Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

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LA CONFESSIONE OGGI

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Antonio dal Covolo docente nella P. Università Lateranense

LA CONFESSIONE OGGI

confessori e penitenti

CITTA' NUOVA EDITRICE

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il Edizione

Con approvazione ecclesiastica

© ANTONIO DAL COVOLO - Roma

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ABBREVIAZIONI E SIGLE

AA, Apostolicam actuositatem, decr. del Vatic. II sull'aposto­lato dei laici.

AAS, Acta Apostolicae Sedis, Città del Vaticano. AG, Ad Gentes, decr. del Vatic. II sull'attività missionaria della

Chiesa. CD, Christus Dominus, decr. del Varie. II sull'ufficio pastorale

dei Vescovi nella Chiesa. CJC, Codice di Diritto Canonico. D.S., Denzinger-Schònmetzer, Enchiridion symb., defin. et deci.

de rebus fidei et morum, Romae, 1965. « Euch. Myst. », Eucharisticum Mysterium, Istr. della S.C. dei

Riti del 25.V.67. GS, Gaudium et Spes, Costit. Dogm. del Vatic. II sulla Chiesa

nel mondo contemporaneo. IM, Inter mirifica, decr. del Vatic. II sui mezzi di comunicazione

sociale. LG, Lumen Gentium, Costit. Dogm. del Vatic. II sulla Chiesa. OR, L'Osservatore Romano. PC, Perfectae Caritatis, decr. del Vatic. II sul rinnovamento

della vita religiosa. « Pers. Hum. »: Persona humana, Dichiaraz. della S.C. per la

dottr. della Fede, 29.XII.1975. PO, Presbyterorum Ordinis, decr. del Vatic. II sul ministero e

la vita dei presbiteri. SC, Sacrosanctum Concilium, Costit. del Vatic. II sulla Sacra

Liturgia.

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PREFAZIONE

La parte più vasta del libro è risultata quella riguardante le varie categorie di penitenti (distinte secondo l'età, il sesso, lo stato spirituale, le condizioni psico-fisiche, lo stato di vita e le pro­fessioni). Però primaria importanza vuol avere la trattazione generale sull'efficacia del sacramento — la Confessione è so­prattutto un dono di Dio — sugli atti del penitente, sul ministero del confessore (il quale dovrà pure interrogare se stesso sulle proprie qualità, sulla propria condotta di ministro del sacramento e di consigliere). L'ultima parte è prevalentemente ascetica ed ha per oggetto la Confessione frequente e .la direzione spirituale quali mezzi di perfezione. Comunque, il presente lavoro — anche considerato nelle sue singole parti — segue una linea e conserva uno stile ben diverso dai « compendi » di teologia morale perché anche se riferisce sinteticamente le conclusioni più sicure delle questioni morali (specialmente di quelle oggi più dibattute) sem­pre lo fa con la prospettiva pratica di suggerire al confessore ed al direttore spirituale il comportamento prudente da tenere, con riguardo alle diverse situazioni dei penitenti, nello sforzo d'adattarsi alla loro psicologia affinché la verità morale non sia solo dichiarata ed imposta ma anche fruttuosamente recepita.

Ho tentato di aggiornare e sviluppare quanto celebri autori (d'un passato più o meno lontano) hanno scritto sull'argomento. Il P. B.H. Merkelbach, O.P. ha premesso alle sue Quaestiones de variis Poenitentium categoriis (Liège, 1933) una nota biblio­grafica sugli autori, anche antichi, che hanno trattato del sacra­mento della Penitenza dal punto di vista pastorale. Mi limito a segnalare quelli che hanno avuto maggior autorità ed esercitato maggior influsso nella storia della Pastorale della Penitenza.

Poco conosciute ma estremamente interessanti ed importanti sono le Avvertenze ai Confessori di S. Carlo Borromeo (1538-1584). Si veda l'edizioni del Ratti in: « Acta Ecclesiae Mediola-

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nensis», voi. I I , coli. 1870-99, Milano, Ferraris, 1890-92. Il santo tratta dapprima della preparazione del Confessore: pre­parazione anzitutto intellettuale (non si dimentichi che l'autore s'indirizzava ad un clero immerso in una profonda ignoranza); preparazione spirituale (perché, se il sacramento agisce « ex opere operato », però il suo effetto sarà tanto più abbondante quanto maggiore sarà il fervore di chi lo amministra e di chi lo riceve). Dà particolari suggerimenti sul portamento esterno sullo spirito d'umiltà del confessore (che deve ritenere i penitenti migliori di sé). Passa quindi ad esporre gli uffici del confessore. Li riduce a due: quello di giudice e quello di medico. Come giudice deve investi­gare se il penitente ha le disposizioni richieste, deve conoscere la causa, proferire la sentenza, imporre la penitenza. Si nota una certa severità con coloro che non si son debitamente pre­parati: con parole caritative — consiglia il santo — si ammoni­scano di andar prima a prepararsi e poi ritornino. Ricorda che non si possono assolvere coloro che non hanno vera risoluzione di lasciare i peccati mortali, o di restituire il debito, o di lasciare le occasioni libere di peccato. Ed a chi, altre volte ammonito, non ha mantenuto quanto promesso, conviene differire l'assolu­zione. Riguardo agli occasionari mostra pure una certa severità. Se è il caso di chi si trova in un'occasione continuamente presente (« in esse ») (per esempio di chi tiene in casa la concubina) costui non si deve assolvere se prima non l'ha attualmente dimessa. Per l'occasione non continuamente presente (« non in esse ») basta la promessa del penitente di evitarla; ma se, nonostante altre volte l'abbia promesso, non s'è emendato, si differisca l'assolu­zione. Altrettanto si deve fare se il penitente che si trova in un'occasione « necessaria » non dà prova di qualche emendazione. Se i rimedi suggeriti per render l'occasione da prossima, remota, non si sono dimostrati efficaci, bisognerebbe imporre di lasciare l'occasione purché (dice s. Carlo) l'Arcivescovo — al quale si dovrebbe in tali casi difficili ricorrere (senza rivelare la per­sona) — non giudichi diversamente. La regola quindi non è asso­luta e si possono dare eccezioni, anche secondo s. Carlo. Al momento opportuno si dirà come questi suggerimenti possano oggi esser giudicati.

S. Carlo raccomanda poi ai confessori di seguire una uniforme norma d'azione quando è questione di concedere o meno l'asso­luzione.

Tutto questo riguarda il confessore come giudice. Conside-

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randolo inoltre come medico, il santo indicava i rimedi salutari (fra i quali la penitenza) da dare al penitente ed i consigli per indirizzare le anime anche verso la perfezione positiva: il che significa che, per s. Carlo, il confessore dev'esser anche diret­tore spirituale. Pertanto raccomandava ai penitenti di scegliersi un confessore ordinario e di non lasciarlo senza un grave motivo. Ai direttori spirituali in particolare raccomanda di suggerire alle anime aspiranti alla perfezione d'accostarsi frequentemente alla Confessione ed alla Comunione e di indicare loro qualche libro spirituale adatto.

Si può senz'altro affermare che le norme di s. Carlo ai con­fessori costituiscono un corpo di dottrina organico, anche se non completo in tutti i particolari (perché non si trovano trattate questioni importanti, come quella sull'opportunità o meno d'am­monire i penitenti quando sono in buona fede). Comunque l'auto­rità di queste Instructiones è indiscussa, come l'influsso che avranno negli autori posteriori. Naturalmente questo giudizio positivo riguarda non tanto le singole norme quanto il loro com­plesso. Difatti non si deve dimenticare il contesto storico in cui furono dettate. È da aggiungere che la dottrina di 5. Carlo fu, in seguito, da taluni svisata ed invocata a sostegno del gian­senismo pratico e del rigorismo. In realtà egli seppe indicare la" prudente condotta che evita da una parte i pericoli del lassi­smo, dall'altra gli eccessi del giansenismo. In Italia particolar­mente s. Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751) e s. Alfonso apprezzarono ed usarono le Avvertenze di s. Carlo. S. Leonardo le cita nel suo Discorso morale e mistico da farsi dopo la mis­sione, Roma, 1737. S. Alfonso vi attribuiva grande autorità e più volte le cita nella Theologia Moralis e nella Pratica del Confes­sore (per esempio, trattando degli occasionari, dei recidivi, della penitenza sacramentale, della Confessione generale, quando con­siglia di non mutar facilmente confessore). Si può affermare che in molti punti della Pastorale della Confessione s. Carlo ha prevenuto s. Alfonso (cfr. G. Sofia, La dottrina di s. Carlo sui doveri del Confessore, Milano, Ed. « La Scuola Cattolica », 1938).

Le Avvertenze di s. Carlo esercitarono un grande influsso su moralisti e confessori anche nel periodo precedente s. Alfonso, periodo segnato da animate controversie. Richiamo i fatti prin­cipali. Il 2 Marzo 1679 si aveva la condanna da parte di Inno­cenzo XI delle 65 proposizioni lassiste. I teologi rigidi vi vede­vano una conferma delle loro posizioni. Accusavano i lassisti

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d'esser una delle cause della corruzione dei costumi nel po­polo cristiano. La pastorale dei rigoristi si esplicava in modo particolare nell'amministrazione del sacramento della Penitenza. Disprezzavano l'attrizione, esigendo la contrizione. Non pochi con­fessori davano l'assoluzione al penitente solo dopo ch'egli aveva compiuto la penitenza e dato tali prove d'essersi emendato da non far più temere ricadute nel peccato. E cosi differivano sempre, o quasi sempre, l'assoluzione. Imponevano per peni­tenza l'astensione dalla Comunione. Alle Avvertenze ai Confessori di s. Carlo aggiungevano glosse e commenti interpretandole in senso diverso da quello inteso dall'autore. Però, tutto considerato la condanna delle 65 proposizioni lassiste contribuì, in genere, ad accrescere l'autorità delle regole di s. Carlo ed indusse la maggior parte dei confessori a stimarle ed applicarle. E quindi — ret­tamente interpretate — ebbero la funzione non solo di frenare la rilassatezza dei costumi ed i gravi disordini provocati dal lassismo, ma anche di moderare gli eccessi del rigorismo. Perciò furono accolte con favore dai teologi e soprattutto dai pastori e confessori. Molto stimate erano dai vescovi di Francia. Nel 1676, sotto il pontificato di Innocenzo XI, venivano stampate a Roma con l'approvazione del Maestro del S. Palazzo e divennero obbli­gatorie per i confessori di Roma e suo distretto. Sotto il ponti­ficato d'Innocenzo XII, il card. Carpegna, suo Vicario, pubblicava, per ordine del Papa, due edizioni delle Regole di s. Carlo, per uso dei confessori di Roma e suo distretto. La seconda edizione è del 1700. Nel 1702 usciva la terza edizione. Oltre che a Milano ed a Roma, furono in uso anche in altre parti d'Italia. Il car­dinal Orsini, arcivescovo di Benevento, ad esempio, le rendeva obbligatorie pel clero della sua diocesi. Oltre che in Francia, nelle Fiandre, nel Belgio, anche in Olanda era generalmente sentito il bisogno d'applicare queste regole, non solo per eliminare il lassismo e frenare le esagerazioni dei rigoristi, ma anche perché gli acattolici migliorassero l'opinione che avevano nei riguardi della Chiesa cattolica: insomma, affinché il sacramento della Penitenza non fosse più infruttuoso pei cattolici ed oggetto di disprezzo presso i cristiani separati (cfr. P. Savio, Le Avvertenze ai con­fessori di s. Carlo, « La Scuola Cattolica », Luglio-Agosto 1960, pp. 261-285).

Proseguendo nella rassegna degli autori che trattarono della Pastorale della Confessione ricordo il gesuita P. Paolo Segneri (1624-1694). Nel 1669 pubblicava a Bologna II penitente istruito.

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Tre anni dopo lo faceva seguire da II confessor istruito (Brescia, 1672). L'opera ebbe molte edizioni e traduzioni. S'accorda colle direttive che, nel secolo seguente, darà s. Alfonso e merita pertanto simili lodi, approvazioni, e richiede anche i debiti aggior­namenti e qualche riserva. Alcuni anni dopo, Pier Francesco Gior-danini (1657-1720), prete della Missione, pubblicava, in 4 volumi, la sua Istruzione per i novelli confessori che ebbe molte edizioni. Ricordo quella di Venezia (Remondini, 1757) e quella di Roma (Società della Minerva, 1841). Il Giordanini godette grande auto­rità nel secolo XVIII. Da Benedetto XIV fu detto « auctor satis peritus in administratione sacramenti Poenitentiae apprime ver-satus » {Syn. Dioeces., 1. II, e. 2); da s. Alfonso è più volte lodato e citato nella Pratica del confessore.

In Germania il P. Giovanni Reuter S.I. (1680-1762) pubbli­cava a Colonia, nel 1750, il Neo-confessarius practice instructus (forse apparso ad usum privatum nel 1749). Tratta del compor­tamento del confessore nei rapporti coi penitenti in genere; dei peccati e difetti più frequenti; dei penitenti considerati secondo le differenti età, il sesso, gli stati e condizioni. Il libro ebbe un grande successo come testimoniano le numerose edizioni fatte, vivente l'Autore e dopo la sua morte. Fu ritoccato ed aggior­nato secondo le necessità dei tempi dai PP. Mùllendorf, Lehmkuhl, Umberg il quale curò l'edizione (Friburgo Br., Herder, 1919) in conformità al CJC. Il Neo-confessarius del Reuter ebbe grande influsso nella pratica pastorale penitenziale della Germania e dei paesi del Nord. Circa la stessa epoca usciva in Italia la Pratica del Confessore di s. Alfonso. « Le due opere hanno lo stesso spi­rito e danno spesso delle direttive del tutto simili. Allorché in Francia il ministero penitenziale s'impregnava di rigorismo," sulle sponde del Reno come a Roma si manteneva umano e paterno, nella linea che aveva da principio presa dopo il Concilio di Tren­to » (R. Brouillard, DThCath., 2573-74).

