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Metalogicon (2005) XVIII, 2 113 Dalla teoria degli atti linguistici alla filosofia della mente. John Roger Searle critico di Russell Rocco Pititto Il percorso filosofico di John Roger Searle 1 si caratterizza, già fin dall’inizio, come un superamento dell’analisi filosofica e un proseguimento ideale della “fenomenologia linguistica” di Austin, un lavoro, quello di Austin, rimasto incompiuto a causa della scomparsa prematura del suo autore e ripreso negli anni da Strawson, Warnock, Cohen, Grice, Lakoff, 2 seguendo ognuno di loro direzioni diverse. Il “gioco linguistico”, teorizzato da Wittgenstein e la rivalutazione del “linguaggio ordinario”, operata da Austin, avevano aperto altri scenari speculativi e ponevano altri compiti, fino allora sconosciuti, alla filosofia analitica, chiamata a districarsi tra problemi metafisici, assolutamente nuovi per la tradizione inglese e di non facile soluzione. Il senso di questa sfida da raccogliere non poteva sfuggire a John Roger Searle. La ricerca di una filosofia della mente, che si sviluppa sul 1 Sul percorso filosofico di Searle si vedano: A. Burkhardt (ed.), Speech acts, meaning and intentions: critical approaches to the philosophy of J.R. Searle, W. De Gruyter, Berlin-New York 1990; E. Lepore – R. Van Gulick (edd.), John Searle and his critics, B. Blackwell, Oxford- Cambridge, Mass. 1991; F. Di Lorenzo Ajello, Mente, azione e linguaggio nel pensiero di John R. Searle, Franco Angeli, Milano 1998; P. Nerhot, La fenomenologia della filosofia analitica del linguaggio. Appunti su John Austin e John Searle, Cedam, Padova 1998; B. SMITH, John Searle, Cambridge University Press, Cambridge 2003. 2 Gli sviluppi più significativi della filosofia degli atti linguistici nei paesi anglosassoni risalgono agli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Si veda, al riguardo, l’antologia curata da M. Sbisà (Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano 1978).

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Dalla teoria degli atti linguistici alla filosofia della mente.

John Roger Searle critico di Russell

Rocco Pititto

Il percorso filosofico di John Roger Searle 1 si caratterizza, già fin dall’inizio, come un superamento dell’analisi filosofica e un proseguimento ideale della “fenomenologia linguistica” di Austin, un lavoro, quello di Austin, rimasto incompiuto a causa della scomparsa prematura del suo autore e ripreso negli anni da Strawson, Warnock, Cohen, Grice, Lakoff,2 seguendo ognuno di loro direzioni diverse. Il “gioco linguistico”, teorizzato da Wittgenstein e la rivalutazione del “linguaggio ordinario”, operata da Austin, avevano aperto altri scenari speculativi e ponevano altri compiti, fino allora sconosciuti, alla filosofia analitica, chiamata a districarsi tra problemi metafisici, assolutamente nuovi per la tradizione inglese e di non facile soluzione. Il senso di questa sfida da raccogliere non poteva sfuggire a John Roger Searle. La ricerca di una filosofia della mente, che si sviluppa sul 1 Sul percorso filosofico di Searle si vedano: A. Burkhardt (ed.), Speech acts, meaning and intentions: critical approaches to the philosophy of J.R. Searle, W. De Gruyter, Berlin-New York 1990; E. Lepore – R. Van Gulick (edd.), John Searle and his critics, B. Blackwell, Oxford- Cambridge, Mass. 1991; F. Di Lorenzo Ajello, Mente, azione e linguaggio nel pensiero di John R. Searle, Franco Angeli, Milano 1998; P. Nerhot, La fenomenologia della filosofia analitica del linguaggio. Appunti su John Austin e John Searle, Cedam, Padova 1998; B. SMITH , John Searle, Cambridge University Press, Cambridge 2003. 2 Gli sviluppi più significativi della filosofia degli atti linguistici nei paesi anglosassoni risalgono agli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Si veda, al riguardo, l’antologia curata da M. Sbisà (Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano 1978).

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solco di una teoria dell’atto linguistico come suo prolungamento e sua evoluzione, rappresenta la risposta di Searle alla sfida della filosofia analitica.

1. Gli sviluppi della filosofia di Searle

Consapevole degli esiti dell’analisi filosofica dopo Wittgenstein e dello stato di frammentarietà della filosofia di Austin e dei suoi limiti, Searle si dispone ben presto alla ricerca di soluzioni diverse, che potessero dare alla filosofia un orizzonte più largo, oltre la semplice teoria dell’atto linguistico, mettendo in dialogo la filosofia stessa con le scienze cognitive e con i nuovi saperi della mente, già emergenti in ambito psicologico e neurologico, e riportando in circolazione, dopo un periodo di relativo oscuramento, le nozioni di “coscienza”, di “intenzionalità” e di “mente”,3 diversamente ripensate rispetto a Descartes e al materialismo e senza fare alcun riferimento alla tradizione husserliana. Non esita per questo a confrontarsi con Russell a proposito della predicazione e dei nomi propri, fino a diventare un critico rigoroso delle soluzioni russelliane, sottoposte, per questo, ad una logica stringente, dalla quale Russell stesso esce definitivamente sconfitto. La critica a Russell serve a Searle per chiarire meglio il suo punto di vista e per affermare l’assoluta discontinuità rispetto alla sua matrice filosofica di provenienza.4 Il confronto, anche quello con Russell,

