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L oggetta L la apr-giu 2014 S e Atene piange, Sparta non ride… Questo proverbio, derivatoemodificatodaunversodellatragedia Ari- stodemo di Vincenzo Monti, sta a significare che se ci si trova in situazione disastrata in un confronto a due, anche chi sta in contrasto con noi non si trova meglio. E ciò potrebbe rappresentarsi anche per le nostre ammini- strazioni pubbliche, siano esse enti superiori come le soprintendenze archeologiche o locali, come i Comuni, che spesso si trovano, in maniera reciprocamente miope, in disaccordo tra loro, tra tutela, conoscenza e valorizzazione di beni archeologici in territori comunali, tra mancanza di fondi e situazioni conflittuali di vario genere riguardanti competenze varie, che alla fine vedono tutti perdenti. L’Italia vanta (ma per quanto ancora?) un patrimonio natu- rale e storico eccezionale, che però raramente trova oggi la considerazione che merita da parte degli organi di Stato e che dovrebbe manifestarsi infine nella fruizione sostenibile di questi beni rari, assicurandone nel contempo la conser- vazione. I territori del Viterbese, sino a qualche decennio fa fiore all’occhiello del Lazio e oggi straziati da una insensata poli- tica di cementificazione, da discariche abusive, da deva- stanti installazioni relative alle cosiddette energie “pulite” (eolico, geotermia, fotovoltaico con oscuri legami economi- ci che di pulito hanno ben poco), celano ancora luoghi quasi immacolati. In questi casi, natura, storia e archeologia si scoprono uniti in luoghi che miracolosamente conservano strutture anti- che notevoli, quasi del tutto inedite, ignote alla maggioran- za degli studiosi e non toccate dall’inevitabile impatto trau- matico che comporta qualsiasi forma, anche rispettosa, di frequentazione umana. E’ questo il caso dell’area archeologica di Piana di San Valentino, immersa in una zona verdeggiante che domina la vallata da Montefiascone sino al Tevere. Isolata e circonda- ta da boscose alture tra le quali svetta il Monte Turello e il Monte Roccaltia con i ruderi del suo castello medievale e resti di ville romane lungo le pendici, essa conserva impor- tanti vestigia ancora tutte da studiare e approfondire. Il percorso, tra ginestre, arbusti e quercette, è segnato dap- prima da blocchi squadrati ricavati nel peperino e fram- menti di tegole e ceramica, e conduce quindi a un eccezio- nale complesso “industriale” di pestarole, strutture tipiche del Viterbese. Ma cosa è una pestarola? Scorrendo vocabolari ottocente- schi e contemporanei, risulta così denominarsi un coltello dalla Tuscia Divulgare o non divulgare? Questo è il problema L’area archeologica di San Valentino presso Soriano nel Cimino Francesca Ceci Andrea Zolla Pestarole in località San Valentino, Soriano nel Cimino (foto di Angelo Pagliari)

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Se Atene piange, Sparta non ride…Questo proverbio,derivato emodificato da un verso della tragediaAri-stodemo di Vincenzo Monti, sta a significare che seci si trova in situazione disastrata in un confronto a

due, anche chi sta in contrasto con noi non si trova meglio.E ciò potrebbe rappresentarsi anche per le nostre ammini-strazioni pubbliche, siano esse enti superiori come lesoprintendenze archeologiche o locali, come i Comuni, chespesso si trovano, in maniera reciprocamente miope, indisaccordo tra loro, tra tutela, conoscenza e valorizzazionedi beni archeologici in territori comunali, tra mancanza difondi e situazioni conflittuali di vario genere riguardanticompetenze varie, che alla fine vedono tutti perdenti.L’Italia vanta (ma per quanto ancora?) un patrimonio natu-rale e storico eccezionale, che però raramente trova oggi laconsiderazione che merita da parte degli organi di Stato eche dovrebbe manifestarsi infine nella fruizione sostenibiledi questi beni rari, assicurandone nel contempo la conser-vazione.I territori del Viterbese, sino a qualche decennio fa fioreall’occhiello del Lazio e oggi straziati da una insensata poli-tica di cementificazione, da discariche abusive, da deva-stanti installazioni relative alle cosiddette energie “pulite”(eolico, geotermia, fotovoltaico con oscuri legami economi-ci che di pulito hanno ben poco), celano ancora luoghiquasi immacolati.In questi casi, natura, storia e archeologia si scoprono unitiin luoghi che miracolosamente conservano strutture anti-che notevoli, quasi del tutto inedite, ignote alla maggioran-za degli studiosi e non toccate dall’inevitabile impatto trau-matico che comporta qualsiasi forma, anche rispettosa, difrequentazione umana.E’ questo il caso dell’area archeologica di Piana di SanValentino, immersa in una zona verdeggiante che domina lavallata da Montefiascone sino al Tevere. Isolata e circonda-ta da boscose alture tra le quali svetta il Monte Turello e ilMonte Roccaltia con i ruderi del suo castello medievale eresti di ville romane lungo le pendici, essa conserva impor-tanti vestigia ancora tutte da studiare e approfondire.Il percorso, tra ginestre, arbusti e quercette, è segnato dap-prima da blocchi squadrati ricavati nel peperino e fram-menti di tegole e ceramica, e conduce quindi a un eccezio-nale complesso “industriale” di pestarole, strutture tipichedel Viterbese.Ma cosa è una pestarola? Scorrendo vocabolari ottocente-schi e contemporanei, risulta così denominarsi un coltello

