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Dal 1435 al 1500: il primato artistico dei pittori di Dominique Thiébaut Storia dell’arte Einaudi 1

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Dal 1435 al 1500: il primato artisticodei pittori

di Dominique Thiébaut

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Edizione di riferimento:in La pittura in Europa. La pittura francese, a cura diPierre Rosenberg, vol. I, Electa, Milano 1999

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Indice

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Lo status dei pittori nel Quattrocento 5Il frazionamento della Francia artistica 9I primi contatti con le novità fiamminghe 10Barthélemy d’Eyck ed Enguerrand Quarton:

il risveglio della pittura provenzale 13Jean Fouquet 32La Francia occidentale 48Bourges: il mecenatismo di Jacques Cœur 50Parigi verso la metà del secolo 51La Francia settentrionale 56La Borgogna 60Antoine de Lonhy: dalla Borgogna alla Savoia

attraverso la Linguadoca 65La Savoia francese: un crocevia di influenze 67La Provenza degli anni 1470-1500: un centro

sempre attivo e influente 70Gli anni 1480-1500 a Parigi e nella Francia

centrale: la rinascita dell’arte di corte 74Parigi 75Bourges e la Turenna 78Jean Hey 82Jean Perréal 85

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Con il trattato di Arras, che nel 1435 segnò la rot-tura dell’alleanza franco-borgognona e l’adesione delduca di Borgogna, Filippo il Buono, alla causa di CarloVII, e con la riconquista di Parigi (1436), sembra averfine il periodo di gravi disordini seguito al disastro diAzincourt (1415) e la fase di arresto dello sviluppo del-l’attività artistica che inevitabilmente ne conseguì. Male disastrose conseguenze di questi profondi rivolgimentinon cessarono istantaneamente di manifestarsi: ovunqueregnava l’insicurezza, le epidemie si moltiplicavano, lecampagne erano devastate... La crescita della popola-zione urbana seguiterà per un lungo periodo a rallenta-re e Parigi riacquisterà effettivamente il suo ruolo dicapitale e la sua influenza solo alla fine del secolo. Restail fatto che la restaurazione dell’autorità regia e la rico-stituzione dello Stato, operata, nonostante gli intrighidei principi di sangue, da una nuova classe politica, piùdiversificata nella sua composizione sociale, crearono lecondizioni favorevoli a una ripresa. Col ritorno dellapace e della prosperità, che iniziarono a diffondersisoprattutto dopo la tregua di Tours (1444), l’adozionedi un nuovo sistema fiscale, vantaggioso sia per l’ari-stocrazia che per i borghesi, ormai insigniti delle più altecariche, come l’argentiere Jacques Cœur, favorirono l’e-mergere di un vero e proprio mecenatismo e una rapidacrescita delle commissioni. Le stesse città, il clero, le

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confraternite religiose, le corporazioni e l’alta borghesiasi allinearono a questa tendenza. La comparsa di nuoveforme di devozione e il pieno sviluppo della religiositàindividuale suscitarono richieste specifiche e, anche a unlivello modesto, una grande fioritura di immagini dipin-te e scolpite.

Lo status dei pittori nel Quattrocento

Come nel secolo precedente – anche se questa realtànel XV secolo è più conosciuta grazie a una maggiorequantità di fonti e di testimonianze e al gran numero ealla varietà delle opere che ci sono pervenute –, sirichiese l’intervento dei pittori in molteplici campi dellavita artistica: in quello delle decorazioni murali, dei sof-fitti, dei dipinti non solo su legno, ma anche su tela(polittici composti da scomparti fissi o dotati di ante,immagini devozionali, ritratti, scene di genere), sten-dardi, blasoni, decorazioni effimere destinate a cele-brare l’ingresso nelle città di eminenti personaggi e allarappresentazione dei misteri... Spesso ai pittori venneaffidato il compito di decorare manoscritti, mentre, aquanto sembra, i miniaturisti di professione erano auto-rizzati a lavorare solo su supporti di pergamena e nonpotevano vendere i loro quadri.

La produzione di libri miniati, che si fondava suuna tradizione secolare, conobbe un rinnovato favorepresso differenti ceti sociali e solo verso la fine delXVI secolo, la diffusione della stampa e dell’incisione,oltre che dei quadri da cavalletto, segneranno il crollodefinitivo di questa attività. Anche tenendo conto delledistruzioni causate dalle guerre di religione e dalla Rivo-luzione, dei mutamenti del gusto e dei diversi generi dideterioramento che hanno colpito più i dipinti muralie i quadri che i manoscritti ben custoditi nelle biblio-

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teche, non vi è dubbio che, contrariamente a quantoaccadeva in Italia, nelle Fiandre, nel territorio dell’Im-pero e in Spagna, la miniatura in Francia prevalse deci-samente dal punto di vista quantitativo sulle altre formedi decorazione pittorica e in ogni caso sui quadri. Libe-ra dalle limitazioni imposte agli altri supporti dell’artepittorica dagli intenti celebrativi, dalla devozione e dal-l’ambientazione, essa offriva all’artista l’occasione didar libero corso alla sua immaginazione creativa; oggi,quindi, è la sola a restituirci un riflesso relativamentefedele e costante delle esperienze intraprese in un seco-lo profondamente affascinato dal mondo visibile.

Ma vi è un altro aspetto del talento dei pittori cherimane ancora più oscuro: a eccezione di alcuni rarissi-mi casi, i disegni di piccole dimensioni, e spesso persi-no i grandi cartoni, su tela o su carta, che essi forniro-no come modelli per vetrate, arazzi, ricami, oggetti d’o-reficeria, sigilli e sculture, sono andati perduti, e oggipossiamo valutare le loro capacità inventive solo attra-verso il filtro delle arti applicate. Del resto, uno deimeriti della storia dell’arte degli ultimi anni è stato quel-lo di aver saputo individuare dietro questa o quellavetrata, questo o quell’arazzo o ricamo, l’intervento dialcuni dei più grandi pittori dell’epoca.

Benché ci siano pervenuti solo pochissimi esemplaridi statuti dell’arte della pittura (tra cui segnaliamo quel-li redatti a Parigi nel 1391, a Digione nel 1466 e a Lionenel 1496), vi è ragione di credere che la maggior partedei pittori svolgessero la loro attività nella cornice di unacorporazione che stabiliva un certo numero di regoleriguardanti l’apprendistato, i requisiti necessari perintraprendere il mestiere, la scelta dei materiali e la loroutilizzazione, e che imponeva ai suoi membri obblighireligiosi e doveri civici, garantendo loro, al tempo stes-so, alcuni privilegi, in gran parte fiscali, una tutela con-tro la concorrenza esterna e un’assistenza caritativa. A

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Parigi, i pittori e gli scultori facevano parte della stessaassociazione, quella degli imagiers [fabbricanti di imma-gini] – ai primi, infatti, era tradizionalmente affidata l’e-secuzione della policromia delle statue –, mentre aDigione e a Lione, i pittori appartenevano alla stessacorporazione dei pittori e dei vetrai. La linea di demar-cazione tra questi due mestieri è, in alcuni casi, diffi-cilmente tracciabile: in Provenza, alcune famiglie di pit-tori, tra cui, ad esempio, i Dombet, i Villate, oltre a for-nire cartoni per vetrate, eseguivano le vetrate stesse, leponevano in opera e si occupavano persino delle ripara-zioni. Le regole delle corporazioni non sempre eranorigide e potevano essere adattate alle esigenze dei pit-tori stranieri, che desideravano lavorare, magari per unperiodo limitato di tempo, dietro il pagamento di uncanone e l’assolvimento di alcuni obblighi: quindi, agiudicare dal gran numero di artisti settentrionali che,a partire dalla metà del secolo, si stabilirono in Proven-za (dove sembra che l’esercizio del mestiere fosse libe-ro) e a Parigi, si può affermare che non sempre per eser-citare il mestiere era necessario essere in possesso deldiritto di cittadinanza.

Tra i pittori che intraprendevano una carriera com-merciale in una cornice corporativa, figuravano modestiartigiani che gestivano piccole botteghe, avvalendosidella collaborazione di un solo apprendista o collega, emaestri di riconosciuto talento, che occupavano una soli-da posizione sociale, tra i cui clienti figuravano conven-ti, alti funzionari, giuristi, aristocratici del luogo e l’am-ministrazione cittadina, come dimostra, ad esempio, ilcaso di Enguerrand Quarton. Alcuni dei loro colleghi piùillustri potevano ottenere prestigiose commissioni da unprincipe o da un sovrano, e i più ricercati, come, adesempio, Jean Fouquet e Jean Perréal, giunsero persinoa essere insigniti del titolo di Peintre du Roi, decidendo,tuttavia, per ragioni diverse, di seguitare a svolgere un’at-

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tività “classica” all’interno della corporazione. Alle seve-re prescrizioni di quest’ultima non erano invece sogget-ti i pittori di corte, che erano legati a un mecenate: unavolta entrati alle dipendenze di quest’ultimo, essi rice-vevano un regolare stipendio, prestazioni in natura espesso premi speciali per l’assolvimento di compiti bendeterminati; questi pittori entravano a far parte del per-sonale domestico del signore a volte col titolo di valet dechambre e di valet tranchant e spesso risiedevano nelladimora signorile: segnaliamo il caso limite di Barthélemyd’Eyck, ammesso tra gli intimi di Renato d’Angiò cheaveva fatto mettere a sua disposizione, nei suoi gabinet-ti dei castelli d’Angers e di Tarascon, “un piccolo sga-bello” per consentirgli di lavorare.

Ai pittori itineranti, la cui condizione è, per defini-zione, difficilmente precisabile, la sorte non riservava nésicurezza economica né un’invidiabile posizione sociale.Ancora una volta, tra questi nomadi, bisogna distin-guere gli artisti che le guerre, le epidemie, la mancanzadi opportunità di lavoro, spinsero a fuggire dai loropaesi natali – spesso si trattava di pittori settentrionalie borgognoni duramente provati dalle conseguenze dellaGuerra dei Cent’anni – e a tentare la fortuna in regio-ni più fortunate, e di artisti di primissimo ordine, la cuifama si era diffusa oltre i confini del loro paese: proba-bilmente fu proprio questo il caso di un pittore recen-temente riscoperto, il dotato Antoine de Lonhy, di cuiè possibile seguire le tracce dal 1446 al 1462, e forse finoal 1477, in Borgogna, a Tolosa, a Barcellona e in Pie-monte. Il crescente favore riservato dagli amatori allapittura fiamminga spinse probabilmente alcuni artistidella Francia settentrionale, che conoscevano a fondo lanuova arte di dipingere, a lasciare i loro paesi. Benchéovviamente non sia un fenomeno nuovo, la mobilitàdegli artisti è certamente una delle principali caratteri-stiche del periodo qui preso in esame.

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Il frazionamento della Francia artistica

Anche dopo la riconquista della Normandia (1450),e quella della Guienna (1453), nel XV secolo la Franciaera ancora ben lontana dal raggiungere le dimensioni diquella attuale: la Lorena, l’Alsazia, la Savoia e la Pro-venza non facevano parte del reame; solo nel 1477, conla morte di Carlo il Temerario, la Borgogna, la Piccar-dia e l’Artois, fino ad allora importanti componentidello Stato borgognone, vennero ricongiunti alla coro-na di Francia. Un altro fattore di complessità è rappre-sentato dal fatto che la realtà artistica non coincide coni dati politici: così, sulla scia degli autori che ci hannopreceduto, prenderemo in esame anche le opere esegui-te in Provenza, in Savoia e in Lorena o nei territori deiduchi di Borgogna prima della loro annessione da partedi Luigi XI, dal momento che esse rivelano uno stilespesso più soggetto all’influenza dell’arte francese che aquella delle opere italiane, spagnole, fiamminghe e tede-sche, nonostante la vicinanza con questi paesi. In com-penso, l’Alsazia e la contea di Nizza subirono soprat-tutto l’ascendente delle regioni limitrofe, e, in partico-lare, dei territori dell’Impero, del Piemonte e della Ligu-ria. Il più importante cambiamento intervenuto in que-sto periodo è rappresentato dalla molteplicità dei centriartistici: quando il re si stabilì in Turenna, Parigi persela posizione di primo piano che aveva occupato fino alregno di Carlo VI, ma rimase un importante centrocommerciale, in particolare nel campo dei libri miniati.Gli spostamenti degli uomini e delle opere e gli inces-santi scambi di influenze a questi connessi non impedi-rono la formazione di stili regionali fortemente caratte-rizzati. Benché si sia un po’ troppo insistito sulla lorospecificità e, per quanto riguarda il campo della minia-tura, sia stata data un’eccessiva importanza all’ubica-

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zione degli ateliers, abbiamo ritenuto di non doverrinunciare a presentare la pittura francese del XV seco-lo nel modo tradizionale, vale a dire prendendo in esamele singole regioni, sull’esempio della maggior parte deglistorici dell’arte fedeli a una visione stilistica. Rischian-do di frammentare ulteriormente questo panorama,abbiamo introdotto, nel caso di alcune regioni, una cesu-ra cronologica, in corrispondenza del decennio compre-so tra il 1470 e il 1480: in questo periodo, infatti, gliscambi si intensificarono fino a imporre, soprattuttonell’area compresa tra il centro della Francia, Lione eMoulins, una sorta di idioma comune; vedremo inoltregli artisti francesi appropriarsi di un’altra estetica, que-sta volta di origine italiana.

I primi contatti con le novità fiamminghe

È in una regione lontana dai centri artistici più bril-lanti del primo quarto del secolo – Parigi, Bourges eDigione –, cioè in Alvernia, a Le Puy, che troviamo laprima testimonianza di un rinnovamento dell’arte pit-torica. Qui, nel 1432, la futura santa Colette aveva fon-dato un convento di Clarisse da cui proviene un mira-bile quadro su tela che rappresenta una Sacra Famigliaaccanto a un camino (Le Puy, Tesoro della cattedrale). Itentativi di individuazione della data d’esecuzione edell’autore di questa grande composizione hanno datoorigine a opinioni discordanti e il recente esame a raggiinfrarossi del foglio piegato sul camino non ha rivelatonessun segreto. Il posto d’onore riservato a san Giu-seppe trova un riscontro nella storia della vita di Colet-te, che era figlia di un falegname: questo dipinto potreb-be quindi essere stato commissionato verso il 1435, periniziativa di quest’ultima. Tutti i critici concordano suun punto: l’autore del quadro di Le Puy ha meditato

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sulle lezioni di uno dei grandi rinnovatori dell’arte fiam-minga, Robert Campin, conosciuto anche col nome diMaestro di Flémalle (al punto che alcuni hanno pensa-to si trattasse della replica di un originale del maestroeseguita alla fine del XV secolo); l’autore è stato influen-zato dall’equilibrio monumentale delle sue figure, dallaloro plasticità, dal trattamento delle stoffe, dal ricorsoa forti proiezioni di ombre. La Sacra Famiglia è inoltrevicina in certe scelte visuali, nella struttura dei volti,nelle pose e nei panneggi, alle opere attribuite a uno deipiù grandi pittori attivi in Francia nel XV secolo,Barthélemy d’Eyck, che la maggior parte dei critici con-corda ormai nell’identificare col Maestro dell’Annun-ciazione di Aix e col Maestro di re Renato. Probabil-mente originario della regione mosana e, più precisa-mente, della diocesi di Liegi, probabilmente legato davincoli di parentela ai celebri fratelli Van Eyck, Barthé-lemy d’Eyck si era evidentemente formato in ambientefiammingo e, in questo caso, sembra essere più influen-zato dalle innovazioni di Campin che da quelle dei suoieventuali parenti: qui non si scorge, ad esempio, nessu-na traccia del sottile sfumato dei colori e dei piani checaratterizza gli interni e i paesaggi panoramici di Jan vanEyck, anche se altrove è più evidente che la prodigiosaabilità di cui l’autore dà prova nella resa della realtà ealcuni prestiti iconografici si giustificano solo con unaprofonda conoscenza delle sue opere. Allo stato attualedella nostra conoscenza, la presenza a Le Puy di undipinto del tutto estraneo alla ricercatezza lineare, ovun-que di rigore in Francia nel corso del quarto decenniodel secolo, rimane del tutto inspiegabile.

In compenso, la presenza nel territorio francese diuna testimonianza dell’ars nova fiamminga non era unfenomeno isolato. Soprattutto nelle terre del duca diBorgogna si trovavano ab antiquo molti importanti capo-lavori. Nicolas Rolin, cancelliere di Filippo il Buono,

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aveva commissionato verso il 1434 a Jan van Eyck unaVergine col Bambino (Parigi, Musée du Louvre) per lasua cappella della chiesa di Notre-Dame-du-Châteld’Autun, un’opera emblematica del suo prodigioso illu-sionismo spaziale e della sua sorprendente minuziositàdescrittiva che richiedevano una tecnica specifica a basedi velature a olio sovrapposte. Dopo la morte di VanEyck, sopraggiunta nel 1441, Rolin commissionò aRogier van der Weyden un grande Giudizio Universaledestinato a un’altra delle sue fondazioni, l’Hôtel-Dieudi Beaune (ancora in situ). Entrato nel 1425 alle dipen-denze di Filippo il Buono come pittore e valet de cham-bre e stabilitosi su sua richiesta a Lille tra il 1426 e il1428, Van Eyck ebbe più volte l’opportunità di darprova del suo talento nel territorio “francese”. La pic-cola Annunciazione della National Gallery di Washing-ton potrebbe, ad esempio, essere stata eseguita per laCertosa di Champmol. Originario di Tournai e porta-voce di una tendenza più scultorea nell’ambito delnuovo realismo fiammingo, Robert Campin fu condan-nato nel 1429 a compiere un pellegrinaggio espiatorio aSaint-Gilles du Gard. Non sappiamo se effettivamentesi recò nella città provenzale e se in quest’occasione ese-guì la piccola Vergine in gloria tra san Pietro e sant’Ago-stino (Aix-en-Provence, Musée Granet) segnalata ad Aixdopo il 1863. Non si sa neppure se la splendida Natività,entrata a far parte nel 1828 delle collezioni del Muséedes Beaux-Arts di Digione, fosse stata commissionata daFilippo il Buono per decorare una cappella dinastica.Quel che è certo è che in Francia la nuova arte di dipin-gere esercitò immediatamente un grande fascino e spin-se i committenti e i mecenati attratti dalle novità arivolgersi a pittori originari dei Paesi Bassi borgognoni.Allo stesso tempo, per allinearsi al gusto del momento,gli artisti locali avrebbero inserito queste innovazioninella cultura gotica delle loro origini.

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Barthélemy d’Eyck ed Enguerrand Quarton: il risvegliodella pittura provenzale

È ad Aix-en-Provence, divenuta, a partire dal 1442,una delle sedi della corte di Renato (1409-1480) ducad’Angiò, di Bar e di Lorena, conte di Provenza, re diNapoli e di Sicilia, e non ad Avignone, l’antica città deiPapi, che venne operato un rinnovamento dell’arte pro-venzale: caduta nella ripetitività dopo il grande scismad’Occidente (1378-1417), quest’ultima si era timida-mente allineata allo stile gotico internazionale. Il tritti-co dell’Annunciazione di Aix, eseguito tra il 1443 e il1445 su richiesta di Pierre Corpici, un ricco drappierefornitore di re Renato, si presenta come il manifesto diquesta svolta radicale. Ideata per decorare l’altare delmercante nella cattedrale del Saint-Sauveur ad Aix, que-st’opera è stata smembrata durante la Rivoluzione: oggii suoi differenti elementi sono dispersi tra la chiesa diSainte-Marie- Madeleine di Aix (l’Annunciazione), ilMuseum Boymans-van-Beuningen di Rotterdam (dove èconservato lo scomparto sinistro sul cui lato anteriore èraffigurato il Profeta Isaia e su quello posteriore la Mad-dalena del Noli me tangere che è stato raggiunto, graziea un deposito del Rijksmuseum di Amsterdam, dallaNatura morta di libri, che in origine si trovava al di sopradella figura di Isaia), e i Musées Royaux des Beaux-Artsde Belgique di Bruxelles (dove è custodito lo scompar-to destro sul cui lato anteriore è raffigurato il ProfetaGeremia e su quello posteriore il Cristo giardiniere). Aquesta data, nella regione – e in Francia – non esistevanessun’opera che potesse essere comparata a questo trit-tico, costruito in larghezza, secondo la maniera fiam-minga, e dotato di ante. Si richiama a modelli eyckianianche l’idea di raffigurare in nicchie e su basamenti dipietra i personaggi, che, tuttavia, non assomigliano affat-to a statue in grisaille e si presentano per la prima volta

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ad vivum all’interno – e non all’esterno – delle “porte”del trittico. Le solide basi delle figure, la loro straordi-naria presenza e l’estrema caratterizzazione dei lorovolti (che ha indotto alcuni a riconoscere nei tratti deiprofeti quelli di re Renato e di suo padre Luigi II d’An-giò), i panneggi pesanti e ampi, rettilinei nelle ante,ricadenti a ventaglio sul suolo e profondamente incava-ti nel pannello centrale, indicano ancora l’influsso dellanuova arte fiamminga; la visione puntigliosa dell’artista,attento a rendere la ricercatezza dei tessuti e che dimo-stra di poter competere con i suoi illustri parenti nellesplendide nature morte raffigurate sui pannelli dei pro-feti, è accompagnata da una grande abilità nel giocarecon la luce, nel creare un’impressione di vita e di inti-mità; l’incredibile minuziosità del tocco, l’untuositàdella tecnica, chiaramente a base di olio, confermereb-bero ulteriormente l’ipotesi secondo cui la sua forma-zione si sarebbe svolta nelle Fiandre. Le lunghe pieghetubolari della veste del profeta Geremia, gli angoli rilu-centi della cappa di Gabriele, che ricordano, del resto,quelli della veste di Giuseppe nella Sacra Famiglia di LePuy, richiamano alla mente le figure di Konrad Witz, unaltro artista che doveva molto alle lezioni di Campin, alpunto che Panofsky definì il Maestro di Aix e il pitto-re svizzero “fratelli gemelli”. La ragione di tale miste-riosa affinità rimane inspiegata. Il prolungato contattocon la solarità mediterranea ha forse accentuato il gustoper i potenti contrasti ereditato dalla sua probabile for-mazione presso la bottega di Campin: in questo caso,egli ricorre a un’illuminazione energica che semplifica leforme, fa risaltare nettamente i volumi e conferisce rigo-re e unità all’insieme.