3 Su questo aspetto della questione si veda il breve scritto di J. R. Searle, Libertà e neurobiologia. Riflessioni sul libero arbitrio, il linguaggio e il potere politico, trad. di E. Carli eY. Oudai Celso, Bruno Mondadori, Milano 2005. 4 Nella filosofia del primo Searle confluiscono influenze diverse, non soltanto analitiche. Se importante è l’influenza di Austin, non meno importanti sono le influenze esercitate da Chomsky e da De Saussure. Leonardi ritiene che la trattazione degli atti illocutivi vada collegata sulla linea Chomsky-Fodor-Katz-Postal. Si veda P. Leonardi, Searle, la filosofia del linguaggio e la linguistica contemporanea, in J. R. Searle, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, trad. di P. Leonardi, Boringhieri, Torino 1976, p. 8 e sgg. Sulla

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si configura come una “applicazione” delle concezioni searleane ad altre concezioni. Sotto questo aspetto, Searle esplicita la sua filosofia, confrontandosi anche con Russell sul punto più decisivo della stessa filosofia di Russell, rimessa ora in discussione, perché contestata nella sua logica.

La critica a Russell è solo un momento, anche se importante, nell’evoluzione del pensiero di Searle. Altri momenti, ugualmente rilevanti, preludono ad un passaggio decisivo, che allarga l’orizzonte stesso della filosofia di Searle, fino a comprendere la realtà della mente, che «non è semplicemente un aspetto della nostra vita, ma è, in un certo senso, la nostra vita».5 Il passaggio principale, sotteso della filosofia di Searle, nel corso degli anni, è rappresentato, pertanto, da una messa in discussione della teoria dell’atto linguistico a favore di una teoria dell’azione, anche se linguisticamente intesa, sul presupposto che il parlare è, soprattutto, un agire secondo delle regole. Nell’approdare alla teoria della mente, Searle non rinuncia alla primitiva teoria dell’atto linguistico, destinata, invece, ad arricchirsi con l’analisi fenomenologica della struttura degli atti mentali e della coscienza.6

Quella proposta da Searle è una filosofia, perciò, che, senza rifiutare la prospettiva inizialmente datale da Austin, l’esplicita e l’amplia, invece, in funzione di una filosofia della mente, nella quale confluisce la filosofia del linguaggio in precedenza filosofia degli atti linguistici si veda anche M. Sbisà, Linguaggio, ragione, interazione. Per una teoria pragmatica degli atti linguistici, il Mulino, Bologna 1989. 5 J. R. Searle, La mente, trad. di C. Nizzo, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 10. Se non fosse per Cartesio, Searle sarebbe tentato di affermare che “l’essenza della mente è la coscienza”. «Abbiamo tentato, - egli dice -, di banalizzare la coscienza considerandola nient’altro che un aspetto della nostra vita; e, ovviamente, dal punto di vista biologico, non ne è che un aspetto, ma nella misura in cui si tratta delle nostre concrete esperienze di vita, la coscienza è l’essenza stessa della nostra esistenza dotata di significato» (Ivi, p. 143). 6 Su questi aspetti della questione si vedano dello stesso J. R. Searle, Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, trad. di D. Barbieri, Bompiani, Milano1985 e La riscoperta della mente, trad. di S. Ravaioli, Bollati Boringhieri, Torino 1994; Il mistero della coscienza, trad. it. di E. Carli, Raffaello Cortina, Milano 1998.

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abbozzata negli Atti linguistici. Partendo da una filosofia del linguaggio, così intesa, Searle è arrivato in questi anni all’elaborazione di una filosofia della mente. Nel portare avanti la sua proposta, il filosofo americano rifiuta l’idea dell’indipendenza del linguaggio e del pensiero rispetto ai processi mentali dell’individuo, ritenendo, invece, che la capacità che ha il linguaggio di rappresentare oggetti e fatti rientri nella capacità più generale propria della mente. Il rifiuto di Searle di considerare l’intelligenza artificiale come una seconda mente, più o meno perfetta rispetto alla prima, o un surrogato dell’attività mentale dà la misura di una filosofia, come quella di Searle, che, nel confrontarsi con le istanze e le aspettative del tempo, anche quelle più seducenti indotte dalla ricerca scientifica, non rinuncia a prendere posizione a favore della centralità dell’uomo nel mondo degli esseri viventi, una centralità che nemmeno un’intelligenza artificiale, anche la più sofisticata, può mai oscurare. Un confronto tra l’uomo e l’intelligenza artificiale non si può mai porre.

La domanda, che Searle si pone, riguarda, allora, il «come procedere nell’esame della mente» sul presupposto «che la mente sia l’attuale questione centrale della filosofia e che gli altri problemi, come la natura del linguaggio e del significato, della società e della conoscenza, siano tutti, in un modo o nell’altro, casi particolari delle proprietà più generali della mente umana».7 La mente costituisce la frontiera dell’uomo. «Noi, -afferma Searle -, non viviamo in molti – ma nemmeno in due – mondi diversi: un mondo mentale e un mondo fisico, un mondo scientifico e un mondo del senso comune. Non c’è che un unico mondo: è il mondo in cui tutti viviamo, e dobbiamo spiegare come esistiamo in quanto parte di esso».8

2. Filosofia linguistica e filosofia del linguaggio

7 J. R. Searle, La mente, cit., p. 12. 8 Ivi, p. 267.

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Dopo Austin è stato, soprattutto, John Roger Searle a ripresentare una teoria degli atti linguistici in una maniera più sistematica, collegandola ad una serie di regole, costituenti e regolanti, che ne spiegassero la genesi della loro produzione e il loro funzionamento nella vita quotidiana. Nei suoi studi ad Oxford, egli era stato influenzato, oltre che da Austin, anche da Peter Strawson (1919). Partendo dalla teoria degli atti linguistici di Austin, Searle riprende in maniera personale il suo impianto generale, sviluppandolo, però, diversamente, fino ad andare oltre Austin stesso, e assumendo esplicitamente la dicotomia saussuriana langue - parole con l’affermare che una teoria adeguata degli atti linguistici rientra nello studio della langue.

