E se non temessimo di cadere in un simbolismo alquanto meccanico e di effetto, non esiteremmo ad aggiungere che Casella e Catone rappresentano ora i due aspetti fondamentali dello stato d'animo di Dante pellegrino nel nuovo regno: la certezza di realizzare in sé presto l'assoluta libertà, e lo smarrimento stupefatto e meravigliato che gliel'appanna e gliel'annebbia." (Marti) Con la stessa rapidità con la quale i colombi, adunati per il pasto, tranquilli, senza ostentare la solita baldanza (a causa della quale, impettiti, gonfiano il collo), mentre sono intenti a beccare la biada o il loglio, se appare alcunché di cui abbiano timore, all'improvviso si distolgono dal cibo, perché sono sotto l'assillo di una preoccupazione più grande, vidi quella schiera da poco arrivata distogliere l'attenzione dal canto (di Casella), ed avviarsi verso il pendio (del monte), come chi si avvia senza sapere dove vada a finire né la nostra partenza fu meno veloce.

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Osserva finemente il Chiari che, nonostante il brusco richiamo di Catone alla realtà, il paragone dei colombi "ci riporta alla quiete offerta dalla amorosa pastura del canto di Casella, e bene armonizza con tutta l'immagine di dolce mitezza con la quale è entrata nell'animo nostro questa prima delle molte schiere di anime che incontreremo lungo la montagna del purgatorio; ed è immagine del nuovo mondo, ove deve sparire del tutto ogni turbamento del mondo terreno". A questa la prima delle similitudini che illustrano la condizione delle anime dei purgatorio, caratterizzata, come ha ben veduto il De Sanctis, dall'obliarsi della coscienza individuale "in uno stesso spirito di carità e d'amore. Nell'Inferno vi sono grandi individualità, ma non vi sono cori; l'odio è solitario: nel Purgatorio non ci ha grandi individualità, ma invece vi son cori: l'amore è simpatia, dualità, un'anima che cerca un'altra anima". Per questo numerose similitudini della seconda cantica riguardano gruppi di anime, anziché anime singole, propongono alla nostra meditazione il tema dell'umiltà e dell'armonia, anziché quello dell'affermazione orgogliosa di sé che introduce nell'universo il seme della ribellione e del disordine.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO III

Sebbene l'improvvisa fuga sparpagliasse quelle anime per la pianura, verso il monte dove la giustizia divina ci tormenta (per purificarci), io mi accostai alla fedele compagnia: e come avrei potuto allontanarmi senza di lui? chi mi avrebbe guidato su per il monte? Egli mi sembrava tormentato dalla sua stessa coscienza: o spirito retto e puro, come un piccolo errore è per te causa di crudele dolore! Queste terzine, mentre costituiscono un elemento di collegamento con il canto precedente (si nota spesso nel Purgatorio la tendenza ad eliminare ogni soluzione di continuità per evidenziare anche da un punto di vista compositivo la compatta struttura spirituale del mondo della purificazione), impostano il tema fondamentale del nuovo canto, il cui svolgimento complesso ma graduale ci porterà da questa apertura drammatica e ansiosa ai toni elegiaci ed idillici della parte centrale, alle distensioni intime e pensose di quella finale. Il paesaggio silenzioso e grandioso della campagna in cui le anime rimproverate da Catone si disperdono, isola l'intenso turbamento di Dante e Virgilio, l'improvviso stagliarsi del monte accentua il loro smarrimento, denunciando la prima delle costanti tematiche che il Caccia bene mette in rilievo: "l'accusa precisa dei limiti della ragione umana, di quella ragione che persino in un grande come Virgilio commette errori, o perde la propria dignità nello smarrimento di un istante", ma è anche la ragione stessa che "invita le anime a correre verso il sacro monte: e solo il momentaneo oblio al canto di Casella può averle distolte dal loro cammino. Virgilio è da se stesso rimorso". Quando i passi di Virgilio non procedettero più con la fretta. che toglie decoro ad ogni azione, la mia mente, che prima era raccolta (in un solo pensiero), allargò la sua attenzione, come desiderosa di altre cose, e alzai gli occhi in direzione del monte che più alto (di tutti gli altri) si erge dalle acque verso il cielo. Il sole, che rosso ardeva alle nostre spalle, era interrotto davanti al mio corpo, che faceva da impedimento ai suoi raggi. Mi girai di fianco temendo d'essere abbandonato, quando scorsi che la terra era scura solo davanti a me; e Virgilio: « Perché dubiti ancora ?» prese a dirmi volgendosi interamente verso di me: «non credi che io

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sia, con te e che ti guidi? E' già l'ora del vespro là dove è sepolto il mio corpo col quale facevo ombra: si trova a Napoli, e fu trasportato da Brindisi. Virgilio morì a Brindisi nel 19 a. C. e il suo corpo, per ordine di Augusto, fu trasportato a Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Poiché il sole è da poco sorto nel purgatorio, e quindi è da poco tramontato a Gerusalemme, a Napoli (secondo i calcoli di Dante l'Italia meridionale è a 45 gradi di longitudine da Gerusalemme) è l'ora del vespro. In questo momento la vita del personaggio Virgilio viene approfondita al di là di ogni altra sua precedente individuazione e condotta al centro più intimo del suo significato umano, storico, religioso (tutto il canto è ricco di echi virgiliani: nella poesia della terra, nella contemplazione del cielo, nel tema dei sepolcri e in quello dei corpi insepolti), mentre "si sviluppa il primo movimento elegiaco: nella indicazione del corpo lontano, e quindi della assenza dell'ombra di Virgilio, vibra più intimamente il compianto della sepoltura terrena e lontana e tutte le determinazioni geografiche e storiche... sensibilizzano il motivo poetico della separazione, della lontananza, della nostalgia e vespro ed ombra inducono indirettamente la coerente suggestione di una luce attenuata e malinconica, come le indicazioni sepolcrali... la lentezza pensosa del ritmo collaborano ad una musica funebre ed elegiaca, alla creazione di un epicedio affettuoso e dolente che anticipa quello più scoperto e diretto di Manfredi" (Binni). Adesso, se davanti a me non si forma alcuna ombra, ciò non deve stupirti più del fatto che i cieli non impediscono che i raggi passino dall'uno all'altro. Per sopportare pene, caldo e freddo, Dio onnipotente crea tali corpi, ma come faccia ciò, non vuole che sia rivelato agli uomini. Stolto è colui il quale spera che la ragione umana possa percorrere la via infinita che Dio, uno nella sostanza e trino nelle persone, segue. Limitatevi a considerare, o uomini, le cose come sono: giacché se aveste potuto capire tutte le cose, non sarebbe stato necessario che Maria partorisse; e vedeste bramare invano uomini siffatti che (meglio di altri) avrebbero potuto soddisfare (se fosse stato possibile con la sola ragione umana) la loro ansia di conoscenza, mentre invece (tale desiderio) è motivo per loro di pena etema: parlo di Aristotile e di Platone e di molti altri ». E qui chinò il capo, e non aggiunse parola, e ristette turbato.

Una lettura che si fermi solo al valore didascalico dei versi 34-39, considerandoli come la parte centrale

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del discorso di Virgilio, corre il pericolo di non comprendere la profonda poesia che, attraverso le ombre ancora legate alla materia (versi 21-26), si libera nella trasparenza dei corpi dei trapassati (verso 28), si identifica con la luce rassicurante dei cieli (versi 29-30), si adagia infine nella Virtù che tutto dispone, enunciando le imperscrutabili disposizioni divine. Le affermazioni della filosofia scolastica che sostengono qui il pensiero di Dante si arricchiscono di vibrazioni liriche proprio perché sono pronunciate da chi, non avendo mai avuto esperienza della fede e del Dio cristiano, vede ora questa esperienza tramutarsi in nostalgia per un bene perduto, in eterna esclusione da un mondo ora intensamente desiderato, in condanna per sé e per la civiltà alla quale appartenne (versi 40-44). Quella che poteva essere una breve digressione per colpire la follia di chi pone ogni speranza nella sola ragione, diventa motivo teologico centrale di tutto il canto, che è quello, secondo la specificazione del Binni, della esclusione e della comunione delle anime: esclusione perpetua di chi disiar vedeste sanza frutto e ritrovata comunione "degli scomunicati redenti dal loro pentimento in punto di morte e vivi nell'esperienza letificante della ritrovata comunione, e nel ricordo dolente dell'esclusione passata". Giungemmo frattanto alla base del monte: qui trovammo la roccia talmente ripida, che invano le gambe lì sarebbero volonterose di salire. Tra Lerici (un castello sulla riviera ligure, alla foce del fiume Magra) e Turbia (un borgo nizzardo) la roccia più inaccessibile e impraticabile è, al confronto di quella, una scala comoda e ampia. Il paesaggio dei primi due canti del Purgatorio viveva in un prorompere continuo di luce, si profilava come una immensità oceanica davanti ai due pellegrini, fino allora costretti nella voragine infernale: ora gli occhi di Dante e Virgilio si sono abituati alla luce, e nel paesaggio prima senza forme possono ora, distinguere meglio il poggio che 'nverso il cíel più alto si dislaga, le ombre si precisano, le pareti appaiono rocciose, erte, le notazioni si fanno realistiche, attente, e Dante, che prima aveva fatto riferimento alle costellazioni, al corso del sole, ai movimenti dei cieli, ritorna con animo quasi angosciato al mondo che conosce, alla terra, per trovare in essa qualche termine di paragone. Sarà lo stesso paesaggio che con una muta sgomenta elegia, ritmata quasi sul tono di una funebre marcia, fa da sfondo alla cupa avventura del cadavere di Manfredi" (Caccia). « Adesso chissà da quale parte la costa è meno ripida » disse, il mio maestro arrestandosi, « in modo da consentire la salita anche a chi non ha ali? » E mentre egli, con gli occhi rivolti a terra, rifletteva sul cammino da tenere, e io guardavo in alto tutt’intorno alla roccia, da sinistra vidi comparire una schiera di anime, che procedevano verso dì noi, e quasi non sembrava che ciò avvenisse, tanto lentamente si avvicinavano. « Alza, o maestro », dissi, « il tuo sguardo: ecco da questa parte chi ci darà consiglio, se tu non riesci a trovarlo in te stesso. »

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Allora guardò, e con viso rasserenato, rispose: « Avviciniamoci a loro, poiché essi avanzano lentamente; e tu, figlio caro, rafforza la tua speranza ». Quella schiera era ancora così lontana, dico dopo aver noi fatto un migliaio di passi, quanta può essere la distanza cui un buon lanciatore scaglierebbe una pietra, quando tutti si addossarono alle dure rocce dell'alta costa, e stettero fermi e raccolti come, chi va, si ferma a guardare quando è colto da un dubbio. La critica è concorde nel considerare il canto III uno dei più rappresentativi deIl'atmosfera corale del Purgatorio, "dove tutto è folla e gruppo, unici e monocordi" (Mattalia). Cessate le violente apparizioni dell'inferno, le anime avanzano a schiera, cantando in un accordo profondo di atteggiamenti e di gesti, "come processioni di penitenti tutti raccolti interiormente e gravati da un ignoto peso dell'anima" (Grabber). In Dante e Virgilio ogni residuo del turbamento iniziale si dissolve davanti a questa gente d'anime, a questo popol "il cui procedere lentissimo, agevola e sottolinea... il prevalere di un ritmo costante e distensivo che prepara il nuovo culmine poetico di un altissimo idillio, di una «pastorale» purissima ai cui margini pur vibra, in forme sempre più attenuate di stupore e di trepidazione, l'eco di quel movimento di incertezza... e che qui mai si dissocia completamente dal fondamentale sentimento letificante di concordia e di salvezza in comune delle anime degli scomunicati pentiti e avviati alla loro totale liberazione" (Binni). L'avanzare deciso dei due pellegrini (con libero piglio) contrasta con quello lentissimo delle anime che, di fronte a un'apparizione così lontana ormai dal loro mondo, arretrano e si addossano al monte "con un risultato figurativo di mobile bassorilievo" (Binni), che, accostato alla similitudine successiva delle pecorelle sembra richiamare i bassorilievi paleocristiani, o certi mosaici ravennati o alcuni affreschi romanici. « O voi che siete morti in grazia di Dio, o spiriti già destinati alla salvezza eterna », prese a dire Virgilio, « in nome di quella pace che io credo sia attesa da voi tutti, diteci in qual punto la montagna è più agevole, sì da poterla salire, perché perder tempo dispiace a chi ne conosce il valore. » Come le pecore escono dal recinto da sole, o a gruppi di due e di tre, e le altre sostano timide abbassando il muso e lo sguardo, e quello che fa la prima, fanno anche le altre, raggruppandosi dietro a lei, se si ferma, obbedienti e mansuete, senza conoscerne il motivo, così io vidi allora avvicinarsi le prime anime di quella felice moltitudine, umile nei volti e dignitosa nel procedere,

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Questa similitudine di mirabile evidenza, le cui componenti, semplicità e mansuetudine, richiamano quella dei colombi (canto Il, versi 124-129), è la sintesi visiva di tutti gli elementi elegiaci del canto: l'animo del Poeta sembra abbandonarsi al nuovo sentimento di pace che avverte in sé e attorno a sé, alla comunione con le anime purganti, vuole vivere di quella umiltà alla quale è stato consacrato sulla spiaggia del purgatorio. Anche se la tradizione letteraria bucolica, di Virgilio in particolare, il ricordo evangelico (le anime presentate attraverso l'immagine degli agnelli e delle pecorelle) e un passo del Convivio (I, XI, 9-10) lo sorreggono, questo quadro - pur essendo "uno dei più nitidi studi dal vero di tutto il poema, uno di quelli in cui Dante ha trovato più genialmente la parola pittrice" (Momigliano) - non è che l'estremo sviluppo del tema centrale dell'umiltà delle anime che si abbandonano alla volontà divina, che sono contente del quia. Infatti l'osservazione dei movimento lento ma sicuro (a una, a due, a tre), dell'atteggiamento (atterrando l'occhio e 'l muso), della concordia (e ciò che la la prima, e l'altre fanno), l'uso dei diminutivi (pecorelle, timidette), la scelta degli aggettivi (semplici, quete), preparano le ultime parole della similitudine: e lo 'mperché non sanno. Se il turbamento genera incertezza - nota il Caccia - "incertezza genera umiltà, e tutto il canto si ispira a questo motivo della umiltà, che è poi la virtù opposta all'antica colpa". Così è umile Virgilio, che esorta ad accontentarsi della realtà contingente e riconosce di aver bisogno egli stesso di consiglio, umili sono queste anime, umiIe sarà Dante di fronte a Manfredi, ma umile sarà soprattutto lo stesso Manfredi la cui alta personalità si china alle universali leggi divine e che, pur conservando ancora per istinto e per abitudine tutta la sua aristocraticità regale, si fa riconoscere non per una corona ma per due ferite". Il primo incontro di Dante con le anime del purgatorio avviene con coloro che più sono lontani dalla salvezza, cioè con gli scomunicati, "coloro la cui ribellione alla legge divina non fu solo individuale ma sociale, coloro che rifiutarono obbedienza alla Chiesa". Secondo la legge del contrappasso essi che in vita furono superbi, orgogliosi, ribelli. dovranno ora essere umili, mansueti, docili al destino e all'altrui volontà: "anzi, sono fra le anime più timide del purgatorio, non solo perché la loro personalità ribelle ebbe esemplare annullamento nel disonore della scomunica... ma perché fra tutte le anime... queste hanno pur tutta l'incertezza e il tremore di chi si trova ancora assai prossimo alla piaggia cui si giunge affannati e smarriti" (Caccia). Non appena quelle anime videro in terra, alla mia destra, la luce interrotta, poiché la mia ombra stava fra me e la roccia, si arrestarono, e indietreggiarono un poco, e tutte le altre che venivano dietro, pur non conoscendone il motivo, fecero altrettanto. « Senza attendere che voi me lo domandiate, vi dichiaro che questo che voi vedete è un corpo umano, per questo la luce del sole è, in terra, interrotta. Non stupitevi; ma credete che non è senza l'aiuto del cielo che io cerco di superare questa roccia. » Così parlò Virgilio; e quegli spiriti eletti. «Tornate indietro e camminate dunque davanti a noi», dissero, facendoci segno col dorso delle mani.

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E uno di loro prese a dire: « Chiunque tu sia, mentre cammini volgi gli occhi: cerca di ricordare se in terra tu mi abbia mai veduto ». Parla Manfredi, figlio naturale di Federico II che appena diciottenne, nel 1250, alla morte del padre, governò il regno di Napoli e Sicilia per il fratello Corrado IV, dopo la morte del quale si fece incoronare re a Palermo (1258). Guidò il partito ghibellino in Italia, lottando duramente contro la Chiesa che lo scomunicò, finché il pontefice Clemente IV chiamò in Italia Carlo I d'Angiò, che sconfisse a Benevento nel 1266 Manfredi, il quale morì in battaglia. I cronisti del tempo lo giudicarono in modo opposto: quelli ghibellini lo esaltarono entusiastìcamente, quelli guelfi lo accusarono di ogni nefandezza. Tuttavia il Villani (Cronaca VI, 46), benché guelfo, afferma: "Fu bello del corpo e, come il padre e più, dissoluto in ogni lussuria; sonatore e cantatore era;... molto fu largo e cortese e di buon aire, sicché egli era molto amato e grazioso; ma tutta sua vita fu epicuria, non curando quasi né Iddìo né Santi". Dante in un passo del De Vulgari Eloquentia (I, XII, 4), tesse grandi lodi per l'opera politica e culturale di Federico Il e di Manfredi, tralasciando ogni giudizio morale. E, se pone Federico Il fra gli epicurei nell'inferno, salva Manfredi in virtù di un pentimento poco prima della morte. Io mi girai verso di lui e lo guardai attentamente: era biondo, bello e di nobile aspetto, ma aveva un sopracciglio diviso in due da una ferita. Quand'ebbi con cortesia negato d'averlo mai conosciuto, egli dìsse: « Adesso guarda»; e mi mostrò una ferita vicino al cuore. Poi aggiunse sorridendo: « Sono Manfredi, nipote dell'imperatrice Costanza; perciò ti prego, quando ritornerai in terra, di andare dalla mia bella figlia, madre di coloro che sono i sovrani di Sicilia e d'Aragona, per dirle la verità su di me, se si raccontano altre cose. Costanza imperadrice è Costanza d'Altavilla, sposa dell'imperatore Arrigo VI e madre di Federico II. La figlia di Manfredi è Costanza che sposò Pietro III d'Aragona ed ebbe come figli Federico II, re di Sicilia, e Giacomo Il, re d'Aragona. Quand'ebbi il corpo trafitto da due colpi mortali, io mi rivolsi, piangendo (per il pentimento dei peccati), a Colui che è sempre pronto a concedere il suo perdono. I miei peccati furono orribili; ma la infinita misericordia ha braccia tanto ampie da accogliere tutti coloro che a Lei si rivolgono. Se il Purgatorio è la cantica delle idealità e degli affetti, l'animo di Dante è pur sempre impegnato con la cronaca e con la storia, con il dramma e la tragedia dei suoi tempi; il Poeta muta solo il tono, osserva in

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lontananza, acquista un senso di distacco. "Manfredi prende tutto il suo rilievo non solo sullo sfondo di quel paesaggio e di quelle anime scorate che lo accompagnano, ma anche sullo sfondo di quei profondi ideali, di quella epica lotta, di quelle sue stesse amare vicende innalzate alla pietà che vince l'orrore, alla sofferenza che redime, alla bontà che perdona." (Caccia) Solo rilevando con forza il netto contrasto fra gli orribil... peccati miei e la bontà infinita, l'episodio acquista valore e funzione di exemplum, di "lezione profonda di umiltà" (Sapegno) . Nella figura del re svevo si attua appieno il processo di spiritualizzazione proprio di tutta la seconda cantica: il sorriso con cui si rivolge a Dante quasi per attenuare l'orrore delle ferite, segna il distacco fra la tragedia della sua vita terrena e la raggiunta serenità, che ha liberato Manfredi dei suoi peccati, ma gli mantiene la regalità di un tempo, trasumanandola anzi in santa regalità, dopo averla liberata da ogni superbia. pon mente se di là mi vedesti unque... io son Manfredi... ond'io ti priego. Infatti alto e distaccato è il tono delle sue parole, quasi solenne l'accenno a Costanza ímperadrice, alla figlia genitrice dell'onor di Cicilia e d'Aragona, Il regale è il suo discorrere ampio e la sua sintassi latineggiante (ondio ti priego che quando tu riedi ... ); regale è quel suo ricordare, di tanto odio, solo quel suo cadavere gettato oltre i confini del regno: persino l'immagine stessa della bontà divina (la bontà divina ha sì gran braccia) acquista in lui una latitudine regale... Quel sorriso, come quel suo volto bello e gentile, sono ora le sue vere insegne di re" (Caccia). Avvertiamo la nobiltà del suo animo proprio nell'umile confessione della sua miseria umana (io mi rendei, piangendo), nel riconoscimento di un potere superiore che si manifesta come amore (la bontà infinita), verso il quale la sua anima vibra e si slancia stanca delle lotte della vita. Se il vescovo di Cosenza, che da papa Clemente fu indotto allora a perseguitarmi, avesse potuto penetrare questo aspetto di Dio, le mie ossa sarebbero ancora in capo a un ponte vicìno a Benevento, custodite da un mucchio di pietre. Adesso la pioggia le bagna e il vento le agita; fuori del regno (di Napoli e di Sicilia), quasi sul Garigliano, dove egli le trasportò a ceri spenti (come si usava per i cadaveri degli scomunicati e degli eretici). Il pastor di Cosenza è l'arcivescovo Bartolomeo Pignatelli; che rappresentava Clemente IV presso Carlo d'Angiò. Il Villani (Cronaca, VII, 9) narra che il cadavere di Manfredi, ritrovato sul campo di battaglia dopo tre giorni, fu sepolto dagli stessi nemici sotto una "grande mora di sassi" e che invece secondo altri il vescovo di Cosenza fece dissotterrare il corpo e trasportarlo fuori del regno dì Napoli, "ch'era terra di Chiesa", per abbandonarlo lungo le rive del Garigliano, che segnava il confine fra il regno meridionale e lo stato della Chiesa. Nelle parole di Manfredi tutto diventa rappresentazione ed immagine: l'ostilità dei pastor di Cosenza si trasforma in.movimento di caccia selvaggia e le feroce, le fasi della battaglia si riassumono nel pesante tumulo di sassi che la pietà dei nemici ha eretto sopra il suo corpo, l'odio dei suoi persecutori appare nel trascinarsi di quelle povere ossa battute dalla pioggia e dal vento: eppure non c'è dura polemica contro alcuno, ma solo, l'amara constatazione, di vedere altri uomini peccare come tante volte ha peccato lui

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stesso. In seguito alle loro scomuniche (maladizion: la scomunica infatti non comporta di necessità la dannazione spirituale) la grazia di Dio non si perde a tal punto che non si possa recuperare, finché la speranza non è del tutto inaridita. Tuttavia chi muore scomunicato, anche se si pente in punto di morte, deve restare fuori di questo monte, per un periodo di tempo trenta volte più lungo di quello che da vivo ha nella sua ostinazione orgogliosa, a meno che tale decreto non venga abbreviato dalle preghiere dei buoni. Vedi dunque se puoi farmi contento, rivelando, alla mia buona Costanza dove e in che modo mi hai visto, e anche questo divieto, poiché noi molto progrediamo nella purificazione grazie, ai suffragi dei vivi ». L'elegia che aveva raggiunto, il suo tono più cupo nei versi 130-132 e si era tramutata.in uno slancio di fede e di speranza (versi 134-135). si conclude ristabilendo "quell'armonia tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti che il drammatico racconto sembrerebbe aver spezzato" e chiude l'episodío proprio in questo tono di umiltà familiare, nel sigillo di quello spirito comunitario che... anima il corale respiro lirico del canto" (Caccia).

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO IV

Quando per un'impressione di piacere o di dolore, che una qualche potenza della nostra anima riceve in sé, l'anima si concentra tutta in quella facoltà, sembra allora che essa non presti più attenzione a nessun'altra sua facoltà; e questo fatto é una prova contro quella dottrina errata la quale ritiene che in noi si formino più anime una accanto all'altra. Dante sostiene, secondo il principio scolastico, una sola essenza dell'anima, che "hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare" (Convivio III, Il, 11), e quando essa è intensamente occupata in un'operazione, non può impegnarsi in altre. Viene così confutata la teoria platonica della formazione e dell'esistenza di tre anime, la vegetativa, la sensitiva, l'intellettiva. E perciò. quando si ascolta o si vede qualcosa che attiri a sé fortemente l'anima, il tempo trascorre senza che uno se ne accorga, poiché una è la facoltà che percepisce il passare del tempo (che l'ascolta: la facoltà intellettiva), e una altra (la facoltà sensítiva) è quella che concentra in sé l'anima intera: questa è come legata (alle impressioni che percepisce), quella invece è sciolta da ogni ufficio (perché l'attenzione dell'anima è rivolta altrove). L'esordio solenne rivestito dei moduli espressivi della Scolastica pare chiudere il canto IV in una di quelle zone che il Croce definisce, nell'esclusione di ogni forma di scienza dalla poesia, non poetiche e che il D'Ovidio censura affermando che "se Dante ebbe il proposito di riposar l'animo dei lettori dall'ammirazione dei tre canti che precedono" e dargli lena ad ammirare la bellezza del successivo e la sublimità dei tre appresso, riposarlo dallo stupore con la fatica, non si può negare che v'è riuscito!" In realtà, pur essendo innegabile il peso degli elementi didascalici (il massimo sviluppo si avrà nei versi 61-96), da Dante ritenuti necessari al fine di spiegare la disposizione cosmografica del secondo regno, è necessario rilevare che nel pensiero medievale la scienza costituisce elemento di elevazione e modo di purificazione, portando l'uomo. attraverso la meditazione, a considerare ogni vicenda, ed esteriore ed interiore, della sua vita in una prospettiva universale, trovando in quella vicenda lo stesso ritmo di leggi e principii generali. Tale posizione garantisce la validità strutturale di questo inizio, ma assicura anche la liricitá, polarizzando l'interesse sulla nuova situazione spirituale di Dante. Finora ogni suo gesto e ogni suo passo implicanti una conquista purificatoria erano stati guidati, o addirittura voluti attraverso duri rimproveri, da Catone e da Virgilio, quasi il Poeta fosse ancora troppo impedito dai legami terreni. Ora,

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"fisso e attento alle parole di Manfredi con la medesima fissità e attenzione che ebbe di fronte al canto di Casella, Dante ha ... saputo superare il pericolo della lentezza e della negligenza - l'accusa di Catone ~ intendendo appieno verso quali oggetti debba convergere il suo spirito nella via del purgatorio. Qui Dante giustifica filosoficamente la necessità della rampogna di Catone. La scienza filosofica lo illumina sul pericolo della contentezza provata durante il canto dell'amico musico" (Romagnoli). Dante, al quale ormai basta un semplice cenno delle anime (verso 18) per riscuotersi, entra dunque nella legge morale del purgatorio, preannunziando "la sua prima vittoria conseguita nella vicenda della dura e vincolante dialettica, dei rapporti anima-corpo, intelletto-senso" (Mattalia) Di questo fatto io ebbi personale esperienza, ascoltando e guardando intensamente Manfredi; infatti di oltre cinquanta gradi era salito il sole (esso percorre quindici gradi ogni ora: perciò sono trascorse più di tre ore dal levarsi del sole e dall'apparizione dell'angelo nocchiero), ed io non me ne ero accorto, quando giungemmo in un punto in cui quelle anime ci gridarono tutte insieme: « Questo è il luogo di cui ci avete domandato ». Il contadino quando l'uva incomincia a maturare (imbruna; bisogna perciò difenderla dai ladri) spesso con una piccola forcata di spine chiude con questi pruni un'apertura della siepe più larga di quello che non fosse il sentiero lungo il quale salimmo Virgilio, ed io dietro di lui, soli, dopo che la schiera delle anime si era congedata da noi. Se l'apertura di questa similitudine dà la misura di un'attenzione concretissima alla terra, qui osservata nell'animato ritmo di una scena campestre, è tuttavia il verso 23 - con il suo stile duro, spezzato da continue pause, che si raccolgono tutte in un'unica, lunga sospensione nell'aggettivo soli - che apre un tema maestro, facendo del IV canto "uno dei più importanti dall'angolo visuale del contenuto " (Jenni) : i due pellegrini iniziano l'ascesa dei monte, che finora avevano osservato solo dalla spiaggia e del quale avevano già guardato con preoccupazione la ripidità (canto III, versi 46-51). Le due similitudini realistiche (maggiore aperta... vassi in Sanleo... ) poste in successione immediata, "come una ripresa, una movenza stilistica di constatazione vagamente esclamativa" (Jenni), sono per il Poeta necessarie al fine di mettere subito in rilievo il carattere eccezionale della salita, contemporaneamente introducendoci nell'atmosfera di silenzio e di solitudine, che, secondo il Momigliano, è il motivo lirico del canto, accanto alla "presenza solenne e muta della montagna, che nel Purgatorio è protagonista della poesia ben più che l'abisso nell'Inferno". E' possibile arrivare a Sanleo (borgo del ducato d'Urbino, posto su un ripido colle che si raggiungeva con un sentiero scavato nella roccia) e scendere a Noli (cittadina della riviera ligure di ponente, alla quale si accedeva scendendo lungo pareti a picco sul mare), salire sul Bismantova (alto monte dell'Appennino nel territorio di Reggio Emilia) fin sulla vetta solamente coi piedi; ma qui è necessario che si voli; dico con le ali veloci e con le piume del grande desiderio, seguendo quella guida che mi dava speranza e

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mi faceva luce. I mezzi necessari per salire il monte del purgatorio - la cui ripidità supera ogni confronto umano - sono quelli spirituali: "colla fede e colla speranza che sono l'ali che portano i virtuosi e fedeli" (Anonimo Fiorentino). Salivamo per un sentiero scavato nella roccia, e (era tanto angusto che) le sue sponde ci stringevano a destra e a sinistra, e il suolo sottostante costringeva ad aiutarsi con i piedi e con le mani. Dopo essere giunti al termine dell'alta parete (alta ripa; essa costituisce la base del monte), su uno spiazzo aperto (non incassato nella roccia), dissi: « Maestro, che via seguiremo? » Ed egli mi rispose: « Il tuo passo non pieghi né a destra né a sinistra: avanza sempre verso l'alto seguendo me finché ci appaia qualche guida esperta del cammino ». La vetta del monte era così alta che superava ogni possibilità della nostra vista, e il pendio era assai più ripido di una linea condotta dal punto mediano di un quadrante al centro del cerchio (poiché il quadrante di un cerchio corrisponde ad un angolo al centro di 90 gradi, la linea ha un'inclinazione di 45 gradi: la costa perciò è quasi perpendicolare al monte). Ero stanco, quando dissi: « O dolce padre, volgiti, e guarda che rimango indietro, solo, se non ti fermì ad' aspettarmi ». « Figliolo, cerca di trascinarti fin qui » disse, indicandomi un ripiano poco più in alto, che cingeva tutto il monte dalla, parte a noi visibile». Le sue parole mi spronarono a tal punto, che riunii tutti i miei sforzi, procedendo a carponi dietro di lui, finché raggiunsi quella sporgenza. L'ascensione di Dante e Virgilio - pur resa con una rappresentazione molto mossa, in cui il dialogo tra i due poeti è ricco di una familiarità sostenuta dalla comune fatica dell'ascesa ed espressa nel rapporto padre-figlio, che ora ha sostituito quello maestro-discepolo - ha il significato allegorico-morale di purificazione raggiunta via via attraverso la fatica del superamento. "Ci troviamo di fronte a uno di quei luoghi del poema dove l'allegoria si aggruma" (Jenni) in un'ascesa ambivalente, accostata da alcuni critici moderni a quella del Petrarca sul monte Ventoux, descritta; nell'epistola datata Malaucène 26 aprile 1336. Anche il Petrarca conferisce ad ogni gesto suo e del fratello Gherardo che l'accompagna, una significazione morale, ma mentre in lui il senso letterale e quello allegorico restano sempre distinti, in Dante essi sono fusi a un grado così avanzata", che nei migliori momenti non sí danneggiano. Noi possiamo leggere questo primo episodio d'una scalata con una partecipazione viva come per un'impresa di montagna... E quando Virgilio dà al suo protetto il mezzo ordine e mezzo consiglio di non fare nemmeno un passo in giù, si tratta d'un ammonimento morale che però vale alla perfezione già per la

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sola fatica fisica. Senza contare che sempre, nei luoghi danteschi di allegoria più ricca, restano dei particolari il cui senso non oltrepassa quello letterale: come, qui, l'ultimo « carpare » di Dante per giungere al cìnghio" (Jenni). Lì ci sedemmo entrambi rivolti verso oriente, da dove eravamo saliti, poiché guardare il cammino già fatto suole apportare conforto e gioia agli uomini. Dapprima volsi lo sguardo verso la spiaggia; poi lo alzai verso il sole, e mi accorsi con stupore che i suoi raggi ci colpivano provenendo da sinistra. Molti critici moderni vedono nel volgersi di Dante verso oriente un significato mistico, dal momento che, prima ancora della letteratura medievale, già quella patristica avvertiva del valore della preghiera fatta verso oriente, da dove era venuto Cristo. Ma poiché i più antichi commentatori non hanno rilevato nei versi 53~54 tale significato, il Sapegno ritiene giustamente che "Dante non guarda all'oriente in quanto tale, bensì alla parte da cui è salito". Benché il gran disio sospinga verso l'alto. il cammino resta pur sempre aspro per il corpo e lo spirito, crea un affanno fisico e un affanno morale (che via faremo?; rimira com'io rimango sol, se non restai) in Dante, motivando uno stato di perplessità smarrita che era già stato presente nei canti precedenti, ma che ora viene superato in virtù della vicinanza della meta (additandomi un balzo poco in sue). E' il "momento - afferma il Romagnoli - più schietto e fresco della gioia di Dante: e non possiamo non partecipare a questo silenzioso trionfo della vista sua... e non possiamo non assentire a quel gesto di alzare gli occhi al sole, di muovere la propria vista nella libertà degli spazi infiniti... Il canto sembra giunto al suo culmine, sembra sciogliere tutti gli elementi del dramma umano di Dante per liberarli nell'infinitezza del cielo", ma è una pausa contemplativa breve, anche se molto intensa, perché è subito interrotta dallo stupore (versi 56-57). "Il fatto è che Dante non può indugiare sugli elementi contemplativi... in un canto tutto incentrato sullo slancio morale della conquista, sull'acquisto di scienza certa", che può essergli data solo da Virgilio, la ragione, che, dominando l'apparente mistero del fenomeno fisico, ricompone "in filosofica quiete lo spirito dianzi stupefatto." (Romagnoli) Virgilio si accorse facilmente che io guardavo tutto stupefatto il sole, là dove entrava nel suo cammino fra noi e il settentrione. Per questo egli mi disse: « Se la costellazione dei Gemelli (Castore e Polluce) fosse in compagnia del sole che rischiara alternativamente l'emisfero settentrionale e quello meridionale, tu vedresti la parte rosseggiante dello Zodiaco (la via percorsa dal sole) ruotare ancora più vicina alla costellazione delle Orse (cioè al polo artico, essendo la costellazione dei Gemelli più a nord di quella dell'Ariete con la quale il sole era allora in congiunzione), a meno che il sole non deviasse dal suo cammino abituale. Se vuoi sapere come ciò avvenga, pensa, raccogliendoti in te stesso che Gerusalemme e il monte del

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purgatorio si trovano sulla terra in modo tale che tutti e due hanno lo stesso orizzonte astronomico e giacciono in diversi emisferi; per questo la strada (cioè la eclittica) che male Fetonte (cfr. Inferno XVII 107-108) seppe percorrere col carro del sole, vedrai come è necessario che corra, rispetto al monte del purgatorio, da un lato (cioè da destra a sinistra) e, rispetto a Gerusalemme, da un altro (cioè da sinistra a destra), se la tua mente bene discerne». « Di certo, maestro mio » dissi « non ho mai compreso così chiaramente alcuna cosa davanti alla quale il mio ingegno appariva insufficiente, come ora comprendo che il cerchio mediano della rotazione celeste, che in astronomia si chiama Equatore, e che rimane sempre tra il sole e l'inverno, (perché quando in un emisfero è inverno, nell'altro è estate e viceversa), per il motivo che tu dici (cioè che il purgatorio è agli antipodi di Gerusalemme), da questo monte si allontana verso settentrione, mentre gli Ebrei (quando abitavano la Palestina) lo vedevano allontanarsi verso il sud. Ma se tu vuoi, volentieri desidererei sapere quanto cammino resta da percorrere, perché il monte si innalza più di quanto possa salire il mio sguardo. » Ed egli: « Questo monte è tale, che la ascesa è sempre ardua per chi l'inizia dal basso; ma quanto più si sale tanto meno essa appare faticosa. Perciò, quando essa ti sembrerà dolce a tal punto, che il salire diventerà per te facile come procedere su una nave seguendo la corrente, allora sarai giunto alla fine di questo cammino: qui soltanto potrai riposarti dell'affanno della salita. Non ti rispondo oltre, e questo so come cosa certa ». "Il monte della virtù è tanto alto e tanto si profonda, che occhio suo né d'altrui non vede la sua sommità, cioè la sua profondità." (Anonimo Fiorentino) L'immagine del monte della virtù è di frequente uso scritturistico e liturgico ed è unita, quasi sempre, al concetto dì ascensione, di rinuncia, dì progressiva conquista della Grazia attraverso la liberazione dal male, perché il passaggio dalla fatica dell'esercizio ascetico alla beatitudine della contemplazione è l'itinerario consueto della mistica cristiana. E non appena egli ebbe finito di parlare, risuonò vicina una voce: « Forse avrai bisogno di ríposarti prima dì giungere lassù! » E’ la voce di Belacqua che, secondo l'Anonimo Fiorentino, "fu uno cittadino di Firenze, artefice, e facea

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cotai colli di liuti e di chitarre, e era il più pigro uomo che fosse mai. E si dice di lui ch'egli venia la mattina a bottega, e ponevasi a sedere, e mai non si levava se non quando egli voleva ire a desinare e a dormire. Ora l'autore fu forte suo dimestico: molto il ríprendea di questa sua nigligenzia". Questa voce interviene dando l'impressione di continuare il tono del discorso di Virgilio, ed è invece, secondo l'acuta analisi del Sapegno, la proiezione che Dante fa di un suo sentimento contrastante con le nobili parole di Virgilio, per "esprimere le esigenze e i bisogni realistici della sua carne fragile", oggettivando il conflitto che si svolge nel suo intimo. "Lo slancio dello spirito deve pur fare in ogni momento i conti con la fragilità della carne", e deve moderare la sua baldanza di fronte alle difficoltà che attendono di essere superate, abbandonandosi più pazientemente e docilmente alla volontà divina. Proprio in questo apparente contrasto, tra il senso di fatica e di ascesi sottolineato dallo spirito del Poeta e il senso di abbandono e di passività di Belacqua (esprimente la staticità del corpo), la poesia autentica del canto: la quale è fondata nella prospettiva di equilibrio e di unità tra la debolezza dell'uomo e la forza della Grazia; equilibrio che sostiene l'umanesimo cristiano di Dante e di tutta la Commedia. Perciò questo episodio non deve essere letto, come molte volte è stato fatto dalla critica, in chiave comica, ma, pur tenendo conto della sua venatura scherzosa, permessa anche dallo spunto autobiografico che riporta ad un ambiente fiorentino fresco e vero, deve essere visto come un serio richiamo ad una maggiore purificazione. Per l'Apollonio "l'orgoglio razionale di Virgilio e Dante, usciti appena dalla scansione eroica che ha misurato, dopo l'ascesa della balza, il cammino delle stelle" a Belacqua "pare, ed è, cosa dappoco; e mentre Dante, orgoglioso ancora, si permette di canzonarlo con aperte parole, e preziose (colui che mostra sé ... ) egli si contenta di staccarlo da sé: va tu su..." Al suono di questa voce entrambi ci volgemmo, e scorgemmo a sinistra un grosso macigno, del quale né io né Virgilio ci eravamo prima accorti. Lo raggiungemmo con fatica; e lì c'era un gruppo di anime che giacevano all'ombra di questa rupe nell'atteggiamento che suole indicare pigrizia. Sono le anime di coloro che, per negligenza e pigrizia, aspettarono a pentirsi alla fine della vita e che devono rimanere nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. E una di loro, che mi sembrava stanca, sedeva abbracciando le ginocchia, e abbandonando il viso tra esse. « O mia dolce guida » dissi « osserva quello che appare più negligente degli altri, come se la pigrizia fosse una sua sorella. » Allora quello si volse verso di noi, e guardò, muovendo solo gli occhi lungo la coscia (senza alzare il viso), e disse: « Sali tu ora, dal momento che sei così bravo! » Riconobbi allora chi era, e l'affanno che rendeva ancora un poco affrettato il mio respiro, non mi impedì di accostarmi a lui; e dopo

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

che gli giunsi accanto, sollevò un poco la testa, dicendo: « Hai capito bene come il sole manda i suoi raggi dalla parte sinistra? » La derisione di Belacqua sottolinea, ironizzandola, l'eccessiva attenzione di Dante alla spiegazione astronomica di Virgilio e contrappone, a quell'impegno di conoscenza, la propria indolente saggezza, che supera quelle questioni perché non se le pone, quasi sentisse la sua pigrizia come una fatalità. Alcuni tuttavia intendono l'ironia di Belacqua rivolta non all'attenzione di Dante, ma alla lentezza della sua capacità di intendere una spiegazione così semplice. Gli atti... pigri e le corte parole muoveranno il riso di Dante. "La prima volta ch'e' rida - nota il Tommaseo - l'altra sarà alle parole di Stazio: l'uno sorriso di sdegno, ma amico, l'altro d'affetto, ma riverente; le due aie di Dante." I suoi atti pigri e le sue parole brevi mossero un poco le mie labbra al sorriso; poi dissi: « Belacqua, io non sono più in ansia per te ormai (sapendoti salvo); ma dimmi: perché te ne stai seduto appunto qui? aspetti forse una guida, oppure sei stato ripreso dalla pigrizia abituale?» E quello; « Fratello, che giova il salire? infatti l'angelo di Dio che custodisce la porta del purgatorio non mi lascerebbe affrontare le pene dell'espiazione. Belacqua non solo ha un atteggiamento passivo, ma sembra giustificare la sua stessa indolenza: o frate, l'andar su che porta? Infatti l'angelo gli impedirebbe di salire anche se egli lo volesse. Questa giustificazione della pigrizia è sembrata ad alcuni discordante dallo spirito di tutta la cantica, la quale è liberazione progressiva dal terrestre e, comunque, sempre tensione verso la beatitudine, mentre a quello spirito si ricollega appieno. Il Pietrobono così nota a proposito: "Se l'angelo portiere non gli permette d'entrare, e Dio agli accidiosi ha negato il conforto e il beneficio della preghiera, e lì nell'antipurgatorio le anime non sono soggette a pene fisiche, che dovrebbe fare Belacqua? Altro non può se non aspettare il tempo stabilito e, per sua vergogna, in un'attitudine che gli ricorda di continuo la colpa. In fondo gli spiriti dei pigri, come tanti altri, patiscono del male che hanno commesso". E' necessario che prima il cielo giri intorno a me fuori di quella porta, per tutto il tempo che mi girò intorno in vita, poiché rimandai fino all'estremo il pentimento, se non mi aiuta prima la preghiera che sgorga da un cuore in grazia di Dio: che vale l'altra (quella del peccatore), che non è esaudita in cielo? » L'apparente scontrosa ironia di Belacqua, unico spiraglio in quella sua compatta staticità, si scioglie dinanzi alla invocazione - pur contenuta - di preghiere: "Belacqua si trasforma, come doveva inevitabilmente avvenire, in un personaggio di gentilezza, perfettamente circoscritto nella luce morale che vela di malinconia, di trepida attesa le anime della seconda cantica"(Romagnoli).

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

E già Virgilio, saliva precedendomi, e dicendomi, « Vieni ormai: vedi che il sole è al meridiano (è tocco meridian dal sole: è cioè mezzogiorno) mentre (nell'emisfero boreale) sulla riva dell'Oceano la notte già si distende fino al Marocco (Morrocco: esso costituiva l'estrema parte occidentale della terra abitata) ».

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Divina commedia: Parafrasi Paradiso

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PARADISO CANTO XVII

Come Fetonte, l’esempio del quale rende ancor oggi i padri restii a indulgere alle richieste dei figli, andò dalla madre Climene, desideroso di accertarsi se era vero ciò che aveva udito contro di se; Fetonte, avendo udito da Epafo (suo coetaneo e figlio di Giove), che egli non era figlio di Apollo, dio del sole; volle sapere dalla madre Climene la verità sulla sua nascita. Allora Apollo, per persuaderlo, gli concesse di guidare per un giorno il carro del sole e questo fatto fu poi causa della morte di Fetonte (cfr. Inferno XVII, 106-108; Ovidio, Metamorfosi I, 747 sgg.). così ero io ansioso di sapere, e questo stato d’animo era avvertito e da Beatrice e dall’anima santa di Cacciaguida, che prima per parlare con me aveva cambiato posto (scendendo ai piedi della croce luminosa ). Anche Dante, come Fetonte, è ansioso di conoscere la spiegazione di quanto ha udito incontro a sé da Farinata (Inferno X, 79-81 ), Brunetto Latini ( Inferno XV, 61-72 ), Vanni Pucci ( Inferno XXIV, 140-151), Oderisi da Gubbio (Purgatorio XI, i39-141). Perciò la mia donna mi disse: “ Esprimi il tuo ardente desiderio, in modo che l’intensità interiore appaia bene evidente esternamente, non già perché la nostra conoscenza aumenti per le tue parole, ma perché ti abitui ad esprimere la sete del tuo desiderio, Così che gli altri ti possano appagare ”. “O cara radice della mia famiglia, che t’innalzi così in alto, che, come la mente dei mortali vede che due angoli ottusi non possono essere contenuti in un triangolo, con la stessa chiarezza discerni le cose che possono essere o non essere prima che esistano in atto contemplando la divina essenza, il punto in cui tutti i tempi sono presenti, mentre seguivo Virgilio su per il monte del purgatorio che purifica le anime e mentre discendevo nel mondo dei dannati, mi furono dette parole preoccupanti riguardo alla mia vita futura, sebbene io mi senta incrollabile ( tetragono: il termine indica ogni figura geometrica dotata di quattro angoli e, in particolare, il cubo), di fronte ai colpi della fortuna (di ventura). Perciò l’animo mio è ansioso di conoscere quale sorte mi viene incontro, perché il colpo previsto sembra

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Divina commedia: Parafrasi Paradiso

avanzare più lentamente”. Su uno sfondo pervaso di passione morale ( l'immagine dell'antica Firenze presentata al mondo come modello dell'invocato rinnovamento) e di note intime del cuore (la dolorosa meditazione sulla sua travagliata sorte), si profila ora la figura stessa del Poeta, la cui storia ha un inizio preciso ( tu lascerai ogni cosa diletta più caramente), con vicende ben determinate (il pianto del distacco: tal di Fiorenza partir ti convene; l'amarezza del mendicare: tu proverai si come sa di sale lo pane altrui; il peso dell'incomprensione e della diffidenza: quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia; la prova cruciale della solitudine: averti fatta parte per te stessso), per sublimarsi poi nella certezza di una missione morale (versi 124-135) e di un futuro di gloria ( verso 98 ). Il contrasto fra la Firenze di un tempo e la Firenze presente, delineato nei due canti precedenti, è "la sottintesa ragione del dramma della sua vita di cittadino e della catastrofe con la quale per allora si era chiusa: l'esilio. E l'esilio, con l'angoscia del distacco, con la povertà, con la compagnia malvagia e scempia, con le umiliazioni, e insieme coi lenimenti che buoni soccorritori vi apportano, è delineato a grandi tratti da un animo sensibilissimo, che soffre di tutte le punture... ma tutte le sostiene e contiene: ben tetragono ai colpi di ventura. Le sostiene per quella dignità di se medesimo della quale è costantemente compreso, per quella speranza che è anche maggiore dell'altra, affatto privata e contingente, del ritorno nella sua città, la speranza dell'immortalità e della gloria, dell'approvazione e lode dei di futuri. Egli, come tutti i grandi, vive, più assai che nel presente, nel futuro..." (Croce). Cosi io dissi a quella luce che prima mi aveva parlato; e manifestai il mio desiderio come aveva voluto Beatrice. Non con oracoli oscuri, nei quali un tempo si invischia, vano le genti pagane prima che fosse ucciso Gesù, l’Agnello di Dio che riscatto i peccati del mondo, ma con parole chiare e con preciso linguaggio mi rispose quel padre amoroso, avvolto nella sua luce e visibile a causa della sua letizia: “Ciò che può essere o non essere, che non oltrepassa la sfera del vostro mondo materiale ( perché nel mondo divino esiste solo l’eterno e il necessario), è tutto presente nel pensiero di Dio: Tuttavia non per questo ciò che è contingente diventa necessario, così come una nave che discende lungo la corrente (può essere osservata, ma) non deriva il suo moto dall’occhio nel quale si specchia. Dalla visione del pensiero eterno di Dio così come dall’organo giunge all’orecchio una dolce armonia, mi viene davanti agli occhi il futuro che ti si prepara. Come Ippolito se ne andò da Atene per le calunnie della spietata e perfida matrigna, così tu dovrai andartene da Firenze. Ippolito, figlio di Teseo, avendo respinto le offerte amorose della matrigna Fedra, fu da questa accusato di aver tentato di sedurla; il padre, maledicendolo, lo scacciò da Atene ( cfr. Ovidio - Metamorfosi XV, 497 sgg.).