L’identificazione del Maestro dell’Annunciazione diAix con Barthélemy d’Eyck, documentato al servizio dire Renato tra il 1447 e il 1470, suggerita nel 1904 dalperspicace Hulin de Loo, è stata confermata dalla sco-

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perta di un atto notarile redatto ad Aix nel 1444 in cuiil nome del pittore fiammingo è menzionato accanto aquello di Enguerrand Quarton e da quella, dovuta aFrançois Avril, dell’intervento dei due artisti nella deco-razione di un Libro d’ore (New York, Pierpont MorganLibrary, ms. 358) che in base a ragioni codicologiche siritiene sia stato eseguito in Provenza verso il 1445: ora,i medaglioni in cui sono raffigurati i lavori dei mesi e isegni dello zodiaco, le sette grandi miniature con gliEvangelisti, le due Vergini col Bambino e la Visitazio-ne, tradiscono preoccupazioni di carattere plastico, gran-di capacità d’osservazione, un pronunciata attenzioneper la precisione dei dettagli, l’impiego di una scritturasensuale di un incredibile virtuosismo per suggerire glieffetti di luce sul carapace di un gambero marino o latrasparenza delle onde, qualità già riscontrabili nel trit-tico di Aix. I volti hanno la stessa presenza carnale delpiccolo e commovente Cristo in croce (Parigi, Musée duLouvre), probabilmente un frammento di predella. L’at-tribuzione al Maestro di Aix di una parte delle minia-ture del codice Morgan non fa che confermare l’acco-stamento tra il trittico e un insieme di splendidi mano-scritti, tra i più belli eseguiti in Francia nel XV secolo,aggregati intorno al celebre Cœur d’Amour épris dellaÖsterreichische Nationalbibliothek di Vienna. All’in-terno di questo gruppo, oggi si distingue un primonucleo, ancora profondamente influenzato dai grandimaestri fiamminghi, che comprende, oltre alle Ore Mor-gan, le Ore di René d’Anjou (Londra, British Library,ms. Egerton 1070) in cui appare la celebre immagine delRe Morto, alcune scene del calendario delle Très richesheures du duc de Berry (Chantilly, Musée Condé), lascia-te incompiute dai fratelli Limbourg, e, in particolare, lescene dei mesi di ottobre e dicembre, quindi un secon-do, posteriore di una ventina d’anni, costituito essen-zialmente dal Cœur d’Amour épris, dalla Théséide di

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Vienna e dal Livre des tournois (Parigi, BibliothèqueNationale, ms. fr. 2695), tre manoscritti eseguiti perRenato, in Angiò o in Provenza: basandosi su una dupli-ce tradizione, italiana e provenzale, che attribuisce al remecenate doti di pittore, Otto Pächt aveva persino ten-tato di identificare la figura del Maestro di Aix conquella del sovrano, ma quest’ipotesi non è stata accet-tata dalla critica successiva. Le sedici miniature conser-vate dell’illustrazione del Coeur d’Amour épris, unromanzo allegorico scritto dallo stesso sovrano, costi-tuiscono l’apogeo della sua arte. Esse consentono divalutare il percorso artistico di un maestro, rimasto fede-le persino nelle ultime opere all’originaria formazionefiamminga, ma che in una certa misura, che tuttavia nonva esagerata, si era “latinizzato” grazie a un lungo sog-giorno in Francia, e soprattutto in Provenza. Col pas-sare degli anni, si afferma un gusto più pronunciato perla geometrizzazione delle forme, e una certa tendenzaalla stilizzazione. In una natura verdeggiante, abbellitada querce da sughero e da pini a ombrello, Barthélemymette in risalto un mondo favoloso, popolato da caval-li arancione, da inquietanti cavalieri neri, da vecchiescarmigliate e da nobili figure di giovani donne. Ma ènella traduzione delle più sottili variazioni dell’illumi-nazione che la sua immaginazione poetica fa meraviglie,che la sua tecnica mostra una leggerezza incomparabileper suggerire, nella penombra di una stanza lussuosa, ilriflesso del lume di una candela sui volti, sulle stoffe esui tappeti, e altrove, l’erba resa pallida dai raggi del soleche sorge, la sosta notturna di Cuore e Desiderio dallascintillante armatura, una scena di pesca rischiarata dallaluce delle stelle. Se si raffrontano a quelle eseguite daun suo geniale contemporaneo, Jean Fouquet, le minia-ture del Cœur, per quanto ricercate e fiabesche, mostra-no tuttavia qualcosa di epidermico, di spontaneo, unagradevole ingenuità: non vi è alcuna coerenza spaziale

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tra le architetture e i personaggi e nessuna dimensioned’eternità nel racconto di questa vana ricerca amorosa.

Non è difficile credere che Barthélemy si sia distin-to nell’arte del ritratto. Nonostante alcune perplessità,siamo ancora convinti che il Ritratto d’uomo del 1456(Vaduz, collezione Liechtenstein), che tradisce un mag-giore interesse per le particolarità fisiognomiche delmodello, palesemente esoftalmico, che per la descrizio-ne del tipo umano o sociale, sia una sua opera. La scel-ta di presentazione del modello conferma il legame cheunisce Barthélemy alla cultura fiamminga delle sue ori-gini, e i limiti delle sue aspirazioni formali: nonostan-te il formato, ampliato rispetto ai più verticali prototi-pi eyckiani, e la monumentalità conferita alla larghez-za delle spalle – anche se a quell’epoca si usava imbot-tire le spalle degli abiti –, egli obbedisce ancora alla for-mula nordica del personaggio tagliato al di sotto dellespalle da un parapetto di cui, nello stesso periodo, Fou-quet si era già liberato.

Autore di quadri religiosi e profani e forse di dipin-ti murali, miniatore di incomparabile talento, Barthé-lemy fu anche, come la maggior parte dei suoi colleghi,un esecutore di cartoni: sembra, infatti, che debba esser-gli attribuita l’ideazione di quattro pezze di stoffa rica-mate che illustrano alcune scene della vita di san Mar-tino, oggi divisi tra il Musée Historique des Tissus diLione, il Musée de Cluny di Parigi e una collezione pri-vata, in cui la verve narrativa, le pose dal vero, i tipifisiognomici, gli effetti di luce e la ricercatezza del colo-rito sono analoghi a quelli delle miniature Morgan. Forsecommissionati nel 1444 da Renato d’Angiò per la chie-sa di Saint-Martin di Tours, questi ornamenti furonorealizzati da un ricamatore di eccezionale abilità e sen-sibilità, così fedele alle indicazioni dell’autore dei car-toni, che si è tentati di identificarlo con Pierre du Bil-lant, ricamatore ufficiale di re Renato, suocero di

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Barthélemy e come quest’ultimo originario della regio-ne mosana.

Sul piano critico, all’identificazione di Barthélemyd’Eyck – a lungo rimasto un semplice nome, indubbia-mente privilegiato nella contabilità di Renato d’Angiò,ma mai direttamente associato a una precisa commis-sione – come pittore e miniatore, dotato di un vero eproprio “corpus”, ha necessariamente fatto seguito ilriconoscimento della sua importanza artistica. Si rima-ne colpiti nel constatare che negli ultimi dieci anni, iriferimenti alla sua personalità ricorrono ormai come unleitmotiv nella maggior parte degli studi sul XV secoloeuropeo, mentre alcuni contestano ancora la sua iden-tificazione col Maestro del Cœur o la coerenza del grup-po di opere che gli è stato attribuito e, all’inverso, altrinon esitano a riconoscergli, ricorrendo a volte a inter-pretazioni forzate, un ruolo di primo piano negli scam-bi tra il nord e il sud. Molti fattori hanno indubbia-mente contribuito alla diffusione della sua maniera oltrei confini dei possedimenti “francesi” di Renato: inprimo luogo, gli spostamenti dell’artista, in parte dipen-denti da quelli del suo mecenate, la circolazione dellesue opere, per esempio manoscritti inviati in dono dalsovrano ai numerosi principi e umanisti con cui si tene-va in contatto, infine le copie (alcune sono conservate)che veicolavano le sue composizioni. Si sa, ad esempio,che il “buon re” e il generale veneziano Jacopo Anto-nio Marcello, nonostante la mutevolezza delle alleanzepolitiche, furono legati da una salda amicizia: sembrache nella ricca biblioteca del re, figurassero almeno seiopere inviategli in dono da Marcello, tra cui una Geo-grafia di Strabone (Albi, Bibilothèque Rochegude, ms.4), datata 1459, che conteneva due miniature a pienapagina eseguite dal giovane Giovanni Bellini. Il sini-scalco di Provenza e consigliere di re Renato, JeanCossa, aveva invece ricevuto in dono dal generale vene-

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ziano una Passione di san Maurizio (Parigi, Bibliothèquede l’Arsenal, ms. 940), decorata da quattro miniaturegeneralmente attribuite ad Andrea Mantegna. Datal’importanza attribuita in queste opere alla decorazio-ne, sembra lecito ipotizzare che Renato avesse fattoricorso al talento del suo pittore ufficiale per ricambia-re i doni dell’amico, nominato cavaliere dell’ordinedella Mezzaluna recentemente fondato dal sovrano. Sibasa su queste considerazioni la stimolante ipotesi diMauro Lucco (opera in corso di pubblicazione) secon-do cui le ricerche luministe condotte all’inizio del set-timo decennio del secolo da Giovanni Bellini potreb-bero essere state incoraggiate dall’ammirazione dell’ar-tista per le audaci soluzioni ideate dal miniatore tran-salpino.

Sulle conseguenze artistiche del breve soggiorno aNapoli dello sfortunato re Renato, recatosi in questacittà tra il 1438 e il 1442 per rivendicare i diritti angioi-ni alla successione della regina Giovanna II, sono stativersati fiumi d’inchiostro: da un lato l’umanista Sum-monte, nella famosa lettera inviata nel 1524 al venezia-no Marcantonio Michiel, riecheggia già la tradizionesecondo cui il sovrano, grande estimatore dell’arte fiam-minga, avrebbe insegnato di persona a Colantonio, ilmaestro di Antonello da Messina, “la pratica e la tem-pera di tal colorire [di Fiandra]”, il che dimostrerebbe,come ha giustamente osservato Ferdinando Bologna,che la conoscenza della pittura fiamminga nella cittàcampana, che durante il regno di Alfonso il Magnanimosarà ampiamente favorita dalla presenza di un certonumero di opere settentrionali, si diffuse in un primomomento attraverso una “mediazione” franco-fiam-minga. Dall’altra, è inevitabile raffrontare alcuni pan-nelli di Colantonio, a cominciare dal San Gerolamo nelsuo studio (Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capo-dimonte), oltre che le figure dei piccoli beati francesca-

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ni che ornavano i montanti laterali della stessa anconadi San Lorenzo Maggiore, al trittico dell’Annunciazionedi Aix, al punto che, nel corso della prima metà di que-sto secolo, alcuni autori hanno ritenuto di poter attri-buire queste due serie di opere allo stesso pittore, secon-do alcuni identificabile col Maestro di Aix, e per altricon Colantonio. Benché quest’ipotesi si sia rivelatainfondata, non si può negare l’esistenza di molti puntidi contatto e all’elenco delle opere vicine al trittico pro-venzale per la monumentalità delle figure, la riduzionedei canoni, il sistema delle pieghe e l’esecuzione accu-rata, bisogna aggiungere due miniature del Codice diSanta Marta (Napoli, Archivio di Stato, ms. 99, c. I, ff.43 e 52), eseguite da due artisti iberici, e talvolta acco-state, a torto secondo noi, perfino a Fouquet. La pre-senza di Barthélemy a Napoli, intuita da diversi storiciin ragione delle sorprendenti analogie locali con la suaarte, è stata confermata dall’attribuzione al pittoremosano di nove pagine sopravvissute di una CronacaUniversale detta Cockerell (oggi dispersa in diverse col-lezioni private e pubbliche): ora, questo manoscritto,che è la copia modernizzata di un altro manoscritto checi è pervenuto integro, la Cronaca Crespi (Milano, colle-zione Crespi), eseguito dal pittore e miniatore milaneseLeonardo da Besozzo, attivo a Napoli nel 1438, maforse già dalla fine degli anni Venti, in cui sono ripro-dotti gli affreschi, oggi perduti, eseguiti da Masolino nelPalazzo Orsini a Roma (1432), potrebbe essere statocommissionato da Renato d’Angiò o da un personaggiodella sua cerchia per celebrare un antenato del sovrano,Carlo d’Angiò, raffigurato in ultima pagina nella Cro-naca Crespi, e legittimare così la rivendicazione dei suoidiritti al trono di Napoli. Queste figure “potenti e robu-ste, caratterizzate da canoni massicci e da una dignito-sa familiarità decisamente non “antica”, da espressionivivaci e da pose quasi plebee” (N. Reynaud) ricordano

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gli Evangelisti delle Ore Morgan e i personaggi raffi-gurati sullo sfondo dell’Annunciazione di Aix, che pre-sentano pieghe “spezzate, tubolari e scintillanti”, ana-loghe a quelle di questi piccoli personaggi, disegnati apenna ma lumeggiati all’acquerello con i colori delicaticari all’artista mosano.

Se, a quanto sembra, l’arte di Barthélemy ha lascia-to nella penisola un’impronta ben definita, diversa daquella delle opere di stretta osservanza fiamminga, benpresto collezionate dagli amatori italiani (a Genova,Napoli, Venezia, Firenze, Ferrara e Milano), come valu-tare, all’inverso, la sua eventuale permeabilità all’arteitaliana e, in particolare, alle innovazioni toscane, indub-biamente sorprendenti per un pittore che si era forma-to alla scuola di Van Eyck e di Campin? A dire il vero,l’esperienza italiana – che non fu limitata a Napoli, dalmomento che nel corso del viaggio, Renato aveva sosta-to in diverse città e in particolare a Firenze – non sem-bra aver radicalmente influenzato la sua rappresenta-zione dello spazio né la sua concezione della figuraumana. La luce mediterranea potrebbe averlo colpito inCampania, prima del soggiorno in Provenza. Ma, para-dossalmente, è soprattutto il trittico Lomellini di VanEyck (perduto), ancora visibile a Genova nel 1438, annoin cui Renato effettuò una sosta in questa città, che sem-bra aver attratto la sua attenzione: il trittico di Aixpotrebbe quindi riecheggiare l’Annunciazione della tavo-la centrale e il San Gerolamo raffigurato sull’anta destradel trittico eyckiano.

Ovviamente, i più evidenti richiami alle opere diBarthélemy vanno ricercati nelle regioni in cui l’artistasvolse più a lungo la sua attività. L’indagine si rivela dif-ficile in Angiò, data la rarità delle testimonianze risalentia quest’epoca. In Provenza, essa non deve limitarsi alcampo della pittura né a quello della miniatura, ma deveprendere in considerazione le arti applicate, ad esempio

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le vetrate. Le tre piccole vetrate della cappella di Saint-Mitre della cattedrale del Saint-Sauveur ad Aix, pagatenel 1444 a “Maestro Guillaume, pittore di Avignone”,vale a dire al pittore e vetraio borgognone GuillaumeDombet, attivo ad Avignone tra il 1414 e il 1458, offro-no, a quanto sembra, la prima trascrizione dello stileinnovatore di Barthélemy, che nello stesso anno dipin-se l’Annunciazione per un altare della stessa cattedrale.Il canone massiccio dei tre personaggi – i santi Biagio,Mitra e Nicola – è totalmente estraneo alla tradizionelocale, ancora caratterizzata da uno spirito gotico, comepure gli abbondanti panneggi dalle pieghe profonda-mente incavate: tuttavia, qui non ritroviamo il model-lato sensuale tipico del pittore fiammingo, ma una scrit-tura abbastanza asciutta che non si può imputare allatraduzione su vetro del cartone, dal momento che Guil-laume, secondo alcuni documenti, interveniva perso-nalmente nell’esecuzione delle vetrate o la controllava.Nella Pietà di Tarascon (Parigi, Musée de Cluny) si scor-ge un esempio ancora più impoverito delle idee diBarthélemy, e, attraverso la sua mediazione, di quelle diCampin, così come una profonda affinità stilistica conle vetrate della cappella di Saint-Mitre. Il Cristo irsutodalle costole sporgenti e dalle ginocchia ossute, non èche un debole riflesso, goffo e caricaturale, del piccoloCristo del Louvre, precedentemente menzionato. È quin-di possibile che questo quadro sia stato eseguito nell’a-telier di Guillame Dombet e dei suoi figli.

In compenso, l’autore della spettacolare pala di Boul-bon (Parigi, Musée du Louvre) dimostra di non essereun modesto discepolo del grande maestro fiammingo,anche se le somiglianze tra la sua opera e quelle delmaestro non sono affatto trascurabili. L’autorevolezzadel suo linguaggio, il rigore della composizione, la gra-vità della sua visione, la forza della sua immaginazione,lo elevano al contrario quasi al livello di Barthélemy

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d’Eyck e di Enguerrand Quarton. Purtroppo, il cattivostato di conservazione del quadro pregiudica una cor-retta valutazione dello stile: ciò che appare come un’ec-cessiva durezza potrebbe essere il risultato di un restau-ro un po’ pesante e non l’espressione radicale di un“idioma” provenzale che ridurrebbe, grazie agli effettidi una luce intensa, le forme a vere e proprie assono-metrie. Molto probabilmente commissionata per la chie-sa di Saint-Agricol ad Avignone, quest’opera risale cer-tamente alla metà del secolo: essa è quindi posterioreall’Annunciazione di Aix che ha ispirato, a quanto sem-bra, lo scorcio di paesaggio sulla sinistra, i tratti, taglia-ti con l’accetta, di Dio Padre; il corpo disarticolato delCristo selvaggio, che esce, come una visione da incubo,dalla sua tomba, appartiene alla stessa famiglia del pic-colo Cristo del Louvre e della figura dell’Acquario delleOre Morgan. Ma nei personaggi del Maestro di Boulbonnon vi è alcuna traccia del ricco modellato “fiammingo”che conferisce a quelli di Barthélemy un aspetto cosìfamiliare e carnale; quest’angosciosa apparizione, cosìcome l’effetto quasi surrealista prodotto dalla giustap-posizione sullo sfondo scuro degli arma Christi, l’incon-sueta presenza di una pietra o di un anello sospeso, indi-ca che qui ci troviamo agli antipodi del genio profon-damente “umano” del maestro fiammingo. I volti deglialtri personaggi, ad esempio, quelli del canonico e disant’Agricola sono stati spesso accostati ai tipi fisici, piùascetici, di Enguerrand Quarton a cui si avvicinanoanche per le profonde ombre e per la precisa definizio-ne dei piani; ma, anche in questo caso, la sensibilità deidue artisti si rivela completamente diversa: a nostroparere, il Maestro di Boulbon deve essere consideratocome una personalità ben distinta e di prima importan-za, anche se finora non è stato possibile attribuirgli nes-sun’altra opera.

