Dante e l'Abbazia di San Godenzo - accademiasalute.eu · libro “L’esoterismo di Dante”,...

9
Dante e l’Abbazia di San Godenzo A pochi chilometri da Firenze, sulla strada s t a t a l e c h e d a Pontassieve conduce verso la Romagna, sorge il comune di San Godenzo, il più esteso della Val di Sieve ad un’altitudine di 404 metri sul livello del mare. Il nome del comune è strettamente legato a quello dell’omonima Abbazia benedettina fatta costruire nel 1028 dal Vescovo di Fiesole Jacopo il Bavaro. Un’antica tradizione vuole che sia sorta su una piccola chiesa eretta, in epoca ancora più antica, in onore di San Gaudenzio ed in seguito affidata alla Comunità dei monaci Benedettini. San Gaudenzio, eremita di origine campana, tra il V ed il VI secolo giunse in Toscana ed insieme ad altri tre compagni, Ilario, Marziano e Luciano, stabilì il suo romitorio sulle montagne dell’Alpe di San Benedetto. La tradizione racconta che il giorno della morte del sant’uomo, il popolo ed il clero stesso, per ossequiarlo, misero il suo corpo su di un carro trainato dai buoi e lo accompagnarono in un mesto e lungo corteo. Si dice che i buoi, scendendo per la mulattiera dell’Alpe, improvvisamente si arrestassero manifestando la tacita determinazione a non muoversi più da lì. Questo ostinato atteggiamento fu interpretato come un importante messaggio ed in quel luogo fu deciso di erigere la piccola chiesa, sulla quale poi, due secoli più tardi, sarebbe sorta l’attuale

Transcript of Dante e l'Abbazia di San Godenzo - accademiasalute.eu · libro “L’esoterismo di Dante”,...

! ! ! Dante e l’Abbazia di San Godenzo

A pochi chilometri da Firenze, sulla strada s t a t a l e c h e d a Pontassieve conduce verso la Romagna, sorge il comune di San Godenzo, il più esteso della Val di Sieve ad un’altitudine di 404 metri sul livello del mare.Il nome del comune è strettamente legato a quello dell’omonima

Abbazia benedettina fatta costruire nel 1028 dal Vescovo di Fiesole Jacopo il Bavaro. Un’antica tradizione vuole che sia sorta su una piccola chiesa eretta, in epoca ancora più antica, in onore di San Gaudenzio ed in seguito affidata alla Comunità dei monaci Benedettini.San Gaudenzio, eremita di origine campana, tra il V ed il VI secolo giunse in Toscana ed insieme ad altri tre compagni, Ilario, Marziano e Luciano, stabilì il suo romitorio sulle montagne dell’Alpe di San Benedetto. La tradizione racconta che il giorno della morte del sant’uomo, il popolo ed il clero stesso, per ossequiarlo, misero il suo corpo su di un carro trainato dai buoi e lo accompagnarono in un mesto e lungo corteo. Si dice che i buoi, scendendo per la mulattiera dell’Alpe, improvvisamente si arrestassero manifestando la tacita determinazione a non muoversi più da lì. Questo ostinato atteggiamento fu interpretato come un importante messaggio ed in quel luogo fu deciso di erigere la piccola chiesa, sulla quale poi, due secoli più tardi, sarebbe sorta l’attuale

Abbazia di San Godenzo. La struttura della chiesa, così come appare oggi dopo ripetuti restauri, ricorda molto, per certi aspetti, la Basilica di San Miniato al Monte, di Firenze. La struttura è tipicamente romanica, formata da tre navate con presbi ter io sopraelevato rispetto al pavimento e due rampe di scale laterali alla navata.

Anche la cripta che si apre in fondo alla Chiesa, ed alla quale si accede scendendo un gradino, ricorda fortemente la disposizione architettonica di San Miniato; a conferire ancora maggiore sacralità a quel luogo, in fondo alla piccola navata centrale della cripta, fu posto un altare in marmo intarsiato contente il corpo del Santo Patrono San Gaudenzio.In questa Abbazia si respira fortemente quest’aria fiorentina che conferisce austerità al luogo, ma che al tempo stesso vuole ricordare un evento antico che legherà indissolubilmente San Godenzo a Firenze.