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Divina commedia: Parafrasi Paradiso

Questo si desidera e questo già si cerca di attuare, e presto sarà fatto da parte di chi ordisce tali macchinazioni là (nella curia pontificia) dove ogni giorno si fa mercato della religione. Bonifacio VIII da tempo era intervenuto nella vita politica fiorentina, aiutando le mire dei Neri contro i Bianchi, il partito al quale Dante apparteneva. Il Poeta, sia come priore sia come membro dei vari Consigli della città, si era opposto con decisione ai piani del pontefice, che minacciavano la pace del comune. Come rivelano chiaramente le parole di Cacciaguida (l'osservazione è del Chimenz), Dante ha la convinzione di essere stato vittima di una personale animosità del pontefice contro di lui. Tosto verrà fatto: Dante lascio Firenze alla fine dell'ottobre 1301 con 1'abasceria inviata dalla città a Bonifacio VIII per chiedere assicurazioni in occasione della discesa in Italia di Carlo di Valois. Dopo l'entrata del principe francese a Firenze (1novembre 1301), Dante probabilmente non ritornò più nella sua città. La sentenza del 27 gennaio 1302 lo condannava a pagare cinquemila fiorini, a due anni di confino, all'esclusione perpetua da qualunque ufficio. fu confermata il 10 marzo 1302, con un bando che comminava a Dante anche la pena di morte. La colpa, come al solito, sarà attribuita dall’opinione pubblica alla parte vinta, ma la punizione darà testimonianza della verità, la quale assegna giustamente i suoi castighi. La voce pubblica, come accade di solito, attribuirà la colpa delle discordie civili ai vinti, ma la giustizia divina si abbatterà sui veri colpevoli. La profezia, alla quale il Poeta conferisce un tono volutamente indeterminato, allude ai tristi eventi che funestarono Firenze e il partito dei Neri dopo la cacciata dei Bianchi e, in particolare, alla misera fine dei suoi due implacabili nemici, Corso Donati ( cfr. Purgatorio XXIV, 82-90) e Bonifacio VIII (cfr. Purgatorio XX, 86-90). Tu dovrai lasciare ogni cosa più cara; e questo è il colpo doloroso che prima di tutto ti infliggerà l’esilio. Tu proverai quanto sia amaro il pane chiesto agli altri, e quanto sia duro cammino scendere e salire le scale delle case; altrui. E quello che ti riuscirà più gravoso, sarà la compagnia cattiva e sciocca con la quale ti troverai precipitando in questa miseria; essa si volgerà contro di te piena di ingratitudine, dissennata e piena di odi, ma poco dopo, essa, non tu, ne avrà le tempie rosse di sangue. I fuorusciti Bianchi e Ghibellini, unitisi fra di loro, tentarono a più riprese di ritornare a Firenze con le armi. Nei documenti di un convegno preparatorio, quello di San Godenzo nel Mugello (8 giugno 1302), compare anche il nome di Dante. Subito dopo, però, il Poeta si allontanò dai compagni di esilio e non prese parte al tentativo che si concluse con la sanguinosa sconfitta della Lastra (20 luglio 1304), alla quale, probabilmente, egli intende riferirsi con l'espressione n'avrà rossa la tempia. Non conosciamo con esattezza i motivi che portarono alla rottura fra Dante e gli altri fuorusciti, sui quali il Poeta esprime qui un giudizio particolarmente duro, né sappiamo quali colpe essi gli imputassero per odiarlo al pari dei Neri (cfr. Inferno XV, 70-72). Il Del

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Divina commedia: Parafrasi Paradiso

Lungo ha avanzato questa ipotesi: "lo sconforto del suo ritrarsi, la sfiducia nell'opera loro, il dissenso circa le opportunità dell'operare o dell'attendere, furono interpretati come defezione, e quasi come tradimento, dalla compagnia sciagurata". Il suo modo di agire costituirà la prova della sua folle sconsideratezza, così che sarà motivo di onore per te l’aver fatto partito per te stesso. L'esilio è certamente il momento centrale e decisivo della vita di Dante: la sua personalità raggiunge la piena formazione, il suo spirito si apre ad una più ampia visione dei problemi umani, la sua forza morale si tempra nelle difficoltà e nel dolore dell'esule. L'argomento fondamentale del presente colloquio con Cacciaguida è l'esilio. Per tale motivo il XVII "fra i cento del poema si può chiamare il canto di Dante. E' il canto dell'esilio, della dignità, dell'onestà imperterrita: ed è la chiave del tono artistico che assume l'etica della Commedia. La quale è, prima di tutto, il rifugio di un'anima esulcerata in un mondo di giustizia, che ristabilisce l'equilibrio rotto in terra fra virtù e premio, vizio e castigo. Questo duro atteggiamento di sacerdote della giustizia è solenne e vibrato più che altrove in questo canto. I primi ventiquattro versi (46-69) della risposta di Cacciaguida, quelle rime risolute e gagliarde, quei periodi monumentalmente isolati, quelle frasi ora quasi sillabate (49-50, 64) ora tempestose (51, 54) ora tenacemente ribadite (69) ora rallentate dal rimpianto e dall'amarezza (55-56, 58-60), quella frenata irruenza, lo scandiscono maestosamente. Non lasciano l'impressione d'una vicenda individuale, ma d'un dramma della storia che si ripercuote nell'alto" (Momigliano). Infatti per il Poeta, in questo momento, la narrazione delle vicende del suo esilio non è uno sfogo personale, una pagina autobiografica fine a se stessa: non si tratta, cioè, solo del suo caso personale. Si tratta di sapere che egli con l'esilio incomincerà la sua missione nel mondo. Cacciaguida non si soffermerebbe sulle sofferenze transitorie della vita dell'esule, se queste non costituissero una prova e un presagio. La storia del Poeta è congiunta, come ogni cosa, ogni personaggio della Commedia, a una visione escatologica del mondo. Questa caratteristica costante della narrazione dantesca spiega la compostezza e fermezza di linee con cui il Poeta, attraverso un continuo ricorso alla metafora e alle figurazioni visive, si rivolge al suo dramma umano, chiarificando la voce delle passioni terrene nell'orbita del senso del divino: " Il ritmo delle terzine si fa... staccato e forte, i netti contorni delle cose ci trasportano in una atmosfera... tesa e chiara. È pur sempre la solennità paradisiaca, ma provveduta di un timbro più distinto, proprio quando l'argomento si volge a delineare un umano destino: ma il destino umano di Dante è pronunciato da una voce superna e in quel destino di uomo si compendia la sacra missione di un rinnovamento del mondo" ( Malagoli ) . Il tuo primo rifugio, la tua prima dimora ospitale ti sarà offerta dalla liberalità del grande lombardo che ha per suo stemma una scala sormontata dall’aquila imperiale; Il gran Lombardo è, secondo la maggior parte dei commentatori antichi e moderni, Bartolomeo della Scala, signore di Verona, morto nel marzo 1304 E' perciò da escludere l'ipotesi di chi ritiene trattarsi del padre Alberto, morto prima ancora dell'esilio di Dante o del fratello e successore, Alboino, che il Poeta giudica severamente in un passo del Convivio (IV, XVI, 6). Verona, quindi, fu la prima tappa dell'esilio dell'Alighieri, subito dopo la sua separazione dalla compagnia malvagia e scempia. Il soggiorno, tuttavia, fu molto breve, tanto che di esso non è rimasta alcuna notizia, mentre ben più lungo e importante fu quello avvenuto

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durante la signoria di Cangrande. 'N su la scala porta il santo uccello: lo stemma degli Scaligeri e una scala in cima alla quale compare l'aquila, l'uccello santo perché insegna dell'lmpero voluto da Dio. così benevola sarà la considerazione che nutrirà nei tuoi riguardi, che, nei rapporti tra voi due, rispetto all’esaudire un desiderio e all’esprimerlo, sarà primo (non colui che chiede ma) colui che esaudisce, il quale, normalmente, agisce dopo che il primo ha espresso il desiderio. Con Bartolomeo vedrai Cangrande, colui che, al momento della nascita, ricevette un così forte influsso da questo cielo, che le sue azioni diventeranno memorabili. Cangrande, fratello minore di Bartolomeo, nacque il 9 marzo 1291 e dopo essere stato associato al governo da Alboino nel 1311, alla scomparsa di questo (1312) divenne signore assoluto di Verona fino al 1329, anno della sua morte. Egli ricevette con particolare intensità l'influsso del pianeta Marte, che dispone a forti imprese in campo militare. Le genti non si sono ancora accorte di lui per la sua giovane età, perché i cieli ruotano intorno a lui solo da nove anni (Cangrande, infatti, nacque nel 1291 e Dante immagina di compiere il suo viaggio nell’oltretomba nel 1300); ma prima che il papa guascone Clemente V inganni l’imperatore Arrigo VII, appariranno i primi segni della sua virtù nel disprezzo del denaro e della fatica. Il pontefice Clemente V, originario della Guascogna (cfr. Inferno XIX, 83), nel 1310 invitò Arrigo VII in Italia per ristabilirvi l'autorità imperiale. In un secondo tempo divenne fautore degli interessi della casa francese degli Angiò, che mirava ad estendere il suo dominio in Italia, e ostacolò l'imperatore nel suo tentativo. Le sue splendide imprese saranno allora così conosciute, che i suoi stessi nemici non le potranno tacere. Le sue magnificenze conosciute saranno: tutti i cronisti e gli scrittori del tempo sono concordi nell'esaltare le doti militari e politiche di Cangrande della Scala, nonché la sua liberalità (Villani Cronaca X, 140; Petrarca - Rerum memorandarum liber 11, 83-84; Boccaccio Decamerone I, VII, 5 ) . Dante, che fu suo ospite dal 1315 al 1320 circa, vide in lui un possibile restauratore dell'autorità ghibellina, e quindi imperiale, in Italia, lodandolo anche nella Epistola XIII, 2-3. Affidati a lui e ai suoi benefici; per opera sua cambierà condizione molta gente, poiché i ricchi diventeranno poveri e i poveri diventeranno ricchi. Porterai scolpite nella tua memoria queste cose che lo riguardano, ma non le dirai ”; e rivelò fatti incredibili persino per coloro che li vedranno accadere. Dopo che gli amori, gli odi, i dolori dell'esilio si sono risolti e assommati in quel - fatta parte per te stesso, ("dov'è, commenta il Grabher - l'orgoglio e il dramma di una solitudine a cui giungono i sublimi cercatori di

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Divina commedia: Parafrasi Paradiso

quelle vette inaccessibili che danno si l'ebbrezza di sentirsi al di sopra di tutti, ma anche la sdegnata tristezza di vedere che nessuno ti segua e ti raggiunga" ), l'animo del Poeta si riposa sereno nell'oasi dell'ospitalità di signori generosi e "cortesi" che sotto l'insegna del santo uccello fanno sperare a Dante qualcosa di più di un aiuto per le sue necessità materiali, perché negli Scaligeri, e in modo particolare in Cangrande, il Poeta confidava per la realizzazione di uno dei suoi più alti ideali: la restaurazione dell'Impero. "Questo di Dante a Cangrande è infatti un elogio che trascende non dico ogni forma di interessata adulazione, ma perfino quasi la personale riconoscenza che pure il Poeta ebbe e che certo dà lo spunto alla accesa esaltazione. Se infatti nell'elogio del gran Lombardo, che pure vedi come ideale incarnazione di cortesia, v'è un cenno al personale riguardo avuto verso il Poeta, in Cangrande il Poeta sublima quasi la virtù in se stessa e per se stessa, idealizzando nella fortezza, nella liberalità, nella giustizia di lui, in tutte le sue magnificenze, le alte virtù di un perfetto reggitore, ben degno del sacrosanto segno che egli porta 'n su la scala." (Grabber). Prima di proclamare il valore della sua poesia e la missione della sua arte, Dante ha così tratteggiato gli ideali che essa si propone di realizzare in terra: la città ideale (Firenze), il cittadino ideale (Cacciaguida), il sovrano ideale (Cangrande). E al di sopra di tutto questo la voce, il grido della sua poesia. Poi aggiunse: “ Figlio, queste sono le spiegazioni di quello che ti fu detto (nell’inferno e nel purgatorio riguardo al tuo esilio ); ecco le insidie che si preparano (per te) nello spazio di pochi anni ( dietro a pochi giri: dietro a pochi giri di sole). Non voglio però che tu porti odio ai tuoi concittadini, poiché la tua vita (per mezzo della fama) si prolungherà nel tempo ben oltre il momento nel quale essi riceveranno la punizione della loro perfidia ”. Dopo che, tacendo, l’anima santa di Cacciaguida si mostrò libera dal compito di rispondermi (letteralmente: di mettere la trama in quella tela di Cui le avevo presentato l’ordito con le mie domande), io cominciai, come colui che, nel dubbio, desidera il consiglio della persona che è capace di distinguere la verità e che agisce rettamente e ha una caritatevole disposizione: “ Ben vedo, padre mio, come il tempo incalza contro di me, per infliggermi un colpo di tale gravità, che riuscirà più pesante a chi vi si abbandonerà senza reagire; per questo motivo è bene che io sia previdente, in modo che, se mi è tolta la patria, io non debba perdere a causa dei miei versi la possibilità di rifugiarmi in altri luoghi. Scendendo nell’inferno, il mondo del dolore eterno, e salendo sul monte del purgatorio, dalla cui bella cima gli occhi di Beatrice mi hanno sollevato (alle sfere celesti ) , e poi attraverso il paradiso di cielo in cielo, ho appreso cose che, se le riferisco avranno per molti un sapore fortemente aspro; e se ( tacendo per paura ) mi mostro timido amico della verità, temo di perdere fama tra i posteri (coloro che questo tempo chiameranno antico). ”

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La luce nella quale splendeva Cacciaguida, la gemma che avevo trovato in quel cielo, dapprima divenne più fulgida, simile a una lamina d’oro investita dal raggio del sole, poi rispose: “Colui che ha la coscienza macchiata o dalle proprie colpe o da quelle di parenti e amici sentirà certamente la durezza delle tue parole. Ma nondimeno, messa da parte ogni menzogna, rivela tutto ciò che hai visto; e si dolga pure delle tue parole chi è in colpa ( lascia pur grattar dov’è la rogna: lascia pure che si gratti chi è affetto da rogna), Perché se le tue parole riusciranno sgradite ad un primo assaggio, lasceranno poi un nutrimento vitale, non appena saranno state digerite . Queste tue affermazioni faranno come il vento, che percuote più violentemente le cime più alte, e questo ( la proclamazione della verità fatta senza paura ) non costituisce piccolo motivo d’onore; Per tale ragione in questi cieli, nel purgatorio e nell’inferno, ti sono stati mostrati solo spiriti di persone famose, perché l’animo di chi ascolta non si appaga né presta fede ad esempi che si fondano su cose o persone sconosciute e non sufficientemente evidenti, né su altre dimostrazioni di scarsa apparenza ”. Nell'ultima parte del canto il dialogo fra Dante e Cacciaguida diventa, palesemente, un protratto monologo che il Poeta recita a sé stesso. Un doloroso contrasto tante volte avvertito nelle sue peregrinazioni d'esilio, frena in lui l'ardore messianico che Cacciaguida vuole comunicargli. L'esule ha bisogno d'aiuto, deve dipendere dagli altri, specialmente dai potenti, proprio quelli contro i quali il suo grido si è levato con più violenza: la sua coscienza dovrà, dunque, venire a patti con il vero; tuttavia solo la verità assicura all'uomo la fama tra coloro che questo tempo chiameranno antico. Brevi, violente metafore scoprono questa tensione interiore che si è venuta accumulando nel mondo sanza fine amaro e nel monte dal bel cacume: il tempo sprona verso il Poeta per colpirlo con tagliente ferro (versi 106-107) e solo chi è tetragono non s'abbandona, ma può "armarsi" di provedenza. Dopo la dichiarazione dei versi 112-120, che ha il sapore di una rabbiosa confessione, quasi il Poeta si sentisse prigioniero delle meschine necessità della vita, Cacciaguida non spiega, non giustifica, impone: tutta tua vision fa manifesta. Nei versi 124-142 "lo stile, dapprima così tenero ed affettuoso quando si descrivono i dolori dell'esilio,... prende una... magnificenza epica ispirata dalla grandezza dell'animo, è il trionfo della dignità umana sopra quei bassi calcoli d'interessi perituri che costituiscono ciò che dicasi la prudenza; il trionfo della poesia sulla parte prosaica dell'anima" (De Sanctis). La crudezza plebea del verso 129 (e lascia par grattar dov'è la rogna) diventa allora "espressione insostituibile di offeso orgoglio morale e misura delle più pure idealità" (Grabher), violenta affermazione della propria libertà e della propria ansia di rigenerazione morale. Dante cosi proclama i due principii fondamentali della Commedia e della vera arte: profondamente radicata nel vero, e di esso solenne banditrice, la poesia, senza mai scendere a puro valore pratico, deve offrire vital nutrimento agli uomini bisognosi di verità oltre

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che di bellezza e questo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote: "Le cime, il vento: balenante suggestione di paesaggio alpestre e di forza di natura che ingigantisce una statura morale, richiamando ben tetragono; sì che il canto è come racchiuso entro queste sue fondamentali immagini di potenza spirituale" (Grabher). Ma per essere vital nutrimento, la poesia deve poggiare sul concreto (versi 136-142), deve far sorgere le creazioni della fantasia dalla più viva realtà. "Senti qui, conclude il critico - la sodezza di un'arte, che, altamente ideale nello spirito, mai si perde nel nebuloso e nell'astratto, rendendo veramente " salde" anche le più labili "ombre"". L'esule, superati i suoi risentimenti, trascesi i suoi orgogli, i suoi amori e le sue angosce nella certezza di una missione universale affidata alla sua poesia, proclama il suo atto di fede nei valori della vita e dello spirito.

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Dante Alighieri

DANTE: Dante autore e personaggio

Per poter fare un qualsiasi discorso interpretativo sulla Divina Commedia, è indispensabile anzitutto chiarire alcune questioni. La Prima è questa: Dante va, di volta in volta, distinto in tre ruoli specifici: quello dell'autore, quello del narratore e quello del personaggio. Come "autore" è colui che scrive l'opera; come "narratore" è colui che racconta all'autore gli eventi che costituIscono la trama dell'opera; come "personaggio" è il protagonista degli eventi stessi. Naturalmente la sequenza autore-narratore-Personaggio, valida per il lettore che si avvicina alla Divina Commedia e scopre nell'autore il narratore e nel narratore il personaggio, si ribalta totalmente per Dante, il quale, da "protagonista" di una "visione", si fa prima "narratore" della stessa" e, quindi, "autore" di un'opera che quella visione racconta. Un esempio: il personaggio Dante, a trentacinque anni di età, si smarrì in una selva oscura; il narratore Dante confessa l'episodio; l'autore versifica: "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura". Come si vede chiaramente l' "autore" traduce in versi il racconto del "narratore" che, ovviamente,usa il verbo al passato ("mi ritrovai") per distinguersi dal "personaggio". A sua volta l' "autore", quasi a voler sottolineare il distacco da entrambi (cioè dal narratore e dal personaggio) ed a voler affermare il suo diritto ad esprimere giudizi sul significato morale ed anagogico della vicenda narrata, dice "di nostra vita" col chiaro intento di coinvolgere, fin dalle prime battute, nell'esperienza del personaggio l'intera umanità. Però se i ruoli del personaggio, del narratore e dell'autore vanno distinti, non si deve tuttavia pretendere che essi non si confondano o sovrappongano, trattandosi pur sempre della stessa persona, cioè di Dante. Per esempio, nella terzina successiva, autore e narratore si confondono ("Ahi quanto a dir qual era è cosa dura"), mentre subito dopo autore e personaggio si distinguono l'uno dall'altro alternandosi: "ma per trattar del ben (qui c'è l'autore) ch'io vi trovai (qui c'è il personaggio), dirò de l'altre cose (autore) ch' i' v'ho scorte (personaggio). Io non so ben ridir (autore) com' i' v'entrai (personaggio)". La seconda questione da chiarire è quella dei "sensi" da attribuire alla scrittura per interpretare compiutamente l'opera. Come si sa, fin dai primi secoli del Medioevo, era invalso l'uso di interpretare i Sacri testi (Antico e Nuovo testamento) risalendo dal senso letterale a quello allegorico, a quello morale ed a quello anagogico. Verso la fine del Medioevo tale metodo interpretativo fu esteso anche alle opere letterarie e, in particolare, a quelle poetiche. Lo dice lo stesso Dante nel "Convivio", chiarendo anche il valore e le

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caratteristiche dei quattro sensi: quello "letterale" si ricava dalle parole pure e semplici usate dall'autore per narrare un episodio (Dante, perdutosi in una selva oscura, ai primi raggi del sole scopre un colle che potrebbe costituite per lui la strada della salvezza, ma è impedito nell'ascesa da tre fiere che lo risospingono in basso); quello "allegorico" bisogna intuirlo dal letterale (ad esempio, la selva oscura rappresenta il peccato, il Sole la Grazia Divina illuminante che indica la via della redenzione, il colle indica la via del riscatto dal peccato, le tre fiere - lonza, leone e lupa - rispettivamente i tre vizi capitali che ostacolano il cammino dell'uomo peccatore verso il bene, e cioè la lussuria, la superbia e l'avarizia); quello "morale" si ricava poi dal senso allegorico: nell'episodio riferito sarebbe che l'uomo caduto nel peccato mortale non può, con la sola forza della volontà, riscattarsi, anche se la Grazia Divina gli indica la strada, ma ha bisogno di ricorrere alla Ragione umana (Virgilio),la quale tuttavia, se vale a far superare l'ostacolo rappresentato dai vizi capitali, nemmeno potrebbe condurre alla salvezza eterna, cioè al Paradiso,senza la Fede (Beatrice). Più ardua è la definizione del senso "anagogico", per quanto riguarda l'interpretazione della Divina Commedia, perché lo stesso Dante, sempre nel "Convivio", sembra riservarlo alle sole Scritture. Infatti egli porta l'esempio del popolo d'Israele che, guidato da Mosè, si libera dalla schiavitù egiziana attraversando il Mar Rosso, e interpreta l'episodio narrato nella Bibbia come simbolico del popolo dei credenti che, guidato dal Cristo, si libera dalla schiavitù del paganesimo. C'è però da dire che nell' Epistola a Cangrande il Poeta riconosce che comunque il senso anagogico è possibile riscontrarlo in tutte le opere che trattano di cose riguardanti l'eternità, il mondo dell' aldilà, e quindi anche nella "Commedia". Ma per poter estendere il senso "anagogico" alla interpretazione della Divina Commedia, bisogna far ricorso alla proposta dell'Auerbach. Questi, riferendosi al metodo dell'esegesi biblica medievale, afferma che i primi teologi cattolici consideravano i fatti della vita terrena narrati nel Vecchio Testamento come "figure" di una realtà più solida ed eterna, quella rivelata nel Nuovo testamento. Con questo procedimento un avvenimento o un personaggio storico vengono proiettati verso l'eternità, là dove si realizza il disegno divino, e perciò sono "figura" reale di una realtà ancor più vera. Insomma, come afferma il Pasquazi, l'interpretazione figurale proposta dall' Auerbach "vede la realtà terrena e la realtà eterna come due momenti di cui il primo significa anche l'altro, mentre l'altro comprende e adempie il primo". Infatti l'Auerbach così spiega il significato anagogico della Commedia: essa "è la storia dell'evoluzione e della salvezza d'un uomo singolo, di Dante, e come tale una figurazione della salvezza dell'umanità". Anche Umberto Bosco concorda con la tesi dell' Auerbach quando afferma che la legge generale della Commedia consiste nell' "assunzione del personale a valore universale". Tuttavia, nel leggere e nello studiare la Divina Commedia, non dobbiamo mai dimenticarci che essa è essenzialmente un'opera di altissima poesia. Tutto il discorso fatto prima ci aiuta a penetrare nel significato morale dell'opera, in un certo senso ad assecondare la volontà dello stesso Dante che, appunto, nella Commedia intendeva dare un contributo al riscatto dell'umanità dal peccato. Ma, al di là delle intenzioni, il poeta ha prevalso sul moralista. Come afferma giustamente il De Sanctis, "Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva". Infatti la Commedia appare al critico Irpino "il

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Medio Evo realizzato, come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei". Questo giudizio basta da solo a spiegarci come sia possibile, in un poema che si propone di esaltare la beatitudine eterna e di indicare la strada del riscatto e della purificazione dal peccato, dalla carne, dalla storia, dalla vita terrena, trovarvi tanto peccato, tanta carne, tanta storia descritti con un linguaggio crudo e finanche "ripugnante" (come osservò il Goethe). A tal proposito l'Auerbach cita un verso, apparentemente volgare, che compare in uno dei passi più "solenni" del "Paradiso", e cioè: "e lascia pur grattar dov'è la rogna", ma il critico ha precedentemente precisato che "Dante non conosce limiti nella rappresentazione esatta e schietta del quotidiano, del grottesco e del repellente; cose che in sé non potevano venir considerate "sublimi" nel senso antico, lo diventano con lui per la prima volta". Proprio da ciò l'Auerbach nota l'enorme distanza che intercorre tra Virgilio (classico) e Dante (moderno). E, rifacendosi ad un giudizio di Benvenuto da Imola, afferma che la Divina Commedia contiene ogni sorta di poesia ed ogni sorta di scienza, ed anche se l'autore l'ha definita "Commedia" per lo stile umile e la lingua popolare, essa tuttavia appartiene al genere di poesia "sublime e grandioso".

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: Biografia

Autore Prof. Giuseppe Bonghi

Di antica nobiltà sono i suoi antenati, discendenti addirittura dai Romani. Cacciaguida, suo trisavolo, a Firenze vive con le famiglie dei fratelli Moronto ed Eliseo, nella zona del Mercato Vecchio; armato cavaliere dall'imperatore Corrado III, mentre era al suo seguito durante la seconda Crociata, muore in Terrasanta. La moglie, una Alighiera forse di Ferrara, gli dà dei figli, uno dei quali si chiama come lei, Alighiero I, da cui derivano i rami dei Bellincione e dei Bello. Al primo appartiene Durante, chiamato Dante, figlio di Alighiero II e nipote di Bellincione. Il padre di Dante vivacchia facendo il cambiavalute e forse anche l'usuraio, a giudicare da alcune voci maligne. Abita nel Sesto di Porta San Pietro, è di tradizione guelfa, ma non si getta certo nel vivo della lotte faziose; è figura scialba che il poeta passa sotto silenzio. Dante nasce in una casa posta di fronte alla Torre della Castagna, verso la fine del mese di maggio del 1265, sotto la costellazione dei Gemelli da Alighiero Alighieri di Bellincione e da donna Bella (Gabriella) di casato ignoto e battezzato in San Giovanni. Così racconta Boccaccio: Del quale, come che alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale più per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo; come che ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, e oggi, per lo effetto seguìto, sia manifestissimo a tutti. Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire unofigliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, perciò che ottimamente, sì come si vedrà procedendo, seguì al nome l'effetto. Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata;

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per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno. La madre muore ancor giovane, lasciando il figlioletto in tenera età; subito dopo il padre Alighiero si risposa con Lapa di Chiarissimo Cialuffi che gli dà due figli; Francesco e Tana (Gaetana). Prima del 1283 Anche il padre muore, ma già dal 1277 (Dante ha 12 anni) aveva "provveduto al futuro coniugale del figlio, stipulando l'instrumentum dotis, una specie di fidanzamento ufficiale garantito con atto notarile, col quale Dante veniva promesso in matrimonio a Gemma Donati". Poco si sa dell'infanzia del poeta; studia presso i francescani, poi ascolta le lezioni di retorica di Brunetto Latini e segue le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina all'Università di Bologna, fra l'estate del 1286 e la primavera del 1287. Nel 1274 (all'età di nove anni, come afferma nella Vita nova) conosce Beatrice, figlia di Folco Portinari, che andrà sposa a Simone Bardi, e la rivede nove anni dopo, nel 1283: è l'avvenimento amoroso decisivo della sua vita, che durerà anche dopo la morte della donna avvenuta nel 1290. Giovanissimo, da vero autodidatta comincia a dire parole per rima, assorbendo la lezione dei numerosi poeti fiorentini, di scuola guittoniana e stilnovista. La sua curiosità e il desiderio di sperimentare tecniche diverse, lo inducono a tentare anche il genere giocoso e forme poetiche di vario genere, in componimenti raccolti nelle Rime. I suoi primi tentativi sono opere anonime come il Fiore, che ripropone in 232 sonetti l'allegoria del Roman de la Rose (dei francesi Guillaume de Lorris e Jean de Meung), completato intorno al 1280 e il Detto d'Amore, poemetto allegorico che segna il trapasso ai moduli guinizelliani. Questi due componimenti, comunque, solo da Gianfranco Contini e pochi altri, con argomenti puramente indiziari, sono attribuiti a Dante: i dubbi restano molti. Non mancano le esperienze tipicamente giovanili, di prammatica per un nobile rampollo di un comune del Duecento; l'1 giugno del 1289 combatte nella battaglia di Campaldino‚ contro Arezzo e i ghibellini toscani, mentre nell'agosto dello stesso anno partecipa all'assedio del castello di Caprona, in Valdarno, tenuto dai ghibellini. Ma la guerra non fa per lui; meglio la letteratura e anche la politica, intesa come dovere e contributo al pubblico bene. L'amore, come abbiamo detto, si impersona nell'austera e angelica Beatrice, moglie di Simone dei Bardi e figlia di un ricchissimo borghese che ha donato alla città l'ospedale degli Innocenti, Folco Portinari. L'ha conosciuta a nove anni, la rivede e ne riceve il saluto a diciotto; l'ama in silenzio, pago di vederla, di ricevere la salute dello spirito dal suo saluto per via, di lodarla nelle sue liriche quando lei, forse per le voci che circolano sul suo conto, gli toglie anche questo esile filo di comunicazione. Dante, infatti, per evitare i pettegolezzi, finge di corteggiare altre donne. La sua morte ha il potere di prostrare Dante sino all'abbrutimento, da cui esce con l'aiuto di amici, conoscenti, forse anche di fanciulle pietose, sogni premonitori; decide, allora, di scrivere per Beatrice qualcosa di straordinario e inedito, qualcosa che nessun altro prima d'allora, mai aveva pensato in onore di una donna. E intanto pubblica nel 1292-93 un prosimetro (insieme di poesie e prose), intitolato Vita nuova in cui ricostruisce le fasi e la storia del suo amore per la fanciulla-angelo che gli sembra essere scesa in terra a miracol mostrare, tanto

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intensa è la bellezza e purezza della sua immagine. Beatrice, guida di Dante nel Paradiso e sollecitata dal Cielo a trarlo dalla vita di traviamento in cui s'è lasciato cadere dopo la sua morte, sembrerebbe l'obiettivo della Commedia; ma il poema, forse, al di là delle stesse aspettative del poeta, diventerà qualcosa di più che una semplice apologia della donna amata. Abbandonati i divertimenti giovanili, Dante si dedica agli studi di filosofia (Boezio, Cicerone, Aristotele, Platone, san Tommaso d'Aquino) e di teologia presso i Domenicani di Santa Maria Novella e presso i Francescani di Santa Croce; fra l'estate del 1286 e l'agosto del 1287 lo troviamo a Bologna, a seguire le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina. Intanto, probabilmente nel 1285, comunque prima del 1290, Dante si sposa con Gemma di Manetto Donati parente del fazioso Corso; dalla moglie, sulla quale non scriverà mai una riga, ha tre figli: Iacopo, Pietro e Antonia (forse la suor Beatrice del Convento di Santo Stefano degli Olivi a Ravenna) e probabilmente un Giovanni che premuore al padre, ma risulta da un atto notarile del 1308. Quale parte abbia avuto Gemma nella vita di Dante, non sappiamo. "Fu la madre de' suoi figli e la reggitrice della casa. E paga di tanto ufizio, ella, secondo ogni probabilità, più oltre non ambì. Il marito era poeta, e cercava la vita dove le consuetudini del tempo gliela facevano trovare. Perciò il matrimonio non gli impedì di continuare a cantare la donna che aveva fino allora servito... (Umberto Cosmo, Vita di Dante, La nuova Italia, Firenze 1965, III edizione). A trent'anni, nel 1295, Dante può buttarsi in politica, dopo che sono stati parzialmente rettificati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella che, in origine (1293), impedivano ai nobili di accedere alle cariche pubbliche. Ora un nobile che sia iscritto alla matricola di un'Arte, può essere eletto nel Consigli del popolo e al Priorato. Dante diviene membro dell'Arte dei Medici e Speziali, la meno lontana dalle sue attitudini di intellettuale, poeta e scienziato. Non gli è difficile venire eletto; a Firenze tutti lo conoscono come uomo accorto, colto, equilibrato. Nel semestre novembre 1295-aprile 1296 è membro del Consiglio speciale del Capitano del Popolo: 36 cittadini, sei per sestiere (i quartieri di Firenze): Dante era stato eletto con altri cinque compagni per il "sesto" di Por San Pietro; nel dicembre 1296 viene invitato, come uno de' Savi, nel Consiglio delle Capitudini a dire il suo parere sulla procedura, che si sarebbe dovuta seguire per la nomina dei nuovi Priori. "Nel Consiglio dei Capitani - quale ne fosse la ragione - non profferì verbo; in quello delle Capitudini confortò della sua autorità il parere di un altro Savio: Dantes Alaghieri consuluit. (Cosmo, cit.). Nel maggio 1296 è nel Consiglio dei Cento, che si occupa dell'amministrazione del pubblico denaro, quattro anni, il 7 maggio, dopo viene inviato come ambasciatore a san Gimignano per rafforzare la lega Guelfa tra i comuni della Toscana e serviva a Firenze per esercitare la sua egemonia. Il 15 giugno, come continuatore della politica di resistenza del Comune contro le ingerenze e le sopraffazioni del Pontefice, proprio mentre si trovava in città il Cardinale d'Acquasparta mandatovi in apparenza come paciere fra le opposte fazioni, è chiamato a far parte della Signoria: è il momento della massima considerazione goduta il patria. Ma ovunque volge lo sguardo vede violenza e cupidigia che generano scontri violenti di fazioni, la voglia del Papa Bonifacio VIII di piegare Firenze alla sua egemonia politica. Il 1300 è un anno cruciale per la città. A Calendimaggio nella piazza di Santa Trinità scoppia una zuffa tra giovani esponenti della fazione dei Guelfi neri (capeggiata da Corso Donati, violento e fazioso, e dei

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Guelfi bianchi (guidata da Vieri dei Cerchi, commercianti inurbatisi da poco). La tensione tra e Bonifacio VIII è altissima e negli ultimi tempi si era acuita per la condanna di tre cittadini fiorentini, Guelfi Neri e banchieri della Corte di Roma, per macchinazioni contro la libertà di Firenze e della Toscana. Il Papa si sente colpito dalla condanna ed esige che vengano annullati processo e condanna: ma la Signoria resiste imperterrita, firma la sentenza di condanna dei cospiratori, impedisce con una provvisione dei Consigli ogni intromissione pontificia nell'esercizio della giurisdizione cittadina e frena le facoltà stesse dell'inquisitore romano. Il 15 giugno entra in carica la nuova Signoria e il Notaio della Camera del Comuni presenta nelle mani dei Nuovi Priori la condanna inflitta ai tre cittadini fiorentini residenti presso la corte di Roma. Comincia così il primo giorno del Priorato di Dante, eletto Priore per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300, proprio quando più insistenti si fanno i tentativi di papa Bonifacio VIII di mettere le mani su Firenze, attraverso gli intrallazzi del suo legato, cardinal Matteo d'Acquasparta, apparentemente incaricato di pacificare le fazioni in lotta. Il 23 giugno una nuova zuffa, ai danni dei consoli delle Arti, che, come era usanza, andavano in processione a San Giovanni, insanguina le vie della città. I priori decidono, pare proprio per suggerimento di Dante, di espellere i capi più sediziosi delle due parti. In esilio andrà pure Guido Cavalcanti, il migliore amico di Dante. Finito il suo priorato, Dante non rinuncia a dar battaglia a Bonifacio VIII, mandando a monte alcune sue iniziative egemoniche. Nel 1302, per evitare una rottura con il pontefice, Firenze invia alla Corte romana tre ambasciatori: Dante, Maso Minerbetti che aveva buone conoscenze presso la Curia romana, e Guido Ubaldini degli Aldobrandi detto il Corazza, uomo 'guelfissimo', che era stato Gonfaloniere della Signoria, principale autore del processo contro i tre fiorentini di cui abbiamo detto. L'ambasceria si presentava in atto di sottomissione, confidando in un atto di resipiscenza del Papa, di "quel peccatore di grande animo. In Laterano il Pontefice accolse l'ambasceria: "così Dante si trovò finalmente di fronte all'uomo che in nome del Dio ond'era sacerdote si proclamava padrone del mondo: un uomo dal corpo disfatto, cui non rimanevano più che lingua e occhi; l'impressione che da quel colloquio il poeta ritrasse di quell'uomo, ironico, sarcastico, satanicamente tentatore, è rimasta in alcuni atteggiamenti di una scena famosa del canto XXVII dell'Inferno." (Cosmo, cit.). Il Papa chiede agli ambasciatori di umiliarsi e sottomettersi a lui e afferma che le sue azioni erano dirette solo al bene della città; rimanda indietro gli altri due e trattiene Dante. La situazione è grave; sta scendendo in Italia, con cinquecento cavalieri, il fratello del re di Francia, Carlo di Valois, che entra in Firenze il 1 novembre, con il pretesto di pacificarla. In realtà i Neri approfittano del cambiamento di regime, intrallazzando con Carlo. Corso Donati e i fuorusciti fanno ritorno, vendicandosi crudelmente sui beni e sui familiari, oltre che sulle persone dei nemici. La casa di Dante viene saccheggiata, mentre il nuovo podestà, favorevole ormai ai Neri, bandisce i più importanti esponenti dei Bianchi dalla città. Dante, che si è sottratto in tutta fretta dall'assillante protezione di Bonifacio VIII, viene raggiunto a Siena dalla condanna all'esilio per due anni, il 27 gennaio 1302. È stato accusato di baratteria, con l'ammenda di 5.000 fiorini. La pena viene trasformato in condanna al rogo il 1° marzo successivo, poiché il poeta non si è presentato a discolparsi, per timore della cattura.

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L'esule Uno dei massimi dantisti italiani, Michele Barbi (Dante, Vita opere e fortuna, Firenze, Sansoni, 1952), nota che l'esilio fa di Dante un uomo sopra le parti, lo spoglia del suo municipalismo, per renderlo cittadino d'Italia. Il Foscolo nell'Ottocento, sposa la tesi di un ghibellinismo del poeta che, allontanato dalla patria, si accosta al partito avverso e rivaluta il ruolo dell'imperatore. In effetti l'esilio muta radicalmente la vita del poeta; l'inizio è durissimo, come egli stesso confessa nel Canto XVII del Paradiso. Si tratta di lasciare le persone care, i luoghi sicuri, i beni che danno sostentamento. Si trova in balìa della sorte e con la pessima etichetta di bandito dalla patria, come funzionario corrotto e ladro del pubblico denaro (in questo consiste l'accusa di baratteria con cui a Firenze i Neri giustificano il bando del poeta). Nei primi tempi egli si unisce ai fuorusciti bianchi per tentare di rientrare in città con la forza: è presente a Gorgonza‚ e a San Godenzo, dove l'8 giugno 1302 i guelfi Bianchi e i Ghibellini stringono un'alleanza e si accordano con gli Ubaldini di Mugello contro i Guelfi neri. Ma l'impresa fallisce. La necessità di sopravvivere trasforma Dante in uomo di corte; lo troviamo come poeta, segretario, ambasciatore, delegato dei maggiori signori dell'Italia settentrionale che gli offrono ospitalità, accettata con buona grazia, ma vissuta come una durissima umiliazione. Nel 1303 è segretario presso il signore di Forlì Scarpetta Ordelaffi, poi si sposta a Verona, presso Bartolommeo della Scala. L'anno successivo partecipa alla delegazione di Parte Bianca che tratta la pace con i Neri di Firenze, attraverso la mediazione del legato pontificio Niccolò da Prato. Intanto Bonifacio VIII è morto e gli è succeduto Benedetto XI. La trattativa non va in porto, i Bianchi organizzano una sortita violenta che si risolverà nella sanguinosa e drammatica battaglia della Lastra (1304). Tra polemiche, accuse ingiuste, sospetti, Dante si toglie dal gruppo e preferisce lottare da solo per la propria vita, aspettando una congiuntura politica più favorevole per il ritorno in città. Già da un anno la condanna comminatagli dai magistrati fiorentini è stata estesa ai suoi figli, quando raggiungeranno l'età di quattordici anni; è giunto il momento di rafforzare la sua posizione, e, benché esule, acquisire fama, prestigio, dignità che gli consentano di vivere alla meno peggio lontano dalla patria. Il problema maggiore è la questione economica che il fratello cerca di alleggerire con prestiti. Per guadagnarsi buona fama, Dante inizia la stesura di trattati e opere letterarie, che rappresentino una sorta di biglietto da visita per i suoi futuri ospiti. Nel 1304 inizia il Convivio, un banchetto di sapere che rimane incompiuto e che, steso in volgare, si indirizza ai nobili che vogliano approfondire la propria cultura. Rimane incompiuto al quarto libro: dopo il trattato iniziale, gli altri chiosano tre canzoni che saranno citate nella Commedia; Voi che 'intendendo il terzo ciel movete (sulle gerarchie angeliche), Amor che nella mente mi ragiona sulla scienza e la filosofia), Le dolci rime d'amor ch''i solìa (sulla nobiltà come conquista morale e intellettuale). Negli stessi anni (1304-1309), mentre stende l'Inferno, progetta un'altra opera di argomento linguistico, il De vulgari eloquentia in latino, in difesa del volgare. Interrotto a metà del secondo libro, esamina le origini del linguaggio, i vari dialetti italiani e definisce le caratteristiche di un volgare privilegiato che dovrebbe essere preso a modello degli intellettuali, come lingua comune italiana. Sono anni molto tristi; il poeta si sposta dalla corte di Gherardo da Camino‚ signore di Treviso, alla casa degli

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Scrovegni, ricchi mercanti padovani. A Bologna conosce Cino da Pistoia, giurista e poeta stilnovista, poi si ferma in Lunigiana, presso Moroello Malaspina‚ e a Lucca. Pare che tra il 1308 e il 1310 sia in Francia per frequentare la facoltà di teologia a Parigi. Sicuramente, se la notizia è vera, ascolta, in vico degli strami le lezioni di filosofia di Sigieri di Brabante. Con l'elezione di Arrigo VII di Lussemburgo a imperatore, Dante spera vivamente che la pace e la giustizia tornino a regnare in Italia. Il 10 0ttobre 1310 invia una Epistola ai Signori e Comuni e Popoli d'Italia affinché accolgano con obbedienza e umiltà le disposizioni dell'imperatore che sta scendendo in Italia per l'incoronazione. Papa Clemente V ha invitato le città italiane a porsi a sua disposizione, ma ben presto si palesa il suo voltafaccia. Firenze per prima si oppone all'imperatore seguita da altre città timorose di perdere la propria autonomia. L'imperatore mette Firenze al bando dell'impero e l'assedia, ma invano. Le speranze di Dante svaniscono; non tornerà più in patria in un clima di giustizia. Arrigo VII viene incoronato a Roma nel giugno 1312, ma il Papa lo invita a tornare in Germania, su istigazione degli Angioini e del re di Francia; Dante sente questo come un tradimento. Sta scrivendo un trattato in latino, De Monarchia in tre libri, in cui rivaluta il ruolo dell'impero, dichiara il potere imperiale e quello pontificio indipendenti e sostiene che entrambi derivano dalla volontà di Dio, che vuole garantire agli uomini due mezzi per ottenere la salvezza. Il 24 agosto 1313 Arrigo VII muore a Buonconvento, presso Siena, di febbri malariche. Dante ha terminato la stesura dell'Inferno e del Purgatorio. Scrive Boccaccio nel Trattatello in onore di Dante: "Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la verità, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sì gran fatto che solenne investigazione ne bisogni." Dante ha perso definitivamente la speranza di tornare a Firenze. Nel 1311, infatti, a Firenze Baldo d'Aguglione ha varato una riforma che consente il ritorno di molti esuli, ma Dante ne è stato escluso; troverà ospitalità presso Cangrande della Scala, succeduto al fratello Bartolommeo nella signoria su Verona. Presso di lui Dante si ferma sino al 1318-19. Il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze approva un'amnistia a tutti gli esiliati, e questa volta senza limitazioni (dalla precedente, infatti, Dante era stato volutamente e dichiaratamente escluso); il 24 di giugno, in occasione della festa del Patrono della città. La cerimonia per gli amnistiati prevedeva che partendo dal carcere, avrebbero dovuto percorrere il tragitto in processione a piedi scalzi, vestiti d'un sacco, con una mitra di carta con sopra scritto il nome e il reato dei malfattori in capo, un cero acceso in una mano e una borsa con danaro nell'altra, fino al Battistero, al "bel San San Giovanni", dove venivano offerti in stato di pentimento all'altare e al santo della città. Compiuto questo rito sarebbero stati reintegrati nei loro beni e in ogni loro altro diritto. Se si trattava di fuorusciti politici che, al momento del provvedimento non erano in carcere, l'oblatio consisteva nel toccare simbolicamente col piede la soglia del carcere e quindi presentarsi al tempio, senza l'umiliazione della mitra né altre