Quale fu la natura esatta della relazione di Barthé-

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lemy con Enguerrand Quarton, accanto al quale è docu-mentato ad Aix nel 1444 e che partecipa ugualmente alladecorazione delle Ore Morgan? Fu l’ascendente delprimo sul secondo determinante, come pensò a lungoSterling? Oppure deve essere rovesciato il rapporto deldare e dell’avere? Avrebbe la stilizzazione precocemen-te adottata da Quarton colpito un pittore così fiammin-go come il Maestro di Aix? Il dibattito rimane aperto.Un ruolo di primo piano spetta comunque a EnguerrandQuarton nella rinascita dell’arte provenzale a partire dalquarto decennio e nella creazione di quella che può esse-re definita una vera e propria scuola, sia di Aix che diAvignone. La sua personalità è abbastanza facilmenteidentificabile grazie a una serie di atti notarili che risal-gono a momenti successivi del periodo compreso tra il1444 e il 1466, che consentono di seguire le sue traccead Aix, Arles e Avignone e a due quadri “documenta-ti”, ai quali sono state aggregate altre opere di diversogenere. Ricordiamo, a questo proposito, che in Proven-za, regione rimasta fedele alle tradizioni del diritto roma-no, per ogni commissione veniva stipulato un contrattoalla presenza di un notaio e che quindi, grazie al pazien-te lavoro di molte generazioni di eruditi, disponiamo diun consistente numero di atti notarili che si sono rive-lati preziosi sia ai fini di una migliore comprensionedella pratica del mestiere dei pittori, della natura dellaproduzione pittorica e della sua clientela, sia, nei casi incui è stato possibile ricollegare i documenti a quadri checi sono pervenuti, per riscoprire alcune personalità diartisti. È proprio questo il caso di Enguerrand Quarton,originario della diocesi di Laon in Piccardia, dove pro-babilmente nacque tra il 1415 e il 1420 e compì il suoapprendistato, e che viene menzionato per la primavolta nel 1444 ad Aix. Grazie ad alcune recenti ricerchecondotte negli archivi comunali di Arles (Bouches-du-Rhône), si è potuto stabilire che Quarton non era solo

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pittore e miniaturista, come alcuni accostamenti stilisti-ci avevano già dimostrato, ma anche, come altri artistidi questa regione, pittore vetraio. Prima testimonianzacerta della sua attività, la Madonna della Misericordia delMusée Condé di Chantilly fu commissionata il 16 feb-braio 1452 dai procuratori del convento dei Celestini diAvignone, che agivano in nome di Pierre Cadard, ai duepittori associati (socii) Enguerrand Quarton e Pierre Vil-late, per decorare l’altare della cappella della famigliaCadard nella chiesa del convento dei Celestini di Avi-gnone. Qual era la natura di questa collaborazione e, diconseguenza, qual era il ruolo svolto da ciascuno deidue artisti? Già molto tempo fa, numerosi critici hannogiustamente osservato che esistono molte analogie traquest’opera e l’Incoronazione della Vergine di Villeneuve-lès-Avignon, dipinto certamente eseguito dal solo Quar-ton e alcuni di essi hanno ritenuto che l’intervento diPierre Villate si sia probabilmente limitato alla predella,oggi perduta. Personalmente, non possiamo fare a menodi rilevare la fattura più pesante, la vena aneddotica, leespressioni convenzionali e poco ispirate di alcuni deipersonaggi riuniti sotto il mantello della Vergine, tantoche saremmo tentati di attribuirle a Villate. Resta ilfatto che, nonostante l’eventuale intervento del suosocio, questa pala deve essere considerata un’opera esem-plare del pittore piccardo: è indubbiamente a quest’ul-timo, infatti, che va ascritta la concezione del ritmo tri-partito, la dolce inclinazione delle figure laterali verso laparte centrale, vera e propria “firma” dell’artista, secon-do Sterling. Per quanto riguarda l’elegante arabesco chelega i personaggi disposti in fregio sono state invecechiamate in causa la tradizione della scultura gotica,estremamente ricca in Piccardia, la regione natale diQuarton e quella della miniatura amienese degli anniTrenta caratterizzata da una stilizzazione elegante. Ma,questa chiara scelta decorativa, opposta al realismo inte-

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grale eyckiano al quale si richiamava Barthélemy, nonpotrebbe essergli stata dettata anche dalle prime operedi Rogier van der Weyden, il più “francese” degli inno-vatori fiamminghi? Malgrado l’insistenza sui ritmi linea-ri, malgrado le proporzioni dei personaggi, ancora sog-gette alle leggi della gerarchia, qui non si scorge nulla diartificiale o di astratto: le figure sono distribuite all’in-terno di uno spazio verosimile; i due san Giovanni espri-mono una forza plastica e un’originalità innegabili; il det-taglio della mano dell’Evangelista che si scorge dietro lacuffia trasparente della donatrice rivela la grande atten-zione che il maestro piccardo riservava all’osservazionedella realtà. La radiosa luce mediterranea proietta sulsuolo giallo pallido profonde ombre e contribuisce a farrisaltare energicamente le silhouettes sullo sfondo oro.Ritroviamo tutte queste caratteristiche stilistiche nel-l’Incoronazione della Vergine, una grandiosa composizio-ne commissionata a Enguerrand Quarton dai certosini diVilleneuve-lès-Avignon per ornare l’altare della Trinitàdella loro chiesa. Il programma iconografico complessoe, allo stesso tempo, singolare – dal momento che in que-sta rappresentazione della Trinità “non deve mostrarenessuna differenza tra il padre e il figlio” –, è esposto sinnei minimi dettagli nel contratto, uno dei più circostan-ziati tra quelli pervenutici dall’Europa del XV secolo,che venne firmato il 24 aprile 1453 dal pittore piccardoe dal rappresentante dei padri certosini, Jean de Mon-tagny: è interessante osservare che, forse in considera-zione della fama del maestro piccardo, a quest’ultimovenne lasciata un’ampia iniziativa per ciò che riguarda-va l’organizzazione della vasta figurazione dell’universocristiano richiesta dai committenti, a cui la sua immagi-nazione plastica riesce a conferire una straordinaria coe-renza. Lo spazio è suddiviso in due distinte aree, il Cieloe la Terra, collegate dalla sottile silhouette del Cristo cro-cifisso, e che sembrano formare il timpano e l’architra-

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ve di un portale. La parte superiore, che emerge su unosfondo oro appena visibile, sembra trattata, nonostanteil volume riservato ai tre personaggi sacri e alle teorie diangeli, profeti e santi che li circondano, come uno spa-zio a due dimensioni, quasi come un arazzo, mentre nel-l’evocazione di una Roma e di una Gerusalemme chericordano le città provenzali, si rivela un’indubbia cono-scenza della prospettiva. Forse Quarton aveva avutooccasione di ammirare nelle dimore delle famiglie tosca-ne stabilitesi ad Avignone – i Pazzi, i Peruzzi, i Baron-celli – alcuni esempi di pittura “moderna” che testimo-niavano una visione sintetica, volta alla ricerca dellaterza dimensione. Per il momento nessun indizio con-sente di avanzare l’ipotesi di un viaggio al di là delleAlpi. Lo stato di conservazione di questo dipinto, miglio-re di quello della pala Cadard, consente di ammirare l’e-strema varietà della scrittura, che si rivela sensuale nellaresa del peso e della lucentezza delle stoffe, e, al con-trario, rapida, allusiva ed evidenziata da impasti, nelladefinizione di uno scarno profilo, nell’inserimento dialcune nuvole leggere e di gracili alberi rinsecchiti dalmistral. Quarton non ha nulla da invidiare al suo colle-ga “fiammingo” per quanto riguarda l’osservazione dellarealtà: ma, mentre quest’ultimo aspira alla perfezione deltrompe-l’œil, il primo riesce a suggerire la vita con pochiaccenti essenziali. Il colorito rivela una sorprendentefreschezza nell’originalità delle tonalità e nell’audaciadegli accordi: un giallo luminoso, o un arancione vieneaccostato a un verde assenzio o a un rosa lampone, uncolore spesso impiegato nella raffigurazione delle archi-tetture e, soprattutto, nel trono della Vergine della palaRequin (Avignone, Musée du Petit Palais); in quest’o-pera, certamente anteriore al sesto decennio, l’edificiodalle delicate colonnine, sembra provenire direttamentedalle miniature parigine della fine del Trecento, anchese rivela una definizione dello spazio più convincente.

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Quarton, come abbiamo accennato, conobbe certamen-te questa tradizione dell’arte della miniatura nel norddella Francia, prima di recarsi in Provenza. Ormai sap-piamo che l’artista praticò questa tecnica: è stato infat-ti possibile attribuirgli la decorazione di vari manoscrit-ti, in cui ritroviamo la stessa visione plastica e, al tempostesso, monumentale, il gusto dei ritmi lineari, la viva-cità e la luminosità del colorito, tipi fisiognomici analo-ghi, la fattura rapida e, allo stesso tempo, suggestiva, euna forza drammatica fuori del comune. Quarton eseguìcertamente tre miniature delle Ore Morgan, e, in parti-colare, Re David, San Bartolomeo e San Giacomo, anchese nelle ultime due forse si limitò a completare il lavorodi Barthélemy, a cui andrebbe attribuito il canone mas-siccio delle figure. Gli alberi rapidamente abbozzati, lerocce dalle profonde crepe e dai versanti scoscesi, fannoparte del repertorio dell’artista: li ritroviamo, infatti,nella sua ultima opera conosciuta, la decorazione di unmessale eseguita nel 1465-1466 per il cancelliere di Pro-venza, Jean des Martins (Parigi, Bibliothèque Nationa-le, ms. nouv. acq. lat. 2661). Un Dio in maestà circon-dato dai simboli degli Evangelisti e un Calvario si fron-teggiano su due pagine del Messale di Jean des Martins:queste due miniature a piena pagina sono annoverate trale traduzioni più tragiche e ispirate di un’iconografia rigi-damente codificata. La figura di Dio Padre, rigorosa-mente disposta all’interno di una losanga colpisce per lasua autorevole monumentalità e la sua straordinaria pre-senza spirituale. La Vergine e san Giovanni, infagottatiin voluminosi panneggi, assistono alla dolorosa agonia diun Cristo smagrito, dalla statura singolarmente ridotta,animati da un sereno fervore che evoca immediatamen-te l’ammirevole Pietà di Villeneuve-lès-Avignon (Parigi,Musée du Louvre). Dopo l’illuminante spiegazione offer-ta nel 1959 da Charles Sterling, si fa fatica a credere chequesto capolavoro della pittura europea del Quattro-

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cento sia rimasto tanto a lungo anonimo, nonostante lepalesi analogie con i quadri documentati di Quarton: ilrigore della costruzione, fondata ancora una volta su unritmo tripartito, ammorbidito dall’elegante arabesco delCristo, la cui silhouette longilinea riecheggia quella delCalvario, la sapiente disposizione delle aree di colore,lumeggiate con diverse sfumature di bianco, l’utilizza-zione di una luce che pone in risalto, qui più che altro-ve, i volumi essenziali, a cominciare dalla cotta arriccia-ta del canonico, il disegno flessibile e, al tempo stesso,teso, concorrono a conferire una grande intensità spiri-tuale alla Pietà del Louvre. Sempre dominata dallo stile,l’osservazione della realtà porta l’artista a descrivereminuziosamente le sopracciglia arruffate, il collo scarno,la barba mal rasata, le profonde rughe e lo sguardo bril-lante del donatore, così come il gesto premuroso di sanGiovanni che insinua delicatamente le dita tra i raggi pertogliere dal capo di Cristo la corona di spine. Cosapotremmo dire che non sia già stato detto dell’atmosfe-ra tragica ma discreta di questa Pietà, della fede incrol-labile del canonico nella Resurrezione, dell’esemplarerassegnazione della Vergine, mentre tante “Pietà” coevesi limitano a soffermarsi, talvolta con compiacimento,sulla sofferenza del Cristo crocifisso e sull’esasperatodolore di coloro che gli sono vicini? I richiami icono-grafici a quest’opera sono indiscutibili nella regione:citiamo come prova la Pietà di Tarascon che, se corri-sponde al quadro segnalato nel 1457 al castello di Tara-scona, ci fornisce una data ante quem per la Pietà delLouvre. La questione della sua linea di discendenza arti-stica e di quella delle opere di Quarton in generale è piùimportante: come dimostra la pala di Boulbon, i richia-mi al suo stile ad Avignone sono immediati. Le compo-sizioni sobrie e chiaramente definite, l’illuminazioneintensa che genera profonde ombre, la tavolozza dalletonalità vivaci e contrastate, spesso lumeggiate da toc-

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chi di bianco luminoso, le espressioni piene di riserbo,che costituiscono in qualche modo il filo conduttore diquella che viene convenzionalmente definita Scuola diAvignone, sembrano derivare più dal maestro piccardoche da Barthélemy d’Eyck; a partire dalla metà del seco-lo, esse fanno la loro comparsa persino nelle opere di pit-tori e miniatori di più modesto livello e sopravviveran-no fino alle soglie del XVI secolo, affrontando con suc-cesso la concorrenza di altre correnti. La diffusione diquesta maniera fu favorita da un importante atelier diret-to da Quarton? A questo riguardo i documenti taccio-no. Soprattutto nel Messale di Jean des Martins, appaio-no miniature più modeste che saremmo tentati di attri-buire ai suoi collaboratori. Ma alcune delle opere che sipensava di dover assegnare alla sua cerchia potrebberoessere state eseguite dall’artista stesso, come, ad esem-pio, le due piccole componenti di un dittico, una Vergi-ne col Bambino e un San Giovanni Battista (Altenburg,Staatliches Lindenau-Museum) che a nostro parereappartengono allo stesso altarolo dei due Profeti dellaPinacoteca Vaticana, due miniature aggiunte alle Ore diBoucicaut (Parigi, Musée Jacquemart-André, ms. 2, ff.241 e 242). Il restauro dell’Incoronazione della Verginedella cattedrale di Carpentras, che è stata pesantemen-te ridipinta, potrebbe riservare alcune sorprese. Anchenelle regioni limitrofe ritroviamo le tracce di quest’in-fluenza, ad esempio, in Linguadoca, come testimoniauno dei rari quadri conservati di quest’epoca, il Calva-rio del Parlamento di Tolosa, un dipinto molto danneg-giato (Tolosa, Musée des Augustins); nella contea diNizza, dove il giovane Louis Bréa, nel trittico di Cimiez(chiesa) si mostra ricettivo a questa lezione di sobrietà,al trattamento monumentale delle figure, alle spezzatu-re delle pieghe e nella vicina Liguria. Dalla lettura deidocumenti provenzali emerge chiaramente l’importanzaassunta durante la seconda metà del XV secolo dagli

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scambi con la Catalogna, con Valenza e naturalmenteanche con l’Italia. Del resto, quindici anni circa dopo ilsuo ritorno in Francia, Renato d’Angiò aveva invitato alavorare pittori e scultori provenienti dalla penisola, esoprattutto da Napoli, come, ad esempio, FrancescoLaurana, suocero di Gentile il Vecchio... L’interpreta-zione di Quarton dei modelli nordici, volta a una stiliz-zazione delle forme, a una visione prospettica e a unacostruzione rigorosa e luminosa si allinea alle ricerchecondotte da Domenico Veneziano, Piero della Francescae dal Beato Angelico. Bisogna ipotizzare dunque l’esi-stenza di rapporti diretti tra Quarton e l’ambiente arti-stico fiorentino del quinto decennio del secolo? Perquanto ci riguarda, non ne siamo convinti. Anche adAvignone era infatti possibile prendere visione di esem-pi di pittura toscana “moderna”. Rimane irrisolta la que-stione delle affinità, spesso messe in luce, tra la pitturaprovenzale della metà del secolo – le opere di Quarton,il piccolo San Pietro di Luxembourg (Avignone, Musée duPetit Palais) – e le opere di Antonello da Messina cheritornò nella sua città natale, a quanto sembra da unlungo viaggio, nel 1460, e che, secondo una tradizionea cui si richiama anche Vasari, avrebbe compiuto unviaggio nelle Fiandre. Non si può non riconoscere che trail vasto paesaggio marino della Crocifissione di Bucarest(Muzeul de Arta) del maestro siciliano e quello dell’In-coronazione della Vergine di Villeneuve esistono inquie-tanti affinità. Disponiamo di un argomento, da impie-gare tuttavia con grande cautela, che accredita l’ipotesidi una sosta di Antonello in Provenza: la copia parziale(Denver, Denver Art Museum) di una composizione del-l’artista siciliano, di cui ci è pervenuto solo un fram-mento (Reggio Calabria, Museo della Magna Grecia),eseguito da Josse Lieferinxe, un pittore dell’Hainaut sta-bilitosi a Marsiglia alla fine del secolo.

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Jean Fouquet

Le complesse relazioni che legavano gli artisti fran-cesi alla cultura fiamminga e italiana vengono illustra-te in modo esemplare dal caso del più grande pittorefrancese dell’epoca, Jean Fouquet. Oggi non sappiamomolto di questo artista che i suoi contemporanei, e per-sino Vasari, consideravano non inferiore a Van Eyck ea Van der Weyden; fu tratto dall’oblio grazie alle ricer-che di alcuni studiosi francesi e tedeschi dell’Ottocen-to. È a Tours, divenuta in qualche modo la capitale delregno, che Fouquet nacque verso il 1420, ed è in que-sta città che, tra il 1450 e il 1480, svolse gran partedella sua attività, e infine, tra il 1478 e il 1481, morì.Due testimonianze, quella dell’architetto Filarete (risa-lente al 1462) e quella dell’umanista fiorentino Fran-cesco Florio (1478), sembrano suggerire che, ancora ingiovane età, l’artista eseguì a Roma il ritratto del papaEugenio IV, morto nel febbraio 1447 (perduto). Nonsappiamo per quanto tempo il pittore francese abbiasoggiornato in Italia e quali tappe effettuò nel corso delsuo viaggio. Le opere che ci sono pervenute, un certonumero di copie antiche e documenti, dimostrano chelavorò per il re Carlo VII e poi per Luigi XI, che nel1475 lo nominò suo pittore ufficiale. Jean Fouquetoperò per una clientela prestigiosa, tra cui figuravanoun papa, alcuni sovrani, alti funzionari statali (il can-celliere di Francia Guillaume Jouvenel des Ursins, iltesoriere Etienne Chevalier, l’addetto all’argenteriaSimon de Varie...). Non disprezzò, tuttavia, i clienti piùmodesti, tra cui, ad esempio, i canonici, forse locali, percui eseguì la Pietà di Nouans o le Ore di Angers (Pari-gi, Bibliothèque Nationale, ms. nouv. acq. lat. 3211).Benché la parte più consistente del suo corpus sia stataricostituita tra il XIX e l’inizio del XX secolo intornoal manoscritto delle Antiquités Judaïques (Parigi,

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Bibliothèque Nationale, ms. 247), segnalato in un docu-mento più tardo come una sua opera, e all’autoritrattosu smalto (Parigi, Musée du Louvre) autenticato dallapresenza del nome dell’artista, questi ultimi anni hannovisto la riscoperta di molti libri e miniature finora sco-nosciuti; recentemente è stata attribuita a Fouquet l’i-deazione, se non l’esecuzione, di una vetrata (Parigi,Musée de Cluny) su cui sono riportate le cifre di Lau-rent Girard, il committente del Boccaccio di Monaco.È emersa così la personalità di un artista completo, acui venivano richiesti pale, ritratti, forse pitture mura-li, cartoni per vetrate e arazzi, decorazioni di monu-menti funebri, diversi lavori di circostanza e, natural-mente, miniature. Quasi tutte le opere dell’artista –soprattutto i quadri – pongono difficili problemi didatazione. Benché ciascuno dei suoi lavori dia un con-tributo innegabile a quella che viene convenzional-mente definita la storia delle forme, il suo percorsoartistico non sempre è facilmente ricostruibile.

L’ultimo pannello attribuito al maestro di Tours, gra-zie a un’intuizione del 1974 di Otto Pächt, confermataalcuni anni più tardi dalla scoperta di iscrizioni sotto-stanti in francese, il Ritratto di Gonella, il buffone diNiccolò III d’Este (Vienna, Kunsthistorisches Museum),è a questo riguardo esemplare. Venne dipinto alla finedel quarto decennio in Francia e poi inviato in Italia,dove la sua presenza è attestata nel XVII secolo da unacopia, o alla corte di Ferrara, e quindi nel 1441, comeè stato di recente proposto, o nel 1445, in occasione diun’eventuale sosta durante il viaggio verso Roma? Dallarisposta a questo interrogativo dipende l’idea che ci sipuò fare della giovinezza e del percorso artistico delmaestro di Tours. Molti specialisti concordano nel rite-nere che qui l’ascendente dei modelli eyckiani sia deter-minante, come dimostrano le dimensioni ridotte dellatavola, l’inquadratura estremamente ristretta che inter-

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rompe la composizione all’altezza delle braccia piegate,la descrizione meticolosa del modello e del suo abito elo sguardo diretto che sembra interrogare lo spettatore.Alcune caratteristiche, estranee ai ritratti nordici, nonsono tuttavia riconducibili neppure a influenze italiane,come, ad esempio, la singolare posa del personaggio, chi-nato in avanti con le braccia incrociate, che sembraessere una citazione letterale dal Maestro di Boucicaut.Il dinamismo e l’espressività della figura, raccolta in unblocco compatto, la schematizzazione delle pieghe, laripartizione quasi geometrica delle aree colorate nelcampo pittorico sembrano, al contrario, essere caratte-ristiche originali dello stile dell’artista. A nostro parere,vi sono molti argomenti che inducono a ritenere che sitratti di un’opera eseguita nel primo periodo della suaattività in territorio francese: l’utilizzazione di un sup-porto di quercia che Fouquet non poteva procurarsi inItalia (dove sembra che gli artisti durante i loro sposta-menti ricorressero a tele o a supporti di legno locale, ein particolare a quelli di pioppo), l’assenza di echi ita-liani in un pittore in seguito così ricettivo a questa cul-tura, il cambiamento radicale della concezione formale,che distingue questo ritratto, in cui viene impiegata unaformula ancora arcaizzante, da quelli, vedremo, giàmonumentali di Eugenio IV (perduto) e di Carlo VII(Parigi, Musée du Louvre). Ammettendo una datazioneanteriore al 1440, si comprende meglio, o almeno cosìci sembra, l’evoluzione di un pittore inizialmenteinfluenzato dalle formule del Maestro di Boucicaut (dicui, tuttavia, non poté frequentare l’atelier, chiuso versoil 1420), ma in seguito profondamente attratto dalleopere dell’ars nova fiamminga. In Italia, il Ritratto diGonella ha ispirato un’ammirevole effigie di vecchio amatita nera di Pisanello (Parigi, Musée du Louvre,département des arts graphiques, inv. 2336) che sembradatabile tra il 1440 e il 1444. Forse questo dipinto colpì

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anche il papa Eugenio IV, che nel 1438 si trovava a Fer-rara per il concilio, e lo convinse a rivolgersi a Fouquete a chiedergli di ritrarlo assieme a due dignitari. È un’i-potesi affascinante. Tuttavia, sia nel caso che si fosserecato in Italia per eseguire il ritratto del papa, sia chequesta richiesta gli fosse stata rivolta durante il sog-giorno nella Penisola, Fouquet fu certamente precedu-to da una fama di grande ritrattista, – “buon maestro,maxime a ritrarre del naturale”, riferisce più tardi l’ar-chitetto Filarete –, senza dubbio fondata su capacitàspecifiche, differenti da quelle dei suoi colleghi italianie fiamminghi. Un’incisione del XVI secolo e una medio-cre copia eseguita da Cristofano dell’Altissimo (Firenze,Galleria degli Uffizi) ci restituiscono, a quanto sembra,il ricordo, in entrambi i casi frammentario, di questodipinto su tela, che un tempo ornava la sagrestia dellachiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma; necessa-riamente eseguito tra il settembre del 1443, data delritorno di Eugenio IV nella città pontificale, e la mortedi quest’ultimo, sopraggiunta nel febbraio del 1447,questo ritratto rivela caratteristiche decisamente nuove:il modello è ritratto fino alla vita con le braccia apertenello spazio e le mani saldamente appoggiate su un tavo-lo; all’ampliamento della composizione contribuiva cer-tamente anche la presenza dei due dignitari, senza dub-bio leggermente arretrati rispetto al protagonista. Sem-bra che a questa triplice effigie di ecclesiastici, realisti-ca e, al tempo stesso, monumentale, si siano richiamatimolti artisti a Roma, a cominciare da Raffaello nelRitratto di Leone X e i suoi nipoti (Firenze, Galleria degliUffizi).