Fin dall’inizio, egli rivendica la necessità di una filosofia del linguaggio, contro una filosofia linguistica, considerando importante porre al centro della questione dell’atto linguistico l’insieme delle domande che riguardano i rapporti che le parole hanno con il mondo. È un compito questo pertinente la filosofia del linguaggio, non tanto la filosofia linguistica. «La filosofia linguistica, - egli sostiene -, si propone di risolvere determinati problemi filosofici attraverso l’osservazione dell’uso ordinario di certe parole o di altri elementi di una data lingua; la filosofia del linguaggio, invece, cerca di dare descrizioni illuminanti da un punto di vista filosofico di certe caratteristiche generali del linguaggio come riferimento, verità, significato e necessità, mentre si occupa in modo incidentale di elementi particolari di una particolare lingua».9 La filosofia del linguaggio, della quale nel corso degli anni Searle si fa portavoce, assume una sua connotazione originale, perché ancorata ad una concezione, che considera la mente come organo centrale dell’individuo, da cui si originano l’attività del pensiero e l’attività del linguaggio. La filosofia del linguaggio, che Searle rifiuta, era basata, invece, sulla dottrina del “cosiddetto esternalismo”: «l’idea che i significati delle parole e, per estensione, i contenuti della nostra mente, non

9 J. R. Searle, Atti linguistici, cit., p. 26.

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siano nella nostra testa, ma dipendano dalle relazioni causali tra ciò che è nella nostra testa e il mondo esterno».10

C’è qui una prima delimitazione della questione dell’atto linguistico, che investe la realtà del linguaggio, la ricerca linguistica e la filosofia del linguaggio. L’opzione del filosofo è per la costruzione di una filosofia, che si ponga come obiettivo la ricerca delle caratteristiche generali del linguaggio, non tanto gli elementi particolari di una data lingua. La semplice descrizione non basta, quando è necessario esplorare e chiarire le nozioni di riferimento, di verità, di significato e di necessità.

La domanda iniziale, che si pone il filosofo, verte sul rapporto che le parole hanno con il mondo. È una domanda, però, che negli Atti linguistici non trova una risposta adeguata, perché qui l’interesse precipuo di Searle è d’individuare le regole sottostanti all’attività linguistica.11 Al contrario di Austin, che tendeva a caratterizzare gli atti linguistici in termini di azione, Searle sottolinea che parlare, più che un’azione, sia un’attività sociale e, in particolare, un’attività dell’uomo, che si svolge seguendo certe regole.12 Secondo Searle, infatti, il linguaggio è fondamentalmente uno strumento di comunicazione e, come tale, è un’attività, attraverso cui gli uomini interagiscono e operano tra di loro. Accettando la lezione di Austin, secondo cui il parlare è un fare, il filosofo angloamericano ritiene che la filosofia del linguaggio è parte di una teoria dell’azione, perché, dopo tutto, «parlare è una forma di comportamento».13 Più che un fare, il parlare è, perciò, un agire. Ma, - si chiede Searle -, «Come faccio a sapere sul linguaggio quel che pretendo di sapere? Che sorta di

10 J. R. Searle, La mente, cit., p. 11. 11 Si veda J. R. Searle, Atti linguistici, cit., p. 25. 12 Si veda M. Sbisà, Linguaggio, ragione, interazione. Per una pragmatica

degli atti linguistici, cit., p. 34. Della stessa Sbisà si veda Per una pragmatica degli atti linguistici: quasi un bilancio, in F. Orletti (a cura di), Fra conversazione e discorso: l’analisi dell’interazione verbale, Carocci, Roma 1998, pp. 29-47.

13 J. R. Searle, Atti linguistici, cit., p. 41. A proposito delle “regole” è evidente l’influenza esercitata da Chomsky su Searle. Secondo Chomsky le scienze del linguaggio devono esplicitare le regole sottostanti alla competenza del parlante.

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spiegazione, o motivazione, o giustificazione potrei fornire quando sostengo che una certa sequenza di parole è una frase o che un oculista significa medico degli occhi,ecc. Come verificare tutto ciò?».14 Searle considera il parlare una lingua come una forma di comportamento, governata da regole. Apprendere e padroneggiare una lingua significa, perciò, apprendere e padroneggiare le regole, che la costituiscono. Come afferma Searle «parlare una lingua significa impegnarsi in una forma di comportamento molto complessa, governata da regole. Apprendere e padroneggiare una lingua è (tra l’altro) apprendere a padroneggiare tali regole».15 Le regole del linguaggio sono sociali, come sociale è il comportamento degli individui, anche quello strettamente linguistico.