S. Alfonso (1696-1787) pubblicava nel 1755 (secondo Brouil­lard, l.c, nel 1748) la Pratica del confessore. La traduzione la­tina è del 1757 (secondo Brouillard, del 1760). Nello stesso tempo scrisse pure la Istruzione e pratica per un confessore che è un riassunto in 3 volumi della Theologia moralis (alla quale l'autore rimanda quasi ad ogni pagina). Abbiamo un'edizione napoletana del 1757. Fu poi tradotta in latino col titolo Homo apostolicus ed edita a Venezia dal Remondini nel 1759. Ma in specie alla Pratica del confessore s. Alfonso annetteva evidentemente molta

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importanza. Volle fosse aggiunta — prima nell'originale stesura italiana e poi nella versione latina — a tutte le edizioni della Theologia moralis dal 1755 in poi. Difatti l'operetta richiama ai sacerdoti che già hanno studiato la teologia morale, non solo i principi di questa scienza (ordinandoli all'azione pastorale del confessore) ma anche i principi d'ascetica e mistica perché il confessore si preoccupi non solo di dare un'assoluzione ma anche di « consolare, iUuminare ed elevare mediante l'uso dei mezzi di santificazione che, secondo le disposizioni naturali ed i doni che Iddio largisce ad ognuno, devon trasformare l'uomo vecchio in immagine vivente di Cristo » (G. Pistoni, Pref. all'ediz. 1948, Modena). Nel Congresso teresiano di Madrid tenuto nei giorni 1-4 maggio 1923, fu appprovata unanimemente la seguente dichia­razione: « Nessun confessore né direttore deve ignorare il trat­tato Praxis confessarti di sant'Alfonso Maria de' Liguori, dov'è compendiata tutta la dottrina mistica ed ascetica di s. Teresa di Gesù, di s. Francesco di Sales e del medesimo s. Alfonso » (R. Bayon, Como escribió Alfonso de Logorio, Madrid, 1940, El Per­petuo Socorro, pp. 344-345).

Una edizione critica della Pratica è uscita nel 1948, dalla Tipo­grafia Pont, ed Arciv. di Modena, a cura del Can. G. Pistoni.

Per valutare tutta l'importanza ed il merito di s. Alfonso, nel campo della teologia morale e pastorale, bisognerebbe rico­struire la difficile situazione storica nella quale egli venne a tro­varsi. Da una parte c'erano tendenze al quietismo. Questa dot­trina, sviluppata specialmente dallo spagnolo Molinos (1640-1696) si era diffusa — per mezzo di gruppi e chiesuole — in vari centri d'Italia. Sotto l'illusione' di un perfetto abbandono ed inabissamento in Dio, si riduceva, in fondo, ad un naturalismo pratico perché era bandito ogni sforzo d'ascesi cristiana. L'apppli-cazione di siffatte teorie poteva avere le più funeste conseguenze e portare alla rilassatezza dei costumi morali; e tali conseguenze non tardarono a manifestarsi. Dall'altra parte c'era il rigori­smo che gettava le anime nella sfiducia, rendeva molti confes­sori difficili nel dare l'assoluzione, provocava una rarefazione nell'uso dell'Eucaristia, misconosceva la finalità medicinale e sal­vatrice della Comunione, il suo carattere di dono misericordioso (anziché di premio per le nostre opere buone). Bisognava trovare l'aurea via della prudenza cristiana. Ed in questo equilibrio si dimostrò la saggezza di s. Alfonso.

Si può dire che tutti gli autori che in seguito scrissero sul mi-

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nistero pastorale del confessore si sono ispirati alla Pratica di s. Alfonso (facendo i debiti adattamenti, ampliamenti, revisioni ed anche qualche riserva). .

Pili vicino al nostro secolo, il germanico P. Giuseppe Schnei-der S.I. (1824-1884) pubblicava nel 1862 a Colonia il Manuale sacerdotum che ebbe molte edizioni. La sedicesima è del 1905, a cura del P. A. Lelimkuhl S.I.

In Italia il sacerdote Giuseppe Frassinetti (1804-1868), verso la fine della sua vita scrisse il Manuale pratico del parroco no­vello, molto prezioso perché frutto d'una trentennale esperienza di parroco. Trattando della Confessione si sofferma a conside­rare la prudente condotta del confessore con alcune categorie di penitenti (uomini, donne, fanciulli, persone pie, anime che hanno da Dio grazie straordinarie). Di quest'opera furono fatte molte edizioni. La undecima, del 1928 (Soc. s. Paolo) è conformata al CJC a cura del P. F. Cappello S.J. e porta un'appendice del prof. G. Stocchiero. Il Frassinetti scrisse pure — appositamente pei confessori, specialmente novelli — il Compendio della Teo­logia Morale di s. Alfonso che non è solo un compendio ma porta l'aggiunta di molte « Note » e di alcune « Dissertazioni » — ri­guardanti la pratica e le questioni del giorno — che hanno lo scopo di render l'opera maggiormente utile, in particolare ai con­fessori novelli. Ad esempio mostra come si possono abbreviare certe Confessioni troppo lunghe e prolisse (che a quel tempo si facevano), suggerisce il modo come comportarsi (senza inutili in­dagini) in materia « contra sextum », le industrie per facilitare la Confessione di coloro che non hanno formazione ed istruzione e dei fanciulli (che costituiscono la massima parte dei penitenti). Un'opera quindi (egli scriveva) che « riguarda specialmente la pra­tica, che importa molto più della teorica » (Prefazione). Il libro usci a Genova nel 1865-66. La quarta ristampa era stata quasi completamente preparata dall'autore stesso prima della sua morte. L'undicesima edizione apparve nel 1944 (Torino, S.E.I.) a cura del P. F. Cappello S.I. e di D. A. Gennaro S.D.B., con adatta­mento al CJC.

È stato scritto che se s. Alfonso aveva abbattuto il subdolo giansenismo, questo mostro, benché atterrato, non era del tutto spento; chi gli ha dato il colpo di grazia è stato principalmente il santo e dotto parroco genovese. Ma con lui vanno ricordati altri insigni sacerdoti che schiantarono il giansenismo. A Genova il

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Gianelli (1789-1846), il Cattaneo (per quasi 18 anni rettore del seminario arcivescovile), lo Sturla (1805-1865); in Francia il Gous* set (1792-1866); in Piemonte il Diesbach (1732-1798), il Lanteil (1759-1830), il Guala (1775-1848), il Cafasso (1811-1860), il Bertagna (1828-1905). Certamente il Frassinetti lo sentiamo molto vicino ai nostri tempi e molto sensibile alle esigenze psicologiche dell'uomo d'oggi: egli mostra d'aver compreso che coi penitenti non si possono più usare certi sistemi che potevano esser efficaci quando i fedeli avevano più fede, umiltà e pazienza l.

Sempre nella seconda metà del secolo scorso Emilio Berardi (1831-1916) pubblicò, nel 1879, a Faenza, la sua Praxis confes-sariorum, divisa in due parti: nella prima tratta della scienza, nella seconda della bontà del confessore.

Agli inizi del nostro secolo un autore germanico molto equili­brato, G. Adloff, ha scritto una pregevole opera: Beichtvater uni Seelenfuhrer, Strasbourg, 1910 (trad. it. Il Confessore Direttore, Torino, L.I.C.E. 1930). Sull'esempio della Pratica del Confessore di s. Alfonso ha cercato di mostrare l'intima connessione fra l'ufficio di confessore e quello di direttore spirituale. Sulla dire­zione spirituale ci sono molte opere le quali, però, fanno più o meno astrazione dalla Confessione. A loro volta, quelle che trat­tano della condotta del confessore con le differenti categorie di

1 A titolo d'esemplificazione riporto (perché si confrontino e si rilevi la differenza) due passi, uno di s. Alfonso e l'altro del Frassinetti, che ri­guardano il modo di trattare con gli scrupolosi. S. Alfonso (Pratica, n. 83): Con « coloro che fanno scrupolo circa le confessioni passate... sia forte il confessore in farsi ubbidire, e se il penitente non ubbidisce, lo sgridi, gli tolga la comunione e lo mortifichi quanto può. Gli scrupolosi debbono trattarsi con dolcezza, ma quando mancano nell'ubbidienza debbon trattarsi con gran rigore, poiché se perdono quest'ancora dell'ubbidienza, essi son perduti, perché o diventano pazzi o si danno ad una vita rilasciata ». Il Frassinetti (Compendio, 1944, I, Dissertaz. II): Il confessore «e avverta a non mostrarsi irritato con loro, neanche qualora si mostrino disubbidienti... Egli deve esigere ubbidienza ai suoi ordini, ubbidienza cieca, pronta e costante. Tuttavia bisogna pur riconoscere che la forza degli scrupoli è ter­ribile, e che alle volte, anche volendo, non possono, moralmente parlando, ubbidire; hanno momenti nei quali il giudizio stesso della ragione è così perturbato da non lasciarli padroni di sé; ed allora è chiaro che se non ubbidiscono non sono perciò in colpa. Che se il Confessore credesse cosa opportuna alcuna volta sgridarli... per... ottenere che facciano uno sforzo maggiore per vincere i loro vani timori, dovrà attendere a non usare maniere troppo aspre e risentite; e... dovrà sempre conchiudere... con parole caritatevoli e dolci che ispirano confidenza; altrimenti non farà che accre­scere afflizioni agli afflitti senza alcun loro vantaggio».

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penitenti si attengono soprattutto all'applicazione dei principi morali (sul lecito e l'illecito, sul modo di convertire i peccatori) ma poco considerano la direzione spirituale propriamente detta ossia l'arte di condurre i penitenti dal bene al meglio cioè verso le vette della perfezione, mentre, invece, ogni buon confessore, pio e dotto, è quasi spontaneamente anche direttore spirituale (come ho cercato di dimostrare nella terza parte del libro). L'Adloff tratta della direzione in generale e della direzione di alcune anime in particolare (peccatori, tiepidi, anime pie, scru­polosi, religiosi e religiose).

Su casi particolarmente delicati che possono capitare al con­fessore chiamato al letto d'un moribondo (concubinario, eretico, demente, sordomuto, sconosciuto che ha perduto i sensi, ed altri) scrisse il Sac. Antonio Rossiello, Una parola ai Confessori, 2* ed. 1938, Napoli.

Di Mons. G. M. Camele è l'operetta: G. M. C, Trattatela per Confessori, 3a ed. Torino, L.I.C.E. 1932, nella quale passa in ras­segna varie categorie di penitenti (timidi e reticenti, scrupolosi, indisposti, recidivi) dando consigli molto saggi e molto pratici.

Il redentorista F. Ter Haar trattò De occasionariis et recidivis, secondo la dottrina di S. Alfonso e d'altri stimati autori, Torino, Marietti, 1927. Dello stesso autore bisogna apprezzare due volumi di Casus conscientiae sulle precipue occasioni di peccato oggi esi­stenti, 2a ed. Torino, Marietti, 1939.

Del domenicano P. B. H. Merkelbach sono da segnalare le Quaestiones de variis Poenitentium categoriis, Liège, 1933. Lo stesso autore tratta di altre categorie di penitenti in: Quaestiones de variis peccatis, Liège, 1935.

Benemerita la pubblicazione di Mons. A. Grazioli, La pratica dei Confessori nello spirito del Cafasso, 2* ed. Colle don Bosco. L.D.C. 1944.

L.-J. Lebret e Th. Suavet, con la collaborazione di molti amici sono riusciti a riunire nel libro: Rajeunir Vexamen de conscience (trad. it.: Ringiovanire l'esame di coscienza, Roma, Studium, 1954) un gran numero di esami di coscienza distinti secondo la vita personale, familiare, professionale, sociale e religiosa dei pe­nitenti; ed anche secondo la vita dei popoli. Sono partiti dal prin­cipio t:he l'esame di coscienza viene proposto con tanta maggiore efficacia ed utilità quanto pili si scende alle categorie specializzate. Si tratta però di schemi che hanno bisogno di essere elaborati. Manca poi una premessa sulla Confessione, il confessore ed il pe-

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nitente in generale. Ciò si trova invece nel manuale di A. Chanson, Pour mieux con]esser, Arras, 1952 (trad. it.: Per meglio confes­sare, Ed. Paoline, 1956) il quale pure considera molte categorie di penitenti (soffermandosi — sia detto fra parentesi — molto ed anche troppo, su certi particolari della vita intima degli sposi nell'uso del matrimonio, particolari che praticamente non si trat­tano in Confessione).

Molto importanti per i confessori i commenti delle Norme (riservate) date dal S. Officio, il 16.V.1943, De agendi ratione confessariorum circa VI Decalogi praeceptum. Ricordo quello del Pistoni, 4a ediz. Padova, Gregoriana, 1959 e quello del Luzi, La condotta dei Confessori riguardo al 6° comandamento. Torino, L.I.C.E. 2a ed. 1953.

Non continuo la rassegna bibliografica degli autori odierni che hanno trattato di qualche singola categoria di penitenti. Sono cosi numerosi — specialmente quelli che hanno scritto sulla Con­fessione dei fanciulli e dei giovani — da scoraggiare, chi tentasse di elencarli. Qualcuno (non molti) è stato da me citato nel corso della trattazione. Ricordo qui solo un autore: Kl. Tillmann, Die Fùhrung zu Busse, Beichte und Christlichem Leben, Echter - Ver-lag. Wiirzburg, 1961 (trad. it.: Catechesi della Confessione, Bre­scia, La Scuola, 1963), perché rileva (con altri autori moderni) i di­fetti della vecchia catechesi di preparazione dei fanciulli alla prima Confessione (qualche volta, a quanto pare, esagerando e gene­ralizzando, forse facendosi eco delle critiche protestanti).

Ho voluto citare, nel testo, anche alcuni autori d'un passato molto lontano, purtroppo da noi dimenticati od ignorati, men­tre sono tutt'altro che superati, almeno circa molti problemi. Ma, anche sulla loro bibliografia, sia ben chiaro, ho inteso fornire in questa Prefazione solo qualche traccia orientativa.

È stato osservato che da qualche anno tutta la teologia ha orientato la sua speculazione in un senso caratteristicamente pa­storale. E questa voleva esser la specifica finalità dell'ultimo Con­cilio. Secondo questa prospettiva si muoverà in modo tutto parti­colare chi rivede e rivive la Teologia Morale in vista ed in fun­zione del ministero della Confessione. Nel trattato « De Poeniten-tia » si ha un riepilogo e l'applicazione di tutta la Teologia Mo­rale; e tutte le questioni possono esser studiate, da un punto di vista piuttosto dogmatico, o morale, o pastorale, o giuridico, o psicologico. Il confessore avrà presenti tutti questi aspetti, per-

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che tutti hanno importanza, anche se non uguale, pel suo mi­nistero.

Si segnala una lacuna sulla preparazione del giovane sacerdote al ministero della Confessione. Dopo un esame — talvolta piut­tosto fugace e pili teorico che pratico — vien mandato ad eser­citare vari ministeri: predicazione, catechesi, confessione... Meno male per la predicazione. Egli può riflettere al modo come pre­dicano quelli che sono più capaci di lui; e gli errori che com­metterà gli potranno esser segnalati da laici e da confratelli. Ma non può vedere come confessano i più abili confessori; e nessuno può osservare come egli confessa ed ammonirlo se sbaglia. Può anche darsi che porti fino alla tomba i suoi difetti. Potrà anche correggersi e migliorare. Ma ciò avverrà attraverso non pochi errori e se da essi saprà ricavare — per riflessione — un salu­tare insegnamento. Contro questi sbagli lo studio della Pastorale dovrebbe premunirlo. Ma bisogna che sia una Pastorale vera­mente (anche se non esclusivamente) pratica. Non solo un com­pendio del trattato « De Poenitentia », come si nota in qualche libro al cui titolo suggestivo non corrisponde il contenuto (G.M.C., Tratt. per Conf., p. 6). E non bastano le ricerche teoriche o sto­riche sulla Pastorale. Se, ad esempio, si studia in qual modo dal­l'uno o dall'altro autore è stata insegnata la Pastorale della Con­fessione, si fa la storia della Pastorale della Confessione. La quale può essere un'utile premessa; ma a me occorre inoltre sapere qual è il metodo migliore che io posso seguire, come devo esercitare il mio ministero di confessore in questo momento storico, tenendo conto dei problemi più attuali, del grado di fede che oggi comu­nemente troviamo nelle anime, dei bisogni relativi alle varie cate­gorie di penitenti. Per questo non sarà sufficiente studiare, per esempio, il pensiero e le direttive di un s. Alfonso (per quanto grande possa esser la sua autorità e la prudenza delle sue opi­nioni).