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

condizioni degradanti. Con sdegno rifiuta l'umiliante proposta: mai avrebbe accettato di stare a fianco di malfattori, come Ciolo degli Abati, che, condannato nel 1291, era stato poi assolto proprio mediante una amnistia. Come Dante si trovava tra gli esuli contumaci, anche lui escluso dalla riforma di Messer Baldo d'Aguglione del settembre 1311. All'amico (anonimo, ma dalla lettera si ricava che era un religioso, parente di Dante col quale aveva in comune "un nipote", forse Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma) risponde con questa lettera, dichiarandosi pronto a rientrare, ma con tutto il rispetto dovuto alla sua innocenza conclamata e a tutti manifesta e al suo lavoro, per il quale in esilio non gli manca il pane e può continuare i suoi studi, a cercare le dolcissime verità (Epistola XII): [I] Per mezzo delle vostre lettere ricevute e con la debita riverenza e affetto, ho con animo grato e diligente attenzione appreso, quanto vi stia a a cuore e quanta cura abbiate per il mio rimpatrio; e quindi tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più raramente agli esuli accade di trovare amici. Per questo, anche se non sarà quale la pusillanimità di alcuni desidererebbe, vi chiedo affettuosamente che la risposta al loro contenuto, prima di essere giudicata, sia ponderata all'esame della vostra saggezza. [II] Ecco dunque ciò che per mezzo delle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici mi fu comunicato riguardo al decreto da poco emanato in Firenze sul proscioglimento dei banditi che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi patire l'onta dell'offerta, potrei sia essere assolto che ritornare subito. Ma ci sono, o padre, due cose degne di riso e oggetto di cattivo consiglio nelle lettere di quelli che mi hanno comunicato tali cose; le vostre lettere, infatti, formulate con maggiore discrezione e saggezza, non contenevano nulla di ciò. [III] È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia, una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero! [IV] Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane. Negli anni del soggiorno veronese scrive la famosa Epistola a Cangrande in cui gli dedica il Paradiso. Nel 1319 Dante si trasferisce presso Guido Novello da Polenta con i figli. Mentre compone il Paradiso risponde con due Ecloghe a Giovanni del Virgilio che vorrebbe rielaborasse la Commedia in latino. Poi

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scrive il trattatello scientificoQuaestio de aqua et terra che presenta a Verona in una dissertazione del 20 gennaio 1320. Muore di ritorno da un'ambasceria a Venezia per conto del signore di Ravenna, dopo aver contratto le febbri malariche; il 22 agosto vennero firmati i patti dell'alleanza tra Forlì e Venezia e Dante chiese di poter tornare a Ravenna. "L'uomo era stanco, malazzato. Probabilmente chiese e ottenne licenza per il ritorno. Mai, in tanto peregrinare fece viaggio più triste. Attraverso la laguna, lungo il cordone litorale: le terre deserte... La sera del secondo giorno sostò secondo il costume, a Pomposa... Arrivò a Ravenna per riposare sul letto di morte. Il corpo bruciante per febbre, lo spirito immerso in Dio. Intorno i figli piangenti, gli amici, il Signore stesso nelle ore che consentiva l'aggravarsi della situazione politica. ... Il mondo veniva dinanzi a lui: tra lui e Dio non c'era più alcuno. E sentì che Egli giungeva. Era la notte fra il 14 e il 15 settembre 1321.Mentre il grande mistero si compiva, Beatrice, levata con le sorelle per il mattutino, pregava nella piccola cappella dell'Uliva. Il cielo incominciava a imbianchire, e Beatrice sollevò gli occhi umidi di pianto verso quella luce: pareva il cielo si aprisse ad accogliere il padre suo." (Bosco, cit., pag. 261-2). Secondo l'Altomonte "È una notte di settembre, tra il 13 e il 14, quando entra nel suo «maggior sonno», dopo che il medico Fiducio de' Milotti aveva usato tutta la sua scienza per salvarlo. "Guido Novello aveva predisposto una cerimonia pubblica. Subito dopo il cadavere veniva «seppellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosofo». Lo annotava un cronista, confermato poi da Boccaccio, il quale aggiungeva che Guido aveva «adornare il morto corpo di ornamenti poetici sopra un funebre letto». La chiesa della tumulazione - «in un'arca lapidea» - era quella di San Pietro Maggiore. Usciti dalla chiesa, quanto avevano partecipato al rito tornarono alla casa in cui Dante aveva abitato. Guido vi tenne «uno ornato e lungo sermone»." In quella casa erano conservati gli ultimi 13 canti del Paradiso; li troverà il figlio Jacopo, dopo un sogno nel quale il padre gli era apparso indicandogli il luogo nel quale aveva nascosto la parte conclusiva del suo lavoro. Intanto la figlia Antonia entrava in convento (o forse vi era già) assumendo il nome di Beatrice. Bibliografia: Antonio Altomonte, Dante una vita per l'imperatore, Rusconi, Milano 1985 Umberto Cosmo, Vita di Dante, a cura di bruno Maier, La Nuova Italia, Firenze, III edizione 1965.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

DANTE: La vita e la personalità

Nacque a Firenze nel maggio del 1265 da Alighiero, di famiglia guelfa nobile ma non ricca. Presso scuole e maestri, a Firenze e Bologna, apprese l'arte retorica e da se stesso l'arte di "dir parole per rima", cui si dedicò con ingegno e passione fin dai primi anni della giovinezza. Fu amico di molti poeti e soprattutto di Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia, coi quali ebbe, secondo l'uso del tempo, una corrispondenza in versi. A 18 anni si innamorò di Beatrice, figlia di Folco Portinari andata poi sposa a Simone dei Bardi,e per lei scrisse numerose rime alla maniera stilnovistica. Dopo la morte di lei,avvenuta nel 1290,si dedicò con maggiore impegno ai suoi studi, che riguardavano i classici antichi e le opere letterarie moderne italiane, francesi e provenzali, la teologia, la politica, la filosofia, la retorica, l'arte, la lingua. Per partecipare alla vita politica di Firenze si iscrisse all'arte dei medici e speziali. A quel tempo i guelfi di Firenze, dopo aver cacciato i ghibellini dalla città, s'erano divisi in due fazioni: i Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, ed i Neri, guidati dai Donati. Dante appoggiò i primi, più gelosi dell'indipendenza della propria città, pur avendo sposato una Donati, Gemma, dalla quale ebbe tre figli, Iacopo, Pietro ed Antonia, che poi divenne suora ed assunse il nome di Beatrice. Tra il 1295 e il 1296 fece parte del Consiglio speciale del Capitano del Popolo e del Consiglio dei Cento. Dal 15 giugno al 15 agosto del 1300 fu uno dei Priori. L'anno successivo i Neri, con l'aiuto di Carlo di Valois, inviato dal Papa Bonifacio VIII, si impadronirono del potere, mettendo al bando i Bianchi. Dante, che si era recato dal papa per convincerlo a desistere dai suoi propositi di interferire nella politica del comune fiorentino, non poté far ritorno in città, perché condannato per due anni all'esilio sotto la falsa accusa di baratteria. Da allora visse in esilio, non avendo mai accettato l'invito dei Fiorentini a rientrare in città a patto di riconoscersi colpevole dei reati di cui era stato ingiustamente accusato. Fu ospite di Bartolomeo della Scala a Verona, dei marchesi Malaspina in Lunigiana, ancora a Verona di Cangrande della Scala ed infine di Guido Novello da Polenta a Ravenna, dove morì nel settembre del 1321.

Di temperamento fiero e risoluto, Dante non mostrò mai debolezze e tentennamenti. Convinto che la giustizia superiore di Dio dovesse compiersi anche nella vita terrestre, pose tutto il suo impegno di studioso e di scrittore al servizio della redenzione dell'umanità, che gli sembrava ai suoi tempi aver toccato il fondo del male.

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Divina commedia: Parafrasi Inferno

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO V

Io mi ero ormai allontanato da quelle ombre (le anime dei negligenti), e seguivo le orme della mia guida, quando alle mie spalle, indicandomi, una di esse gridò: « Osserva che il raggio del sole non si vede rilucere alla sinistra (Dante e Virgilio, mentre salgono, volgono le spalle a levante e il Sole, perciò, li colpisce a destra) di quello che sta sotto (Dante infatti segue Virgilio), e come sembra si comporti come un vivente!» Quando udii queste parole volsi lo sguardo, e vidi le anime guardare con stupore me, solo me, e i raggi dei sole che erano interrotti (dal mio corpo). Quella che ad una prima lettura può apparire come una zona poetica di passaggio o tutt'al più come un motivo preparatorio dell'intervento didascalico di Virgilio (versi 10-18), si arricchisce di risonanze profonde se consideriamo che nota caratteristica (poeticamente validissima) della seconda cantica è l'attenzione precisa con la quale il Poeta dispone già all'inizio la tonalità dominante del canto. Deciso è il movimento di Dante (e il già posto nel primo verso segna uno stacco quasi violento dal gruppo dei negligenti), ma altrettanto scattanti sono quel dito e quella voce che grida, colpita dalla vita presente nell'atteggiamento di Dante (e come vivo par che si conduca!), sul quale si ripercuote questa agitazione (li occhi rivolsi): è una breve rappresentazione drammatica che - ampliata dall'intervento di Virgilio e dalla corsa delle due anime (versi 28-29) che si trasforma in una corsa collettiva di tutte le altre (verso 42) - fa da prologo a quella ben più vasta e grave della seconda parte del canto. « Perché, il tuo animo si lascia distrarre a tal punto » disse il maestro, « che rallenti i tuoi passi? che importanza può avere per te ciò che queste anime mormorano? Vieni dietro a me, e lascia parlare la gente: comportati come una torre solida, la cui cima non si muove mai per quanto i venti possano soffiare; poiché accade sempre che l'uomo nel quale continuamente un pensiero germoglia dall'altro, allontana da sé il raggiungimento della meta, in quanto l'impeto del nuovo pensiero indebolisce l'altro. » Che cosa potevo rispondere, se non « Io vengo »? Così infatti risposi, un poco soffuso di quel rossore che talvolta (quando la vergogna non induce all'ira per essere stato colto in errore e quando la colpa non è troppo grave) rende l'uomo degno di essere perdonato.

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

Il rimprovero di Virgilio è apparso, ad alcuni critici, eccessivo ("ramanzina" alla quale Dante reagisce con il rossore di chi si accorge di essere bersaglio di un biasimo eccessivo, secondo il Mattalia, "rimprovero... sproporzionato a così lieve colpa", secondo il Momigliano), troppo pedagogico, laddove il richiamo morale (che si congiunge in una stessa significazione con quello di Catone nel canto II e con, quello di Virgilio stesso nel canto III) è il motivo lirico nel quale si trasforma il concetto teologico della fragilità dell'anima e della necessità che la ragione (in questo caso Virgilio) sostenga la paziente attesa della Grazia. L'intensità con la quale Dante avverte questa verità è rivelata dalla potenza dell'immagine della torre, la cui cima sa opporsi anche ai venti più violenti, immagine di urto e di resistenza, mentre la espressione lascia dir le genti pare suggerire la fierezza dell'esule di fronte a quanto il mondo pispiglia. Frattanto lungo la costa (del monte) in direzione trasversale (rispetto ai due poeti) avanzava un gruppo di anime che ci precedevano di poco, cantando il salmo « Miserere » a versetti alternati. Quando si accorsero che non lasciavo passare attraverso il mio corpo i raggi del sole, il loro canto si trasformò in un « Oh! » lungo e fioco; e due di loro, in qualità di messaggeri, corsero incontro a noi e ci chiesero: « Informateci della vostra condizione ». Quelle che avanzano cantando il Salmo L, uno dei sette salmi penitenziali, sono le anime di coloro che perirono di morte violenta e che, pentitisi solo in punto di morte, devono restare nell'antipurgatorio probabilmente (Dante infatti non lo specifica) tanto tempo quanto vissero. La processione avanza lentissima, quasi i passi fossero scanditi dai tristi versetti del salmo, che sembrano ritmare anche lo stato d'animo di questi penitenti, quella cupa malinconia che dalle parole del canto si prolunga nell' « Oh! » lungo e roco. Dopo essersi ripercossa nella magica lentezza della terzina 22, troverà la tensione più acuta e nello stesso tempo più sconsolata nell'espressione noi . fummo tutti già per forza morti, con la quale le anime iniziano a rievocare la loro drammatica vicenda terrena. La stasi che sembrava stringere queste anime di perseguitati al monte, creando una raffigurazione da bassorilievo vicina a quella delle anime degli scomunicati (canto III, versi 70-72 e 91-93), è subito spezzata dall'ansiosa corsa di due di loro verso quel corpo che non dava loco... al trapassar de' raggi, e che pareva riportare in mezzo a loro la terra lontana e proprio attraverso quella realtà, il corpo, che in essi era stata colpita e umiliata. E il mio maestro: «Voi potete ritornare e riferire a coloro che vi hanno mandato che il corpo di costui è ancora vivo. Se essi si sono fermati perché hanno visto la sua ombra, come penso, hanno avuto una sufficiente spiegazione: lo accolgano con gentilezza, perché potrà essere prezioso per loro (chiedendo preghiere ai vivi, dopo essere ritornato nel mondo) ». Lo Hatzfeld, commentando attentamente questo canto, trova che "la risposta di Virgilio in « stile sublime » è un capolavoro di solennità e di accorta disposizione. Vi è solennità perché Virgilio imita le parole che

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

Cristo rivolge ai messaggeri di San Giovanni in un caso analogo (Matteo XI, 4: "Andate e riferite a Giovanni"), usa il verbo elevato ritrarre per « riferire », termine che all'epoca di Dante era riservato alle ambascerie, usa espressioni comuni nelle discussioni eucaristiche degli Scolastici (verso 33) ... L'accorta disposizione consiste nel rimandare fino all'ultimo dei sei versi ciò che è il fatto più importante per i messi, l'annunzio che Dante può aiutare i pellegrini, e ciò a sua volta viene comunicato con una velata circonlocuzione: esser può lor caro". Non vidi mai stelle cadenti fendere il cielo sereno all'inizio della notte, né, al tramonto del sole, (vidi mai) lampi fendere le nuvole d'agosto tanto rapidamente, Vapori accesi: poiché la scienza medievale riteneva che le stelle cadenti e i lampi avessero origine da una stessa causa, l'accensione dei vapori, essa li indicava con uno stesso termine. che quelli non tornassero in minor tempo alla loro schiera; e, dopo esservi giunti, tornarono indietro con gli altri verso di noi come una schiera che si lancia in una corsa sfrenata. « Queste anime che si accalcano intorno a noi sono numerose, e vengono per pregarti » disse Virgilio: « tuttavia tu continua a procedere e mentre cammini ascolta. » « O anima che compi questo viaggio per purificarti con quel corpo al quale fosti legata fin dalla nascita » gridavano, « arresta un poco i tuoi passi. Guarda se mai hai visto qualcuno di noi, in modo da riportare notizie di lui sulla terra: perché cammini? perché non ti fermi? Noi un tempo fummo tutti uccisi con la violenza, e fummo peccatori fino all'ultirno istante della notra vìta: in punto di morte la grazia divina ci rese consapevoli dei nostri peccati, in modo che, pentendoci (dei nostri peccati) e perdonando (i nostri nemici), morimmo riconciliati con Dio, che ci consuma col grande desiderio di vederLo. » Il guizzare dei vapori accesi aveva evocato la pura visione di una notte stellata e di un sole al tramonto, ma lungi dall'allontanare, l'attenzione del lettore dalla scena, ve la immerge totalmente, perché essa non può non seguire quella schiera tumultuosa e disordinata - dove prima c'era la compattezza e l'ordine di una processione che si accalca intorno a Dante (anche per lui non c'è respiro ìn questo canto: deve continuare quasi ansioso, quasi affannato di fronte a quell'ammonitore pur va del suo maestro). "L'ansia delle anime che si esprime con tanta vivacità nei loro movimenti nell'intonazione della loro supplica, la quale è « gridata » (venian gridandi), non detta, e ha un ritmo inesistente e affannoso (deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?), nasce naturalmente dal desiderio di essere ricordate nel mondo e aiutate con le preghiere ad affrettare l'espiazione, sicché più presto possano soddisfare a quella sete dì veder Dìo che le consuma (versi 56-57: Dio... che del disio di sé veder n'accora)." (Puppo) Tuttavia l'ispirazione

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profonda di questo canto, è da cercarsi nel tema poetìco del « corpo » che, introdotto nei versi 25-26 e ripreso da Virgilio (verso 33), è svolto dalle anime nei versi 46-47, dove affiora la nostalgia del corpo dal quale furono staccate con la violenza. Il dramma della separazione violenta dell'anima dal corpo, già svolto da Dante neIl'Inferno nel canto dei suicidi, dove si :trasformava nell'angoscia eterna degli uomini divenuti sterpi, percorre, naturalmente con una diversa tonalità, anche questo canto nel "sentimento vivo del destino del « corpo », del corpo involontariamente .abbandonato in una solitudine indifesa, esposto alle forze avverse della natura e del demonio" (Puppo). Questo motivo, che sembrerebbe legare in modo quasi carnale i penitenti al mondo (il Sapegno osserva che la tragedia di sangue, che concluse la loro esistenza agitata e peccaminosa e coincise con l'istante della loro conversione, crea, fra essi e il mondo, dei vivi un rapporto più stretto e doloroso", concorrendovi anche I'immagine di un dramma sempre presente alla memoria e il sentimento di non aver lasciato dietro di sé nessuno che li ami e preghi per loro"), è anche quello che li libera e li purifica: la loro vita, che fu peccaminosa, si riduce all'istante supremo della morte quando l'orrore del sangue - un orrore così straziante da ricordarlo ancora - portò con sé il desiderio struggente della pace e la forza del perdono. L'emblematica triade peccato-violenza-sangue, secondo la definizione del Mattalia, ci riporta al canto V dell'Inferno, ad altre anime che affermano: noi che tignemmo il mondo di sanguigno, ma "la tragica serie consequenziale peccato-morte-dannazione, nell'attimo stesso di affondare nella tenebra infernale s'incurva, improvvisamente, prodigiosamente, verso l'alto: peccato-morte-salvazione. Ed io « Per quanto vi osservi attentamente, non riconosco alcuno di voi; ma se voi desiderate qualcosa che io possa fare, o spiriti destinati alla salvezza, ditemelo, ed io lo farò in nome di quella pace che debbo cercare attraverso i regni dell'oltretomba seguendo questa guida » Ed uno di quegli spiriti cominciò a parlare: «Ciascuno di noi si fida del tuo servigio senza bisogno di giuramenti, a meno, che una impossibilItà indipendente impedisca dì realizzare il tuo proposito. Perciò io, che parlo da solo davanti agli altri, ti prego, se mai tu possa vedere la Marca Anconetana (quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo: posto a sud della Romagna e a nord del regno di Napoli, governato nel 1300 da Carlo Il d'Angìò), di essere generoso nelle tue richieste per me nella città, di Fano, cosicché per me si preghi da persone in grazia di Dio affinché possa espiare le mie gravi colpe. Il penitente è Jacopo di Uguccione del Cassero, che nacque a Fano da nobile famiglia. Partecipò nelle truppe guelfe alla battaglia dì Campaldino (1289); fu podestà di Bologna nel 1296-1297 e difese energicamente il Comune di fronte ai tentativi di Azzo VIII d'Este, signore di Ferrara. Nel 1298 fu nominato podestà di Milano e, per evitare il territorio estense, raggiunse per mare Venezia, e attraverso il territorio di Padova si diresse verso Milano, ma fu raggiunto dai sicari di Azzo VIII nei pressi del castello, di Oriago sul Brenta e ucciso.

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Nacqui in questa città, ma le ferite mortali dalle quali sgorgò il sangue nel quale risiedeva la mia anima (in sul quale io sedea: era pensiero comune, ai tempi di Dante, che il sangue fosse la sede dell'anima), mi furono prodotte nel territorio di Padova (in grembo alli Antenori: Antenore fu il troiano fondatore di Padova, secondo Virgilio - Eneide I, versi 247 sgg.). là dove, io ritenevo di essere più sicuro (essendo fuori del territorio estense): fui ucciso per volere di Azzo VIII, che mi aveva in odio assai più di quello che fosse giusto. Ma se io fossi fuggito verso Mira (borgo tra Padova e Oriago), quando fui raggiunto (dai sicari) nelle vicinanze di Oriago, sarei ancora nel mondo dei vivi. Invece corsi verso una palude, e le canne palustri e il fango mi avvilupparono a tal punto, che caddi; e in quel luogo vidi il mio sangue formare in terra un lago », Il dramma della morte violenta si precisa in un trittico che assume man mano sfumature diverse e nel quale le "anime stesse, quanto più pure e sole, si allontanano da quel gorgo di sangue"(Apollonio). Jacopo è ancora preso dai ricordi terreni, la sua dignità di un tempo è ancora presente (io, che solo innanzi alli altri parlo), il suo linguaggio elaborato è quello del dignitario, tuttavia la sua terra è già sfumata in lontananza: basta un semplice aggettivo quel, per allontanare visivamente e sentimentalmente il paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, laddove in Francesca l'espressione siede la terra dove nata fui (Inferno canto V, verso 97) costituisce come intensamente presente una lontananza di spazio e di tempo. La fisionomia del personaggio si precisa meglio a partire dal verso 73, perché in lui, come in Bonconte e in Pia, il punto vitale è "il modo della morte o il sentimento con cui essi la ripensano" (Momigliano). A un'impressione fortemente fisica quella che Jacopo ancora avverte, lo strazio della carne (li profondi fori), la corsa fino alla palude, l'urto contro le canne, il peso del fango che pare voglia attirarlo a sé, la caduta, infine il rosso del sangue intorno, e tuttavia non c'è nessun accento d'odio verso il suo assassino (verso 77). La pace conquistata in punto di morte, che ha prima esaltato insieme con le altre anime, fa sì che contempli quel lago di sangue come "qualche cosa di estraneo, di staccato, quasi di materiale, che si adegua alla terra, mentre prima proprio in esso risiedeva quell'io che ora lo contempla distinto da sé" (Puppo). Poi parlò un altro spirito: « Possa realizzarsi quel desiderio (il ricongiungimento a Dio) che ti porta verso l'alto monte del purgatorio, (in nome di questo augurio) cerca di aiutare il mio (che è identico al tuo) con preghiere efficaci ! Appartenni alla casata dei Montefeltro, sono Bonconte: Giovanna (vedova di Bonconte) o altri miei parenti non si preoccupano di me; per questo cammino fra costoro a fronte bassa ». Bonconte da Montefeltro fu figlio di Guido, da Dante posto nell'inferno fra i consiglieri fraudolenti (canto XXVII, versi 19 sgg.), e come il padre fu acceso ghibellino. Ebbe molta parte nella cacciata dei Guelfi da

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Arezzo (1287) e nella sconfitta che gli Aretini inflissero ai Senesi alla Pieve del Toppo (1288). Comandò i Ghibellini di Arezzo nella guerra contro Firenze, che culminò nella battaglia di Campaldino (1289), nella quale Bonconte morì; il suo corpo non fu più ritrovato. E io gli risposi: « Quale forza (umana o divina) o quale caso fortuito ti trascinò così lontano da Campaldino, che non si conobbe mai la tua sepoltura? » Dante combatté nella battaglia di Campaldino fra i "feditori" a cavallo, ma nella parte guelfa. Di fronte al nemico di un tempo, una sola è la sua preoccupazione: sapere come Bonconte morì e quale fu la sua sepoltura. Mentre ci riportano al tema fondamentale del canto, quello della morte, le sue parole sono la logica conseguenza di quelle con cui il suo nemico si è presentato (io fui da Montefeltro, io son Bonconte), scandendo "il distacco dal mondo terreno con le sue effimere determinazioni di luoghi, di titoli, di potenza"(Grabher), perché "ora gli resta solo quel che veramente non muore e cioè la sua interiore persona legata ancora al suo nome: io son Bonconte"; anche gli affetti terreni sono persi, ed egli si isola dagli altri in una solitudine che non è quella orgogliosa di un Farinata, ma quella dolente di chi medita intorno alla brevità dei beni mondani. Commentando questo incontro, il Puppo rileva che "al livello del purgatorio, dove entrambi si trovano nel faticoso cammino della perfezione, le antitesi politiche hanno perduto qualsiasi significato, come l'hanno perduto tutte le dignità e le distinzioni terrene... Fra Dante e Farinata poteva accendersi il duello delle affilate parole; non fra Dante e Bonconte". « Oh! » rispose, « ai piedi dei monti del Casentino scorre nella valle un torrente chiamato Archiano, che nasce sull'Appennino sopra l'eremo di Camaldoli. Arrivai, ferito alla gola, nel punto in cui esso perde il suo nome ('l vocabol suo diventa vano: perché si getta nell'Arno), fuggendo a piedi e insanguinando la terra. Qui i miei occhi si velarono, e la mia voce si spense pronunciando il nome di Maria, e qui caddi e il mio corpo rimase inanimato. La grandiosità della figura di Bonconte nasce non dallo scontro delle potenze infernali con quelle angeliche per il possesso della sua anima, ma dallo sfondo paesistico sul quale si distende non più la piccola palude di Jacopo, ma la lunga catena dei monti del Casentino, mentre lontano domina, nella sua superba solitudine, quasi simbolo ammonitore di una pace ottenuta solo nel distacco dal mondo, l'eremo di Camaldoli. La corsa affannosa di Bonconte, nel vano tentativo di salvarsi dall'odio dei nemici, non è nascosta subito dal fango, ma campeggia in tutto il piano, diventando qualcosa di epico: il suo sangue è "una striscia che riga la pianura con straziante evidenza" (Puppo), in contrapposto al lento allargarsi della pozza di sangue di Jacopo. Il paesaggio, prima così nitido e preciso, osservato quasi con gli occhi di un capo militare, ancora padrone di sé, si vela improvvisamente davanti a lui, mentre appare il lume del ciel, finché anche per lui "il cadere e il morire è tutt'uno. Non rimane che il peso inerte della carne; sola perché senz'anima; sola anche materialmente, un piccolo mucchio nella vasta campagna. I due versi precedenti costituiscono un'unità ritmica che si arresta sul caddi: poi, il rimanente del verso terzo ha

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suono martellato e solenne" (Bosco), segnando in tal modo "tre gradi della morte: il velarsi della vista, lo spegnersi sulle labbra della parola, il cadere". Ti racconterò cose vere e tu le riferirai nel mondo dei vivi: l'angelo di Dio prese la mia anima, mentre il diavolo gridava: "Perché mi privi di quest'anima peccatrice, tu che sei un angelo del cielo? Porti via con te l'anima di costui per una lagrimuccia che me la sottrae; ma userò per il corpo (dell'altro) un trattamento ben diverso!" L'episodio di Bonconte s'inoltra nella parte più propriamente fantastica, dove il Poeta risolve in termini inventivi quella che era l'ipotesi comune intorno alla scomparsa di Bonconte, e di molti altri, dopo la battaglia di Campaldino: che i loro corpi fossero stati travolti dalle acque dell'Arno in piena. La critica, concordemente accosta questo contrasto fra l'angelo e il diavolo (uno dei tanti "contrasti" della tradizione letteraria e figurativa del Medioevo) a quello fra San Francesco e il diavolo per l'anima del padre di Bonconte, Guido, nel canto XXVII dell'Inferno. Poiché la ricerca di simmetria ha un suo profondo valore in Dante, nella convergenza o divergenza di significati, occorre rilevare - d'accordo col Sapegno - che mentre quel primo contrasto voleva indicare l'inutilità di un lungo periodo di penitenza, se esso è interrotto da un peccato senza pentimento, questo sottolinea come un solo attimo di penitenza basta a salvare un'anima, essendo il giudizio di Dio indipendente dalla opinione umana. Tu sai con chiarezza come nell'aria si raccoglie il vapore acqueo che si trasforma di nuovo in acqua, non appena sale nella regione fredda del cielo. Sopraggiunse il diavolo che desidera soltanto il male con il suo intelletto, e provocò il vapore acqueo e il vento con quel potere che gli proviene dalla sua natura. Poi, non appena giunse la notte, coperse di nebbia la valle (di Campaldino) dal monte Pratomagno alla Giogaia di Camaldoli; e provocò nel cielo un così grande ammasso di vapori, che l'aria satura di nubi si convertì in acqua: cadde la pioggia e quella parte di essa che la terra non riuscì ad assorbire si raccolse nei fossi; e quando raggiunse i torrenti, si convogliò verso l'Arno (fiume real: secondo l'espressione usata nel Medioevo per indicare i fiumi che sfociano in mare) con tanta velocità, che nessun ostacolo potè trattenerla. L'Archiano in piena trovò il mio cadavere alla sua foce, e lo spinse nell'Arno, e sciolse dal mio petto la croce che avevo fatto delle mie braccia quando mi aveva sopraffatto il dolore del pentimento: mi voltò lungo le rive e sul fondo; poi mi coperse e mi nascose con i suoi detriti. »

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Poiché é la voce di Bonconte che racconta, la lunga inserzione scientifica, se pare diminuire momentaneamente il grado di tensione, testimonia il distacco con cui il penitente osserva l'ultimo giorno della sua. vita. La salma diventa ara "il punto, prospettico di convergenza del fantastico e grandioso quadro della bufera ..." (Mattalia); contro di essa si getterà il movimento che, iniziato con ritmo. dapprima lento, (mosse il fummo e 'l vento), assumerà man mano, nelle diverse fasi, un impeto travolgente (si converse.. cadde... venne... si convenne si, ruinò ... ), finché troverà la sua preda. C'è un accanimento al quale hanno concorso le forze naturali e quelle savrannaturali, laddove contro Manfredi (al cui episodio ci riporta la scena della tempesta e dell'oltraggio fatto al corpo) era soprattutto il cieco odio di una povera umanità che ignorava la misericordia divina. Dapprima l'anima distingue separato da sé il suo corpo gelato, chiuso nella maestà della morte, ma, quando l'acqua lo ghermisce trascinandolo con sé, "improvvisamente essa si identifica con questo, dice voltommi; dice mi coperse e cinse. Torna dunque alla fine esplicito l'accoramento di Bonconte per fl misero corpo: accoramento per la cieca crudeltà degli uomini" (Bosco). « Quando sarai tornato nel mondo, e ti sarai riposato del lungo cammino », disse un altro spirito dopo il secondo, «ricordati di Pia: Siena mi diede i natali; la Maremma mi diede la morte; (come morii) lo sa colui che prima mi aveva dato l'anello nuziale prendendomi in moglie. » Nei versi 135-136 Dante allude a una sola cerimonia: la promessa dì prendere in moglie e la consegna dell'anello, mentre le nozze vere e proprie erano celebrate più tardi in casa dello sposo. Parla Pia, una senese appartenente forse alla famiglia dei Tolomei. Sposò Nello d'Inghiramo dei Pannocchíeschi, signore del castello della Pietra in Maremma. Secondo alcuni antichi commentatori sarebbe stata uccisa dal marito che voleva sposarsi con Margherita Aldobrandeschi, secondo altri sarebbe stata uccisa per una sua infedeltà, secondo altri ancora per sospetto di infedeltà. Se tuttavia la critica romantica ha creato il mito dì una Pia vittima innocente, contrapposta alla peccatrice Francesca, non è inutile ricordare che Dante la pone fra coloro che furono peccatori infino all'ultima ora. L'apparizione di questa figura, nella quale la preghiera sicura di sé di Jacopo e quella più incerta e sofferente di Bonconte, si purifica nella dolce preoccupazione per Dante (quando tu sarai... riposato della lunga via), avviene dopo che il crescendo ritmico della bufera si era placato in uno di quei versi (verso 129) che il Bosco definisce "definitivi" e che "così caratteristicamente suggellano in Dante un motivo drammatico", segnando nella "sinfonia lo stacco tra il terzo tempo, così mosso e drammatico, e il quarto, un pianissimo elegiaco". Ma anche se, sempre secondo l'analisi del Bosco, la poesia dei due episodi precedenti è « fatto », perché è soprattutto costituita dal paesaggio, dal gesto, dal colore, è "un visibile parlare e soffrire", non si possono dissolvere le parole di Pia in una semplice suggestione musicale, come tende a fare anche il Momigliano. Il verso 134 ha una sua forza interiore che ripropone ancora una volta il tema del distacco (disfecemi) innaturale dell'anima dal corpo, anche se il movimento drammatico dei

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due episodi precedenti "si contrae e si smorza nell'ultimo, che da questa smorzatura musicale acquista il suo fascino poetico" (Puppo), anche se Pia, più ancora che Jacopo e Bonconte, vela la sua vita e la sua morte, e, nell'accenno a colui che fu causa della sua fine, accanto al perdono, fa vibrare pur sempre un sentimento di amore.

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PURGATORIO CANTO VI

Quando si divide e si scioglie il gruppo dei giocatori nel gioco dei dadi, il perdente resta solo e addolorato, tentando e ritentando nuove gettate, e malinconico cerca di imparare (a far meglio per il futuro) mentre tutti g li spettatori se ne vanno col vincitore; c'è chi gli va innanzi, e chi lo sollecita tirandogli l'abito alle spalle, e chi gli si raccomanda standogli di fianco: ma il vincitore non si ferma, e porge orecchio ora a questo ora a quello; colui al quale tende la mano (dandogli qualche cosa), non insiste più; e in tal modo egli si difende dalla ressa. Il Poeta allude a un gioco di dadi diffusissimo. benché vietato dagli statuti comunali, nel secolo XIV in tutta Italia (e in molte parti d'Europa), consistente nell'indovinare in anticipo i numeri che risultavano dalla combinazione di tre dadì gettati su un tavoliere, mentre intorno ai giocatori si affollavano i curiosi: una scena alla quale Dante avrà tante volfe assistito sulla piazza del Mercato Vecchio di Firenze. Questa osservazione dal vero spiega il realismo dal ritmo vivace e incalzante di questa similitudine, staccando decisamente l'esordio del canto VI dal tono mestamente elegiaco con il quale terminava il canto precedente, La differenza tonale ha fatto osservare al Gentile che "la tragedia scende fino alla farsa", e al Momigliano che "I'immagine è lavorata come un pezzo a sé, con una scarsa aderenza al contesto". Tuttavia se la mescolanza di stili (tante volte osservata nell'Inferno) si giustifica con la libertà di cui il Poeta deve disporre per realizzare di volta in volta la sua ispirazione, la sua presenza anche nel Purgatorio non può essere motivo di stupore, anche perché "in Dante la preoccupazione della sintonia che diremo interna, qualitativa, delle comparazioni non è costante né preminente" (Mattalia). Inoltre, considerando l'importanza che il Poeta conferisce sempre.agli esordi dei canti, non si può non vedere nella similitudine della zara il contrappunto alla solennità dell'episodio di Sordello e nello stesso tempo il richiamo al tema fondamentale della seconda cantica, la richiesta di preghiere: richiamo tanto più importante in quanto proviene da coloro che furono vittime della malvagità del mondo e che ora sono uniti al mondo solo dal sacro legame della preghiera. Così mi trovavo io in mezzo a quella fitta schiera, guardando verso di loro ora a destra, ora a sinistra, e promettendo (di fare quanto ciascuno mi chiedeva) me ne liberavo. Tra quelle anime c'era l'Aretino che fu ucciso ferocemente da Ghino di Tacco, e l'altro (Guccio dei Tarlati) che annegò mentre inseguiva i nemici. Dante inizia la rassegna delle anime dei morti violentemente con la figura di Benincasa da Laterina (nel

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territorio di Arezzo), famoso giureconsulto del XIII secolo. Mentre era vicario del podestà di Siena, condannò a morte uno zio e un fratello di Ghino di Tacco, un senese divenuto famoso "per la sua fierezza e per le sue ruberie" (Boccaccio - Decamerone X, II, 5), il quale si vendicò uccidendo Benincasa in una sala dei tribunale a Roma. L'attro ch'annegò correndo in caccia è Guccio dei Tarlati da Pietramala, appartenente a una famiglia ghibellina di Arezzo, vissuto nella seconda metà dei '200; mori annegando nell'Arno, mentre combatteva contro i fuorusciti guelfi della famiglia dei Bostoli. Qui pregava con le mani tese Federigo Novello, e qui c'era Gano, il quale dette al padre, il virtuoso Marzucco, l'occasione di mostrare la sua forza d'anímo. Federigo Novello dei conti Guidi fu ucciso nel 1289 o nel 1291 presso Bibbiena da uno dei Bostoli. Quel da Pisa fu, secondo gli antichi commentatori, Farinata, figlio di Marzucco degli Scornigiani, e venne assassinato da un pisano suo concittadino; secondo gli ultimi studi si tratterebbe invece di Gano, un altro figlio di Marzucco, che fu fatto uccidere dal conte Ugolino nel 1287. Marzucco era entrato l'anno prima nell'ordine francescano, e dimostrò la sua forza d'animo sia nell'accettazione serena di quel dolore, sia nella decisione con la quale si oppose ad ogni tentativo di vendetta da parte dei suoi consorti: "e così ordinò poi che si fece la pace, ed elli volse baciare quella mano che avea morto lo suo figliuolo" (Buti). Vidi il conte Orso e vidi pure colui che ebbe l'anima divisa dal suo corpo per odio e per invidia, com'egli diceva, e non per colpa commessa; voglio dire Pierre de la Brosse (Pier dalla Broccia); e riguardo a ciò, mentre è ancora in vita, la regina di Brabante provveda (in tempo a purificarsi del male commesso), onde per questo non vada a far parte di una moltitudine peggiore (di quella di cui fa parte Pierre de la Brosse, cioè fra i falsi accusatori della decima bolgia). Orso degli Alberti, figlio del conte Napoleone, fu ucciso nel 1286 dal cugino Alberto, figlio del conte Alessandro. Continuava in tal modo la catena di odi e di vendette sanguinose che era iniziata con i padri di Orso e Alberto, che Dante ha posto nella Caina (Inferno XXXII , 41 sgg.). Pierre de la Brosse, nato da umile famiglia, divenne medico alla corte di Francia al tempo di Luigi IX e di Filippo III l'Ardito, dal quale fu nominato gran ciambellano. Allorché nel 1276 morì misteriosamente il primogenito di Filippo, Luigi, egli accusò Maria di Brabante, seconda moglie del re, di esserne responsabile per potere, in tal modo, assicurare il trono al proprio figlio Filippo il Bello. Attiratosi l'odio della regina, due anni dopo, durante la guerra tra la Francia e Alfonso X di Castiglia, fu accusato di tradimento e condannato a morte. Secondo alcuni antichi commentatori, invece, la regìna lo avrebbe accusato di avere tentato di sedurla. Dante lo considera innocente e vittima, come Pier delle Vigne, dell'invidia, morte comune, delle corti vizio (Inferno XIII, 60). Quando fui libero da tutte quelle anime che mi pregavano soltanto perché inducessi altri a pregare per loro, in modo da affrettare la loro purificazione,

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io dissi a Virgilio: « Sembra, o maestro, che in un passo del tuo poema tu neghi esplicitamente, che la preghiera possa mutare un decreto divino; e queste anime soltanto per questo pregano: la loro speranza sarebbe dunque vana, oppure non mi è ben chiaro il tuo testo? » Ed egli mi rispose, « La mia espressione è chiara; e la speranza di costoro non è fallace, se si medita bene con la mente sgombra da erronee opinioni; poiché la sublime altezza del giudizio divino non s'abbassa per il fatto che l'ardore di carità (di chi prega per costoro) porti a perfezione in un momento solo quell'espiazione a Dio dovuta da chi ha in questo luogo la sua dimora; e in quel passo dove feci questa affermazione, la mancanza dell'espiazione non poteva essere corretta con la preghiera, perché essa era da Dio (essendo fatta da pagani). Dante ricorda la risposta che la Sibilla diede a Palinuro, il quale la pregava di essere traghettato oltre l'Acheronte pur non avendone diritto, in quanto era insepolto: "cessa di sperare che i decreti divini possano essere piegati con la preghiera" (Eneide canto VI, verso 376). Questa affermazione gli pare in contrasto con l'atteggiamento delle anime invocanti preghiere che possano modificare la legge divina, mentre Virgilio chiarisce il dubbio: la preghiera nel mondo pagano non era indirizzata al vero Dio, perciò essa non poteva offrire alcun aiuto, né sopperire ad alcuna mancanza (nel caso di Palinuro la mancanza di sepoltura), mentre la preghiera cristiana soddisfa quanto richiede la sentenza divina, la quale resta immutabile, ma permette, con la sua misericordia, che venga completato, attraverso questo foco d'amor, il riscatto che è dovuto dall'anima del peccatore. Digressione oziosa secondo alcuni critici (Momigliano), secondo altri invece (Mattalia), è un interessante documento storico-culturale: esso infatti testimonia la lettura in chiave allegorica che veniva fatta delle opere classiche nel Medioevo, allorché gli interpreti, con squisite sottigliezze, cercavano "il punto d'incontro e di sutura tra la « favola » e la lettera del testo interpretato, e le verità «cristiane» che dall'una e dall'altro s'intendeva ricavare". Tuttavia questi versi costituiscono un'opaca pausa meditativa condotta secondo uno stanco modulo didascalico (el par che tu mi nieghi... la mia scrittura è piana) che il Poeta tenta faticosamente di risollevare con la preziosità espressiva del verso 37, nella ricercata contrapposizione di cima a s'avvalla, riuscendo forse meglio a determinare il suo pensiero nell'improvviso lampeggiare di quel foco damor che dalla terra sembra innalzarsi per muovere chi qui si stalla. Tuttavia non devi fermare il travaglio della tua mente di fronte a un dubbio così arduo, se non te lo dirà colei che farà da tramite tra la verità (sovrannaturale) e il tuo intelletto: non so se mi comprendi; io intendo parlare di Beatrice: tu la vedrai in alto, sulla vetta di questo monte, sorridente e felice».

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E io gli dissi: « Sìgnore, camminiamo più in fretta, perché ora non sento più la fatica come prima, e vedi ormai che il monte (essendo le prime ore del pomeriggio) proietta la sua ombra ». Egli rispose: « Continueremo ormai a salire finché dura il giorno, quanto più potremo; ma la realtà è diversa da quello che tu giudichi. Virgilio, che aveva terminato la sua spiegazione esortando il discepolo a completare la chiarificazione offertagli dalla ragione con quella che farà Beatrice, quale simbolo della teologia, anticipa quasi una visione paradisiaca (versi 47-48), davanti alla quale Dante assume un atteggiamento "così schietto e ingenuo che ha qualche cosa dell'infantile", compiendo "lui le parti che di solito fa Virgilio, stimolando alla fretta... affermando anche di non sentir più la fatica di prima, il che non è vero o è un effetto tutto psicologico dell'idea di veder Beatrice" (Porena). Con questo tratto umanissimo il Poeta dissipa la durezza narrativa dei versi precedenti, incentrando nella sua figura quello slancio d'ascesa che si manifesterà come desiderio di ordine morale e come forza di missione profetica nell'episodio di Sordello. Questa particolare prospettiva giustifica la dimensione strutturale e poetica della rassegna delle anime (versi 13-24), che, ben lontana dal voler "glorificare talune illustri casate toscane", come invece ritiene il Novati, profilava "a poco a poco l'immagine di una società profondamente corrotta, in cui è venuto meno ogni senso di ordine e di giustizia: prepotenza di tiranni e di briganti, guerre di comuni e di partiti, smania di dominio e di ricchezza che acquisce fino al delitto le rivalità familiari, invidie e calunnie cortigiane" (Sapegno), spingendo il Poeta "a riprendere in esame le cause profonde di questa ingiustizia e di questo disordine sociale". Prima che tu giunga sulla vetta, vedrai sorgere più volte, il sole, che ora già si nasconde dietro la costa del monte, cosicché tu non interrompi più i suoi raggi (proiettando la tua ombra). Ma vedi là quell'anima che sta tutta sola e che guarda insistentemente verso di noi: essa ci mostrerà la via più breve ». Quella che appare è l'anima di Sordello da Goito (nel Mantovano), nato da una famiglia di nobìltà campagnola all'inizio del '200. Fu il più famoso fra i trovatori italiani e Dante nel De Vulgari Eloquentia (I, XV, 2) loda grandemente la sua poesia. Dapprima visse alla corte di Riccardo di San Bonifacio, signore di Verona, la cui moglie, Cunizza da Romano, celebrò nei suoi versi. Tra il 1224-1226 rapì o favorì la fuga di Cunizza dalla casa del marito, e fu costretto a riparare nella Marca Trivigiana; ma dovette ben presto, in seguito, ad altre non chiare vicende, rifugiarsi alla corte di Raimondo Berlinghieri, in Provenza. Passò poi al servizio di Carlo d'Angiò, seguendolo nella spedizione in Italia contro Manfredi e ricevendo in feudo alcune località dell'Abruzzo. Morì intorno al 1270. Uno dei motivi principali per cui Dante lo ha scelto come protagonista dell'episodio che si apre, è da vedersi in due componimenti poetici di Sordello, il Compianto per la morte di ser Blacatz, in cui sottopone a severo e spregiudicato giudizio i re e i principi del suo tempo, e il poemetto Ensenhamen d'onor, nel quale rimprovera quei ricchi e quei potenti che si sono allontanati dalle leggi di cortesia e di virtù proprie

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del mondo cavalleresco. A buon diritto perciò, isolata dalle altre anime della "valletta fiorita", la sua figura in questo canto può offrire l'occasione di criticare il disordine politico del mondo e nel canto successivo la sua voce può indicare e giudicare i potenti della terra. Ci avviammo verso di lei: o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi! Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo attento come un leone quando si riposa. Soltanto Virgilio le si avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore per salire; ed essa non rispose alla sua domanda,ma chiese notizie sulla nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia dolce guida cominciava a dire: « Mantova ... », quell'ombra, tutta solitaria e raccolta in se stessa, si levò dal luogo dove stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: « O mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra! »; e si abbracciavano l'un l'altro. Tutta la critica romantica ha visto in Sordello la figura stessa dell'Alighieri, ardente di amor di patria, cercando nell'atteggiamento e nel gesto del trovatore mantovano l'atteggiamento e il gesto del Poeta fiorentino. Ma se grande fu la simpatia "che Dante, poeta ed esule, errabondo di corte in corte, dovette sentire per questo poeta, protagonista di una fortunosa vicenda biografica, uomo di corte e pur ardito giudice di re e principi" (Mattalia), evidenziare i punti di contatto non significa dimenticare la sapientissima costruzione poetica della sua figura. La solitudine e il silenzio del paesaggio al tramonto - secondo l'osservazione del Momigliano - si legano con la solitudine e il silenzio di Sordello, accrescendone la solennità, avvertendo che la vita del personaggio procede tutta da una concentrazione spirituale, da una tensione (o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa), la quale, chiude nell'intimo questa immagine statuaria "più sbozzata forse che accuratamente scolpita" (Novati) e che rivelerà la sua violenza nel gesto improvviso, animando esteriormente il suo dramma. Il Croce ha definito Sordello il Farinata del Purgatorio, puntualizzando la stessa imponenza fisica e la stessa grandezza morale e politica, ma "in Farinata non c'è raccoglimento bensì un imporsi per mezzo di sentimenti umani violenti, e un proceder per spigoli del discorso e un intervallar frequente di pause... qui è una solennità pacata che irradia una luce la quale ha in sé una forza nascosta d'attrazione; la poesia di Sordello si scioglie in un impeto di calore affettivo, il quale è il termine di quella sua chiusa interiorità che l'ha fatta maestosa. Per questo il moto espressivo ha una caratteristica apertura, ed entro questo tono il canto si sviluppa nell'invettiva all'Italia, che è oratoria retta da sostenutezza sentimentale ed espressiva" (Malagoli). Ahi, schiava Italia, albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di turpitudine! Quell'anima nobile lì, nel purgatorio, fu così pronta a far festa al suo concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome della sua terra;

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mentre ora dentro i tuoi confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una stessa città) si dilaniano l'un l'altro. Guardati, infelice, intorno cominciando dalle coste del mare che ti circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda pace. Termini pregnanti di significato politico o giuridico e metafore di larga analogia, espressioni di pacata dolcezza e immagini di aspra violenza contraddistinguono la prima parte dell'invettiva, che secondo il Gentile si svolge in quattro motivi: "apostrofe all'Italia lacerata dalle fazioni, dimentica delle sacre leggi pacificatrici dell'Impero (versi 76-96); apostrofe all'imperatore tedesco distratto, immemore, negligente del suo divino mandato (versi 97-117); invocazione di Dio, che solo conosce le ragioni e i fini del disordine politico e sociale che permette (versi 118-126); invettiva ferocemente sarcastica contro Firenze: la grande inferma (versi 127-151)". L'aggettivo serva richiama molteplici passi della Monarchia, dove il concetto di servitù, nel campo morale, è legato al peccato, nel campo politico, alla mancanza di leggi, essendo veramente libero solo chi vive secondo la legge morale e politica. Già nel Convivio (IV, IV, 5) la nave è figura della comunità, dello Stato, in cui un potere supremo unifica le funzioni e le suddivisioni dei singoli, mentre in una glossa del COrpus luris Civilis (la famosa raccolta di leggi fatta fare da Giustiniano) l'Italia viene chiamata "non provincia sed dornina provinciarum, non semplice provincia, ma prima fra tutte le province. Dopo il primo furore biblico, lo sguardo del Poeta ritorna al gruppo di Virgilio e di Sordello, uniti dal vincolo dell'amor di patria anche nell'oltretomba, mentre in Italia ogni comunità civile si è sfaldata, effetto ultimo e più grave del disordine politico che dilaga nella penisola. Balza evidente da questa requisitoria "la idea e il sentimento di patria, come elemento primo e assoluto di fusione o di conciliazione o di caldi incontri, al di sopra di ogni distinzione e considerazione. A Farinata Dante, per il convegno di Empoli, ha perdonato in parte Montaperti, pesando sulla giusta bilancia il bene e il male, ma non ha forse dimenticato di esserne stato accolto col moto sopraccillare di nobilesco disdegno proprio di chi ama segnare, socialmente e politicamente, le distanze. Si può osservare che l'esempio offerto da Virgilio e Sordello è di amor patrio regionale o municipale, non nazionale, come amarono vedere gli interpreti dell'Ottocento: la requisitoria di Dante, in effetti, che per questo riprende e inquadra in una prospettiva più ampia il motivo politico del VI canto dell'Inferno, (dramma di Firenze), corre sul binario-motivo del disordine generale dovuto alla carenza dell'autorità imperiale, estesosi fino ad alterare e dissociare le fibre delle collettività comunali, E dall'indicazione delle cause generali (carenza dell'autorità imperiale degradazione, apportatrice di confusione, del magistero spirituale della Chiesa) la spietata e dura diagnosi procede, esemplificando, fino a concludersi con l'amaro-sardonico elogio dì Firenze, esempio quintessenziale di feroce lacerazione e di instabilità politica. Altro e diretto punto di raccordo col VI dell'Inferno" (Mattalia). A che è servito che Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere civile (con le leggi) se ora non hai in sella l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia).