Come atto linguistico del parlante, il linguaggio in quanto comportamento linguistico è un’attività, con la quale l’uomo tende a soddisfare determinate esigenze di tipo pragmatico, rilevanti sul piano personale e sociale. Fare, per esempio, affermazioni, regolare il comportamento degli altri impartendo ordini o dando suggerimenti, trasmettere informazioni, porre domande e rispondere, fare promesse, imprecare, pregare, benedire, ecc., non sono che attività proprie dell’uomo, rese possibili ed esplicitate dall’attività del linguaggio. Naturalmente, per realizzare gli scopi, sottesi a questa molteplicità di funzioni, gli atti linguistici devono essere formulati ed espressi in modi diversi e compiuti, secondo certe regole e certe convenzioni comuni al parlante e all’ascoltatore e, ancora, pertinenti le condizioni di enunciazione e il contenuto della frase. Come afferma Searle: «questi atti sono in genere resi possibili da certe regole per l’uso degli elementi linguistici, e lo scopo principale dello studio di questi atti è quello di formulare le regole».16

L’ipotesi di Searle «è che parlare una lingua vuol dire impegnarsi in una forma di comportamento governato da regole; o, per dirla in modo più deciso, parlare significa eseguire degli atti

14 Ivi, p. 35. 15 Ivi, p. 36. 16 Ivi, p. 40.

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secondo certe regole». Il procedimento metodologico, con riferimento a questo problema, è «di stabilire un insieme di condizioni necessarie e sufficienti e di estrarre poi da queste condizioni insiemi di regole semantiche per l’uso dei dispositivi linguistici, che contraddistinguono gli enunciati come atti di questi determinati tipi».17

Da un’analisi più accurata dei comportamenti linguistici, nella direzione proposta da Searle, non si potrà non verificare la varietà di modi e scopi del “fare” linguistico, una varietà determinata dall’articolazione delle regole sottostanti ad ogni atto linguistico.

3. Le regole del fare linguistico

Su questi due aspetti della teoria searliana del linguaggio,- le regole degli atti linguistici e i modi e gli scopi dell’agire linguistico-, si ferma l’attenzione del primo Searle. La ricerca delle regole del parlare, da una parte, e l’individuazione dei diversi modi del parlare definiscono, di fatto, l’ambito della stessa teoria, teoria che rappresenta, sotto questo aspetto, una ripresa e un prolungamento della “fenomenologia linguistica” di Austin. Rimane chiaro, però, che solo nell’atto linguistico, propriamente inteso, si dà una vera comunicazione. Un rumore qualsiasi, o un segno su un pezzo di carta possono essere esempi di comunicazione linguistica solo se «la loro produzione sia ciò che chiamo atto linguistico»,18 afferma Searle. In realtà, per comunicare non è sufficiente fare un’affermazione qualsiasi, anche se grammaticalmente corretta, ma priva di un senso e di un riferimento, né è sufficiente dire qualcosa, anche se dotata di un senso e di un riferimento, ma senza che possa essere riconosciuta dall’ascoltatore. Si comunica solo quando l’ascoltatore è consapevole che qualcuno gli sta rivolgendo una domanda o una richiesta, o che gli si sta promettendo qualcosa, e si pone in

17 Ivi, p. 47. 18 Ivi, p. 41.

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atteggiamento di ascolto nell’ottica della comprensione. In definitiva, c’è comunicazione vera quando l’ascoltatore comprenderà la frase e il suo significato, che consisterà nell’attuazione di quelle intenzioni, di cui la frase è portatrice, e se ne conoscono le regole che governano gli elementi della frase stessa.

Le regole, cui devono sottostare gli atti linguistici, sono, secondo Searle, di due tipi; da una parte bisogna fare riferimento alle regole costitutive, dall’altra alle regole regolanti. Le prime sono quelle regole indispensabili allo svolgersi di una qualsiasi attività da loro stesse costituita, come possono essere le regole che disciplinano, per esempio, una partita a scacchi, o un gioco di altro genere; esse, perciò, non solo regolano, ma creano e definiscono nuove forme di comportamento. Le seconde, invece, sono quelle che disciplinano delle forme di comportamento, già esistenti e costituite indipendentemente da esse, come possono essere le norme che regolano il comportamento degli individui nelle loro relazioni interpersonali. Come rileva Searle, «le regole regolanti regolano un’attività preesistente, la cui esistenza è logicamente indipendente dalle regole; quelle costitutive costituiscono (o anche regolano) un’attività, la cui esistenza è logicamente dipendente dalle regole».19 Secondo questo punto di vista di Searle, le regole del linguaggio sono tutte del tipo costitutive, poiché «la struttura semantica di una lingua può essere concepita come la realizzazione convenzionale di una serie di regole costitutive sottostanti e che gli atti linguistici sono atti eseguiti tipicamente, eseguendo delle espressioni in accordo con queste regole».20

La conoscenza delle regole, perciò, a proposito degli atti linguistici e alla loro comprensione, è assolutamente decisiva. Scopo principale dello studio degli atti linguistici è quello di formulare le regole di questo fare linguistico. A questo riguardo,

19 Ivi, p. 61. Secondo Searle, le regole regolanti prendono la forma di imperativi, mentre quelle costitutive prendono una forma diversa. Così se le prime hanno la forma “Fai X” o “Se Y fai X”, le seconde avranno la forma “X conta per Y nel contesto CT”. 20 Ivi, p. 65.