A proposito, in particolare, della delicata materia del sesto comandamento, un autore di pastorale del passato scriveva: « Quanto al confessore novello lo consigliamo a farsi istruire in questo punto da qualche confessore vecchio, e che egli giudicherà più prudente » (F. Giordanini, Istruzione per i novelli confessori, Roma, 1841, I, p. 115). Purtroppo però — osservava un altro autore di pastorale — « quanto son rari, anche tra i confessori vecchi, quelli che siano capaci di dare su questo punto ammae­stramenti pratici, davvero efficaci e sicuri! » (G. M. C, Tratt. per

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Con]., p. 28). « Su questo punto »: ma — oltre il VI — ci sono tante spinose questioni sulle quali il confessore novello — dopo aver studiato — avrebbe bisogno d'un qualche orientamento pra­tico, frutto dell'esperienza. Orientamento che spesso non sa a chi chiedere.

Spero che quanto ho scritto possa servire ai sacerdoti non solo pel loro specifico ufficio di confessori ma anche per altri ministeri (preparazione di un ritiro spirituale per un gruppo di persone che hanno particolari problemi, suggerire un esame di co­scienza comunitario...): ci sono spunti che potranno esser svi­luppati.

Ho approfittato dell'occasione per fare qualche cenno anche alla problematica di altri sacramenti che, talora, insieme alla Con­fessione, vengono amministrati ai fedeli (fanciulli, malati, fidan­zati, candidati al sacerdozio, aspiranti alla vita religiosa...). Però l'esigenza d'osservare certi limiti mi hanno costretto ad eliminare molte questioni, pur interessanti, oppure a limitarmi a riferire solo le conclusioni. Le materie e gli argomenti toccati sono così vasti e numerosi da offrire infinite considerazioni pratiche ed ap­plicazioni: non è stato pertanto possibile altro che sceglierne qualcuna, più che altro a titolo d'esemplificazione. Altrettanto si dica delle categorie di penitenti — che specialmente se considerate secondo lo stato di vita e la professione — potrebbero esser mol­tiplicate all'infinito.

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INTRODUZIONE

Per quanto pastorale-pratico voglia esser lo studio del sacra­mento della Confessione (sia dal punto di vista del suo ministro, sia dal punto di vista dei penitenti) non è possibile omettere un accenno alle principali questioni che al momento presente si agi­tano da parte dei teologi.

1. Tali questioni sono sollevate proprio in seguito alla rare­fazione della Confessione privata, nel tentativo di dare una spie­gazione (od una giustificazione) di questo fatto. Ma di questo fatto la problematica teologica diventa, a sua volta, una delle cause. Coloro, ad esempio, i quali oggi propongono che siano attenuate le disposizioni del Tridentino sull'integrità dell'accusa, sull'obbligo della Confessione prima della Comunione per chi è in stato di peccato mortale, questi teologi non si assumono una qualche responsabilità dell'attuale rarefazione delle Confessioni? Altrettanto si dica di coloro i quali propongono di sostituire i termini « confessione », « penitenza », « dolore »... con quelli di « conversione », « riconciliazione », « Pasqua »... Il fatto che que­ste siano espressioni più perfette non giustifica che possano so­stituire in pieno quelle che significano specificamente il Sacra­mento della Penitenza.

2. Ad una morale degli « atti » tende oggi a sostituirsi una morale della « disposizione », degli « habitus »: non si può va­lutare obbiettivamente un'azione — si dice — se non è vista in relazione a tutta la vita, come una scena d'un film deve esser giudicata in base al senso del film intero. Si può spiegare allora come, dopo commessa un'azione che, considerata isolatamente è contraria ad una legge, si possa tranquillamente soprassedere dal-Paccusarla in Confessione: perché solo a distanza si potrà valutare serenamente un momento particolare dell'esistenza d'un uomo. La conclusione dunque sarà che non occorre confessarsi tanto spes­so: invece di confessare i singoli atti si attenderà di formarsi un

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giudizio globale più equilibrato. E cosi gli autori moderni trat­tano con insistenza e preferenza della formazione del carattere e della personalità. Ma la perfezione, per sé, consiste negli atti. Anche se ci sono qualità buone, il merito sta nell'esercitarle liberamente. È vero che la ripetizione degli atti buoni produce l'abitudine, cioè la facilità. Ma, per sé, ciò che in pratica più preme in ordine alla perfezione sono gli atti (siano essi compiuti con facilità naturale o no). Quando poi si tratta di atti contrari alla norma della mo­ralità, è ovvio come sia pericoloso il cercare una certa giustifi­cazione nella disposizione fondamentale ed abituale buona e ritar­darne pertanto l'accusa in Confessione.

3. Altra causa del regresso della Confessione individuale: si sollevano dubbi sul carattere peccaminoso di certe azioni, e sulla gravità di certi disordini. Per logica conseguenza s'insinua il dub­bio che non sia strettamente necessario accusarsene in Confessio­ne: il peccato non mortale può esser rimesso con altri mezzi, spe­cialmente con l'Eucaristia. Sappiamo bene come non è questa una ragione valida per trascurare il Sacramento: qualunque sia il grado di colpa soggettiva, chi accusa il suo peccato e chiede l'assoluzione riceve sempre un accrescimento di grazia.

A proposito di certe leggi ecclesiastiche (Messa festiva, di­giuno, astinenza...) si parla di una certa elasticità che sarebbe stata introdotta, cosicché il peccato di chi le trasgredisce diven­terebbe meno percepibile (cfr. Orientamenti per un rinnova­mento della pratica penitenziale, Torino, L.D.C., 1974, p. 16). Se il peccato risulta meno percepibile, si sentirà meno il bisogno di ricorfere alla Confessione perché sia cancellato.

4. In questi ultimi anni si è sottolineato il ruolo della coscienza personale come norma immediata dell'azione morale. Principio pacificamente da tutti ammesso. Ma è evidente che a sentirlo pro­clamare con insistenza, taluni possono esser indotti a rasserenare la propria coscienza cercando qualche ragione giustificante la tra­sgressione di certe leggi (anziché ricorrere alla Confessione, più facile e più sicuro rimedio contro ogni rimorso ed ogni eventuale colpa: « mi accuso di tale azione secondo la responsabilità che Dio vede... »). È da dire che anzitutto si supporrebbe una introspezione seria, calma, spassionata. Inoltre, in molte materie e in molti casi, non sarà, comunque, facile giungere ad un giudizio deciso della coscienza, neppur da parte di chi conosce bene la legge mo­rale e sa esaminare accuratamente la propria condotta. Trascurare

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la Confessione significherebbe non approfittare di un dono offerto da Dio per la sicurezza e la pace dello spirito.

5. È stato osservato come il cristiano moderno non percepisce più se stesso come un individuo isolato: si sente coinvolto in un intreccio di relazioni. Perciò il male morale è sentito fortemente nella sua dimensione orizzontale. E ciò è giusto e porta dei van­taggi. Ma c'è anche un pericolo ed un inconveniente: che la rela­zione verticale rischi di passare in secondo ordine. Un'azione che non reca danno a nessuno —'- si dirà — perché è peccato? E se viene percepita meno l'offesa fatta a Dio, si sentirà meno il biso­gno della Confessione. Ma questo dipende da mancanza di fede: un orizzontalismo che dimenticasse Dio porterebbe ad annullare la coscienza cristiana — cioè quella vera — del peccato.

6. Quanto al ruolo della Chiesa e del ministro del sacra­mento nella conversione del penitente, sembra a taluni che pri­ma del Vaticano II si fosse sottolineata in maniera forse troppo esclusiva la dimensione ministeriale e si fosse ridotta la Chiesa alla sua gerarchia ed al suo potere. Ora si preferisce affermare che tutta la Chiesa — pastori e fedeli — è il sacramento visibile della salvezza e si mette in risalto il sacerdozio comune (la dia­conia) di tutti i fedeli. Le. conseguenze di questa prospettiva pos­sono esser però ambivalenti nella pratica, ed apportare tanto bene come male. Occorre un'equilibrata interpretazione. Altri­menti la funzione del ministro potrebbe esser meno apprezzata e valutata. L'attuale indagine teologica cerca di definire la natura ed il ruolo della presenza attiva della comunità nel momento in cui il peccatore contrito riceve la grazia sacramentale nella Con­fessione. Sembra che qualche teologo non sia contrario ad am­mettere che come noi ci perdoniamo vicendevolmente i nostri debiti, così Dio perdona i nostri peccati. Si verrebbe così a met­ter in dubbio la specificità del sacramento della Penitenza, non­ché la differenza essenziale tra sacerdozio dei fedeli e sacerdozio ministeriale (cfr. Orientamenti..., pp. 16-17; 21-23; 71-73).

7. Da parte di moralisti non cristiani ed anche cristiani e cattolici si è maggiormente rilevata — più o meno equilibrata­mente — la causalità che nell'azione morale esercita l'inconscio, l'influsso della società e dell'ambiente, dell'elemento fisico e di tutti quei fattori che gli autori classici chiamavano « impedimenti dell'atto umano ». Procedendo su questa strada si arriva ad una diagnosi più sfumata del male e della sua gravità; fino, forse, a

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chiedersi: quando agiamo davvero « con piena avvertenza e deli­berato consenso »? (cfr. Orientamenti..., p. 18). E cosi si sentirà meno vivo il bisogno di confessare frequentemente il peccato le cui categorie « grave » e « veniale » diventano in concreto diffi­cilmente definibili. Si sarà tentati di chiedersi se le colpe gravi siano tanto frequenti, o, addirittura se esistano, se siano pos­sibili.

I moralisti scolastici s'ingegnarono a distinguere con esattezza le diverse specie e categorie di peccato. Questo sforzo di cataloga­zione aveva i suoi vantaggi: serviva ad affinare la coscienza, a far sentire la serietà del peccato, a stimolare il progresso morale. Ci po­teva essere il pericolo di perder di vista l'aspetto soggettivo del pec­cato, il « cuore cattivo » dal quale provengono, come dice Gesù, tutti i peccati (Me. 7, 14-23). D'altra parte, se oggi si tende a supe­rare la considerazione degli atti isolati per ravvivare piuttosto la co­scienza di essere peccatori, si rischia di non impegnarsi con se­rietà nello sforzo di conversione: ci si riconoscerà peccatori sem­plicemente in modo globale senza chiedersi né come né quando (cfr. Orientamenti..., p. 29). Ci si accontenterà di accusarsi in modo generico: « per celebrare degnamente ,i santi misteri rico­nosciamo i nostri peccati... Confesso... che ho molto peccato in pensieri parole opere ed'omissioni... Signore, pietà... ». La Con­fessione individuale può venir cosi trascurata.

8. Si obbietta che l'uomo moderno prova ripugnanza a rac­contare le sue miserie ad un suo simile. Preferisce regolare diret­tamente i suoi rapporti con Dio. Si potrebbe con altrettanta ra­gione psicologica ed antropologica rispondere che la colpa com­porta il bisogno di parlare (in chi riconosce pentito la sua colpa): parlare anche ad un altro uomo. Tanto più che il peccato ferisce anche gli altri, minaccia la comunione ecclesiale voluta da Dio. Perciò chi è veramente pentito sarà spinto irresistibilmente anche a parlare per sentire dalla bocca d'un fratello la parola del per­dono, della riabilitazione e della riconciliazione. Si può dire che « l'ordinamento divino della riconciliazione secondo la struttura dell'alleanza s'incontra con questo "desiderio della natura" » {Orientamenti..., p. 53). Comunque ogni eventuale sentimento di ribellione verrebbe superato se la fede fosse viva.

9. In questi ultimi tempi si è ricordato che la riconciliazione, la conversione, la purificazione — almeno quando si tratta di colpe non mortali — può ottenersi per altre vie oltre che mediante

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la Confessione sacramentale. « L'insistenza esagerata e quasi esclu­siva sulla Confessione — è stato detto — aveva messo in om­bra valori preziosi che è arrivato il tempo di rivalutare » (Orien­tamenti..., p. 56): elemosina, digiuno, preghiera, rito penitenziale all'inizio della Messa, visita e cura dei malati, dei carcerati... Non c'è dubbio: queste opere dimostrano la vera conversione e varreb­bero più di una pratica sacramentale priva di ogni volontà di riformare la vita. D'altra parte non possono sostituire il sacra­mento che produce (in chi ha un minimo di disposizione suffi­ciente) la grazia « ex opere operato ». Chi la pensa diversamente sarà portato naturalmente a trascurare la Confessione.

10. La Confessione è ovviamente poco frequentata da chi ha meno vivo il senso della colpa. Ma c'è anche qualche maestro di morale che sconsiglia la Confessione frequente per timore che il senso della colpa diventi eccessivo. Evidentemente si può dare qualche caso nel quale una singolare frequenza alla Confessione sia determinata da un senso ossessivo del peccato. Ma, entro i limiti della normalità, una serena frequenza al sacramento è un mezzo pedagogico e psicologico efficacissimo. Non solo per puri­ficarsi dai peccati reali, ma anche per ritrovare la pace e l'equi­librio. Lo stesso Freud scrisse che la Confessione penitenziale cattolica è la più grande nemica della nevrosi. Del resto, si può chiedersi se oggi convenga, in linea di massima, siffatta precau­zione (di non inoculare un esagerato senso di colpa) quando le cronache quotidiane testimoniano che la coscienza del peccato e della responsabilità personale è di fatto carente in modo spa­ventoso.

