Dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana

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Marco Martini Marco Martini Marco Martini Marco Martini Dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana EDIZIONI ISSUU.COM

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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio, 14, 80132, Napoli, Anno Accademico 2003/04 - Seminario di STORIA. Relatore: Prof. Claudio Pavone (Università degli Studi di Pisa). N° 5 (cinque) giornate di studio: da lunedì 13 a venerdì 17 ottobre 2003. Corso di aggiornamento per insegnanti svolto congiuntamente all’Università. Ente con personalità giuridica riconosciuta dal Ministero (cfr. G.U. n° 203 del 31/8/1991) e dallo stesso accreditato per la Formazione del personale - Tema e programma del Seminario: “DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA” 1. Il problema della Costituente fra la fine del secolo XVIII e la prima metà del secolo XIX. 2. Lo Statuto albertino: genesi e testo. 3. Lo Statuto albertino nell’Italia liberale e nel regime fascista. 4. La Costituente: la formazione, le forze politiche, le correnti di pensiero. 5. La Costituzione: il testo, l’applicazione. Cenni al problema della revisione.

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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio, 14, 80132, Napoli, Anno Accademico 2003/04 - Anno Scolastico 2003/2004. Seminario di STORIA. Relatore: Prof. Claudio Pavone (Università degli Studi di Pisa). N° 5 (cinque) giornate di studio: da lunedì 13 a venerdì 17 ottobre 2003. Corso di aggiornamento per insegnanti svolto congiuntamente all’Università. Ente con personalità giuridica riconosciuta dal Ministero (cfr. G.U. n° 203 del 31/8/1991) e dallo stesso accreditato per la Formazione del personale della Scuola, ai sensi della D.M. 177/2000. Relazione di Marco Martini.

Tema e programma del Seminario: “DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA”

1. Il problema della Costituente fra la fine del secolo XVIII e la prima metà del secolo XIX. 2. Lo Statuto albertino: genesi e testo. 3. Lo Statuto albertino nell’Italia liberale e nel regime fascista. 4. La Costituente: la formazione, le forze politiche, le correnti di pensiero. 5. La Costituzione: il testo, l’applicazione. Cenni al problema della revisione. Fondamentale bibliografia relativa al Corso: - R. Colapietra, Dai Comitati di liberazione all’Assemblea Costituente, ed. “La Città del Sole”, Napoli, 1998, Serie “Materiali per la Scuola”; - G. Spini, Le origini del Risorgimento. La Resistenza. Due lezioni di storia, ed. La Città del Sole, Napoli, 1996, ed. La Città del Sole, Serie “Materiali per la Scuola”; - G. Dossetti, I valori della Costituzione. Principi da custodire - Istituti da riformare, ed. La Città del Sole, Napoli, 2003, Serie “Progetto per una didattica dei contenuti”; - G. Ambrosini, Costituzione Italiana con , in appendice Statuto Fondamentale del Regno di Sardegna (1848); Costituzione della Repubblica Romana (1849); Decreto Legge Luogotenenziale (1944); Decreto Legislativo Luotenenziale (1946); Progetto di Costituzione (1947), Einaudi, Torino, 1975. Presentazione. Claudio Pavone ( n. 1920), professore ordinario a riposo da 11 anni di storia contemporanea all’Università di Pisa, ha pubblicato uno studio sulla Resistenza come “guerra civile” che ha segnato uno spartiacque nella storiografia risorgimentale. Ha scritto anche Lo Statuto albertino. Scritti sul fascismo, in cui affronta il problema se il fascismo è da considerarsi un regime totalitario o autoritario, ed in cui propende per la prima tesi. 1. Il problema della Costituente fra la fine del secolo XVIII e la prima metà del secolo XIX (lunedì 13/10/03). Testo base della lezione: R. Colapietra, Dai Comitati di liberazione all’Assemblea Costituente, ed. “La Città del Sole”, Napoli, 1998, Serie “Materiali per la Scuola”. Lo Statuto albertino entra in vigore nel 1848 e resta valido per 98 anni, fino al 1946, ovvero fino all’Assemblea Costituente, nonostante fosse stato ampiamente disatteso, anche se non abolito formalmente, durante la dittatura fascista. Il tema della Costituente tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento è molto ampio ed articolato, in quanto abbraccia settori compresi tra la storia civile moderna e risorgimentale e la storia del diritto costituzionale: in questo contesto è necessario tracciare un quadro della situazione sociopolitica nei vari Paesi europei tra la fine del ‘600 e il primo ‘800. La storia politica e sociale s’intreccia inevitabilmente con quella giuridico-costituzionale, delle Istituzioni, con la filosofia politica e con la storia delle dottrine politiche e sociali. L’argomento sconfina pertanto anche nella storia contemporanea e nelle scienze sociali, quali la sociologia: sono qui oggetto di studio, infatti, grandi categorie storiche e sociologiche, quali la famiglia, lo Stato, gli Stati, la nazione, le nazioni, la giustizia, la libertà individuale. Anche le scienze sociali, quali la politologia, sono coinvolte in questo dibattito: il politologo cerca di costruire un modello sulla base di un’esperienza positiva, come anche il sociologo. I giuristi pensano alla legalità di un testo, ovvero alla coerenza normativa,