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bisogna distinguere, infatti, secondo Searle, quattro regole che danno luogo a quattro diversi tipi di atto linguistico, ai quali si fa sempre riferimento ogni qual volta si proferisce un qualunque enunciato. Quando un parlante enuncia una frase esegue almeno tre distinti tipi di atti linguistici: a) enuncia delle parole (morfemi, frasi); b) fa riferimento a qualcosa o a qualcuno e predica; c) afferma, domanda, ordina, promette, ecc. Questi atti sono chiamati rispettivamente: atto enunciativo, atto proposizionale, atto illocutivo, ai quali se ne aggiunge un quarto, e cioè l’atto perlocutivo, ricorrendo, in parte, alla terminologia di Austin. Nell’atto enunciativo il parlante esprime con una sequenza di parole una frase in maniera corretta e di senso compiuto. Nell’atto proposizionale il parlante fa riferimento a qualcuno o a qualcosa di cui si vuole predicare una qualità o stato o azione. Nell’atto illocutivo si fa riferimento all’azione compiuta dal parlante nell’asserire qualcosa, nel trasmettere un contenuto, nel chiedere, nell’ordinare, nel promettere qualcosa ad un ascoltatore. Nell’atto perlocutivo, infine, il riferimento è alle conseguenze o effetti che l’atto illocutivo produce sui pensieri, sulle credenze e sulle azioni degli ascoltatori.21

Di questi quattro atti, proprio gli atti proposizionali e gli atti illocutivi sono al centro dell’analisi condotta da Searle, mentre gli atti enunciativi e gli atti performativi sono ignorati.

4. Le regole dell’atto illocutivo Nella teoria dell’azione l’atto linguistico per eccellenza,

perché più completo, è certamente l’atto illocutivo, tanto è vero che «la forma grammaticale caratteristica dell’atto illocutivo è la

21 I quattro tipi dell’atto linguistico non devono comparire necessariamente tutti insieme in una stessa frase. Nell’enunciato “Mario studia” sono presenti, per fare un esempio, i quattro tipi dell’atto linguistico: l’enunciato si presenta in maniera corretta ed ha un senso compiuto (atto enunciativo); fa riferimento ad un’azione di Mario (atto proposizionale); trasmette un’informazione (atto illocutivo); influisce sugli ascoltatori per ottenere qualche risultato da loro (atto perlocutivo).

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frase completa».22 Searle analizza l’atto illocutivo attraverso l’esempio della promessa, definita davvero una “faccenda complicata”, di cui egli dà nove condizioni da cui fa derivare cinque regole per l’illocuzione. Nel compiere un’illocuzione con valore di promessa si proferisce qualcosa, si trasmette un contenuto e si provocano come conseguenze certi effetti negli interlocutori. Lo studio dell’atto illocutivo della promessa vale come paradigma per la comprensione di ogni atto illocutivo, poiché indica come si possano studiare le condizioni dell’atto linguistico e come da queste si possano ricavare le regole sottostanti.

L’analisi dell’atto illocutivo del promettere viene fatta definendo, prima di tutto, le condizioni necessarie e sufficienti perché l’atto del promettere venga eseguito con successo e senza mancanze nell’enunciazione di una data frase. Nella promessa le condizioni necessarie da soddisfare si riducono, in fondo, all’emissione di un’enunciazione di promessa da parte del parlante e alla ricezione di questa da parte dell’ascoltatore, enunciazione che, compresa rettamente dall’interlocutore, si realizza nel futuro, proprio in quanto promessa fatta dal parlante. Altre condizioni riguardano la necessità di precisare la particolarità del suo contenuto e di predicare un atto riferito al futuro, che s’intende eseguire con sincerità, secondo un certo scopo, con un impegno a favore dell’ascoltatore assunto proprio dal parlante, nel rispetto di tutte le regole semantiche della lingua in cui viene enunciato. Dalle condizioni, così individuate, Searle fa derivare una serie di regole che riguardano la predicazione di un certo atto futuro del parlante (regola del contenuto proposizionale), delle regole preparatorie, come la manifestazione di intenzioni, relative alla volontà da parte del parlante di fare qualche cosa nel normale corso degli eventi, l’enunciazione che si intende fare una certa cosa (regola di sincerità), l’assunzione dell’obbligo di fare una certa cosa (regola essenziale).23 22 J. R. Searle, Atti linguistici, cit., p. 51. 23 Ivi, pp. 95-6. Il punto debole nella teoria di Searle è la mancanza dell’Ascoltante: non basta, infatti, insistere sulla presenza di regole e sulla loro

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La domanda iniziale, posta da Searle nel primo capitolo degli Atti linguistici, relativa al modo come «le parole hanno rapporto con il mondo»,24 non trova, però, come già si è osservato, una risposta adeguata, nel corso del suo lavoro. Negli Atti linguistici, infatti, Searle lascia in sospeso una serie di problemi come le relazioni tra linguaggio e percezione, tra linguaggio e conoscenza, come pure tra linguaggio e società, problemi la cui soluzione avrebbe potuto chiarire l’assunto searliano iniziale. Searle, volendo ricercare le regole sottostanti all’attività linguistica, ha finito per dare del linguaggio l’immagine di un’attività umana, un vero e proprio comportamento, ma separata dalle altre attività.

Non erano mancati a Searle gli strumenti concettuali per una ridefinizione della questione centrale, posta all’inizio della sua speculazione. Nel corso della sua indagine, il filosofo si era trovato a considerare «il problema del significato e ad ampliare la trattazione di nozioni, come la credenza, il desiderio e soprattutto l’intenzione e l’azione intenzionale».25 Sono state proprio le nozioni di “intenzionalità” e di “coscienza”, assunte e coniugate insieme da Searle, a dare all’autore degl’Atti linguistici l’opportunità di costruire una nuova teoria, che, partendo dalla filosofia del linguaggio, gli consente di giungere, infine, ad una filosofia della mente, pronta a riconoscere la centralità del soggetto parlante nel mondo degli viventi.