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Ahi, gente di Chiesa, che dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha prescritto, osserva come questa cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da quando hai preso in mano la sua briglia. La missione che Dante si è proposto è una missione di salvezza spirituale e insieme di salvezza terrena, essendo la prima, nel suo pensiero, legata alla seconda, cioè alla efficiente ricostituzione dell'impero, che, solo, può garantire all'umanità la pace e la giustizia di cui essa ha bisogno al fine di conseguire la felicità temporale: questa, eliminando ogni odio e divisione e aiutando l'uomo ad esplicare le sue virtù, crea le premesse della felicità eterna. Giustiniano (imperatore d'Oriente dal 527 al 565), riordinando il diritto romano nel suo Corpus Iuris (base di tutta la dottrina giuridica del medioevo), e costituendolo fondamento di ogni vivere civile, aveva voluto essere "lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!" (Convivio IV, IX, 10). Quello, però, che ha concorso grandemente alla rovina dell'autorità imperiale è stato l'intervento in campo temporale della Chiesa, che ha violato l'ordine esplicito di Cristo (Matteo XXII, 21; Giovanni XVIII, 36). O Alberto d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni, scenda dal cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo successore ne concepisca timore! Perché tu e il padre tuo, tutti presi dalla cupidigia degli interessi della Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino dell'impero, fosse devastata. Alberto I d'Asburgo fu imperatore dal 1298 al 1308 e assorbito, come un tempo il padre Rodolfo I, dalle preoccupazioni del regno tedesco, trascurò la situazione politica italiana, sempre più complessa e caotica. Su di loro il Poeta invoca la vendetta divina che, nell'interpretazione della maggior parte dei commentatori, si sarebbe abbattuta con la morte precoce di Rodolfo, figlio primogenito di Alberto (giugno 1307) e con la morte dello stesso Alberto (ucciso nel giugno 1308), il cui successore fu Arrigo VII. Vieni a vedere, o uomo senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di timore! Vieni, o uomo crudele, vieni a vedere le umiliazioni e le dìfficoltà della tua nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai Santafiora come è tranquilla! Vieni a vedere la tua Roma che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e notte invoca: « 0 mio

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re, perché mi abbandoni? ». Vieni a vedere come la gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun sentimento di pietà verso di noi che ti possa commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito (che ti sei procurato con il tuo disinteresse). Dante presenta in sintesi la situazione di colei che dovrebbe essere, in quanto culla della civiltà romana e sede della cattedra di Pietro, il giardin dell'Europa. Non si sa se il Poeta indichi in questi versi famiglie della stessa città in lotta fra loro o famiglie ghibelline di città diverse. Secondo le ultime ricerche storiche, tuttavia, il nome di Montecchi e di Cappelletti indicava nel '300 non le due famiglie veronesi nemiche, ma il partito imperiale e quello ante imperiale, il primo già battuto, il secondo ormai incapace di dominare i signori delle diverse città. Mentre questa è la situazione nell'Italia settentrionale, nell'Italia centrale, a Orvieto, ferve la lotta fra i Monaldi guelfi e i Filippeschi ghibellini, ormai prossimi alla rovina, che ha già fatto scomparire, di fronte all'incalzare dei Comuni. tutte le famiglie che reggevano feudi imperiali (versi 109-110), fra le quali anche gli Aldobrandeschi, signori di Santafiora, nella zona di Monte Amiata. La degradazione dell'Italia è totale e trascina con sé anche, Roma, la città imperiale,, la cui immagine di desolazione e di abbandono richiama un versetto delle Lamentazioni di Geremia (I, 1) sulla distruzione di Gerusalemme. O Cristo che sulla terra fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove? Oppure nell'abisso della tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di qualche bene totalmente inaccessibile al nostro intelletto? Poiché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di Cesare). Tu Firenze mia, puoi proprio esser lieta di questa digressione che non ti sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo bene. All'indignazione e al pathos sottentrano nuovamente l'ironia e il sarcasmo; come se, toccando di Firenze e accostandosi alla ragione più intima e segreta della sua pena, il Poeta si sforzasse di allontanare da sé ogni impulso di compassione e dì giustificazione; ma alla fine la pietà, lungamente trattenuta, prevale e l'invettiva torna a risolversi in elegia." (Sapegno) Molti (in altre città) hanno in cuore il senso della giustizia, eppure lentamente si manifesta, per non essere espresso sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la giustizia sulle labbra. Molti (altrove) rifiutano le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere chiamato risponde

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sollecito, grìdando: « Io sono pronto ad accettare il grave peso delle cariche!» Ora rallegrati, perché ne hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo. Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata, riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un insignificante tentativo in confronto di te che decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di novembre. Quante volte, in questi ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini! E se ti ricordi bene e non sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno giacendo sulle piume, e voltandosi e rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo al suo dolore.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO VII

Dopo che le accoglienze cortesi e gioiose furono ripetute più volte, Sordello si tirò indietro, e chiese: « Ma voi, chi siete? » « Prima che le anime degne della salvezza (di salire a Dio: in quanto riscattate dalla morte di Cristo) fossero avviate a questo monte, io morii e fui sepolto per ordine di Ottaviano. Sono Virgilio; e per nessun'altra colpa fui escluso dal cielo che per non aver avuto la fede in Cristo. » In questo modo rispose allora la mia guida. Come colui che vede improvvisamente dinanzi a sé una cosa che desta in lui stupore, e non sa se credervi o no e dice: « E'... non è... », così parve Sordello; quindi abbassò gli occhi, e tornò in atteggiamento umile verso Virgilio, e l'abbracciò là dove l'inferiore abbraccia chi gli è superiore ("dal petto in giù", secondo l'Anonimo Fiorentino). La concitazione che aveva fatto vibrare nei toni dell'apostrofe e del sarcasmo la seconda parte del canto sesto si smorza improvvisamente, allorché lo sguardo del Poeta torna a posarsi sul fraterno gruppo di Sordello e Virgilio, mentre il ritmo del verso, non più sostenuto dal movimento passionale dell'invettiva, riacquista una pacatezza di accenti, velata di commozione, che preannunzia i tre momenti successivi, la dolente spiegazione di Virgilio (versi 22-36), la descrizione, secondo i motivi stilnovistìci, della "valletta fiorita" (versi 73-81), la rassegna dei principi (versi 88-136). L'atteggiamento di Sordello, in queste prime terzine, è ancora ricco di quello slancio di affetto che, interrompendo la sua immobilità, lo ha spinto verso il suo concittadino (canto VI, versi 73-75), anche se subentra un momento di riflessione (si trasse, e disse: « Voi, chi siete? »), durante il quale però mai rivolge attenzione a Dante, non accorgendosi, per il momento, che è ancora vivo, tutto preso ancora da quel sentimento di amore patrio, che percorrerà, sia pure in forme più moderate, anche il canto VII. Disse: « O gloria di tutti gli Italiani per mezzo del quale la nostra lingua (nostra perché ancora usata come strumento culturale) mostrò tutta la sua potenza espressiva, o pregio eterno della regione mantovana dov'io nacqui, quale merito mio o quale grazia divina permette che io ti possa vedere? Se io sono degno di udire le tùe parole, dimmi se vieni dall'inferno, e da quale cerchio ».

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Tessuta di eloquenza e vagamente retorica appare l'espressione con la quale Sordello si rivolge a Virgilio, ma in accordo con la dignità e alterezza che ne avevano caratterizzato l'apparizione e che ne sorreggeranno la figura, allorché si assumerà il compito di indicare e giudicare i principi. Ad una lettura attenta a cogliere il significato di cui Dante arricchisce le zone di passaggio fra momenti poetici particolarmente importanti, non sfugge l'ampliarsi di dimensioni della figura di Virgilio, attraverso le parole di Sordello che poetò in provenzale (o gloria de' Latin... per cui mostrò ciò che potea la lingua nostra): "Dove a chi ripensi a quanto Dante aveva già scritto nel Convivio sulla dignità del volgare come lingua capace di esprimere qualsiasi più alto concetto, il «potere» della lingua latina, in Virgilio non è certo un « potere » soltanto retorico, bensì sapienziale: tutto ciò che poteva essere espresso dal latino precristiano, cioè dalla lingua che Dante ritiene, nell'ordine naturale, relativamente perfetta, fu da Virgilio espresso. Il « tutto » evidentemente non si riferisce alla estensione quantitativa, bensì alla intensità qualitativa: Virgilio ha detto le cose più alte che era possibile dire nell'ordine naturale(Montanari). Giusta glorificazione nel momento in cui Virgilio affida se stesso e il suo discepolo alla guida di Sordello. Virgilio gli rispose: « Passando attraverso tutti i cerchi del mondo della dannazione sono giunto in purgatorio: una forza celeste mi ha mosso, e vengo assistito da questa. Non per aver commesso qualche colpa, ma per non aver avuto la vera fede ho perduto la possibilità di vedere Dio che tu desideri contemplare e che da me fu conosciuto troppo tardi (dopo la morte). Nell'inferno vi è un luogo non rattristato da tormenti veri e propri, ma solo dalle tenebre, dove i lamenti delle anime non risuonano con acute grida, ma solo con sospiri. Là io sono confinato insieme ai bambini innocenti sorpresi dalla morte prima d'essere lavati (che fosser... essenti: con il battesimo) dalla macchia del peccato originale (dall'umana colpa); là mi trovo con coloro che non si rivestirono delle tre sante virtù (quelle teologali), ma conobbero e praticarono tutte le altre (le virtù cardinali), senza commettere alcuna colpa vera e propria. Ma se tu conosci il cammino e ti è permesso indicarlo, donaci qualche spiegazione per cui possiamo più celermente giungere là dove ha veramente inizio il purgatorio ». Virgilio ripete intorno al limbo, quanto aveva già detto a Dante nell'Inferno (canto IV, 33-42): la lunga digressione non è giustificata da alcun motivo didascalico, né era richiesta dalla breve domanda di Sordello (dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra). Tuttavia essa si sviluppa in profonda unità con le parole pronunciate dal poeta latino nel terzo canto (versi 40-44), a chiusura di un momento di profondo turbamento, che, nato dalla mesta meditazione intorno al corpo lontano, si era trasformato nel rimpianto per l'eterna condanna di tutto il suo mondo, e si era chiuso nella visione della nobile e dolorosa comunione degli « spiriti magni » esclusa dalla superiore comunione della rivelazione cristiana. E' un richiamo continuo di motivi in uno svolgimento per gradi e con vario intreccio che dimostra la validità di questo giudizio del Momigliano: nel Purgatorio "la costruzione non è più soltanto sorretta da motivi

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geometrici, logici, concettuali [come nell'Inferno], ma anche da motivi di sentimento e da un'insolita continuità di azioni. Le quali sono costituite dalle scene dell'antipurgatorio, da quelle del purgatorio e da quelle del paradiso terrestre, diverse fra di loro per scenario e per stati d'animo", essendo esso "concepito prevalentemente per ambienti, per stati d'animo". Nella misura in cui il discepolo avanza nella purificazione e diminuiscono le possibilità di guida da parte di Virgilio, bisognoso anch'egli di consiglio in un mondo che non conosce, la figura del poeta latino, al quale Dante consacrerà la seconda esaltazione nell'incontro con Stazio, si chiude in una dolente elegia fatta di insistenti richiami al castello degli spiriti grandi. Rispose: « Non ci è imposto di stare in un luogo fisso; mi è permesso salire e girare intorno al monte; finché potrò salire, ti accompagnerò per farti da guida. Le parole di Sordello, loco certo non c'è posto, che riecheggiano quelle pronunziate da un personaggio virgiliano nei campi Elisi (Eneide canto VI, verso 673), indicano probabilmente che tutte le anime dell'antipurgatorio possono salire lungo le prime balze del monte senza, naturalmente, oltrepassare la porta del vero purgatorio. Dante pone Sordello fra coloro che si pentirono solo alla fine della vita, presentandolo lontano dal gruppo dei negligenti e altrettanto isolato rispetto alle anime della "valletta fiorita". Determinare a quale schiera egli appartenga, non è problema di facile soluzione, anche se deve essere scartata la posizione di alcuni critici che, accettando la notizia di un antico commentatore, Benvenuto da Imola, secondo la quale Sordello fu fatto uccidere da Ezzelino da Romano, a causa della sua relazione con Cunizza, sorella di Ezzelino, pongono il trovatore mantovano fra i morti violentemente. Secondo il D'Ancona Dante isola Sordello intendendo in tal modo "separare e distinguere il fiero mantovano dai suoi consorti, facendolo poi rientrare nella valletta, come in sua propria dimora, protagonista dell'episodio che segue, o perché principe anch'esso... o almeno quale frequentatore di corti, come ci è ricordato dalla storia, o meglio, qual giudice, anche in vita, di azioni e costumi principeschi". Però vedi come già il giorno declina, e non è possibile salire di notte; perciò è opportuno pensare a trovare un luogo piacevole (bel soggiorno, dove trascorrere il tempo notturno). Da questa parte a destra vi sono delle anime appartate: se non ti dispiace, io ti condurrò presso di esse, e con gioia le conoscerai ». Virgilio rispose chiedendo: « Com'è questa legge? Colui che volesse salire di notte, sarebbe impedito da qualche forza esterna, oppure non salirebbe per il fatto di non aver in sé la forza necessaria ? » E il nobile Sordello tracciò col dito una linea in terra, dicendo: « Vedi? neppure questa linea varcheresti dopo il tramonto del sole; non perché al salire sia d'impedimento nessun'altra cosa se non la tenebra notturna: questa togliendo la possibilità impaccia la volontà.

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Certamente durante la notte, finché l'orizzonte chiude sotto di sé la luce del giorno, si potrebbe scendere in basso e vagare camminando intorno alla costa del monte ». Significato totalmente allegorico riveste il divieto di salire il monte dopo il tramonto del sole: senza la luce della grazia divina (il sole), non è possibile progredire nella via della purificazione. E' la ripetizione di un insegnamento evangelico: "Camminate mentre avete luce ... ; perché chi cammina nel buio, non sa dove va" (Giovanni XII, 35), ma, essendo le immagini della luce e della tenebra continuamente ricorrenti nella liturgia, la terzina costituisce anche un richiamo al tema liturgico che il Poeta approfondirà nel canto della « Salve, Regina » (verso 82), la preghiera che i fedeli innalzano a Maria dopo i vespri ad invocare il suo aiuto nei dolori della vita, per diventare degni di vedere Cristo. La Chiesa penitente compie la sua purificazione seguendo gli stessi riti, innalzando le stesse preghiere della Chiesa militante, continuando lo stesso movimento d'ascesa iniziato sulla terra come Chiesa militante. A questo punto la mia guida, con l'aspetto di uno che si meraviglia, disse: « Guidaci dunque al luogo ove affermi che possiamo trovare una dimora piacevole ». Ci eravamo di poco allontanati di lì, quand'io mi accorsi che il monte era incavato, allo stesso modo che i valloni incavano i fianchi dei monti sulla terra. Sordello disse: « Andremo là dove la costa si avvalla; ed ivi attenderemo l'alba del nuovo giorno ». C'era un sentiero obliquo né ripido né piano, che ci condusse alla parete laterale dell'avvallamento, in un punto dove il suo orlo si abbassa di più della metà (dell'altezza che esso ha nella parte superiore). Il colore dell'oro e dell'argento puro, il rosso della porpora e il bianco della biacca, il turchino dell'indaco, il riflesso del legno levigato e terso, e il verde vivo dello smeraldo nel momento in cui si spezza, collocati in quella valletta sarebbero stati vinti nella purezza del colore da quell'erba e da quei fiori, come il meno è vinto dal più. La natura colà non solo aveva sparso i suoi colori, ma vi diffondeva un profumo sconosciuto e ineffabile composto di mille soavi odori. Descrivendo il luogo in cui si trovano i principi che, troppo occupati da interessi terreni, si ricordarono tardi della loro salvezza, il Poeta opera un'improvvisa apertura - nel paesaggio aspro e difficile delle falde del monte - su una natura dolcestilnovistica, nella quale la raffinatezza fastosa dei colori ("nell'aria della sera incipiente, il fondo della valletta appariva smaltato di colori di un'intensità vivissima, vergine, quasi primeva, com'è dei colori fondamentali o dei metalli o pietre o legni che, di un colore, danno il maximum", secondo il Mattalia), se viene presentata attraverso una precisa enumerazione, che sembra limitare rigidamente quella visione, si stempera infine, unita alla soavità di mille odori, in qualcosa di

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incognito e indistinto, nel quale l'anima sembra smarrirsi. Con questo sentimento ricco e luminoso della natura Dante giunge alla "rappresentazione del soprannaturale attraverso la dilatazione della rappresentazione degli elementi umani; la terra è trasportata in cielo; ma in questo far uscire il divino dal terreno in una poesia splendida Dante è guidato da un senso di misura che modera i colori, anche quando pare che li accentui" (Malagoli). Il Poeta, nel creare la "valletta fiorita", ha presente il passo virgiliano in cui si descrive nel mondo dell'oltretomha l'Eliso (Eneide canto VI, versi 679 sgg.), ma egli le conferisce anche un significato allegorico. che un antico commentatore, il Landino, cosi spiega: "né è sanza cagione che tal valle sia vestita di verdissime erbe e di fiori bellissimi all'aspetto e suavissimi all'odore, perché gli onori, le dignità, gli stati e le signorie sono simili all'erbe e ai fiori, imperò che, come quegli dilettono el senso, ma presto appassono e secconsi, così tale stato arreca gran dilettazione agli uomini ne' quali può più la sensualità che la ragione, ma presto passa". Dante isola dalle altre le anime dei re e dei principi della terra in omaggio al concetto medievale di autorità, che vedeva il potere di quei re e di quei principi provenire direttamente da Dio, considerandoli anzi ministri della divina potenza. La "valletta fiorita" è la trasposizione nel purgatorio, su un piano di maggiore spiritualizzazione, del castello degli « spiriti magni » del limbo (non a caso Dante lo ha ricordato poco prima attraverso le parole di Virgilio), come esaltazione dell'umana virtù intensamente spiegata nel mondo, ma mancante, nell'un caso e nell'altro, della coscienza del limite ad essa posto. Quanto più alto, infatti, era il compito di questi potenti in terra, tanto più gravemente erano impegnate tutte le virtù e tutta la forza del loro animo per conseguire la giustizia e la pace; per questo "i tiranni son posti a bollire nel lago di bollor vermiglio, e molti che si tengono, nel loro orgoglio, gran regi staranno poi nell'inferno come porci in brago. Ma l'ufficio ad essi commesso, quando fosse, in tutto o in parte, rettamente esercitato, bastava nel giudizio di Dante a sollevarli sopra il volgo degli uomini, sicché nella seconda vita, di purgazione o di gloria, splende ancora sul loro capo un raggio di sovrana dignità. Anche nella luce del paradiso... lo spirito della gran Gostanza imperatrice, si accende di tutto il lume della prima sfera; e sopra quello di Giustiniano si addua un doppio lume, della gloria terrena nel diritto e nelle armi, e della celeste: e così pure nella spera del sole, la luce più bella è quella del re Salomone. Più su, nell'empireo, v'ha una sedia trionfale, una sola, vuota ma aspettante chi l'occupi: un gran seggio, ov'è su posta la corona imperiale, e che è riserbato all'alto Arrigo. Medesimamente, qui nel purgatorio, l'uguaglianza fra i nudi spiriti è violata e rotta in favore dei reggitori d'uomini e di terre, segregati dagli altri negligenti in una insenatura della costa: privilegio che è insieme ossequio ed ammonimento, dacché Arrigo d'Inghilterra potrebbe stare dove abbiam visto Belacqua, e il re di Boemia non lungi dal Buonconte" (D'Ancona). Mentre però le anime degli altri negligenti sono ormai libere da ogni tentazione, quelle della "valletta fiorita" devono ancora lottare contro di essa (canto VIII, versi 22 sgg.), che continua, anche nel mondo penitenziaIe, a sottoporli alle lusinghe della vita: "Il previlegio di esser posti in disparte dal volgo, è temperato dal sottostare, essi soli, alle rinnovate insidie del nemico, che gli altri invece ormai non paventano"(D'Ancona). La prospettiva in cui va considerata la "valletta", la quale racchiude, nascondendoli alla vista, i principi, che Sordello stando sul balzo sottopone al suo severo giudizio, non può prescindere perciò dal sentimento d'umiltà (il canto stesso della « Salve, Regina » è il canto dell'esilio, che sottolinea la vanità

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del mondo, contrapponendo ai beni terreni la visione dei futuri beni celesti) : ne è anzi l'elogio più determinato, provenendo da anime che - isolate dalle altre in omaggio ad un costume di pensiero e di vita terreno - nella solitudine e nel raccoglimento acquistano una consapevolezza più intensa del male commesso, che ha coinvolto non solo la loro persona, ma la vita di interi popoli. In loro, più che nelle altre anime dell'antipurgatorio, la terra ha una presenza continua nel rimorso di una missione universale non compiuta. Sul verde e sui fiori da lì vidi anime che sedevano cantando « Salve, Regina », le quali a causa dell'avvallamento non apparivano dal di fuori. « Prima che tramonti ormai il poco sole rimasto, non vogliate che io vi porti in mezzo a costoro » cominciò il mantovano Sordello che ci aveva condotti fin là. « Da questo balzo voi potrete osservare l'atteggiamento e l'aspetto di tutti questi spiriti, meglio che giù nella valle mescolandovi a loro. La rassegna dei principi, che non è "esaltazione, ma atto di giustizia, severo e, in qualche punto, pungente bilancio del bene e del male" (Mattalia), presenta, secondo il D'Ancona, una "gran pagina di storia del mondo contemporaneo o di poco anteriore", e benché sia evidente nel Poeta lo sforzo di conservare il tono solenne, profeticamente impegnato, dell'invettiva all'Italia, si avverte una diminuita, tensione, che da alcuni critici è stata considerata uno scadimento nella cronaca, che, in quanto direttamente legata alla realtà, non può diventare oggetto di trasfigurazione nella fantasia del Poeta. Tuttavia, il valore significante di questo episodio è nella sua spiritualità profonda, per cui, anche se l'imperatore Rodolfo conserva la sua dignità su tutti e Guglielmo chiude la rassegna perché inferiore a tutti gli altri per potenza, "tutti s'accordano nel severo senso della propria missione e sono congiunti da una fraternità spirituale che - nel canto religioso (verso 82) e negli occhi volti verso il Cielo - si manifesta pure come elevazione verso Dio: in una fusione di sentimenti in cui il Poeta sembra vagheggiare quell'armonia di principi, che invano sognava di veder attuata in terra sotto il segno dell'Impero... Tra non poche e talora complesse allusioni storiche, notiamo tuttavia qualche tocco che illumina qua e là un tratto fisico o spirituale - si ricordi soprattutto il dolente atteggiamento del padre e del suocero di Filippo il Bello (versi 103 sgg.) - e notiamo osservazioni piene di verità umana (versi 121 sgg.), nonché l'alto clima morale in cui è sentita la missione dei principi e sono guardati i mali derivanti dalla loro negligenza o inettitudine... Povera di rilievo nei singoli particolari, questa rassegna ha tuttavia una sua vita per la suggestiva cornice della valletta, per l'aura pensosa che aleggia su tante ombre fraternamente assorte tra gravi cure della terra e desiderio del Cielo: in un clima di passioni che, mentre in parte riecheggiano quelle dell'apostrofe all'Italia (canto VI, versi 76 sgg.), si smorzano sullo sfondo di una religiosa elevazione balenante come un mistico contrappunto a tutta la scena" (Grabher). Colui che siede sovrastando gli altri principi e mostra nel suo atteggiamento d'aver trascurato il proprio dovere (di scendere in Italia), e che non partecipa al canto come gli altri,

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fu l'imperatore Rodolfo, il quale poteva sanare le piaghe che hanno distrutto l'Italia, cosicché troppo tardi per opera di un altro si tenterà di farla risorgere. Rodolfo d'Asburgo, che Dante ha già colpito col suo biasimo nel canto precedente (versi 103-105) insieme al figlio Alberto, fu imperatore dal 1273 al 1291; di lui il Villani dice: "questo re Ridolfo fu di grande affare e magnanimo e pro' in arme e bene avventuroso in battaglie" (Cronaca VII, 55). La sua trascuratezza di fronte alla situazione italiana renderà vano ogni sforzo dei suoi successori per risanarla. E' nel giusto il Sapegno, il quale ritiene che il verso 96 alluda in modo indeterminato ai successori, mentre la maggior parte dei critici vi vede un riferimento alla discesa in Italia di Arrìgo VII, concludendo che questi versi sono stati scritti dopo il fallimento della sua impresa. cioè dopo il 1310, mentre il Poeta vi fa riferimento con fiducia e con speranza nel canto XXXIII del Purgatorio, versi 37-51. Quell'altro, che nell'aspetto mostra di confortarlo, fu re nella terra (la Boemia) dove nascono le acque che la Moldava porta all'Elba, e l'Elba al mare: si chiamò Ottocaro, e fin da bambino superò di gran lunga suo figlio Venceslao che ora, nell'età virile, vive completamente immerso nella lussuria e nell'ozio. Ottocaro Il, eletto re di Boemia nel 1253, mori nel 1278 combattendo contro Rodolfo, di cui fu acerrimo nemico, mentre ora ne conforta l'austero dolore. Il figlio Venceslao IV regnò fino al 1305 e fu "dappoco uomo, vile e rimesso" (Anonimo Fiorentino). E quello dal piccolissimo naso, che sembra in segreto colloquio con quell'altro che ha un aspetto così mite, morì fuggendo e facendo sfiorire nel disonore il giglio (insegna della casa reale di Francia erano, infatti, tre gigli d'oro in campo azzurro). osservate là come si batte il petto! Guardate invece l'altro che ha appoggiato la guancia sulla palma della mano, sospirando malinconicamente. Sono il padre e il suocero del disonore di Francia (Filippo il Bello) : conoscono la sua vita piena di vizi e vergognosa, e da qui nasce il dolore che così profondamente li trafigge. Quel Nasetto è Filippo III l'Ardito, che fu re di Francia dal 1270 al 1285 (quando morì a Perpignano) e fu "nasello, imperò che ebbe piccolo naso"(Buti). Combatté contro Pietro III di Aragona per il possesso della Sicilia, e, dopo la sconfitta della sua flotta ad opera dell'ammiraglio Ruggero di Lauria, "sbigottito, quasi come rotto si partì, e venendo per quelle montagne di Raona, per dolore e per affanno morì"(Anonimo Fiorentino). L'altro vedete è Enrico il Grasso, che regnò sulla Navarra dal 1270 al 1274. Il primo fu padre, il secondo suocero di Filippo IV il Bello, che Dante già colpì nell'Inferno (canto XIX, verso 87) e sul quale altre volte si abbatterà il suo biasimo (Purgatorio XX, 85 sgg.; XXXII, 151 sgg.; Paradiso XIX, 118 sgg.).

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Quello che appare così nerboruto e che canta in perfetto accordo con l'altro dal gran naso, fu rivestito e ornato da ogni virtù; e se gli fosse successo nel regno il giovinetto che qui siede dietro a lui, il retaggio della virtù si sarebbe egregiamente trasmesso di padre in figlio, mentre questo non si può affermare degli altri eredi: Giacomo e Federigo hanno ora i regni; ma nessuno dei due ha preso il meglio dell'eredità paterna (del retaggio miglior, cioè la virtù). Quel che par sì membruto è Pietro III d'Aragona, re dal 1276 al 1285, "Io quale lo bello e membruto de soa persona, e savio e virtuoso" (Lana). Combatté a causa della Sicilia contro Carlo I d'Angiò, con il quale ora s'accorda, cantando, entrambi dimentichi, in questo luogo di penitenza, delle discordie del mondo. Carlo I d'Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII, fu re di Napoli dopo il 1266. Morì nel 1285, e nonostante Dante condanni la sua politica (Paradiso VIII, 73-75) e lo accusi dell'uccisione di Corradino di Svevia e del supposto assassinio di San Tommaso (Purgatorio XX, 67-69), lo salva perché morì cristianamente (cfr. il Villani nella sua Cronaca VII, 95). Lo giovanetto sarebbe secondo alcuni Alfonso III, che successe al padre nel 1285 nel regno d'Aragona, ma più giustamente altri commentatori ritengono che qui Dante alluda a Pietro, ultimogenito di Pietro III, il quale morì giovanissimo prima del padre, mentre Alfonso divenne effettivamente re, lasciando una triste fama. Ora invece l'eredità di Pietro è in mano al figlio Giacomo Il, re di Sicilia dal 1286 e, dopo la morte di Alfonso, re di Aragona dal 1291, e all'altro figlio Federigo Il, che divenne re di Sicilia nel 1296. Raramente la virtù dei padri ricompare nei figli; e questo è voluto da Dio che la dà, affinché la si riconosca derivata da Lui (da lui: e non ricevuta per eredità). Anche a Carlo d'Angiò, il Nasuto, sono dirette le mie parole, non meno che all'altro che canta con lui, Pietro, per la quale degenerazione la Puglia e la Provenza già si dolgono. La pianta (cioè il figlio Carlo II) è tanto inferiore al suo seme (cioè al padre Carlo I), quanto Costanza (vedova di Pietro III d'Aragona) ha motivo di vantarsi ancora di suo marito più di quanto abbiano motivo di vantarsi del loro Beatrice di Provenza e Margherita di Borgogna (prima e seconda moglie di Carlo I d'Angiò). Dante vuole rivolgere le sue parole in torno ai discendenti degeneri non solo a Pietro III, ma anche a Carlo d'Angiò, perché la Puglia (il regno di Napoli) e la Provenza si dolgono per il malgoverno del figlio Carlo II, detto lo Zoppo, che è inferiore al padre, quanto questo, per meriti, lo è nei confronti di Pietro d'Aragona. Osservate invece là come siede appartato il re dalla vita semplice, Enrico d'Inghilterra: egli ha nei suoi discendenti un esito migliore.

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Arrigo III, re d'Inghilterra, morto nel 1272, fu figlio di Giovanni Senzaterra. Uomo "semplice... e di buona fè e di poco valore" secondo il Villani (Cronaca V, 4), fu da Sordello accusato di viltà nel Compianto. Dante lo definisce re della semplice vita, dove semplice può significare « sciocca » oppure « modesta», come ritenevano gli antichi commentatori: il suo isolamento non sarebbe altro che un riflesso di quella sua semplice vita. Tuttavia fu più fortunato nei suoi discendenti, perché il figlio Edoardo I (re d'Inghilterra dal 1272 al 1307) fu "buono e valente re" (Villani - Cronaca VIII, 90). Quello fra loro che sta seduto più in basso, con lo sguardo rivolta verso il cielo, è il marchese Guglielmo, a causa del quale Alessandria e la sua guerra portano desolazione e pianto nel Monferrato e nel Canavese. » Guglielmo VII, detto Spadalunga, marchese di Monferrato dal 1254 al 1292, fu vicario imperiale e come capo dei Ghibellini combatté contro i Comuni guelfi. Nel 1290 i cittadini di Alessandría, istigati da quelli di Asti, si ribellarono e lo fecero prigioniero, chiudendolo in una gabbia di ferro, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1292. Il figlio Giovanni I, per vendicarlo, assalì la città di Alessandria, scatenando una lunga guerra che sparse la desolazione nelle regioni del Monferrato e del Canavese.

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO VIII

Era ormai l'ora (l'ultima della sera) che fa tornare un senso di nostalgia nel cuore dei naviganti e ne riempie l'animo di commozione ricordando il giorno nel quale hanno detto addio alle persone care; era l'ora che fa sentire più struggente l'amore al pellegrino che ha appena abbandonato la sua terra, mentre ode il suono lontano d'una campana che sembra piangere il giorno che muore, quando io cominciai a non udire più la voce di Sordello e il canto dei principi e cominciai a fissare una delle anime che, levatasi in piedi, chiedeva con un cenno della mano che tutte l'ascoltassero. Quasi a creare l'atmosfera affettiva degli incontri che caratterizzeranno il canto, la rappresentazione si apre con un preludio di toccante malinconia, nel quale la musicalità del ritmo, con gli affetti immediati che sommuove, dà pienezza perfetta e congruente alla rappresentazione del momento lirico. Sta per compiersi la prima giornata del pellegrino nel secondo regno, preannunciata dalla nitida aurora, arricchita via via da profondi motivi consolatori, che hanno fatto definire questa, primo giorno, il giorno del pathos, della commozione (Fergusson) : dal canto solitario di Casella e da quello, corale, dei penitenti, ai discorsi di Virgilio sul limite della ragione e sul valore della preghiera, all'incontro con Sordello. L'esordio illumina subito la struttura poetica del canto, mediante la sua costruzione per via di similitudini, dove il richiamo immediato, nella serena presenza della natura, alla figura del viandante, riporta la situazione, perseguita fin qui come oggetto di rappresentazione, verso la figura del Poeta, recuperando la dimensione soggettiva, anche se, ancora una volta, il sentimento in Dante vuole tradursi in concreto dato sensibile, in segni visibili, che lo Eliot giudica "chiare immagini visive". L'intenso definirsi, nella figura dei marinai e del pellegrino, dello stato d'animo dell'esule, che riassume nell'evidenza facile di quelle due rappresentazioni la meditazione morale del canto e il suo inquieto svolgimento, riguarda sì Dante (e lo dimostrerà la profezia dell'esilio che chiuderà il canto), ma anche le anime della "valletta fiorita", perché è "dolcezza e tristezza di ricordi, su cui indugia il cuore che vorrebbe e ancor non sa staccarsi appieno dalle cose della terra; è timore di oscure e malvagie insidie, che si placa nella certezza di un soccorso trascendente; è inquieta nostalgia di pace e di felicità, che si tempera nella penitenza e si raffina nella preghiera" (Sapegno). C'è infatti un perfetto parallelismo tra la situazione psicologica del marinaio e del pellegrino, e quella di Dante e delle anime che intonano il « Te lucis ante »: sono stati emotivi, in situazioni diverse ma affini, che sorgono in rapporto all'ora della sera, che predispone al raccoglimento e alla tenerezza degli affetti. Così il giorno del distacco dai propri cari non è « giorno » come spazio temporale (lo stesso giorno), ma è quale soggettivamente si qualifica per i naviganti in quanto ricordo, che fa affiorare e prendere contorno l'immagine della partenza. Il giorno della partenza nota il Pagliaro -

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può essere ormai lontano nel tempo, ma non lo è nella coscienza dei naviganti, poiché la suggestione dell'ora riesce ad annullare quella lontananza e a fare sì che esso torni a essere presente con tutta la commozione di quei saluti; per il peregrin il rintocco lontano di una campana è un richiamo alla solidarietà degli affetti, un invito a raccogliersi nella dolce tranquillità dei sentimenti familiari: al mutarsi del desiderio di arrivo in desiderio di ritorno, corrisponde qui un intenerimento che penetra nel cuore come una fitta (punge), improvvisamente, come improvviso si era alzato il suono della squilla. Essa congiunse ed elevò al cielo le mani, rivolgendo lo sguardo intento verso l'oriente, nell'atteggiamento di chi dice a Dio: "Nient'altro mi preme". Dalle sue labbra l'inno «Te lucis ante» uscì con tale devota e modulata dolcezza, che mi rapì in estasi; poi tutte le altre anime dolcemente e con devozione la seguirono cantando tutto l'inno, tenendo gli occhi fissi alle sfere celesti. « Te lucis ante terminum » ("Prima che finisca il giorno...") è l'inno attribuito a Sant'Ambrogio e cantato durante « compieta », l'ultima delle ore canoniche (indicata dal suono della squilla): vi si invoca l'aiuto di Dio contro i sogni cattìvi e l'assalto del demonio durante la notte. Si apre una vera e propria officiatura liturgica attraverso il gesto ieratico di quell'anima volta verso oriente (secondo l'uso antico della preghiera cristiana), che impera per cenni, iniziando l'inno corale degli altri penitenti, che continua, senza soluzioni, nello stesso ritmo spirituale, il canto della « Salve, Regina ». Di quest'anima Dante non rivela né il nome né la dignità che ebbe nel mondo, perché "è un'annegata nella brama di Dio, E' lo spasimo verso la luce, è il terrore della notte che avanza... L'uomo della terra ascolta, tratto fuori di sé, l'armonia di quelle voci; ma tutto è una fascinatrice armonia intorno a lui: l'ora e la luce dell'azzurro tramonto, e il gesto di quell'anima e la compostezza degli oranti, e il loro sguardo levato ai cieli, in una umile e trepida attesa" (Donadoni). O lettore, qui aguzza bene gli occhi della tua intelligenza a ciò che veramente voglio sìgnificare, poiché il velo (che copre il senso nascosto di quanto ora segue) è così sottile che certamente non ti costerà fatica il penetrarlo esattamente. Finito il canto, io vidi quella nobile schiera di anime guardare intensamente verso l'alto, pallide ed umili, come chi aspetta qualcosa; e vidi uscire dall'alto del cielo e scendere in basso due angeli, ciascuno con una spada fiammeggiante, tronca e priva della punta. Erano verdi come foglioline appena spuntate le vesti che essi portavano fluenti, percosse e agitate dal vento delle verdi ali. Uno degli angeli venne a posarsi poco più in alto di noi, l'altro invece scese sulla sponda opposta (della

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valletta), in modo che le anime furono racchiuse tra loro due. Scorgevo distintamente la loro testa bionda; ma nel fulgore del volto l'occhio si smarriva, come ogni facoltà sensitiva si confonde di fronte a un oggetto superiore alle sue capacità, «Vengono entrambi dal cielo Empireo, dove sta Maria» disse Sordello «per far la guardia alla valle, a causa del serpente che verrà da un momento all'altro.» L'invito che Dante rivolge al lettore è stato generalmente interpretato come un'esortazione a cogliere il significato emblematico dell'apparizione dei due angeli sulla sponda della "valletta" e del serpente che verrà vie via. Ma non giustificando questo solenne richiamo la facilità con cui quell'allegoria (la tentazione che la preghiera respinge invocando l'intervento divino) si può interpretare, già Pietro di Dante avvisava che essa celava una profondità maggiore di quanto potesse apparire ad una prima lettura. Infatti tali anime, essendo salve, non possono più temere di peccare, ma, poiché la seconda cantica vuole essere l'esplicazione della vita dell'anima che inizia la sua ascesa, esse rappresentano, allegoricamente, la condizione di quelle creature che in terra hanno appena cominciato la loro penitenza e che quindi sono ancora soggette alla tentazione. Se l'esercito di quei principi, muti, pallidi nell'aspettazione del miracolo ("si ricordi - osserva il Mattalia - dai canti precedenti, con quanta facilità le anime del Purgatorio impallidiscono per un'emozione: è la loro caratteristica: un'umbratile emotività"), è immagine di grande delicatezza, di grande vigore rappresentativo è quell'uscir dell'alto dei due angeli, grandiosi nelle loro linee, possenti nelle loro masse, pieni di quell'austerità che contraddistingue le apparizioni degli angeli danteschi, dal messo celeste che apre le porte della città di Dite all'angelo nocchiero, a quello che siederà davanti alla porta del purgatorio (canto IX, versi 78 sgg.). Il Donadoni nota con molta acutezza che gli angeli di Dante si confonderanno con l'uomo solo quando l'uomo si sarà innalzato fino ad essi, compiendo tutta la sua purificazione. Bene il Signorelli, traducendo i primi undici canti del Purgatorio nei monocromati affreschi della cattedrale di Orvieto, ha saputo ritrarre l'attimo di esaltazione energetica delle due creature angeliche, le quali si abbattono fulmineamente, come sparvieri, sull'acuminato piedistallo di due pinnacoli, anche se solo la pittura del Beato Angelico avrebbe potuto ritrarre, nelle sue tinte lievi e smorzate, la dolce luce del crepuscolo, che rende "vago" e "sfumato" questo momento poetico. Secondo l'Anonimo Fiorentino il verde degli abiti e delle penne degli angeli indica "la etternità della speranza, la quale si figura verde", le due spade simboleggiano "la giustizia e la misericordia di Dio". ma sono senza punta per dimostrare "che non con rigore di giustizia [Dio] condanna senza misericordia, né con misericordia senza giustizia", il rosso che le affoca ricorda "l'ardore della carità con la quale sono menate". Altri commentatori ritengono invece che i due angeli rappresentino le due supreme potestà in terra, l'Impero e la Chiesa. Perciò io, che non sapevo da che parte (sarebbe venuto il serpente), mi guardai intorno, e tutto gelido per la paura, mi strinsi al fianco del mio fidato maestro. Poi Sordello soggiunse: « Ora scendiamo nella valle in mezzo alle grandi ombre, e parleremo ad esse:

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sarà loro assai gradito vedervi». Credo di esser disceso soltanto di tre passi. e mi trovai in basso, e vidi un'ombra che guardava con insistenza verso di me, come se mi volesse riconoscere. In quel momento l'aria già si faceva buia, ma non tanto che a breve distanza non lasciasse scorgere chiaramente ciò che prima rendeva invìsibile. Egli si portò verso di me, e io andai verso di lui: o nobile giudice Nino, quanta gioia provai quando vidi che non eri tra i dannati! Ugolino o Nino Visconti appartenne a una nobile famiglia guelfa di Pisa e fu nipote del conte Ugolino della Gherardesca (Inferno, canto XXXII, versi 125 sgg.). Fu bandito più volte da Pìsa, finché riuscì ad impadronirsi della signoria della città con Ugolino (1285); costretto all'esilio dopo la vittoria dell'arcivescovo Ruggieri, fece parte di molte leghe guelfe contro la sua città, dove rientrò nel 1293. Si ritirò infine nel giudicato di Gallura, in Sardegna, dove morì nel 1296. Dante ebbe forse occasione di conoscerlo fra il 1288 e il 1293, quando Nino Visconti fu spesso a Firenze. Nessuna affettuosa espressione di saluto fu risparmiata fra noi; poi egli chiese: « Da quanto tempo sei giunto nell'antipurgatorio attraverso l'oceano? » « Oh! » gli risposi, « sono giunto questa mattina attraverso l'inferno, e sono ancora vivo, sebbene, facendo questo viaggio, io cerchi di guadagnare la vita eterna». All'udire la mia risposta, Sordello e Nino si ritrassero come chi è colto da improvviso smarrimento. Sordello si volse a Virgilio e Nino Visconti a uno che stava seduto lì accanto, gridando: « Su, Corrado! vieni a vedere quale mirabile cosa Dio volle per grazia speciale ». La figura di Nino Visconti, prima ancora di rivelare la sua complessa ricchezza di motivi psicologici, si apre nel sentimento dell'amicizia (che più di ogni altro sembra adeguarsi all'ambiente della seconda cantica, dove le passioni si sono estinte e sopravvivono gli affetti gentili e delicati) attraverso l'appassionata insistenza del bel salutar e l'affettuosa sollecitudine per la sorte dell'amico (versi 56-57), che risponde alla prima manifestazione di gioia di Dante (versi 53-54). Ma anche la comune esperienza dell'esilio arricchisce questo incontro, essendo "anche Nino esule dalla patria senza colpa, anche Nino non mai disperato di potervi, quando che fosse, rientrare. Vinto, non domato, dal destino, era poi morto esule... Dante vede in Nino, più che un amico, un fratello, perché, fra quanti vincoli stringono l'uomo all'uomo, niuno ve ne ha di più saldo di quello costituito da sventure virilmente patite per comuni ideali" (Steiner), Poi, rivolto a me, disse: « Per quella particolare gratitudine che tu devi a Dio che tiene così occulte le