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come Alessandro Pizzorusso; i politologi si pongono invece il problema di come anche le istituzioni migliori sul piano della coerenza normativa debbano essere legittimate dai destinatari, ossia dal popolo. Questo scollamento tra legalità e legittimità è caratteristico, ad esempio, della Costituzione della Repubblica di Weimer: questa fu una delle cause che favoriranno l’avvento del nazismo. Arturo Carlo Iemolo, insigne giurista e storico (autore di un saggio sul giansenismo in Italia) fu incaricato di definire la Costituente: nei popoli antichi le Costituzioni trovavano legalità e legittimità nel substrato religioso. In termini più moderni, Norberto Bobbio ha affermato che se eliminiamo la legalità normativa si cade nell’arbitrio: la Costituzione serve quindi ad evitare l’indisciplina, l’arbitrio. Nelle monarchie assolute è il re che dovrebbe garantire che non si verifichi tale scollamento, come attesta anche il filosofo inglese Thomas Hobbes nel Leviathan e nel De Cive. Il pensiero anarchico parte invece dall’idea ottimistica che “gli uomini in libertà si vogliono bene”, mentre qualsiasi forma di potere crea odio e disunione nel tessuto sociale. La visione pessimistica è invece incarnata da Hobbes, che sostiene che senza un potere assoluto si cade nel “bellum omnium contra omnes” e nell’ “homo homini lupus”, nel ferino stato di natura (non a caso il pensiero hobbesiano contribuì al rafforzamento dell’assolutismo degli Stuart, nell’Inghilterra del secondo ‘600). Nel dibattito odierno sulla nostra Costituzione alcuni estremisti di Destra sostengono che i “principi fondamentali” (art. 1/12) e la prima parte, quella relativa ai “Diritti e doveri dei cittadini” (art. 13/54) sono principi generici che possono essere abrogati o ampiamente rivisti. La Costituzione americana, vecchia di oltre duecento anni e quindi molto più antica della nostra, insiste invece su tali valori morali, quali la felicità: alle spalle c’è il panorama delle idee illuministiche, ma c’è anche Solone, il legislatore greco che sosteneva che “a fondamento di ogni Costituzione c’è la ricerca della felicità”. Tali principi influiranno sulle varie Costituzioni durante la Rivoluzione francese. Alla fine dell’antico regime, alla fine quindi del XVIII secolo, si sente la necessità di una normativa razionale: la legge discende dalla ragione. Il popolo dev’essere rappresentato: questo è il fondamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Uno dei grandi problemi a riguardo è quello del rapporto tra i rappresentanti del popolo ed il popolo stesso: questa questione è invece ignorata dall’antico regime, in cui il re, come eclatante il caso di Luigi XIV, s’appella al principio dell’origine divina del potere monarchico. Nel 1918 finiscono gli imperi austro-ungarico, ottomano e zarista, negli anni ’90 terminano grandi Stati plurinazionali quali la Yugoslavia e l’Unione Sovietica. Sorge il problema della divisione dei poteri, annunciato da Montesquieu ne L’Esprit des lois: la divisione dei poteri ha per implicita la democrazia (oggi, ad esempio, in Italia, l’indipendenza di uno di questi poteri, il giudiziario, è ampiamente compromessa dall’interferenza dell’esecutivo). Il modello inglese alla fine del Seicento diviene prototipo di democrazia nelle Costituzioni europee, ma la Bill of Rights del 1689 non è ancora propriamente una Costituzione: è “il re in Parlamento”. I coloni americani, rovesciando il carico di tè inglese nel 1773 nel porto di Boston vogliono rifiutare qualsiasi tessa senza prima essere rappresentati. Lo storico Fisher vede una continuità tra la Magna Charta Libertatum del 1215, che stabilisce i limiti del potere regio e la Bill of Rights del 1689. Tocqueville in Sulla democrazia in America sostiene che in America il legislatore è sottoposto alla Costituzione come qualsiasi altro cittadino. Nelle Costituzioni della Rivoluzione francese non si pongono limiti all’autorità del Parlamento, a differenza della Costituzione americana; per questo motivo Francois Furet, storico revisionista della Rivoluzione francese, considerò la Costituzione americana come un “ponte” tra Inghilterra e Francia, tra Dichiarazione dei Diritti e Costituzioni rivoluzionarie. La Costituzione americana, da oltre due secoli è mantenuta, con modifiche tramite emendamenti, mentre in Francia, per una serie di catastrofi (guerra civile ed esterna), durante la Rivoluzione si susseguono varie Costituzioni: la Francia rivoluzionaria è un vero e proprio “laboratorio” di modelli costituzionali.