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Tuscia

Divulgare o non divulgare?Questo è il problemaL’area archeologica di San Valentino presso Soriano nel Cimino

Francesca Ceci

Andrea Zolla

Pestarole in località San Valentino, Soriano nel Cimino(foto di Angelo Pagliari)

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da carne, una sorta di mezzaluna che evidentemente pestae taglia la carne sul tagliere. In campo archeologico, invece,si intende una vasca di varia forma e dimensione ricavatanel tufo o nella pietra locale, tipo molto diffuso nell’Etruriaviterbese e anche in Toscana. In Italia meridionale tali ap-prestamenti scavati nella roccia, destinati specificatamentealla produzione del vino, vengono chiamati “palmenti”. Inaltri contesti italiani si usa il termine “calcatoria”, cherichiama la pigiatura del vino con i piedi.Singole, con canali di scolo, collegate una all’altra, di varieforme, probabilmente in alcuni casi protette da una struttu-ra in pali lignei infissi intorno e coperte da una tettoia, lepestarole erano destinate a un uso non ancora ben determi-nato ma afferente certamente a lavori stagionali o occasio-nali legati alla produzione agricolo-contadina connessaall’uso di liquidi, probabilmente vino o acqua, e forse ancheolio. Senza poi escludere altre attività che potevano preve-dere la depurazione delle argille, concia delle pelli, battitu-ra della canapa e trattamento del lino, spegnimento dellacalce e altro ancora.La cronologia di tali impianti non è precisabile, essendostati effettuati solo pochi scavi archeologici estensivi cheabbiano potuto contribuire, in base al ritrovamento dimateriale ceramico datante, a identificarne l’epoca di utiliz-zo, che quindi può estendersi dal periodo etrusco sino alMedioevo, se non oltre.Comunque sia, le pestarole di SanValentino sono veramente eccezio-nali: si tratta di decine di vaschericavate nel banco roccioso dipeperino rosso, a volte collegate adaltre vaschette di raccolta situate aun livello inferiore attraverso cana-letti. Strutture resistenti ma al con-tempo delicate, sono qui fornite dibocchette di scolo, canali di raccor-do e a volte anche di macine.Forse tale impianto poteva afferirealla chiesa altomedievale dedicata aSan Valentino, i cui ruderi si ritrova-no sulla zona sommitale della piana,chiesa poi assegnata nel 1468 daInnocenzo VIII ai Domenicani diSantaMaria in Gradi a Viterbo e suc-

cessivamente abbandonata. L’edificio religioso, completa-mente diruto ma del quale è stato possibile redigere unasommaria pianta, sembra essere a navata unica con abside,scalinata d’accesso e forse tracce di un campanile pressol’abside. D’intorno si notano resti di frammenti di sarcofagiin pietra e forse un’acquasantiera. La chiesa si avvicina nellapianta e nella decorazione a quella altomedievale di SantaCecilia presso Bomarzo, oggetto di scavo negli anni ‘70 delsecolo scorso e datata intorno al XII secolo d.C.Ecco, in sintesi, cosa riserva questa magnifica e interessan-tissima zona archeologica, che sino a pochi anni fa era notasolo a qualche locale, ai cacciatori e a chi vi si recava a rac-coglier legna. Oggi il comune di Soriano vuole dar giusta-mente risalto e valorizzare i luoghi notevoli del suo territo-rio, cercando di farlo in concordia con la soprintendenzacompetente e avendo instaurato un rapporto di collabora-zione con l’università della Tuscia (cattedra di archeologia

dalla

Tuscia

Gruppo archeologico Terzo Millennio

SCALA: 1:100

- Chiesa S. Valentino- Piana S. Valentino

(Piana del Sorbo)

Soriano nel Cimino (VT)N 42° 26’ 20.0’’E 12° 12’ 09.0’’

Sopra: area sommitale della piana di San Valentino, Soriano nel Cimino, con rude-ri della chiesa altomedievale dedicata a San Valentino (foto di Angelo Pagliari).Sotto: ricostruzione sommaria della pianta della stessa chiesa (di Andrea Zolla)

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e topografia medievale): dell’area sioccupa con amorosa dedizione lasezione “archeologica” dell’associa-zione Terzo Millennio, che con presen-za costante vi effettua il monitoraggio,censisce le pestarole visibili e vi effet-tua periodiche visite guidate.