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ragioni ultime del suo operare, che non esiste possibilità per l'uomo di giungere mai a comprenderle. quando ritornerai sulla terra, di' a Giovanna che preghi per me il cielo dove vengono esaudite le invocazioni delle anime innocenti. Non credo che sua madre mi ami più, dopo che passò a seconde nozze (trasmutò le bianche bende: le vedove portavano veli bianchi su vesti nere), anche se accadrà che, infelice!, debba rimpiangere il suo primitivo stato vedovile. Dal suo esempio facilmente si comprende quanto poco duri in una donna il fuoco dell'amore, se di continuo non sia tenuto acceso dalla vista o dalla presenza dell'amato. Giovanna, l'unica figlia di Nino Visconti, aveva solo nove anni nel 1300; sposò poi Rizzardo da Camino, e, rimasta vedova nel 1312, visse dal 1323 al 1339, anno della sua morte, a Firenze. La moglie di Nino fu Beatrice d'Este, figlia di Obizzo Il, la quale nel 1300 si risposò con Galeazzo Visconti, signore di Milano, che, dopo essere stato scacciato dalla città nel 1302, trascorse il resto della vita in esilio fra gravi difficoltà. A queste tristi vicende alludono le parole di Nino al verso 75, anche se Beatrice, dopo la morte del secondo marito, poté rientrare a Milano, quando il figlio Azzo riconquistò la città. La spiritualizzazione a cui il Poeta ha saputo innalzare la prima parte del canto ottavo attraverso la similitudine iniziale, l'intensità della preghiera corale, l'intervento di potenze sovrannaturali e l'accento posto sul tema della amicizia, nell'incontro con Nino, prima che su altre realtà terrene, attenuano la rievocazione di motivi umani che altrimenti graverebbero sull'anima con il peso di un dolore troppo crudo. Il mondo di là dalle larghe onde, per le lontane acque, riportatogli dall'arrivo dell'amico, per Nino non significa l'eco di lotte politiche o di battaglie, ma la presenza di un mondo più intimo e suo, fatto delle immagini di persone che gli furono e gli sono ancora care. "E se anche il cuore ha una dolorosa certezza, umanamente vuole ancora illudersi che un simile oblio non possa esser vero. Beatrice, la moglie, non è più tale per Nino; è solo la sua madre, la madre di Giovanna; eppure egli premette quel non credo, che vorrebbe salvare un'ultima speranza, non credo che la sua madre più m'ami. E spiega il perché di tale oblio velando la cosa - le seconde nozze di Beatrice - in un particolare esteriore che ne attenua la crudezza: poscia che trasmutò le bianche bende, ed ha, ultimo bagliore d'una tenerezza non sopita, un senso di pietà anche per lei mutevole, fragile creatura che fa soffrire, anche dopo la morte, soffrendo anche lei com'è destino degli uomini: le quai convien che, misera!, ancor brami." (Grabher) L'insegna del biscione intorno alla quale i Milanesi sogliono porre il campo in tempo di guerra, quando sarà scolpita sul suo sepolcro non lo renderà così bello, come l'avrebbe reso il gallo di Gallura ». Lo stemma dei Visconti (una vipera con in bocca un bambino) non darà alla tomba di Beatrice quell'onore che le avrebbe conferito l'immagine del gallo, stemma dei Visconti pisani, che indicava anche il loro possesso del giudicato di Gallura. Varie sono le interpretazioni intorno al paragone fra i due stemmi, perché secondo alcuni esso è solo una critica al fatto che Beatrice non si è mantenuta fedele al marito morto, secondo altri si risolve in un biasimo per la donna che da una famiglia guelfa è passata ad una

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famiglia ghibellina, quale quella dei Visconti di Milano. Probabilmente Dante intende alludere all'uno e all'altro motivo. Così parlava Nino, avendo impresso sul volto, quel giusto sdegno che senza eccedere gli ardeva nel cuore. I miei occhi, avidi di novità, si volgevano con insistenza al cielo, sempre verso il polo dove le stelle girano più lente, allo stesso modo che i raggi di una ruota (si muovono più lenti) nella parte più vicina all'asse. E la mia guida mi domandò: « Figliolo, che cosa quardi lassu? » Io gli risposi: « Guardo quelle tre piccole luci che illuminano tutto quanto il polo antartico ». Perciò egli replicò: « Le quattro stelle luminose che vedevi stamattina sono già scese sotto l'orizzonte, e queste sono salite al loro posto ». Le tre stelle che illuminano il polo antartico, simboleggiano, secondo tutti i più antichi commentatori, le tre virtù teologali, e sostituiscono le quattro che erano apparse nel cielo del purgatorio al mattino (canto I, verso 23), indicanti le quattro virtù cardinali: le prime riguardano la vita contemplativa e perciò sono più adatte durante la notte, le seconde la vita attiva, che si svolge durante il giorno. Meglio però l'interpretazione proposta dal Sapegno, secondo la quale "nel punto in cui culmina la lotta dell'anima per liberarsi da ogni legame colla terra, diventa più urgente la necessità del soccorso delle virtù soprannaturali". Mentre Virgilio parlava, ecco che Sordello lo attirò a sé dicendo: «Vedi là il nostro avversario»; e indicò col dito il punto dove guardare. Dal lato dove la valletta non è chiusa da alcuna sponda, c'era un serpente, simile forse a quello che diede a Eva il frutto, causa di tante amarezze. Il serpe maligno veniva strisciando tra l'erba e i fiori, volgendo il capo ora a destra ora a sinistra, e leccandosi il dorso come una bestia che si liscia (con la lingua il pelo). Non riuscii a vedere, e perciò non posso dire, come spiccarono il volo i due angeli; ma vidi bene l'uno e l'altro dopo che si furono mossi. Al solo udire il rumore delle verdi ali che fendevano l'aria, il serpente fuggì, e allora gli angeli si voltarono, ritornando con volo concorde in alto ai loro posti di guardia. La scena, nella quale il simbolo, come avviene in Dante nei momenti di maggiore felicità creativa, diventa cosa viva, ha una singolare efficacia rappresentativa nel movimento sinuoso e viscido che rappresenta, nella loro essenzialità, il corpo e il moto della mala striscia. Essa assume un ritmo drammatico nell'irrompere rapido e improvviso dei due angeli, che si placa altrettanto improvvisamente quando, con la stessa potenza di volo dispiegata nella discesa, risalgono alle poste, ricostituendosi nella loro imperiosa

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immobilità. L'anima che s'era accostata al giudice Nino, quando questi l'aveva chiamata durante tutto l'assalto (degli angeli contro il serpente) non si era per nulla distolta dal guardarmi. « Possa la grazia divina che ti è guida verso l'alto, trovare nella tua libera volontà tanta corrispondenza, quanta ne occorre per salire fino alla vetta del monte smaltata di verde » cominciò a dire, « se hai notizie certe della Val di Magra (in Lunigiana) o dei paesì vicini, dimmele, poiché un tempo io ero potente in quei luoghi. Mi chiamai Corrado Malaspina; non sono Corrado Malaspina il vecchio, ma da lui sono disceso: alla mia famiglia e alla sua potenza portai un amore che qui si purifica d'ogni scoria. » Corrado Malaspina il giovane, morto nel 1294, fu nipote di Corrado il vecchio, capostipite dei Malaspina dello Spino secco, che dominarono la Lunigiana. Dante fu in Lunigiana nel 1306 (perché il suo nome appare in un documento di tale anno, allorché dai marchesi Franceschino, Moroello e Corradino ebbe l'incarico di porre fine ad alcune controversie con il vescovo di Luni) e fu legato da grande amicizia con Moroello, marchese di Giovagallo, al quale indirizzò l'Epistola IV. « Oh! » gli dissi, « non sono mai stato nei vostri paesi; ma vi può essere un luogo in tutta Europa dove essi non siano noti? La fama che onora la vostra casata, esalta i signori e gli abitanti di tutta la regione, in modo tale che viene conosciuta anche da chi non è ancora passato per quei luoghi. E vi giuro, così possa io salire fino alla vetta del monte, che la vostra nobile famiglia continua a fregiarsi delle virtù della liberalità e della prodezza. L'abitudine alla virtù e l'indole naturale la pongono in una condizione così privilegiata, che, per quanto la cattiva guida del Papa e dell'Imperatore faccia deviare il mondo dalla retta via, essa sola continua nella strada della perfezione e disprezza il male. » Ed egli: « Ora va; il sole non tornerà sette volte in quel tratto dell'eclittica che la costellazione dell'Ariete (con la quale il sole è ora in congiunzione) copre e cavalca con tutte e quattro le zampe ripiegate (cioè non passeranno sette anni), che questa gentile opinione (sulla mia famiglia) ti sarà fissata nella mente con argomenti più persuasivi che non siano i discorsi della gente, a meno che non si arresti il corso dei decreti divini».

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Nell'atmosfera di sospeso silenzio, seguita all'assalto del serpente, si prepara la severa grandezza dell'ultima scena: Corrado Malaspina, che non aveva mai distolto gli occhi dal privilegiato viandante (versi 110~111), "come a penetrare, con uno sguardo lungo, intenso e silenzioso, nelle profondità del doloroso tempo che per quel vivente si apparecchiava" (Sacchetto), è l'eletto a rappresentare, nella "valletta fiorita", il principe ideale, l'esponente degno di quella famiglia, che, fra i grandi d'Italia e d'Europa, si pone come quella che sola va dritta e 'l mal cammin dispregia, il nobile signore che ha realizzato, secondo il giudizio del Sacchetto, con la esemplarità della sua vita e l'assolvimento pieno della sua missione, il sogno generoso di Dante. Si stacca dalla schiera dei principi raccolti nella valletta... Non lo hanno sfiorato le accuse scagliate dal Poeta contro i mali reggitori della terra. E, durante l'assalto del serpente, è apparso persino sdegnoso di seguirne la vicenda, come a sottolineare che egli si poneva al di sopra delle suggestioni esercitate dalla cupidigia, radice di ogni male. Né ha cessato di guardare insistentemente il Poeta. E ciò non tanto perché intorno a costui fosse lo stupore del gran privilegio per cui attraversava, vivente, il regno dei morti, quanto perché egli era colui che avrebbe, con la sua non peritura parola, celebrato nella gloria della sua casa quelle virtù che, sole, avrebbero restituito al genere umano la promessa e la certezza di un ordine migliore." (Sacchetto) E nella profezia dell'esilio è il ricordo della Val di Magra, "una delle poche regioni di cui Dante abbia conservato un ricordo puro, senza veleno, un'acuta nostalgia, senz'ombra di amaritudine... sopra tutto lo ha consolato, in essa, l'ospitalità schietta del nobile signore che lo ha accolto, e della cui casa, celebrata in tutta Europa per il retto uso della borsa e della spada, c'è appunto, in questo canto, l'elogio alto e commosso" (Sacchetto). Perciò il preannuncio severo e solenne dell'esilio è consolato dal dono di quella gentilezza e di quella cortesia che lo salveranno dalla disperazione.

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PURGATORIO CANTO IX

Già (sulla terra) l'Aurora, moglie dell'invecchiato Titone, lontana dalle braccia del suo dolce amico, stava sorgendo (al balco d'oriente: come se fosse affacciata al balcone dell'oriente) facendosi bella; L'Aurora rapì e sposò Titone (figlio di Laomedonte e fratello di Priamo), ottenendo per lui da Giove l'immortalità. ma non l'eterna giovinezza. la sua fronte era lucente per le stelle, disposte a formare la costellazione dello Scorpione (freddo animale: secondo la zoologia medievale era considerato di sangue freddo) che ferisce la gente con la sua coda; e in purgatorio, dove eravamo, la notte aveva percorso due passi (erano passate due ore) di quelli mediante i quali essa compie il suo itinerario nel cielo, mentre il terzo passo (la terza ora) stava terminando il suo volo, La notte è personificata nell'immagine di una donna che cammina con passi alati, intendendo per passi le ore, sei ascendenti fino a mezzanotte, e sei discendenti. Avendo essa ormai compiuto quasi tre dei passi con che sale, sono circa le ventuno nel purgatorio, mentre agli antipodi, in Italia. sta sorgendo l'alba. Alla metafora dei passi se ne aggiunge una seconda, ispirata dall'immagine mitologica delle ore alate: 'l terzo già chinava in giuso l'ale. quand'io, che sentivo il peso della mia carne, vinto dal sonno, mi coricai sull'erba là dove stavamo seduti già tutti e cinque (Dante, Virgilio, Nino Visconti, Corrado Malaspina, Sordello). A la seconda aurora da Dante descritta nel Purgatorio. La prima aveva tutto il colore delle cose immaginate, in quel dolce color d'oriental zaffiro, questa, invece, è più preziosa nella scelta degli elementi astronomici, che ne rendono anche difficile l'interpretazione. Ma se l'attenzione si rivolge all'immagine visiva e poetica, subito le difficoltà spariscono, e si comprende che, aprendo il canto con la figura di una giovane donna che si fa bella, Dante ha voluto suggerire la gioia delle nuove verità e bellezze di cui sta per godere: è quasi un nuovo rinascere, in cui prevale il senso della dolcezza, il sovrastare della giovinezza sulla vecchiaia, la lucentezza splendente delle stelle che sembrano gemme. Dante ci prepara a guardare, al di là degli oggetti che ci presenta (il canto si articola dapprima intorno alla figura dell'aurora, poi a quella dell'aquila, infine all'entrata nel purgatorio vero e proprio), a quella verità che essi celano, al significato mistico della loro presenza, che meglio sarà rilevato quando egli chiamerà i particolari dei graditi e dell'angelo ad indicare i momenti di un processo sacramentale, sotto le

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vesti di una simbologia liturgica. Tuttavia la nostra fantasia è più portata a seguire l'immagine iniziale della giovane donna, di immediata freschezza, quasi sensibile, mentre nei simboli sacramentali annota un maggior descrittivismo intellettuale nello sforzo di non tralasciare nessuno dei molteplici significati che possono esserci consegnati. Nell'ora in cui vicino al mattino la rondinella comincia i suoi dolrosi lamenti, forse ricordando le sue antiche sventure, Dante, ispirandosi ad Ovidio (Metamorfosi VI, versi 412 sgg.), ricorda il mito di Filomela e di Progne, due sorelle che gli dei trasformarono, rispettivamente, in usignolo e in rondine (Dante tuttavia attribuisce a Progne la metamorfosi di Filomela e viceversa, seguendo un'altra versione della leggenda), in seguito al banchetto imbandito da Progne al marito Tereo con la carne dei figli, per vendicarsi del tradimento di lui con Filomela. quando la nostra mente, più libera dal peso della carne e meno presa dalle preoccupazioni, è quasi indovina del vero nei suoi sogni, Secondo la concezione medievale, quando la mente umana è libera dalle preoccupazioni materiali ed è meno presa dalla vita intellettiva, assecondando il cammino stravagante del sogno, ha spesso modo di divinare il futuro con una certa rispondenza alla verità. mi pareva in sogno di vedere un'aquila con le penne dorate librata nel cielo con le ali aperte e pronta a calarsi; e mi pareva di essere là (sul monte Ida) dove da Ganimede furono abbandonati i suoi (compagni di caccia), quando fu portato nel concilio degli dei. Ganimede, figlio di Troo, re di Troia, mentre si trovava a caccia sul monte Ida nella Troade, fu rapito da Giove, che si era trasformato in aquila, e fu portato in cielo dove divenne coppiere nei banchetti degli dei (Ovidio - Metamorfosi XI, verso 756). Diverse sono le interpretazioni a proposito dell'aquila. Alcuni critici la considerano rappresentazione dell'Impero, richiamando il fatto che anche l'aquila di Giustiniano muove il suo volo dai monti vicino a Troia (Paradiso canto VI, verso 6), che l'aguglia discende come fulmine allo stesso modo nel quale Dante la raffigura nella Epistola ai principi e popoli d'Italia perché accolgano Arrigo VII e in quella ai Fiorentini che si oppongono allo stesso imperatore, e che l'imperatore Traiano in paradiso si trova là dove le anime si dispongono a formare la figura dell'aquila (Paradiso canti XVII1-XX). In questo caso l'aquila significherà, secondo il Porena, che l'Impero è in certo modo strumento anch'esso della divina grazia nella funzione di avviare Dante alla rivelazione divina, e l'aver Dante finora parlato con Sordello sulle lotte politiche, nonché l'essersi trovato nella valletta dei principi pacificati tra loro e fraternamente uniti, avvalora tale tesi. Ma ciò non esclude che l'aquila sia una prefigurazione di Lucia,

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sicché mentre l'uccello rapisce Dante verso la sfera del fuoco, che sta tra la terra e il cielo della luna, la donna lo porta di fatto alle soglie del purgatorio. Il Mattalia osserva che le azioni dell'aquila e di Lucia sono "sincrone e parallele, ma l'una in rapporto con l'altra; identica la direzione (verso l'alto) : evidente allegoria, ci pare, della funzione complementare dei due magisteri: temporale (Impero) e spirituale (Chiesa) ". Alla salvazione finale l'uomo arriva aiutato - attraverso le leggi - dal magistero dell'autorità imperiale: perciò il Poeta accosta l'aquila a Lucia per significare che Chiesa e Impero debbono agire concomitanti, anche se poi sotto, linea che il suggello finale non può che venire dalla Chiesa: infatti se l'aquila e Lucia compiono lo stesso gesto, la prima anticipa soltanto in sogno quello che la donna attua poi nella realtà, portando Dante all'entrata del purgatorio. Pensavo dentro di me: « Forse l'aquila si cala a ferire sempre in questo luogo per abitudine, e forse non si degna di portar su la preda con gli artigli da nessun altro luogo ».. Poi mi sembrava che, compiuti ampi giri nel cielo, si calasse giù terribile come un fulmine, e mi rapisse in alto fino alla sfera del fuoco. Giunti qui sembrava che ci incendiassimo; e a tal punto l'incendio, che pur era solo un sogno, mi bruciò, che fu necessario interrompere il sonno. Non diversamente Achille si risvegliò, volgendo in giro gli occhi ormai aperti senza sapere dove si trovasse, quando la madre (Teti) lo portò via di nascosto tra le sue braccia, mentre egli dormiva, sottraendolo a Chirone e portandolo a Sciro, da dove i Greci poi lo allontanarono (per Troia), Secondo quanto narra Stazio (Achilleide I, versi 104 sgg.), Teti, sapendo che il figlio Achille sarebbe morto alla guerra di Troia, mentre dormiva lo trasportò dalla Tessaglia. dove era affidato al centauro Chirone, nell'isola di Sciro. Qui Achille visse travestito da donna fra le figlie del re Licomede, finché con un'astuzia Ulisse e Diomede non lo costrinsero a partecipare alla guerra di Troia. da come mi rìsvegliai io, alIorché il sonno si allontanò dal mio volto, e impallidii, come fa un uomo quando, per uno spavento, si sente rabbrividire. Dante sembra sottolineare soprattutto lo stupore dell'eroe greco, onde mettere in evidenza la propria meraviglia, e suggerire così l'immagine di sé come di un nuovo Achille, di un eroe moderno e cristiano (secondo il Momigliano mai prima d'ora Dante è stato tanto grande) disposto all'eroismo di gravi e tormentose prove. Dove però le imprese di Achille furono compiute con le armi materiali, egli opererà invece con quelle spirituali, e soprattutto con l'umiltà; tuttavia è necessario ricordare che il Poeta è trasportato in alto, come prima Ganimede da parte di Giove, da un messo celeste, cioè, come annota il Lesca, in ambedue i casi è la stessa divinità che innalza gli animi degli uomini alla contemplazione di sé.

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Così il mito di Ganimede e l'eroismo di Achille servono di preannuncio al trasumanare del nuovo eroe, Dante, che però rivendica anzitutto a Dio la gratuità della vocazione a tale più alta chiamata. Il fuoco del sogno, mirabilmente fuso con l'idea della Grazia che purifica, richiama la stessa immagine di un salire al cielo e di un consumarsi nel fuoco (ugualmente accaduto in sogno) che è all'inizio dell'opera giovanile di Dante, nella quale egli esalta il suo amore per Beatrice, la Vita Nova (III): essa è dunque qui esplicitamente richiamata, poiché anche in questo caso s'intende iniziare l'esperimentazione di una nuova realtà interiore, quella dell'azione della Grazia in noi, come una volta lo era stata quella dell'amore umano. Di fianco stava solo Virgilio, ed il sole era da più di due ore già alto sull'orizzonte (erano cioè passate le otto), e il mio sguardo era rivolto verso il mare. La mia guida disse: «Non aver paura, sta sicuro, perché noi siamo giunti ad un buon punto del nostro viaggio: non devi indebolire, ma rinvigorire le tue forze. Tu sei ormai giunto al purgatorio: vedi là il pendio praticabile che lo circonda tutto attorno; osserva l'entrata dove il pendio sembra quasi interrotto. Poco fa, durante l'alba che viene prima del giorno, quando la tua anima era insensibile alla realtà del mondo, sopra i fiori di cui quella valletta è tutta ornata, venne una donna, e disse: "Io sono Lucia: lasciatemi prendere questo uomo che dorme, così lo aiuterò nel suo cammino". E' la seconda volta che Santa Lucia interviene a favore di Dante (cfr. Interno canto Il, versi 100 sgg.), sempre quale simbolo della grazia illuminante. Rimasero lì Sordello e le altre nobili anime; Lucia ti prese, e quando si fece giorno, íncominciò a salire; e io seguii i suoi passi. Ti posò in questo luogo, ma prima i suoi begli occhi mi indicarono la fessura aperta nella roccia; poi Lucia se ne andò via assieme al tuo sonno ». Allo stesso modo in cui un uomo, prima dubbioso, si rassicura, e cambia la sua paura in fiduciosa attesa, una volta che gli è stata mostrata la verità (su ciò di cui dubitava), così io mi mutai; e quando il mio maestro vide che io ero senza alcuna preoccupazione, si mosse su per il pendio, ed io lo seguii verso l'alto. Analizzando la resa poetica della prima parte del canto, si nota dapprima la prevalenza di un tono forte - in una visione solenne, che ben rende lo stupore, e più l'entusiasmo, di Dante di fronte alla grandiosità di quanto sta per accadere - di un senso di sacralità magica che si distende nella figura dell'aquila protesa

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nell'ampiezza dei cieli. Con l'apparizione di Lucia il tono si fa più persuasivo, più delicato, in una gioia interiore che nasce dal grato ricordo dell'istante di quell'avvenimento solenne, ricordo che si tramuta in dolcezza di parole, in freschezza di immagini: è l'aprirsi di un auroraIe mondo in quell'anima che dentro dormìa. Per Dante sono infatti molte le ragioni della meraviglia allorché, svegliandosi, ha vicino ormai solo Virgilio, mentre il sole è già alto nel cielo ed il suo sguardo è rivolto verso il mare, sicché lo stesso paesaggio, come annota il Mattalia, ha veramente una "vastità di visuale in forte contrasto con la ristrettezza della valletta in cui si era addormentato". Lettore, tu t'accorgi che io tratto ora un argomento più solenne, e perciò non meravigliarti se io lo avvaloro con procedimenti artistici più raffinati. "Avvisa il lettore... dicendogli ch'egli innalza la materia sua... a trattare di cose autorevoli. e poi la rincalza, cioè l'addorna e vela con belle finzioni poetiche," (Anonimo Fiorentino) Questi inviti di Dante (cfr. anche il canto VIII, versi 19-21) segnano come le tappe di un suo crescere poetico, sicché egli annota con orgoglio questa ulteriore scelta di una tematica più ardimentosa, secondo un procedimento che avvalora il proprio linguaggio attraverso l'uso di scene figurative, di invenzioni allegoriche, di suggerimenti dottrinali, di reminiscenze scritturali, per esprimere le sue progressive conquiste spirituali. Noi ci avvicinammo (alla fessura), ed eravamo già ad un punto, per cui là dove prima mi appariva solo una fessura, proprio come un varco che divide le parti di un unico muro, mi fu possibile vedere una porta, e salire fino ad essa per tre gradini sotto, diversi tra loro quanto al colore, e un custode (un angelo) che ancora non parlava. L'angelo portinaio non parla, sia perché la sua missione non è umana, sia perché attende che sia il peccatore, di propria spontanea volontà, ad avvicinarsi. Egli sta sul più alto dei gradini perché subito risulti evidente l'autorità di cui è investito da Dio, ed il suo volto è chiaro come devono esserlo il suo animo e la sapienza da lui posseduta. E quando il mio occhio si fissò sempre più attento su di lui, vidi che sedeva sul gradino più alto, e che era talmente splendente nel volto che io non sopportai tanta luce; e aveva in mano una spada snudata, che rifletteva verso di noi i raggi del sole, così che io spesso indirizzavo invano i miei occhi verso di lui. La spada, simbolo solitamente del potere, qui rappresenta la giustizia, che deve essere nuda, cioè schietta, senza dubbi, e lucente, perché deve risplendere come la verità. Per questo Dante, che non vi è ancora abituato, ha difficoltà nel rivolgere gli occhi alla verità divina, che dalla spada traluce, e dalla quale egli resta abbagliato. Egli cominciò a dire: « Dal luogo dove siete dite: che cosa volete? e dov'è colui che vi accompagna?

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badate che il vostro salire non vi torni a danno ». L'angelo, come sacerdote, deve accertarsi che il peccatore affidi la propria redenzione non solo alla sua buona volontà, ma anche alla componente divina di ogni sacramento, in questo caso rappresentata da Lucia come donna del ciel. Il mio maestro gli rispose: « Una donna del cielo (Lucia), esperta di queste cose, or non è molto ci disse: "Recatevi (andate) là: ivi è la porta"». L'angelo cortese ricominciò a parlare: « Ed ella vi faccia progredire nel cammino del bene: venite dunque fino a questi gradini ». Li raggiungemmo; ed il primo gradino era fatto di marmo bianco, così pulito e lucente, che io potei specchiarmi in esso proprio come appaio. Il secondo era più che scuro, addirittura nero, composto di una pietra non levigata ed arida, attraversata da fessure nella sua lunghezza e larghezza. Il terzo gradino, che si sovrappone con la massa del suo peso agli altri, mi sembrava di porfido dal color rosso fuoco, come fosse stato sangue sgorgante da una vena. Il primo gradino indica il primo momento della confessione, l'esame di coscienza, attraverso il quale l'anima si guarda come in uno specchio ed appare com'è in realtà. Il secondo rappresenta la confessione verbale, durante la quale il penitente riconosce i suoi peccati nella loro gravità; ma quelle fessure, che formano una croce, indicano che tale bruttura dell'anima può essere spezzata dalla croce, cioè dai meriti di Cristo. Il terzo gradino spiega il terzo momento, che segue gli altri perché è l'atto più solenne della confessione: è la soddisfazione, che consiste in un movimento d'amore, da parte del peccatore, verso Dio, e nell'applicazione dei meriti del sangue, cioè del sacrificio di Cristo, che completa il gesto d'amore, sempre limitato, del peccatore pentito. Altri commentatori invece, pur essendo d'accordo nel considerare rappresentati in questi versi i tre momenti del rito della confessione, vedono simboleggiata nel primo gradino la confessione orale e nel secondo la contrizione. Sopra quest'ultimo gradino stava saldamente appoggiato l'angelo di Dio, sedendo sulla soglia, che mi sembrava di diamante. L'angelo, simbolo dell'autorità della Chiesa che sanziona l'atto dei penitente, tiene i piedi sull'ultimo gradino, cioè sulla soddisfazione data dal peccatore, e ad un tempo sta seduto sopra la soglia di diamante, simbolo della costanza nell'uso dell'autorità da parte del sacerdote, che deve svolgere il proprio ministero con rigida giustizia, senza lasciarsi fuorviare da simpatia, da violenza, da speranza di

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ricompensa. A sua volta, il diamante, nella sua purezza, è simbolo del solido fondamento su cui è basata la Chiesa, dispensatrice dell'assoluzione dei peccati. La mia guida accompagnò me, ben disposto in questo, su per i tre gradini, dicendomi: « Con umiltà chiedi che si apra la serratura ». Mi gettai devotamente ai santi piedi dell'angelo: gli chiesi la grazia che mi aprisse, ma prima mi battei tre volte il petto. Tutta la confessione deve essere manifestazione di una volontà ben precisa e di un'umiltà convinta. Per questo Dante deve chiedere che l'angelo apra, deve cioè volerlo lui, e poi battersi il petto in segno di umiltà: "la prima volta è per li peccati commessi nel pensiero, la seconda per li peccati prodotti con la lingua, la terza per li peccati conseguiti con le operazioni"(Ottimo). L'angelo mi disegnò cor la punta della spada sulla fronte sette P, e aggiunse: «Quando sarai dentro (il vero purgatorio), cerca di cancellare questi segni». Rimessi i peccati ed ottenuta la salvezza dalla dannazione eterna, rimane nell'animo la disposizione al male, ed il debito da soddisfare nei confronti di Dio, salvezza e debito qui rappresentati dai sette P, corrispondenti a ciascuno dei sette peccati capitali puniti nei sette gironi in cui si articola il purgatorio. L'incisione dei P si rifà a passi biblici e ad usanze dei tempi di Dante. Se il Sarolli ricorda infatti che gli angeli dell'Apocalisse portano i sette segni e che secondo Ezechiele (IX, 3-6) i giusti di Gerusalemme, per potere uscire salvi dalla città, dovettero avere sulla fronte una Thau (T greca), nei documenti fiorentini raccolti dal D'Ovidio e dal Medin, è detto che i ladri erano costretti a portare una mitria cartacea con l'iniziale di furto, cioè P. La cenere o la terra secca che sia stata appena estratta dalla cava sarebbe dello stesso colore della veste dell'angelo; e da sotto di questa egli trasse fuori due chiavi. Una era d'oro e l'altra d'argento: prima con la chiave d'argento e poi con quella d'oro l'angelo fece sì, che io rimanessi contento (al veder aperta la porta). Il colore della veste dell'angelo è simbolo del ministero della penitenza da lui esercitato, oppure, secondo altri, dell'umiltà necessaria per esercitarlo. La chiave d'oro indica l'autorità di Dio, senza la quale l'assoluzione è nulla, e quella d'argento la conoscenza della teologia morale e l'intuizione psicologica, cioè la sapienza umana necessaria al confessore per capire e giudicare il peccatore. Egli ci disse: «Ogni volta che una di queste chiavi fallisce nel suo compito, così da non poter girare nella serratura, questa porta non si apre. L'una è più preziosa (cara: cioè quella dell'autorità divina); ma l'altra (quella d'argento) esige molta

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sapienza ed intuizione prima di riuscire ad aprire, perché essa (la chiave argentea) è proprio quella che scioglie il nodo del peccato. Io le ho ricevute in consegna da San Pietro; ed egli mi disse di sbagliare nell'aprire (con indulgenza) piuttosto che nel tener chiusa la porta (per eccesso di rigore), alla condizione che la gente si getti ai miei piedi (a richieder ciò con umiltà». Il passo evangelico (Matteo XVIII, 21-22), nel quale Cristo raccomanda a Pietro di peccare piuttosto in generosità che in rigore, una volta riscontrata la buona volontà dell'uomo, è suggerito forse alla fantasia di Dante anche dallo spettacolo del giubileo del 1300, con l'ampiezza delle sue indulgenze e del suo perdono. Poi spinse l'uscio di quella sacra porta, dicendo: « Entrate; ma vi avviso che torna fuori colui che si volge a guardare indietro ». Dante ricorda in questi versi l'episodio biblico della moglie di Lot (Genesi XIX, 26), che disubbidì all'ordine degli angeli volgendosi a guardare la città di Sodoma, per cui fu trasformata in una statua di sale, e il mito di Orfeo e di Euridice. Dopo la morte della moglie, Orfeo, disceso agli inferi, ottenne da Proserpina di poterla riportare sulla terra, purché durante il cammino egli non si volgesse ad osservarla; non avendo ubbidito al comando. Euridice gli fu tolta per sempre. E quando gli spigoli di quella sacra porta, che sono di metallo, forti e sonori, furono volti sui cardini. non procurò un così stridente rumore e non si mostrò così dura ad aprirsi neppure la rupe Tarpea, quando (da Cesare) ne fu allontanato il custode, il buon Metello (per sottrarre il denaro del pubblico erario ivi custodito), per cui in seguito rimase priva (del tesoro custodito). Io prestai orecchio attento a quel primo rumore, e mi parve di udire « Te Deum laudamus » (l'inno ambrosiano del ringraziamento) con un canto misto a quel dolce suono. Ciò che udivo mi procurava esattamente l'impressione che si prova solitamente quando si canta in coro, quando le parole ora si capiscono ed ora no. L'espressione cantar con organi è da intendersi come « composizione di più voci umane», perché l'organo, come strumento, non ebbe mai il compito di accompagnare le voci fino al 1500. Tale termine ha dunque senso vocale, secondo il Casimiri, cioè "voleva significare unione di due o più voci in consonanza". Ma al di là di questa dotta disquisizione, resta l'immagine di Dante che entra in questa cattedrale che è il monte del purgatorio, e la dolcezza di un canto che gli invade l'animo commosso. E' una commozione diversa, però, da quella che lo aveva preso accanto a Casella (canto Il, versi 106 sgg.), la quale era divagazione tutta umana nell'ascolto di un canto, delle cui parole comprendeva esattamente

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il significato, mentre le espressioni qui non sempre giungono ugualmente chiare alla sua mente. Tuttavia quello che conta è il loro disporsi a formare un'armonia, che Dante tenta di rendere anche nel ritmo di quell'ultimo verso, dove i brevi vocaboli si susseguono ondeggiando, così come è importante che quel suono, dapprima aspro, si muti poi in onda sonora dì gradevole ascolto: la verità, di cui il Poeta dovrà partecipare, può nel suo primo ascolto apparire aspra e perfino sgradevole, ma poi si muta in dolcezza di interiore rigustamento per chi le si rivolga attento.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO X

Dopo che fummo oltre il limitare della porta, che l'amore degli uomini indirizzato male (malo amor: usato per il male dei prossimo o per i falsi beni) fa aprire raramente, perché (tale amore) fa apparire come buona una via sbagliata, mi accorsi dal suono che essa si richiudeva; e se io mi fossi voltato verso di lei, quale scusa sarebbe stata sufficiente per giustificare tale mio errore? L'angelo infatti (canto IX, versi 131-132) aveva invitato perentoriamente Dante a non volgersi indietro. Noi salivamo attraverso la roccia tagliata da un sentiero, che si protendeva ora a destra ora a sinistra, così come fa l'onda che ora fugge ed ora si avvicina alla riva. Il mio accompagnatore cominciò a dire: «Qui è necessario usare un po' di accortezza, accostandoci ora da una parte, ora dall'altra alle rientranze del sentiero (al lato che si parte: per evitare le sporgenze)». Questo procedere rese corti i nostri passi, tanto che il disco diminuito (scemo: perché sono già passati quattro giorni dal plenilunio) della luna era giunto nuovamente all'orizzonte per tramontare, Secondo i calcoli astronomici la luna, che è ora prossima all'ultimo quarto, tramonta in purgatorio dopo più di quattro ore rispetto al sorgere del sole: sono perciò passate le dieci del mattino. E' questa "un'altra solinga apertura di paesaggio: quello spicchio di luna che tramonta fra le strette pareti della roccia, quella visione tanto più ariosa del monte che - al di là della cruna - si raccoglie e si slancia verso il cielo, quel ripiano deserto su cui restano i due pellegrini. Il paesaggio s'intona tutto sulla nota iniziale della luna che tramonta; e questa getta su tutto il quadro un senso mattinale di freddo, di raccoglimento e di silenzio. Sulle tracce di questa nota ritorna quel senso di lontananza dalla terra che è uno dei temi più insistenti e più reconditi del Purgatorio... l'azione, Dante, i personaggi, il paesaggio, tutto parla, esplicitamente o implicitamente, di questa infinita distanza; e forse l'infinito che insiste in tutto il Purgatorio, senza l'appoggio di immagini o di misure, è sentimentalmente e poeticamente più forte che quello così spesso raffigurato o misurato nel Paradiso. Il Purgatorio è tutto immerso in un'aria di lontananza" (Momigliano). prima che noi uscissimo fuori di quel sentiero (cruna: stretto come una cruna d'ago): ma quando ci fummo liberati di quelle difficoltà e ci trovammo in luogo aperto, in alto, dove il monte si restringe in dentro formando un ripiano,

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essendo io stanco ed ambedue incerti sulla direzione da prendere, sostammo in un luogo piano privo di gente più che non sia una strada tracciata attraverso un deserto. (Questo ripiano) dalla sponda esterna confinante con il vuoto, fino all'inizio dell'alta montagna che continua a salire, misurerebbe tre volte il corpo umano (cioè da cinque a sei metri); e per quanto la mia vista poteva spaziare, sia a destra che a sinistra, la cornice mi sembrava sempre della stessa larghezza. I nostri piedi ancora non si erano mossi lassù, quando io mi accorsi che quella fascia inferiore della parete che era meno ripida (dritto di salita aveva manco: affinché potesse essere vista anche dai superbi che camminano curvi), era di marmo candido ed ornato di sculture così perfette, che non solo Policleto, ma anche la natura lì si vedrebbe superata. Policleto, famoso scultore greco del V secolo a.C., fu conosciuto nel Medioevo attraverso le lodi che di lui fecero gli scrittori latini (Cicerone, Plinio, Quintiliano) e venne esaltato come l'artista che nel suo campo seppe realizzare l'ideale supremo di perfezione. In ogni girone del purgatorio le anime, oltre a sopportare una pena particolare dovuta al contrappasso, devono meditare intorno ad esempi che sono stati divisi da Dante in due gruppi. Quelli della virtù contraria al vizio di cui si sconta la pena in quel particolare girone, stanno all'inizio dell'episodio a dominare artisticamente, a fissare il tono poetico di quel canto e di quell'episodio, e quelli del vizio che, stando a chiusura, quasi sempre, dell'episodio, sono solitamente più fuggevoli man mano che si sale, e come sopraffatti dagli esempi delle virtù immediatamente seguenti. Tuttavia in questa prima occasione gli esempi della superbia sono tredici, quasi ad indicare quanto ancora gravi su Dante il peso del peccato del quale egli si dichiara particolarmente colpevole. A Ioro volta ciascun gruppo di esempi si distribuisce con identica scelta, cioè viene indicato un personaggio della Bibbia, uno della classicità, uno dei tempi moderni, poiché Dante intende ricapitolare tutta quanta la storia dell'umanità, di quella che ha atteso il Cristo e di quella che si è attuata dopo la sua venuta, perché "ugualmente sacro è il valore delle due civiltà", in quanto "in Roma e nella civiltà pagana ordinata dalla Provvidenza a preparare il ritorno della giustizia e della pace, si adombra il travaglio della umanità che lungo il corso dei secoli muove alla riconquista della pienezza delle virtù morali" (Sacchetto). L'arcangelo Gabriele che scese sulla terra per annunciare la decisione divina della pace da molti anni chiesta dagli uomini con infinite lagrime, decisione che aperse il cielo (all'umanità) dopo un così lungo divieto (da quando Adamo ed Eva erano stati cacciati dal paradiso terrestre), Ma si sarebbe giurato che egli dicesse: « Ave! », perché lì era pure rappresentata Maria che aperse agli uomini l'amore divino;

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Nel primo esempio di umiltà Dante presenta l'annunciazione alla Vergine (Luca I, 26-38), e di argomento mariano saranno sempre i primi esempi di virtù nei singoli gironi del purgatorio: "la Vergine si trova al vertice della scala: prima dopo Dio, più in alto di tutti gli uomini; ed è naturale e ragionevole che, nell'esemplificare, si segua l'ordine gerarchico: dall'alto al basso" (Mattalia). "La figurazione plastica esprime con tanta intensità il sentimento, da suggerire anche le parole in cui questo si traduce. Il fenomeno, che Dante sottolinea fin d'ora servendosi di quelle formule di cui anche altrove si giova per attestare cose a prima vista incredibili, cresce da un esempio all'altro, fino al visibile parlare del terzo, dove addirittura è resa una successione di sentimenti e di corrispondenti parole, e cioè tutto lo svolgersi di un dialogo. Si passa così a poco a poco da un'asserzione metaforica, e come tale verisimile, ad un fatto propriamente e dichiaratamente miracoloso!” (Sapegno) e c'erano realmente impresse (o perché veramente scritte, o perché sembrava, dal movimento delle labbra, che le stesse pronunciando) queste parole: «Ecco l'ancella del Signore », proprio come la figura del suggello si imprime nella cera. "Il verso come figura in cera si suggella condensa tutta una serie di usanze artistiche e idee anagogiche del Medioevo, che sfuggono al lettore moderno. Nel Medioevo la parola figura, significa anche «detto», «parola», «frase»; si usava scrivere le lettere della cartella a destra in senso inverso, da leggere da destra a sinistra, cioè quasi sigillate in cera o viste in uno specchio, mentre la cartella di sinistra era normale. Ma se il contemplante leggeva tutte due le cartelle da destra a sinistra, veniva a leggere Eva invece di Ave; e questo significava... che il peccato di Eva era abolito per mezzo dell'Ave Maria, cioè dalla nascita del Redentore, idea che dirige la meditazione dell'umiltà verso la grande idea centrale dei Cristianesimo. (Gmelin) « Non guardare e meditare solo una rappresentazione » disse il dolce maestro, che mi teneva dalla parte del cuore (cioè alla sinistra). Perciò io mossi gli occhi, e dietro a Maria vidi, dalla parte in cui si trovava Virgilio, colui che mi guidava, un'altra storia intagliata nella roccia; per cui io passai oltre Virgilio, e mi avvicinai, affinché quella raffigurazione fosse tutta spiegata davanti ai miei occhi. Lì, sempre nel marmo, era intagliato il carro con i buoi, che tiravano l'arca santa, quell'arca per cui si teme di fare qualcosa che non ci sia stata ordinata. Durante il trasporto dell'arca, ordinato da Davide, da Baala a Get, avvenne che Oza, uno dei conducenti, vedendo l'arca sul punto di cadere, stese la mano per sorreggerla, e fu fulminato per avere compiuto un gesto permesso solo ai sacerdoti (11 Samuele VI, 1-7). Davanti all'arca appariva della gente; e tutta quanta, divisa in sette schiere, (cantando) faceva dire ai miei due sensi (udito e vista), all'uno « No » (se si affidava al senso dell'udito), all'altro « Si, canta » (se

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si affidava a quello della vista). Allo stesso modo gli occhi ed il naso si fecero discordi nel rispondere l'uno di si (gli occhi) e l'altro di no (il naso) rispetto al fumo dell'incenso che vi era rappresentato. Nel bassorilievo Davide, umile salmista, stava davanti all'arca santa, con la veste rialzata mentre danzava, e in quel gesto era nello stesso tempo più e meno di un re. Davide, compositore dei Salmi, con quell'umile comportamento intendeva abbassarsi davanti a Dio e appariva più... che re perché il suo umiliarsi lo innalzava a Dio più della sua stessa autorità, men che re essendo i suoi atti sconvenienti alla dignità regale. In faccia a Davide (di contra: dall'altra parte della scultura), rappresentata ad una finestra di un gran palazzo, Micol (figlia di Saul e prima moglie di Davide) guardava stupefatta come fa di solito una donna sprezzante e insofferente. Micol, per questo suo atteggiamento di fronte al gesto di Davide, fu punita con la sterilità. L'esempio di umiltà diventa anche esempio di superbia punita. Dante tuttavia unisce due episodi che si succedono in tempi diversi, poiché il secondo avvenne durante il trasporto dell'arca da Get a Gerusalemme (II Samuele VI, 12-23). lo mi mossi dal luogo dove mi trovavo, per guardare da vicino un'altra storia, che al di là della figura di Micol mi attraeva con il suo bianco. Vi era raffigurato il grande fatto glorioso del principe romano, il quale con la sua giustizia mosse papa Gregorio Magno alla sua grande vittoria (sulla morte e sull'inferno); La leggenda dell'intervento di papa Gregorio Magno in favore di Traiano compare per la prima volta nel IX secolo, è ricordata poi da molti scrittori e confluisce in diverse raccolte medievali di novelle. Nel Novellino si narra: "Lo 'mperadore Traiano fu molto giustissimo signore. Andando un giorno con la sua grande cavalleria, contra suoi nemici, una femina vedova li si fece dinanzi, e presolo per la staffa e disse: - Messer, fammi diritto di quelli ch'a torto m'hanno morto il mio figliuolo! - E lo 'mperadore disse: - Io ti sodisfarò, quando io tornarò. - Ed ella disse: Se tu non torni? - Ed elli rispose: Sodisfaratti lo mio successore. - E se 'l tuo successore mi vien meno, tu mi sei debitore. E, pogniamo che pure mi sodisfacesse, l'altrui giustizia non libera la tua colpa. Bene averràe al tuo successore, s'elli liberrà sé medesimo. - Allora lo 'mperadore smontò da cavallo e fece giustizia di coloro, ch'aveano morto il figliuolo di colei. E poi cavalcò e sconfisse i suoi nemici. E dopo non molto tempo, dopo la sua morte, venne il beato San Grigoro papa e, trovando la sua giustizia, andò alla statua sua, e con lagrime l'onorò di gran lode e fecelo diseppellire. Trovaro che tutto era tornato alla terra, salvo che l'ossa e la lingua. E ciò dimostrava, come era suto [stato] giustissimo uomo e giustamente avea parlato. E Santo Grigoro orò per lui, a Dio. E dicesi per

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evidente miracolo, che, per li preghi di questo santo Papa, l'anima di questo lmperadore fu liberata dalle pene dell'inferno e andonne in vita eterna. Ed era stato pagano" (LXIX). parlo dell'imperatore Traiano; e vicino al freno del suo cavallo era raffigurata una povera vedova in atteggiamento di pianto e di dolore, Lo spazio intorno a Traiano sembrava affollato e pieno di cavalieri, mentre le aquile nere in campo d'oro visibilmente si muovevano al vento sopra la gente accalcata. In realtà le aquile delle insegne militari romane, essendo di metallo, non potevano muoversi; Dante ora le immagina com'erano ai suoi tempi, cioè raffigurate su bandiere. La povera donna in mezzo a tanta e così importante gente sembrava dire: « Signore, fa giustizia per mio figlio che è stato ucciso, per la qual cosa sono così addolorata ». E l'imperatore le rispondeva: « Ora aspetta finché io ritorni ». E la donna aggiungeva, come una persona nella quale il dolore incalza: « Mio signore, e se tu non tornassi? » E l'imperatore: « Chi sarà al mio posto, porterà a termine la vendetta per te ». Ed ella: « Il bene compiuto dagli altri che vantaggio ti darà', se trascuri di compiere il tuo dovere?». Per cui l'imperatore: « Confortati dunque; è giusto che io assolva il mio dovere prima di muovermi alla guerra: la giustizia vuole (che io mi comporti così ) e la pietà mi trattiene (dal partire prima di aver fatta giustizia)». Dio per il quale nessuna cosa, è mai nuova (perché le contempla dall'eternìtà) fu l'autore di queste sculture che sembrano parlare, con un procedimento artistico che sembra agli uomini straordinario perché non si trova nelle opere umane. "La scultura e la pittura ritraggono il momento, non la successione degli atti: Dante invece immagina, per virtù di miracolo, impressa la successione in un solo gruppo scultorio. Questo terzo esempio è dunque assai più straordinario degli altri due: e pare che Dante abbia voluto in certo modo rendere più agevole alla fantasia dei lettori questo miracolo avvicinando il più possibile i tempi del dialogo, come a tentar di comprimere in una sola scena gli atteggiamenti delle battute che s'incalzano: di qui la frase così pregnante esto visibile parlare." (Momigliano) Mentre io godevo nel guardare le raffigurazioni di atti di così grande umiltà, che mi riuscivano care a vedersi perché erano opera diretta di Dio, L'arte, secondo il concetto platonico, che però il Medioevo ha ricevuto nella rielaborazione alla quale Aristotile lo ha sottoposto, è imitazione, per quanto imperfetta, della natura, che a sua volta è copia imperfetta di Dio, mentre questi bassorilievi sono prodotti direttamente da Dio e quindi partecipano della

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perfezione dell'idea divina. Dante ha certamente presente, nell'immaginare queste sculture, l'arte del suo tempo: sulle facciate delle chiese, sui balaustri delle reggie sacre, le figure bibliche e cristiane, uscite dai cicli dell'epopea religiosa, narravano i propri dolori e le gioie alle pene e alle speranze del popolo, in composizioni ingenue, con forme senza ritmo di proporzioni, ma vive alla fantasia, ma benefiche al sentimento. Sugli architravi e sugli stipiti nelle porte delle cattedrali.. le rozze sculture, raffiguranti le opere e i giorni, insegnavano alle turbe dei villani i lavori campestri di ciascun mese per le diverse stagioni ... Per tal modo l'arte romanica s'era appressata alla vita, rivolgendo a intendimenti didattici specialmente le istorie bibliche ed evangeliche, scolpite nei sarcofaghi dei bassi tempi, incise negli avori, intassellate nei mosaici, ridenti dalle carte dei libri liturgici carolingi" (Campanini). Ma non' si dimentichi anche che Dante era sollecitato dal rinascere della scultura ai suoi tempi, specialmente.con Andrea Pisano, e da quello della pittura con Cimabue e Giotto. il poeta mormorava: «Ecco da sinistra, molte anime, che però procedono lentamente: esse ci indicheranno la strada per raggiungere gli alti gironi ». I miei occhi che erano appagati nell'ammirare le sculture, s'affrettarono a volgersi verso Virgilio, per poter vedere ciò che di nuovo si presentava, di cui sono sempre desiderosi. Non voglio però, lettore, che tu ti distolga da ogni tuo buon proponimento nell'udire come Dio ha voluto che si paghi il debito (contratto col peccato). Tu non devi badare alla qualità della pena: devi invece pensare a ciò che seguirà (la succession: cioè la beatitudine dopo questo periodo di punizione); devi pensare che nella peggiore delle ipotesi, tale pena non può protrarsi oltre il giudizio universale. In seguito al giudizio particolare, pronunciato dopo la morte, l'anima, se non viene condannata per sempre all'inferno o se non è ritenuta subito degna del paradiso, deve subire le pene del purgatorio, il quale però terminerà il giorno del Giudizio Universale; perciò a queste punizioni il penitente, nella peggiore delle ipotesi, dovrà soggiacere fino a quel momento. Io cominciai a dire: « Maestro, quelli che io vedo muoversi verso di noi, non mi sembrano persone, e non so che cosa siano, tanto confusa è l'impressione che riceve la mia vista ». E Virgilio mi rispose: « La grave condizione della loro pena li piega a terra come fossero rannicchiati, così che anche i miei occhi in un primo momento diedero luogo ad un contrastante giudizio (tencione: se cioè si trattasse veramente di uomini o no). Ma guarda fissamente verso quel punto, e con la vista sforzati di distinguere ciò che cammina a fatica sotto quei massi: già puoi scorgere che ciascuno di loro (con le ginocchia) si percuote il petto. O superbi cristiani, poveri infelici, che, privi della capacità di ben discernere, avete fiducia solo nei vostri

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passi che (invece di farvì avanzare) vi portano indietro, non v'accorgete che noi uomini siamo come bruchi destinati a mutare! nell'angelica creatura (angelica farfalla: cioè l'anima, che partecipa della natura spirituale degli angeli), che deve volare fino alla giustizia divina senza alcuna possibilità di riparo (sanza schermi: senza il sostegno di nessun bene umano)? Di che s'insuperbisce il vostro animo, dal momento che siete come insetti ancora imperfetti, così come bruchi in cui manchi la completa formazione? Come talvolta si vede, a sostegno del soffitto o del tetto, una figura che ad uso di mensola congiunge le ginocchia al petto (piegata sotto quel grave carico), la quale fa nascere in chi la vede un vero dolore per un fatto in sé non vero (del non ver, in quanto è solo rappresentato); così io, quando guardai meglio vidi quei penitenti così piegati. Tuttavia essi erano più o meno piegati a seconda che avessero un peso più o meno grave addosso; e colui che nell'atteggiamento pareva più rassegnato, sembrava dire tra le lagrime: "Non ne posso più".