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Il sociologo italo-argentino Nino Germani sostiene che in un regime totalitario lo Stato deve trasformare ogni cittadino in agente segreto al servizio dello Stato: questo primo elemento è assente in un regime assolutistico, accentrato, come quello di Luigi XIV, mentre è presente in regime totalitario, come quello fascista. In secondo luogo allo Stato totalitario interessa il consenso, che invece non interessa l’assolutismo. Molte sono le forme di cattura del consenso, più o meno forzato. Dal punto di vista teorico, nello Stato assoluto di tipo hobbesiano i sudditi possono rovesciare il potere assoluto, nato da un contratto tra i sudditi, il “pactum subjectionis”, quando tale potere non garantisce più neppure la vita ai sudditi, perché in tal caso verrebbe meno il motivo essenziale per cui è stato volontariamente e liberamente sottoscritto il contratto tra sudditi e potere sovrano assoluto: la tutela della vita. Nello Stato totalitario, come quello fascista, questo è inconcepibile: il potere del dittatore non può mai essere rovesciato, altrimenti verrebbe meno la dittatura, il totalitarismo appunto. L’assolutismo è una forma di governo tipica dell’età moderna, il totalitarismo è invece una categoria politica tipicamente novecentesca. 2. Lo Statuto albertino: genesi e testo (martedì 14/10/03). Lo Statuto albertino, al contrario delle Costituzioni della Rivoluzione francese e di altre Costituzioni, come la nostra, è “octroyée”, ovvero “concessa” dall’alto, dal monarca, e non è frutto di un patto tra sudditi e corona. Carlo Alberto concede lo Statuto contro la sua volontà, lo concede, come lui stesso disse “al figurino di moda”. Di fatto, violò ampiamente lo Statuto da lui concesso. L’esperienza di una “costituzionalizzazione”, in Italia era già viva dai moti del 1820-21, che avvengono 5-6 anni dopo la caduta di Napoleone. La Sicilia, sotto la protezione inglese, aveva già avuto una Costituzione nel 1812, con la “Camera dei Comuni” e la “Camera dei Pari” (“Pari” al re, è un residuo feudale della “Camera dei Lord”). L’idea di una Costituzione a sé, in Sicilia, prosegue in tutto il Risorgimento fino al 1860. Anche la Spagna si era data una Costituzione, a Cadice, poi cancellata dalla Santa Alleanza. Il 12 gennaio 1848 scoppiano i moti a Palermo, il 3 gennaio dello stesso anno si era sollevata Genova, con lo scopo di ottenere una Costituzione. Il 29 gennaio 1848 il re di Napoli promise una Costituzione, promulgata poi il 10 febbraio 1848. Lo Statuto albertino è il frutto delle richieste dei moti popolari: lo Statuto si chiamò “Statuto” e non “Costituzione” con l’idea di regolare ciò che già esisteva, e non di inserire nuovi ordinamenti. Anche il papa Pio IX concede uno Statuto negli Stati pontifici, e lo definisce appositamente “Statuto” e non “Costituzione”. Nel Regno di Sardegna lo Statuto albertino nasce quindi come una forma di “tutela” dai moti rivoluzionari. Borelli, ministro di Carlo Alberto, vide la necessità di concedere uno Statuto “in fretta” per evitare che la situazione “sfuggisse di mano”. A Milano, dopo le “cinque giornate”, Carlo Cattaneo, repubblicano federalista, insiste per ottenere una Costituzione: Carlo Alberto promette una Costituente eletta dal popolo, ma sotto la dinastia dei Savoia e solo dopo l’annessione al Regno di Sardegna. Carlo Alberto si rivolge ai suoi “amatissimi sudditi”, con un linguaggio, quindi, molto arcaico, se si pensa che durante la Rivoluzione francese, quindi mezzo secolo prima, ci si chiamava “cittadini”. Gli studiosi di diritto costituzionale concordano nel definire la Costituzione della Repubblica Romana una delle più avanzate nel Risorgimento italiano; innanzitutto fu eletta a suffragio universale, si parla di “tribuni”, riprendendo la definizione dai “tribuni della plebe” nella Roma antica. Il termine “tribuno” compare anche durante la Rivoluzione francese, con riferimento alla “virtù” repubblicana, esaltata da Robespierre. In Francia, dopo la cacciata di Carlo X, s’instaura la monarchia orleanista di Luigi Filippo d’Orleans, nel 1830: il re concesse una Carta che chiamò “Costituzione orleanista”. Sul contenuto di questa Carta ebbe forte influsso il parlamentarismo inglese della fine del ‘600. Nel 1848 in Francia si proclamano la Repubblica ed il suffragio universale: l’esperienza repubblicana ebbe però breve