Il formato più ampio, l’inquadratura della figura amezzo busto, le proporzioni di grandezza quasi natura-le, in breve un’autorevolezza plastica senza precedenti,sono le caratteristiche che emergono in modo palese, enon più ipotetico, nel Ritratto di Carlo VII, il “vittorio-

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sissimo re di Francia”. L’iscrizione sulla cornice, diffi-cilmente databile e interpretabile, non dà alcuna preci-sazione riguardo al momento dell’esecuzione, che alcu-ni hanno proposto di datare al periodo immediatamen-te successivo alla tregua di Tours (1444), probabilmen-te prima del viaggio in Italia, o dopo la vittoria di For-migny, vale a dire, verso il 1450. Questa “immaginememorabile di un uomo debole e stanco e, allo stessotempo, effigie maestosa di un sovrano” (Sterling) rima-ne ancora fedele alla visione eyckiana adottata nel ritrat-to di Gonella, come dimostrano lo spazio ancora ristret-to, l’analisi impietosa del volto, la notazione minuziosadelle carni cadenti, del lungo naso inclinato verso ilbasso, dei piccoli peli bianchi sulla guancia e sul mento.A prima vista, non si osserva nessuna reminiscenza ita-liana. Non bisogna sottovalutare il peso dell’iconografiaufficiale che imponeva la presentazione frontale delmodello circondato da tendaggi. Resta il fatto che, all’in-terno di una cornice rigida e codificata, Fouquet inseri-sce sfumature tutt’altro che trascurabili: conferisce albusto e alla testa una leggerissima torsione per scavarelo spazio, accentua la larghezza delle spalle ben oltre leesigenze della moda e ritrae il suo modello fino alla vita.Ma, cosa ancora più sorprendente, organizza la superfi-cie quadrata del quadro con una nuova attenzione for-male, iscrivendo nella stretta losanga formata dai ten-daggi il triangolo invertito del busto e la piccola sferadella testa. Questa tendenza alla geometrizzazione delleforme, già iniziata nel Ritratto di Gonella, quest’atten-zione per una costruzione rigorosa e ampia diverrannocaratteristiche costanti della sua arte, nella pittura sutavola, così come nella miniatura. Si può ipotizzare cheFouquet avesse derivato questi procedimenti dagli arti-sti italiani, che si distinguevano per un approccio più sin-tetico alla realtà? Sì, ma a condizione di attribuirgli, nelcaso dell’opera giovanile presa in esame, una straordi-

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naria capacità di trasposizione, dal momento che i pit-tori della Penisola fino alla metà del secolo rimaserofedeli, almeno nei ritratti, alla formula del profilo linea-re e astratto. Visibile nella Sainte-Chapelle di Bourges,dove di tanto in tanto risiedeva la corte, il Ritratto diCarlo VII, divenuto in qualche modo il prototipo delritratto reale ufficiale, sembra sia stato effettivamentecompreso solo nel secolo successivo da Jean Clouet e daHolbein.

Anche nell’ambito di una commissione più modesta,la Pietà (Nouans-les-Fontaines, chiesa parrocchiale),probabilmente destinata a una chiesa di Touraine, Fou-quet rinnova radicalmente la figurazione di un tema tra-dizionale, optando per una composizione in fregio easimmetrica, straordinariamente stabile. Il tocco rapi-do che privilegia gli accenti essenziali combinato allostato di usura, ha fatto nascere alcuni dubbi riguardoal carattere autografo di questa grande pala monumen-tale, definitivamente messi a tacere dopo il restauro del1980. A favore di una datazione prossima a quella delRitratto di Carlo VII, militano le pieghe inamidate, aforma di canne d’organo, dell’immenso velo della Ver-gine, il suo volto denso e liscio da scultura lignea.

Con il dittico di Melun, oggi smembrato tra laGemäldegalerie di Berlino (Etienne Chevalier con santoStefano) e il museo di Anversa , giungiamo in presenzadi una delle più sorprendenti illustrazioni dell’ammira-zione di Fouquet per il Rinascimento italiano. Que-st’opera venne commissionata per la collegiata di Notre-Dame di Melun da Etienne Chevalier, illustre rappre-sentante di quell’“oligarchia di servizio”, reclutata nellefila della borghesia da Carlo VII e Luigi XI. La sontuosadecorazione di marmi bianchi e colorati che fanno dasfondo al donatore e al suo santo patrono, senza prece-denti nella pittura francese del tempo, si spiega solo conla conoscenza delle architetture toscane e con le tra-

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sposizioni di queste ultime, operate da Masaccio e inseguito, da pittori come il Beato Angelico, DomenicoVeneziano e Piero della Francesca. Coincidenza signi-ficativa, anche se non spiega tutto, alla fine del 1445,nello stesso periodo in cui Fouquet eseguiva il ritrattodel papa destinato alla chiesa di Santa Maria sopraMinerva, il Beato Angelico risiedeva nel convento dellastessa chiesa. L’artista francese ha senza dubbio presovisione della prima decorazione eseguita a Roma dalmonaco pittore su incarico di Eugenio IV, quella di unacappella (distrutta) di San Pietro, e forse persino dellaprima parte dei lavori eseguiti per Nicola V in Vatica-no. Non vi è invece alcun dubbio sulla sosta a Firenzedell’artista: la giustapposizione tra il profilo emaciato emalinconico di santo Stefano e il fervente san France-sco della Crocifissione, dipinta nel 1442 dal Beato Ange-lico nella Sala capitolare del convento di San Marco, nonpuò che confermarla, così come l’accostamento tra lastruttura di questa Vergine col Bambino, il cui trono èsostenuto da angeli disposti in file sovrapposte alle Mae-stà toscane della fine del Duecento. Senza dubbio la rap-presentazione dello spazio in prospettiva e il consisten-te rimpicciolimento delle lastre di marmo e di pavi-mentazione testimoniano il desiderio di competere congli italiani. Ma questa prova non è del tutto convincen-te: le linee di fuga non convergono verso un solo puntoe il rapporto tra i personaggi e lo sfondo architettonicorimane problematico. Fouquet inventa qui una formuladi presentazione del donatore e del suo santo patronoche farà scuola, come dimostrano i dittici e i trittici fran-cesi, soprattutto quelli eseguiti verso la fine del secolo:riconciliando la familiarità ricercata dai fiamminghi neiloro ritratti di donatori in preghiera, con ambizioni dicarattere spaziale e monumentale, egli ritrae le due figu-re fino alle anche, senza tuttavia rappresentarle nellaloro interezza, come spesso la tradizione imponeva nei

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grandi polittici. Nel pannello simmetrico in cui è raffi-gurata la Vergine, il pittore rappresenta le figure per dueterzi, riveste il trono, di un lusso un po’ sgargiante, conle stesse lastre di marmo venato. L’arcaismo spessoascritto a quest’anta non è imputabile solo all’iconogra-fia specifica della Vergine col Bambino in maestà, maanche alla riutilizzazione di una composizione più anti-ca, rivelata da un esame radiografico sotto il Ritratto diCarlo VII. Inizialmente concepita per un quadro isola-to, l’immagine è stata sviluppata in altezza per poteressere adattata a un pannello più grande – al punto chenon è facile capire se la Vergine sia in piedi o seduta –e artificialmente trasformata in anta di dittico dal gestodi designazione del Bambino. Tuttavia, ciò non signifi-ca che lo stile sia arcaico; liberatosi dall’intento reali-stico, d’obbligo nell’anta del donatore, Fouquet qui puòdar libero corso alle sue aspirazioni formali, moltipli-cando le forme sferiche – la rotondità dei volti e del senodella Vergine –, creando un gioco di linee verticali eorizzontali e conferendo ai volumi una densa e saldaconsistenza, accentuata dai riflessi.

Questo dittico era circondato da una spettacolarecornice di velluto blu, bordata dalle armi di EtienneChevalier e costellata di medaglioni di smalto dorato,tra cui ci è pervenuto solo quello con l’autoritratto delpittore. È dagli artisti italiani che quest’ultimo ripresel’idea di punteggiare la modanatura della cornice dimedaglioni circolari, un’abitudine diffusa tra i pittoritoscani? È possibile che avesse preso visione dei “vetridorati” paleocristiani su cui sono raffigurati volti inposizione frontale identificati da un’iscrizione laterale,rinvenuti nel corso degli scavi nelle catacombe? Ritro-viamo questa tecnica del chiaroscuro d’oro su fondoscuro, eseguito con un sottile tratteggio, nelle miniatu-re eseguite da Fouquet, il che dimostra, con la ricerca-tezza della fattura, la precisione fisiognomica e l’inten-

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to introspettivo, che l’artista si faceva carico in primapersona dell’esecuzione e che non ricorreva alla colla-borazione di uno smaltatore. Ma l’aspetto più interes-sante è che si tratta del primo autoritratto conosciuto diun pittore, posto vicino alla sua opera ma a una certadistanza, in modo da affermare le sue capacità creativee il suo status di artista: è possibile che qui Fouquet sisia ispirato all’esempio di Ghiberti che aveva inserito ilmedaglione col suo busto nelle porte nord (1424) ed est(1452) del battistero di Firenze?

Nel corso di tutta la sua carriera, Fouquet esercitò ilsuo eccezionale talento di ritrattista, ben presto ricono-sciuto dai suoi contemporanei, come dimostrano le testi-monianze, le prestigiose commissioni e il gran numerodi copie dipinte e incise delle sue opere, su supportidiversi; eseguì così due disegni che rappresentano rispet-tivamente un legato del papa (New York, The Metro-politan Museum of Art) e la testa di Guillaume Jouve-nel des Ursins (Berlino, Kupferstichkabinett), il più altodignitario del regno; si tratta di due studi dal vero ese-guiti in vista di un ritratto dipinto (che nel primo casoè andato perduto) e di una delle prime testimonianzesopravvissute di questa pratica nella Francia del XVsecolo. Si notano alcune differenze tra questi due foglie, in particolare, nell’inquadratura, nelle proporzionidei volti e nella tecnica: il primo, infatti, è eseguito apunta di metallo con lumeggiamenti di matita nera,mentre il secondo è realizzato a matita nera con pastel-lo rosa e lumeggiamenti di diverse matite colorate,“incunabolo di pastello” per usare un’espressione diMax J. Friedländer e crayon francese ante litteram.

Ma le somiglianze tra i due disegni sono tutto som-mato più rilevanti: in entrambi i casi, infatti, l’artistaricorre a una carta preparata, la “carta tinta” il cui usoera largamente diffuso in Italia, a una presentazione ditre quarti, spesso privilegiata nelle sue opere, dei model-

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li, la cui guancia destra, quella più in vista, è investitadalla luce (mentre Van Eyck illumina il lato visto di scor-cio). Come nello smalto del Louvre, Fouquet qui dimo-stra di saper sfruttare con una notevole intelligenza leparticolari risorse di ogni tecnica per creare una straor-dinaria sensazione di vita e tradurre, in pochi tratti esenza alcun compiacimento aneddotico, il cedimentodei tratti di entrambi i personaggi, lo sguardo imperio-so del legato e il temperamento calmo e riflessivo delcancelliere. La visione, ampia e sintetica, è la stessa.

Nella testa di Berlino, perfettamente sovrapponibilea quella del grande ritratto del Louvre, si scorge ancheil ricordo quasi familiare della seduta di posa e la primaidea dell’imponente effigie dipinta. La posa del cancel-liere, raffigurato nell’atto di pregare, e la direzione delsuo sguardo presuppongono l’esistenza di una Verginecol Bambino oggi perduta, e forse persino di un terzopannello in cui appariva la moglie del dignitario. Tuttii critici concordano nel ritenere che si tratti di un’ope-ra posteriore ai ritratti di Carlo VII e di Etienne Che-valier: la fattura è infatti più larga e, al tempo stesso,meno levigata, e l’impaginazione è più ambiziosa. Percontrobilanciare l’ampiezza delle spalle, qui la figuraviene considerevolmente sviluppata in altezza rispetto aiprecedenti ritratti e si interrompe molto al di sotto delleanche. Lo sfondo riveste un’importanza capitale: proiet-tando il busto del cancelliere in avanti, l’artista sottoli-nea la sua grande plasticità; egli struttura attraverso ungioco di linee verticali l’insieme della composizione,“incorniciando”, allo stesso tempo, la testa, iscritta nelritaglio di una lastra di marmo; ma soprattutto, contri-buisce, con l’ostentata sontuosità di una decorazioneimmaginaria, solo vagamente ispirata all’arte italiana,contrariamente a quella del ritratto di Etienne Cheva-lier, e in parte dettata da esigenze araldiche, a persua-dere lo spettatore dell’eminente posizione sociale del

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modello; questa decorazione diviene, assieme al riccoabito, l’emblema del suo successo. La monumentale effi-gie di Jouvenel des Ursins – che forse Jean Clouet e Hol-bein poterono ammirare a Tours o a Parigi –, appare cosìcome il prototipo di una lunga serie di ritratti in cui l’in-teresse per la rappresentazione del personaggio prevalesull’attenzione per l’individuo, in breve, come il pre-cursore del “ritratto di stato” per citare un’espressionedi Konrad Oberhuber. All’epoca dell’artista, questa con-cezione radicalmente nuova non suscitò nessuna eco.

Nell’Ottocento, Fouquet fu riscoperto soprattutto apartire da alcuni libri miniati e, in particolare, grazie alleAntiquités Judaïques, alle Ore di Etienne Chevalier e alBoccaccio di Monaco (Bayerische Staatsbibliothek, Cod.gall. 6). A eccezione della rondella su vetro con lo stem-ma di Laurent Girard, è in questo campo che sono stateeffettuate le scoperte più interessanti, fondamentali perla conoscenza della sua arte: tre fogli aggiunti comefrontespizi provenienti dalle Ore di Simon de Varie (Mali-bu, J. Paul Getty Museum, ms. 7), due miniature con-tenute in un Libro d’ore per Angers e altri due mano-scritti eseguiti dall’artista e dalla sua cerchia, entrati afar parte delle collezioni della Bibliothèque Nationale diParigi (mss. nouv. acq. lat. 3187 e 3203).

Nelle Ore di Angers, la cui decorazione, probabil-mente eseguita in questa città verso il 1450-1455, nelperiodo in cui essa ospitava re Renato e la sua corte, èopera di molti artisti, tra cui il Maestro di Jouvenel eFouquet; l’edificio circolare dotato di una cupola fora-ta da un oculus che appare nell’Annunciazione (f. 35)sembra un evidente ricordo del Pantheon romano. Magli echi del soggiorno al di là delle Alpi, forse percetti-bili anche nell’iconografia dello splendido San France-sco che riceve le stimmate (f. 241), sono ben più nume-rosi e significativi nel capolavoro di Jean Fouquet, leOre di Etienne Chevalier.

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Qui non ci troviamo più in presenza di un vero e pro-prio manoscritto, dal momento che, nel XVIII secolo,l’opera fu smembrata: le miniature a piena pagina ven-nero asportate e in gran parte applicate su pannelli dilegno, divenendo così “quadri” autonomi. Eseguito,come il dittico di Melun, per il tesoriere di FranciaEtienne Chevalier, probabilmente tra il 1452 e il 1461,questo libro sontuoso, il solo a esser stato decorato esclu-sivamente dall’artista, si discosta completamente dalletradizioni allora in vigore. Le miniature si sviluppano apiena pagina, a discapito del tradizionale bordo a race-mi. Qui l’artista alterna due scelte differenti: la primaviene adottata nelle miniature che aprono le principalisezioni del testo, che ormai riempiono tutta la pagina,ma recano sul margine inferiore un fregio blu o rosa sucui appare un rigo di testo redatto in lettere capitali, conuna grafia ispirata a quelle antiche; la seconda, applica-ta alla maggior parte dei suffragi dei santi, prevede duelivelli rappresentativi abilmente connessi tra loro: il regi-stro inferiore, trattato in primo piano, include l’inizia-le decorata e il testo (oggi coperto) sotto la forma diun’insegna in trompe-l’œil sostenuta da angeli, putti oselvaggi, oltre che le armi del tesoriere e piccoli quadriche rappresentano scene della vita del santo in questio-ne, quindi, più in alto e in posizione decisamente arre-trata rispetto a quest’ultimo, la storia vera e propria.Questa formula, adottata anche in un Libro d’ore piùmodesto, forse dipinto per Antoine Raguier, cognato diEtienne Chevalier (New York, Pierpont MorganLibrary, ms. 834), ha fatto scuola nelle miniature dellaFrancia centrale. La concezione della pagina obbediscea un’attenzione senza precedenti per l’articolazione spa-ziale, fondata sull’applicazione più o meno rigorosa didiversi tipi di prospettiva (prospettiva centrata “all’ita-liana”, obliqua con due punti di fuga, detta “cornuta”o “diffusa”, e persino curvilinea, come quella della cele-

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bre Carità di san Martino del Louvre in cui la pavimen-tazione sembra accompagnare il movimento circolaredella composizione). Questo procedimento, radical-mente nuovo nella Francia del XV secolo, rivela nontanto un intento sperimentale quanto il desiderio diFouquet di articolare il campo pittorico per aree geo-metriche, come nelle sue opere su legno e di dotare i suoiquadri di una base e di una presentazione di maggiorrespiro, allontanando l’orizzonte all’infinito. Egli fa suaanche la prospettiva atmosferica dei maestri fiamminghi,inaugurata dal Maestro di Boucicaut, sulle cui lezionil’artista meditò attentamente, per distribuire ancora piùin lontananza i piani. “Pittore di una natura compagnadell’uomo” (Focillon), Fouquet compone paesaggi –vedute di Parigi, in cui le architetture che emergonodalla città sono raffigurate con una straordinaria preci-sione topografica, e di una valle della Loira sorridentee misurata – che conferiscono autenticità e familiaritàalle scene istoriate. Le pose dei personaggi, inseriti conincomparabile naturalezza in questi paesaggi familiari,sono studiate con passione: attraverso la resa dei movi-menti dei corpi, della loro pesantezza, l’artista riescecosì a cogliere l’intima essenza di ogni gesto, conferen-dogli un valore eterno. Focillon ha esaurientementespiegato come questo gusto della stabilità e dell’orga-nizzazione dei ritmi fosse profondamente radicato nellagrande tradizione della scultura monumentale francese.Si è molto insistito sull’italianismo delle Ore di EtienneChevalier; indubbiamente, come nelle otto miniaturedelle Ore Morgan, gli esempi dei motivi presi a presti-to al Rinascimento transalpino, abbondano: i putti alatiche trasportano ghirlande, forse presi a prestito daDonatello, così come il repertorio ornamentale d’ispi-razione fiorentina, che viene a sostituire la tradiziona-le decorazione gotica. La ricerca della prospettiva,anche se empirica, gli scorci, talvolta brutali, cui essa

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dà luogo (le groppe eccessivamente ampie dei cavalli suuna strada parigina, lo scheletro abbandonato in primopiano nel David in preghiera della British Library, ilmassiccio bue che sotto un pergolato investito dal solescende quasi rotolando verso san Luca nelle Ore Mor-gan) e certe ricerche luministiche si spiegano solo conuna conoscenza diretta delle esperienze italiane con-temporanee: Fouquet ha saputo avvalersi di queste con-quiste “moderne” proprio perché esse si ricollegavanoalle sue preoccupazioni quotidiane e lo inducevano “aportare a compimento forme pittoriche (e forse sculto-ree) tradizionali” (Pächt).