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO XI

«Padre nostro, che stai nel cielo, non perché limitato da questo, ma per il maggiore amore che tu nutri per i cieli e gli angeli (primi effetti di là su: le prime opere create dà Dio), il tuo nome e la tua potenza siano oggetto di lode da parte di tutte le creature, così come è giusto rendere grazie al tuo amoroso spirito. Ci sia concessa la pace del tuo regno, perché noi con le nostre sole forze, per quanto ci adoperiamo, non possiamo pervenire ad essa, se non ci viene incontro. Come i tuoi angeli sottomettono a te la loro volontà, acclamandoti, così siano pronti a fare gli uomini della loro. Donaci oggi la grazia divina, senza la quale retrocede colui che più si sforza di procedere attraverso le difficoltà del mondo, E come noi perdoniamo a ciascun nostro nemico il male che abbiamo ricevuto, anche tu perdona a noi con misericordia, senza guardare i nostri meriti insufficienti. Non mettere alla prova la nostra forza che facilmente si abbatte, con le tentazioni del demonio, ma liberala da lui che con tanta insistenza la spìnge (al male). L'ultima parte della preghiera, o dolce Signore, non è più fatta per noi, dal momento che essa per noi non è più necessaria, ma per coloro che abbiamo lasciato sulla terra.» Coscienza dei limiti umani e vibrante ansia dei beni superiori, non più caduchi ma perfetti, sorreggono la parafrasi del « Pater Noster », la preghiera evangelica più alta, che è confessione di umiltà del singolo uomo di fronte a Dio e voce corale di tutta la cristianità. Un largo filone critico, a partire dal Tommaseo, denuncia la scarsa validità poetica di queste terzine, che si dispongono come dottrinale svolgimento della ieratica semplicità delle parole di Cristo (Matteo VI, 9-13; Luca XI, 2-4) e giustifica l'inizio del canto XI come il prodotto di un gusto particolare del Medioevo, che amava parafrasare, in un genere Il tra dottrinale e retorico" (Parodi), le più conosciute preghiere biblíche. Senza dubbio il commento delle parole sacre è in parte teologico - guidato dalla esatta terminologia della filosofia scolastica (circunscritto, primi effetti) - e in parte morale - come nel dolente accenno all'aspro diserto che l'umanità deve percorrere e ai suoi sforzi inutili (verso 15) senza l'aiuto divino - ma il rilievo in cui è posto il dramma

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della debolezza umana e il confidente abbandono in Dio (versi 7-9; versi 13, 18; versi 19-21), e la lentezza del ritmo con cui si snoda la preghiera, non canto esaltante, ma faticosa espressione che richiama il verso finale del canto precedente, piangendo parca dicer: "Più non posso", arricchiscono la parafrasi di un particolare tono di poesia. Il Fallani nota che l'aver risolto la preghiera nel ritmo della terzina, con pause efficaci, con riprese e lievi varianti e amplificazioni, non ha sfigurato la purezza originale dell'oratio, mentre questo gruppo che espia il suo orgoglio di fama e di gloria terrena e che per la superbia era costretto, un tempo, ad un'azione egoistica e vana, ora con la preghiera per color che dietro noi restaro entra nel circolo vastissimo e corale di tutto il mondo ch'è allo stato di prova". Di grande efficacia è l'aver fatto recitare direttamente la preghiera dai superbi, perché le pause di riflessione trovano così la loro giustificazione: il rapporto fra Dio e le creature che deve essere vissuto come rapporto fra padre e figlio, il rapporto fra gli uomini che vengono così trasformati in fratelli, il dovere dell'amore e il bisogno della preghiera reciproca sono realtà che i superbi intendono solo ora, con estrema chiarezza, mentre, curvati verso la terra, gemono sotto il peso del rnacigno che li doma. Per questo, pur nel legame che impone di per sé la preghiera dei Pater, "il Poeta ha saputo trovare una cadenza ritmica solenne, quasi di salmo gregoriano, che scaturisce dalla realtà vivente dei peccatori... riguadagnati alla Grazia nella rappresentazione del loro ultimo dramma, prima della visione beatifica" (Fallani). L'espressione quest'ultima preghiera è riferita da molti commentatori alla terzina 19: i superbi chiedono al signor caro la grazia di assistere chi in terra è ancora esposto alla tentazione, "fatti teneri della tenerezza che il Padre ha mostrato loro, salvandoli dal pericolo estremo" (Marzot). Il Porena più giustamente ritiene che essa comprenda tutta l'ultima parte della preghiera (versi 13-21), in cui i riferimenti alla vita terrena sono continui e diretti. Così quelle ombre innalzando una preghiera di buon augurio per sé e per gli uomini, procedevano sotto il peso dei massi, peso simile a quello che talvolta ci opprime nell'incubo di un sogno, girando tutte intorno al monte lungo la prima cornice, travagliate in modo diverso (disparmente: secondo la gravità del peccato) e sfinite, purificandosi delle brutture del peccato. Se nel purgatorio pregano sempre per noi, quali preghiere e quali opere si potrebbero fare nel mondo per le anime penitenti da parte di coloro la cui volontà di suffragio nasce da un cuore in grazia di Dio? E' giusto aiutarle a cancellare le macchie di peccato che hanno portato dal mondo, in modo che, purificate e prive di peccato, possano salire al cielo. « Possano la giustizia e la misericordia liberarvi presto dal peso, in modo che possiate iniziare il volo, che vi innalzi dove desiderate, (in nome di questo augurio) indicateci da quale parte si giunge prima alla scala (che porta al secondo girone); e se esistono più passaggi, mostrateci quello che sale meno ripido,

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perché questo che procede con me, a causa del peso del corpo di cui è rivestito, è lento nel salire, di contro al suo desiderio.» Il centro drammatico del canto. più che negli incontri che ne occupano la seconda parte, si risolve nelle terzine 25-39, il cui motivo conduttore . la sofferenza delle anime, la loro serena rassegnazione e la commossa partecipazione di Dante - non solo si dispone lungo l'arco dei tre canti dedicati ai superbi, ma è momento ricorrente in ogni altra cornice, perché è da questo che nasce la poesia del Purgatorio. Essa infatti "si muove tra i limiti di un passato, che perdura per rendere possibile il rimorso salutifero, e, il futuro, di cui l'anima coglie qualche vivido presagio. E questi due aspetti si scontrano dentro l'anima del penitente. che non ha una storia intermedia, su cui posi col pensiero... L'umano delle anime penitenti si esprime o si esalta in due sospiri: uno di rimorso, uno di speranza , (Marzot). Per questo la nuova siuazione poetica si sdoppia tra lo spettacolo di quello che l'uomo fu in terra - animoso, prode, magnanimo - e il senso dì quiete laboriosa, nell'esercizio mite della penitenza, che rintuzza ogni aggressività di natura e pone un sorriso nella realtà della propria storia, sempre più lontanante. I motivi drammatici emergenti da questa disposizione interiore delle anime e dalla figurazione scenica si ripercuotono nell'animo, di Dante - la cui umanità appare tutta in due versi (35-36) - e preparano gli episodi seguenti. Le parole, che risposero a quanto aveva detto la mia guida, non si capì da quale anima fossero pronunciate; ma si dìsse: « Seguiteci a destra lungo la parete, e troverete il passaggio che può essere salito da un vivente. E se io non fossi impedito dal masso che piega il mio capo superbo, per cui sono costretto a tenere il viso abbassato, guarderei costui, che è ancora vivo e non ha detto il proprio nome, per vedere se lo conosco, e per ispirargli pietà di questo peso. Io fui italiano e fui figlio di un grande toscano: mio padre fu Guglielmo Aldobrandesco; non so se il suo nome sia mai arrivato alle vostre orecchie. L'anima che parla a nome dei suoi compagni di pena (le lor parole) è quella di Omberto Aldobrandeschi, figlio di Guglielmo, appartenente alla nobile famiglia ghibellina dei conti di Santaflora. Omberto fu signore di Campagnatico. nel Grossetano, e con l'aiuto dei Fiorentini continuò contro Siena le lotte iniziate dal padre. Mori nel 1259, e intorno alla sua morte esistono due versioni: secondo la prima fu ucciso da sicari inviati dai Senesi, secondo l'altra, più attendibile, morì eroicamente, difendendo il suo castello contro i Senesi. Il nome di Guglielmo, morto fra il 1253 e il 1256, riempì a lungo le cronache toscane, sia per il suo accanimento contro Siena. sia per la sua politica incerta fra Papato e Impero.

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L'antichità della mia famiglia e le azioni illustri dei miei antenati mi resero così superbo, che, non pensando che unica è la madre di tutti, la terra, disprezzai a tal punto il mio prossimo, che ciò fu causa della mia morte; e come essa avvenne, lo sanno i Senesi e a Campagnatico lo sa ogni essere parlante. Se si accetta la versione dell'assassinio, bisogna intendere che solo i Senesi che ne furono causa e gli abitanti di Campagnatico che vi assistettero, conoscono come, cioè in quale misero modo, Omberto morì. Se si accetta la notizia della fine in battaglia, il come si riferirà al coraggio con cui eglì cadde. Sono Omberto; e la superbia ha recato danno non solo a me, perché essa ha trascinato con sé nel male (in vita e dopo la morte) tutti i miei consanguinei (consorti: nel significato medievale di membri di famiglie provenienti dallo stesso ceppo). Ed è necessario che io qui porti questo peso a causa della superbia, fin tanto che la giustizia divina abbia ricevuto soddisfazione, qui tra i morti, dal momento che non l'ho fatto mentre ero vivo ». La caratterizzazione psicologica di Omberto Aldobrandeschi è raggiunta anzitutto attraverso il suo linguaggio aspro, difficile, continuamente spezzato dall'alzarsi improvviso della voce in un moto dell'antica superbia (s'io non fossi... guardere'io... io fui latino... io sono Omberto... io questo peso porti... poi ch'io nol fe') e dal suo piegarsi altrettanto improvviso in una voluta ricerca di umiltà (la cervice mia superba doma... per farlo pietoso a questa soma... non so se 'l nome suo già mai fu vosco). Non è ironia quella che muove questo discorso, come vorrebbe il Marzot, bensì Il sentimento drammatico di una non compiuta vittoria su se stesso, di un'oscillazione lenta a risolversi fra il guerriero di un tempo, abituato al comando, e il penitente, che sembra fare tutt'uno con la pietra che lo schiaccia contro la terra. Non c'è più il cuore di una volta, ma, nel breve cono d'ombra che la colpa proietta dentro di lui, si muove il superstite senso della terra, cioè perdura la condizione del carattere (l'orgoglio dell'antico sangue e delle opere leggiadre), essendo in lui ancora all'inizio quel processo di ascensione che invece già tanto ha eliminato del contingente presente in Oderisi e Provenzano Salvani. Per ascoltare abbassai il viso; e una di quelle anime, non quella che parlava, si torse sotto il peso che le opprimeva, e mi vide e mi riconobbe e mi chiamò per nome, tenendo faticosamente fissi gli occhi su di me che procedevo con loro tutto chinato. « Oh! » gli dissi, « non sei Oderisi, il vanto di Gubbio e il vanto di quell'arte che a Parigi è chiamata illuminare (alluminar: miniare) ? » Oderisi (o Oderigi) da Gubbio fu un celebre miniatore. vissuto intorno alla metà del '200. Alcuni

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documenti attestano la sua presenza a Bologna fra il 1268 e il 1271, e a Roma; pare abbia soggiornato anche a Firenze. Morì nel 1299. Dante, per quanto possiamo ricavare da questi versi, l'avrebbe conosciuto e stimato profondamente, quale principale esponente della miniatura bolognese, che in questo periodo subiva l'influenza di quella francese. Del resto la Francia dominava allora questo campo artistico, per cui accanto al termine italiano « miniare » esisteva anche la forma « illuminare », coniata sul francese enluminer, che a sua volta pare derivi dal latino alumen, « allume », un materiale particolare usato per accrescere la lucentezza dei colori adoperati dal miniatore. « Fratello », mi rispose « sono più belle le opere che dipinge il bolognese Franco: la gloria ora è tutta sua, e a me ne resta solo una parte. Franco fu un miniatore bolognese, più giovane di Oderisi di qualche anno; secondo il Vasari, che afferma di aver visto molte opere miniate da lui, sarebbe stato "miglior maestro" di Oderisi. Tuttavia tanto di Franco quanto di Oderisi non abbiamo alcuna opera che si possa loro attribuire con assoluta certezza. Certamente, mentre ero in vita, (nell'ammettere la superiorità di un altro) non sarei stato così generoso, a causa del grande desiderio di eccellenza al quale il mio animo era tutto rivolto. Qui si sconta la pena di questa superbia; e non mi troverei neppure qui (sarei ancora nell'antipurgatorio), se non fosse che mi pentii, mentre (essendo in vita) potevo ancora peccare. Oderisi, che rappresenta la superbia nell'arte, dopo quella della stirpe di Omberto e prima della superbia politica di Provenzano, appare "in una condizione spirituale più monda di scorie psicologiche e terrestri che non Omberto Aldobrandeschi: egli è meglio riuscito a sconfiggere in sé i difficili e rissosi orgogli dell'artista, e all'amichevole enfasi con cui Dante l'aveva salutato onore della sua città e dell'arte della miniatura egli contrappone, con libero riconoscimento, il più luminoso sorriso delle pergamene miniate dal suo antagonista Franco bolognese. I ricordi delle accanite lotte per la conquista del primato nella propria arte, e la vicenda delle altre fame artistiche e letterarie, gli si sono ormai chiariti in una religiosa filosofia della vanità. Ma è una filosofia umanamente ancor patita, venata di malinconia, non tranquillamente serena: Oderisi disserta per persuadere, oltre Dante, anche se stesso, quanto in lui sopravvive, resistendo all'ultima e suprema liberazione spirituale, di umano e terrestre" (Mattalia). Oh quanto è vana la gloria dell'umano valore! quanto poco tempo resta rigogliosa sulla cima del suo albero, se non è seguita da un periodo di decadenza! Cimabue credette di essere senza rivali nella pittura, ed ora è di Giotto tutta la fama, cosicché la sua è oscurata: Giovanni di Pepo, soprannominato Cimabue, nacque a Firenze nel 1240 e morì all'inizio del 1300. Iniziò l'opera di distacco della pittura italiana dalla tradizione bizantina, opera che fu continuata, con ancora maggiore decisione, dal suo allievo, Giotto. Un antico commentatore, l'Ottimo, ripreso poi dal Vasari,

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afferma che fu "pintore... molto nobile", ma particolarmente "arrogante e... sdegnoso". Giotto di Bondone del Colle nacque a Vespignano (vicino a Firenze) intorno al 1266 e morì nel 1337 a Firenze, dopo un'intensa attività, della quale le principali testimonianze si trovano oggi ad Assisi, Padova e Firenze. Con la sua opera il rinnovamento della pittura italiana è ormai un fatto compiuto. Dopo innumerevoli studi la maggior parte dei critici è d'accordo nell'ammettere fra Dante e Giotto rapporti di amicizia e di stima. così Guido Cavalcanti ha strappato a Guido Guinizelli il primato nell'uso della lingua volgare; e forse è nato chi oscurerà la loro fama. Guido Guinizelli, nato a Bologna fra il 1230 e il 1240 e morto nel 1276, fu iniziatore della scuola poetica del dolce stil novo (della quale Dante fu uno dei principali esponenti), sia per la concezione dell'amore sia per l'uso raffinato del volgare. Dante lo loda particoIarmente nel Convivio (IV, 20, 7) e nel De Vulgari Eloquentia (1, 9, 3; 15, 6; Il, 5, 4; 6, 6) ed esalterà la sua poesia nel canto XXVI del Purgatorio. Guido Cavalcanti, figlio di quel Cavalcante dei Cavalcanti da Dante posto nell'inferno fra gli eresiarchi (canto X, versi 52-72), fu grande rappresentante del dolce stil novo, amico e maestro di Dante. Nato poco prima del 1260, morì nel 1300. L'espressione e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà del nido pare voglia alludere, secondo molti commentatori antichi e moderni, a colui che, se pittore, oscurerà la fama di Gíotto (l'uno), se poeta, la fama di Guido Cavalcanti (l'altro) : riferendo l'uno e l'altro ai due Guidi, c'è da superare la difficoltà del fatto che la gloria del Guinizelli non si può più oscurare, dal momento che essa è già stata distrutta dal Cavalcanti. Tuttavia è più esatto intendere, seguendo alcuni interpreti antichi, che qui Dante alluda a se stesso, che supererà in grandezza i due poeti precedenti. Questa affermazione non è superba esaltazione di sé, ma consapevolezza delle proprie capacità poetiche (cfr. anche il canto XXIV del Purgatorio, versi 52-54). Tuttavia questo giudizio si svolge nell'ambito di una profonda meditazione intorno alla caducità dei fatti e della gloria terrena, cosicché anche Dante riconosce di non potersi sottrarre alla legge del tempo: come Cimabue, il Guinizelli e il Cavalcanti sono già stati dimenticati, presto lo saranno anche Giotto e lui stesso. La gloria umana non è altro che un soffio di vento, che ora spira da una parte ed ora spira dall'altra, e cambia nome ogni volta chi cambia direzione. Quale fama più grande avrai, se muori vecchio, di quella che avresti se fossi morto prima.di abbandonare il linguaggio dei bimbi (il pappo e il dindì rappresentano la storpiatura infantile di « Pane » e « moneta »), prima che siano trascorsi mille anni? perché (mille anni) rispetto all'eternità costituiscono un periodo di tempo più breve di un battito di ciglia rispetto al movimento del cielo che ruota più lentamente degli altri (al cerchio che più tardi in cielo è torto: il cielo delle stelle fisse che impiega 360 secoli a compiere la sua rivoluzione). Colui che cammina a passi così brevi davanti a me, fece risuonare del suo nome tutta la Toscana; ed ora

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

a malapena è ricordato a Siena, della quale era signore quando venne distrutta la baldanza fiorentina, che a quel tempo fu superba così come ora è avvilita. Colui che fu sire in Siena è Provenzano Salvani, che fu uno dei più autorevoli ghibellini della Toscana, ed ebbe nelle sue mani il governo di Siena dopo il 1260, Al concilio dì Empoli, dopo la vittoria ghibellina di Montaperti, fu tra coloro che sostennero la necessità di una distruzione totale della guelfa Firenze (cfr. Inferno canto X, versi 91-93). Nel 1269 a Colle di Valdelsa partecipò ad uno scontro fra Senesi e Fiorentini e "fu preso e tagliatogli il capo, e per tutto il campo portato fitto in su una lancia" (Villani-Gronaca VII, 31). La vostra fama è come il colore dell'erba, che appare e scompare, e viene seccata dal sole ad opera del quale esce dalla terra ancora immatura.» La perorazione di Oderisi si inquadra perfettamente, nel concetto di «tempo» del mondo purgatoriale: se nell'inferno il passato immobilizzato nell'atto del peccato, si identifica col presente. che è la dannazione derivata da quel peccato, e che si distenderà all'infinito senza mutamenti, nel Purgatorio il ritmo del tempo è avvertito dalle anime perché è segnato dalla loro progressiva ascesa verso l'alto attraverso le varie cornici. La loro vita spirituale è in movimento continuo verso la perfezione, e il movimento presuppone una misura oggettiva delle ore entro cui svolgersi. Solo questo « tempo » ha valore, perché è in rapporto con l'eternità, mentre i mill'anni della terra rivelano tutti la loro caducità attraverso il rapido avvicendamento di luci e di ombre, che illuminano e coprono con rapidi trapassi (neppure una generazione intercorre fra Oderisi e Franco, Cimabue e Giotto, Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti) gli individui. Questa legge universale, che sembra dapprima affacciarsi con il vigore dell'invettiva (oh vana gloria del'umane posse!) si svolge poi entro il ritmo solenne di una contemplazione, che trasferisce ogni, significato ideale nelle immagini prese dalla vita della natura, là dove più visivamente si impone il trapassare del tempo: dalla suggestiva figura dell'albero con il suo breve e alterno verde, attraverso quella della mobilità del fiato di vento, per concludersi con una ripresa del motivo coloristico, la vostra nominanza è color d'erba. Dove però la visione si dispiega più commossa e fatta più certa nelle sue affermazioni, è nell'intervento dell'etterno e del cielo: sulla ,fama, grandeggia il tempo (pria che passin millanni) e sul tempo, l'eterno. Dagli esempi particolari di Omberto e di Oderisi, e dall'esperienza storica dì Cimabue, di Giotto, dei due Guidi, il Poeta giunge all'enunciazione di una legge universale, che trascende anche lui. "L'alta coscienza che Dante ha di sé e della sua opera resta nel fondo, inopprimibile elemento umano; però, se egli certo si sente tanto al di sopra dei due Guidi, non osa gridare alto il suo nome e affermare la sua gloria, perché subito il suo nome e la sua gloria sono sommersi dal valore universale della legge umana che egli, dopo lunga meditazione, sente ed esprime con così gravi parole" (Grabher). Ed io gli dissi: « Le tue veraci parole mi infondono un sentimento di buona umiltà, e appianano il mio animo gonfio di grande superbia: ma chi è colui del quale ora stavi parlando? »

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« Quello » disse « è Provenzano Salvani; e si trova qui perché ebbe la superba presunzione di impadronirsi di tutta Siena. Così curvo ha camminato e cammina. senza riposo, dal momento in cui è morto: tale pena deve pagare chi nel mondo ha troppo presunto di sé.» Ed io: « Se l'anima che aspetta, prima di pentirsi l'ultimo istante di vita, resta qui sotto (nell'antipurgatorio) e non può salire il monte se non l'aiuta la preghiera di un cuore in grazia di Dio, prima che sia passato tanto tempo quanto visse, per quale motivo a Provenzano fu concesso di accedere (al purgatorio vero e proprio) ? » « Quando era nel momento più glorioso della sua vita » disse, « messo da parte ogni sentimento di vergogna, di sua spontanea volontà si piantò sulla piazza del Campo di Siena (la più importante piazza della città); e lì, per liberare un suo amico dalla pena che soffriva nelle prigioni di Carlo d'Angiò, si ridusse (a mendicare) tremando (per l'umiliazione) in ogni fibra. A Provenzano Salvani fu concesso di entrare subito nel purgatorio, senza so stare nell'antipurgatorio come avrebbe dovuto, essendosi pentito solo in fine di vita, grazie ad un grande atto di umiltà. Un suo amico, Bartolomeo Saracini secondo alcuni, Vinea o Mimo dei Mimi, secondo altri, fatto prigioniero da Carlo I d'Angiò nella battaglia di Tagliacozzo, doveva pagare, per aver salva la vita, una taglia di diecimila fiorini. Provenzano nel Campo di Siena cominciò a chiedere l'elemosina ai suoi concittadini, "non sforzando alcuno, ma umilmente domandando aiuto" (Ottimo), finché raggiunse la somma necessaria.per liberare l'amico. Non ti dirò altre cose, e so che le mie parole sono oscure; ma passerà poco tempo, che i tuoi concittadini ti metteranno in condizione di poter in terpretare le mie parole. Questa azione gli evitò la sosta nel l'antipurgatorio (li tolse queí confini).» L'artista colorito, elegante nei modi, di gentile malinconia nel parlare della ricerca affannosa della fama, diventa pieno di eloquenza ammirativa nel presentare la figura di Provenzano Salvani, la sua fierezza partigiana, la volontà eroica che lo piegò liberamente a mendicare per l'amico: "C'era, dunque, in quel superbo, qualcosa oltre la superbia, qualcosa di così energico da sottomettere la superbia stessa: trionfo della bontà umana tra i più forti impedimenti, che sono quelli interiori, e perciò, in quanto drammatico, tanto più significante della forza incoercibile di essa" (Croce). Provenzano non parla, annientato quasi sotto il masso che lo costringe a prendere del cammin sì poco, antitesi amarissima con la sua vita di sire di un tempo: per questo più facilmente la sua apparizione si trasforma in autoritratto di Dante, o

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definizione autobiografica attraverso l'incontro con una creatura sorella, portando a compimento quel processo di identificazione con la sorte dei superbi da Dante iniziato procedendo tutto chin con loro. Nell'atto di Provenzano, quando "è la carne stessa che trema, la sua persona che s'impietra, tutto il suo essere che si capovolge nell'imperio audace, e finalmente vittorioso, sopra, di sé" (ApolIonio), è riassunta la storia dell'esilio di Dante, che Oderisi rivela con quel verbo « chiosare », che si conficca alla fine del verso con la stessa potenza del tremar per ogni vena.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO XII

Io camminavo con Oderisi oppresso dal peso, curvo come lui, come procedono i buoi aggiogati, finché lo permise il mio dolce maestro; ma quando disse: «Lascia i superbi e procedi oltre, perché nel purgatorio è necessario che ciascuno, quanto più può, con ogni mezzo porti avanti la sua barca (cioè il suo cammino)», mi raddrizzai nella persona così come si deve fare per camminare, sebbene i miei pensieri continuassero a restare umili e privi del turgore della superbia. Io mi ero incamminato, e seguivo con gioia i passi della mia guida, ed entrambi già mostravamo (camminando spediti) quanto eravamo privi di ogni peso; ed egli mi disse: «Abbassa gli occhi a terra: ti sarà utile, per distrarti dalla fatica del cammino, osservare il pavimento sul quale appoggi i piedi », La nota altamente umana e pensosamente soggettiva con la quale si era chiuso il canto precedente si dispiega lungo tutto l'arco di questi quindici versI, nei quali è in evidenza il personaggio lirico-drammatico di Dante. Ha fatto propria la sofferenza dei superbi fino ad accettare lo stesso modo di procedere (come buoi che vanno a giogo), la sua meditazione continua a svolgersi ansiosamente intorno alla necessità dell'umiltà (avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi), per approfondirsi ulteriormente in quel volgi li occhi in giù e, con un significativo moto progrediente dall'astrattezza di una dimensione interiore - i pensieri - alla concretezza di una proiezione esteriore - lo letto delle piante tue - che inserisce subito il lettore nella linea del canto, dove il tono morale non diviene sentenza o discussione retorica, ma si trasforma in evidenza di esempi. Dante dunque sarà costantemente « attore » in questo canto, nel quale ha volutamente eliminato ogni incontro con anime penitenti, affermando fin dall'inizio, lascia loro e varca; farà riaffiorare, nel silenzio profondo della cornice, le immagini di luoghi familiari, le chiese con le tombe terragne e le scalee per salire da Firenze a San Miniato; diventerà, "fattosi in margine e come sulla soglia tra il mondo dei vivi e quello dei morti... l'oratore che nei versi or superbite, e via col viso altero, fIglioli d'Eva assale veemente e con fiera ironia" (Marzot), ma soprattutto procederà da solo sopra quegli esempi di superbia punita, attirerà a sé, a proprio tormento e contrizione, quei quadri: non la schiera dei superbi, ma uno solo, Dante, di fronte allo spettacolo di un male che si distende nel tempo fIn dalle origini. Il canto, chiuso in un giudizio negativo da parte di molti critici a causa della parte centrale (versi 25-69), ha invece, come ogni altro, "una sua fisionomia ed una sua unità di tono morale e di modi

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espressivi, gli uni e gli altri informati ed incentrati sul valore dell'umiltà, sulla rinuncia ad ogni atto di passione scomposta, sulla celebrazione di un rito dinanzi alla prima ascesa. Cosa nuova è certo aver realizzato questo stato d'animo senza ricorso al colloquio. al modi gesticolati, all'usata abilità ritrattistica, ma se mai affrontando il più difficile compito di smuovere le cose e farle parlare... Ne viene fuori un canto altamente impegnato, gravemente mosso, dantesco e medievale in ogni sua parte" (Vallone). Come le pietre sepolcrali a livello del suolo, per ricordare i morti, recano effigiato quello che il sepolto era prima di morire, per cui lì si torna spesso a piangerlo per la fitta dolorosa del ricordo, il quale però fa soffrire (dà delle calcagne: come il cavaliere pungola il cavallo con il calcagno che porta lo sprone) solo gli animi pietosi, allo stesso modo io potei lì osservare coperto di sculture, ma con un migliore risultato rispetto all'esecuzione artistica, tutto il piano che sporge dal monte per servire da strada. Nei tre canti dedicati ai superbi, il Poeta ha dapprima descritto la loro pena, poi le immagini di umiltà che essi devono meditare (come stimolo a praticare questa virtù), in un terzo momento li ha uniti nella preghiera corale del «Pater Noster» (per riconoscere come unica gloria quella di Dio), infine riporta davanti a loro le immagini del male (come freno, nato dal timore, per non ricadere nel peccato). Ma Dante deve osservare gli esempi di superbia punita per tranquillar la via: non per godere del male lì raffigurato, ma per avvertire la distanza tra il suo spirito, ormai pronto e forte, e lo spettacolo del vizio superato, poiché, osserva il Marzot, dinanzi ai quadri della superbia punita torna la situazione del pellegrino nei cerchi infernali, con la differenza, però, che c'è tra la rappresentazione diretta della colpa, che fa guerra ai sentimenti e li turba, e la visione di essi, rifatta coi mezzi dell'arte, che dà alla materia, anche triste, una specie di superiore diletto. Senza dubbio l'aver trasferito il peccato dalla materia vivente della creatura umana al marmo del monte, anche se con visibile parlare, accentua il distacco e la superiorità morale da Dante raggiunta, ma è indubbiamente eccessivo quanto afferma il Croce, e, sulla sua linea, in parte il Marzot, riguardo a una potenza catartica del bello - del resto lontana dalla dottrina estetica del Medioevo - per cui risulterebbe, più che un insegnamento morale, un'ammirazione per l'arte trionfatrice che, sciogliendosi da ogni materialità e da ogni possibile riflessione, si fa linea, ombra, colore, odore, suono. Se il Poeta si compiace di un proposito d'arte raffinata (da lui stesso dichiarato nei versi 22-23 e 64-68), di una prova di bravura nella ricerca di simmetria e di richiami, l'ordito si viene svolgendo attraverso un commento morale e ricco di sentimento, e si risolve in una tecnica formalmente perfetta perché cosciente dei suo effetto didascalico. Vedevo da una parte della via Lucifero, che fu creato più perfetto di ogni altra creatura, precipitare dal cielo come una folgore. Il primo esempio di superbia punita rappresenta Lucifero che, dopo la sua ribellione, viene precipitato dal cielo, "come folgore" secondo la stessa espressione del vangelo di Luca (X, 18).

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Vedevo dall'altra parte Briareo, trafitto dalla freccia divina, giacere, gravando sulla terra con il suo corpo senza vita. Briareo è il gigante dalle cento braccia (Inferno XXXI, 98) che partecipò con i Titani al tentativo di rovesciare Giove dall'Olimpo e che, come gli altri, fu trafitto dalla saetta degli dei. Vedevo Timbreo, vedevo Pallade e Marte, ancora con le armi in mano, guardare, stando intorno a Giove, i corpi dei giganti sparsi sul campo di battaglia. Timbreo è il nome con cui veniva indicato Apollo, dalla città di Timbra (nella Troade), dove sorgeva un tempio a lui dedicato. Ora, insieme a Pallade Atena e Marte, osserva il campo di Flegra, dove è appena terminata la battaglia contro i Titani. Vedevo Nembrot stare come smarrito ai piedi della grande torre, e osservare coloro che a Sennaar ebbero la sua stessa superbia. Nembrot, da Dante già presentato nell'Inferno (canto XXXI, versi 58-81), è il biblico cacciatore responsabile dei tentativo di costruzione della torre di Babele nella pianura di Sennaar (Genesi X, 8-9; XI, 1-9). O Niobe, con quali occhi pieni di dolore io ti vedevo raffigurata sulla via, tra i tuoi quattordici figli morti! Il quinto esempio di superbia punita è ispirato dalle Metamorfosí di Ovidio (VI, versi 146-312). Niobe, moglie di Anfione, re di Tebe, si vantò dei suoi quattordici figli (sette maschi e sette femmine) di fronte a Latona, madre di due soli figli, Apollo e Diana, i quali vendicarono la madre uccidendo i quattordici giovani, mentre Niobe venne trasformata in una statua. O Saul, come qui apparivi morto, ucciso dalla tua stessa spada a Gelboè, che dopo questo fatto non ebbe più il dono della pioggia e della rugiada! Saul, primo re d'Israele, a causa della sua superbia fu abbandonato da Dio e, sconfitto dai Filistei, si uccise gettandosi sulla sua spada sul monte Gelboè (I Samuele XXXI, 1-4). Contro il monte, Davide, piangendo la morte di Saul, scagliò la maledizione: "O monti di Gelboè, né rugiada, né pioggia non cada più su di voi, o monti fatali!" (Il Samuele I, 21). O folle Aracne, così io ti vedevo gìà diventata ragno per metà, (giacere) angosciata sui resti della tela che era stata da te tessuta per il tuo male. Ancora una volta Ovidio offre il tema della leggenda (Metamorfosi VI, versi 5-145), che Dante già ha ricordato nel canto XVII dell'Inferno (verso 18). Aracne, una tessitrice della Lidia, orgogliosa per la sua abilità, osò sfidare Minerva, e, vinta, fu trasformata in ragno.

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O Roboamo, davvero qui la tua figura non sembra più minacciare; ma un carro la trasporta piena di spavento, senza che alcuno la insegua. Roboamo fu uno dei figli dì Salomone e suo successore; con la sua prepotenza e la sua severità provocò la rívolta del popolo, che lo costrinse ad abbandonare Gerusalemine (I Re XII) Il pavimento di marmo mostrava ancora come Almeone fece sembrare pagata a caro prezzo (perché pagata con la morte) a sua madre la infausta collana. Almeone uccise la madre Erifile per vendicare l'uccisione del padre Anfiarao. Quest'ultimo, avendo presagito, come indovino, la sua morte durante la guerra di Tebe, si era nascosto, ma Erifile, corrotta col dono di una preziosa collana, svelò il suo nascondiglio e Anfiarao, costretto a prendere parte alla guerra, vi trovò la morte. Il peccato di Erifile non è peccato di vanità, ma di superbia, poiché il monile di cui voleva impadronirsi era di origine divina, essendo stato fabbricato da Vulcano; però esso fu sventurato, perché chi lo possedette (Giocasta, Semele, Argia) incontrò sempre una fine infausta. Mostrava come i figli si gettarono su Sennacherib all'interno del tempio, e come lo abbandonarono lì morto. Sennacherib, re degli Assiri, mosse guerra agli Ebrei, oltraggiandone il re Ezechia; per punizione il suo esercito venne distrutto e Sennacherib, ritornato a Ninive, fu ucciso dai suoi figli durante una funzione religiosa (II Re XVIII, 13-37; XIX, 1-37; Isaia XXXVI; XXXVII, 1-38). Mostrava la strage dell'esercito e il crudele scempio del cadavere di Ciro che fece Tamiri, quando gli disse: « Fosti assetato di sangue, ed io ti sazio di sangue ». Tamiri, regina degli Sciti, dichiarò guerra a Ciro, re di Persia, poiché le aveva ucciso il figlio che aveva fatto prigioniero. Sconfitti i Persiani e impadronitasi del re, Tamiri lo fece decapitare e ne gettò la testa in un otre pieno di sangue umano (Orosio - Adversus Paganos Il, 7, 6). Mostrava come gli Assiri fuggirono sconfitti, dopo la morte di Oloferne, e (mostrava) anche i resti dello scempio fatto (relíquie del martiro: cioè il cadavere decapitato di Oloferne). Oloferne, a capo dell'esercito assiro, assediava Betulia, città della Giudea, allorché venne ucciso da una donna del luogo, Giuditta; dopo tale fatto il suo esercito si ritirò in fuga disordinata (Giuditta VII, 1-3; VIII-XV). Vedevo Troia ridotta in cenere e in rovine: o rocca di Ilio, come ti presentava distrutta e degna di derisione la raffigurazione che lì si vedeva! Come ultimo esempio di superbia punita, Dante ricorda la distruzione di Troia e del suoi orgogliosi

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cittadini, ripetendo un giudizio che era stato dato da Virgilio (Eneide III, 2-3). Gli esempi di superbia punita sono tredici, uno per terzina, con un'alternanza quasi perfetta di esempi biblici e classici, poiché ogni momento della storia, senza distinzione fra mito e realtà, si offre come utile esempio. L'organizzazione dell'insieme è grandiosa e la corrispondenza dei particolari precisa, secondo un tipo di cultura e un gusto d'arte, resistenti al giudizio estetico moderno, ma caratteristici del Medioevo, per il quale la ricerca di struttura era espressione di una suprema chiarezza mentale e la poesia si qualificava come "invenzione elaborata secondo retorica e musica" (De Vulgari Eloquentia Il, VI, 2), cioè manifestazione di un gusto dello "ornato". L'ordinamento strutturale e sintattico di questa parte divide le terzine in tre gruppi di quattro terzine ciascuno: quelle del primo gruppo iniziano con vedea, quelle del secondo con o seguita (tranne che nel terzo esempio) da un nome proprio, quelle del terzo con mostrava, finché la terzina 61-63 ripete le tre formule all'inizio dei suoi versi. Si forma in tal modo un'acrostico (gli acrostici sono comunissimi nella poesia medievale e ne avremo altri esempi nel Purgatorio e nel Paradiso) : VOM, cioè UOM (poiché la V corrisponde alla U secondo la grafia del tempo), essendo l'uomo in questo momento sigla e sintesi di folle superbia. A questi tre gruppi di terzine corrisponderebbero, secondo il Parodi, tre categorie di superbi: i colpevoli contro la divinità, i colpevoli contro se stessi, i colpevoli contro il prossimo; i primi puniti da Dio, i secondi dal loro rimorso, i terzi dai loro nemici, mentre la terzina finale dedicata a Troia riassumerebbe quelle tre classi di peccato. Secondo il Medin, il Barbi-Casini e il Porena, gli esempi sarebbero dodici (essendo unico quello di Briareo e dei giganti), sei biblici e sei mitici. Il Marzot ritiene invece che le immagini siano, allineate in due serie - una ebraica e una pagana - ai lati della via e abbinate secondo la linea orizzontale e verticale: così nei primi quattro specchi, a sinistra e a destra, ci sarebbero gli attentatori della sovranità divina (Lucifero e Nembrot, Briareo e i giganti); nei secondi i denigratori della legge civile e degli dei (Saul e Roboamo, Niobe e Aracne); nel terzo quelli che fecero violenza agli altri per cupidigia (Sennacherib e Oloferne, Erifile e Ciro). Per il Vallone i gruppi sono quattro: Lucifero, Nembrot e Saul sono i superbi contro la divinità; Roboamo, Sennacherib e Oloferne i superbi contro i simili, gli uni e gli altri tratti dalla Bibbia; Briareo con i giganti, Niobe e Aracne i superbi contro la divinità; Almeone, Tamiri e Troia i superbi contro i simili, gli uni e gli altri tratti dai miti. Quale pittore o quale disegnatore ci fu mai che sapesse ritrarre l'aspetto e i contorni delle figure, che in quelle immagini desterebbero l'ammirazione anche dell'intenditore più raffinato? I morti apparivano veramente morti e i vivi veramente vivi: colui che vide realmente quei fatti non vide meglio di me tutto quanto io calcai con i miei piedi, finché procedetti a capo chino. L'acrostico costringe l'ispirazione del Poeta entro il breve spazio di una terzina, ma in ciascuna ricorre il motivo che la lega alle altre e all'impostazíone del canto: la realtà del bene che vince il male e della giustizia che si oppone alla violenza. "Quello che qui domina è la solitudine, la devastazione, il silenzio. I protagonisti sono dei vinti. Il loro potere è un segno del passato. Il loro presente è una rovina. Ma non urlano, non s'innalzano pieni d'ira e d'orgoglio. Giacciono umiliati, scoperti in ogni loro errore, tremendamente soli con il loro destino" (Vallone), ma sottoposti ad un diverso giudizio da parte di Dante,

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che flagella con forza epica i quadri della prima e della terza serie, perché la colpa dei protagonisti si è ripercossa, con tracce dolorose e fatali, sulla storia e sulla natura, mentre il suo sguardo si ferma più compassionevole, o almeno, meno ferocemente irridente, su quelli della serie mediana, dove la creatura umana è più sventurata che colpevole, traviata dalla debolezza e dall'ambizione, più che dalla deliberata coscienza di compiere il male. Tutti i quadri, tuttavia, sono di una grandissima evidenza figurativa, perché vengono dalla fantasia del Poeta fissati nel momento culminante del dramma. Lucifero è visto folgoreggiando scender, i giganti con le membra sparte, Nembrot smarrito, Niobe con occhi dolenti, Saul su la propria spada, Aracne trista, Roboamo pien di spavento, Troia in cenere e in caverne. Ora insuperbitevi, e continuate pure a camminare a testa alta, o figli d'Eva, e cercate di non meditare in modo da vedere la strada sbagliata che seguite! Avevamo già percorso una parte del monte e avevamo speso una parte di tempo più grandi di quanto pensasse il mio animo intento (ad osservare i bassorilievi), quando Virgilio che procedeva attento a guardare sempre davanti a sé, disse: « Solleva il capo; non bisogna più camminare così assorto. Osserva da quella parte un angelo che si accinge a venire verso di noi; vedi che l'ora sesta se ne torna dopo aver prestato il suo servizio al giorno. La mitologia classica personificava le ore, presentandole come ancelle al servizio del carro del sole (Ovidio - Metamorfosi Il, versi 118 sgg.). Dante con l'espressione dei versi 80-81 vuole indicare che è già trascorso il mezzogiorno e che si è fermato nella prima cornice circa due ore. Prepara il tuo volto e il tuo atteggiamento a un sentimento di riverenza, in modo che all'angelo piaccia permetterci di salire; pensa che questo tempo non tornerà più! » Io ero talmente abituato ai suoi continui ammonimenti intorno alla necessità di non perdere il tempo, che su questo argomento non mi poteva più parlare in modo oscuro. Veniva verso di noi la bella creatura, vestita di bianco e (cosi splendente) nel volto come appare scintifiando la stella del mattino (Venere). Aperse le braccia, e poi aperse le ali: disse: « Venite: qui vicino ci sono i gradini della scala, e ormai si può salire facilmente (dopo aver eliminato il peccato della superbia) ». La voce pacata di Virgilio orienta l'animo di Dante, che pareva essersi fermato alla dura apostrofe contro i superbi del mondo, ad una nuova disposizione, psicologica e stilistica, che si conclude con un richiamo solenne all'importanza dell'ora: pensa che questo dì mai non raggiorna! L'apparizione dell'angelo nella

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pienezza del fulgore del giorno consacra l'istante più solenne del cammino di Dante nel purgatorio, perché viene liberato dal primo peccato, che è anche la fonte di tutti gli altri, e coincide con il momento più alato del canto, "ove il riso delle poche cose che formano l'angelo - un candore di veste, un moto di braccia a tempo con un moto d'ale; un volto che il Poeta non può descrivere, e rimanda al puro tremolio di stella mattutina - avvolge l'animo di Dante nel mistero gaudioso del Paradiso. Non c'è nulla di veramente descritto, poiché ogni tratto che passa per gli occhi è musicalmente fuso nell'idea di bellezza; e quel movimento modulato rivela, da una lontananza profonda, l'idea della bontà paterna che accoglie il cuore pentito" (Marzot). Pochissime anime rispondono a questo invito: o uomini, creati per volare in alto, perché vi abbattete così anche davanti a poche tentazioni? Ci condusse dove la roccia presentava un passaggio: qui batté con le ali la mia fronte; poi mi promise che il cammino sarebbe stato libero da impedimenti. Con il suo gesto l'angelo cancella dalla fronte di Dante il primo dei sette P che gli erano stati impressi alla porta del purgatorio: scompare così il primo peccato, quello della superbia (base e fonte di tutti gli altri), e di ciò Dante si accorgerà durante la salita al secondo girone (versi 116 sgg.). Come dalla parte destra, per salire al monte dove si trova la chiesa che domina Firenze (la ben guidata: detto in senso ironico) dalla parte del ponte di Rubaconte, l'ardito slancio della salita viene interrotto per mezzo di una scalinata che si fece in un tempo in cui i registri pubblici e le pubbliche misure di capacità non venivano falsificati, La ripidità della scala tagliata nella roccia ricorda a Dante quella della scalinata che da Firenze portava alla chiesa di San Miniato al Monte dalla parte del ponte di Rubaconte, chiamato poi ponte delle Grazie, il quale doveva il suo primo nome al fatto che la sua costruzione era stata iniziata nel 1237 sotto il podestà Rubaconte di Mondello. Riaffiora nel cuore di Dante un motivo polemico contro la sua città, alla quale ha già diretto l'espressione ironica la ben guidata, e contro la sua corruzione, di cui ricorda due episodi. Dei primo fu protagonista Nicola Acciaioli, priore nel bimestre 15 agosto~15 ottobre 1299, il quale fece scomparire in quel periodo alcuni atti o quaderni giudiziari dai documenti di un processo a carico del podestà Monfiorito da Padova (cfr. Compagni - Cronaca I, 19). Nel secondo fatto, avvenuto nel 1283, un certo Donato dei Chiaramontesi, incaricato della vendita del sale alla cittadinanza, riceveva il sale secondo misure regolari di staio, e lo metteva in commercio dopo aver tolto per ogni staio una doga, facendo quindi diventare più piccola la misura, per rivendere la parte restante per conto proprio. Alla fine venne scoperto e condannato. allo stesso modo diventa più agevole il pendio che qui scende ripidissimo dal girone superiore; ma (la scala è così stretta che) dall'una e dall'altra parte l'alta parete rocciosa sfiora (chi sale).