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Parte prima

EFFICACIA DEL SACRAMENTO COOPERAZIONE DEL PENITENTE E DEL CONFESSORE

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1. Il nuovo rito. Significati teologici e suggerimenti pastorali-ascetici

Il Vaticano II, nel quadro d'una riforma liturgica in materia sacramentaria, aveva espresso il voto di « rivedere il rito e le for­mule della Penitenza in modo che esprimano più chiaramente la natura e l'effetto del Sacramento » (SC, 72). Nel rito finora vi­gente certuni rilevavano non solo « l'assenza di una dimensione comunitaria, ma la ridottissima attività del penitente, fatta ecce­zione per la confessione... Non risulta evidente — dicevano — il cambiamento del cuore, il ritorno laborioso, la reintegrazione nella comunità, l'intercessione della Chiesa. L'opus operatum ha soffocato Vopus operantis » (R. Falsini in AA.VV., La penitenza, riconciliazione con Dio e con la Chiesa, Milano, Ares, 1968, p. 38). A proposito, di dimensione comunitaria è all'ordine del giorno l'indagine teologica sulla natura e la portata di quest'azione della Chiesa tutt'intera nella vita spirituale dei singoli fedeli. Non c'è dubbio, la comunità è attivamente presente quando il singolo si riconcilia con Dio e quando riceve il sacramento. Ma bisogna evitare gli eccessi. Qualcuno, appellandosi ad alcuni testi della Scrittura (« Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori », Mt. 6, 12; « dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro », Mt. 18, 20) e spingen­dosi molto avanti, potrebbe concludere che la remissione dei pec­cati si può ottenere anche senza l'intervento d'un ministro auto­rizzato. Conseguenza: verrebbe meno la distinzione essenziale fra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale; il sacramento, poi, della Confessione perderebbe la sua specificità e la sua necessità. A proposito dei citati testi scritturistici. che il perdono agli altri sia condizione e speranza per ottenere le grazie di Dio e disponga la Sua misericordia a perdonarci, questo è certo; ma concludere

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che sia sufficiente e che strettamente ed automaticamente ci meriti il perdono di tutti i nostri peccati, questo è troppo; tanto più che qualcuno può aver gravi debiti direttamente verso Dio e non debiti gravi da condonare al prossimo. Il fatto, poi, che dove ci sono alcuni riuniti in preghiera in nome di Cristo, Egli è presente in mezzo a loro, non ci autorizza a concludere che ogni preghiera in comune ci merita in modo diretto il perdono dei peccati, ma bensì ci può ottenere la grazia per giungere alla conversione piena (cfr. Orientamenti per un rinnovamento della pratica penitenziale, Rifless. dottr. e past. a cura della Comm. Dottrin. della Conf. Episc. e della Comm. Past. Lit. del Belgio, LDC, 1974, pp. 71-73).

Comunque, quand'anche con un atto di carità verso il pros­simo — espresso nel perdono — o di carità verso Dio — im­plicito ed operante nell'orazione — fosse ridata la grazia a chi era in stato di peccato, resterebbe (per volontà di Dio e non della Chiesa) il dovere di confessare distintamente i peccati, se possi­bile. Ma, siccome si tace da taluni su questo dovere, perciò si spiega come presso i fedeli può diminuire la stima verso la Con­fessione privata individuale e certi possono concludere che non è necessaria.

Il nuovo « Ordo Paenitentiae » del 2.XII.1973 (E. Vat. 1974; AAS, 66, 1974, 172-173) ha cercato di venir incontro alle istanze dei teologi. Anche nel rito per i singoli penitenti è proposta — allo scopo d'una miglior preparazione penitenziale — una, sia pur breve, lettura della S. Scrittura (da farsi prima o durante la cele­brazione del sacramento). Per le celebrazioni comunitarie, poi, 1'« Ordo » offre molteplici riferimenti biblici. Di significati teo­logici sono pregne le formule sacramentali. E si nota l'intento che il sacramento si celebri in un'atmosfera di serenità e porti alla gioia della riconciliazione o d'una intensificata amicizia con Dio \

1. Anzitutto nell'« Ordo » c'è una raccomandazione sul modo come il confessore accoglierà il penitente: « con carità fraterna, e, se vede opportuno, lo saluterà con parole di particolare cortesia »

1 Nell'Istruz. Euch. Myst. {AAS, 59, 1967, 561) si consiglia ai fedeli di confessarsi non durante la celebrazione della Messa: cosi potranno rice­vere il sacramento con più tranquillità ed utilità e non esser impediti dalla partecipazione attiva alla Messa. Ottimo consiglio. Il quale però suppone ci siano sacerdoti disponibili per le Confessioni anche extra la celebrazione della Messa (specie il sabato e la vigilia delle feste, nelle ore pomeridiane e serali).

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(n. 16). Questa accoglienza difatti ha una efficacia psicologica forse determinante ai fini d'una aperta, serena, risanatrice Con­fessione.

Il penitente inizia la sua confessione facendo il segno di croce. Il confessore recita una formula colla quale invoca sul penitente la luce dello Spirito Santo.

Poi P« Ordo » accenna alla possibile lettura (od alla recita a memoria) di qualche Parola di Dio per motivare ed aiutare gli atti del penitente.

Se non lo conosce, il confessore può chiedergli da quanto tem­po non si confessa e quali peccati gli sembra di ricordare. Cosi inizia il colloquio ed invita il penitente all'accusa: sarà pronto ad

"' offrirgli la sua mano per aiutarlo, secondo le circostanze e la con­venienza, evitando sia il disinteressamento, sia le indiscrezioni.

2. Dopo l'accusa e l'accettazione della soddisfazione proposta dal confessore, è utile che il penitente reciti una qualche formula per rinnovare il dolore dei peccati, il proposito di evitarli, e per implorare il perdono di Dio (Ordo Paenit., n. 19). Cosi si di­sporrà meglio a ricevere l'assoluzione e parteciperà più attivamente alla celebrazione del sacramento2. Per sé non è necessario che pen-

, timento e proposito siano espressi esteriormente. Se sono stati :; concepiti interiormente, sono impliciti, nell'atteggiamento di chi % domanda con retta intenzione ed umiltà l'assoluzione dei peccati %, che accusa. Si faceva la questione: quanto tempo possa passare • senza che sia necessario rinnovare dolore e proposito. È da rispon­

dere che basta siano virtualmente perseveranti ed operanti, cioè influiscano nella vita del penitente. E si dovrebbe presumere che egli si sia preparato alla Confessione. Però di fatto, specie i fan­ciulli, spesso non si preparano. E può anche darsi il caso d'un

V penitente che non era ben disposto prima della Confessione ma vien condotto ed arriva a disporsi debitamente nel corso della Confessione, prima dell'assoluzione. Comunque, la psicologia inse-

" gna che non è lo stesso l'atto di dolore recitato (forse distratta-'T mente e freddamente) prima dell'accusa e quello che scaturisce da •,: un cuore (umiliato ma fiducioso) dopo le toccanti parole d'un con-i fessore vibrante d'amore. In questo momento solenne ed intimo

2 Pertanto la recita dell'atto di dolore « non deve mai sovrapporsi alle formule della preghiera sacerdotale » (Dirett. Ut. Post, [ital.], 1967, pp. 66-67).

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s'incrociano il gemito della creatura e la parola consolante e tra­sformante del perdono divino.

Una qualche parola d'esortazione è desiderabile che il confes­sore la rivolga a tutti, prima di dare l'assoluzione (Ordo Paenit., n. 18).

Ed è buona consuetudine che inviti il penitente ad abbracciare nel suo atto di dolore anche i peccati che non ricorda e quelli della vita passata.

3. Il nuovo « Ordo Paenitentiae », n. 19, ripropone poi un gesto che per molti era caduto in disuso: il sacerdote stende le mani (od almeno quella destra) sul capo del penitente mentre pro­nuncia la formula sacramentale, per poi tracciare il segno di croce mentre dice le parole dell'assoluzione. Questa imposizione delle mani esprime l'atteggiamento paterno di Dio che accoglie il fi-gliuol prodigo; significa la grazia dello Spirito Santo che vien in­fusa per ricostruire (od accrescere) la vita battesimale; indica la riconciliazione (o l'intensificata unione) del peccatore con la Chiesa.

4. Le parole essenziali dell'assoluzione non sono state mutate: « Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ». Il penitente risponde: « Amen ». Nuova la formula nella quale sono inserite: « Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei pec­cati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace »: la grazia di questo sacramento è riportata alla morte e redenzione di Cristo; la conversione e santificazione nostra è attribuita allo Spirito Santo; si rileva che il ministero di questo sacramento si opera nella Chiesa e per la Chiesa; si dà al penitente il lieto annuncio che il frutto del sacramento dev'esser la pace.

« Cosi il sacramento si illumina della vita stessa della Trinità santissima, intesa sia come punto di partenza — il Padre che per primo ci ha amati, Cristo che per noi ha dato se stesso, lo Spi­rito Santo su di noi effuso in abbondanza — sia come punto di arrivo: il Padre che accoglie il figlio pentito nel suo ritorno a Lui, Cristo che si pone sulle spalle la pecora smarrita per riportarla al­l'ovile, lo Spirito Santo che santifica di nuovo U suo tempio, o rende in esso più viva e intensa la propria dimora » (Lettera a firma del Card. Villot, fatta pervenire da Paolo VI alla XXVI Sett. Lit. Naz., OR, 27.VIII.1975, p. 1).

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« Mediante il ministero della Chiesa » si opera la riconcilia­zione con Dio. Ed anche la riconciliazione con la Chiesa: « la Con­fessione è stata istituita propriamente — dice s. Bonaventura — perché l'uomo si riconcili con la Chiesa e cosi rende visibile la sua riconciliazione con Dio » (Pentì, e Unz. degli Inf., C.E.I. 12.VII.1974, n. 66).

La Penitenza — come conversione autentica — è, quindi, in definitiva, un'azione soprannaturale di Dio che ci dona la sua grazia e per primo ci vien incontro perché ci lasciamo riconciliare con Lui. Il che non deve significare pel penitente l'esclusione di quel ripiegamento introspettivo che può esser necessario per cono­scere le colpe, pentirsi, proporre, e cosi disporsi a ricevere la gra­zia. La quale domanda all'uomo la collaborazione, come in tutto il lavoro di santificazione. Ma è essenzialmente diversa la prassi penitenziale sacramentale da quella in uso presso i Protestanti che non riconoscono il valore dell'« opus operatum » ma solo quello degli atti soggettivi.

5. L'« Ordo Paenit. », n. 21, avverte che « quando la neces­sità pastorale lo suggerisce, il sacerdote può omettere od abbre­viare alcune parti del rito, ma non sacrificare l'integrità per quanto riguarda la confessione dei peccati, l'accettazione della soddisfa­zione, l'invito alla contrizione (n. 44), la formula dell'assoluzione e quella del congedo ». Se però fosse imminente il pericolo di morte basta che il sacerdote pronunci le parole essenziali della for­mula assolutoria: « Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».

6. Riguardo al luogo della celebrazione del sacramento, è detto semplicemente che « si amministra in luogo e sede stabiliti dal diritto » (n. 12). Né diversa disposizione e concessione è da vedersi là dove (n. 55) si parla di penitenti che, dopo esame di coscienza e preparazione fatti in comune, « s'appressano ai sacer­doti che si trovano nei luoghi convenienti (in locis aptis) » per fare la confessione privata. Paolo VI — facendo, in occasione del­l'udienza generale del 3 Aprile 1974 (OR, 4.IV.74, p. 1), alcuni rilievi sul nuovo ordinamento liturgico della Penitenza — lamen­tava « certe notizie inesatte che sono state divulgate » (e, per­tanto, da « precisare e rettificare ») « come quella dell'abolizione dei confessionali: il confessionale — dichiarava — in quanto dia­framma protettivo fra il ministro e il penitente, per garantire l'as­soluto riserbo della conversazione loro imposta e loro riservata,

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è chiaro, deve rimanere ». E ricordava l'esempio del lazzarista Guillaume Pouget che a Parigi — rue de Sèvres, 85 — riceveva molte persone d'ogni genere, anche rinomate ed altolocate. I col­loqui spesso terminavano colla confessione sacramentale. Perché tanta fiducia e confidenza in quest'uomo? Oltre alle doti di con­sigliere e confessore, egli aveva anche il difetto fisico d'esser cieco (cfr. J. Guitton, Portrait de M. Pouget, Gallimard, 1941; Dia­lo gues avec M. Pouget, Grasset, 1954). E nella lettera alla XXVI Settimana Lit. Naz. (firmata dal Card. Villot) Paolo VI ripeteva che il confessionale « deve rimanere », « anche se il nuovo rito ne prevede un'eventuale ristrutturazione, approvata dalla legit. tima Autorità », perché « mantiene tutta la sua importante fun­zione » (OR, 26.VIH.1975, p. 1).

Dunque nessun cambiamento, rispetto alle norme ed alia pras­si in uso, finora è autorizzato. Anche se è pacificamente augu­rabile che si costruiscano confessionali sempre più razionali, acco­glienti, comodi, che permettano un colloquio segreto e, nel tempo stesso, meno difficile e meno disagevole3.

7. Dopo il dono della grazia, una brevissima preghiera di rin­graziamento: « Lodiamo il Signore perché è buono ». « Eterna è la sua misericordia ». Ed infine il saluto di pace ed il congedo: « Il Signore ha perdonato i tuoi peccati. Va' in pace ». Ma nella edi­zione in lingua italiana dell'* Ordo Paenitentiae », a cura della C.E.I., si legge che in luogo del ringraziamento e del con­gedo il confessore può ancora recitare la preghiera: « La Pas­sione di Gesù Cristo nostro Signore, l'intercessione della Beata Vergine Maria e di tutti i santi, il bene che farai e il male che dovrai sopportare ti giovino per il perdono dei peccati, l'aumento della grazia e il premio della vita eterna. Va' in pace ». Una pre­ghiera che meriterebbe un meditato commento. Ricorda al peni­tente che egli ha associato quest'atto penitenziale e sacramentale al mistero pasquale. Oltre ad ottenere un interessato colpo di spu-

3 In una recente Nota della C.E.I. si ripete che il confessionale di tipo tradizionale dev'essere conservato. Si dà peraltro mandato alle Commissioni regionali o interregionali per la Liturgia e l'Arte sacra di studiare e pre­sentare alle Conferenze Episcopali regionali i progetti d'un opportuno adat­tamento. L'approvazione spetterà ai singoli Ordinari (cfr. Notiziario della C.E.I., 30.IV.75, p. 72). Quanto all'abito liturgico per la celebrazione del sacramento, l'Assemblea dei Vescovi italiani ha disposto che nella celebra­zione comunitaria si usi alba e stola, nella celebrazione individuale in luogo sacro, alba e stola, oppure talare e stola (ivi).

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gna sui suoi peccati, il cristiano è invitato a riferire consapevol­mente questa grazia (questa « seconda tavola di salvezza » dicono i Padri, questo « battesimo laborioso », dice il Tridentino, sess. XIV, 2) alle sofferenze del Signore: tutta la vita di chi ha rice­vuto questo sacramento può acquistare un valore espiatorio e san­tificante. Partecipazione al mistero del Cristo sofferente, parteci­pazione alla gloria del Cristo Risorto.