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durata, solo dal febbraio all’aprile 1848. Il Presidente della Repubblica, si legge nella Costituzione repubblicana francese del 1848, deve essere eletto dal popolo. Altro modello costituzionale fu quello del Belgio, nel 1831: era molto avanzato e servì come modello per la Costituzione italiana del 1948. Il Belgio fu l’unico Paese che raggiunse l’indipendenza durante i moti europei del 1831, che non sono altro che una diretta ripercussione dei moti del 1830 in Francia. Non si vedono invece nessi con il tentativo insurrezionale comunardo parigino del 1870, durato troppo poco perché subito represso dalle truppe del generale Thiers del governo provvisorio, succeduto alla caduta di Napoleone III a Sedan. Lo Statuto albertino del 1848, da un certo punto di vista, segnò un passo avanti, sul piano delle idee liberali, anche se il re conserva tutti e tre i poteri, in quanto il re partecipava direttamente al potere legislativo, poteva non solo sanzionare, ma intervenire nel processo di formazione delle leggi. Il re era capo dell’esecutivo, nominava tutti i ministri ed i giudici erano nominati dal ministro di giustizia: si nota il forte influsso che la corona aveva sul potere giudiziario. Il re poteva anche prorogare le funzioni della Camera, se il percorso legislativo non proseguiva secondo le sue direttive. Tutto questo era basato su un suffragio censitario ristrettissimo. Sono evidenti le notevoli differenze tra il potere del re e quello del Presidente della Repubblica oggi in Italia. Altra questione è quella del bicameralismo. Il bicameralismo americano ha un suo senso: il Senato è composto da rappresentanti dei singoli Stati, mentre il bicameralismo italiano ed inglese è di origine feudale: la “Camera dei Lord”, in Inghilterra era la “Camera dei Pari”, ovvero dei nobili, “Pari al Re”. Secondo l’art. 33 dello Statuto, il re poteva nominare alcuni senatori, scelti tra alcune categorie: si consideri che il numero dei senatori non era definito e poteva essere illimitato. Le categorie era l’alto clero, gli alti militari, i grandi banchieri e funzionari, uomini di fiducia personale (vale a dire gli amici del re), le persone che pagavano da 3 anni 3000 lire all’anno di imposte (cioè i sudditi più ricchi). Tra gli articoli più “illuminati” vi è l’art. 22, in base al quale il re deve giurare fedeltà allo Statuto; si nota ivi un certo influsso della Bill of Rights del 1689. L’art. 26 garantiva la libertà individuale, l’art. 28 garantiva la libertà di stampa, anche se “una legge ne proibiva gli abusi”. Tra gli articoli più oscuri vi è l’art. 1, che dichiarava la religione cattolica come “unica religione dello Stato”: ciò fomentò le polemiche di tutti i liberali e dei protestanti. Tale idea di “Stato confessionale” penetrò nei “Patti Lateranensi” dell’11 febbraio 1929. Le altre religioni, si legge sempre nell’art. 1, sono “tollerate”. Nell’art. 28, altro punto poco luminoso dello Statuto, si precisava che le Bibbie ed i catechismi, per essere pubblicati, necessitavano dell’imprimatur del vescovo. L’art. 32 sanciva invece la libertà di “adunarsi pacificamente e senz’armi”: è questo un principio che sarà ampiamente tramandato. Ma tale adunanza è resa lecita solo in luoghi privati: in luoghi pubblici la polizia poteva intervenire e disperdere i convenuti. Nell’art. 45 si stabiliva l’immunità parlamentare tranne nel caso di “flagrante delitto”. Gli stessi deputati eletti dal popolo, anche se la base, come si è visto, era limitatissima, vengono chiamati “sudditi del re”. L’art. 41 afferma che i deputati “rappresentano la Nazione, e non solo le province in cui vengono eletti”: è questo senz’altro uno degli articoli più luminosi, il cui valore è ancora oggi presente nella Costituzione della Repubblica italiana. 3. Lo Statuto albertino nell’Italia liberale e nel regime fascista (mercoledì 15/10/03). Il problema della rappresentanza, presente nell’art. 41, risale al Medioevo: nelle corporazioni medievali un’associazione di mestiere, un ‘ “arte”, rappresenta solo chi lo ha eletto, e non tutta la base elettorale. Questo si verifica anche negli Stati Generali prima della Rivoluzione francese, come, ad esempio, quando furono convocati in Francia da Filippo IV il Bello, nei primissimi anni del Trecento, per arrestare il papa Bonifacio VIII ad Anagni (il cosiddetto “schiaffo di Anagni”).

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Lo storico inglese Edmund Burke, pure avversario della Rivoluzione francese, dichiarerà invece, per quanto lo riguardava personalmente, una volta eletto alla Camera dei Comuni, di voler rappresentare tutta la nazione inglese, e non solo chi lo ha eletto. Max Weber, noto sociologo tedesco, in Economia e società sostiene un concetto piuttosto astratto di rappresentanza: se un eletto compie azioni confacenti ai suoi elettori, allora significa che il deputato rappresenta chi lo ha votato. Dal 1848 fino agli anni immediatamente successivi al 1918 non ci sono più Costituzioni: il problema di elaborare nuove Costituzioni ritorna con il crollo degli Imperi Centrali e la nascita di nuovi Stati, alla fine della “Grande Guerra”. Lo Statuto albertino, come si è detto, resta in vigore 98 anni, dal 1848 al 1946: questo periodo si può articolare in due fasi ben distinte, quella dell’Italia liberale e quella dell’Italia fascista. Fin dai tempi di Cavour, ossia dai primi anni ’50 dell’Ottocento, s’instaura l’idea che un governo cade non per volontà del re, ma per sfiducia della maggioranza parlamentare: tale evoluzione dello Statuto in senso parlamentare è conservata anche sia durante i regimi della Destra (1861-76) che della Sinistra Storica (1876-87). L’ultimo governo della Destra Storica, ossia il secondo ministero Minghetti, cade per sfiducia parlamentare, anche se il re mantiene una forte influenza; questo si verifica anche con il Patto di Londra del 26 aprile 1915, in cui l’Italia entra in guerra a fianco della Triplice Intesa per volontà del re e del primo ministro Salandra e non per decisione del Parlamento, che si era, nella quasi totalità delle sue componenti (cattolici, socialisti e liberali giolittiani), dichiarata per il non intervento; la dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915 fu infatti da molti storici considerata come un “colpo di Stato”. Dal 1848 al 1861 lo Statuto albertino è lo Statuto del Regno di Sardegna (si chiamava infatti “Statuto fondamentale del Regno di Sardegna”), e dal 1861 al 1946 è lo Statuto del Regno d’Italia, che si presenta come continuazione del Regno di Sardegna, anche sul piano formale, e non solo sostanziale: il Regno d’Italia, ad esempio, nasce “per Grazia di Dio e Volontà della Nazione”, e questo suona proprio come un compromesso tra la volontà divina e la volontà popolare, per accontentare i patrioti del Risorgimento. L’annessione al Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II avviene mediante plebisciti, ovvero consultazioni popolari, e questo conserva il principio della “Volontà della Nazione”, presente nell’Italia liberale-cavouriana e successiva a Cavour (che nuore il 6 giugno 1861), fino a Crispi ed a Giolitti (1903-14). I plebisciti sono a suffragio universale solo maschile: il voto alle donne fu dato in Italia solo il 1° febbraio 1945, per un decreto luogotenenziale (è un decreto regio, emanato sotto il governo Bonomi). In Francia il voto alle donne era stato concesso prima, e precisamente nell’aprile 1944, nell’ Algeria francese, sotto la dominazione nazista. Durante l’Assemblea Costituente (1946-48) Alcide De Gasperi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti decisero che il voto alle donne sarebbe stato confermato nella futura Costituzione repubblicana (entrata in vigore il 1° gennaio 1948). Tuttavia solo la minoranza della popolazione vota nei plebisciti, mediamente il 25% o 30% degli aventi diritto al voto, e questo perché il problema dell’unificazione nazionale non era avvertito come primario dalla popolazione, a differenza di quanto utopisticamente aveva pensato Mazzini. I problemi dell’Italia post-unitaria sono altri, relativi alla disoccupazione, ai salari, all’assistenza sanitaria e sindacale, alla sussistenza quindi: sono problemi economico-sociali e non giuridico-costituzionali. Negli anni immediatamente successivi al 1861 il 78% della popolazione è analfabeta. Giolitti, quando concesse il suffragio universale, anche se solo maschile, nel 1912, ammise al voto anche gli analfabeti. Dal 1918, per essere eletti, bisognava essere alfabetizzati e maggiorenni (25 anni di età). Nel 1882 la Sinistra Storica con Agostino Depretis aveva concesso un suffragio universale, ma bisognava essere alfabeti ed avere almeno 30 anni di età. Nel 1947 il Senato, di nomina regia, viene ufficialmente sciolto, perché dal 2 giugno 1946 l’Italia è una repubblica. La Costituzione della Repubblica di Weimer del 1918 fu molto importante in Europa, e fu assunta come modello anche dalla Costituzione repubblicana: aveva introdotto i diritti sociali, ma aveva un carattere solo apparentemente socialdemocratico, perché in realtà manteneva le