La domanda che ci si pone è la seguen-te: rendendo noti e alla portata di tuttiluoghi segreti e ancora non guastatidalla presenza continua dell’uomo,inevitabilmente foriera di vandalismi edi distruzioni di habitat naturali deli-cati, si fa bene o si fa male? E’ megliofar conoscere o tener nascosti al pub-blico alcuni luoghi eccezionali (si pen-si alla ormai celebre Piramide di Bo-marzo visitata da frotte di persone chepur non volendo ne alterano il delica-to ecositema, ad esempio con le cic-che di sigaretta e resti di plastichevarie normalmente disperse nell’am-biente), dato che gli enti pubblici nonpossono, per carenza di organici efondi, provvedere a una efficace e con-tinua valorizzazione, controllo e tutela(e da cui i contrasti cui si accennava inapertura)? Vale la pena di scoprire sepoi non si può tutelare?L’area di San Valentino è ormai nota equindi in questa sede si è scelto diparlarne, ma fino a quando le suedelicate pestarole, la vegetazione, iblocchi vetusti della chiesa e dellesepolture sfuggiranno al vandalismodominante?Ai posteri l’ardua sentenza. E a noi ilcontinuo monitoraggio di una zona,delicata e preziosa, che potrà certorivelare a chi avrà la fortuna di sca-varla e studiarla una pagina impor-tante e ancora sconosciuta del nostroterritorio.

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Bibliografia:Valentino D’Arcangeli, Soriano nel Cimino nellastoria e nell’arte, Viterbo 1981, pp. 115-116Angela V. Coletti, Giuseppe Serrone, Il Santarello-La Fornacchia-Santa Lucia, Città del Vaticano1996, pp. 129-131Per le pestarole:L. Quilici, Opifici rupestri nell’Italia centrale in etàantica e medioevale, in Atti del XXX Convegno diStudi Maceratesi, Matelica 1985, Macerata 1988,pp. 41-65A. Ciacci, A. Zifferero (a cura di), Archeologiadella produzione e dei sapori. Nuovi percorsi diricerca in Etruria, Siena 2009A. Botti, D.L. Thurmond, F. La Greca, Un palmen-to ben conservato a Novi Velia ed altri palmenti nelterritorio del Cilento. Osservazioni ed ipotesi, inAnnali Storici di Principato Citra, IX, 2, 2011, pp.5-52

dalla

Tuscia

Gli etruschi erano legati allacostellazione del Cigno, maalla luce delle nuove scoper-te c’è da chiedersi: “Come

mai avevano scelto proprio quella?”.Dopo l’identificazione di un pianetasimile alla terra, il Kepler186f facenteparte della suddetta costellazione,potrebbe sorgere il dubbio che forseun sottile filo ci unisce a quel puntodel cielo stellato. Un mondo simile alnostro, abitabile ma lontano nellospazio. Eppure gli etruschi l’avevanoscelto come simbolo di una delleloro città più importanti, rappresen-tato sui loro vasi, impresso nei bron-zi o raffigurato nelle loro pitture:l’emblema che li faceva distingueredalle altre città. Ogni città-stato etru-sca ne aveva uno: Tarquinia aveva illeone, Arezzo il giglio, Vulci il drago eVeio il leopardo. Simboli che faceva-no distinguere la propria produzionedalle altre e la differenziava da quel-la degli altri popoli.Ma le affinità con la costellazionenon finiscono qui. Una mia ricercapotrebbe portare a pensare che

anche parte della loro religione fosselegata al cigno. Viene da ipotizzarlogeo localizzando degli strani cerchitrovati per caso sul fianco sud-ovestdel monte Landro.Qualche mese fa, munito di GPS hopreso i punti di riferimento di questicerchi che gli archeologi hanno clas-sificato come delle carbonare, ovve-ro piazzole dove i carbonai prepara-vano il carbone. Io ne avevo localiz-zati otto e secondo me avevano unastrana disposizione. Uno di essi erastato in parte indagato: liberato dallaterra misura circa un metro di altez-za e sei di diametro, e all’interno c’èuno strato di circa 30 centimetri dipolvere di tufo che sembra usata perlivellare il piano del muro in pietrasemicircolare. Infatti non è proprioun cerchio completo, perché in partesi appoggia al fianco del monte. (fotosopra)Ho iniziato la ricerca dal primo più inbasso. Si trova accanto ad una speciedi muro pelasgico forse di originenaturale. Sembra formato dalle lavedel vulcano soprastante, ma anch’es-

Gli Etruschi e la teoriadella costellazione del CignoTra ipotesi e fantasia, i risultati di una ricerca

articolo già pubblicato, con lievi varianti e senza immagini, in www.tusciaeventi.it il 27 maggio 2014

Marco Morucci

Uno dei cerchi di pietra (lato est, lato sud, altezza)