Ma, per quanto queste preghiere siano ricche di significati dogmatici ed ascetici, e siano, per sé, efficaci, lo saranno tanto più se il ministro del sacramento è animato da una profonda pietà personale che si comunichi al penitente. È questa che assicura alle paròle — alla stessa formula essenziale — un tono iricon-fondibile, una forza trasformante (che rientra nell'« opus operan-tis »). Tutta la liturgia può restar fredda e non toccare i cuori se il celebrante s'accontenta di pronunciare meccanicamente o frettolosamente — e non in spirito di preghiera — le formule del rito.

2. Necessità della Confessione e concetto vero di peccato mortale

1. Ci sono pastori d'anime preoccupati perché temono che non tutti coloro che si comunicano osservino la legge espressa dalla Chiesa nel CJC, e. 856, che richiede la Confessione per chi ha commesso peccati gravi e certi. Qualcuno ha forse insinuato nei fedeli l'idea che non occorre la Confessione (ma può bastare la contrizione) dopo il peccato grave, prima della Comunione? Qual­che teologo ha scritto che la facoltà data da Gesù agli Apostoli di rimettere i peccati rende la Confessione un mezzo efficace di salvezza, senza però escludere che la riconciliazione si possa avere per altra via. È ovvio che in menti non preparate e non avvezze alle sottili distinzioni teologiche, simili discorsi portan molta con­fusione ed un minore apprezzamento per quello che è il più sicuro e più facile mezzo di conversione. Alcuni han messo da parte il Codice di Diritto Canonico (e quindi anche il precetto di confes­sarsi prima della Comunione per chi ha colpe gravi). S'appellano sempre al Vaticano II : con questo Concilio ogni disciplina pre­cedente sarebbe caduta. Ma per quale ragione? Se si sta proprio lavorando alla revisione del CJC, è segno che questo codice con-

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serva il suo valore, a meno che, per qualche norma, non sia stata dichiarata l'abrogazione od una deroga. C'è chi auspica che il rinnovamento del CJC segni, fra l'altro, l'abrogazione del pre­cetto di confessare i peccati gravi prima della Comunione (come pure, per chi è incorso in una scomunica, tolga il divieto d'esser assolto dal peccato prima che dalla pena, ed abolisca la legge eccle­siastica che obbliga i cattolici a celebrare, extra certi casi straordi­nari, il matrimonio davanti al ministro autorizzato, pena l'inva­lidità, e. 1098). Alcuni autori (cfr. Z. Alszeghy, Problemi della celebrazione penitenziale comunitaria, « Gregorianum », 48, 1967, 583; J. Galot, Euc. e Penit., « La Civ. Cattolica », 19.1.1974, 127) fanno notare che quando si tratta dell'obbligo di confessarsi pri­ma di comunicarsi bisognerebbe anzitutto precisare a quali pec­cati ci si riferisce. È stata avanzata la distinzione fra peccati « mortali » e peccati « gravi ». Perciò, secondo la specie teologica, il peccato si distinguerebbe in veniale, grave, mortale. Ed il pec­cato « mortale » che il Concilio di Trento prescrisse di confessare prima di ricevere l'Eucaristia, andrebbe inteso secondo una « no­zione più consistente » che farebbe « meglio comprendere la fon­datezza della regola seguita dalla Chiesa »: designerebbe « un atto per il quale l'uomo orienta tutta la sua esistenza nel senso con­trario all'amore di Dio, o per lo meno in modo inconciliabile con questo amore » (Galot, a.c. 127). Che dire?

Anzitutto siamo d'accordo che il peccato — perché ci sia l'obbligo di confessarlo — dev'essere non solo « oggettivamente grave secondo le abituali categorie morali », ma anche soggettiva­mente gravej compiuto con piena (anche se non somma) avver­tenza e deliberazione. Inoltre, chi ha una volontà abitualmente orientata al bene e cerca d'amare Dio (nonostante i suoi difetti) e procura di coltivare l'unione con Lui, questi ha l'opzione di fondo buona. E non è praticamente e psicologicamente verosimile che di punto in bianco si determini a commettere un peccato obbiettiva­mente e soggettivamente mortale. Il quale è sempre preceduto da uno stato di tiepidezza (che è una pacifica consuetudine a com­mettere il peccato veniale). Però — se è giusto dare importanza primaria e somma all'opzione di fondo — i singoli atti disordinati non vanno trascurati, perché — anche se non sono gravi né per la materia né per la deliberazione — un po' alla volta possono in­crinare la buona volontà e la scelta di fondo, produrre un certo indurimento e cosi disporre al peccato mortale. Non dimentichia-

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mo la nostra condizione e la psicologia della natura umana. Siamo in uno stato di debolezza morale, cosicché si può cadere nel pec­cato grave volontariamente (dopo un processo di tiepidezza pre­paratoria e di colpe più o meno leggere) senza perdere la fede e la speranza (se non si pecca direttamente contro queste virtù) e quindi senza rompere ogni collegamento con Dio. Si capisce dun­que che si dia peccato mortale che rompe l'amicizia con Dio ma non ogni legame col soprannaturale. Non si capisce come possa darsi un peccato compiuto con una certa pienezza di deliberazione, in materia grave, il quale non distrugga né ogni fondamento so­prannaturale né l'amicizia con Dio. Perché ogni peccato grave è un'offesa grave di Dio. Ed è tale ogni atto contrario alla Sua volontà in materia grave, anche se non c'è l'intenzione d'offender Dio, cioè di disprezzare il Suo amore. Diceva Pio XII ai quare-simalisti di Roma nel 1944: « Anche in ciò che spetta ai coman­damenti di Dio si è creduto di aver trovato un ripiego. Nella ma­teria morale, si è detto, vi è inimicizia con Dio, perdita della vita soprannaturale, grave colpa in senso proprio, solamente quan­do l'atto, di cui si deve rispondere, è stato posto non solo con la chiara consapevolezza che è contro il comandamento di Dio, ma anche con la espressa intenzione di offendere con esso il Signore, di rompere l'unione con Lui, di disdire a Lui l'amore. Se questa intenzione è mancata, se cioè l'uomo da parte sua non ha voluto troncare l'amicizia con Dio, l'atto singolo — si afferma — non può nuocergli » (Discorsi e Radiomessaggi, Edit. Vaticana, V, p. 189). È non solo un'ipotesi di alcuni moralisti, ma una scusa addotta da certi penitenti i quali si accusano di qualche disordine (per esempio, di pratiche anticoncezionali) e nel tempo stesso si difendono asserendo che non intendono offender Dio e non pos­sono fare altrimenti. Si potrà ammettere un'attenuante nella colpe­volezza ed, in particolari circostanze, anche una sostanziale buona fede o mancanza di deliberazione piena. Ma, per sé, si può dare il peccato mortale anche senza l'esplicita intenzione d'offender Dio quando, in materia grave, ci si mette consapevolmente in contrasto colla Sua volontà. Diceva Pio XII che chi ha messo fuori e sostiene la suddetta teoria la rinnegherebbe se si volesse tirarne tutte le conseguenze. Praticamente contro il sesto comandamento non si darebbero mai peccati mortali perché non c'è nessuno che manchi in questa materia con l'intenzione d'offender Dio: si man­ca non perché Dio vuole l'onestà ma nonostante Dio voglia l'onestà. Facciamo il caso d'un uomo che tradisce la moglie con l'adulterio

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(supponiamo non abituale). Forse dopo ogni atto impuro sente rimorso. Peccati dunque di debolezza, non di malizia. Ma non è escluso che il peccato di debolezza sia mortale: « nulli dubium esse debet quin peccata ex infirmitate perpetrata quandoque sint mortalia » (S. Tommaso, De malo, q. 3, art. 11; art. 15). La con­cupiscenza per sé non toglie la deliberazione piena (anche se non è somma perché la passione è una attenuante).

Inoltre, come osservava lo stesso Pio XII, in molti casi si commettono azioni gravemente illecite con la sola intenzione di farne dei mezzi per liberarsi da una situazione difficile, cioè per un fine, per sé, onesto. Si pensi a tante ragazze-madri che ricor­rono all'aborto non perché vogliono del male alla creatura od al Creatore, ma solo per non perder la buona fama o non aver il peso della figliolanza. Quali colpe occorrono per affermare il peccato grave ed il dovere di confessarsi prima della Comu­nione, secondo la mente della Chiesa? In fondo si rischia di ca­dere nella dottrina protestante: nessun peccato sarebbe ostacolo alla salvezza purché resti un legame con Dio, cioè la fede e la fiducia.

Non si vede pertanto ragione per abbandonare la tradiziona­le dottrina sulla duplice specie teologica del peccato obbiettiva­mente considerato: peccato veniale e peccato mortale (o grave).

2. Anche l'Eucaristia può ridonare « ex opere operato » lo stato di grazia: precisamente a chi in stato di peccato la riceve avendo non solo l'attrizione ma anche la buona fede. Battesimo e Penitenza però sono sacramenti istituiti colla finalità specifica di rimettere i peccati: perciò li rimettono sempre purché ci sia l'attrizione (dolore imperfetto). L'Euraristia per sé e primaria­mente non è stata istituita per rimettere i peccati ma per la refe­zione dell'anima. Suppone quindi lo stato di grazia, o almeno, che il soggetto creda di essere in grazia. La stessa Unzione degli Infermi (primariamente almeno) è stata istituita non per rimet­tere i peccati ma per il sollievo spirituale dell'ammalato: confe­risce lo stato di grazia a chi ha l'attrizione ed insieme la buona fede. Fermo il dovere (per legge divina) di non ricevere l'Eu­caristia con la coscienza del peccato grave nell'anima, si disputa se l'obbligo di riacquistare lo stato di grazia prima della Comu­nione, implichi per legge divina anche la Confessione dei pec­cati gravi certi. Per l'Unzione degli Infermi, per sé, strettamente non consta nessun obbligo di premetter la Confessione dei pec­cati gravi (la quale pur resta un dovere a parte e — per chi

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Ipuò usarlo — è il mezzo più facile e sicuro di riconciliazione). Per l'Eucaristia la maggioranza dei teologi ammette che il dovere della Confessione prima della Comunione venga solo da una legge ecclesiastica. Oggi però c'è una tendenza a considerare l'Eucaristia come sacramento della riconciliazione e quindi del perdono. Se è così — qualcuno potrebbe logicamente pensare — è resa inutile la Confessione, almeno per chi ha occasione di partecipare alla Mensa, e si può accettare la dottrina protestante che nega la necessità della Confessione sacramentale. Ma non bisogna confondere (come oggi taluni fanno) l'Eucaristia come Sacrificio e l'Eucaristia come Sacra­mento: « L'Eucaristia — leggo — rimette i peccati non solo leg­geri ma gravi in forza del suo carattere di sacrificio di riconciliazio­

ni? ne » (AA.W., La penitenza..., o.c, p. 44). Con ciò si intende affer--f> mare che l'Eucaristia — anche oltre il caso di chi la riceva attrito . v\ ed in buona fede — perdona il peccato mortale senza che il

/ peccatore ricorra al sacramento della Penitenza? Ma questa teo­ria — è detto nel documento Past. dell'Episc. Ital. sulla Peni­tenza, del 12.VII.74 — « non è conciliabile con l'insegnamento

|' della Chiesa »... « L'affermazione del Concilio di Trento che | l'Eucaristia rimette i peccati gravi (« peccata etiam ingentia ») va / vista nella luce di tutto il documento conciliare. Essa significa \ che il sacrificio della Messa, da cui proviene alla Chiesa ogni l grazia, ottiene al peccatore il dono della conversione senza cui ^ il perdono non è possibile; al tempo stesso corrobora il penitente f già riconciliato con Dio nella lotta contro le tentazioni, susci-I tando in lui il fervore della carità »; ... e così l'Eucaristia « è I efficacissimo "antidoto che ci libera dalle nostre colpe quotidiane | e ci preserva dai peccati mortali" (Istruz. Eucharisticum Myste-I rìum) ». Ma « ciò non significa affatto che quelli che hanno f commesso un peccato veramente mortale, possano accostarsi alla | Comunione eucaristica, senza essersi prima riconciliati con Dio ; nella Chiesa: la necessità di confessare i peccati mortali infatti ì deriva non solo dal precetto della Chiesa, ma dalla volontà stessa

di Cristo » (n. 58) \ Ma, anche ammesso che l'Eucaristia ridoni la

4 L'Istruz. Eucb. Myst. del 25.V.67 (AAS, 59, 1967, 561) richiama il e. 856 del CJC secondo il quale non è lecito, neppur a chi è conscio d'aver la contrizione, cioè il dolore perfetto, dei suoi peccati (gravi), accedere alla Comunione senza la Confessione, a meno che « urgeat necessitas ac copia confessarii illi desit ». Allora potrà comunicarsi premettendo l'atto di contrizione.

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grazia santificante a chi l'aveva perduta, è indubbio che il sacra­mento della Penitenza conferisce una grazia sua propria, speci­fica: ridona (od accresce) la grazia santificante e conferisce la grazia « sacramentale »: un titolo a tutti gli aiuti che corrispon­dono al fine proprio del sacramento: « in sacramentali... gratia, et est gratia gratum faciens, et effectus specialis, qttem habet virtu-te sacramenti. Et in quantum gratum faciens una est, sed ratione effectuum distinguuntur: et quia sacramentum signat gratiam, ut in tali effectu: ideo signa, et sacramenta sunt diversa » S. Bonav., In L. IV Seni., d. VII, a. 2, q. 2, Lugduni MDCLVIII, p. 85). Nel caso della confessione, il fine e gli effetti, i frutti specifici di questo sacramento non si riducono solo alla momentanea distru­zione del peccato: s'aggiunge l'assicurazione di grazie attuali per resistere contro gli assalti futuri delle tentazioni, una sensibilità più delicata di fronte al male ed al pericolo, una sempre maggiore purificazione ...: « recta sui ipsius cognitio augetur — si legge nella « Mystici Corporis » di Pio XII — Christiana crescit humi-litas, morum eradicatur pravitas, spirituali neglegentiae torpo-rique obsistitur, conscientia purificatur, roboratur voluntas, salu-taris animorum moderano procuratur atque ipsius sacramenti vi augetur gratia » (AAS, 35, 1943, 235). « Ciascun sacramento — si legge nel Docum. Past. della C.E.I. del 12.VII.1974 — ha una sua grazia particolare. La grazia sacramentale della Peni­tenza ci assimila a Cristo redentore, che lotta contro il peccato e lo vince, e ci comunica lo spirito di penitenza, non solo per i nostri peccati, ma anche per quelli dei nostri fratelli » (n. 74). Perciò quand'anche il penitente non portasse alla Confessione peccati veniali nuovi per ottenere il condono, la frequenza del sacramento avrebbe ancora la sua piena giustificazione.