Quel vasto territorio al confine con la Romagna, disteso in parte sulle pendici del monte Falterona, fu per breve tempo il luogo d’asilo politico di un grande poeta costretto all’esilio da Firenze: Dante Alighieri.Dante si trovò a passare da quei luoghi fuggendo dai soldati della Repubblica fiorentina. Firenze nel 1300 stava vivendo un periodo storico di gravi lotte intestine che la vedevano divisa tra Bianchi e Neri, le due fazioni che lottavano per l’egemonia politica ed economica della città. Dante, guelfo di parte bianca, impegnato politicamente quale membro del consiglio dei sei Priori chiamati a governare la città per reprimere

quella lotta, non volle accettare l’ingerenza di un potere politico del papa che stava facendosi sempre più opprimente. I terribili diverbi intervenuti tra lui ed il pontefice Bonifacio VIII, determinarono - il 27 gennaio 1302 - la sua condanna: l’accusa fu di “baratteria” e l’ammenda da pagare fu di 5.000 fiorini, pena salita al rogo. Così Dante, gravato dalla colpa di funzionario corrotto e “ladro del pubblico denaro”, fu costretto a fuggire e ripararsi fra quelle colline per unirsi ai Ghibellini, contrari al potere temporale del papa e agli esuli fiorentini che in San Godenzo decisero di darsi ritrovo.

Il convegno avvenne all’interno dell’Abbazia l’8 giugno 1302 e Dante vi presenziò insieme ai rappresentanti delle più illustri famiglie fiorentine quali i Torrigiani, i Cerchi, i Ricasoli ed i Pazzi uniti a quelli delle nobili famiglie aretine degli Ubaldini e dei Guidi, veri signori dell’Appennino Tosco-Emiliano e Romagnolo. L’obiettivo era di riuscire a trovare un accordo per poter rientrare a Firenze ormai dominata dai Guelfi Neri, ma l’incontro tra quelle famiglie fiorentine ed i

signori del luogo non risultò molto felice e tanto meno l’intesa da loro sottoscritta. Oltre alle difficoltà di una simile alleanza, apparve subito chiara da parte degli Ubaldini e dei Guidi, la pretesa di intervenire in aiuto di Firenze a patto di venir risarciti dei danni nel caso di cattivo esito dell’intervento armato. I piani studiati non portarono il risultato sperato e subito iniziarono nel Mugello combattimenti nei quali gli Ubaldini misero a ferro e fuoco tutta la zona, scagliandosi anche contro quei castelli che non si erano uniti alla loro causa. Dante che aveva firmato come garante, atto che testimonia quanto egli avesse assunto parte diretta nella preparazione di quell’offensiva, quando vide i primi esiti dannosi, cominciò a dubitare di quella compagnia ed a prenderne le distanze chiamandola “compagnia maledetta e scempia”. Quelle guerre mugellane sentenziarono la fine delle rivendicazioni ghibelline e Dante, profondamente deluso, lascerà

per sempre la Toscana e vagherà per diciannove anni nelle città e corti italiane dell’Italia centro-settentrionale, lontano dalla sua Firenze. Quei luoghi dell’Appennino Tosco-Romagnolo videro così l’inizio del suo triste cammino di “ghibellin fuggiasco”.La delusione e l’amarezza causata dall’odio e dalla corruzione presente nella vita politica di allora, lo porterà a maturare in lui l’idea di una motivata denuncia ed al tempo stesso del desiderio di indirizzare l’uomo verso una nuova retta via. Fu proprio in quegli anni e durante il passaggio per il crinale di quell’Appennino, che maturò probabilmente l’idea di quella che da lì a poco sarebbe diventata la sua più grande opera letteraria: la Divina