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Mentre noi ci volgevamo verso quella scala, una voce cantò « Beati i poveri in spirito! » con tale dolcezza, che non si potrebbe esprirnerla con nessuna parola umana. Le parole e il gesto dell'angelo, accompagnati dal dolente commento di Dante (versi 94-96), hanno compiuto uno dei tanti riti liturgici del Purgatorio, il rito dell'assoluzione, dopo l'impositio (imposizione) dell'angelo portiere e l'executio (esecuzione) espiatoria, ma la conclusione è in quella voce misteriosa che sorge improvvisa, e, all'epilogo della narrazione, si staglia vigorosamente nell'atmosfera trepidante delle anime e là rimane a lungo, oggetto di riflessione, iniziando il canto delle beatitudini che accompagnerà Dante verso il mondo delle anime sante. La prima delle beatitudini evangeliche (Matteo V, 3) deve essere intesa come esortazione all'umiltà e al disprezzo dei beni terreni. Poiché in tutti gli altri gironi sarà sempre un angelo a cantare le beatitudini, non c'è motivo per pensare che qui cantino i penitenti o più angeli: voci è solo "un plurale meramente stilistico" (D'Ovidio). Ah quanto sono diverse queste entrate da quelle infernali! perché in queste si procede accompagnati da canti, e in quelle da gemiti di dolore e di ira. Già noi stavamo salendo lungo i santi gradini, e mi pareva di essere molto più leggiero di quanto non mi sembrava (di esserlo) prima nella parte piana del girone. Per questo dissi: « Maestro, spiegami, quale peso mi è stato tolto, che quasi non avverto alcuna fatica, mentre procedo?» Rispose: « Quando i P che sono rimasti ancora sulla tua fronte, anche se quasi svaniti, saranno completamente cancellati come (lo è stato) il primo, i tuoi piedi saranno così guidati dalla tua buona volontà, che non solo non sentiranno più fatica, ma sarà per loro una gioia essere spinti a salire », Allora mi comportai come coloro che camminano portando in testa qualcosa senza saperlo, finché i gesti degli altri li mettono in sospetto; per cui la mano si sforza di accertarlo, e cerca e trova e compie la funzione che non si può esercitare con la vista; e con le dita della mano destra allargate costatai che erano solo sei i segni che l'angelo portiere mi aveva inciso sulla fronte: Chiude il canto un particolare realistico, un quadretto di sorridente mimica, nel quale si dissolve la tensione via via accumulatasi nella drammatica raffigurazione della superbia: non momento inutile, ma elemento strutturalmente importante, perché riporta il lettore, con un frammento umano e familiare, alla disposizione serena e pacata del Purgatorio. Ci piace osservare Dante che, ancora incredulo dell'azione

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della Grazia in lui, ne va cercando il segno visibile e Virgilio sorride di quest'ultima debolezza, e sorride anche il lettore nel trovare il Poeta pronto a mettere in rilievo la propria comica ingenuità. Virgilio sorrise vedendo il mio gesto.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO XIII

«Eravamo giunti al termine della scala (che porta al secondo girone), dove viene tagliato per la seconda volta il monte che purifica dal male chi lo ascende lì una (seconda) cornice cinge tutt'intorno il monte, così come la prima; salvo che la sua curvatura (poiché la montagna si restringe man mano verso l'alto) è più stretta. Qui non appaiono anime né figurazioni scolpite; si mostrano la parete e il piano nudo e liscio col colore livido della pietra. Il sorriso di Virgilio, con cui si era chiuso il canto XII, pare continuare durante il percorso dal primo al secondo girone, assecondando la raggiunta serenità del suo discepolo (canto XII, versi 115-120), mentre lo sguardo si distende tranquillo sulla cornice che lega dintorno il poggio: è un inizio lento e solenne, con un calcolato richiamo all'apertura del canto precedente, che doveva anticipare anch'essa il senso di misteriosi eventi. In un secondo tempo, poiché ombra non li è né segno che si paia, nei poeti ritorna il tremore della solitudine che avevamo avvertito nel lito diserto, e i loro occhi, abituati al bianco fulgore del marmo della cornice precedente e al movimento, per quanto lento, dei superbi, vengono quasi legati al livido color della petraia, che grava ossessionante su un paesaggio rozzo, uniforme, desolato, che si oppone con il suo squallore allo stato d'animo gioioso dei due pellegrini. Il Poeta, in queste tre terzine, ha già tradotto l'atmosfera spirituale e poetica del canto, che si definirà in una concreta individuazione di particolari - nella descrizione della natura, nella ricerca delle similitudini, nella raffigurazione degli invidiosi, nel ricordo di avvenimenti storico-politici - e in uno scoperto desiderio di trascendere quegli umani particolari: un gioco dialettico di due momenti in una sapiente alternanza, che continuerà anche nell'unico personaggio del canto, in Sapia, rendendolo "uno dei più complessi e delicati impasti di ritratto della Divina Commedia" (Momigliano). « Se qui aspettiamo le anime per chiedere informazioni » osservava Virgilio, « io temo che forse la nostra scelta della via tarderà troppo. » Poi rivolse intento lo sguardo verso il sole; (per volgersi a destra dove si trovava il sole, essendo già passato mezzogiorno) fece perno sul suo fianco destro, e fece girare il fianco sinistro. « O dolce luce nella quale fidando io procedo nella nuova strada, guidaci » diceva Virgilio « come è necessario guidare in questo girone.

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Tu riscaldi il mondo, tu risplendi sopra di esso: se un altro motivo non spinge a seguire una via contraria, i tuoi raggi devono essere sempre di guida.» La preghiera che Virgilio innalza al sole è un'invocazione della Grazia divina, secondo molti commentatori antichi, è una preghiera rivolta alla ragione naturale, che è la guida abituale dell'uomo finché non interviene la sovrannaturalità della Grazia, secondo quasi tutti i commentatori moderni. Tuttavia chi legge ricorda con sforzo il sottinteso allegorico, essendo la sua attenzione tutta presa da quell'«inno al sole» trasferito dal mondo pagano a quello cristiano, da quell'immagine vastissima di luce sospesa sopra il inondo che "scalda" e "illumina", la quale, più che ricordare il dolce color d'oriental zaffiro, dove l'animo si abbandonava a un puro godimento estetico, è impregnata dello stesso sentimento di profondo amore verso il creato che regge nel Cantico delle Creature di San Francesco l'inno di lode al sole: "Laudato sie, mi signore, cum tucte le tue creature spetialmente messor lo frate sole, lo quale iorna, et allumini per lui; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore; de te, altissimo, porta significatione". Avevamo già percorso nel girone tanto spazio, quanto nel mondo si calcola per un miglio, in breve tempo, grazie al nostro ardente desiderio, quando si sentirono volare verso di noi, ma non si videro, degli spiriti che pronunciavano cortesi inviti alla carità. Il fortissimo sentimento narrativo che costruiva in rilievo e in sviluppo le sculture dei primo girone, nulla tralasciando per una loro migliore determinazione, viene sostituito da una tecnica « di suggerimento », che nel momento stesso in cui accenna al fatto, lo trasforma in un'eco misteriosa, la quale è percepita dai penitenti, chiusi nella loro cecità, proprio grazie alla sua forza suggestiva: la meditazione in loro è più immediata che nei superbi, dove si deve svolgere prima attraverso una via visiva, mentre, osserva il Grabher, queste voci "si prolungano, come in una scia, dalle une alle altre, nell'anima", cosicché "avanti che la prima si sia spenta per il fatto di essersi allontanata.... balza nell'aria la seconda che dilegua anch'essa.... mentre la terza irrompe lasciando a Dante appena il tempo (e com'io... ecco ... ) di rivolgere la brevissima domanda: padre, che voci son queste?" Sarà un « crescendo » musicale e spirituale che dall'appello a compiere un dono sale al sacrificio della vita per salvare l'amico, per invitare infine all'eroismo cristiano totale. La prima voce che passò volando pronunciò in tono alto « Non hanno vino », e passando oltre noi continuò a ripetere quelle parole. Nel secondo girone voci misteriose gridano esempi di carità, il primo dei quali si riferisce a un passo del vangelo di San Giovanni (Il, 1-10), in cui è descritto il primo miracolo di Cristo, alle nozze di Cana, dopo l'amoroso e sollecito intervento della Vergine in favore degli ospiti rimasti senza vino. E prima che non si udisse più per il fatto che si allontanava, un'altra voce passò gridando « Io sono Oreste », e anche questa non si arrestò.

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Il secondo esempio ricorda l'amore fraterno che legava Oreste, figlio di Agamennone, a Pilade. Il primo, che voleva vendicare la morte del padre, uccidendone l'assassino Egisto, venne scoperto e arrestato insieme con Pilade. Iniziò fra i due una commovente gara, poiché entrambi gridavano "Io sono Oreste", volendo Pilade sostituirsi all'amico, per evitargli la morte, e opponendosi Oreste al suo sacrificio. « Oh! » dissi, « padre mio, che voci sono queste? » E non appena ebbi fatto questa domanda, ecco la terza voce che diceva: « Amate coloro dai quali avete ricevuto il male ». L'esempio supremo di carità è nel precetto dato da Cristo nel discorso della montagna: "Amate i vostri nemici" (Matteo V, 44; Luca VI, 27). E il valente maestro: « Questo girone punisce il peccato d'invidia, e perciò le corde di cui è fatta la sferza che punisce (le corde della ferza: cioè gli esempi) sono vibrate dall'amore. Il freno (cioè l'esempio per non cadere nel peccato) deve essere di contenuto opposto al peccato: a mio giudizio, penso che udrai questo esempio prima di giungere alla scala che porta al terzo girone (al passo del perdono: dove sarà perdonato il peccato d'invidia). Ma ficca lo sguardo con attenzione attraverso l'aria, e vedrai un gruppo di anime sedere davanti a noi, e ciascuna è appoggiata alla roccia». Allora osservai con maggior attenzione; guardai davanti a me, e vidi anime ricoperte di manti dello stesso colore della pietra. E quando ci fummo portati un poco più avanti, udii gridare: « Maria, prega per noi! »; udii gridare « Michele » e « Pietro », e « Tutti i santi ». Gli invidiosi recitano le litanie dei santi, nelle quali all'inizio è invocata per tre volte la Vergine, nella parte centrale gli angeli (tra cui Michele) e gli apostoli (tra cui Pietro) , mentre alla fine l'invocazione si estende a tutti i santi. Non credo che nel mondo esista oggi un uomo tanto duro, da non essere mosso a compassione da quanto io vidi in seguito, poiché, quando giunsi così vicino ad essi, che la loro persona mi appariva distinta, dagli occhi uscì con le lagrime il dolore che mi gravava l'animo. (I penitenti) mi sembravano coperti di una povera veste dura e pungente, e uno sosteneva l'altro con la spalla, e tutti erano sostenuti dalla parete: nello stesso atteggiamento i ciechi, a cui manca il necessario, se ne stanno davanti alle chiese durante le

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feste in cui si concedono indulgenze per chiedere l'elemosina, e l'uno abbandona il capo sulla spalla dell'altro, affinché la pietà penetri subito nel cuore della gente, non solo per il suono lamentoso delle parole, ma anche per l'aspetto che chiede pietà non meno (delle parole). E come ai ciechi il sole non giova, così qui la luce del cielo non vuole concedersi alle anime, di cui ora sto parlando, perché un filo di ferro trapassa e cuce le palpebre a tutti i penitenti nello stesso modo in cui si cuciono agli sparvieri selvatici, quando non rimangono tranquilli. La pena della cecità colpisce gli invidiosi in base a una dura legge del contrappasso, perché i loro occhi, che in vita godettero nell'osservare il dolore altrui, sono ora chiusi alla luce del ciel: una cecità flsica che dipende da quella cecità morale per cui essi capovolsero la visione del mondo e delle cose, sostituendo all'amore verso il prossimo il desiderio del suo male. Per sottolineare la durezza del castigo Dante ricorda, nei versi 71-72, un'operazione consueta che nel Medioevo subivano gli sparvieri non ancora addomesticati e irrequieti, ai quali venivano cucite le palpebre affinché potessero essere più facilmente ammaestrati. "Il pellegrino, che coi superbi andava di paro, aggiogato ad una stessa penitenza, qui, senza accecarsi, s'investe dell'atmosfera psicologica della cornice: piange in silenzio, accenna a Virgilio quando vorrebbe parlare, intona una allocuzione solennemente retorica, sulla metafora della luce e sulla metafora del fiume, subito ridiscende alle prime parole accorte di Sapia, che accortamente lo corregge, e parla da vicino e dimesso" (Apollonio), ed è in questo tono dimesso, sommessamente intento, che si dispone la raffigurazione degli invidiosi. L'elemento essenziale - la staticità è di immediata determinazione nella natura, ridotta ad un solo, immobilizzato termine, la rípa, a sua volta chiuso nell'aspetto negativo, il livido color, anche se tale natura appare priva di ogni travolgimento, di ogni deformazione infernale, essendo riferibile, in ogni momento, ad una misura umana (come... per salire al monte... così s'allenta la ripa; canto XII, versi 100-108). Le ombre con manti al color della pietra non diversi partecipano di questa stessa immobilità, non scossa neppure dall'immagine dei mendicanti ciechi abbandonati davanti alle chiese, creando un bassorilievo uniforme, privo di qualsiasi movimento esteriore che non sia quello delle lagrime (versi 83-84). fino a dare l'impressione, ad una prima lettura, di una esasperazione figurativa simile a quelle dell'Inferno. Ma le due similitudini che si susseguono rivelano la preoccupazione di riportare su un piano di contenuto realismo, di preciso disegno quanto a quel piano sembrava volersi sottrarre, perché la scena dei mendicanti e l'immagine dei falconi dalle palpebre cucite appartengono al mondo di normali esperienze del Poeta. Inoltre queste similitudini ribadiscono tutta la struttura realistica del canto, insieme con l'immagine della ferza (versi 37-39). con quella del mento levato in alto a guisa d'orbo (verso 102) e con lo svolgimento di tutto il discorso di Sapìa, per fornire il contrappunto alla misteriosa musicalità e lievità degli esempi di carità. Mi sembrava, mentre camminavo. di compiere un atto scortese, perché io vedevo gli altri, ma non ero da loro visto: perciò mi rivolsi al mio saggio consigliere.

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Egli già sapeva che cosa volevo dire io che tacevo; e per questo non aspettò la mia domanda, ma disse: « Parla, e cerca di essere breve e chiaro». Virgilio rispetto a me procedeva dalla parte esterna della cornice, poiché questa non è munita di nessuna sponda; dall'altra parte (cioè a sinistra) avevo le anime penitenti, le quali premevano con tale forza attraverso l'orribile cucitura, che bagnavano (di lagrime) le guance. Mi rivolsi a loro e incominciai a dire: « O anime sicure di vedere la divina luce che è l'unico oggetto del vostro desiderio, possa la Grazia disperdere presto le tracce impure della vostra coscienza, così che attraverso essa il fiume dei ricordi possa scendere in tutta la sua purezza (chiaro: cioè non intorbidato da nessuna memoria della colpa), ditemi (in nome di questo augurio), dal momento che mi sarà gradito e caro, se tra di voi c'è qualche anima italiana; e forse (potendo io procurarle suffragi) le sarà utile se io lo saprò ». « Fratello, ciascuna di noi è cittadina della città di Dio; ma tu vuoi sapere di qualcuna che lontana dalla vera patria sia vissuta in Italia. » Nel Medioevo la distinzione fra la città terrena (o Gerusalemme terrena) per indicare il mondo, e la città celeste (o Gerusalemme celeste) per indicare il paradiso, era di uso comune, e risaliva ad espressioni bibliche, diventate poi patrimonio di tutta la letteratura patristica. Poiché lo spirito che parla pensa di avere davanti un suo compagno di pena, spiega che la vera patria di ogni anima è il paradiso, mentre la vita non è che un breve pellegrinaggio, un momentaneo esilio, che è attesa e preparazione della vera città: concetto centrale del pensiero cristiano e avvertito con particolarissima intensità dal mondo medievale. Mi parve di udire come risposta queste parole un poco più oltre il posto in cui mi trovavo, per cui io (avanzando) mi feci sentire ancora più in là. Tra le altre vidi un'anima che nel suo atteggiamento pareva aspettare; e se qualcuno mi domandasse "Come (lo mostrava)?", (risponderei che) sollevava il mento come fa un cieco (quando aspetta). « O anima » dissi « che ti sottometti alla pena per poter salire, se tu sei quella che mi hai risposto, fatti conoscere o attraverso la patria o attraverso il nome.» « lo fui senese » rispose, « e con queste altre anime purifico qui la mia vita peccaminosa, supplicando in lagrime Dio affinché ci conceda di vederLo.

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Non fui saggia, sebbene il mio nome fosse Sapia, e provai maggior gioia del male altrui che del mio bene (lui delli altrui danni più lieta assai che di ventura mia). Sapìa fu una nobildonna senese, moglie di Guinibaldo Saracini, signore di Castiglione presso Montereggioni e zia di Provenzano Salvani (cfr. canto XI, versi 109 sgg.). Gli ultimi studi intorno alla sua figura storica hanno rivelato qualcosa di più dell'odio fierissimo che portava ai suoi concittadini ghibellini, secondo quanto afferma Dante. Sappiamo che protesse attivamente l'ospizio per pellegrini fondato dal marito nei pressi di Castiglione, che si trovava sulla strada più breve per andare da Roma in Francia, e che negli ultimi anni della sua vita cedette i suoi possedimenti a Siena. Morì nel 1275. Nel verso 109 Sapìa allude al fatto che il suo nome ha la stessa radice etimologica di savia e sappiamo che per influsso della Scolastica si diffuse in tutto il Medioevo la concezione secondo la quale i nomi hanno uno stretto rapporto con la sostanza di una cosa o con le qualità di una persona; Dante stesso vi accenna a proposito del nome di Beatrice nel capitolo XIII della Vita Nova. E affinché tu non creda che io t'inganni, ascolta se non sono stata, come ti dico, folle, mentre l'arco della mia vita stava già declinando (e avrei dovuto essere saggia). I miei concittadini presso Colle erano venuti a battaglia con i loro nemici, ed io pregavo Dio che fossero sconfitti (di quel ch'e' volle: di quello che egli volle, perché furono realmente vinti). Qui furono sconfitti e conobbero l'amarezza della fuga; e vedendo l'inseguimento fatto dai nemici, ne derivai una gioia non paragonabile a nessun'altra, tanto che levai verso il cielo il volto con folle audacia, gridando a Dio: "Ormai non ti temo più (avendo ricevuto soddisfazione)!", come fa il merlo quando vede un po' di sereno. Nel giugno 1269 i ghibellini senesi e i loro alleati furono sconfitti dai guelfi fiorentini a Colle di Valdelsa: 'La città di Siena... ricevette maggiore danno de' suoi cittadini in questa sconfitta, che non fece Firenze a quella di Montaperti" (Villani - Cronaca VII, 31). Le parole di Sapìa nel verso 123 riecheggiano una favola molto diffusa nel Medioevo: un merlo, alla fine di gennaio, vedendo un po' di bel tempo, incomincia a cantare credendo che l'inverno sia già passato, facendosi beffa di tutti gli altri uccelli ed esclamando: "Domine, più non ti temo". Mi riconciliai con Dio alla fine della mia vita; e il mio debito verso di Lui non sarebbe ancora risarcito per mezzo della penitenza, se non fosse avvenuto questo, che mi ricordò nelle sue sante preghiere Pier Pettinaio, il quale per carità ebbe pietà di me. Pier Pettinaio, nato forse alla fine del secolo XII, visse a Siena, dove tenne una bottega di pettini (donde

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

il soprannome); fu terziario francescano e morì nel 1289 in fama di santità. Sapìa è uno di quei personaggi danteschi intorno ai quali l'esame critico ha offerto i risultati più diversi, perché il contrasto è insito nella sua stessa figura, oscillante fra il polo del terreno e quello del divino, fra la presenza nettissima del peccato e la presenza, altrettanto certa, del rimorso. Il Mattalia ritiene di trovarsi di fronte ad "una acida e altezzosa malalinqua", nella quale l'abito dell'invidia è ancora operante, ad un "personaggio nient'affatto caro e dolce", che chiude alla fine la sua apparizione con una velenosa battuta a carico dei Senesi, mentre per il Grabher ella ritrae il suo antico carattere peccaminoso per trascenderlo in una spietata analisi di sé, fino all'amarezza grottesca del paragone col merlo, dove si infligge la massima umiliazione, per poi placarsi nell'abbandono alla pace di Dio e alle preghiere di un umile "pettinaio". Per il critico anche l'ironia finale intorno ai Senesi è pacata e soffusa di tristezza, senza alcun ritorno alla malignità terrena, che sarebbe fuori di posto nella serietà del Purgatorio. Ma l'ispirazione del Poeta è libera di rivelare, nell'austerità della struttura penitenziale, i tratti salienti del carattere terreno dei suoi personaggi, di conservare parte della loro natura e delle loro tendenze (Belacqua è ancora un pigro, Omberto Aldobrandeschi assume ancora un atteggiamento superbo). A maggior ragione poi il Poeta vorrà mettere in rilievo in Sapìa quel tono di mordace ironia, di aperta maldicenza, di pronta litigiosità, che è proprio dell'animo toscano e che costituisce una parte dello stesso carattere dantesco. Sapìa, dunque, non è "la più notevole personificazione od allegoria dell'invidia, che mai sia stata immaginata", come vorrebbe lo Zenatti, ma un carattere forte tanto nella colpa quanto nell'espiazione, pronto e intensamente mordace, ma anche risoluto nel pentimento e nel riconoscimento degli altrui meriti; una donna, giudica il Biondolillo, che, pur conservando la sua delicata femminilità (o frate mio), fa intravedere risolutezza di sentimenti e mal celati impeti di durezza, come anche slanci di fraternità e di carità. Corregge con forza l'espressione di Dante (versi 95-96), con durezza si duole della sua vita ria, l'intensità del suo pentimento la spinge a "Iagrimare" per vedere Dio, ride con profonda amarezza di sé, che non fu savia sebbene si chiamasse Sapìa. Giudica folle l'invida contro i suoi concittadini ghibellini, ma la memoria della loro sconfitta è incancellabile nella sua mente, come incancellabile è il ricordo del suo compiacimento di fronte a quella disfatta, del suo gesto orgoglioso di fronte a Dio, gesto che ora fa diventare ironicamente quello del merlo. Solo in su lo stremo si pentì, ma "volle" fare pace con Dio da pari a pari, finché la sua fierezza e il suo orgoglio si abbattono di fronte alle sante orazioni di Pier Pettinaio, in un fervore di carità che si manifesterà in seguito nel riconoscimento del gran segno dell'amore divino per Dante, per essere poi superato dall'antica, maligna ironia che la spinge a deridere la gente vana. Ma chi sei tu che vai interrogandoci sulla nostra condizione, e porti gli occhi non cuciti, così come penso (Sapìa si è accorta che Dante è riuscito ad individuarla), e parli come un vivo?» « Gli occhi » dissi « mi saranno anche qui tolti, ma per breve tempo, perché poca è l'offesa che essi hanno fatta (a Dio) per essersi volti a guardare con invidia (il prossimo). Maggiore è il timore che tiene sospesa la mia anima a causa della pena del girone precedente (di sotto: dove si espia il peccato della superbia), tanto che già sento gravarmi addosso il peso di quei massi. »

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Nel canto degli invidiosi è la confessione della superbia di Dante, superbia di stirpe e superbia di ingegno, che egli ricorderà in altri passi del suo poema e che i suoi più antichi biografi misero concordemente in luce: "fu il nostro poeta di animo alto e disdegnoso molto... Molto, simigliantemente, presunse di sé... Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura più che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto" (Boccaccio - Vita di Dante). Ed ella mi rispose: « Chi ti ha dunque guidato qua su tra noi, se ritieni di dover ritornare tra i superbi? » Ed io: « Questo che è con me, ma non parla. E sono ancora vivo; e perciò chiedimi pure, o anima destinata alla salvezza, se desideri che in terra mi adoperi (mova... ancor li mortai piedi) per procurarti suffragi (per te) ». « Oh, questa è una cosa così insolita ad udirsi » rispose, « che è una grande manifestazione dell'amore di Dio verso di te; perciò cerca di aiutarmi qualche volta con le tue preghiere. E ti chiedo, in nome di quello che tu più desideri (cioè: in nome della salvezza), che, se mai ti avvenga di passare per la Toscana, riabiliti la mia fama presso i miei parenti. Tu li troverai fra quella gente sciocca che spera in Talamone, e vi perderà più illusioni che non a cercare di trovare la Diana; ma più speranze ancora vi perderanno i comandanti di nave. » Siena nel 1303 acquistò a caro prezzo la località di Talamone sperando dì farne un buon porto per un suo sbocco sul Tirreno; ma il luogo malsano, la cattiva posizione e l'eccessiva lontananza da Siena impedirono ogni concreta realizzazione. Altro esempio, secondo Sapìa, della stoltezza dei Senesi, fu la ricerca, lunga e dispendiosa, ma senza risultato, di un fiume chiamato Diana, che si diceva scorresse sotto la città. Il termine ammiragli è da alcuni interpretato come "appaltatori" addetti ai lavori di ricerca della Diana o a quelli del porto di Talamone, dalla maggior parte come "capitani di navi", per indicare coloro che si illudevano di poter disporre, dopo la costruzione del porto di Talamone, di una flotta.

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PURGATORIO CANTO XIV

«Chi è questo che percorre i gironi del nostro monte prima che la morte abbia liberato la sua anima dal corpo, e può aprire e chiudere gli occhi secondo il suo desiderio? » Parla Guido del Duca degli Onesti, appartenente ad una nobile famiglia di Ravenna. Di lui si hanno poche notizie: fu ghibellino e ricoprì la carica di giudice a Faenza, Rimini e in altre località della Romagna. Morì intorno al 1250. « Non so chi sia, ma so che non è solo: domandaglielo tu che gli seì più vicino, e accoglilo con cortese gentilezza, in modo che egli acconsenta a parlare. » L'anima che risponde è quella di Rinieri dei Paolucci, un nobile guelfo di Forlì. Fu podestà di Faenza, Parma, Ravenna e di altre città dell'Italia centrale, e partecipò fattivamente alle lotte politiche che travagliarorio la Romagna fino alla sua. morte (1296). Così due spiriti, l'uno chinato verso l'altro, parlavano di me lì a destra; poi, per potermi parlare, reclinarono indietro i loro visi, e uno disse: « O anima che procedi verso il cielo ancora legata al corpo; donaci conforto in nome della carità e rivelaci da dove vieni e chi sei, perché tu ci causi tanto stupore per la grazia che ti è stata concessa, quanta ne produce una cosa mai prima accaduta ». Ed io: « Nel centro della Toscana scorre un fiumicello che nasce dal monte Falterona, e non gli basta un corso di cento miglia. Io nacqui da un luogo situato lungo le sue rive: rivelarvi chi sono, significherebbe parlare inutilmente, perché il mio nome non è ancora molto noto ». Nel silenzio ancora carico degli accenti antisenesi di Sapìa si apre, senza alcun preludio, un dialogo che immediatamente consegna il clima di alto sentire di tutto il canto, attraverso la sensibilità delle due anime, resa più acuta dalla loro cecità, la velata e pensosa malinconia, la gentilezza, tutta umana e intimamente caritatevole, nell'accogliere dolcemente chi può aprire li occhi a sua voglia, l'accenno coperto di Dante alla propria patria, dove il bel fiume d'Arno (Inferno canto XXIII, verso 95) diventa un

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flumicel, non solo per far suo il modo distaccato di guardare alle cose, proprio di tutto il Purgatorio, ma per aprire la via alle amare parole e all'invettiva di Guido del Duca contro i territori bagnati dall'Arno. "L'accentuazione drammatica si leverà a poco a poco ed essenzialmente quando il grande tema del canto, il rimpianto del passato cortese e la deprecazione del tempo presente peccaminoso e corrotto, trarrà forza dalla vicenda, umana e biografica di Dante e storia e poesia si confonderanno insieme: il tema morale si collegherà con la materia politica e anche la tecnica letteraria si varrà della satira e di toni profetici e apocalittici per esprimere l'accorato sentimento di offesa della giustizia per placarsi nella finale immagine degli eterni corsi dei cieli e delle loro mirabili bellezze" (Piromalli). In tale senso i due canti dedicati agli invidiosi, oltre ad essere momenti di un'unica sceneggiatura, su uno sfondo figurativo opaco, aspro e nello stesso tempo pietoso, nascono da una unitaria concezione drammatica, perché il prorompere eloquente e oratorio del canto XIV, dopo questo lento avvio, si propone come risultato naturale di un tema e di un dialogo già avanzato nel canto precedente, con ricercata gradualità di effetti e di accenti. Il peccato dell'invidia è da Dante considerato non come uno scambio di livore fra persona e persona, ma come il contrario della carità di patria, come pervertimento e accecamento di ogni senso morale e civile. L'invidia della senese Sapìa, che dalla gioia delli altrui danni perviene alla folle esultanza per la sconfitta disastrosa della propria città, "traborda nelle sue conseguenze..., dal danno del singolo prossimo, a quello più lato della vita civile... Perciò una configurazione drammatica e didascalica dell'invidia non poteva che approdare a una conseguenza etico-politica, e quindi a uno sbocco oratorio, e attrarre pure sulla sua scia le passioni e le memorie iraconde e nostalgiche dell'esule toscano, e « romagnolo » per forza di eventi" (Grana). « Se io con la mia mente penetro bene nel contenuto della tua spiegazione» mi rispose allora quello che prima aveva parlato, « tu stai parlando dell'Arno. » E l'altro gli disse: « Perché costui ha nascosto il nome di quel fiume, proprio come si fa a proposito di cose turpi? » E l'anima alla quale era stata rivolta questa domanda si sdebitò (dell'obbligo di rispondere) in questo modo: «Non lo so: ma è giusto che perisca il nome di questa valle, perché dalla sua sorgente (dal principio suo: dal Falterona), dove l'Appennino, dal quale è staccato il monte Peloro, è così gonfio ed elevato, che in pochi luoghi supera l'altezza del Falterona, Dante nel verso 32 allude ad una tradizione di origine classica, secondo la quale la Sicilia si staccò dalla penisola in seguito a una scossa tellurica. fino alla foce dove (il fiume) si getta nel mare per ricompensarlo di quelle acque che il sole (con l'evaporazione) gli ha sottratto, dalla quale evaporazione i fiumi (con la pioggia e la neve) derivano le loro acque, a tal punto la virtù è evitata come una nemica da tutti così come un serpe, o per una maledizione che

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viene dal luogo, o per una malvagia consuetudine che li penetra nel profondo, che gli abitanti della misera valle hanno così mutato la loro natura, che sembrano essere stati nutriti da Circe. Il Poeta, per indicare lo stato di abiezione in cui sono cadute le popolazioni dell'Arno, ricorda la trasformazione in porci dei compagni di Ulisse operata dalla maga Circe con i suoi incantesimi (pastura), riprendendo la leggenda omerica attraverso Virgilio (Eneide VII, versi 10-20), Orazio (Epistole I, II, versi 23-26), Ovidio (Metamorfosi XIV, versi 248 sgg.). La perifrasi descrittiva (versi 16-18) che aveva colto il fiume toscano da una cima ideale, piccolo alla sorgente, per poi spaziarsi avidamente dalle sue modeste origini, insaziato, per oltre cento miglia, era già una metafora morale, una calzante personificazione polemica della cupida anima toscana, ma ora il corso del fiume viene rifatto attraverso "una apocalittica metamorfosi che avvolge in una fosca visione infernale tutta la regione toscana e le sue popolazioni", dove "i dati reali, non pure della cronaca e della storia, ma addirittura di una fisica topografica, di un paesaggio così familiare e ridente, legato alla memoria affettiva del Poeta, vengono... trascesi nell'assolutezza di un giudizio storico-politico e morale, nel quale hanno rilevanza solo la virtù e il vizio, i costumi riprovevoli degli uomini; così che la loro condanna si riflette sulla stessa natura dei luoghi, dove la virtù si fuga da tutti come biscia" (Grana) : in un crescendo pauroso la Toscana e la Romagna, i limiti geografici della vicenda terrena di Dante, diventano "una specie d'inferno" (Pistelli) , una misera valle (verso 41) , una maladetta e sventurata fossa (verso 51) . Guido del Duca è la voce accorata di Dante che considera con amarezza la realtà morale e sociale del suo tempo, quanto più si accosta ai temi dell'esperienza personale e sofferta e "come Gioacchino da Fiore Dante avverte il problema fondamentale del suo tempo, quello del Medioevo feroce nel quale viveva e che nei costumi e nelle stirpi era andato sempre più degenerando, come un problema morale. La condanna della lotta dell'uomo contro l'uomo e le voci invocanti la pace e la giustizia, la deprecazione della violenza dentro la stessa città in cui si lottano quei che un muro ed una fossa serra si esprimono in Dante con forza polemica che condanna i vizi e i disordini dell'ordinamento comunale" (Piromalli). Per questo anche il linguaggio si trasforma in eloquenza calda e serrata, con un ordine sintattico accuratamente elaborato, che dopo aver concluso il primo ritmo del respiro spirituale di questa invettiva nella descrizione del corso del fiume, introduce, con la figura di Circe e dei suoi incantesimi, l'immagine medievale della valle abitata da bestie. Dispiega dapprima il suo corso povero d'acqua tra sudici porci, più degni di ghiande che di altri cibi fatti ad uso degli uomini. Il primo tratto dell'Arno scorre nell'alto Casentino, i cui abitanti vengono presentati come brutti porci, o per alludere alla loro condizione di vita molto primitiva o per il fatto che si dedicavano particolarmente all'allevamento dei suini. Secondo altri commentatori, invece, il nome deriverebbe dal castello di Porciano (ai piedi del Falterona), dimora di un ramo dei conti Guidi. Trova poi, scendendo verso il piano, cani ringhiosi più di quanto richiederebbe la loro forza, e si allontana

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da loro con disdegno. Botoli sono gli Aretini, "perché botoli sono cani piccoli da abbaiare più che da altro; e così dice che sono li Aretini, atti ad orgoglio più che a forze" (Buti). La valle dell'Arno, presso Arezzo, compie una grande curva (torce il muso) verso occidente, formando il Valdarno superiore. Procede scendendo; e quanto più la maledetta e sventurata valle si va allargando, tanto più trova cani che si trasformano in lupi. I cani aretini cedono il posto ai lupi fiorentini, "li quali come lupi affamati intendono all'avarizia e all'acquisto per ogni modo, con violenza e rubamento e sottomettendo li loro vicini" (Buti). Disceso poi attraverso numerosi profondi passaggi, trova volpi così piene di astuzia, che non temono trappole capaci di sorprenderle. L'Arno, dopo essersi incassato nei pelaghi cupi del Valdarno inferiore, giunge a Pisa, i cui abitanti sono paragonati "alle volpi per la malizia; imperò che li pisani sono astuti e coll'astuzia più che colla forza si rimediano dai loro vicini" (Buti). Né cesserò di parlare per il fatto che un altro (perch'altri: cioè Rinieri) mi ascolta; e sarà utile a costui (Dante), se si ricorderà anche di ciò che una verace ispirazione mi rivela. Guido del Duca afferma di parlare per puro amore di verità: le sue parole saranno motivo di dolore per Rinieri, che udrà preannunciare le malvage azioni del nipote Fulcieri, ma a Dante esse, anche se amare, permetteranno di sopportare meno duramente i mali futuri di Firenze, perché quelle sventure non gli giungeranno inaspettate. Vedo tuo nipote diventare cacciatore di quei lupi lungo le rive del crudele fiume, spargendo fra loro il terrore. Vende la loro carne ancora viva; poi li uccide come belva inveterata nella sua ferocia: priva molti della vita e se stesso dell'onore. Esce macchiato di sangue dalla sciagurata selva (da Firenze); e la lascia in uno stato tale, che neppure fra molti anni potrà risorgere ritornando nella primitiva condizione ». I veggio tuo nepote: Fulcieri da Calboli divenne podestà di Firenze nel 303 e, per conservare la sua carica oltre il termine stabilito di sei mesi, fece strumento della politica dei Neri contro i Bianchi e i Ghibellini. Il Villani, in un passo della sua Cronaca VIII, 59), lo definisce "uomo feroce crudele", rivelando anche il nome dei cittadini fiorentini che, benché innocenti, egli fece condannare a morte, per avere l'appoggio dei Neri: vende la carne loro essendo viva. Nei versi 43-54 la storia era diventata un "attuale mito di bestie, ora sconcie, ora vili, ora feroci, ora

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perfide" (Grabher) : tale mito trova il suo completamento naturale in un annuncio di sciagure pubbliche, in una rivelazione tragica e barbara, dove di validissimo effetto poetico è l'aver fatto pronunciare la profezia (io veggio) da un cieco, per cui essa pare acquistare l'intensità che può provenire da una visione tutta interiore. "Continuando e sviluppando coerentemente l'emblematica fluviale e ferina, la figurazione esaspera i motivi d'ispirazione infernale, con l'irrompere di una figura nuova, una sorta di demonio sanguinario che sulla riva del fiero fiume e su quei lupi pare eserciti una superiore vendetta, ma a sua volta atteggiandosi ferocemente come antica belva. E quindi i lupi sono ora vittime sgomente, e il nuovo misfatto è tale da convertire la riva del fiume in una trista selva". (Grana) In questa immagine, e davanti ai secoli che non basteranno a risollevarla, Firenze si trasforma agli occhi dell'esule, che la vede straziata dalle lotte di parte, e grandeggia nella pietà che ispira, cosicché la satira si cambia in un momento vibrante e lirico, nel quale la catastrofe morale e civile della città è dolorosamente rivissuta attraverso il profondo legame d'affetto che lega il Poeta alla sua patria. Come all'annunzio di gravi danni si turba il volto di chi ascolta, da qualunque parte il pericolo lo minacci, allo stesso modo io vidi l'altra anima, che era tutta volta ad ascoltare, turbarsi e diventare preoccupata, dopo avere accolto e meditato quella profezia. Le parole della prima anima e l'aspetto dell'altra mi resero desideroso di conoscere i loro nomi, e a questo proposito rivolsi loro una domanda unita a preghiera; per la qual cosa lo spirito che mi aveva parlato in precedenza riprese a dire: « Tu vuoi che io m'induca a fare nei tuoi confronti ciò che tu non vuoi fare nei miei (nascondendomi il tuo nome). Ma dal momento che Dio vuole che in te traspaia tanto la sua Grazia, non ti sarò avaro delle mie parole; perciò sappi che io sono Guido del Duca. La mia anima arse a tal punto d'invidia, che se avesse visto uno mostrarsi contento, mi avresti visto diventare livido. Da quello che ho seminato (di mia semente: l'invidia) raccolgo questa paglia: o uomini, perché rivolgete l'anima ai beni terreni dove è necessaria (per poterli godere) l'esclusione di altri che ne siano partecipi ? Guido del Duca nella sua apostrofe contro l'amore dei beni terreni usa un linguaggio giuridico, ricorrente in una legge degli Statuti comunali del tempo, in base alla quale se un cittadino ricopriva determinate cariche, i suoi "consorti", cioè i membri della sua famiglia, ne restavano esclusi, ricevendo il "divieto" di parteciparvi. Questo è Rinieri; questo è il prestigio e l'onore della casata da Calboli, dove in seguito nessuno si è fatto erede della sua virtù.

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E tra il Po, l'Appennino, il mare e il Reno (cioè nella Romagna) non solo la sua famiglia è diventata priva delle virtù necessarie ai bisogni concreti della vita e ai suoi lati piacevoli, perché (il territorio) entro questi confini è a tal punto pieno di piante velenose, che, per quanto esso si coltivi, si estirperebbero ormai troppo tardi. Dov'è il nobile Lizio e Arrigo Manardi? Piero dei Traversari e Guido di Carpegna? Oh Romagnoli cambiati in bastardi! Lizio di Valbona, Arrigo Manardi di Bertinoro, Piero dei Traversari, Guido di Carpegna sono signori romagnoli vissuti nel secolo XIII. Quando a Bologna tornerà a rivivere un Fabbro? quando a Faenza un Bernardino di Fosco, nobile virgulto venuto da un'umile erba? Fabbro dei Lambertazzi appartenne ad un'antica famiglia bolognese e guidò il partito dei Ghibellini romagnoli fino alla sua morte (1259). Bernardino di Fosco fu un faentino di umili origini, che ricoprì la carica di podestà di Pisa e di Siena. Non ti stupire, se io piango, o Toscano, quando ricordo insieme con Guido da Prada Ugolino d'Azzo, che visse tra noi Romagnoli, Federigo Tignoso e la sua compagnia, la casata dei Traversari e gli Anastagi (ma l'una e l'altra famiglia si sono, estinte), le donne e i cavalieri, le difficili imprese e i raffinati dilettamenti dei quali l'amore e la cortesia suscitavano in noi il desiderio là (in Romagna) dove gli animi sono diventati cosi crudeli. Guido da Prada (nel Faentino) visse tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo. Ugolino d'Azzo, della nobile casata toscana degli Ubaldini, morì nel 1232, dopo aver trascorso la maggior parte della sua esistenza nella Romagna. Federigo Tignoso nacque probabilmente a Rimini, e fu generoso e cortese come la brigata che lo circondava. Sappiamo dell'esistenza di queste compagnie o associazioni mondane e aristocratiche nella società del '200 da storici e scrittori del tempo. Dante stesso vi allude nel canto XXIX, verso 130 dell'Inferno. Al tempo del Poeta due fra le più potenti e antiche famiglie di Ravenna, quella dei Traversari e quella degli Anastagi, erano in piena decadenza. Dante nel Convivio (II, X, 8) afferma che "cortesia e onestade è tutt'uno: e però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s'usavano, sì come oggi s'usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte". Sono parole che aiutano a comprendere questa parte del canto, nella quale l'indignazione di fronte al tempo presente si scioglie in

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una elegiaca, nostalgica lode del passato, motivo che verrà ripreso nel canto XVI e che costituirà il tema patetico - nato dai sentimenti e dai ricordi dell'esule nonché dalle sue aspirazioni ad una vita rnigliore - non solo dei canti centrali del Purgatorio, ma anche di quelli del Paradiso: "è come un ripiegarsi dell'animo su di sé e scoprire al di là della triste realtà, che suscita gli sdegni e li fa violenti; una regione in cui lo spirito pur piangendo riposa: il mondo dell'antica cortesia, e lo spirito trova nel vagheggiamento di questo mondo uno dei motivi più profondi di sé" (Malagoli). In un lungo discorso, che pur in un diverso tono affettivo, conserva il movimento oratorio di quello che lo ha preceduto, Dante, attraverso le parole di Guido, rievoca il mondo in cui ha trascorso la sua giovinezza, il mondo che amava ancora la cortesia e le virtù individuali, e che aveva fatto proprio un modo di vita lieta, elegante e operosa. Egli delinea, nota il Mattalia il quadro idealizzato, di una società feudale-cavalleresca, quale risulta dall'incontro del raffinato mondo cantato dalla poesia provenzale con quello, altrettanto raffinato, ma più ricco di fatti guerrieri, della poesia e della narrativa brettone, "in rìlevante e certamente intenzionale contrasto col quadro della rissosa ed esagitata Romagna "tirannica" delineato nel canto XXVII dell'Inferno, e nella figurazione del quale Dante ribadisce il suo atteggiamento e i suoi gusti di aristocratico conservatore, fieramente, avverso al livellamento e alla degradazione del costume portati dall'avvento della borghesia plutocratica e mercantilesca: che sarà detto in più chiare e dure note, nei canti XV e XVI del Paradiso", anche se, occorre rilevare, la "cortesia" per Dante non è retaggio di sangue, ma interiore perfezione, gentilezza di uomini dotati di cuore generoso (nella rassegna di Guido, infatti, viene esaltato anche chi divenne grande e gentil, pur uscendo da picciola gramigna), che però "s'ingentilirono in una società formata da donne e cavalieri viventi tra i nobili svaghi della pace" (Piromalli). Per questo Dante fa piangere Guido del Duca (versi 124-126), e più tardi Marco Lombardo, sulla fine del mondo cavalleresco, quando l'amore per una donna armava il braccio nei tornei o i castelli aprivano le porte per accogliere generosamente ì cavalieri: due versi cantano nel loro ritmo melodico quel sogno di eleganza e di nobiltà, donne é cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava amore e cortesia, diventando non solo il centro ideale del canto, ma la formula-sintesi di quel mondo, raccolta prima dal Boccaccio e poi dall'Ariosto nel famoso proemio dell'Orlando Furioso. O Bertinoro, perché non scompari, dal momento che si è estinta la famiglia dei tuoi signori e molte altre famiglie nobili (sono scomparse) per non corrompersi ? Bertinoro era una città fra Cesena e Forlì, sede dei Mainardi, che si estinsero nel 1177, e famosa per la "cortesia" dei suoi gentiluomini. Fa bene la casata di Bagnacavallo (i conti MalvIcini, signori dei luoghi fra Lugo e Ravenna), che non ha più dìscendenti; e fa male quella di Castrocaro (in Val Montone), e peggio quella di Conio (vicino ad Imola), che si dà ancora briga di mettere al mondo conti così degeneri . Faranno bene i Pagani (a continuare la loro stirpe), dopo che sarà scomparso il loro diabolico rappresentante; ma non per questo accadrà che di loro possa più rimanere una testimonianza pura. I Pagani, signori di Faenza, ebbero in Maghinardo da Susinana (cfr. Inferno canto XXVII, versi 49-51) il

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loro peggiore esponente anche dopo la sua morte (1302) la fama della famiglia resterà rovinata. Ugolino dei Fantolini, il tuo nome è sicuro, dal momento che non si aspetta più un discendente che lo possa oscurare, uscendo dalla retta via. Ugolino dei Fantolini fu un faentino di parte guelfa, signore di alcuni castelli della Romagna, morto nel 1278 lasciando due figli che morirono alcuni anni dopo senza discendenti. Ma allontanati ormai, o Toscano, perché ora sento molto desiderio di piangere più che di parlare, a tal punto il nostro colloquio mi ha attanagliato l'animo». Noi sapevamo che quelle anime nobili ci sentivano camminare; perciò, con il loro silenzio, ci rendevano sicuri della nostra. strada. Dopo che, continuando a procedere, restammo soli, apparve come una folgore quando squarcia l'aria, una voce che risuonò davanti a noi dicendo: « Mi ucciderà chiunque mi troverà »; e scomparve come un tuono che dilegua, quando all'improvviso squarcia la nuvola. Anche gli esempi di invidia punita, come quelli di carità (cfr. canto XIII, versi 25-36), sono gridati ad alta voce. Il primo ripete le parole che Caino pronunciò dopo l'uccisione del fratello Abele, consapevole della maledizione divina che lo avrebbe perseguitato. Quando non la udimmo più, ecco la seconda voce con tale fragore, che sembrò un tuono che segua subito quello precedente: « lo sono Aglauro che fui trasformata in sasso »; ed allora, per stringermi tutto a Virgilio, mi mossi verso destra invece che avanti. Il secondo esempio ricorda l'invidia di Aglauro, figlia di Cecrope. re d'Atene, nei confronti della sorella Erse, amata da Mercurio. Per punizione il dio la trasformò in pietra. Ormai l'aria era tranquilla da ogni parte; ed egli mi disse: « Quello che hai udito è il duro freno che dovrebbe trattenere gli uomini entro i giusti limiti. Ma voi vi lasciate adescare dai beni mondani, così che l'amo del demonio (antico avversaro) vi attira a sé e perciò poco serve il freno o il richiamo. Il cielo vi chiama e vi ruota intorno, mostrandovi le sue eterne bellezze, eppure i vostri occhi guardano soltanto verso terra;

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e per questo vi punisce Colui che tutto conosce ».