3. Confessione privata e celebrazione comunitaria della Penitenza

1. L'accusa principale che si suol muovere contro la Confes­sione privata auricolare, praticata fino ai giorni nostri, sembra questa: sarebbe prevalso l'aspetto individualistico del sacramento su quello comunitario (cfr. AA.VV., La penitenza..., pp. 19 ss.). Si è detto che le celebrazioni comunitarie ovvierebbero anche agli « inconvenienti dello psicologismo, dello psichiatrismo e del diri-

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If gismo che si sono intrufolati nelle confessioni individuali » | (ibid., p. 117). ( Non entro a parlare sulle cause e sulla responsabilità di coloro

[ che hanno influito sulla rarefazione odierna delle Confessioni. ì Constato il fatto. Come giudicarlo? Qualcuno ha pensato che, \ in fondo, non è poi il caso di rammaricarsene tanto. « Se si tratta

soltanto d'una questione di diminuzione numerica — è stato scritto — può esser perfino un bene perché ciò che conta nel sacramento della penitenza è anzitutto l'atteggiamento interiore di penitenza e di conversione, pur tenendo presente nel sacra­mento il primato dell'iniziativa e dell'azione da parte di Dio che vi comunica la sua misericordia in Cristo attraverso la Chie-

H sa, animata dallo Spirito Santo » (AA.W., La penitenza..., H o.c, p. 100). Ma, insomma, come può essere un bene la minor |; frequenza alla Confessione quando è certo che vi si riceve sem-I pre questa grazia di Dio, se non manca il sufficiente (anche se | non il più perfetto) dolore richiesto? | Però — è stato scritto ancora — la minor frequenza delle v Confessioni potrebbe indicare « non solo una migliore concezione I nella distinzione tra peccato grave e peccato meno grave, ma l anche uno sforzo costante per una scelta di fondo, in base alla | quale si organizza la propria vita e quindi uno sforzo di estir-| pare il peccato ... » (La penitenza..., o.c, p. 104). Tutto questo % però dovrebbe esser dimostrato. Inoltre, non sarà presunzione il i credere di poter vincere coi propri sforzi il peccato senza ricor-t rere a quel sacramento che dà proprio la grazia « sacramentale » \, per ottenere questo effetto specifico? • Qualcuno replica: « si valorizzino gli elementi penitenziali

della celebrazione eucaristica: sono vere celebrazioni penitenziali. Si abbia cura di celebrarle con efficacia... istruendone i fedeli nella catechesi. Si inculchi il senso della penitenza... Allora la frequenza alle confessioni può opportunamente diminuire » (La penitenza..., o.c, p. 118). Con simili ragioni si vorrebbe crear la persuasione che, in definitiva, il confessarsi meno può esser segno d'una più autentica spiritualità cristiana, contro una diffusa concezione del sacramento operante con magica efficacia, contro I quella abitudine di confessarsi ogni qualvolta si riceveva l'Euca­ristia — anche quando non c'era la coscienza certa di peccati gra­vi — abitudine che avrebbe avuto « la conseguenza non indif­ferente di una mancata partecipazione sacramentale al Sacrificio » (La penitenza..., o.c, p. 22). Ma anzitutto dovrebbe esser dimo-

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strato che di fatto la minor frequenza alla Penitenza è compensata oggi, generalmente, da una maggior frequenza all'Eucaristia. Poi bisognerebbe ammettere che, anche confessandosi meno frequen­temente (da parte di chi non ha peccati gravi) è praticamente possibile o facile comunicarsi con i migliori frutti. Confessarsi meno significherà aver minor purezza di coscienza, per quanto è presumibile. E la minor purezza di coscienza importerà minor tranquillità e serenità di spirito; e quindi si sentirà meno attra­zione alla mensa eucaristica, oppure meno bisogno d'una purifi­cazione prima di ricevere l'Agnello Immacolato.

Non c'è dubbio: taluni hanno fatto ricorso a tutti gli argo­menti, han cercato di escogitare tutti i difetti possibili immagi­nabili della confessione privata mirando e sperando che la Chiesa desse il permesso della Confessione generica comunitaria anche fuori del caso di necessità. Influsso della mentalità e della prassi protestanti? È un fatto che presso i Protestanti dopo l'ultima guerra si sono introdotte con fervore pratiche e riti peniten-tenziali: una specie di confessione comunitaria generica nella quale il singolo si riconosce peccatore davanti a Dio. Manca evi­dentemente l'assoluzione impartita dal sacerdote.

Ma la Chiesa si è ancora una volta energicamente pronunciata e circa la confessione « specifica » e circa la confessione « fre­quente ». Nelle Normae past. circa absol. sacrarti, generali modo imperi., emanate dalla « S. Congr. Pro Doctr. Fidei » il 16 Giu­gno 1972 (AAS, 64, 1972, 510-514) — richiamate e confermate nel nuovo « Ordo Paenitentiae » del 2.XII.1973 — pare che di nuovo ci sia solo questa precisazione (che si legge al n. V del documento): è riservato all'Ordinario del luogo il giudicare (dopo averne discusso con altri componenti della sua conferenza epi­scopale) se sia il caso d'impartire l'assoluzione collettiva perché i penitenti sarebbero davvero costretti (senza loro colpa) a re­stare « per lungo tempo » (diu) privi della grazia sacramentale o della santa Comunione. Ed è pure concesso al confessore, se non può consultare l'Ordinario, d'impartire in qualche caso l'assoluzio­ne ad un gruppo di fedeli che, secondo il suo giudizio, dovrebbero restare a lungo privi dei sacramenti. Dovrà però darne poi avviso al superiore5. Comunque, nel penitente ci dev'essere, oltre al

5 I vescovi tedeschi, ad esempio, hanno deciso che pel territorio della Repubblica Federale Tedesca il caso di bisogno, per ora, non si verifica (OR, 19.XI.72, p. 2). Ed in una recente Nota della Presidenza della C.E.I. si di-

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dolore, oltre al proposito di non più peccare e di adempiere gli obblighi che si impongono, anche il proposito di confessare, a suo tempo, specificamente i peccati gravi. E questo proposito (n. VII) è richiesto « alla validità »: nel senso, s'intende, che costituisce un obbligo per sé grave. Perciò il penitente che, consapevole di questa necessità, avesse volontà contraria, non sarebbe affatto disposto a ricever la grazia sacramentale. Neces­sità grave, fondata sulla natura stessa del sacramento. Non cosi assoluta come quella dell'acqua nel Battesimo e del pane e vino nell'Eucaristia poiché si può avere valida assoluzione anche con una accusa solo generica se c'è causa scusante.

2. Non si può sperare alcuna ricostruzione se i confessori, per primi, non sono istruiti e convinti, preparati e disponibili. Solo allora essi potranno — col consiglio e con la predicazione — influire efficacemente sugli altri. La Confessione specifica è richiesta da ragioni teologiche stringenti (se la Confessione è es­senzialmente un giudizio, esige che il giudice conosca la causa). Ma ci sono anche motivi pastorali offerti dal buon senso e dal­l'esperienza. Ed anche per ottenere che i fedeli ritornino ad acco­starsi con frequenza alla Confessione l'opera persuasiva del con­fessore (e del predicatore) dovranno, pare, far leva su due argo­menti fondamentali. Il primo, di ordine teologico: la Confes­sione conferisce la grazia « sacramentale », una grazia sua propria che non può esser supplita da alcun altro sacramento; l'altro, pastorale: il confessore, oltre che giudice, è maestro, padre, fra­tello, amico, medico; è direttore spirituale, si diceva una volta (oggi — in ossequio alla psicologia e per fobia d'ogni paterna­lismo ed autoritarismo — si preferisce parlare di « consigliere »). Lo so, c'è chi, caldeggiando la prassi della Confessione generica, propone — al posto di una Confessione che sia ogni volta pri­vata — un colloquio fra penitente e sacerdote da farsi in un momento di calma, quando si offrirà l'occasione. Ma, siamo con­creti, quando si offrirà quest'occasione? Quando si verificherà

chiara che « i Vescovi italiani, singolarmente interpellati sul problema, non convengono sull'effettiva presenza, in Italia, di situazioni tali che giustifi­chino la necessità, e, quindi, la liceità della concessione, sia pur in casi par­ticolari, dell'assoluzione collettiva ». La quale pertanto « rimane, come pri­ma, legata ai soli casi di emergenza con pericolo di morte » (Notiziario della C.E.I. 30.IV.75, p. 71; cfr. AAS, 36, 1944, 155-156).

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il momento buono nel quale il penitente trovi il tempo e trovi disponibile un sacerdote adatto per lui?

Non c'è dubbio, lo si è sempre detto ed il Vaticano II non ha fatto che riaffermarlo (LG, 11): tutto il Corpo Mistico ne risente quando il singolo pone un atto, sia peccaminoso sia vir­tuoso, perché c'è una comunione di vita fra tutti i membri. La Penitenza però primariamente ha per fine la liberazione del pec­catore, il suo bene individuale ed indirettamente il bene comune-Tutti i sacramenti, del resto, « sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo e a render il culto a Dio » (SC, 59). Può anche dirsi che la Confessione è « il simbolo della riconciliazione del peccatore con la comuni-

' tà », ma anzitutto è la sua riconciliazione realissima e pienissima con Dio. Pertanto il riflesso sociale della pratica sacramentaria penitenziale non significa affatto (come alcuni pretenderebbero) l'esigenza d'una celebrazione pubblica.

3. A parte l'assoluzione comunitaria di peccati anche gravi dopo una confessione solo generica (assoluzione ammessa solo in casi di necessità) si possono dare altre forme di celebrazione comunitaria della penitenza. Il nuovo Ordo Paenit. (n. 37) rac­comanda anzitutto d'attendere che nell'opinione dei fedeli que­ste celebrazioni non si confondano colla celebrazione del sacra­mento della Penitenza.

Si può infatti limitarsi ad atti penitenziali fatti in comune: esame di coscienza, implorazione della misericordia di Dìo, atti di fiducia, di dolore e di proposito. Atti ai quali non s'accom­pagna la celebrazione del sacramento. Costituiscono quindi solo un sacramentale. Assomigliano ai riti penitenziali dei Protestanti. Possono esser spiritualmente utili. Anzi, utilissimi, dice il nuovo Ordo Paenit. (n. 37), quando non fosse possibile avere un sacer­dote disponibile per le Confessioni: in questo caso la celebra­zione penitenziale aiuterebbe i fedeli a fare l'atto di contrizione perfetta (motivato dall'amore di Dio); e cosi (avendo l'implicito desiderio e proposito di confessarsi in seguito) possono ricevere già la grazia di Dio. Queste celebrazioni possono esser organiz­zate e guidate da un diacono, da un catechista ed anche da un qual­siasi fedele che sia preparato. Qualora però fossero intese espli­citamente e dichiaratamente come preparazione d'un gruppo di fedeli alla celebrazione eucaristica (allo scopo che più numerosa sia la partecipazione alla Mensa da parte dei fedeli che non hanno

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strettamente bisogno della Confessione) potrebbero esser occa­sione di qualche disagio spirituale. Taluni, forse, non si senti­ranno tranquilli nel ricevere la Comunione senza la Confessione: e pertanto — sia che si confessino sia che non si comunichino — avrebbero l'impressione d'esser notati.

Altro modo. Gli atti in comune sono solo un quadro in cui s'inserisce la celebrazione privata del sacramento. Servono come preparazione, come ringraziamento e conclusione. Si congiunge « il duplice pregio dell'atto comunitario e dell'atto personale — notava Paolo VI (OR, 4.IV.1974, p. 1). È la forma migliore per il nostro Popolo, quando è possibile; ma suppone di solito la presenza simultanea di parecchi ministri del sacramento; e ciò non è sempre facile ». Queste iniziative possono esser utili. Utili specialmente per speciali categorie di penitenti, come i fanciul­li, i catecumeni (Ordo Paenit., n. 37). Utili in particolari circo­stanze, come durante un Ritiro spirituale od una Missione. Utili anche per coloro che non si accostassero di fatto alla Confessio­ne. Utili « purché pensate ed attuate con competenza e discre­zione » (Dirett. hit. Past. per l'uso del « Rituale dei Sacramenti e dei Sacramentali », a cura della Comm. Episc. Ital. per la Lit., 1967, p. 67). Ci sono difficoltà pratiche. Dovrebbe esser presente qualcuno che possa e sappia con intelligenza e pru­denza assistere guidare istruire aiutare il gruppo secondo i suoi particolari bisogni di condizione, di stato, di età. Bisogna usar gli accorgimenti perché tutti siano lasciati pienamente liberi di confessarsi o no. E dichiararlo espressamente. Occorre si dia libertà di scegliere il confessore. Libertà che verrà spesso a mancare perché è da aspettarsi che non ci sarà molta facoltà di scelta fra i confessori disponibili. Sappiamo per esperienza che l'adolescente (ed anche il ragazzo) mal sopporta d'esser condotto a confessarsi. Prova un senso di ribellione. Rivendica la sua autonomia. Ci andrà,, ma quando vorrà. E da chi vorrà. Senza controlli. Sarà forse attratto sentimentalmente da quella parti­colare chiesa, da quel confessionale, da quella cella, da quel pa­dre. Don Bosco era decisamente contrario alle Confessioni in comune ed alla Comunione generale dei fanciulli e degli adole­scenti. C'è anche un qualche pericolo che qualcuno tema, per un complesso di circostanze, che i superiori lo giudichino meno favorevolmente se s'accorgono che non si confessa o non si co­munica. Il nuovo Ordo Paenit. propone alcune preghiere, canti e qualche traccia e schema (o meglio qualche elemento indicativo)

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per l'esame di coscienza secondo i diversi tempi liturgici ed alcu­ne categorie di penitenti (fanciulli, giovani, malati). Nei formu­lari più specifici e distinti che si prepareranno per questi esami di coscienza in comune, si domanda intelligenza e discrezione. Va evitato ogni eccesso, sia d'astrattismo vago, sia di minuziosi­tà e di terrorismo.

Concludendo, queste celebrazioni comunitarie della peniten­za (salva sempre la Confessione privata specifica) possono esser un richiamo ad un maggior fervore, a suscitare la preghiera ed a ravvivare cosi un atto religioso sacramentale perché non tenda a diventare per taluni una pratica piuttosto meccanica ad effetto magico. D'altro canto, sono possibili anche gli inconvenienti con­trari. Queste celebrazioni potrebbero esser per qualcuno un'occa­sione all'indolenza: il penitente omette lo sforzo personale, si lascia trascinare dall'assemblea, diventa più passivo che attivo. È il pericolo generale per chi partecipa solo alle preghiere litur­giche comunitarie. In molte parrocchie si è introdotta la prassi della Confessione mensile: Confessione individuale con prepara­zione comunitaria. In tal modo s'intende eliminare l'uso di con­fessarsi (spesso per sola devozione) durante la celebrazione della Messa. Pare che i risultati di questa iniziativa siano buoni, che l'invito sia accolto da molti. Per i sacerdoti è un po' alleggerito il lavoro nei giorni festivi. Però, in pratica, se ci sono penitenti che chiedono di confessarsi durante la Messa festiva, non si può rifiutarsi, pena il rimandare la loro riconciliazione a chissà quando. Ed i confessori devono esser disponibili anche per coloro che vogliono confessarsi ancora più frequentemente ed anche se non hanno materia necessaria.