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vecchie istanze burocratiche e repressive che non riuscirono a fermare l’avvento del nazismo. Aveva profonde contraddizioni interne, come dimostrato dalla repressione del movimento degli spartachisti di Rosa Luxemburg e Karl Liebcknecht. Dal 1922 al 1925 il fascismo non è ancora un regime totalitario, esistono ancora i partiti. Il 21 aprile 1925 il filosofo Giovanni Gentile pubblica il “Manifesto degli intellettuali fascisti”. Il 21 aprile era la data della fondazione di Roma, 21 aprile 753 a. C., ed aveva quindi un forte significato mitico, quello della convergenza tra la classicità romana imperiale ed il fascismo; non a caso durante la dittatura fascista il 21 aprile era festa a scuola e sostituiva il 1° maggio, data di chiara matrice popolare e socialista, che fu abolita dal calendario delle festività. Il filosofo Benedetto Croce risponde a Gentile con il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” e si rompe l’amicizia tra i due filosofi, proprio perché Croce, liberale, aveva manifestato la propria insofferenza verso l’imminente regime, e così termina anche la collaborazione alla rivista “La Critica”. Gentile è nominato ministro della Pubblica Istruzione dopo il rifiuto di Croce a ricoprire tale incarico. Il 24 dicembre 1925 si promulgano le “Leggi Fascistissime”, in cui aumentano a dismisura i poteri del “primo ministro”, espressione di derivazione parlamentare inglese, presto sostituita con “Capo del Governo” prima e “DUCE” in seguito, scritto tutto maiuscolo (era reato scrivere “duce” o “Duce”, con caratteri minuscoli o con la sola iniziale maiuscola). Nel gennaio 1926 il ministro Rocco stabilisce la legittima interferenza del potere esecutivo in quello giudiziario, con evidente violazione del principio montesquieuiano della tripartizione dei poteri; il ministro Rocco promulgherà poi il Codice Penale o “Codice Rocco”, in parte ancora oggi in vigore. Successivamente il Parlamento viene imbavagliato: lo Statuto viene sempre più disatteso. Nel 1923 la Legge Acerbo dava la maggioranza dei seggi al partito di maggioranza relativa: la protesta del deputato socialista Giacomo Matteotti fu, com’è noto, sopita nel sangue. In seguito si arrivò alle “elezioni truffa”, in cui si chiede agli elettori, dietro minaccia, di approvare o no la lista dei nominativi scelti dal governo come parlamentari. Nel 1928 fu emanata un’altra legge sul “Gran Consiglio del Fascismo”: un organo di partito fu trasformato in un organo di Stato, con forte violazione dello Statuto; è l’origine del “Partito-Stato”, ovvero dell’identificazione dello Stato con un solo partito politico, concetto introdotto da Lenin e rafforzato da Stalin nell’Unione Sovietica. Il Gran Consiglio doveva dare il suo parere sulla successione alla Corona: questa divenne una potente arma di ricatto usata da Mussolini nei confronti del re e del figlio Umberto. Tale processo di delegittimazione fu coronato dall’abolizione del Parlamento, che fu coronata con l’istituzione della “Camera dei Fasci e delle Corporazioni”. Le Corporazioni, di fatto, erano organi burocratici nominati dal governo per impedire qualsiasi rappresentanza sindacale. Nel frattempo vengono abolite tutte le autorità locali: il sindaco, ad esempio, viene sostituito con il podestà, nominato dalle alte sfere del regime. Il Congresso di Verona, svoltosi nella Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Salò alla fine del 1943, lanciò l’idea di dare, alla fine della guerra, una Costituente, ma questo, per fortuna, non si verificò per la caduta definitiva del regime fascista. 4. La Costituente: la formazione, le forze politiche, le correnti di pensiero (giovedì 16/10/03). Testo base della lezione: G. Spini, Le origini del Risorgimento. La Resistenza. Due lezioni di storia, ed. La Città del Sole, Napoli, 1996, Serie “Materiali per la Scuola”. Ferruccio Parri, uno dei capi della Resistenza, sostenne, in contrasto con Benedetto Croce, che l’Italia prefascista non era mai stata una democrazia. Gaetano Salvemini, storico socialista, scrisse un lungo saggio, dal titolo Fu l’Italia prefascista una vera democrazia?, pubblicato sulla rivista “Il Ponte”, attiva ancora oggi, in cui, polemizzando con Croce, negò la presenza di elementi democratici nell’Italia prefascista. In linea di massima si può asserire che la Costituzione sia nata dalla Resistenza antifascista, anche se è presente uno “scarto”, nel senso che non tutto il movimento della Resistenza “è passato” nella Costituzione, come è anche vero che nella Costituzione si trovano elementi assenti nella resistenza, un movimento che in Italia non ebbe un’organizzazione sempre precisa, anche perché molti esponenti della Resistenza erano giovani e non erano in grado di elaborare programmi a lunga