Commedia.Dalla Fortezza dello Specchio, presidio armato dei Guidi, Dante cominciò ad inoltrarsi nella foresta che costeggia il torrente di San Godenzo e da lì verso la Romagna, prima importante tappa del suo cammino. Entrò nella “selva oscura” dove la natura si presentava nel suo aspetto primitivo, popolata da uccelli rapaci, animali selvatici ed alberi dal fusto

scheletrico e dalla sagoma quasi umana. Arrivò ad attraversare quel torrente passando sul ponte del “Cicaleto”, un ponte che i nei conci centrali della volta portava impresse singolari ma significative raffigurazioni: la sagoma di un pesce, l’abbozzo di strani ed inquietanti volti ed una coppa.Provando a dare una spiegazione a quelle insolite immagini, possiamo arguire che non fu certo un caso se Dante transitò da lì. I simboli, impressi su quel ponte, sembrano adattarsi incredibilmente bene al suo animo profondamente cristiano

ed al suo temperamento deciso e “ferrigno” che non scende a compromessi pur di portare avanti un altissimo ideale .Il pesce, che tra i primi cristiani divenne il simbolo di Gesù Cristo, può assumere in quel contesto, un importante significato. In quel pesce effigiato possiamo ravvisare la coscienza sveglia del “divino poeta” che può passare indisturbato tra i “morti-viventi” - identificati in quei volti inquietanti appena delineati - al fine di realizzare l’ itinerario che conduce alla “coppa”, simbolo di antica Alleanza tra l’umano e Divino. Sembra che nella sua fuga verso la Romagna sia

stato intercettato dai soldati della Repubblica fiorentina ma che abbia eluso la loro sorveglianza. Oltrepassato il crinale del monte Falterona, monte sacro, il cui nome di origine etrusca riporta al significato di “luogo più alto”, Dante entrò in territorio romagnolo e da lì furono ancora valli e percorsi d’acqua ad accompagnarlo prima di entrare in Forlì. La sosta presso l’Abbazia benedettina di San

Benedetto in Alpe, che si trovava a breve distanza dalla cascata dell’Acqua Cheta, mosse in lui quei versi che r imarranno immortalat i nel Canto XVI dell’Inferno (94:105): “Come quel fiume c’a proprio cammino/ prima da Monte Verso, inver levante,/ della sinistra Costa d’Appennino/! che si chiama Acquacheta suso, avante/ che si divalli giù nel basso letto,/ e a Forlì quel nome è vacante/rimbomba là sovra San Benedetto/ dell’Alpe, per cadere ad una scesa/ ove dovrìa per mille esser recetto”.In quel suono forte e fragoroso del rimbombare delle acque che scorrono turbolente per scrosciare in una cascata, Dante ravviserà il rumore assordante dell’infernale Flegetonte o “fiume di fuoco”, uno dei fiumi che scorrono nell’Ade, il regno dei morti della mitologia greca.

Anche Virgilio lo citò nell’Eneide e venne descritto come il corso d ’ a c q u a i m p e t u o s o e fiammeggiante che Enea incontrò nel suo ingresso agli Inferi.Quella zona dell’Appennino carica di storia, di antichi insediamenti etruschi e romani, diventò per Dante l’ambiente doloroso dal quale attingere idee e sentimenti per il suo capolavoro.René Guenon, scrittore e studioso di Dottrina Ermetica, evidenzia nel suo libro “L’esoterismo di Dante”, l’appartenenza del “sommo poeta” all’Ordine Templare ricordando l’esistenza di una medaglia, conservata al museo di Vienna, con impressa al centro l’immagine di Dante ed attorno le lettere F.S.K.I.P.F.T. (Fraternitas Sacrae Kadosh Imperialis Principatus Frater

Templarius). Il termine “Kadosh”, che in ebraico vuol dire “sacro”, “consacrato”, aggiunge maggiore solennità alla sua nomina.A quell’OrdineTemplare, apparentemente distrutto da Filippo il Bello, ma che grandi intelletti innamorati della Sapienza come i Rosacroce ed i Martinisti seppero riprendere

con grande vigore, appartenne dunque anche Dante Alighieri. Egli riuscì a velare, dietro a versi apparentemente consoni al modo di esprimersi dell’ardente cristiano, un linguaggio segreto, mistico e cabbalistico-alchemico di grande levatura."O voi che avete gl'intelletti sani/ mirate la dottrina che s'asconde/ sotto il velame delli versi strani". (Inf. IX 61)Così scriverà Dante nella Divina Commedia rispecchiando "nel suo linguaggio segreto il pensiero dei Templari, degli Alchimisti e della ve r a e s s e n z a d e l l a rivelazione cattolica." A t e s t i m o n i a n z a d e l profondo legame che lo vincolava alla Cavalleria Templare, Dante, nel