Infine si potrebbe pensare ad una celebrazione comunitaria unita all'assoluzione sacramentale, dopo accusa solo generica, nel caso in cui la Confessione non fosse necessaria. L'ho sentita pro­porre da una commissione che aveva studiato il problema in un convegno diocesano del clero. Si constata — dicevano quei par­roci — come non pochi fanciulli potrebbero accostarsi più fre­quentemente alla Comunione. Non lo fanno perché desiderano premettere la Confessione, ma non si ha il tempo di confessarli. In realtà portano solo peccati veniali. Non si potrebbe, nella catechesi che si tiene a loro, la sera del sabato, riservare l'ultima parte alla preparazione penitenziale dopo la quale il sacerdote darebbe l'assoluzione? Dal punto di vista dogmatico non esiste­rebbero ostacoli certi (dato che l'accusa solo generica è probabil-

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mente lecita anche nella Confessione privata) quando fosse ben noto ai penitenti che l'assoluzione è per chi ha solo peccati veniali. E dal punto di vista pastorale psicologico pratico asce­tico? C'è da restar perplessi. E suppongo che anche coloro che propongono questa prassi saran ben d'accordo nel raccoman­dare che ogni tanto il fanciullo faccia anche la sua Confessione privata. Poiché nulla come la parola del sacerdote rivolta al singolo ha la potenza di eccitare le disposizioni d'un vero dolore e d'un fermo proposito. È la parola aderente, incisiva, adatta a lui, tutta e solo per lui. C'è una atmosfera d'intimità e di segreto che avvolge il sacramento e gli conferisce (finora almeno, fintan­toché i pregiudizi non avranno corrotto la serenità spontanea degli spiriti) una potenza ineguagliabile. Cosa avremmo ottenuto se molti ragazzi perdessero la stima e l'affetto per questo sacramen­to? Senza dire che potrebbe anche verificarsi il pericolo di un qualche conflitto spirituale per chi non si sentisse tranquillo senza la Confessione privata. Tanto pili che il ragazzo non è ancora in grado di distinguere sempre e chiaramente quando la colpa è grave e quando è solo leggera. Talora forse penserà: « se non vado alla Comunione dopo questa assoluzione (che non mi pare di aver capito bene cosa valga e quando valga) gli altri (specialmente i miei compagni) diranno che ho peccati grossi; cosi pure se vedono che mi confesso ». E se, per non dar nel­l'occhio andrà alla Comunione, lo farà senza aver la coscienza serena e sicura.

Comunque è pacifico che non sarebbe lecito adottare tale prassi di assoluzione in massa senza il permesso della superiore autorità ecclesiastica. E se la Chiesa non lo permette e non lo favorisce è perché ha esperienza e fiducia nell'importanza e nei vantaggi della Confessione individuale e della direzione spirituale dei fanciulli stessi. « Vorrei passare la vita confessando i fan­ciulli » diceva mons. E. Montalbetti che dei fanciulli e dei gio­vani conosceva la psicologia. « Ogni incontro in confessionale con un fanciullo può esser decisivo per quella giovane vita, può determinare una grande vocazione, forse di un santo » (Sal­viamo il fanciullo, «L'Assistente Ecclesiastico», XI, 1941, n. 6, 231). Nel confessionale^ si opera un effetto soprannaturale al quale concorrono il penitente, la grazia, il confessore. Si svolge un colloquio che è un'occasione preziosa per la liberazione, la rinascita spirituale, o, in ogni caso, per una presa di quota. « Uno scalpiccio di piedi, dietro di me, mi ricorda che i bambini stanno

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aspettando. Ancora un momento, per rinnovare il proposito di non prendere alla leggera le loro piccole mancanze. Qui, dietro di me, vi sono quaranta santi in potenza. Sarà la grazia di Dio che farà tutto, ma la mia mano dovrà tenere il cesello ed io potrò dare una forma oppure rovinare tutto. Il cuore d'un sacer­dote non potrà mai parlare al cuore d'un fanciullo con tanta elo­quenza, ed esser udito da lui cosi bene come ora. Dieci parole dette qui valgono più di mille dette in classe e più di mille dette dal pulpito » (Leo Trese, Vaso di argilla, Brescia, Morcel­liana, 1962, pp. 105-106).

4. Occorre ancora un potere di giurisdizione nel ministro del sacramento?

Ogni sacerdote consacra sempre validamente — anche se non sempre lecitamente — l'Eucaristia, in virtù dell'Ordine del Presbiterato. Ma il solo Ordine non basta perché possa assol­vere i penitenti dai loro peccati. Non basta alla liceità e neppure alla validità dell'assoluzione. Perché la Confessione è essenzial­mente un giudizio; l'assoluzione è una sentenza giudiziale — di liberazione — pronunciata a nome della Chiesa. Oltre l'Ordine occorre dunque, nel ministro del sacramento, la giurisdizione ricevuta dalla Chiesa.

Ma non tutti i sacerdoti hanno idee chiare, cognizione esatta sull'estensione e sui limiti delle facoltà a loro concesse dalla Chiesa. Qualcuno non desidera neppure informarsi (per non fare del giuridismo e del legalismo). E qualcuno vorrebbe addirittura che non si parlasse più né di giurisdizione né di limitazione della giurisdizione. È necessario invece che ogni sacerdote rinfreschi la memoria, s'informi, s'aggiorni sulle nuove disposizioni della Chiesa. Mi limito ad alcuni cenni che potranno essere uno sti­molo a ristudiare CJC, atti conciliari e sinodali, nonché i manuali dei commentatori.

1. Fin dai primi tempi della Chiesa e secondo tutta la tra­dizione i vescovi esercitavano questo ministero sempre e soltan­to nella propria diocesi; ed i presbiteri ricevevano la facoltà sem­pre dal loro vescovo. È vero peraltro che la Chiesa tende sempre più ad allargare le facoltà che concede. In Francia, qualche anno fa, è stata estesa a tutto il territorio nazionale la giurisdizione

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per le confessioni che un sacerdote riceve dal suo vescovo. Altrove (come in Italia) si è andato sempre più diffondendo l'uso di con­cedere che le facoltà (di confessare, celebrare, predicare) rice­vute da un sacerdote per la propria diocesi possano esser eserci­tate in tutta la sua regione ecclesiastica6. E nulla vieta che detta facoltà venga eventualmente estesa su scala interregionale, pre­vio necessario accordo tra le conferenze interessate. Anzi, men­tre è in corso l'aggiornamento del CJC, si fa voti che la giuri­sdizione per le confessioni sia data ai sacerdoti con ancor minori restrizioni, adottando un sistema semplicissimo, come questo: se un vescovo concede ad un sacerdote la facoltà di confessare, questa venga estesa — per disposizione del diritto stesso — a tutta la Chiesa; se il vescovo la sospendesse, sarebbe sospesa per tutta la Chiesa.

2. Pel momento, oltre alla giurisdizione annessa all'ufficio (di vescovo, parroco, canonico penitenziere) detta « ordinaria », c'è quella « delegata ». Delegata dal superiore competente ad una determinata persona; delegata con certi limiti (quanto al tempo, al territorio, ai penitenti stessi talora); può esser concessa « ad beneplacitum », cioè senza bisogno che venga rinnovata (a meno che il superiore non la revochi). C'è pure una giurisdizione « de­legata dal diritto » stesso (diritto che può essere o comune — cioè vigente per tutta la Chiesa — o provinciale o diocesano). La facoltà — che ogni sacerdote ha — di assolvere (anche dai casi « riservati ») chiunque si trovi in pericolo di morte è ap­punto una facoltà « delegata a iure » (CJC, e. 882). La facoltà di confessare in tutta la « regione » ecclesiastica nella quale un sacerdote ha il domicilio o quasi-domicilio, è una facoltà « de­legata dal* diritto » provinciale7. La facoltà data, in molte dio­cesi, a chi è parroco, di concedere per alcuni giorni la giurisdi­zione, per le confessioni, ai sacerdoti che si recano per un qual­che soggiorno nella sua parrocchia, viene dal .diritto « diocesano ». Cosi nella diocesi di Roma ogni sacerdote — pel solo fatto che ha l'Ordine — ha la facoltà di assolvere i « sacerdoti » (non i

6 In una recente Nota della Presidenza della C.E.I. si legge: « Dati i con­tatti e gli scambi sempre più frequenti fra diocesi e diocesi, l'Assemblea dei Vescovi ha deciso che, in conformità con quanto già avviene in varie regioni, la facoltà di ascoltare le confessioni data dall'Ordinario s'intenda estesa ipso facto su scala regionale » (Notiziario della CJE.I., 30.IV.75, p. 71).

7 O nazionale, cioè stabilita dall'Assemblea dei vescovi d'una nazione.

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« chierici » od i « religiosi » non sacerdoti) {Syn. Rom., I, 1960, e. 67). Recentemente, poi, è stata concessa una speciale e nuova facoltà ai sacerdoti di passaggio per Roma. Per tre mesi, se sono muniti di regolare lettera discessoriale del rispettivo Ordinario, hanno la facoltà di confessare negli stessi termini di quella loro concessa nella diocesi di provenienza. La hanno per Roma e per tutto il territorio diocesano. Sono eccettuate le Basiliche pa­triarcali 8. (Non è esclusa, invece, in seguito ad un più recente decreto della S.C. dei Religiosi, la facoltà di assolvere le « reli­giose », anche d'un'intera comunità). Occorre però che i sacerdoti secolari si procurino la vidimazione del « celebret » presso il Vi­cariato, non oltre il mese di permanenza in Roma (« Rivista Dio­cesana », 1969, n. 1-2, &7-88). Ed evidentemente si suppone che il sacerdote non abbia avuto un divieto personale di abitare o confessare a Roma. Per chi, dopo il divieto, vi permanesse « con dolo » più di otto giorni, gli sarebbe proibito anche il celebrare la Messa perché incorrerebbe « ipso facto » nella sospensione « a divinis » dalla quale a Roma (chi vi continuasse la permanenza) potrebbe esser assolto solo dal Cardinal Vicario (fuori di Roma da ogni confessore) {Syn. Rom., I, 1960, e. 51, S 4) 9 .

Più ampie facoltà vengono concesse in speciali occasioni, come durante l'Anno Santo 1975: il Cardinal Vicario concesse a tutti i sacerdoti che facevano parte di qualche pellegrinaggio o vi fossero associati nelle celebrazioni comunitarie, la facoltà di ascol­tare le confessioni in tutta la diocesi di Roma (nei limiti della facoltà che i sacerdoti avevano in atto nella loro diocesi). Pote­vano ascoltare le Confessioni anche nelle quattro Basiliche Pa­triarcali ed assolvere anche dai peccati e dalle censure riservate all'Ordinario (eccettuate le censure « ab homine »), dispensare dai voti privati, anche riservati alla S. Sede, commutandoli con moderazione e prudenza in altre opere buone. Le sopraddette facoltà erano concesse anche ai sacerdoti che visitassero priva­tamente Roma, qualora fossero invitati ad ascoltare le Confes­sioni (« Rivista Diocesana » di Roma, 1974, n. 9-10, p. 1039).

8 In queste possono confessare solo i penitenzieri designati. Però gli altri sacerdoti (di passaggio o no) muniti di facoltà, possono confessare nella sagrestia della basilica validamente e (se vien dato loro il permes­so richiesto) lecitamente.

9 Ali'infuori di questo caso, nella diocesi di Roma non ci sono altre riserve, né quanto ai peccati né quanto alle censure.

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Per la Confessione delle religiose e novizie, il CJC, e. 876, richiedeva speciale giurisdizione o designazione, salve le nume­rose facoltà di delega « a iure » concesse dal CJC stesso (ad esem­pio, se una religiosa chiedeva di confessarsi, occasionalmente, presso un sacerdote approvato, in luogo debito): perciò un con­fessore non designato dall'Ordinario non avrebbe potuto, su richiesta della Superiora d'un convento, ascoltare le Confessioni di tutte le suore della comunità. Ora, in seguito ad un de­creto della S. Congreg. per i Religiosi deh"8.XII.1970, « tutte le religiose e novizie, affinché abbiano a godere in tale materia della dovuta libertà, possono confessarsi validamente e lecita­mente presso qualsiasi sacerdote approvato nel territorio per l'ascolto delle Confessioni ».

3. La giurisdizione resta limitata dai « casi riservati ». Se­condo il nuovo rito la formula d'assoluzione non contiene riferi­menti ad eventuali pene e non è da mutarsi nel caso che sia necessario assolvere anche da qualche censura (basta che il con­fessore ne abbia l'intenzione); una formula particolare è stabi­lita solo pel caso che avesse da assolvere qualcuno da una cen­sura « extra sacramentum » (cfr. Nuovo Ordo Poeti., App. I).

Un peccato può esser riservato o « ratione peccati » o « ra-tione censurae ». Praticamente quando si trattasse di qualche caso che, in una diocesi, è riservato « ratione peccati », ci sa­rebbe sempre il grave incomodo, pel penitente, nel rimanere pri­vo, per qualche tempo, dell'assoluzione (e. 900, 2°): quindi anche il confessore che non ha, per sé, facoltà su un caso riservato presentatogli, può assolvere subito, in base al diritto stesso, il penitente disposto, dopo avergli rivolta una grave ammonizione e imposta una conveniente penitenza; e la causa è cosi chiusa, non c'è da ricorrere al Superiore. Secondo il CJC (e. 894) un solo peccato (falsa e qualificata calunnia, con denuncia giuridica, d'un sacerdote innocente) è riservato per tutta la Chiesa « ratione peccati »; ma a tale peccato è annessa anche una pena {e. 2363).

È detto (e. 893; 897) che i Vescovi, per il territorio della loro diocesi, hanno facoltà di riservare a sé qualche caso grave 10.

La questione è più complessa quando si tratta di peccati ri-

10 In una recente Nota della Presidenza della C.E.I. si legge che « la revisione dei casi riservati è affidata alle Conferenze regionali allo scopo di avere nella stessa zona pastorale un orientamento comune » {Notiziario della C.E.I. 30.IV.1975, p. 71).

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servati « ratione censurae », cioè di peccati dai quali non si può esser assolti se non si è prima assolti dalla censura (supposto, naturalmente, che sia stata effettivamente contratta dal singolo). E le censure che impediscono la previa assoluzione dal peccato sono la scomunica (quella, ad esempio, che colpisce l'aborto ed è riservata all'Ordinario) e l'interdetto personale. Non quindi la sospensione « a divinis »: chi ne fosse colpito potrebbe quindi senz'altro esser assolto dai suoi peccati se avesse il pentimento ed il proposito d'adempiere i suoi doveri gravi (fra i quali però ci può esser quello di sistemare le sue faccende col Superiore nel foro esterno, prima di ricevere o consacrare l'Eucaristia).