Il ricorso, così frequente nella sua opera, a una tavo-lozza ridotta a quattro tinte essenziali – rosso, verde, blue bianco – è evidente soprattutto nelle Ore di Simon deVarie che presentano, in particolare nelle pagine araldi-che, capolavoro d’invenzione poetica, ingegnosi effettidi contrappunto cromatico. Si osservano inoltre in que-sto libro altre due scelte caratteristiche del maestro diTours: la raffinata utilizzazione del bianco su bianco,riscontrabile anche nella vetrata con lo stemma di Lau-rent Girard, nella Pietà di Nouans e nel frontespiziodegli Statuts de l’ordre de Saint-Michel (Parigi, Bibliothè-que Nationale, ms. fr. 19819), e l’impiego di tratteggio punteggiature in oro per sottolineare gli accenti di lucee, più raramente, le zone d’ombra, vera e propria firmadell’artista. Si può ritenere che questo singolare proce-dimento – frequentemente imitato nella sua cerchia –fosse una reminiscenza delle soluzioni proposte da Gen-tile da Fabriano nella pala Strozzi dipinta a Firenze(Galleria degli Uffizi)?

Nella sequenza dei libri storici, di carattere biblico,antico o moderno, è possibile valutare ancora più afondo il suo genio epico e i mezzi impiegati per darcorpo a una riflessione sul testo illustrato che non haprecedenti nel campo della miniatura. Il ruolo fonda-

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mentale del colore nell’organizzazione plastica del dipin-to è percettibile soprattutto nel grande frontespizio delBoccaccio di Monaco, in cui viene descritto il letto digiustizia di Vendôme (1458): il cromatismo, inizialmentecondizionato dall’azzurro fiordaliso e dai colori dellostemma di Carlo VII ma che riappare negli abiti deinumerosi assistenti, concorre a strutturare la scena nellastessa misura dell’implacabile disposizione a losanga edella prospettiva lineare. La scelta di un punto di vistasopraelevato consente di porre in evidenza, al puntod’incontro tra le linee di fuga, la figura del re, presen-tata più come immagine emblematica del potere checome ricordo di un preciso sovrano. Uno degli aspettipiù sorprendenti del genio di Fouquet, evidente anchenelle Grandes Chroniques de France (Parigi, BibliothèqueNationale, ms. fr. 6465), è proprio quello di saper tra-scendere l’avvenimento religioso, storico o politico. Allostesso modo, organizzando sapientemente la scena attra-verso la luce, l’onnipresenza del bianco e il ritmo solen-ne dei panneggi, la rappresentazione immaginaria di uncapitolo dell’ordine di san Michele nell’esemplare deglistatuti di quest’ordine tenuto dal re, diviene una figu-razione ideale dell’autorità regia.

Verso il 1465, quando riprese, su incarico di Jeand’Armagnac, duca di Nemours, la decorazione delleAntiquités Judaïques di Flavio Giuseppe (Parigi,Bibliothèque Nationale, ms. fr. 247), iniziata per Jeande Berry, Fouquet non aveva davanti a sé una tradi-zione iconografica ben definita: poteva quindi tradur-re liberamente in termini visivi il grandioso destino delpopolo ebreo, ed esprimere il contenuto morale di untesto in cui si scorgeva soprattutto l’evocazione di unapagina della storia antica. Con una nuova attenzioneper il colore locale, l’artista ricerca ambienti e costumicredibili per un passato così antico. Ai protagonistidisposti in primo piano in ogni scena, succedono ormai

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moltitudini compatte e solenni, sapientemente ordina-te e fuse in una natura e delle architetture maestosecome gli eventi che in esse si svolgono. Fouquet divie-ne così l’inventore del “paesaggio storico”, per ripren-dere una formula di Focillon, pervaso da uno spiritodivino. Tra la massa dei personaggi, che il maestro diTours priva di ogni traccia di individualità, e questiimmensi spazi vi è un’osmosi perfetta. La gamma cro-matica diviene più dolce e opaca, anche se in primopiano spesso risalta il bianco luminoso dei panneggi. Lapiù grande conquista di Fouquet è stata indubbiamen-te quella di aver saputo giungere a una comprensionedel plein air e delle gradazioni di luce in lontananza, benpiù profonda di quella dei suoi contemporanei france-si, fiamminghi e italiani.

Nelle quattro miniature sopravvissute di un mano-scritto della Histoire ancienne (Parigi, Musée du Louvre),una compilazione francese in cui sono descritti celebriavvenimenti del periodo compreso tra la Creazione e l’e-popea di Cesare, tutte queste caratteristiche sono por-tate al parossismo; si ritiene quindi che quest’opera son-tuosa, il cui destinatario rimane sconosciuto, sia stataeseguita in un momento successivo – dopo il 1470 overso il 1475. Qui i movimenti sembrano sospesi, leazioni bloccate, come per accentuare il valore eternodegli avvenimenti, e i paesaggi si dilatano all’estremo.Fiumi dalle curve sinuose, alberi di dimensioni decre-scenti e boschetti disposti in cortine parallele guidanolo sguardo verso lontananze inaccessibili. La sapientemodulazione dell’atmosfera, il ricorso a una tavolozzaspenta e cupa, che attenua la successione dei piani, crea-no una sensazione di infinito.

Se nessuno dei contemporanei di Fouquet ha saputovalutare la sua eccezionale immaginazione visiva né ilsuo genio epico, in compenso numerosi miniaturisti nellaFrancia centrale e in altre regioni del paese, hanno preso

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a prestito dalle sue opere motivi, soluzioni compositivee procedimenti pittorici. Si è a lungo creduto che la dif-fusione di queste formule fosse avvenuta attraverso unfiorente atelier che il maestro avrebbe posseduto a Tourse che sarebbe stato attivo anche dopo la sua morte, gra-zie ai suoi due figli, Louis e François, noti pittori. Ma,alcune recenti ricerche sembrano dimostrare l’infonda-tezza di queste ipotesi. Sembra inoltre che Fouquet nonsi rivolgesse abitualmente a una sola bottega di minia-turisti. A parte alcuni casi eccezionali (le Ore di EtienneChevalier), l’artista dipingeva libri preparati da altri conuna decorazione secondaria sempre diversa; gli capitòanche di apporre il suo “marchio” su opere ordinarie,quasi compiute, come le Ore di Angers. Questa pratica,così come l’abbondante produzione commerciale nelperiodo compreso tra il 1470 e il 1480 di opere ispirateai suoi lavori, traduce efficacemente l’infatuazione gene-rale per lo “stile Fouquet”.

La Francia occidentale

Nei diversi tentativi di disegnare una “cartografia”della miniatura francese del XV secolo, rimangono molteincertezze. I caratteri codicologici (calendario, partico-larità liturgiche) di un libro di preghiera, ad esempio,spesso decisivi per identificare il suo luogo d’esecuzio-ne, devono essere considerati con cautela. Dove situarela produzione di quello che ormai viene definito il “grup-po Jouvenel” dal nome del destinatario dell’opera piùimportante di questo insieme di manoscritti, il Marehistoriarum (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat.4915) decorato nel periodo compreso tra la fine deglianni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta? A Tours,ad Angers o a Nantes? Un tempo considerate opere gio-vanili, esenti da ogni italianismo, di Fouquet, poi come

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lavori di uno dei suoi collaboratori – il Maestro di Jou-venel –, i libri riuniti sotto questa definizione sarebbe-ro, secondo gli specialisti contemporanei, opera di alme-no tre distinte personalità, forse legate da vincoli diparentela, il Maestro di Jouvenel propriamente detto,che adotta la nuova visione fiamminga, pur rivelando nelcolorito cangiante il debito che lo lega al Maestro diBedford, il Maestro del Boccaccio di Ginevra, più gio-vane di una generazione, caratterizzato da uno stile piùvivace e che, a partire dal 1460, entrò al servizio diRenato d’Angiò, seguendolo forse in Provenza dopo il1471, e infine, il Maestro di Boezio che si mostra par-ticolarmente a suo agio nella rappresentazione di inter-ni e che dirigeva una vera e propria équipe di miniatu-risti. Dove e quando svolse la sua attività uno dei pit-tori più originali della Francia occidentale, il Maestro diBarthélemy l’Anglais, così chiamato dal nome dell’au-tore, vissuto nel Duecento, del testo del suo principalemanoscritto, decorato verso il 1445, il Livre des pro-priétés des choses (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr.135-136)? Nella sorprendente pagina di presentazioneche fa da frontespizio al manoscritto, quest’artista simostra refrattario ad ogni tentativo di approfondimen-to. I suoi personaggi, caratterizzati da volti angolosi edespressivi, da gesti impetuosi e un po’ bruschi, sonodotati di una “singolare presenza fisica” (J. Plummer).I differenti fenomeni naturali evocati in questo tratta-to enciclopedico, divengono sotto il suo pennello pae-saggi visionari, talvolta fantastici. Ora, le stesse figuretese, definite più dai forti contorni che da un vero e pro-prio modellato e la stessa audacia delle impaginazioni,si ritrovano nella vetrata del transetto nord della catte-drale di Saint-Julien a Le Mans in cui sono raffigurati iduchi d’Angiò, Luigi I e Luigi II, con le loro consorti edue prelati di Le Mans. Questa personalità forte, ma,tutto sommato, “ritardataria” (O. Pächt), che probabil-

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mente svolse la sua attività tra il Maine e l’Angiò, eraindubbiamente quella di un pittore molto rappresenta-tivo del suo tempo, miniatore, fornitore di cartoni pervetrate e arazzi (la Caccia al falcone del Victoria andAlbert Museum di Londra), forse non privo di espe-rienza nel campo della pittura murale: N. Reynaud hapersino pensato di scorgere la sua mano nel celebreTrionfo della Morte dell’antico ospedale di Palermo (oggiGalleria Nazionale della Sicilia), ma finora non è riuscitaa spiegare le circostanze storiche di quest’insolita com-missione.

Bourges: il mecenatismo di Jacques Cœur

Il brillante periodo artistico che Bourges conobbeverso la metà del secolo è legato alla persona dell’ar-gentiere di Carlo VII, il fastoso Jacques Cœur; nel 1451,il suo improvviso arresto mise bruscamente fine all’at-tività di uno straordinario pittore, certamente prove-niente dall’estero. Nonostante sia stata pesantementeridipinta, la volta decorata da venti figure di angeli dellacappella della sua residenza, rivela un’organizzazionedello spazio, una scienza degli scorci, un plasticismo e unrealismo fisiognomico che vengono concordementericondotti alla cultura fiamminga, e, più in particolare,eyckiana. Ritroviamo questo linguaggio “moderno”all’interno della cattedrale, nelle vetrate della nuovasagrestia e soprattutto nella vetrata della cappella del-l’argentiere in cui è raffigurata un’Annunciazione, chedeve molto alle formule iconografiche impiegate dai mae-stri fiamminghi degli anni 1440-1450. Per la prima voltanel campo dell’arte vetraria la finestra intera è occupa-ta da una raffigurazione unica e coerente: la tradiziona-le divisione in lastre lanceolate – in cui ogni personag-gio è raffigurato in una nicchia separata sotto un bal-

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dacchino – viene qui abbandonata a vantaggio di unospazio unificato, costruito secondo le regole di una pro-spettiva centrata che tiene conto della posizione dellospettatore. A questa data (1451), a eccezione di Barthé-lemy d’Eyck e forse di Fouquet, la cui produzione “gio-vanile” è ancora oggetto di discussione, nessun pittorenel territorio francese rappresentava figure così decisa-mente scultoree, avvolte in pesanti mantelli dalle piegheprofondamente incavate e dalle stoffe sontuosamentelavorate. L’ideazione dell’Annunciazione – considerata lavetrata francese più ingegnosa del secolo – va indubbia-mente ascritta non a un pittore vetraio, ma a un pittoredi mestiere, a cui forse fu affidato il compito di conce-pire ed eseguire l’insieme della decorazione della cappella(incluse le pitture murali e la pala d’altare) e che in ognicaso è l’autore degli Angeli del palazzo di Jacques Cœur:è forse possibile identificare questo maestro fiammingocon Jacob de Littemont, “Jacob il pittore”, segnalatocome debitore dell’argentiere e che successivamenteentrò al servizio di Carlo VII e di Luigi XI?

Parigi verso la metà del secolo

Parigi conobbe una ripresa dell’attività artistica soloverso la metà del secolo: dopo il 1436, anno in cui furiconquistata dalle truppe reali, una grave crisi econo-mica, seguita da un’epidemia paralizzarono infatti alungo questa città. Benché il re si fosse stabilito inTurenna, la presenza delle corti sovrane, oltre che ilmiglioramento delle comunicazioni e l’esenzione fiscalericonosciuta nel 1443 agli stranieri che desideravanostabilirsi in città, contribuirono fortunatamente adattrarre a Parigi numerosi artisti, spesso venuti dalNord. Eclatante simbolo di questa ritrovata vitalità, laCrocifissione commissionata verso il 1452 dal Parlamento

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di Parigi (Parigi, Musée du Louvre) per sostituire nellaGrande Chambre quella eseguita nel 1406 da Colart deLaon, mostra una aperta adesione all’ars nova fiammin-ga, evidente nella fattura accurata, nella precisa descri-zione dei monumenti parigini (la Tour de Nesles, il Lou-vre, il Palais...), nella tipologia dei personaggi, ripresada Rogier van der Weyden, come i loro gesti legger-mente contratti e i loro panneggi angolosi. Ci troviamoqui in presenza di un’opera assolutamente non compa-rabile alla tavola, eseguita nello stesso periodo, in cui èritratta la famiglia Jouvenel des Ursins (Parigi, Musée deCluny), un dipinto arcaizzante nella formula di presen-tazione e povero nell’esecuzione e nell’ispirazione, ealla produzione del Maestro di Dunois che proseguì,fino al settimo decennio, l’attività dell’atelier del Mae-stro di Bedford (e che per questa ragione viene fre-quentemente designato come “il principale socio” delMaestro di Bedford) dopo la morte di quest’ultimo,sopraggiunta verso il 1435-1440. Il Maestro di Dunoislavorò per una clientela composta da grandi capi milita-ri (tra cui per l’appunto Dunois), di alti funzionari regi(Etienne Chevalier, Simon de Varie e Jouvenel desUrsins, che furono anche clienti di Fouquet), e di eccle-siastici affascinati dalla sua verve aneddotica e dai suoipaesaggi dagli orizzonti sfumati. N. Reynaud gli harecentemente attribuito una pala in cui è raffigurato untrono di Gloria al centro di un coro di canonici (Parigi,Ecole des Beaux-Arts), probabilmente destinata a unacollegiata parigina. Dopo la metà del secolo, il Maestrodi Dunois si associò a pittori più giovani, che si limita-vano, a quanto sembra, a operare come miniaturisti, e,in particolare, al Maestro di Jean Rolin che, col MaestroFrançois, a capo di un atelier molto attivo a cui è attri-buita la decorazione di una cinquantina di manoscritti,ma il cui ingegno appare un po’ limitato, dominò la pro-duzione dei libri di qualità. In questo campo, Parigi

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seguitò a essere il centro più attivo, se non più inventi-vo, e attrasse costantemente una clientela di amatori edi notabili talvolta provenienti da altri paesi.

I bibliofili si rivolsero anche a un altro gruppo di arti-sti, meno coinvolti in questa produzione di caratterestrettamente commerciale, la cui qualità declinò a causadelle imitazioni di mediocri epigoni: sembra che in que-sto caso ci si trovi in presenza di pittori di mestiere, cheeseguivano sia decorazioni di manoscritti e quadri, siacartoni per vetrate e per arazzi. Il più anziano di questiartisti dipinse appunto, tra il 1453 e il 1455, la Croci-fissione per il Parlamento di Parigi, di cui si è parlatosopra. Sono state avanzate diverse ipotesi di identifica-zione di questo artista di origine nordica, influenzatosoprattutto da Rogier van der Weyden e attratto dal-l’aneddoto e dagli aspetti pittoreschi, per il quale sonostati fatti i nomi di Philippe de Mazerolles, Jacob de Lit-temont, Louis le Duc, André d’Ypres. Alcuni gli attri-buiscono l’anta destra di una pala dipinta a grisaille incui è raffigurata una donatrice con le sue due figlie (col-lezione privata), un trittico della Passione disperso traMalibu (J. Paul Getty Museum), Montpellier (MuséeFabre) e una collezione privata in cui figurano anchealcuni ricordi di Robert Campin. Ora, queste due operesono state eseguite su incarico di un dignitario reale, ilprevosto dei mercanti di Parigi nel periodo compreso trail 1452 e il 1456, Dreux I Budé e della sua consorteJeanne Peschard; la seconda era destinata a ornare lacappella che la coppia aveva fondato nel 1454 nella chie-sa di Saint-Gervais. Il Maestro di Dreux-Budé, perimpiegare il nome convenzionale che gli è stato attri-buito da Sterling, è certamente l’autore dei cartoni dialcune vetrate della navata della chiesa di Saint-Séverina Parigi – ulteriore argomento a favore dell’ipotesi di unprolungato soggiorno dell’artista nella capitale –, e di ungruppo di manoscritti caratterizzati da un disegno mor-

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bido e da un’esecuzione accurata, e in cui compaiono glistessi personaggi longilinei dai gesti espressivi ma un po’bruschi, dalle pose instabili e dagli audaci scorci pro-spettici, delle pale precedentemente menzionate. Que-ste caratteristiche stilistiche e alcune considerazioni dicarattere codicologico suggeriscono che l’artista fosse incontatto con la Francia settentrionale, dove del resto siriscontrano echi della sua maniera. Basandosi su questeconsiderazioni, N. Reynaud ha suggerito, a titolo diipotesi, il nome di André d’Ypres, un pittore e minia-turista originario di Amiens, segnalato in questa città dal1425 al 1443, nel 1428 maestro a Tournai e stabilitosia Parigi verso il 1450, dove morì prima del 1478.

Nelle sue opere si scorgono sorprendenti legami conla produzione di un artista più giovane, chiamato Mae-stro di Coëtivy da un Libro d’ore destinato a Olivier deCoëtivy (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek,cod. 1929), ugualmente legato a fonti settentrionali,che si rivela un miniaturista di primo ordine. Tra il1450 e il 1495, questo artista si stabilì a Parigi, dove,incoraggiato dalla famiglia reale, dalla corte e dai fun-zionari che gravitavano attorno a quest’ultima, intra-prese una brillante carriera. Diresse una bottega moltoattiva – a cui sono stati attribuiti una trentina di mano-scritti – e influente, a giudicare dal gran numero dicopie che riproducono le sue miniature. Il capolavoro delmaestro, l’Histoire ancienne (Parigi, Bibliothèque Natio-nale, ms. fr. 64) eseguita verso il 1460-1465, rivela unatavolozza ricca, dalle tonalità a volte sorprendenti, unaprofonda sensibilità, del tutto nuova nella Francia del-l’epoca, per le condizioni atmosferiche e una resa sotti-le della prospettiva aerea che conferisce alle sue vedutedi città e ai suoi paesaggi un’estensione illimitata, com-parabile in quegli anni solo a quella delle opere di Fou-quet. Ritroviamo queste straordinarie qualità in unapala d’altare, la Resurrezione di Lazzaro (Parigi, Musée

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du Louvre), popolata dagli stessi personaggi robusti,caratterizzati da proporzioni massicce, da figure maschi-li talvolta caricaturali, ritratte in pose dinamiche. IlMaestro di Coëtivy fu anche un esecutore di cartoni pervetrate molto apprezzato (come dimostra la triplicevetrata in cui è raffigurato il Salvatore tra la Vergine esan Giovanni del coro della chiesa di Saint-Séverin,ancora a Parigi) e di arazzi (la Guerra di Troia, la Distru-zione di Gerusalemme): la fortuna di questi parati fuconsiderevole, dal momento che due mercanti di Tour-nai, Pasquier e Jean Grenier, li replicarono più volte inlussuose tessiture. Fatto eccezionale, ci sono pervenutisei disegni completi e tre frammentari (Parigi, Musée duLouvre) della Guerra di Troia, vale a dire la maggiorparte degli undici “piccoli modelli” forniti agli esecuto-ri dei cartoni; si tratta di veri e propri disegni a pennalumeggiati all’acquerello, incontestabilmente originaliper vivacità e realismo descrittivo. L’importanza dellecommissioni ottenute, la sua rapida notorietà e l’inten-sa attività che svolse a Parigi tendono ad avvalorare larecente ipotesi secondo cui questo artista andrebbe iden-tificato con Colin d’Amiens, pittore, miniaturista e“istoriatore”, “borghese di Parigi”, originario della Pic-cardia, ma stabilitosi verso la metà del secolo a Parigi,dove, tra il 1461 e il 1495 è possibile seguire le traccedella sua attività. Ingaggiato da Luigi XI per le esequiedi Carlo VII e in numerose altre occasioni, era figlio diquell’André d’Ypres che alcuni storici hanno identifi-cato col Maestro di Dreux-Budé, la cui produzione pre-senta molte analogie con quella del Maestro di Coëtivy.Ora, Colin d’Amiens è l’autore del cartone di un grup-po scultoreo, raffigurante un Seppellimento di Cristo,ordinato nel 1495 (Malesherbes, cappella del castello),che presenta evidenti analogie con la Resurrezione diLazzaro e le vetrate di Saint-Séverin. Quest’ipotesi èavvalorata anche dalla presenza nell’Histoire ancienne di

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una fedele veduta della cattedrale di Amiens e dall’esi-stenza di rapporti sia formali che tecnici con vari mano-scritti eseguiti nello stesso periodo nella Francia setten-trionale.