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scadenza, elemento che è invece importante in un testo costituzionale. La Resistenza francese, ad esempio, era molto meglio organizzata di quella italiana. Hans Kelsen e Karl Smith furono due esperti di diritto costituzionale che avevano alle spalle un passato nella Resistenza, oltre che una formazione culturale. Un’idea della Costituzione che circolava anche nella Resistenza era quella dell’antitesi allo “Stato accentrato”, tipico del fascismo; durante la Resistenza, ad esempio, si organizzavano forme di indipendenza e desideri di autonomia: sono le cosiddette “repubbliche partigiane” di cui si parlò nel Congresso di Chivasso, presso Torino. Il modello di Stato accentrato, tipico delle monarchie assolute del Re Sole, di Napoleone I e del Regno di Napoli tra il 1815 ed il 1861, era penetrato nell’Italia fascista. Nella Costituzione si prevedono invece cinque regioni “a Statuto Speciale”, nelle lotte regionali separatiste si distingue quella siciliana del bandito Giuliano: in tutti questi tentativi si manifestano segni palesi di avversità allo Stato accentrato e si riscontrano invece elementi di continuità tra la Costituzione e la Resistenza. Il 25 luglio 1943 Dino Grandi ed altri membri del Gran Consiglio del Fascismo si illusero i poter costituire, in pieno accordo con il generale Badoglio e con il re, un “fascismo senza Mussolini”, una dittatura in una qualche misura “più morbida”. Il tentativo di Grandi è quello di salvare una parte del fascismo, ma innanzitutto è quello di salvare sé stesso: fu un tentativo fallimentare perché né Grandi, né il re si erano resi conto che la popolazione non avrebbe più tollerato alcuna forma di fascismo e fu proprio questo uno dei motivi fondamentali della caduta della monarchia. Nell’aprile 1943 si assiste alla “svolta di Salerno”, in cui si elaborò una “Costituzione provvisoria” che prevedeva un’assemblea pluripartitica. Dopo la firma dell’armistizio di Badoglio con gli Alleati, dopo l’ 8 settembre 1943, il Paese è letteralmente allo sbando: le responsabilità del re furono pagate dalla monarchia con il referendum del 2 giugno 1946 in cui la monarchia fu sconfitta dalla repubblica, sia pure per non molti voti. In occasione del referendum la Democrazia Cristiana si schierò ufficialmente per la repubblica, ma lasciò libertà di voto agli elettori, con la speranza, che poi si realizzò, che per la D. C. votassero sia monarchici che repubblicani. La Sinistra socialcomunista si schierò invece apertamente per la repubblica. Si decise inizialmente che la Costituente avrebbe avuto il solo compito di redigere il futuro testo costituzionale, con il divieto di esercitare legislazione ordinaria di governo, ma di fatto l’Assemblea Costituente esercitò anche attività ordinaria di governo. L’Assemblea Costituente vota la Costituzione, che entra in vigore il 1° gennaio 1948: la Costituente era formata dai sei partiti democratici antifascisti dell’ “Arco Costituzionale”, ovvero Comunisti, Socialisti, Socialdemocratici, Partito Popolare, Repubblicani e Liberali, tutte forze politiche che avevano combattuto il fascismo, ed anche in questo senso si può quindi dire che la Costituzione è figlia della Resistenza e che l’antifascismo è l’unica “religione civile” degli Italiani. Nel Risorgimento il partito più importante era stato quello liberale, di centro, non quello repubblicano, più a sinistra. Nell’Assemblea Costituente i dissidi tra Destra e Sinistra si risolsero con compromessi reciproci con lo scopo di autolegittimarsi: la Costituzione porta infatti le firme di De Gasperi (della D. C.), di Terracini (del P. C. I.) e di Enrico De Nicola, (di estrazione liberale), primo Capo Provvisorio dello Stato, ossia primo Presidente della Repubblica Italiana. Si diffonde l’idea, dal 1946 in avanti, tra la popolazione italiana, di vivere pacificamente, senza più spargimenti di sangue. Quest’idea degli italiani portò al “compromesso costituzionale”, eliminando però qualsiasi accezione negativa alla categoria “compromesso”, che non fu un consociativismo di bassa lega. Tale compromesso era l’unica via percorribile per evitare una precipitazione nella violenza o in una nuova dittatura, anche se le violenze si erano già manifestate dopo il 25 aprile 1945 e fino al 1948, ossia appena caduto il fascismo (furono violentemente perseguitati tutti coloro che si riteneva avessero in un qualche modo appoggiato il fascismo, ed anche tanti preti e tanti innocenti furono presi di mira). Nella Costituzione sono rappresentate tutte le componenti dell’animo degli italiani: cattolica, socialista, liberale, anche se i liberali furono considerati in modo minore rispetto al peso politico che avevano