5. Una filosofia della mente

osservanza, perché si abbia tra i parlanti una reale comprensione dell’atto comunicativo. «Il significato […] non nasce tanto dai proferimenti linguistici del Parlante, quanto da un’intenzione o da una collaborazione tra il Parlante e l’Ascoltante» (S. Moravia, Dal monologo alla conversazione. Immagini della comunicazione umana nel pensiero contemporaneo, in U. Curi (a cura di), La comunicazione umana, Franco Angeli, Milano 1985, p. 62). 24 J. R. Searle, Atti linguistici, cit., p. 25. 25 J. R. Searle, Mente, coscienza, cervello: un problema ontologico, in E. Carli (a cura di), Cervelli che parlano. Il dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, Mondatori, Milano 1997, p. 181.

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Proseguendo nella sua indagine, Searle ritiene, infatti, che nella concezione degli atti linguistici sia implicita una teoria dell’intenzionalità, fino ad assumere negli anni Novanta del Novecento questa teoria come centrale e facendo convergere su di essa la stessa concezione degli atti linguistici. Non è difficile associare, da questo punto di vista, l’intenzionalità alla mente, come a un suo correlato.

Dalla filosofia del linguaggio e, più in particolare, dalla filosofia degli atti linguistici, Searle giunge, così, ad indicare come sbocco finale della sua ricerca una filosofia della mente. Porre la mente al centro della filosofia significa per Searle poter dare risposte ad interrogativi che una filosofia del linguaggio di tipo tradizionale non può dare. «Il problema centrale, della mente, - afferma Searle -, è spiegare il nostro essere agenti evidentemente coscienti, attenti, liberi, razionali, parlanti, sociali e politici in un mondo che la scienza ci dice essere costituito interamente di particelle fisiche senza mente e senza significato. Chi siamo, e come ci inseriamo nel resto del mondo? Quale rapporto ha la realtà umana con il resto della realtà? Una forma particolare di tale domanda è questa: che cosa significa essere un essere umano?».26 Sono domande che esulano dalla tradizione analitica e rimandano ad una visione metafisica della realtà.

Solo un esame della mente, che si ponga al di fuori della tradizione cartesiana, è questa la conclusione di Searle, può dare una risposta a queste domande, «perché i fenomeni mentali costituiscono il ponte mediante il quale ci colleghiamo al resto del mondo».27 Il dualismo cartesiano è superato per la capacità della mente di operare un’unificazione di mondi diversi.

Non c’è dubbio, -secondo il filosofo americano -, che «la capacità degli atti linguistici di rappresentare oggetti e stati di cose del mondo è un’estensione della più biologicamente fondamentale capacità della mente (o del cervello) di porre in relazione l’organismo con il mondo, per mezzo di stati mentali come credenza e desiderio, e in particolare tramite azione e

26 J. R. Searle, La mente, cit., p. 10. 27 Ibidem.

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percezione».28 L’intenzionalità è considerata qui come una proprietà specifica ed esclusiva della mente, che si attua, non mediante il metodo fenomenologico-trascendentale della coscienza, ma attraverso l’analisi del comportamento umano verbale (gli atti linguistici) e non verbale (le azioni pratiche), nonché degli aspetti relativi alla struttura biologica del cervello. Gli stati intenzionali, d’altra parte, presentano analogie e connessioni con gli stessi atti linguistici, pur osservando che il linguaggio non possiede una “intenzionalità intrinseca”, ma soltanto una “intenzionalità derivata”.29

Ne La costruzione della realtà sociale (1995),30 Searle estende la nozione di intenzionalità, fino a parlare di un’intenzionalità sociale, irriducibile all’intenzionalità individuale. La domanda riguarda ora il modo come l’intenzionalità, tramite il linguaggio, giunga a creare la realtà istituzionale, il danaro, la proprietà, il governo e la politica. Il filosofo, a tale riguardo, ritiene che esistano dei fatti indipendentemente dall’osservatore (le montagne, i fiumi, le stelle), mentre altri (il linguaggio, la proprietà privata, il matrimonio ed altre istituzioni sociali) esistono solo in quanto dipendenti da un osservatore. Da qui la necessità di una vera e propria teoria della “coscienza”, alla quale Searle si è dedicato a partire dal 1992 con il libro La riscoperta della mente.31 La coscienza, - afferma Searle -, «è la caratteristica primaria ed essenziale della mente»,32 o, ancora, «è una proprietà biologica del cervello degli esseri umani e di alcuni altri animali determinata da processi neurobiologici: come la fotosintesi, la

28 J. R. Searle, Dell’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, trad. di D. Barbieri, Bompiani, Milano 1985, p. 7. 29 Si veda J. R. Searle, Mente, linguaggio, società; la filosofia nel mondo reale, cit., p. 36. 30 Si veda J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, trad. di A. Bosco, Edizioni di Comunità, Milano 1996. Su questi stessi concetti, Searle ritorna anche in Mente, linguaggio, società, cit., pp. 117-142. 31 Si veda J. R. Searle, La riscoperta della mente, edizione italiana a cura di S. Ravaioli, Boringhieri, Torino 1994. 32 J. R. Searle, Mente, linguaggio, società, cit., p. 44.