La Francia settentrionale

Con l’espressione di “Francia settentrionale” si desi-gna abitualmente l’insieme delle province francofone, inparte soggette all’autorità del duca di Borgogna: la Pic-cardia, il Boulonnais, l’Artois (con Arras, Hesdin eSaint-Omer), la Fiandra vallone (con Lille e Douai), unaparte dell’Hainaut (con Valenciennes). Dal trattato diArras (1435) al 1465, anno della ripresa delle ostilità daparte di Carlo il Temerario, questa regione di frontieraconobbe una nuova prosperità immediatamente seguitada una ripresa delle attività artistiche. La vicinanza conle Fiandre consentì certamente di acquisire una profon-da conoscenza del nuovo realismo, tanto più che gli arti-sti si spostavano frequentemente all’interno di questoterritorio ad alta densità urbana per far fronte alle nume-rose commissioni: Jacques Daret, ad esempio, originariodi Tournai e allievo di Campin, soggiornò ad Arras nel1433 e poi tra il 1446 e il 1457 e Simon Marmion lasciòAmiens, sua città natale, per stabilirsi a Valenciennes.

Malgrado gli elementi palesemente ripresi dall’artedei Paesi Bassi, soprattutto sul piano iconografico edella tipologia fisiognomica, la maggior parte dei pitto-ri locali forgiarono uno stile originale che non può esse-re ridotto a un idioma provinciale. Del resto, l’adesio-ne alle novità fiamminghe fu inizialmente timida, comedimostra il più antico tra i Puy d’Amiens che ci sonopervenuti, il Sacerdozio della Vergine (Parigi, Musée duLouvre). Ricordiamo che ogni anno, dal secondo quar-to del XV secolo fino al 1666, la confraternita del Puy

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Notre-Dame, una società letteraria interessata alle arti,commissionò, attraverso un maestro eletto annualmen-te, un quadro per la cattedrale (ritroviamo questa con-suetudine anche ad Abbeville). L’autore del pannellodipinto nel 1438 che può essere identificato con il Mae-stro delle Ore Collins (Filadelfia, Philadelphia Museumof Art, ms. 45-65-4), il più notevole miniaturista diAmiens verso il 1440, si richiama nel trattamento in pro-spettiva della chiesa alle formule elaborate dal Maestrodi Boucicaut; la presentazione dei personaggi segueancora le leggi della gerarchia; solo il leggero chiaroscu-ro e il ritratto vigoroso e preciso del merciaio Jean duBos sembrano reminiscenze di Campin.

Il gusto per la simmetria e la verticalità, due costan-ti della pittura di questa regione, sembrano radicarsi inuna produzione locale particolarmente fiorente nell’e-poca che ci interessa, l’arazzeria. L’Assunzione della Ver-gine, ad esempio, uno degli elementi del polittico dipin-to verso la metà dell’ottavo decennio per l’abbazia diSaint-Riquier (Saint-Riquier, Centre Culturel de l’ab-baye) si avvicina nei ritmi decorativi e nella stilizzazio-ne grafica ai parati tessuti nel nord della Francia e neiPaesi Bassi meridionali; queste caratteristiche erano giàpercettibili nelle due ante di un trittico, risalenti al1451, sul retro delle quali è raffigurata un’Annuncia-zione (New York, The Metropolitan Museum of Art);le due figure, di indiscutibile ascendenza weydeniana, sistagliano con sorprendente nitidezza sullo sfondo rossostellato. Ritroviamo le pieghe rigide e angolose dei loropanneggi in un’opera considerevolmente più tarda edestremamente rappresentativa dell’arte, tutto sommatoconservatrice, delle regioni settentrionali, i pannelli delpolittico di Thuison-les-Abbeville oggi dispersi tra Chi-cago e San Pietroburgo, e, in particolare, nei quattrograndi personaggi delle facce posteriori, indubbiamen-te monumentali, ma che una fattura eccessivamente

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lineare ha privato di rilievo. Malgrado la successione deipiani e i violenti scorci prospettici, non è percettibilenessun effetto di profondità nelle quattro scene dellaPassione, originariamente visibili da entrambi i lati diuna cassa centrale scolpita (perduta): la scrittura è trop-po asciutta e i colori sono troppo schietti e contrastan-ti per creare una sensazione atmosferica. L’opprimenteimpressione di horror vacui che emana dalla Cena, adesempio, caratterizzava già la prima opera conosciuta,risalente al 1461, di un pittore molto probabilmente diorigini nordiche, Nicolas Froment, che alcuni anni piùtardi si stabilì a Uzès: oggi sappiamo che la Resurrezio-ne di Lazzaro (Firenze, Galleria degli Uffizi), a lungoritenuta un’opera dipinta in Provenza, venne eseguitaper un legato italiano, Tommaso di Guccio Coppini, chesoggiornò in Inghilterra e nei Paesi Bassi tra il 1459 e il1462: le silhouettes disarticolate e i volti contratti deipersonaggi di questo dipinto non sono affatto un casoisolato nella produzione della Francia settentrionale.

La partenza per il sud di un altro pittore piccardo,Enguerrand Quarton ci costringe a constatare che gliartisti più dotati decisero di espatriare, forse per timo-re della concorrenza. Il caso di Simon Marmion, unapersonalità di primo piano, rappresenta un’eccezione.Marmion era il più illustre miniaturista della Franciasettentrionale, tanto che, alla fine del Quattrocento,Jean Lemaire de Belges lo definì il “principe della minia-tura”. Nato ad Amiens verso il 1420-1425 da una fami-glia di artisti, egli svolse una carriera ufficiale in que-sta città fino al 1454; a partire dal 1458, è regolarmentesegnalato a Valenciennes, dove sembra godesse di unacerta agiatezza. L’identificazione di due fogli (NewYork, The Metropolitan Museum of Art, R. LehmanCollection e ubicazione sconosciuta) come parti di unbreviario, decorato nel 1470 per Carlo il Temerario, haconsentito di riaffermare che la paternità del gruppo di

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opere associate agli sportelli del polittico di Saint-Ber-tin (Berlino, Gemäldegalerie e Londra, National Gal-lery) spetta al maestro piccardo e di ribadire la coeren-za di questa ricostituzione: commissionato per l’abba-zia di Saint-Bertin a Saint-Omer dall’abate GuillaumeFillastre, questo polittico venne eseguito tra il 1455 eil 1459, a giudicare da alcuni commentari antichi rela-tivi alla sua parte centrale costituita da un lavoro d’o-reficeria (perduto). I pannelli dipinti presentano un’in-negabile somiglianza con altri quadri – ad esempio, conla splendida Crocifissione della John G. Johnson ArtCollection di Filadelfia e con la Messa di san Gregoriodell’Art Gallery of Ontario di Toronto –, indubbia-mente più tardi, che rivelano la stessa visione meticolo-sa e lo stesso tocco leggero per suggerire, ad esempio, latrasparenza di una cotta. Verso il 1455, Marmion par-tecipò all’esecuzione della decorazione di due lussuosimanoscritti, le Grandes Chroniques de France (San Pie-troburgo, Biblioteca Nazionale Russa, Erm. 88) e laFleur des histoires di Jean Mansel (Bruxelles, Bibliothè-que Royale Albert Ier, ms. 9232). Nella maggior partedelle grandi scene, concepite come veri e propri “qua-dri”, l’artista opta per una scelta compositiva molto ori-ginale: la sequenza dei differenti episodi, ciascuno deiquali si presenta isolato all’interno di una sorta di log-gia, si svolge in primo piano davanti a una veduta pano-ramica dall’orizzonte elevato. L’artista dà prova di ungrande talento nell’organizzazione di insiemi complessie nella ricerca di equilibrio e unità poetica. La gammacromatica dai toni ricercati e raffinati – salmone palli-do, blu lavanda e grigi ardesia – e la maniera vellutata,situano la sua pittura agli antipodi di quella, talvoltaaggressiva e asciutta, dei suoi colleghi piccardi, senzatuttavia assimilarla a quella dei vicini fiamminghi: neisuoi vasti paesaggi, rischiarati da una luce fredda euniforme, è quasi assente la prospettiva aerea ed emer-

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gono soprattutto preoccupazioni decorative, un palesecompiacimento nella descrizione della varietà dei costu-mi e nel moltiplicare notazioni di carattere pittoresco.Nell’ammirevole frontespizio delle Grandes Chroniquesde France raffigurante Guillaume Fillastre che consegnail libro a Filippo il Buono, la straordinaria presenza dicui sono dotati i vigorosi personaggi, dai volti forte-mente squadrati e modellati, impietosamente acuti, con-ferisce a questa pagina di presentazione ufficiale unaspetto familiare.

Il ricco mestiere di Marmion contrasta con la fattu-ra dura dei pittori di questa regione, spesso poco con-vinti dell’utilità di stendere uno spesso strato prepara-torio sui loro pannelli: questa materia pittorica sottile esecca, opposta a quella smaltata dei fiamminghi, si ritro-va nel bel ritratto di un veneziano con la “zazzera”(Châteauroux, Musée Bertrand), identificato con ecces-siva sicurezza, sulla base di un tardo sigillo, con unmembro della famiglia Contarini. Benché la formula dipresentazione e l’idea dello sfondo chiaro appaiano ispi-rate al Ritratto di Francesco d’Este (New York, TheMetropolitan Museum of Art) di Rogier van der Wey-den, riteniamo che questo quadro sia più legato allaFrancia del nord che alle Fiandre, e a fortiori all’Italia(l’attribuzione al milanese Zanetto Bugatto è priva diogni fondamento).

La Borgogna

L’individuazione dei caratteri distintivi della pitturaborgognona del Quattrocento presenta un maggiornumero di problemi rispetto a quelli posti dalla pitturadella Francia settentrionale. I pannelli sopravvissutisono poco numerosi, di qualità decisamente ineguale edi stili diversi. Le miniature, ancora poco studiate,

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mostrano a loro volta uno sviluppo poco coerente.Straordinariamente diffusi nel ducato di Borgogna,almeno a giudicare dalle decorazioni che ci sono perve-nute, i dipinti murali sono spesso molto deteriorati enon offrono le indicazioni che ci si potrebbe aspettare.

Benché Filippo il Buono risiedesse quasi sempre nel-l’area settentrionale dei suoi territori, Digione seguitòa essere la capitale politica e artistica, dove soggiorna-vano influenti dignitari, civili ed ecclesiastici, desiderosidi partecipare al risveglio delle attività urbane che ini-ziò a manifestarsi a partire dal secondo quarto del XVsecolo. Ci si rivolse ai grandi innovatori fiamminghi ela Borgogna ben presto accolse i capolavori di VanEyck, di Campin e di Rogier van der Weyden che ser-virono ai pittori locali, e persino a modesti miniaturi-sti, da fonte inesauribile di modelli iconografici, di tipie di suggestioni stilistiche.

Questa tendenza è illustrata dalla Messa di san Gre-gorio del Louvre. A lungo considerata una produzionedi Amiens, anche in seguito alla ricostruzione della suaprovenienza borgognona e all’identificazione del suoluogo di origine, la certosa di Champmol, quest’opera èstata successivamente reintegrata all’interno della pro-duzione di questa regione, prima di essere attribuita,molto di recente, a Pierre Spicre, un pittore di Digio-ne. Il suo autore conosceva evidentemente una compo-sizione di Robert Campin che raffigurava la Messa di sanGregorio, oggi perduta, ma conosciuta attraverso duecopie antiche, in cui, novità radicale, la scena è rappre-sentata frontalmente e non più di profilo. L’inserimen-to dei personaggi in uno spazio coerente dalla prospet-tiva fortemente obliqua e i panneggi incavati, testimo-niano l’adesione alle opere nordiche. La gamma croma-tica, limitata ad alcune tinte forti che risaltano sui murigrigi e sulla pavimentazione nera e bianca, e i contornidecisi delle forme, creano tuttavia un’impressione di

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nitidezza e di sobrietà che avvicina questo piccolo qua-dro più alla produzione della Francia del nord che allemorbide opere fiamminghe. Ritroviamo la stessa grafiasemplice e vigorosa in una raccolta di illustrazioni rela-tiva alla fondazione dell’ospedale di Saint-Esprit aDigione (Digione, Archives de l’Hôpital général deDijon, A.H.4), ventidue disegni a inchiostro lumeggia-ti con colori densi o all’aquerello, la cui fattura larga evivace tradisce la mano di un pittore più che di un sem-plice miniaturista, e in un altro libro decorato verso lametà del secolo da piccoli disegni con figure a grisaille,il Razionale dei divini Uffizi di Guillaume Durand (Beau-ne, Bibliothèque Municipale, ms. 21). Secondo Fabien-ne Joubert, il loro autore, a cui andrebbero attribuiti, asuo parere, anche la Messa di san Gregorio e un dipintoframmentario nella chiesa di Saint-Cassien a Savigny-les-Beaune, non sarebbe altri che Pierre Spicre, origi-nario di Digione e attivo dal 1470 al 1477, l’esecutoredei cartoni del celebre arazzo della vita della Vergine(Beaune, collegiata di Notre-Dame), commissionato nel1474 dal capitolo della collegiata, per conto del cardi-nale Jean Rolin; questi cartoni, oggi perduti, sono indub-biamente serviti da modello agli artigiani che nel 1500eseguirono una tarda tessitura del parato.

La presenza di reminiscenze fiamminghe è decisa-mente più evidente in una Presentazione al tempio condue donatori (Digione, Musée des Beaux-Arts), di chia-ra derivazione campiniana, che i dati stilistici e i costu-mi autorizzano a datare al 1440-1450. La rappresenta-zione del tempio è fedelmente ispirata alla chiesa diNotre-Dame di Digione, dove forse lo stesso pittore(talvolta identificato con Jean de Maisoncelles) ha ese-guito un Battesimo e una Circoncisione di incontestabileautorevolezza plastica. Anche questo quadro provienedalla certosa di Champmol che seguitava a dare originea numerose commissioni, come conferma la pala di san

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Giorgio (Digione, Musée des Beaux-Arts), un dipintoche si richiama, anche se con una certa grossolanità, aun prestigioso esempio dell’inizio del secolo, il Martiriodi san Dionigi di Bellechose.

Nell’ambito dell’eterogenea produzione borgognona,Charles Sterling aveva tentato di distinguere due cor-renti parallele, una “pittorica o rapida”, l’altra “sculto-rea”, riconoscendo, tuttavia, che “questa distinzionenon era affatto rigida”. Oggi essa appare un po’ forzatae le differenze tra i due gruppi sembrano essere soprat-tutto di carattere qualitativo. Si tratta dell’influenzadella grande scultura borgognona o dell’ascendente degliautorevoli modelli di Van Eyck e di Campin? Indipen-dentemente dalla tecnica adottata, ci troviamo in pre-senza di un nucleo coerente di opere monumentali, cherivelano un evidente plasticismo e una “serena monu-mentalità”: tra queste ultime citiamo il Martirio di santoStefano e la Resurrezione di Lazzaro, due dipinti eseguititra il 1470 e il 1474 per iniziativa del cardinale JeanRolin sulle pareti della cappella di Saint-Léger nella col-legiata di Beaune, gli Apostoli nella cappella del castellodi Châteauneuf-en-Auxois, che apparteneva al gran sini-scalco di Borgogna, Philippe Pot, il Calvario del Parla-mento di Digione (Digione, Musée des Beaux-Arts).Due ritratti eseguiti nel corso dell’ottavo decennio delsecolo, in cui si è a lungo ma erroneamente creduto discorgere Hugues de Rabutin e la sua consorte (Digione,Musée des Beaux-Arts) presentano volumi così sottoli-neati – come testimonia la sorprendente idea del cap-puccio scarlatto della donna – che alcuni hanno evoca-to, senza dubbio abusivamente, un’influenza proven-zale. Rispetto a queste ultime, le effigi, dalle formeampie, di Claude de Toulongeon e di Guillemette deVergy (Worcester, Worcester Art Museum), dipintedieci anni più tardi nel territorio della “Contea” (l’at-tuale Franca Contea), mostrano, soprattutto nel pan-

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nello del donatore, in miglior stato di conservazione, unafattura più duttile di impronta fiamminga.

La Processione di san Gregorio nella “cappella dorata”della cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, eseguita trail 1473 e il 1480 per Ferry de Clugny, divenuto vesco-vo di Tournai, è stata accostata a una serie di mano-scritti decorati nel corso dell’ultimo quarto del XV seco-lo per una clientela di influenti ecclesiastici da un arti-sta chiamato per questo il Maestro dei Prelati borgo-gnoni. Le sue figure statiche e verticali, caratterizzateda un’espressione tranquilla e riservata, sono spessodisposte in fregio; una gamma cromatica spenta, a basedi tinte estremamente originali – rosso violaceo, rossoscuro, blu ardesia –, stese su fondi scuri, contribuisce acreare l’atmosfera di gravità tipica delle sue miniature;l’artista cura più i contorni delle silhouettes che il loromodellato o l’illuminazione, e il suo approccio sinteticosi discosta risolutamente dalla minuziosità fiamminga.La riscoperta in Provenza di una delle sue più significa-tive invenzioni plastiche e iconografiche nel Calvario delMessale di Richard Chambellan (Parigi, BibliothèqueNationale, ms. lat. 879, f. 105v) milita a favore della suaidentificazione con Pierre Changenet, uno dei pittoripiù in vista di Digione, segnalato tra il 1477 e il 1503,fratello, a quanto sembra, di Jean Changenet detto ilBorgognone, stabilitosi ad Avignone a partire dal 1485:è probabilmente per il tramite di quest’ultimo che JosseLieferinxe, il quale forse frequentò per un certo perio-do il suo atelier provenzale e nel 1503 sposò una dellesue figlie, conobbe – come dimostra il Calvario del Lou-vre – questa composizione.

È ancora una volta per un insigne ed erudito eccle-siastico, Jean Germain, vescovo di Châlon-sur-Saône,che lavorarono due altri straordinari miniaturisti, piùanziani di una generazione: il primo, che decorò uno deisuoi testi, il Débat du chrétien et du Sarrasin (Parigi,

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Bibliothèque Nationale, ms. fr. 948) tra il 1447 e il1450, a sua volta ammirevole colorista, meditò indub-biamente – come sembrano suggerire le sue robuste figu-re, avvolte in stoffe dalle pieghe profonde –, sulle lezio-ni di Konrad Witz e forse di Barthélemy d’Eyck. È nelsuo solco che bisogna situare l’autore della grandiosadecorazione della cappella fondata nel 1471 dal sacer-dote Jean Lamoureux nella cattedrale di Saint-Vincenta Châlon-sur-Saône in cui appare una Morte della Vergi-ne sovrastata da un’Assunzione della Vergine? Il gran-dioso schema compositivo di quest’ultima, i panneggivoluminosi e angolosi dei personaggi, non rivelanoanch’essi punti di contatto con lo stile di un altro minia-turista ingaggiato nel 1449 da Jean Germain per deco-rare il suo Mappamondo spirituale (Lione, BibliothèqueMunicipale, P. A., 32), Antoine de Lonhy?