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PURGATORIO CANTO XV

Quanto percorso compie il sole che (oscillando nel suo moto apparente fra i due tropici) pare sempre giocare come un fanciullo, tra l'inizio del giorno e la fine dell'ora terza, altrettanta parte del suo cammino, sembrava ormai gli fosse rimasta per arrivare al tramonto; nel purgatorio era il vespero, e in Italia era mezzanotte. Tenendo presente la divisione canonica delle ore del giorno in ora prima, terza, sesta, nona, partendo dalle sei del mattino; Dante intende spiegare che la quantità di cammino percorsa dal sole fra le sei e le nove è uguale a quella che deve percorrere per tramontare: mancano cioè tre ore, e infatti nel purgatorio inizia il vespero (tra le quindici e le diciotto), che precede la sera; agli antipodi, cioè a Gerusalemme, sono le tre antimeridiane, e in Italia, dove il Poeta immagina di scrivere, e che si trova a 45 gradi di longitudine occidentale da Gerusalemme, è mezzanotte. Il paragone tra la luce e il fanciullo che scherza è parso privo, di risonanze liriche alla maggior parte degli interpreti. Anche da un punto di vista logico, il significato del perpetuo scherzare della luce non risulta, a una prima lettura, evidente. La più persuasiva spiegazione è forse quella fornita dal Porena, per il quale critico la similitudine del verso 3 "raffronta... la condotta incostante del fanciullo, che sempre vuole e disvuole, fa, e disfà, con quel continuo. e costantemente incostante oscillar del sole, nella vicenda delle stagioni, fra un tropico e l'altro". Ove si accetti questa esegesi, il quadro con cui il canto si apre perde quel che di angusto e di irrisorio, che una considerazione immediata del verso 3 è suscettibile di conferirgli (anche un critico smaliziato come il Marti si domanda, facendo eco a chi, come P. Venturi, ha definito questo verso "miserabile similitudine", o, come il Momigliano, l'ha attribuito ad una "infelice imposizione della rima": "quale mai scherzo fanciullesco, in questo uguale, solenne ed eterno muoversi della sfera del sole?"), per acquistare proporzioni di cosmica vastità. Ma la similitudine, indipendentemente dalla sua interpretazione in termini astronomici,.. si giustifica sul piano della poesia soprattutto, nella misura in cui prelude alla tematica delle manifestazioni della luce che sarà propria del canto. La luce infatti apparirà in questa, pagina della poesia del Purgatorio, in costante, quasi imprevedibile movimento, per cui il nesso analogico con lo scherzare del fanciullo risulta, fecondo, ove si ponga mente, oltre, che al motivo del movimento, antiche a quello della impalpabilità ed inafferrabilità dell'elemento luminoso, cui la mancanza di peso può conferire, agli occhi di un poeta, il privilegio di una imperitura giovinezza. In particolare, il verso 3 anticipa il versò 18, ove -o "scherzare" si definisce fisicamente come "saltare", rimbalzare all'opposta parte, quasi per un inspiegabile, libero capriccio (per quanto determinabile entro una formulazione astratta: qui e nel Paradiso i fenomeni luminosi, assunti a suggerire gli aspetti di più ardua traduzione in termini umani della verità, si

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definiscono in forme di estremo rigore razionale). E i raggi del sole ci colpivano in pieno viso, perché avevamo percorso ( da oriente ad occidente) tanta parte del monte, che ora camminavamo verso occidente in linea retta, allorché sentii i miei occhi abbassarsi di fronte alla luminosità (dell'angelo) molto più di prima (davanti alla luce del sole), e questa cosa nuova mi era motivo di stupore: per cui portai le mani all'altezza dei miei occhi, e mi riparai dal sole, con un gesto che attenua l'eccesso della luce. Come quando un raggio di sole (che è stato riflesso) rimbalza dalI'acqua o dallo specchio, nella parte opposta (a quella da cui era venuto), risalendo in base alla stessa legge per cui era disceso, e si allontana dalla perpendicolare di uno spazio uguale a quello di cui si era allontanato cadendo, secondo quanto dimostrano l'esperienza e la scienza, Dante allude a un noto principio di Euclide: nel fenomeno della riflessione sopra una superficie piana, l'angolo di riflessione e quello di incidenza sono uguali e si trovano ai lati opposti della perpendicolare a quella superficie. con la stessa intensità di quel raggìo mi sembrò di essere colpito da una luce riflessa che si trovava dinanzi a me; per la qual cosa i miei occhi furono pronti a sottrarvisi. Dante ha provato la stessa impressione che dà un raggio riflesso improvvisamente e violentemente. Il suo è soltanto un paragone (così mi parve), perché in realtà la luce dell'angelo lo colpisce direttamente. Il fenomeno della luce riflessa si ripropone, umanizzato, in una terzina del Paradiso ( canto I, versi 49-51) : e sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pellegrin che tornar vuole..., dove l'esattezza della costatazione scientifica (uscir del primo e risalire in suso è concettualmente più perspicuo, ma poeticamente meno intenso di salta lo raggio all'opposita parte) si trasfigura nel sentimento del pellegrino lontano dalla terra dei suoi affetti. « Che luce è, dolce Virgilio, quella da cui non posso difendere la vista in modo da poterla sostenere » dissi, « e che sembra avanzare verso di noi? » « Non ti stupire, se gli angeli ti abbagliano ancora (non essendo completa la tua purificazione) » mi rispose: « è un messaggero celeste che giunge ad invitare all'ascesa. Presto accadrà che non ti sarà più faticosa la vista di queste cose, ma ti sarà piacevole nella misura in cui le tue facoltà naturali ti permetteranno di sentire. » Dopo che giungemmo davanti all'angelo benedetto, egli con voce lieta ci disse: « Procedete da questa

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parte », per una scala meno ripida delle altre due. Noi salivamo, dopo esserci già allontanati da lì, quando dietro a noi l'angelo cantò: « Beati i misericordiosi! » e « Godi tu che vinci (il peccato)! » -Nel secondo girone, quello degli invidiosi, viene cantata la quinta beatitudine del discorso della montagna (Matteo V. 7), contrapponendo all'invidia la misericordia; l'espressione Godi tu che vinci è da alcuni commentatori rìferita alla seconda parte della beatitudine ("perché otterranno misericordia"), da altri, e più giustamente, alle parole conclusive di tutte le beatitudini: "rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieIi" (Matteo V, 12). Il mio maestro, ed io, soli, salivamo entrambi; ed io pensai, mentre continuavo a camminare, di trarre profitto mediante le sue parole; allora mi rivolsi a lui con questa domanda: « Che cosa volle dire l'anima del romagnolo Guido del Duca, accennando a "divieto" e "partecipazione" ? » Dante si riferisce al verso 87 del canto precedente, dove Guido del Duca aveva ricordato l'amore degli uominì per i beni terreni. Per cui egIi: « Ora conosce gli effetti dannosi del suo peccato principale (di sua maggior magagna, cioè l'invidia); e perciò non sia motivo di meraviglia se egli rimprovera gli uomini affinché ne possano piangere dì meno le conseguenze. L'invidia vi fa sospirare, perché i vostri desideri si rivolgono verso i beni terreni dove per il fatto che altri vi parteciparlo diminuisce la parte che tocca a ciascuno. Ma se l'amore dei beni spirituali piegasse verso l'alto i vostri desideri, nel vostro cuore non vi sarebbe quel timore (di essere privati dagli altri di una parte dei vostri beni materiali), poiché, in paradiso, quanto più numerosi sono coloro che posseggono il bene comune (per quanti si dice più... "nostro": quanto più numerosi sono coloro che dicono "nostro"), tanta più grande è la quantità di bene che possiede ciascuno, e tanto più intenso è l'amore che arde in quella comunità ». « Sono più insoddisfatto » risposi, « di quanto sarei se prima avessi taciuto, perché la mia mente ha ora dubbi più grandi. Come può avvenire che un bene distribuito fra più possessori li renda possessori di una quantità più grande, che non se viene diviso fra pochi?» Ed egli mi rispose: « Per il fatto che tu continui a tenere rivolta la mente solo ai beni terreni, raccogli solo tenebre dalla luce di verità delle mie parole.

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Dio, quel bene infinito ed indicibile che è nei cieli, si concede prontamente all'anima che arde d'amore così come un raggio di sole corre verso un corpo capace di rifletterlo. In questa terzina il pensiero, serbando intatto il suo arduo rigore, si traduce in accenti poetici che - per il fatto di esprimere verità estremamente complesse - nulla perdono della loro limpidità e del loro musicale fluire. La successione, nei due ultimi versi della terzina, dei verbi è, corre, vene adombra il mistero della carità. II Dio cristiano. non diversamente da quello di Aristotile, si definisce come Essere, ma, a differenza di quello teorizzato dal maestro di color che sanno, è un Essere che non rimane chiuso in una perfezione remota dal mondo e dall'agire nel mondo. L'essere del Dio cristiano è pienezza di amore, amore che trabocca in un atto di creazione e in un atto di redenzione, di sacrificio volto alla salvezza degli esseri creati. L'inclinarsi del Creatore verso le sue creature, il dono della sua sollecitudine - che nessuna considerazione razionale dimostra necessaria, ed è miracolo, Grazia - accordato alla fallibilità degli uomini, è espresso, nel secondo emistichio del verso 68, da un verbo (corre) che logicamente si contrappone all'è del primo emistichio. L'impeto di carità che si concreta nell'urgenza di questo "correre" si colora, nel vene del verso successivo, di una spiritualità intima e raccolta, scevra ormai del trepidare dell'ansia, irriducibile ad un agire materiale, pacificata in un presagio di fede (la reminiscenza scritturale è, nella scelta di questo termine, evidente). Tanto più si concede quanto più grande è l'ardore (dell'anima verso di Lui); così che, nella misura in cui l'amore si dispiega nell'anima, cresce sopra di essa la luce divina. E quanto più numerosi sono coloro che in paradiso si amano, tanto più si crea la possibilità di un santo amore, e tanto più si amano tra di loro, e l'uno riflette sull'altro la luce ricevuta da Dio come uno specchio. E se il mio ragionamento non ti soddisfa vedrai Beatrice, ed ella scioglierà completamente questo e qualsiasi altro dubbio. Cerca in ogni modo che ti siano presto cancellati, come lo sono già stati i primi due, i cinque segni. che si rimarginano solo con il dolore del pentimento ». In questo secondo discorso di Virgilio il tema della fertilità inesauribile dei beni spirituali, affrontato con una certa secchezza - fino al lirico lievitare di esso nel verso 57 - nella prima spiegazione impartita al discepolo, emerge ad una pienezza di canto; entro una prospettiva di verità che ormai hanno trasceso, nel fervore dell'ascesi intellettuale, il motivo occasionale che ha dato l'avvio al dialogo (che volse dir lo sputo di Romagna...). Osserva in proposito il Marti: "La poetica sensazione di mobile luce e di ardore, con la quale felicemente si chiudono le prime terzine virgiliane (più di caritate arde in quel chiostro), ora diventa luce d'intelletto e calore di affetto, che tutto illuminano e riscaldano; da quel di vera luce tenebre dispicchi, al paragone com'a lucido corpo raggio vene; da quel tanto si dà quanto trova d'ardore all'altro paragone e come specchio d'uno all'altro rende; fino all'esortazione procaccia pur che tosto sieno

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spente... le cinque piaghe, dove le cinque piaghe (le cinque P, che ancor segnano la fronte di Dante) sono anch'esse viste in funzione di sensazione luminosa (spente). E parallelamente a questo accendersi di fantasia, la generica impersonalità della spera suprema e dei suoi abitatori (per quanti si dice più lì "nostró') che è nei versi precedenti, si tramuta ora nella concretezza poetica di un infinito ed ineffabil beffe che corre ad amore, che si dà quanto trova d'ardore; il cui valore cresce quantunque carità si stende; e nella concretezza della gente che là su s'intende, ama cioè in reciprocità d'amore". Nel momento in cui volevo dire "Mi hai persuaso", mi accorsi di essere giunto nell'altro girone, per cui il desiderio di vedere mi fece tacere. Lì mi parve di essere improvvisamente rapito in estasi, e di vedere numerose persone raccolte in un tempio; e (mi parve di vedere) una donna, sulla soglia che con il tenero atteggiamento di una madre diceva: «Figlio mio, perché hai agito tosi verso di noi ? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti stavamo cercando ». E non appena la voce a questo punto tacque: la prima visione scomparve. II primo esempio di mansuetudine (la virtù contraria all'iracondia) è tratto da un passo del vangelo di Luca (Il, 41-50); in esso si narra che Gesù, ancora fanciullo, invece di seguire i genitori che da Gerusalemme ritornavano a Nazareth, si recò nel tempio a discutere coi dottori, e lì fu ritrovato, dopo tre giorni, da Maria e Giuseppe e rimproverato dalla madre. Nota il Porena come le parole della Vergine, che nel testo evangelico "si presterebbero anche a una intonazione alquanto sostenuta di sia pur calma severità", esprimono qui soltanto l'accorato affetto di una madre per il proprio figlio. Dante mitiga e sfuma di trepidazione il rimprovero evangelico, qualificando il vocativo del testo del passo di Luca ("figlio") con il possessivo mio e dando ad esso una forma più intima e familiare (figliuol). Della Vergine, in questa visione intesa a proporre un esempio di mansuetudine, è posto in luce il solo lato umano (una donna... con atto dolce di madre), il dolore che in esso è contenuto, e l'accettazione di questo dolore. Tutto questo risulta. oltre che dai singoli particolari, dal respiro stesso di questa terzina, dalla sospesa cadenza dei perìodi. Ogni particolare appare sfumato in questa visione; ogni circostanza più precisa di tempi o luoghi è abolita, ogni forma di determinazione - in quanto superflua al proporsi universale dell'esempìo - è volutamente ignorata. La cornice in cui la scena si inquadra è, genericamente, un tempio, lo sfondo di essa è rappresentato da una folla indifferenziata, più persone, in primo piano spicca una donna, il cui sentire ed atteggiarsi è riportato a quanto di più intimo, nell'essere della donna, è dato ritrovare, a ciò che quest'essere più da vicino ed esaurientemente definisce: il sentimento materno. Ma dove l'indeterminatezza raggiunge il suo grado più alto, riuscendo al contempo ad una cortissima intensità di espressione, è nel così, rilevato dalla cesura che lo isola fortemente, del verso 90. Questo semplice avverbio esprime una ricchezza ed una combattuta complessità di sentimenti risolti in perdono, in tenerezza permeata di mestizia, in gioia che partecipa nel profondo della positività del dolore.

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Poi mi apparve un'altra donna con il volto rigato dalle lagrime che il dolore suscita quando (nell'animo) nasce un grande sdegno verso gli altri, e diceva: « Se tu sei signore della città per il cui nome gli dei gareggiarono accanitamente tra loro, e dalla quale risplende nel mondo ogni scienza, vendicati, o Pisistrato, di quelle braccia che osarono stringere nostra figlia». E vedevo il sovrano, benevolo e mite, risponderle con volto atteggiato a moderazione: «Che cosa faremo a chi desidera il nostro male, se condanniamo chi ci ama? » Dante ricorda un episodio narrato dallo storico romano Valerio Massimo (Facta et dicta memorabilia V, 1, 2) a proposito di Pisistrato, tiranno di Atene nel VI secolo a. C. Un giovane, innamorato della figlia di Pisistrato, osò abbracciarla in pubblico, suscitando lo sdegno della moglie del tiranno, che ne chiese la punizione. Il nome Atene fu dato alla città dopo una gara tra Nettuno e Pallade Atena vinta dalla dea (cfr. Ovidio - Metamorfosi VI, versi 70 sgg.) ; la grandezza della città, nel campo delle arti e delle scienze, da Dante ricordata nel verso 99, è esaltata da scrittori latini e medievali. La seconda visione è priva del sentimento di dolore, riscattato nell'intimo dalla fede, che caratterizza i due episodi tra i quali è inserita. Desunto dalla tradizione classica, più che un esempio di mansuetudine, lo diremmo un esempio di equanimità, di serena valutazione delle cose. La compostezza classica di questo secondo esempio di mansuetudine si traduce in una calcolata bipartizione di esso: al modello del male, reso plasticamente nel pianto della moglie, fa riscontro il viso temperato del benigno e mite Pisistrato. Anche qui, non meno che nel quadro precedente, ogni insorgenza di acuminato realismo appare smussata, ma, mentre nella scena che aveva per protagonista la Vergine la traduzione dell'episodio in un clima fermo di favola conferiva ad esso una sostanziale drammaticità, qui la narrazione si distende, piana, nelle cadenze di un ritmo misurato: i singoli termitai non si isolano in una serie di attonite o dolenti sospensioni, ma sapientemente si dispongono nel fluire di un pensiero generico ed in certa misura ad essi preordinato. Poi vidi un gruppo di persone accecate dall'ira che lapidavano un giovanetto, gridandosi forte, reciprocamente: «.Uccidi, uccidí! » E lo vedevo accasciarsi, per la morte che già gli era sopra a terra, ma teneva gli occhi sempre aperti verso il cielo, pregando Dio, in tanta sofferenza, di perdonare ai suoi persecutori, con quell'atteggiamento che suscita la pietà. La visione del terzo esempio rappresenta la lapidazione di Santo Stefano; il primo martire della fede,

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ucciso dai Giudei. (Atti degli Apostoli VII, 54-60). La figura di Santo Stefano, contro lo sfondo di una umanità imbestiata, ebbra di sanguinario furore, vorticante, con la cieca irrevocabilità di un fenomeno naturale, verso Il supplizio di un innocente, si sublima in una dimensione di valori che trascendono il mondo e dal mondo non sono compresi: la dimensione del perdono, del sacrificio che redime anche coloro che lo deridono, della carità incommensurabile in rapporto ai criteri della umana giustizia. Il "giusto mezzo" proposto dall'esempio di Pisistrato, principio regolatore di tutte le manifestazioni della civiltà classica, ideale risolventesi in forme chiuse ed armoniche, è qui trasceso in un'ansia d'infinito, in un verticale insorgere dello spirito nel momento in cui l'elemento fragile che in terra lo esprime sta per dissolversi. Penetrante e sicura è l'analisi che il Porena ha fatto di questo episodio: "Notate nella prima terzina: il pietoso contrasto fra quel giovinetto, idea e parola tenera, e quella calca di concetti forti e violenti da cui è circondato; genti, accese, foco, ira, pietre; ancider, forte, gridando, martira. Nella seconda terzina, un altro. meraviglioso contrasto, nella figura del giovinetto, tra la materia, che ubbidisce alla necessità della legge fisica, e, prossima alla morte, diviene peso bruto che si aggrava a terra; e l'anima, sempre desta e alacre nell'occhio sollevato e spalancato alla visione del cielo: E lui vedea chinarsi, per la morte che l'aggravava già, inver la terra (verso portentoso di pesantezza plumbea) ma degli occhi facea sempre al ciel porte: è addirittura una irruzione di cielo in quel corpo pesto e sanguinoso che sta per tornar terra, alla terra. Finalmente, nell'ultima terzina, ecco il motivo essenziale: la esemplare mansuetudine, in contrapposto al peccato dell'ira". Quando la mia anima ritornò a percepire le cose che fuori di essa hanno una loro realtà, compresi che le visioni erano irreali (errori: cioè non esistenti di per sé), ma effettivamente viste. La mia guida, che mi poteva vedere nello stesso atteggiamento di un uomo che si scioglie dal sonno, disse; « Che hai che non puoi reggerti bene, ma per più di mezza lega hai camminato con gli occhi semichiusi e con le gambe quasi legate, come un uomo vinto dal vino o dal sonno? » « O dolce Virgilio, se tu mi presti ascolto, io ti descriverò » dissi ,«ciò che. mi apparve quando mi fu a quel modo tolto l'uso normale delle gambe. » Ed egli: « Anche se tu avessi il volto celato da cento maschere, i tuoi pensieri, per quanto piccoli, non mi resterebbero nascosti. Le visioni apparvero affinché tu non rifiuti di aprire il tuo cuore al sentimento di mansuetudine che sgorga dalla fonte eterna di Dio. Non, ho chiesto "Che cos'hai" per la ragione per la quale lo domanda colui che, quando un altro giace col corpo privo di forze, vede solo con l'occhio materiale (l'occhio che non vede, cioè l'occhio capace di cogliere solo gli aspetti esteriori, ma non quelli interiori, delle cose e che; in questo caso, non può capire

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il motivo per cui il corpo è disanìmato); ma ho fatto quella domanda per spronare il tuo piede: così è necessario stimolare i pigri, che sono lenti a riprendere la loro attività quando essa (dopo un periodo di sonno o di smarrimento) ritorna ». Dopo l'ampio e vitale respiro della spiegazione sulla qualità - suggerita per via di analogie ma destinata a rimanere mistero per una ragione chiusa al trascendente - dei beni spirituali, dopo il folgorare, nella mente del discepolo, degli esempi di mansuetudine, Virgilio riprende il suo abito consueto di pedagogo. Il suo linguaggio sale di tono, diventa qua e là nobilmente paludato (ad opera di latinismi come larve... cogitazion... parve, di un elaborato giro perifrastico come quello dei versi 133-135, di un'altra perifrasi, di intonazione evangelica - Tacque della pace - ma piegata al ritmo di un ferreo argomentare) e si conclude con una massima di sapore proverbiale. II sole volge al tramonto ed anche la luce intellettuale che il maestro ha irradiato con la sua parola sembra piegare verso un temporanea punto di sosta, un ragionare di minore impegno, un insegnamento più umile, che una ferma sentenza suggella. Noi procedevamo nella sera, intenti a guardare davanti a noi per quanto potevano spingersi lontano i nostri occhi che avevano di fronte gli ultimi ma luminosi raggi del sole. Ed ecco avvicinarsi a noi a poco a poco un fumo scuro come la notte; e non c'era un luogo dove ripararsida quello: questo fumo ci tolse la vista delle cose e l'aria pura. Questo canto eminentemente dialogico si chiude su una nota di raccoglimento e di silenzio. Il mistero della sacra montagna (un fummo farsi), lo spazio che il sole occiduo sembra dilatare a perdita d'occhio impongono una pausa al travagliato proporsi, in termini di ragione, del motivo della purificazione e dell'ascesa.

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DANTE: Divina commedia - Parafrasi

PURGATORIO CANTO XVI

Le tenebre dell'inferno e di una notte priva di luna e di stelle, osservata da una stretta valle con orizzonte limitato, e oscurata quanto più possibile da nuvole, non stesero mai sui miei occhi un velo così denso, né così pungente e fastidioso a sentirsi, come quel fumo che lì ci avvolse, così che gli occhi non riuscirono a restare aperti: perciò la mia guida esperta e sicura si accostò a me e mi offerse (come appoggio) la sua spalla. Il motivo delle tenebre che nella terza cornice del purgatorio avvolgono le anime degli iracondi e che renderanno difficoltoso il procedere dei due pellegrini è introdotto, nella prima terzina, attraverso un succedersi incalzante di determinazioni, mentre la seconda terzina, porgendo, in forma negativa (non fece... né a sentir), il medesimo tema, determina un effetto di iperbole. Il fummo, che nel primi tre versi è stato riallacciato a una serie di riferimenti oggettivi, è qui considerato nel suo riflettersi nella memoria del narratore: anche se sommati insieme, tutti i raffronti suggeritigli dalla sua esperienza nel mondo dei vivi appaiono a Dante inadeguati a rendere l'assolutezza del buio in cui sì trovò immerso nel terzo girone e la sua sgradevole materialità. Dalla situazione presentata con tanto scrupolo di oggettiva evidenza nei primi sei versi, scaturisce naturalmente l'azione: Dante non è più in grado di avanzare da solo, ha bisogno di ricorrere, nel significato più immediato della parola, al sostegno della sua guida, è nelle condizioni di un cieco. Il motivo delle tenebre dell'ira assumerà nel corso del canto, interiorizzandosi, un significato sempre più ampio e traslato, si trasfigurerà in quello, spirituale e ricco di echi biblici, della cecità che il vivere stesso comporta, dell'imperfetto discernimento di chi è gravato dal peso della carne. Allo stesso modo in cui un cieco segue la sua guida per non smarrire la via e non urtare contro qualcosa che gli faccia male, o forse anche lo uccida, io camminavo attraverso quel fumo acre e nero, ascoltando la mia guida che mi diceva di continuo: "Sta attento a non separarti da me". Dante sì appoggia all'omero di Virgilio come un cieco: la forza di questo raffronto, che in un autore di minor capacità di adesione al reale rischierebbe di banalizzarsi nella genericità del luogo comune o di suscitare amplificazioni retoriche, scaturisce dalle precisazioni cui la simmetrica, bilanciata disposizione nei quattro emistichi conferisce risalto, quasi isolandole nel fluire del discorso - dei versi 11-12. La concretezza del suo rappresentare induce Dante a trasferire un generico e prevedibile riferimento nella

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cornice di un accadere effettivo, delineato con mano ferma in quelle che ne sono le circostanze essenziali. Io udivo delle voci, e ciascuna sembrava pregare per ottenere pace e misericordia l'Agnello di Dio che toglie i peccati. Sempre "Agnello di Dio" era il loro inizio; tutte recitavano la stessa preghiera e con la stessa intonazione, cosicché tra di loro appariva il più perfetto accordo. La preghiera che le anime recitano o cantano è quella liturgica dell'Agnus Dei, che, come durante la celebrazione della Messa, viene ripetuta tre volte per chiedere a Cristo-Agnello di Dio, che si sacrificò per l'umanità (Giovanni I, 29), misericordia (nei primi due versetti) e pace (nell'ultimo). Le anime che in vita si lasciarono trasportare alla violenza e alla discordia dall'ira, non più guidata dal freno della ragione e volta a fini morali, appaiono, per la pena del contrappasso, circondate da un denso fumo, mentre le loro voci, nell'accordo più perfetto (ogne concordia), chiedono, invece delle divisioni e delle lotte di un tempo, pace e misericordia. Un'efficace contrapposizione si stabilisce tra il tema del fummo dell'ira - passione che preclude ogni forma di comunicazione, di amore - e quello del coro delle anime espianti. Nella dura, compatta trama sintattica dell'esordio, già il primo accenno al motivo della cecità ha insinuato un ritmo più trepido, umano. Il coro degli spiriti afferma ora - esaltando, nelle cadenze dell'inno latino, il volontario olocausto del Figlio di Dio - la fertile, inesauribile positività del dolore. Nelle terzine 16 e 19 ogni particolare risulta sfumato, ogni stridente forma di individuazione è abolita (io sentia voci, e ciascuna pareva... sì che parea...); il Poeta appare esitante nel definire in termini troppo decisi la consistenza fisica, sensibile delle forme da lui udite; l'accento è posto sul dato interiore, sulla mitezza ed unanimità del sentire, sulla concordia raggiunta nella rinuncia e nella dedizione. "Maestro, quelli che io ascolto sono anime?" domandai. E Virgilio mi rispose: "Tu hai colto nel segno, e si stanno purificando dal peccato dell'iracondia". "Chi sei tu che passando tagli il nostro fumo, e parli di noi proprio come se tu fossi ancora vivo (partissi ancor lo tempo per calendi: dividessi ancora il tempo per mesi)?" La rappresentazione si anima, inclina verso un movimento drammatico. Alla pacata risposta di Virgilio bruscamente fanno seguito parole come di sfida, di cruccio, che uno degli spiriti indirizza a Dante. L'espressione or tu chi se' è la stessa con la quale nell'Inferno Bocca degli Abati si è rivolto al Poeta (XXXII, 88). L'anima che qui l'ha pronunciata non è ancora libera dal nodo dell'ira. L'effetto di quest'apostrofe (verso 25) è accresciuto dalla aspra allitterazione che occupa il secondo emistichio (dove il fendi esprime energicamente la consistenza materiale del fummo, la sua funzione di impedimento sul cammino della penitenza), nonché dalla contrapposizione del tu al nostro (il fummo, strumento di purificazione, appare allo spirito come un privilegio cui un vivo non dovrebbe avere diritto). Di qui l'impressione che quest'anima consideri Dante alla stregua di un intruso da respingere; analogo era stato il tono ma senza la sfumatura di quasi superba sufficienza che caratterizza queste prime parole

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dell'iracondo - dell'apostrofe di Catone ai due viandanti appena usciti dalla valle inferna. Così fu detto da una voce; perciò il mio maestro, mi disse: « Rispondi, e chiedi se da questa parte si può salire». E io: « O creatura che ti purifichi per tornare; ridiventata bella, al tuo Creatore, se mi accompagni udrai da me cosa degna di meraviglia ». « Io ti accompagnerò fin dove mi è permesso » rispose; « e se il fumo non ci permette di vederci, invece della vista ci terrà uniti l'udito. » Allora cominciai a dire: « Sto salendo verso l'alto con quel corpo che la morte dissolverà, e sono arrivato qui attraversando i tormenti dell'inferno. E se è vero che Dio mi ha avvolto nella sua Grazia, tanto da volere che io salga a contemplare la corte celeste in un modo del tutto inusitato nel nostro tempo, Il viaggio attraverso il mondo ultraterreno era stato concesso solo ad Enea (cfr. Virgilio - Eneide, canto VI) e a San Paolo (II Epistola ai Corinti), come Dante ha già ricordato nel II canto dell'Inferno (versi 13 sgg.). non nascondermi chi tu fosti prima della morte, ma dimmelo, e dimmi anche se sono sulla via giusta per il passaggio (che conduce al girone superiore): e le tue parole saranno la nostra guida ». « Fui lombardo, e mi chiamai Marco: fui esperto delle cose del mondo, e amai quella virtù al cui possesso oggi nessuno tende più l'arco del suo desiderio. Marco, vissuto nella seconda metà del '200, fu uomo di corte di grande saggezza, di animo nobile e fiero, pronto a giudicare con sdegno, per i loro vizi, i potenti signori presso i quali viveva. Queste sono le notizie che ci hanno tramandato gli antichi commentatori, gli storici, e le raccolte di novelle. perché nient'altro sappiamo della sua vita. L'Anonimo Fiorentino afferma che appartenne alla casata veneziana dei Lombardo o Lombardi, mentre l'Ottimo, seguito dagli altri commentatori antichi e da tutti i moderni, ritiene che lombardo indichi il luogo di nascita: del resto tale aggettivo nel Medioevo veniva adoperato per designare tutta l'Italia settentrionale. Sei nella direzione giusta per salire. » Cosi rispose, e soggiunse: « Ti supplico di pregare per me quando sarai lassù in cielo ». Dante giustifica la sua presenza in quello che l'iracondo ha chiamato il nostro fummo, attraverso un dire eloquente e misurato. Spicca in esso la perifrasi con cui è designato il corpo (quella fascia che la morte dissolve), concepita in analogia tonale con il simbolo del fummo dell'ira a suggerire quasi l'indissolubilità di realtà corporea e passioni (il corpo "fascia" la realtà semplice e trasparente dell'anima e ne rende

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arduo il discernimento, il cammino in questa nostra vita: infatti i vivi - dirà poi il suo interlocutore esplicitando questo motivo, qui soltanto sfiorato - sono ciechi); ad essa risponde. contrapponendovisi, la metafora della "chiusura" nella grazia divina (e se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso), chiusura che non occulta e non svia, ma svela e conduce al bene. La perorazione di Dante, così nobilmente pervasa di motivi lontani da ogni riferimento al contingente, alla fine si anima, esprime una personale impazienza, il suo desiderio acuto di ricevere luce dalle parole dell'interlocutore (ma dilmi, e dimmi), quasi un'ansia di apprendere da lui una verità grave e solenne. Alla ripetizione del verso 44 risponde simmetricamente quella del verso 46. Le parole di Marco Lombardo mantengono una loro laconica concisione, contribuendo ad isolare in una luce di dignitoso riserbo questo personaggio: "Si direbbe - osserva il Momigliano - un'anticipazione psicologica, come l'atteggiamento meditativo e solenne di Sordello già prima della digressìone politica". E io gli dissi: « Mi impegno con giuramento a fare quello che mi chiedi; ma sono tanto angustiato da un dubbio che io scoppio, se non me ne libero. Prima il mio dubbio era semplice, ma ora si è fatto più grave per le tue parole, che mi convincono, udendole qui da te e altrove da altri, di quella corruzione del mondo alla quale si riferisce il dubbio stesso. Il mondo è proprio tutto spoglio di ogni virtù, così come tu mi dici, e saturo e coperto di malvagità; ma ti prego d'indicarmi la causa, in modo che io la possa vedere e mostrare agli altri, poiché alcuni la pongono nell'influsso degli astri, e altri nella volontà degli uomini ». Guido del Duca (canto XIV, versi 29 sgg.) aveva lamentato la corruzione del mondo, con particolare riferimento alla Romagna e alla Toscana, lasciando nell'incertezza se tale situazione dipendesse dall'influsso dei cieli o dalle azioni umane (cfr. versi 37-39) e facendo nascere un dubbio nell'animo di Dante, dubbio che ora l'analogo giudizio di Marco (verso 48) rende ancora più profondo e problematico. Prima di rispondermi emise un sospiro profondo, che il dolore trasformò in un lamento; e poi cominciò: «Fratello, il mondo è cieco, e tu vieni proprio da lui. Voi mortali attribuite la causa di tutto solo al cielo, proprio come se esso con il suo movimento determinasse necessariamente tutto (tutto movesse seco di necessitate). Se così fosse, in voi sarebbe distrutto il libero arbitrio, e non ci sarebbe giustizia nell'avere la beatitudine eterna se si fa il bene, e la dannazione eterna se si fa il male. L'influsso dei cieli accende gli istinti; e non dico tutti, ma anche se lo dicessi, vi è stato dato il lume della ragione per distinguere il bene e il male, e una volontà libera (di scegliere l'uno o l'altro); essa, anche se incontra difficoltà nel combattere gli

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impulsi suscitati dagli influssi celesti (nelle prime battaglie col ciel), vince poi ogni contrasto, se viene ben educata. Pur restando liberi, voi siete soggetti a una potenza più grande e a una natura migliore (cioè a Dio); e Dio crea in voi l'anima intellettiva, che non è sottoposta all'influsso dei cieli ('l ciel non ha in sua cura). Dante accosta - svolgendolo nei modi e secondo la soluzione formulata da San Tommaso e accettata da tutta la filosofia scolastica - il problema del rapporto fra il principio del libero arbitrio e la teoria dell'influsso dei cieli sulle azioni umane, teoria alla quale il pensiero medievale riconosceva carattere di scientificità, rifacendosi a posizioni del mondo classico. Se gli uomini, secondo un principio deterministico, ritengono che tutto il mondo e quindi anche le loro azioni, siano guidate dall'influsso astrale, distruggono ogni possibilità di libera scelta tra il bene e il male, cioè il libero arbitrio, ed eliminano il fondamento della giustizia divina, la quale distribuisce le pene e i premi in base a quella possibilità che ciascuno ha di agire liberamente. In realtà i cieli determinano negli esseri viventi solo gli impulsi, gli istinti, quello che, con termine moderno, chiameremmo lo stato psico-fisiologico, perché la capacità della ragione nel discernere il bene dal male e la volontà non condizionata nel seguire quello o questo, non sono soggette ad alcun influsso diretto da parte degli astri, appartenendo, la ragione e la volontà, alla vita intellettiva dell'anima, sulla quale, secondo San Tommaso, quegli influssi non possono operare. L'anima, essendo unita al corpo, cioè ad una parte istintiva e irrazionale, deve combattere contro gli appetiti inferiori determinati dai cieli (le prime battaglie col ciel) e solo l'aiuto della scienza, attraverso la filosofia e la teologia, le permetterà la vittoria finale. Solo di fronte a Dio, che è una potenza e una natura ben più forte e perfetta degli astri, l'uomo deve riconoscere la sua dipendenza, pur conservando la sua libertà di scelta, che proprio da Dio è stata creata (cria la mente in voi). Perciò, se il mondo presente esce fuori dal giusto cammino, la causa è in voi, e in voi si ricerchi; e io stesso te ne sarò verace rivelatore (vera spia). Esce dalle mani di Dio che la contempla prima che essa esista, comportandosi come una fanciulla che si rattrista e si rallegra (senza ragione) come i pargoli, l'anima ingenua la quale è ignara di tutto, salvo che, mossa da Dio, somma felicità, si volge volentieri a ciò che la diletta. Gusta dapprima i beni limitati della terra; e qui cade in inganno, e corre dietro ad essi, se una guida o un freno non indirizzano sulla retta via il suo amore. Perciò fu necessario stabilire la legge come un freno; fu necessario avere un sovrano per guida, il quale sapesse discernere almeno la giustizia del mondo ideale. L'anima, sempre secondo la dottrina tomistica, dopo essere stata creata da Dio (esce di mano a lui), che la contempla da sempre nel suo pensiero (prima ancora che essa esista) e si compiace della sua bellezza

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Divina commedia: Parafrasi Purgatorio

(la vagheggia), entra nel mondo priva di ogni conoscenza, aperta ad ogni impressione, ma pronta, per sua natura, essendo stata plasmata da Chi è sommo bene e somma gioia, a volgersi verso ciò che le dà piacere e diletto. Per questo accade che, dopo aver accostato qualche bene terreno, lo segua, "e perché la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi" (Convivio VI, XII, 16). Perciò è necessario l'intervento della legge e dell'autorità imperiale: queste, regolando l'umana convivenza, realizzano nel mondo la giustizia, che, portando la pace, costituisce la base necessaria per conseguire la perfezione umana. Secondo quanto Dante afferma nel Convivio, soltanto l'imperatore sarebbe in grado di attuare in terra la giustizia, essendo libero dalla cupidigia che spinge gli uomini alla sopraffazione, all'inganno, alle guerre. La giustizia è simbolicamente designata, nel verso 96, come la torre della vera città. Quest'ultima è l'agostiniana civitas Dei, che molti interpreti hanno voluto senz'altro identificare con il regno dei cieli, per analogia con quanto è detto nel verso 95 del XIII canto del Purgatorio. In realtà, come fa giustamente notare il Maccarrone basandosi su un passo del De Civitate Dei, la civitas di cui parla Sant'Agostino "ha in questa terra la sua prima fase". La vera città deve quindi essere interpretata come l'ordinamento politico ideale, quello che consente agli uomini di raggiungere il massimo di perfezione in terra e li predispone, indirettamente, alla felicità eterna. Le leggi esistono, ma chi opera per farle osservare? Nessuno, perché il pastore che guida il gregge, è capace di interpretare la Scrittura, ma non possiede il retto discernimento del bene e del male nell'amministrare la giustizia (non ha l'unghie fesse: non ha le unghie divise, cioè non distingue il bene dal male) e perciò l'umanità, che vede la sua guida tendere solo a quei beni materiali di cui essa stessa è avida, si pasce soltanto di tali beni, e non chiede altro. In due passi della Bibbia (Levitico XI, 3-8: Deuteronomio XIV, 6-8) è menzionato il divieto fatto da Mosè agli Ebrei di cibarsi di animali che non siano ruminanti e non abbiano l'unghia del piede divisa. Questa prescrizione dell'Antico Testamento venne nel Medioevo interpretata in senso allegorico. Secondo San Tommaso (Summa Theologica II, I, CII, 6) "la divisione dell'unghia significa... il discernimento del bene e del male; la ruminazione, la meditazione delle Scritture e il loro sano intendimento". Riallacciandosi a passi del Convivio e della Monarchia il Maccarrone fornisce una plausibile spiegazione della terzina 97, dopo aver rifiutato l'interpretazione tradizionale, che, sulle orme del commento di Pietro Alighieri, vede nel simbolo delle unghie fesse la capacità, negata al pontefice, di tener distinte le cose temporali da quelle spirituali. Riconosciuta - scrive il Maccarrone - al pastor che procede la prerogativa di possedere e spiegare la Sacra Scrittura (rugumar può), viene però a lui negata, con la vivacità espressiva del simbolo biblico, la capacità di "por mano alle leggi" mostrandone la causa: manca delle unghie fesse, figura della discretio interbonum et malum (discernimento fra il bene e il male) posseduta dall'imperatore, il quale può "mostrare e comandare le leggi". Dante afferma quindi, attraverso le parole di Marco Lombardo, la necessità di una netta separazione e di una reciproca autonomia delle giurisdizioni del pontefice e dell'imperatore.

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Puoi ben vedere come il malgoverno dei pontefici sia la causa che ha reso peccatore il mondo, e non la natura umana che in voi sia corrotta (dall'influsso degli astri). Roma, che un tempo diede al mondo la pace e la giustizia, soleva avere due autorità, le quali indicavano le due strade, quella della felicità materiale (del mondo) e quella della felicità spirituale (di Deo). In seguito l'autorità papale ha spento l'autorità imperiale; e il potere civile è congiunto (nella stessa persona) con quello religioso, ma uniti insieme con un atto arbitrario devono necessariamente svolgersi male, perché, stando uniti nelle stesse mani, l'uno non rispetta più l'altro: se non vuoi credere alle mie parole, considera i frutti che ne derivano, poiché ogni pianta si conosce dal frutto. Anche l'immagine dei due soli è di origine biblica. Così è descritta nella Genesi (I, 16) la creazione del sole e della luna: "E Iddio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore per presiedere al giorno e il luminare minore per presiedere alla notte". Nel Medioevo il simbolo dei "due luminari" servì a designare le massime autorità in terra, quella dell'imperatore e quella del pontefice, e venne usato ampiamente dai trattatisti di parte imperiale e di parte papale. Dante stesso ne fece uso nei suoi scritti teorici. Qui il simbolo acquista una concretezza ed un risalto anzitutto lirici. I "due luminari", trasferiti su un piano di acceso profetismo, di concreta visione, si convertono, nelle appassionate parole di Marco Lombardo, in due soli. L'astratto teorizzare della trattatistica medievale sfocia così in un quadro di cosmica ineluttabilità, di apocalittico sovvertimento dì ogni legge naturale: un sole, che dovrebbe essere unicamente sorgente di luce, ha spento l'altro sole, è divenuto fonte di offuscamento, di indebita confusione tra ordini di cose l'uno all'altro irriducibili (è giunta la spada col pasturale), in dispregio alle leggi stabilite da Dio, alla' logica intrinseca delle cose. Dopo aver collocato in un passato lontano e indeterminato, in una età felice della quale sembra quasi essersi perduta la memoria, in un clima di mito (soleva Roma...) il tempo in cui due soli illuminarono concordi il cammino dell'umanità, la parola di Marco Lombardo si fa aspra, tradisce un profondo affanno, un orrore sbigottito per l'innaturale accoppiamento di spada e pasturale, insiste dolorosamente sull'idea di questa mostruosa congiunzione (è giunta la spada... però che, giunti... ). Nella regione che l'Adige e il Po bagnano, si era soliti incontrare valore militare e liberalità, prima che Federico II avesse contrasti con la Chiesa: Il valore e la cortesia sono scomparsi nell'Italia settentrionale in un momento storico preciso (prima metà del secolo XIII), che coincise con il periodo delle dure lotte tra i Comuni, sobillati dalla Chiesa, e l'imperatore Federico II, del quale essi non volevano più riconoscere l'autorità. ora invece chiunque evitasse (di passare nell'Italia settentrionale) per vergogna di parlare con le persone oneste o di avvicinarle può passare per quella regione sicuro (di non incontrarne alcuna).

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Vero è che ci sono ancora tre vecchi nei quali la generazione passata rimprovera la nuova, ma (vi si trovano tanto a disagio che) sembra loro tardare troppo l'ora in cui Dio li chiamerà a una vita migliore: Corrado da Palazzo e il valente Gherardo da Camino e Guido da Castello, che è più conosciuto col soprannome, foggiato alla francese, di leale Lombardo. Corrado III da Palazzo, nobile bresciano, fu vicario di Carlo I d'Angiò a Firenze nel 1277 e due anni dopo guidò i suoi concittadini contro Trento: infine nel 1288 fu podestà di Piacenza. Era ancora vivo nel 1300. Gherardo da Camino, la cui famiglia raccolse la signoria degli Ezzelini, fu capitano di Belluno e Feltre; poi ebbe la signoria di Treviso dal 1283 fino al 1306, anno della sua morte. Guido da Castello, ghibellino appartenente a uno dei tre rami della famiglia dei Roberti di Reggio Emilia, nato nel 1235, viveva ancora nel 1315. Cacciato dai Guelfi, riparò presso gli Scaligeri di Verona, dove sembra lo abbia conosciuto Dante, che nel Convivio (IV, XVI, 6) ne parla con ammirazione. Il soprannome di il semplice Lombardo prende rilievo dal fatto che per i francesi « lombardo » significava italiano astuto e avaro, dedito alla mercatura, e « semplice », nell'uso francese, era sinonimo di leale, onesto. Puoi concludere ormai che la Chiesa di Roma, confondendo in sé i due poteri, cade nel fango e insozza se stessa e il potere civile che si è assunto ». Io dissi: « O Marco mio, tu parli bene; e ora capisco perché i figli di Levi furono esclusi dall'eredità di beni materiali. Nella legislazione ebraica i Leviti, i discendenti di Levi, erano esclusi da ogni possesso di beni materiali (cfr. Numeri XVIII, 20-24; Giosuè XIII, 14 e XXI, 1-22) perché essi costituivano la classe sacerdotale. Ma chi è quel Gherardo che tu dici essere rimasto come un esempio della generazione passata, quasi vivente rimprovero del vizioso tempo presente? » Mi rispose: « O io m'inganno nell'interpretare le tue parole, o esse mi tentano (per farmi ancora parlare), perché, pur parlando toscano, pare che tu non sappia nulla riguardo all'eccellente Gherardo. II nome di Gherardo da Camino doveva essere molto conosciuto in Toscana, perché aveva dato il suo appoggio a Corso Donati nelle lotte contro i Bianchi. Io non saprei indicarlo con altra denominazione se non con quella desunta da sua figlia Gaia (cioè dall'essere egli il padre di Gaia). Dio vi accompagni, perché non posso venire oltre con voi. Di Gaia sappiamo soltanto che andò sposa a Tolberto da Camino e morì nel 1311. Secondo alcuni commentatori fu assai nota per la sua onestà e le sue virtù e Dante la ricorderebbe per sottolineare ancora di più la fama del padre, secondo altri per la sua bellezza e i suoi vizi e in tal caso Dante

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metterebbe ancora una volta in luce la corruzione delle corti dell'Italia settentrionale e la degenerazione dei figli nei confronti dei padri. Questa seconda interpretazione, inserendosi più facilmente nel discorso polemico di Marco, è la più accettabile. Vedi come la luce del giorno che traspare attraverso il fumo incomincia a biancheggiare, e io devo tornare indietro - là c'è l'angelo - prima che gli compaia davanti». Così detto si volse, e non volle più ascoltarmi.

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