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digestione o la mitosi, essa è parte integrante dell’ordine biologico».33

Su questo piano, - è questa la conclusione di Searle -, la coscienza umana, come pure la sua attività, non può mai essere assimilata ad una macchina, nonostante opinioni contrarie, affermatesi in questi anni, soprattutto in ambito scientifico. Perché, dopo tutto, «la “macchina” anche più sofisticata (computer, sistema aperto, ecc.) non fa che cogliere e applicare determinate istruzioni o regole del programma ed eseguire le eventuali prestazioni corrispondenti senza capire nulla di quanto sta facendo; essa dispone soltanto di una competenza sintattica nel combinare i simboli, non di una competenza semantica, che consenta di attribuire significato a quei simboli su cui opera, che è invece quanto può fare, e fa effettivamente, l’essere umano, definito appunto per questo un “essere semantico”».34 Il «pensare, - afferma Searle -, è qualcosa di più che una semplice questione di manipolazione di simboli senza significato, e coinvolge contenuti semantici significativi»,35 mentre i significati sono contenuti cognitivi, ossia costruzioni tipicamente umane, che ci consentono tramite il linguaggio di “discorrere”, cioè di comunicare e di produrre comprensione.36 Ed è così che la vita della coscienza degli individui è determinata da una razionalità sempre in atto. 37

33 J. R. Searle, La riscoperta della mente, cit., p. 105.«La coscienza - afferma Searle - è un fenomeno straordinario e misterioso, così che si ha sempre la sensazione che il tentativo di descriverla in termini ordinari non solo sia destinato a fallire, ma in qualche modo riveli di per sé una mancanza di sensibilità. Il carattere generale della relazione della coscienza con il cervello, e dunque la soluzione generale del problema mente-corpo, non è difficile da formulare: la coscienza è causata da processi cerebrali di livello microfisico e realizzata nel cervello come proprietà di livello più alto, o sistemico. Ma la struttura nella sua complessità, e la natura esatta dei processi cerebrali coinvolti, restano in attesa di analisi» (ID., La mente, cit., p. 143). 34 J. R. Searle, Menti, cervelli e programmi. Un dibattito sull’intelligenza artificiale, edizione it. a cura di G. Tonfoni, Clup-Clued, Milano 1984, pp. 48-9. 35 J. R. Searle, Mente, cervello, intelligenza, cit., p. 28. 36 Si veda J. R. Searle, Menti, linguaggio,società, cit., pp. 152-4. 37 Si veda, su quest’aspetto della ricerca searliana, il recente Rationality in action, The Mit press, Cambridge, Mass., 2001.

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Ma il linguaggio, a sua volta, è un’attività tipicamente umana, mai formalizzabile del tutto, perché specchio del pensiero e nasce e si sviluppa come prodotto della realtà sociale, che in esso vi si riflette. 38

6. Searle e le descrizioni definite individuali: prerequisiti

Ho delineato la parabola evolutiva della filosofia di Searle al fine di mettere a fuoco l’analisi che il pensatore statunitense fa della teoria russelliana delle descrizioni definite individuali. Essa occupa un ruolo centrale nel pensiero dello studioso: si pone a mezza strada tra la teoria searliana degli atti linguistici e quella dell’intenzionalità. Bisogna inoltre aggiungere che, data la pregnanza di risvolti ontologici, logici e gnoseologici, essa non solo fa da cerniera tra le suddette due indagini del pensatore statunitense ma costituisce ad un tempo uno dei nodi vitali del suo pensiero dal momento che è intimamente collegata con la filosofia della mente e con la dimensione sociale del linguaggio, temi che caratterizzano l’ultima fase della filosofia di Searle.

L’analisi searliana della teoria di Russell presuppone un’indagine preliminare sugli atti linguistici. Il Searle distingue, come è noto, tra proposizione ed atto illocutivo. Poiché una stessa proposizione può essere comune a diversi tipi di atti illocutivi, il filosofo statunitense separa l’analisi della proposizione da quella dei vari tipi di atti illocutivi e rappresenta la forma generale degli atti illocutivi come segue

F(p)

dove «la variabile “F” assume come valori i dispositivi indicatori della forza illocutiva, e “p” assume come proposizioni le

38 Vedere al riguardo i saggi riportati in P. Di Lucia (a cura di), Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive, Quodlibet, Macerata 2003. Il volume contiene, tra gli altri, saggi di Searle (Ontologia sociale e potere politico) e altri saggi su Searle da parte di B. Celano, F. E. Oppenheim, M. Santambrogio e B. Smith.

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espressioni».39 L’Autore passa poi a simbolizzare i diversi tipi di atti illocutivi. Usa quindi

˜ ( p ) per le asserzioni

Pr (p) per le promesse

! (p) per le richieste

A (p) per gli ammonimenti

? (p) per le domande polari: (cioè per quelle domande che richiedono la sola risposta “sì” o “no”).

Questi accorgimenti tecnici consentiranno al professore della Berkeley University di colpire il tallone d’Achille della teoria russelliana. 7. Searle e le descrizioni definite individuali: il superamento della concezione russelliana

Il Searle, che si è già occupato di Russell nel 1959,40 dopo aver riconosciuto a vari autori, in particolare a Strawson41 e a Geach42 il merito di aver criticato «convincentemente e con forza» la teoria russelliana delle descrizioni, si chiede ironicamente «E allora perché riesumare la questione: non starò uccidendo un uomo morto?».43 No! il filosofo americano non è un novello Fabrizio

39 J. R. Searle, Atti linguistici, cit., p. 58. Il Searle non tralascia di notare che non tutti gli atti illocutivi si adattano a questo modello. Ad es.“Viva la Forti e Liberi!” o “Abbasso Cesare!” non sono della forma F(p) bensì della forma F(n), dove n è una variabile che può essere sostituita da espressioni di riferimento»., Ibid. 40 J. R. Searle, Russel’s Objections to Frege’s Theory of Sense and Reference, “Analysis”, (1958), 18, pp. 137-143. 41 P. F. Strawson, On Referring, “Mind”, (1950), 59, pp. 320-344. 42 P. Geach, Russell’s Theory of Descriptions, “Analysis” (1950) 10, pp. 84-92. 43 J. R. Searle, Atti linguistici, cit. p. 207.

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Maramaldo: è invece un combattente che affronta l’avversario a viso aperto quando questi è ancora vivo e vitale.