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avuto prima della guerra ( i liberali, d’altra parte, erano una forza politica in crisi fin dai tempi dell’ultimo Giolitti). Tra i grandi liberali si ricordino Calamandrei e Croce; i grandi partiti di massa, che si fanno strada, a spese dei liberali, saranno quello democratico-cristiano, quello socialista e quello comunista, nato nel Congresso di Livorno del 1921 con Antonio Gramsci e lo stesso Umberto Terracini, firmatario del testo costituzionale. Nelle elezioni del 1948 i socialcomunisti di Togliatti si presentarono uniti con il cartello del Fronte Democratico Popolare ( F. D. P. ), ma furono sconfitti dal Centro democristiano ed estromessi dal governo. La Democrazia Cristiana si configura come il partito dei cattolici: proprio a partire dal 1948 si acutizza la polemica della Chiesa pontificia contro i comunisti, polemica che si concretizzò nella scomunica verso quegli elettori che nel segreto dell’urna esprimessero preferenze verso liste politiche considerate ufficialmente “non cristiane”. Sul piano sociale, democristiani e comunisti s’incontrarono invece su grandi personaggi cattolici, quali Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira, a lungo sindaco di Firenze; entrambi avevano alle spalle grandi pensatori cattolici francesi, come Munier ed il filosofo neotomista Maritain, autore di Umanesimo Integrale. Si ricordi che anche il pensiero liberale è tradizionalmente nemico della Chiesa, nonostante i cattolici fossero usciti dall’isolamento politico proprio grazie ad un’alleanza stipulata con il i liberali di Giovanni Giolitti, il Patto Gentiloni del 1913. Nella Costituzione si salvano anche alcune tutele sociali e del lavoro già sancite dal fascismo, quali l’ I. R. I. e l’ I. N.P. S. (Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale): in questa tutela ritroviamo elementi già presenti nella Costituzione della Repubblica di Weimer del 1918. Si può concludere affermando che la Costituzione della Repubblica Italiana nasce quindi da questo intreccio di connubi. La XII delle 18 “Disposizioni Transitorie e Finali” afferma che “E’ vietata, sotto qualsiasi forma, la ricostituzione del disciolto partito fascista”, ma proprio nel 1946 era stato costituito il Movimento Sociale Italiano ( M. S. I. ), figlio primogenito del Partito Nazionale Fascista ( P. N. F.), al quale si richiamava, anche se velatamente, nello Statuto del Partito per quanto concerne l’aspetto “sociale” del movimento. 5. La Costituzione: il testo, l’applicazione. Cenni al problema della revisione (venerdì 17/10/03). Testi base della lezione: G. Dossetti, I valori della Costituzione. Principi da custodire - Istituti da riformare, ed. La Città del Sole, Napoli, 2003, Serie “Progetto per una didattica dei contenuti”; G. Ambrosini, Costituzione Italiana con , in appendice Statuto Fondamentale del Regno di Sardegna (1848); Costituzione della Repubblica Romana (1849); Decreto Legge Luogotenenziale (1944); Decreto Legislativo Luotenenziale (1946); Progetto di Costituzione (1947), Einaudi, Torino, 1975. Il noto linguista Tullio De Mauro, ex ministro della Pubblica Istruzione dopo Luigi Berlinguer, ha dichiarato che la Costituzione repubblicana, a differenza di tante altre leggi, è scritta in una forma estremamente chiara; in Italia sono presenti altre duecentomila leggi, il che rende, di fatto, impossibile quella conoscenza, per i cittadini, che “non ammette ignoranza”. La Costituzione italiana consta di 139 articoli e 18 “Disposizioni Transitorie e Finali” ed è quindi molto più lunga dello statuto albertino, che comprendeva 81 articoli e 3 “Disposizioni Transitorie”. Una delle questioni principali della Costituzione è quella relativa al bicameralismo, dovuto ad una migliore analisi delle leggi, anche se ciò comporta un certo rallentamento dell’iter legislativo. De Gasperi avanzò la proposta che al Senato dovessero essere rappresentate le varie “associazioni di mestiere” o “corporazioni” perché il Senato della Repubblica avrebbe dovuto, in linea con un filone di pensiero cattolico-sociale, rappresentare gli interessi dei singoli gruppi: in tal modo sarebbe tornato il problema, risalente al tempo degli Stati Generali durant6e la Rivoluzione francese, del voto “per testa” o “per ordine”. Il parlamento è stato bicamerale anche durante lo Statuto albertino. La proposta De Gasperi non decollò, né decollò l’idea successiva di un “Senato delle Regioni”, problema tornato vivo anche attualmente. L’art. 49 della Costituzione sancisce il diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti, e questo non era previsto nello Statuto albertino, anche perché i