Antoine de Lonhy: dalla Borgogna alla Savoia attra-verso la Linguadoca

La riscoperta di Antoine de Lonhy, pittore fino apochi anni fa sconosciuto, e la sua identificazione conl’autore di due gruppi di opere raggruppate rispettiva-mente intorno alle Ore dette di Saluzzo (Londra, BritishMuseum, ms. Add. 27697), da un lato, e alla Trinità diTorino, dall’altro, vanno annoverate tra i più validi con-tributi di questi ultimi anni. Grazie a un contratto peruna fornitura di vetrate, sottoscritto nel 1446 a Châlon-sur-Saône dal cancelliere Rolin, e a un gruppo di mano-scritti giovanili decorati dall’artista in Borgogna e nellaFranca Contea, sappiamo che Lonhy svolse inizialmen-te la sua attività in queste due regioni. Dal 1460 al1462, la sua presenza è segnalata a Tolosa e a Barcello-na, due città in cui esercitò il suo talento nel campo dellevetrate, come dimostra eloquentemente l’imponente

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rosone ancora visibile a Santa Maria del Mar. Un docu-mento del 1462, relativo all’altra traccia della sua atti-vità catalana, il polittico degli Agostini di Domus Dei(Barcellona, Museo de Bellas Artes de Cataluña), lomenziona come abitante di Avigliana, nella diocesi diTorino, solo temporaneamente residente a Barcellona.Il ricco nucleo delle opere “piemontesi”, raggruppateintorno alla commovente Trinità, suggerisce che Lonhyoperò a lungo nel ducato di Savoia, forse fino al 1477.Dai testi e dalle opere emerge la figura di un maestropolivalente, volta a volta pittore, miniaturista, frescan-te, vetraio, esecutore di cartoni per vetrate e ricami.Formatosi senza dubbio in Borgogna, regione profon-damente imbevuta di arte fiamminga, forse presso l’ec-cellente miniaturista di Jean Germain, nel periodo pre-cedente alla partenza per la Linguadoca, Lonhy si rive-la un artista attento a suggerire il modellato, a spezzarele pieghe alla fiamminga, privilegiando le figure solide.Del suo soggiorno a Tolosa non ci è pervenuta nes-sun’opera documentata, ma le copie quasi letterali di dueammirevoli miniature, la Crocifissione (Praga, NárodníGaleri) e il Cristo in maestà (San Francisco, collezioneprivata), vestigia di un lussuoso messale e punti forti delgruppo “Saluzzo”, sembrano essere state eseguite inLinguadoca. Lo spiccato gusto di Lonhy per la simme-tria, per i bei tessuti dalle pieghe profondamente inca-vate che avvolgono personaggi immersi in fantastiche-rie interiori e lo stesso tipo del Cristo, che qui appareincorniciato da raggi solari stilizzati, avvicinano questepagine alla vetrata di Barcellona e alle Ore di Saluzzo,dipinte verso il 1456 con la stessa scrittura minuziosacaratterizzata da brevi tocchi verticali. Anche i dipintie gli affreschi raggruppati intorno alla Trinità sonoimmersi in questa atmosfera grave e serena e presenta-no gli stessi tipi particolari (anziani dalle lunghe barbebianche, volti placidi dagli sguardi rivolti verso il basso)

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e le stesse architetture che si aprono su interni profon-di: una buona parte di questi ultimi presenta un fondooro lavorato a pastiglia, probabile eco delle tecnicheimpiegate in Catalogna. Malgrado lo stato di usura e lemutilazioni, il quadro eponimo mostra un pittore con-quistato alla lezione fiamminga, ma dotato di uno spiri-to decisamente francese, di un’estrema sottigliezza tec-nica e di una sensibilità esasperata. Anche in Piemonte,un rilevante gruppo di dipinti murali e di pannelli e alcu-ni resti di importanti polittici, testimoniano il successoimmediato della sua maniera, senza dubbio ripresa daalcuni assistenti o discepoli, autori di opere di qualitàmeno elevata. Nonostante la concorrenza delle stimo-lanti novità di Spanzotti, quest’ultima riuscì a soprav-vivere, come dimostra l’incantevole Madonna della Mise-ricordia di Saluzzo (casa Cavassa), dipinta nel 1499 peril marchese di Saluzzo e talvolta attribuita al teutonicusHans Clemer, di cui è stata finora messa in luce soprat-tutto la somiglianza con l’arte provenzale. Rimane tantoda scoprire sulla diffusione dello stile di Lonhy in Bor-gogna, in Linguadoca e nella Savoia francese, così comesui suoi eventuali contatti con centri molto attivi, comeLione e la Provenza.

La Savoia francese: un crocevia di influenze

All’epoca del suo apogeo sotto il duca Amedeo VIII,divenuto antipapa col nome di Felice V e poi sotto suofiglio Luigi, il ducato di Savoia era costituito da unvasto territorio che si estendeva su entrambi i versantidelle Alpi e includeva la regione di Vaud, la Savoia fran-cofona, il Piemonte e la contea di Nizza. Questa diver-sità geografica diede luogo a una mescolanza di influen-ze, provenienti dai Paesi Bassi attraverso la Borgogna ela Franca Contea, dalla Francia, dalla Provenza, dalla

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Svizzera tedesca e dalla vicinissima Italia. Deriva da quil’eterogeneità della produzione artistica suscitata dalmecenatismo dei duchi che si rivolgevano, come dimo-strano le testimonianze documentali, a pittori di tutti ipaesi, anche lontani, ad esempio, il veneziano GregorioBono, per decorare i loro castelli, le loro cappelle e i loromanoscritti. Inoltre, l’antica provenienza locale di uncerto numero di opere di Van Eyck, di Van der Wey-den e della cerchia di Campin, può militare a favoredella presenza di questi quadri nel ducato fin dal XVsecolo.

Tra le opere savoiarde di elevata qualità, solo unapiccola parte può essere legittimamente consideratafrancese. Le miniature, spesso affidate ad artisti fran-cesi, la cui reputazione in questo campo era ampia-mente consolidata, sfuggono in una certa misura a que-sta regola. La straordinaria Apocalypse dell’Escorial illu-stra tuttavia la complessità della cultura dominantesotto Amedeo VIII: affidata nel 1428 al pittore ufficialedel duca, Jean Bapteur, proveniente da Friburgo inSvizzera, a cui si unì nel 1433 Péronet Lamy, origina-rio di Saint-Claude nel Giura, questa decorazione nel1435 non era stata ancora completata e il compito diportarla a termine sarà affidato alla fine del secolo aJean Colombe. Se Lamy, ancora profondamenteinfluenzato dalle miniature francesi dell’inizio del seco-lo, privilegia i contorni a discapito del volume e rivela,come nel resto della sua produzione, un’immaginazio-ne piuttosto limitata, Jean Bapteur, un artista dotato diun’ispirazione visionaria, combina le delicate inflessio-ni ereditate dallo stile gotico internazionale con nota-zioni più realiste e mostra a tratti sorprendenti affinitàcon l’arte di Giacomo Jaquerio, i cui echi, del resto, siriflettono persino nella valle dell’Arc e in quella dell’I-sère. I nomi di Bapteur e di Lamy sono stati indicati aproposito della straziante Crocifissione di Torino

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(Museo Civico), un’opera tuttavia isolata in Savoia perla sua atmosfera da incubo, per l’affollamento e l’agi-tazione frenetica delle figure e per la violenza dell’e-spressione del dolore. Quest’opera mostra pure unaconoscenza approfondita dello stile di Campin, unadensità plastica e una veemenza che rivelano un auto-re di un’altra cultura e di un altro temperamento. Lereminiscenze di Campin sono ancora più evidenti nellaNatività di Glasgow, un dipinto caratterizzato da uncolorito sontuoso e palesemente ispirato al quadro disoggetto identico conservato a Digione, che Sterling hadefinito “incunabolo savoiardo dell’ars nova”. L’in-fluenza esercitata sulla produzione savoiarda dai gran-di polittici di Konrad Witz, lo Speculum Humanae Sal-vationis (polittico dello Specchio della Grazia) per Basi-lea (1435) e quello della cattedrale di Saint-Pierre diGinevra (1444), è stata decisiva. I singolari tipi fisio-gnomici del pittore svizzero, i suoi abbondanti pan-neggi, il suo caratteristico modo di situare una scena inun ambiente familiare, la sua luce cristallina, riappaio-no nella splendida Pietà della Frick Collection di NewYork in cui il paesaggio innevato “respira la verità alpe-stre” (Sterling). Questo potente dipinto è stato attri-buito allo stesso autore di una Sacra Famiglia in un inter-no (Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodi-monte) e di un Calvario con un donatore cardinale (Ber-lino, Gemäldegalerie), senza dubbio identificabile conHans Witz (Johannes Sapientis), originario di Eich-städt e forse parente del grande maestro, di cui fu cer-tamente allievo. Segnalato a Chambéry nel 1440 accan-to a Gregorio Bono, in seguito questo artista lavorò aThonon, a Ginevra e, nel 1478, a Milano, dove eseguì,impiegando la tecnica dell’affresco, un Cristo davanti aPilato nell’abbazia di Chiaravalle. Lo straordinariosepolcro en trompe-l’œil di Philibert de Monthouz nellachiesa di Saint-Maurice ad Annecy, risalente al 1458,

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va ricondotto alla sua diretta sfera d’influenza, a menoche non sia stato dipinto dall’artista stesso. Tra i pit-tori che si mostrarono ricettivi al realismo fiammingoper il tramite di Konrad Witz, bisogna ricordare i dueminiaturisti a cui, tra il 1445 e il 1460, fu affidato ilcompito di decorare le lussuose Ore di Louis de Savoie(Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 9473). Larecente attribuzione ad Antoine de Lonhy di un Com-pianto del Cristo nella cattedrale di Saint-Jean-de-Mau-rienne, tenderebbe a dimostrare che la sua attività nel-l’area alpina non si limitò al versante piemontese. È evi-dente che all’interno dello stesso stato, gli artisti sispostavano facilmente: le belle figure degli Evangelistial lavoro nel loro studium, raffigurate sulla volta del-l’antica chiesa dei Cordeliers di Briançon, le cui sor-prendenti nature morte caratterizzate da profondeombre sono state talvolta poste in relazione con quelledel trittico di Aix, sarebbero infatti opera di Bartolo-meo Serra, un artista di Pinerolo. La stessa constata-zione vale per la decorazione, spesso gradevole anchese rustica, delle chiese delle valli nizzarde, che mostrastretti legami con l’arte piemontese e ligure: un altroartista originario di Pinerolo, Giovanni Canavesiolavorò del resto a Saint-Etienne-de-Tinée, a Briga e aPeillon presso Nizza. Si dimostra anche ricettivo alleesperienze condotte negli anni Settanta e Ottanta inProvenza occidentale.

La Provenza degli anni 1470-1500: un centro sempreattivo e influente

La grande maniera provenzale iniziata da Barthé-lemy d’Eyck e Quarton sopravvisse a lungo, ma coesi-stette con un gusto differente, probabilmente favoritoda re Renato, grande estimatore dell’arte fiamminga.

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Per il “buon re” e per i consoli di Avignone lavoròinfatti un pittore proveniente dal nord della Francia,dove verosimilmente fece il suo tirocinio, Nicolas Fro-ment, l’autore dell’esasperata Resurrezione di Lazzarodegli Uffizi. Stabilito un tempo ad Uzès, Froment svol-se, tra il 1468 e il 1483, la sua attività in Provenza. LaLeggenda di san Mitra, tuttora visibile nella cattedraledel Saint-Sauveur ad Aix, mostra ancora una scritturatesa, angolosa, e un’esigente minuziosità descrittiva.Nell’imponente trittico del Roveto ardente (Aix-en-Pro-vence, cattedrale del Saint-Sauveur), eseguito nel 1475-1476 per la cappella fondata da Renato nella chiesa deiGrands-Carmes ad Aix, un dipinto ancora fedele, comedimostra l’Annunciazione raffigurata in grisaille sul retrodelle ante, alle tradizioni fiamminghe, Froment temperala grafia lineare e l’analisi impietosa dei volti con unaricerca di chiarezza monumentale; ma soprattutto, fattonuovo, qui l’illuminazione avvolge le forme e mette inrisalto i volumi, e la luce mattutina inonda l’ampio pae-saggio panoramico che si estende dietro la massa delroveto. Molti artisti, tra cui l’autore della pala deiPérussis (New York, The Metropolitan Museum of Art)si richiamarono a questa vena più aneddotica e reali-stica, forse parzialmente assimilata dai contemporaneialla pittura fiamminga.

L’aria di famiglia che accomuna in questa fine seco-lo le opere provenzali a quelle piemontesi, lombarde,napoletane, castigliane o aragonesi, conferma la posi-zione chiave della Provenza nell’ambito degli scambimediterranei. Segnaliamo un caso esemplare, quello delpolittico di San Sebastiano, che una confraternita dellachiesa di Notre-Dame des Accoules di Marsiglia com-missionò nel 1497 a Bernardino Simondi, originario diVenasca, un paese della diocesi di Torino, e al suo socioJosse Lieferinxe, proveniente dalla diocesi di Enghiennell’Hainaut, di cui, tra il 1493 e il 1505, si possono

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seguire gli spostamenti nella regione. Sono state iden-tificate sette scene di questo complesso insieme, oggidisperse tra la Johnson Collection nel Museum of Artdi Filadelfia, la Walters Art Gallery di Baltimora, laGalleria Nazionale d’Arte Antica di Roma e l’Ermita-ge di San Pietroburgo, in cui le citazioni di architettu-re classiche si affiancano a una vena patetica vicina aquella di alcune opere piemontesi e a una forte influen-za olandese, evidente nei tipi umani, nei gesti e neglischemi iconografici, spesso presi a prestito da Gérardde Saint-Jean. La morte dell’artista piemontese, soprag-giunta nel 1498, induce a supporre che quest’opera siastata eseguita dal solo Lieferinxe che, del resto, in uncerto momento della sua carriera potrebbe aver varca-to le Alpi: lo spirito classico delle due figure del Cristonel Calvario (Parigi, Musée du Louvre) e di un EcceHomo (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), due dipintitardi (eseguiti verso il 1505), possono essere spiegatisolo con la conoscenza delle coeve esperienze lombar-de, di cui ritroviamo le tracce anche nella misteriosaAdorazione del Bambino di antica provenienza locale(Avignone, Musée du Petit Palais). Il cugino germanodi Lieferinxe, il teutonicus Hans Clemer, lavorò delresto alla fine del secolo nel marchesato di Saluzzo:alcuni storici hanno quindi pensato di attribuirgli lasplendida Madonna della Misericordia e alcuni dipintiriconducibili al mecenatismo di Luigi II di Saluzzo, lecui relazioni con l’arte provenzale, spesso messe in luce,sono state forse un po’ esagerate. Dalle cinque scenedella vita della Vergine (Bruxelles, Musées Royaux desBeaux-Arts de Belgique; Avignone, Musée du PetitPalais; Parigi, Musée du Louvre), traspare con maggio-re chiarezza un’altra fondamentale linea di discenden-za: le composizioni sobrie e squadrate, le ombre e ivolumi nitidi, definiti da un’illuminazione energica, iltono grave e misurato e perfino il motivo emblematico

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dei risvolti bianchi o chiari suggeriscono che il loroautore fosse un erede attento e sensibile di EnguerrandQuarton. Nella stessa sfera d’influenza si iscrive Nico-las Dipre, figlio del prolifico Colin d’Amiens attivo aParigi, di cui, tra il 1495 e il 1531, si seguono le trac-ce ad Avignone: un frammentario Incontro alla PortaAurea (Carpentras, Musée Municipal), ricollegato daSterling a un contratto firmato nel 1499 dall’artista, ealcune scene di predelle, dimostrano che egli era unsostenitore di questa visione sintetica e luminosa, diquesto tono dignitoso, ancora più commovente se raf-frontato alla fattura, talvolta un po’ rozza, e ai perso-naggi, illuminati da un sincero fervore, ma caratteriz-zati da volti tagliati con l’accetta e da proporzioni mas-sicce ereditate da suo padre. Due dipinti eccezionaliper la loro forza plastica ed espressiva, i Tre profeti delLouvre e un San Pietro (collezione privata) sono statiaccostati a Jean Changenet detto il Borgognone che,tra il 1485 e il 1494, svolse una fiorente attività adAvignone: le loro forme scultoree sembrano ricolle-garsi più alla lezione di Barthélemy d’Eyck che a quel-la di Quarton.

Collezionista di splendidi libri, Renato d’Angiò(scomparso nel 1480) e la sua consorte Jeanne de Lavalavevano invitato a lavorare in Angiò e in Provenza,un’équipe di miniaturisti, tra i quali si distinguevanaturalmente Barthélemy d’Eyck. Tra i “pittori del redi Sicilia”, Georges Trubert occupava, dal 1467, unaposizione eminente. Ma le sue opere più sorprendentirisalgono al periodo compreso tra il 1491 e il 1499, nelcorso del quale operò in Lorena, al servizio del nipotedel re, Renato II. Nel Diurnal de René II de Lorraine(Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 10491), un’o-pera estremamente raffinata, egli dà prova di un’au-tentica originalità sia nella trasposizione delle formu-le in voga alla fine del secolo, tra cui, ad esempio, l’in-

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corniciatura delle scene a mezzo busto, sia nell’auda-ce giustapposizione di tinte rare e sottili. Un acutosenso dei valori atmosferici, i paesaggi che si estendo-no all’infinito e il particolare trattamento dei panneg-gi inducono a supporre che Georges Trubert cono-scesse le opere di Fouquet. Ma questo miniaturista dicorte, uno dei pochi di tale statura che, cosa eccezio-nale, non svolgesse anche l’attività di pittore, rimaneinclassificabile, irriducibile alle caratteristiche di que-sta o quella scuola, come il suo illustre predecessore,Barthélemy d’Eyck.

Gli anni 1480-1500 a Parigi e nella Francia centrale: larinascita dell’arte di corte

Applicata alla fine del secolo, la nozione di scuolaregionale, che bisogna impiegare con cautela anche inriferimento al periodo precedente, diviene ancora menoappropriata. Alcuni centri declinarono, altri conserva-rono la loro vitalità grazie all’effimero mecenatismodelle corti principesche (in Lorena, nel Bourbonnais, inAlvernia), di lungimiranti prelati (in Borgogna) o alleeccezionali capacità imprenditoriali dei pittori (comedimostra il caso di Jean Colombe, attivo a partire dal set-timo decennio a Bourges). Si rivelò decisivo l’impulsoimpresso alle attività artistiche dalla famiglia reale e, inparticolare, dalle regine Carlotta di Savoia e Anna diBretagna, “autrici” della carriera di molti pittori. Glispostamenti sempre più frequenti della corte nella valledella Loira e a Parigi, la rapida circolazione degli artistie delle opere (la decorazione di un manoscritto potevaessere “éclatée” tra vari ateliers), favorirono la mesco-lanza degli stili. La nascita del libro stampato, una realtànuova che i miniaturisti non potranno evitare di affron-tare, contribuì alla diffusione dei modelli iconografici.

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Le campagne militari condotte nella Penisola da CarloVIII e da Luigi XII, che attraevano nella loro scia gen-tiluomini e artisti, rafforzarono l’infatuazione per l’Ita-lia, considerata il teatro della modernità. Dopo Fou-quet, gli artisti francesi avevano fatto propria la deco-razione all’antica, i principi di organizzazione spazialee alcuni particolari tipi di impaginazione. Alla fine delsecolo, il repertorio ornamentale si diversificò, divennepiù ricco e prevalse la moda dell’eleganza, dell’armoniae della dolcezza. Ma quale Italia veniva presa a model-lo? Quella dell’alchimia lombarda, impregnata di fiam-minghismo e di Leonardo? Quella del Perugino e diCosta? O quella dell’antichità eroica di Mantegna?Senza dubbio non si è rivolta una sufficiente attenzio-ne alla precoce presenza in Francia di opere e pittori ita-liani. Però, l’allineamento a queste nuove tendenze este-tiche non interruppe l’afflusso dei maestri fiamminghi:ma attraverso quali vie si operò l’innegabile conversio-ne, per esempio, di Jean Hey e di Josse Lieferinxe al clas-sicismo dominante? A tutti questi interrogativi non èstata ancora data una risposta convincente.

Parigi

Alla fine del secolo, Parigi riacquista il ruolo di capi-tale e un’influenza che favoriscono il rilancio economi-co, i soggiorni sempre più frequenti del re e della cortee la presenza di uno stimolante ambiente intellettualeconvertitosi all’umanesimo.

Il caso vuole che i rari pannelli di qualità pervenuti-ci siano stati eseguiti da artisti stranieri, difficilmenteassimilabili alla pittura francese, anche se attenti alletendenze del momento. Il Maestro, originario di Colo-nia, della Pietà di Saint-Germain-des-Prés (Parigi, Muséedu Louvre), forse originariamente affiancata da due

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ante, un Cristo che porta la croce (Lione, Musée desBeaux-Arts) e una Resurrezione del Cristo (ubicazionesconosciuta), ad esempio, benché ancora vicino, nellatecnica, nei volti e nella ricerca espressiva, ai suoi con-terranei, il Maestro di San Bartolomeo e il Maestrodella Famiglia della Vergine, si ispira a schemi icono-grafici francesi e inserisce le sue figure in uno spazioprofondo e aereo, inondato da una tenue luce. L’ab-bondante produzione del Maestro di Saint-Gilles, in cuifigurano grandi pale d’altare, pannelli devozionali eritratti, eseguiti a loro volta verso il 1500, ma non tuttinecessariamente a Parigi, rimane ancorata alla culturadei Paesi Bassi di Hugo van der Goes, di Gérard David,e persino di Memling, che ha indubbiamente influenza-to il primo periodo dell’attività dell’artista. Ma, neipannelli del polittico molto probabilmente destinato allachiesa di Saint-Leu-Saint-Gilles (Londra, National Gal-lery e Washington, National Gallery of Art), così comenei delicati ritratti maschili e femminili del MuséeCondé di Chantilly, si osserva un realismo minuzioso,una tendenza alla stilizzazione formale, la comparsa divolti distesi, dai tratti regolari e dall’espressione riser-vata, per nulla “fiamminghi”.