Il peccato originale di Russell consiste, a parere di Searle, nell’aver preso in considerazione soltanto le asserzioni, concentrandosi sulle nozioni di negazione e di falsità, escludendo ogni altro tipo di atto illocutivo. «Il concentrarsi sulle asserzioni – continua il filosofo statunitense – costringe gli attaccanti a combattere con armi meno efficaci tra quante ne sono a disposizione, mentre i difensori, per aver avuto la meglio in un paio di scaramucce, pensano di aver vinto».44 Il Nostro non lo dice ma si riferisce probabilmente alla vittoria russelliana delle due scaramucce concernenti l’analisi delle proposizioni “L’attuale re di Francia è calvo (the present King of France is bald)” e “L’attuale re di Francia non è calvo (the present King of France is not bald)”. 45

La teoria russelliana non è falsa, «è sbagliata» scrive il Searle senza mezze misure: essa presenta l’atto proposizionale del riferimento definito, se eseguito con descrizioni definite, come equivalente all’atto illocutivo di asserire una proposizione unicamente esistenziale. Ma un atto proposizionale «non può a nessuna condizione essere identico all’atto illocutivo dell’asserzione, perché un atto proposizionale può occorrere solo come parte di un atto illocutivo, ma mai da sé solo».46 È noto che un’affermazione della forma “F è g”, dove “F” è una “denoting phrase” e “g” è un predicato, diventa per Russell eguale per definizione all’espressione (∃x) (fx · (y)(fy →y = x) · gx). Interpretando ‘f’ come ‘è re di Francia’ e ‘g’ come ‘è calvo’ l’espressione va letta ‘Vi è almeno un x tale che x è re di Francia (esistenza), e per ogni y se y è re di Francia allora y è identico a x

44 Op. cit., pp. 207-208. 45 B. Russell, On Denoting, “Mind” (1915), 14, pp. 479-493, trad. it. Sulla denotazione, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano, 1978, pp. 179-195. Si vedano in particolare le pp. 186 e 191-192. 46 J. R. Searle, Atti linguistici, cit. pp. 208-209.

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(unicità) e x è calvo (predicazione)’. L’espressione in esame risulta falsa se non c’è un re di Francia.

Ora, l’asserzione esistenziale, se è la traduzione di una “denoting phrase” accompagnata da un predicato, deve costituire la proposizione che è il contenuto di qualsiasi atto linguistico e non del solo atto linguistico dell’asserire. «Ma» – si chiede ironicamente il Searle – «diremmo veramente che chiunque domandi “È calvo il re di Francia?” o ordini “Portate questo al re di Francia!” stia in realtà facendo una asserzione falsa, perché non c’è un re di Francia? O diremo invece altrettanto assurdamente, che chiunque domandi “È calvo il re di Francia?” stia in realtà domandando, tra l’altro, se esiste o no un re di Francia?».47

Prendiamo la domanda “È calvo il re di Francia?”. Come dobbiamo intenderla? Come “C’è una e una sola cosa che è un re di Francia. È calva questa cosa?” oppure “C’è una e una sola cosa che è re di Francia e quella cosa è calva?”. In simboli rispettivamente

1) ˜ [(∃x) (fx · (y)(fy →y = x)] · ?[gx] e 2) ?[(∃x) (fx · (y)(fy →y = x) · gx)] dove il segno “̃ ” è l’indicatore della forza illocutiva per le asserzioni, “?” è l’indicatore della forza illocutiva per le domande e le parentesi quadre delimitano il dominio dell’indicatore della forza illocutiva.

Searle ha buon gioco nel provare che entrambe le interpretazioni conducono all’assurdo.

Quanto alla seconda egli osserva che chiunque fa una domanda usando una descrizione definita non chiede se esiste il referente di questa descrizione. Le cose vanno ancora peggio per gli ordini. Chi ordina “Porta questo al re di Francia” non ordina affatto l’esistenza del re di Francia.

Quanto alla prima interpretazione, quella cioè che considera una descrizione definita come costituita da due parti – da 47 Op. cit., p. 210.

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un’asserzione e da un altro atto linguistico ma sempre relativo all’oggetto di cui si asserisce l’esistenza – lo sbocco non è diverso: essa conduce a conseguenze egualmente assurde. Infatti, se la teoria di Russell fosse corretta allora all’ordine “Porta questo alla regina d’Inghilterra” si dovrebbe rispondere “quello che dici è vero, lei esiste”. La risposta è assurda perché l’ordine non è un’asserzione, e non ne contiene alcuna.Egualmente assurdo è supporre che chi chiede “La regina d’Inghilterra conosce il re di Francia?” faccia due asserzioni, una vera ed una falsa.

«L’intero istituto del far riferimento – sottolinea con vigore il Searle – è di altro tipo dall’asserire, domandare o ordinare. Far riferimento non è al loro stesso livello, poiché rientra nell’atto illocutivo riuscito, e non è di per sé un atto illocutivo».48 Cercare di interpretare ogni atto illocutivo che comporti una descrizione definita come se contenesse un’asserzione è un’assurdità.

«Questi – continua il filosofo statunitense riferendosi ai punti 1) e 2) sopra messi a fuoco – sono gli unici due modi plausibili di applicare la teoria delle descrizioni ad ogni genere di atto illocutivo, e nessuno dei due funziona».49 Di qui la drastica conclusione dello studioso: «Di conseguenza la teoria va abbandonata».50 Searle ha ragione: non si poteva dir meglio!

48 Op. cit. loc. cit. 49 Ivi. 50 Ivi.