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“partiti”, nel senso moderno ed organizzato del termine, non esistevano: si parlava più di “movimenti”, come quello liberale di Giolitti o socialista riformista di Filippo Turati, anche se il P.S.I. era nato ufficialmente al Congresso di Genova già nel 1892, e rappresenta un’eccezione in questo senso; tuttavia, anche lo stesso P. S. I. manca di un’organizzazione statutaria precisa fino alle elezioni del 1904. Alla formazione della Costituzione contribuì invece la nascita dei grandi partiti, nati intono agli anni ’20, quali il liberale, il popolare, il comunista. Lo statuto albertino era a struttura “rigida”, ossia non modificabile con una legge, mentre la Costituzione non è “rigidissima”, anche se per le modifiche richiede una particolare procedura. La forma repubblicana non è invece oggetto di revisione costituzionale, come attestato dall’art. 139, l’ultimo del testo: tale revisione è possibile solo, quindi, con un colpo di Stato. Il Presidente della Repubblica può respingere una legge che appaia “palesemente anticostituzionale”, ma solo una prima volta; tornata la legge alle Camere una seconda volta, dev’essere necessariamente ratificata dal Capo dello Stato, una volta approvata dal Parlamento. Sulla necessità di stabilire, all’interno della Costituzione, alcuni principi fondamentali da non violare, abrogare, modificare, insistette fortemente il Partito d’Azione, futuro Partito Repubblicano Italiano (P. R. I.) di origine mazziniana, e quindi sensibile al problema costituzionale. La Corte Costituzionale ed il Consiglio Superiore della Magistratura ( C. S. M. )sono due nuove istituzioni costituzionali, assenti nello Statuto; l’art. 75 sancisce il diritto al referendum, anche se solo abrogativo e non propositivo; anche l’istituto giuridico del referendum è assente dallo Statuto, che tollerava però i plebisciti popolari, come si è visto, pur senza legiferarli, per questioni relative alle annessioni territoriali in vista dell’unificazione nazionale. Il ricorso al plebiscito, inventato da Napoleone Bonaparte, è stata opportuna per gli “spostamenti territoriali”, ma non può essere considerata una vera forma di consultazione popolare, innanzitutto perché i plebisciti non erano a suffragio universale, ed in secondo luogo perché il plebiscito è servito anche per il trionfo di dittatori come Hitler, che dopo l’annessione tedesca dell’Austria del 1938 emanò un plebiscito, ma “forzato” dalla presenza delle truppe armate tedesche. Un altro elemento importante, presente nella Costituzione, ma assente nello Statuto, è appunto il concetto di democrazia diretta, fondata sull’effettiva partecipazione popolare alle urne; in seno allo Statuto si poteva solo immaginare una democrazia rappresentativa, e mai diretta. Lo Statuto abolì il diritto di sciopero, che fu tollerato da Giolitti, vietato durante il fascismo, ammesso dalla Costituzione. La Corte dei Conti ed il Consiglio di Stato sono invece due istituti sanciti dalla costituzione, ma già presenti nello Statuto. Nell’applicazione della Costituzione si deve tenere sempre presente lo “scarto”, lo “scollamento” tra il testo scritto o “Costituzione formale” e l’applicazione ordinaria o “Costituzione materiale”: è ovvio che una Costituzione risenta delle modifiche economico-sociali di uno Stato, ma per questo non dev’essere stravolta; si pensi alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, antica di oltre due secoli, e quindi molto più vecchia della nostra, ma che nessuno ha mai pensato di modificare, se non con emendamenti. L’Italia, nel 1948, era ancora un Paese fortemente agricolo, mentre nel Duemila è uno Stato sostanzialmente industrializzato. Calamandrei, costituzionalista del Partito d’Azione, sostenne che certe modifiche al testo costituzionale possono essere possibili in senso “popolare” e “positivo”, e questo servì come “cavallo di battaglia” alle Sinistre. Sulla linea di Calamendrei si colloca anche Alessandro Pizzorusso. Dalla fine degli anni ’50 ai primi anni ’60 si è verificato il cosiddetto “disgelo costituzionale”, in cui si cercò di attuare il testo costituzionale mediante norme apposite: fu un momento di grande impresa, che permise di istituzionalizzare enti locali come le Regioni, fino a quel momento assenti. Segue un periodo di apatia verso la Costituzione, a sua volta seguito da una fase di contestazione: come si è detto, la Costituzione può necessitare di emendamenti, come quella degli U. S. A., ma questo non significa cancellarla o stralciarla solo perché “è vecchia”: procedere in questa operazione

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significherebbe confondere le categorie giuridiche di “Costituzione formale” e “Costituzione materiale”. E’ stato infine frainteso anche il concetto di “devolution”, ossia “devoluzione”: nel 1707 il re d’Inghilterra abolì il Regno di Scozia e la Scozia divenne una regione del Regno Unito. Seguono proteste scozzesi per l’indipendenza, la “devolution” appunto, ma la “Padania”, a differenza della Scozia, politicamente non è mai esistita, non è mai stata uno Stato, e non ha quindi senso parlare, a riguardo, di devoluzione.

Marco Martini