Canto XXXIII del Paradiso, verrà condotto alla perfetta visione della beatitudine di Dio da colui che istituì la Regola dell’Ordine: San Bernardo da Chiaravalle.Fu in quel periodo storico, che va dal 1100 al 1300, che nacquero le più belle cattedrali gotiche. I Maestri costruttori, istruiti da San Bernardo, temendo che un giorno la Tradizione orale ed i manoscritti inneggianti a quell’intimo linguaggio, sarebbero andat i d i sper s i , pensarono d i

tramandare ai posteri quell’importante messaggio ermetico, intessendolo su quelle pareti dalla incredibile verticalità, veri “libri in pietra” di Alchimia.Anche la piccola Abbazia di San Godenzo, pur essendo in s t i l e r o m a n i c o , r i p o r t a all’interno chiari esempi di un linguaggio segreto di non facile decifrazione. La balaustra in pietra con intarsi di formelle in marmo bianco, nero e verde, ci ricorda la conoscenza profonda che a l lora v i era per i l simbolismo geometrico. Quelle formelle raffiguranti cerchi, quadrati, losanghe, spirali ci riportano ad antichi significati legati alla perfezione della Creazione operata di “Colui che volse il sesto/ allo stremo del mondo, e dentro ad esso/distinse tanto occulto e manifesto”. (Par. XIX 40)

Con questi versi Dante descrive Gesù Cristo, il Divino Geometra, che con il compasso in mano crea e dà forma all’Universo; quello strumento diventa l’emblema delle Scienze esatte, quelle stesse scienze che Dante Alighieri e tanti altri letterati, medici e scienziati aderenti alla Dottrina Ermetica, non si stancarono mai di riaffermare.

Una lapide in pietra che, nel VII centenario della nascita di D a n t e f u p o s t a v i c i n o all’Abbazia, testimonia il luogo dove il poeta sostò in esilio e “convenne” con gli esuli. Un’altra targa in marmo bianco affissa sui muri absidali, all’interno della Chiesa, ricorda il momento storico in cui Dante si trovò a firmare contro coloro che così indegnamente gli avevano tolto la Patria.Nella parte alta dell’abside si erge il grande mosaico, eseguito tra il 1921 e il

1929, che caratterizza e dà solennità a quella piccola Chiesa. Al centro del mosaico appare una grande m a n d o r l a d o r a t a c h e i m m o r t a l a l’Incoronazione della Vergine Maria ad opera del Figlio di Dio, mentre in alto una bianca colomba, simbolo dello Spirito Santo, scende a benedire quell’unione; ai lati ed in basso una schiera d’angeli ed un gran numero di santi fanno da corona a quella mistica raffigurazione.Tra quei santi, ai piedi del trono, chinato in segno di amore ed umiltà incondizionata, è ben riconoscibile Dante Alighieri con in dosso lo stesso l’abito rosso e bianco con cui Giotto lo dipinse nell’affresco della Cappella del Bargello a Firenze, chiaro r i ch i a m o a l

vessillo templare; dal lato opposto San Bernardo, inginocchiato anche lui davanti a tanta magnificenza e tra loro due angeli che suonano le trombe in segno di fama incondizionata e gloria eterna. L’eroico ribelle che non aveva mai voluto sottostare al potere temporale della Chiesa di allora, non può che chinarsi davanti alla grandezza di Colui che dall’alto ordina le cose del Creato.

“Amor che move il sole e le altre stelle” saranno i versi con i quali Dante concluderà l’ultimo Canto del Paradiso e la sua Commedia, un Amore che ha il potere di muovere tutto il creato e che Dante riconosce nell’operato del Divino Geometra, l’Unico davanti al quale sente il dovere di inginocchiarsi.

" " " “Incoronazione della Vergine Maria”! ! ! Mosaico dantesco! ! ! Abbazia di San Godenzo