A Parigi, la produzione di quadri e decorazioni mura-li era affidata ad altri pittori, anche se nessuna di que-ste opere ci è pervenuta, a cominciare dalla personalitàche dominò il mercato della fine del secolo, il Maestrodi Anna di Bretagna, figura emblematica dell’artistapolivalente. Questo pittore si distinse soprattutto comeesecutore di cartoni, fornendo “modelli” per vetratedestinate ad alcune chiese parigine (Saint-Séverin, Saint-Germain l’Auxerrois, la Sainte-Chapelle per la qualeeseguì il suo capolavoro, il rosone occidentale con le armidi Carlo VIII...), la cui fortuna fu così vasta che venneroutilizzati fino al 1520, persino in Normandia. Nono-stante le alterazioni dovute alla trasposizione, si rico-

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nosce il suo stile in un insieme di arazzi considerati trai più belli del loro tempo – la Storia di Perseo (collezio-ne privata), la Caccia al liocorno (New York, The Metro-politan Museum of Art, The Cloisters), la Dama del lio-corno (Parigi, Musée de Cluny) – che testimoniano un’a-biltà coloristica, una scienza del modellato e una venapoetica poco comuni. Ritroviamo queste lunghe silhouet-tes femminili, dall’atteggiamento grave e dallo sguardosognante, definite più dal disegno che dal volume, nellesue miniature e, in particolare, nelle Très petites heuresd’Anne de Bretagne (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms.nouv. acq. lat. 3120), decorate per la regina verso il1498. Palesemente, l’artista ricorse agli schemi icono-grafici, ai modi di distribuzione dei gruppi di personag-gi e agli elementi decorativi del Maestro di Coëtivy. N.Reynaud ha quindi pensato di riconoscere in questoartista uno dei figli di Colin d’Amiens (a suo parereidentificabile con il Maestro di Coëtivy), e, in partico-lare, Jean (morto nel 1508) che godeva di una conside-revole notorietà. Con la spettacolare diffusione dei libristampati nella capitale, il Maestro di Anna di Bretagna,da esperto esecutore di cartoni, si adattò alla domandae iniziò a fornire disegni agli incisori, mentre un altroproduttivo atelier della città, quello, più metodico, delMaestro di Jacques de Besançon, si limitò a dipingere gliincunaboli, proponendo di inserirvi grandi miniature edi miniare le stampe. A quest’ultimo artista si attribui-scono più di una quarantina di manoscritti eseguiti perun’illustre clientela, tra cui figuravano alcuni sovrani(Carlo VIII, Luigi XII, Enrico VII d’Inghilterra), checon la loro sontuosità, la loro opulenza decorativa e illoro splendore coloristico sono una fedele espressionedel gusto dell’epoca. Chiuso a ogni contributo stranie-ro e alle idee del Rinascimento, questo prolifico e meto-dico miniaturista può essere considerato il successore delMaestro François, di cui rilevò la bottega.

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Nel grande mercato del libro miniato e stampatocostituito a Parigi gli artisti erano spesso costretti a col-laborare: è quindi molto difficile orientarsi in questasovrabbondante e poco inventiva produzione, tanto piùche essa subì spesso le influenze di altri centri, comeBourges e Tours.

Bourges e la Turenna

Dal 1455 al 1475, la cattedrale di Bourges fu dotatadi nuove vetrate. L’autore dei cartoni che verso il 1475eseguì il modello dell’Adorazione dei Magi per la cappel-la dei Breuil, riprende dalla rivoluzionaria Annunciazio-ne il principio della composizione unificata, ma rifiutadi fare a meno del ritmo degli archi lanceolati, optandoper un timido compromesso. Si trattava senza dubbio diun pittore che non conosceva a fondo le convenzioni ele esigenze architettoniche delle vetrate, quello a cui fuaffidato il compito di dirigere i lavori della cappella. Egliè infatti anche l’autore della decorazione ornamentale edelle pitture murali. Nel Calvario e nel Noli me tangeredelle due pareti opposte, i personaggi imponenti dagliampi panneggi sono gli stessi della vetrata; i loro voltiappaiono molto simili, animati da un ricco modellato eda un’espressione malinconica. Questo originale pitto-re non sembra aver preso parte allo spettacolare svilup-po che la miniatura di Bourges conobbe a partire dal1470, grazie alla presenza di perspicaci mecenati e allaposizione strategica della città, che si trovava sulla stra-da che collegava Tours all’Italia. L’atelier più attivo eraquello di Jean Colombe, fratello del noto scultore MichelColombe. Originario della città, questo artista vieneregolarmente citato nei testi del periodo compreso tra il1463 e il 1493; la sua fama si diffuse oltre i confini diBourges, dal momento che venne invitato a lavorare a

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Troyes, a Lione e soprattutto in Savoia, dove il ducaCarlo I, forse su consiglio della regina Carlotta diSavoia, lo nominò suo pittore ufficiale, affidandogli l’in-carico di portare a termine la decorazione di due codicitra i più belli del Quattrocento, il Très riches heures duduc de Berry e l’Apocalypse, allora in suo possesso. A par-tire da queste due opere certe, gli è stata attribuita unaserie di manoscritti eseguiti tra la fine del settimo decen-nio e la fine del nono. Colombe meditò l’opera diBarthélemy d’Eyck e di Fouquet: riprodusse infatti laMortificazione del vano piacere del primo e prese a pre-stito dal secondo molte composizioni. L’influenza delmaestro di Tours è percettibile nelle Ore di Louis deLaval (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 920), unlussuoso manoscritto la cui decorazione iniziata verso il1470, fu portata a termine nel 1485 circa da diverseéquipes di miniaturisti, alcuni dei quali mostrano dirichiamarsi strettamente all’arte di Fouquet. Da un’o-pera all’altra si può constatare come Colombe conferi-sca progressivamente alle sue figure più volume e model-lato, mentre l’esecuzione perde di vigore e il colorito diintensità. Nonostante le sue innegabili capacità narrati-ve e il suo gusto per i dettagli aneddotici ed espressivi,che furono alla base del suo successo, Colombe si mostròrefrattario a ogni forma di costruzione spaziale. Il suogradevole stile fu imitato da molti artisti e perpetuatoda suo figlio e da suo nipote. Anche Jean de Montluçone suo figlio Jacquelin, attivi a Bourges dal 1461 al 1505(il secondo ha firmato la pala d’altare degli Antonites diChambéry) e il Maestro di Spencer 6 svolsero un certoruolo nell’attivo mercato della miniatura, che si esten-deva anche alla Turenna.

Benché il re vi risiedesse meno assiduamente che nelpassato, Tours beneficiava di una clientela eccezionaleper rango e fortuna, e amante del lusso, le cui esigenzecontribuiranno alla fioritura di un brillante centro della

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miniatura, specializzato nella produzione di prezioseopere liturgiche. Forse meno innovatore che nella gene-razione precedente, quest’ambiente si mostrò tuttaviapiù ricettivo di Parigi nei confronti dei contributi stra-nieri, italiani e fiamminghi, e diede origine a uno stileelegante e misurato, conosciuto col nome di “scuola dellaLoira”, che si diffonderà nelle altre regioni francesi esaprà mantenersi a un livello elevato nel corso dei primiventi anni del secolo successivo. Due illustri pittori, lecui carriere si svolsero parallelamente, dominarono lascena artistica. Jean Bourdichon (vissuto tra il 1457 e il1521), pittore ufficiale di quattro re, da Luigi XI a Fran-cesco I, viene regolarmente menzionato nei conti realiper molteplici lavori utilitari, decorazioni effimere,modelli e per numerosi quadri su legno (immagini devo-zionali, ritratti, scene di genere). Osservando la solaopera conosciuta di questo artista, il piccolo trittico dellaVergine tra due santi (Napoli, Museo Nazionale di SanMartino), caratterizzato da un’ispirazione un po’ fred-da e convenzionale, da una certa indifferenza a ogniricerca volumetrica, è difficile spiegarsi il favore di cuigodette negli ambienti reali. È la sua produzione diminiature, raggruppata intorno alle Grandes heures d’An-ne de Bretagne (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat.9474), un’opera pagata nel 1508 e l’unica certamenteeseguita dell’artista, che consente di comprendere il suc-cesso di un’arte fondamentalmente basata sulla sontuo-sità e sulla ricerca dell’effetto. La popolarità di questomanoscritto deriva in gran parte dall’incomparabiledecorazione marginale di fiori e insetti, ispirata ai bordidei libri decorati a Gand e a Bruges, ma trattata congrande immaginazione, estrema attenzione per la preci-sione botanica e un sorprendente senso del trompe-l’œil.Le stesse miniature, numerose e di grandi dimensioni,sono concepite come veri e propri quadri definiti da unacornice dorata: la maggior parte di esse peccano per l’a-

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spetto multicolore e sgargiante, per il sistematico ricor-so a certi procedimenti tecnici (il tratteggio d’oro), e ascelte compositive (paesaggi dagli orizzonti lividi entroi quali si stagliano le silhouettes) e di illuminazione (scenenotturne), e per la loro soavità. Nella Natività, una dellepiù riuscite, Bourdichon sa tuttavia trovare, come nellaVergine dell’Annunciazione delle Ore dette di Henri VII(Londra, British Library, ms. Add. 35254 V) un tonomisurato e dignitoso e una fattura accurata per suggeri-re la morbidezza delle stoffe e la delicata carnagionedelle due Vergini. Oggi meno celebre, ma citato fino allametà del XVI secolo accanto ai pittori più illustri del suotempo, Jean Poyet, attivo a Tours dal 1483 al 1497, nonha beneficiato, a quanto sembra, della prestigiosa posi-zione ufficiale del suo conterraneo, con il quale è statoa lungo confuso, anche se la regina Anna di Bretagna ela sua città natale gli assegnarono diverse commissioni.Profondamente influenzato dall’arte di Fouquet di cuisembra essere il solo autentico discepolo, egli infatti,dimostrò di essere consapevole dell’importanza delle sueinnovazioni e, allo stesso tempo, di essere dotato di unaforte personalità. Citiamo tra le opere che gli sono attri-buite, il trittico di Loches proveniente dalla certosa diLiget in Turenna e dipinto nel 1485 (Loches, castello),un tempo considerato come opera di uno dei figli diFouquet, a causa dell’evidente somiglianza con l’arte diquest’ultimo, forse a una data più tarda, verso il 1510,i cartoni delle vetrate fornite a un personaggio di primopiano, Jacques de Beaune, signore di Semblançay per lachiesa di Ballan-Miré e il suo castello di La Carte neidintorni di Tours e la decorazione del Libro d’ore delTeylers Museum di Haarlem (ms. 78), immediatamenteimitato e persino plagiato da miniaturisti o decoratori dilibri illustrati, la maggior parte dei quali parigini. Mal-grado le differenze di scala e di tecnica, tra queste operenon mancano i punti di contatto, che danno un’idea

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altissima del suo genio: la stessa concezione del paesag-gio, aereo e profondo, la monumentalità e la plasticitàdelle figure, la ricercatezza dell’esecuzione, il gusto pergli effetti pittoreschi e per l’esotismo, la singolare tavo-lozza, basata su tinte sature fortemente contrastate. Lasua padronanza delle costruzioni spaziali sofisticate e lapredilezione per le architetture complesse spieganosenza dubbio la diffusa opinione secondo cui l’artistaeccelleva nel campo della prospettiva. Si è talvolta evo-cato a proposito di Poyet l’ascendente di Mantegna,ipotizzando un viaggio – probabile – dell’artista nellaPenisola: tuttavia, non bisogna dimenticare che all’ini-zio del nono decennio giunse ad Aigueperse, in Alver-nia, un capolavoro del pittore italiano, il grande SanSebastiano su tela (Parigi, Musée du Louvre) che forsecolpì Poyet per l’intransigente realismo, per la scritturaincisiva, per il dominio dello spazio, per il paesaggio roc-cioso e per gli accordi di giallo e rosso scuri – gli stessidell’Annunciazione e del trittico di Loches.

Jean Hey

Può essere ricondotta alla sfera d’influenza della cortel’attività del più grande pittore francese della fine delXV secolo, conosciuto, caso estremamente raro per que-sto periodo, grazie a un eccezionale insieme di quadri,riuniti intorno al trittico della Vergine in gloria della cat-tedrale di Moulins, dipinto verso il 1498 per i duchi diBorbone, al modello della vetrata dei Popillon dello stes-so edificio, a un disegno (Profilo di giovane donna, Pari-gi, Musée du Louvre, Département des Arts graphi-ques) e a una sola miniatura dell’opuscolo degli Statutsde l’ordre de Saint-Michel (Parigi, Bibliothèque Natio-nale, ms. fr. 14363). La coerenza di questo gruppo diopere non viene quasi più rimessa in causa, così come

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l’identificazione del suo autore con Jean Hey. Un’anti-ca iscrizione sul retro dell’Ecce Homo dei MuséesRoyaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles indicail suo nome, seguito dalla menzione pictor egregius teu-tonicus, dalla data, 1494, e dall’identità del committen-te, Jean Cueillette, notaio e segretario del re Carlo VIII;ora, questo personaggio rivestì dal 1488 al 1496 – all’e-poca dell’esecuzione del quadro – anche la carica ditesoriere di Pietro II di Borbone e doveva quindi risie-dere a Moulins, la città in cui svolse la sua attività ilMaestro di Moulins. I tratti dei volti e lo sguardo pen-soso del Cristo, la tecnica pittorica e la cultura che carat-terizzano questo pannello, concordano infatti perfetta-mente con le opere di questo artista e con la loro defi-nizione stilistica. La prima testimonianza della sua atti-vità, la Natività, dipinta verso il 1480 per il cardinaleRolin (Autun, Musée Rolin) indica una formazione neer-landese avvenuta nella sfera di Hugo van der Goes.Dalle opere dell’ultimo periodo dell’attività del mae-stro di Gand, quello corrispondente al decennio 1470-1480, Jean Hey riprende non solo il principio stessodelle sue composizioni, le figure interrotte al di sottodella vita, e gli elementi decorativi e narrativi, masoprattutto il colorito chiaro, la luce fredda e i pallidiincarnati femminili. Non vi è nulla di francese nellostile di questa pala giovanile, se non un’inquietudinediscreta che lo allontana dalla sensibilità fiamminga.Grazie alla sua attività in Turenna al servizio della fami-glia reale, forse favorita da Anna di Francia, consorte diPietro II di Borbone e sorella di Carlo VIII, Hey potéconoscere l’arte di due importanti pittori che operaro-no nella Francia centrale verso la metà del secolo: JeanFouquet e il Maestro di Jacques Cœur. Gli elementipresi a prestito dal primo non si limitano ai putti o ai det-tagli architettonici. La figura del delfino Carlo Orlan-do, che l’artista ritrasse nel 1494 (Parigi, Musée du

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Louvre, donazione Beistegui) è, per la sua densità pla-stica e la sua rotondità volumetrica, l’erede del Bambi-no del dittico di Melun. Come in Fouquet, qui le preoc-cupazioni di carattere formale, benché meno imperiose,temperano l’esigenza di realismo. Nell’effigie del picco-lo delfino, allo stesso tempo gracile e giocherellone, cosìcome in quella di Margherita d’Austria (New York, TheMetropolitan Museum of Art, R. Lehman Collection) odella piccola Susanna di Borbone (Parigi, Musée duLouvre), un tempo unita a quella di sua madre, Jean Heyriesce a combinare la vivacità, la serietà e la fragilità tipi-che dell’infanzia con un’attenzione, una proprietà ditono e una tenerezza raramente uguagliate.

Fouquet aveva inaugurato una nuova formula di pre-sentazione, raffigurando il donatore e il suo santo patro-no fino alle anche: Jean Hey se ne appropria assotti-gliandola e la coniuga alla tradizione del ritratto di unsolo modello raffigurato davanti a un paesaggio, nelledue effigi dei duchi di Borbone (Parigi, Musée du Lou-vre) che ritrae davanti a una finestra aperta. Ma, versoil 1500, svilupperà in uno spazio aperto le monumenta-li figure di un donatore sconosciuto e di san Maurizio(Glasgow, Glasgow Art Gallery). Il trittico eseguitoall’incirca nello stesso periodo per la collegiata di Mou-lins rivela un palese debito nei confronti dei due gran-di maestri della generazione precedente: il motivo deidue angeli simmetrici nella parte superiore è ripreso daFouquet, ma la loro posizione elevata e l’intenso effet-to dell’illuminazione dal basso che accentua il modella-to traggono le loro origini dagli Angeli della cappella delpalazzo di Jacques Cœur. Tuttavia, qui l’atmosfera,grave e, al tempo stesso, fantastica, creata soprattuttodalle squisite sfumature coloristiche, è completamentediversa. L’armonia dei ritmi lineari, l’ampiezza delleforme, i volti dolci e sereni possono essere raffrontati aun certo numero di opere francesi, italiane o spagnole

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coeve che partecipano, senza rinnegare l’influenza fiam-minga, al “classicismo” della fine del secolo. Da qualirapporti precisi erano legati Jean Hey e Benedetto Ghir-landaio, il fratello del grande Domenico, che, come sap-piamo, tra il 1486 e il 1493, partì per la Francia, doveeseguì per Gilbert de Bourbon-Montpensier una Nativitàancora visibile ad Aigueperse?

Quale fu l’impatto degli oggetti probabilmente fattivenire dall’altro versante delle Alpi dalla consorte diquest’ultimo, Chiara Gonzaga? Nella stessa Alvernia,la produzione locale sembra recare tracce, a volte dif-ficilmente precisabili, di italianismo: l’autore del tritti-co di Latour d’Auvergne (Raleigh, North CarolinaMuseum of Art) si propone, nella sua maniera provin-ciale ma avvincente, di competere con l’ampio respirodei capolavori eseguiti nella vicina Italia e si appropriadella decorazione rinascimentale e dei volti “ghirlan-deschi” nei due san Giovanni, di un repertorio tuttosommato più attuale di quello di Jean Hey. Come defi-nire la cultura eclettica del pittore delle nobili figure,sedute in un ambiente naturale su strane cattedre cherappresentano le Arti liberali nella cattedrale di Le Puy?Qui non si riflette alcuna eco di Jean Hey, i cui sche-mi iconografici e i tipi fisiognomici si diffusero tutta-via nella Francia centrale attraverso le miniature, levetrate – arte a quel tempo fiorente a Moulins –, e per-sino attraverso la scultura.

Jean Perréal

Ma Jean Hey non sostituì nel favore di Carlo VIIIJean Bourdichon e Jean Perréal, pittori ufficiali delsovrano. Attivo dal 1483 all’anno della sua morte,sopraggiunta nel 1530, “Jean de Paris”, rivestì delresto questa carica anche sotto Luigi XII e Francesco

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I, tenendosi, allo stesso tempo, in contatto con Lione,sua città natale, divenuta grazie alle sue fiere, alla suaattività bancaria e alla sua posizione privilegiata sullastrada per l’Italia, una sorta di terza capitale dopoTours e Parigi. Attraverso documenti e testimonianzecoeve, scritti e corrispondenza personali, emerge lafigura di un artista frenetico e proteiforme, sulla sciadei suoi predecessori medievali, interessato alla diplo-mazia, alla poesia, ai lavori pubblici, all’architettura,alla decorazione (fu organizzatore di numerose ceri-monie), alla pittura, alla miniatura, al disegno, alla for-nitura di cartoni per lavori di oreficeria, alla medagli-stica e alla scultura. Nel 1963, l’identificazione di unaminiatura certamente eseguita dal pittore (Parigi,Musée Marmottan, collezione Wildenstein, ms. 147),un frontespizio che illustra uno dei suoi poemi, ilLamento di Natura all’alchimista errante, ha consentito,attraverso il raffronto stilistico con alcuni ritrattiminiati e dipinti degli anni 1490-1500, inizialmenteriuniti sotto il nome di Maestro di Carlo VIII, di dareun volto a questa figura quasi mitica. Solo i modelliconsegnati a Michel Colombe per il monumento fune-bre dei duchi di Bretagna a Nantes lasciavano intra-vedere una fisionomia ambigua, aperta alle novità delRinascimento, che l’artista aveva potuto scoprire nelcorso dei suoi soggiorni in Lombardia nel 1499, nel1502 e nel 1509, ma rimasta ancora rispettosa della tra-dizione francese dell’arte funeraria. EvidentementePerréal si era conquistato una solida reputazione comeritrattista: esercitò, infatti, il suo talento persino aMilano e lavorò per un esperto appassionato comeFrancesco Gonzaga. Nobilitò, pur senza esserne l’in-ventore, un genere specifico, quello del piccolo ritrat-to intimo, rigidamente incorniciato da uno sfondo dicolore uniforme (Ritratto d’uomo, Parigi, Musée duLouvre) a cui, attraverso il rilievo conferito alla strut-

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tura ossea del viso, i forti contrasti di ombre e luci e“una plasticità carnosa” (Sterling), infonde un realismodiretto che non si arresta di fronte alla bruttezza (pre-sunti ritratti di Carlo VIII e di Anna di Bretagna, Pari-gi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 1190), o un’ariafamiliare e amichevole (Ritratto di Pierre Sala, Londra,British Library, Stowe 955), distinguendosi, secondoun’espressione di quest’ultimo, nel “rendere presenteciò che è lontano”. Perréal aprì quindi la strada ai pic-coli ritratti dei Corneille a Lione e soprattutto a quel-li dei Clouet, che si approprieranno della tecnica della“crayon” di cui l’artista era un profondo conoscitore edel “modo di colorare a secco” che lo stesso Leonardoraccomandava di apprendere da Jean de Paris.

Nel 1504, il nome di Perréal appare associato aquello di Jean Hey e dopo quelli di Leonardo, del Peru-gino e di Bellini in uno scritto di Jean Lemaire de Bel-ges. Pur tenendo conto del tono elogiativo, scontato inquesto tipo di discorso retorico, resta il fatto che l’au-tore vedeva in questi due pittori gli anticipatori diun’avanguardia che guardava al Rinascimento. Ma que-sta presunta modernità poteva appagare le aspirazionidei francesi tornati muti d’ammirazione dalle campa-gne d’Italia?

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