4. Come si comporterà il confessore qualora gli capiti un caso riservato « ratione censurae » dalla quale egli non abbia la facoltà d'assolvere?

In pericolo di morte la Chiesa concede le più ampie facoltà a qualunque sacerdote e la massima libertà al penitente di chie­dere qualunque confessore (e. 882), con l'obbligo del « ricorso », in caso di ristabilimento, salo per le censure riservate « specialis­simo modo » alla Sede Apostolica oppure « ab homine » (e. 2252).

Extra pericolo di morte: anche allora il confessore può assol­vere praticamente sempre chi abbia dolore e proposito necessari, perché esiste per ogni penitente quell'« urgenza » di ricever l'as­soluzione di cui parla II e. 2254; ed il confessore può, eventual­mente, col suo suggerimento, far sentire tale urgenza. Resta però l'obbligo.di ricorrere entro il mese al Superiore, a meno che ciò non sia possibile, a norma dello stesso e. 2254, § 3. Per ovvie ragioni ricorre quasi sempre il confessore (osservando il sigillo) ed ài penitente chiederà che ritorni « ad recipienda mandata » (purché gli sia possibile). Perché non ci sia l'obbligo del ricorso occorrerebbe che non potesse farlo senza grave incomodo né il penitente né il confessore; e quando si trattasse del caso di cui il e. 2367, dovrebbe esserci « fisica » impossibilità sia per il penitente sia per il confessore.

Perciò il confessore deve sapere a chi deve ricorrere ed in qual modo. Lo insegnano tutti i manuali di T. Morale (che però devono esser aggiornati secondo le più recenti disposizioni eccle­siastiche). Esempio: un peccato d'aborto. Anzitutto è da consi­derare se, nel caso in questione, si verificano tutte le condi­zioni necessarie per contrarre effettivamente la scomunica riser­vata all'Ordinario: la cognizione, da parte della persona peni­tente, che a questo delitto è annèssa una qualche pena spirituale;

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che il peccato sia stato grave (internamente ed esternamente);, che non ci sia stato solo il tentativo, ma sia seguito l'effetto; per un cooperatore — quale può esser un'ostetrica — la sua azione dev'esser principale o necessaria. Supposto dunque che la cen­sura sia stata contratta dal penitente, il confessore può assol­verlo —- se pentito — ma (se non ha ricevuto la facoltà per le censure riservate all'Ordinario) dovrà ricorrere (al Vescovo od al Vicario Generale) dopo aver informato il penitente che deve ri­tornare per ricevere eventuali istruzioni e penitenza (pur potendo star sicuro sulla validità dell'assoluzione ricevuta). Dunque, in caso « urgente », il e. 2254 permette di assolvere da tutte le censure incorse « ipso facto » (« latae sententiae »). Pel ricorso successivo, se hanno facoltà il Vescovo ed il Vicario Generale si può rivolgersi a loro. Altrimenti, alla S. Penitenzieria, Palazzo della Cancelleria, P. della Cancelleria, 1, 00168 Roma.

C'è però un'eccezione stabilita da un decreto della S. Peni­tenzieria del 18.IV.1936 {AAS, 28, 1936, 242-243) a cui seguì la dichiarazione del 4.V.1937 (AAS, 29, 1937, 283). Riguarda l'assoluzione dalla scomunica — che il Codice classificava fra quelle « simpliciter s. Sedi » riservate (e. 2388) — nella quale sia incorso un « sacerdote » contraendo senza dispensa un matri­monio (anche solo civile). La Chiesa continua ad esser severa per scongiurare l'eventualità del caso doloroso. Se il sacerdote penitente domandasse l'assoluzione dichiarando che gli è impos­sibile non convivere sotto lo stesso tetto con la donna colla quale s'è legato, ma promette d'osservare la castità, non può esser assolto, deve ricorrere all'Autorità competente: la S. Penitenzie­ria, P. della Cancelleria, 1. Non è competente il Vescovo. L'as­soluzione si può dare solo in pericolo di morte (allora ogni penitente può esser assolto validamente e lecitamente da qualsiasi sacerdote, CJC, e. 882).

Il caso in questione era più pratico quando la Chiesa osser­vava la rigida regola di non concedere al sacerdote la dispensa dal celibato. Ma può capitare anche ora.

Col Motu proprio « Pastorale munus » del 30.XI.1963 (AAS, 56, 1964, 5-12) nuove facoltà sono state concesse da Paolo VI ai vescovi. Anche quelli non residenziali possono assolvere in foro interno da tutte le censure, eccetto quelle « ab nomine », quelle « specialissime » riservate (cfr. e. 2320; 2343; 2367; 2369) — fra le quali c'è, ad esempio, la scomunica contro i ladri che

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profanano l'Eucaristia, quella contro « il confessore » che violasse direttamente e consapevolmente il sigillo sacramentale —; sono purè eccettuate dalle facoltà dei Vescovi la scomunica che colpi­sce VescQvo consacrante^ e Vescovo consacrato privi della regolare nomina o conferma dà parte del R. Pontefice (censura stabilita da Pio XII nel 1951), la scomunica annessa alla viola2Ìone del « segreto pontificio » (se è ancora una scomunica riservata) e quella che è inflitta al « sacerdote » ed alla donna che, senza dispensa, abbian contratto matrimonio anche solo civile — e. 2388 — ed attualmente intendono continuare a convivere. Per la donna, però, che ha presunto contrarre matrimonio col sacerdote, ogni confessore può indurre il « caso urgente », con l'obbligo del ri­corso, non al Vescovo, ma alla S. Penitenzieria. Pertanto questa censura (dopo le disposizioni seguite al CJC) è da ritenersi « spe­cialissime » riservata alla S. Sede. (Perciò, a norma del CJC, e. 2252, nel caso che il pericolo di morte venisse superato, reste­rebbe l'obbligo del ricorso per chi fosse stato assolto).

Da tutte le altre censure i Vescovi, anche non residenziali, possono assolvere personalmente ed « in foro interno ». I Ve­scovi residenziali lo possono anche « in foro externo » e pos­sono altresì delegare la loro facoltà di assolvere dalle censure a sacerdoti distinti per scienza e prudenza: facoltà da usarsi « in actu Confessionis ».

5. Mentre è allo studio un aggiornamento- del diritto cano­nico, son note le critiche mosse da giuristi alle vigenti disposi­zioni del CJC in materia di pene ecclesiastiche e di Sacramenti. Si dice, ad esempio, aberrante che nel sacramento della Peni­tenza si possa ricostituire la pace e l'amicizia dell'anima con Dio e non ancora (almeno perfettamente) con la Chiesa, se il confes­sore non ha tutte le facoltà per un'assoluzione piena e definitiva.

Ma questa difficoltà c'è solo per le pene dalle quali un dato confessore non abbia facoltà, al momento, d'assolvere il peni­tente che può esser pentito e, con un atto di dolore perfetto, riconciliarsi con Dio. Praticamente quasi sempre il sacerdote ha la facoltà di indurre il caso urgente (e. 2254) e di concedere subito l'assoluzione. Resta l'obbligo del ricorso, se possibile: ri­corso voluto dalla Chiesa contro il pericolo di troppo facili asso­luzioni, senza serio impegno, debita penitenza, uso dei mezzi necessari per non ricadere. Ma, quando si segue la procedura sta­bilita, si è già in regola (e perciò in pace) con la Chiesa, come con

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una madre che ha già perdonato ma non può non volere il bene delle anime e la loro sincera e profonda conversione. Difatti non obbliga al ricorso quando sia impossibile (e. 2254, § 3) e tanto meno in pericolo di morte (fatta eccezione dei casi più gravi, nell'eventualità d'un ristabilimento, a norma del e. 2252). Del resto, se si volesse insister troppo su una certa frattura fra pace con Dio e pace con la Chiesa nel sacramento della Penitenza, tale questione dovrebbe esser sollevata anche circa l'obbligo pel penitente di confessare i suoi peccati gravi. Se egli fa un atto di dolore per amore di Dio si mette in pace con Lui, eppure gli resta anche il dovere di confessare (se possibile) i peccati a chi ha il potere di sciogliere o di non sciogliere, cioè alla Chiesa. È vero che quest'obbligo di confessare i peccati è di diritto divino, mentre quanto alle pene la norma giuridica viene dalla Chiesa. Però resta possibile — senza intrinseca contraddizione — che si possa esser riconciliati intimamente con Dio ed avere ancora qualche pendenza con la Chiesa. Pendenza voluta, in definitiva, da Dio stesso perché la Chiesa intende e cerca di procurare la salvezza ed il bene delle anime interpretando (per quanto possi­bile) i desideri di Dio. Il bene stesso della comunità, indipenden­temente dal diritto ecclesiastico, può esigere che un'anima, pur riconciliata nel sacramento della Penitenza, compia inoltre qual­che atto esterno, dia — prima d'accostarsi pubblicamente all'Eu­caristia — una dimostrazione della sua .vera conversione, elimi­nando qualche occasione di scandalo, riparando il cattivo esem­pio eventualmente dato.

C'è chi propone (in un riformato diritto penale ecclesiastico) la separazione del foro esterno da quello interno. La scomunica non dovrebbe mai impedire, a chi l'ha contratta, di ricever (se disposto) il sacramento della Penitenza e l'Unzione degli Infer­mi. Resterebbe proibito di ricever l'Eucaristia finché la pena non sia stata tolta (nel foro esterno). È prevedibile che ci saranno, in pratica, difficoltà nel ricorrere al superiore competente per l'as­soluzione in foro esterno; nonché il disagio di non poter, prima, ricever la Comunione o celebrare. (Secondo il CJC, e. 2254, una volta ricevuta l'assoluzione « in caso urgente », il penitente può subito comunicarsi, a meno che non debba prima riparare uno scandalo).

6. Certamente la Chiesa è sempre madre. Guarda al bene delle anime. Perciò ha espressamente aggiunto la clausola: se un

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confessore assolvesse un penitente da un caso riservato senz'aver la facoltà e senz'usare la debita procedura perché ignora che è riservato, l'assoluzione sarebbe valida (e. 2247, S 3) anche se avesse per oggetto solo questo caso riservato. Ed anche cono­sciuto lo sbaglio, a nient'altro sarebbero tenuti confessore e peni­tente. Si fa eccezione (per ovvie ragioni) per i casi più gravi (cen­sure « specialissime » riservate o « ab nomine »); ma anche in tal caso praticamente (se c'è la buona £eàe del penitente) non è invalida Passoluzione perché generalmente s'accusano anche altri peccati: circa questi l'assoluzione resta direttamente valida; e quindi diventa indirettamente valida anche per i riservati (simil­mente all'assoluzione d'un peccato grave che il penitente di­menticasse).

5. Il confessore s'interroga sulle sue doti spirituali

Il confessore deve conoscere il diritto, le proprie facoltà giu­risdizionali, la procedura di questo specialissimo giudizio che è la Confessione. Ma non è solo un giudice. Ha altri uffici: di mae­stro, ài padre, d'amico, di medico. Ed i penitenti attendono e cercano il confessore che abbia le qualità corrispondenti a que­sto ufficio. Il Catechismo Romano (p. 244) dice che gli occorre la scienza e la prudenza; ma, afferma altresf che dev'esser visto dai penitenti come un « fedele amico che può aiutarli col suo ministero e col suo consiglio» (p. 235). Ed al penitente che voglia esser saggiamente consigliato. ed efficacemente guidato nelle vie della perfezione, il medesimo catechismo raccomanda una scelta altrettanto saggia del proprio confessore: « cuivis maximo studio curandum ..., ut eum sibi Sacerdotem deligat, quem vitae integritas, dottrina,, pietas, prudera judicium commendet » (p. 244). È implicito il consiglio di non lasciarlo e di non cam­biarlo senza giusti motivi.

1. Scienza. Per esser obbiettivo ed equilibrato nei suoi giu­dizi e consigli il confessore deve anzitutto aver studiato e con­tinuamente coltivare la teologia morale e procurarsi una qualche informazione delle scienze affini ed ausiliarie. Oggi però si ha l'impressione che, anche nelle scuole ecclesiastiche, si sia meno preoccupati dello studio metodico e sistematico di tutti i trat­tati della teologia morale. Specialmente poi si disprezza la casi-

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stica. Taluni sostengono che basta dare ai fedeli ed ai penitenti alcuni principi generali e suscitare nelle loro anime le buone disposizioni di fondo. Le conclusioni sulle azioni concrete (da porsi o da evitarsi) le tirerà ognuno applicando i principi secondo la sua situazione e la sua coscienza, guidato dal naturale senso morale. Senonché il penitente — anche quando non gli è man­cata una. certa apprensione dei principi morali generalissimi ed una certa consapevolezza della situazione propria — spesso è incerto sull'opzione da fare, perché non si sente in grado di appli­care debitamente i principi e dedurre una sicura conclusione; inol­tre non sempre conosce tutte le leggi morali, naturali e positive (per le quali non basta il possesso dei principi generali); infine, anche se è capace di dare un giudizio su un caso obbiettivo altrui — simile al proprio — stenta a pronunciarsi in causa propria e desidera chieder consiglio (come i medici quando son malati). In­somma il confessore potrà sempre esser chiamato ad illuminare od a confermare od a correggere una coscienza. E non potrà li­mitarsi a suggerire i principi, ad esortare a far tutto nella carità ed in buona fede rettificando l'intenzione. La carità anima ed eleva tutte le altre virtù ma non le supplisce quando si possono esercitare consapevolmente; e non si può rifugiarsi nella buona fede quando si dubita circa una specifica scelta e ci sono i mezzi per istruirsi.

Il documento pastorale della C.E.I. del 12.VII.74 racco­manda « lo studio attento della dottrina morale e spirituale della Chiesa », « una adeguata attenzione ai risultati delle scienze antro­pologiche moderne e del contesto culturale odierno ». Suggerisce alle Chiese particolari ed ai presbiteri diocesani « di promuovere frequenti incontri sacerdotali non solo per l'aggiornamento litur-gico-pastorale, ma anche per una permanente formazione all'eser­cizio di un cosi grande ministero» (n. 116).

2. Prudenza. È necessaria al confessore in particolare nei giu­dizi e consigli sulle scelte concrete che suggerirà — con la debita discrezione — ai singoli penitenti nelle loro particolarissime situazioni. Prudenza occorre altresì nell'indicare i rimedi più ido­nei per guarire le anime e premunirle, per l'avvenire, contro la forza del male (Cat. Rom., p. 244). Prudenza anche nel com­portamento personale che il confessore dovrà tenere coi diversi penitenti.

Un confessore potrebbe esser dotto, pio, zelante, ma esser mancante nella prudenza. Perché, se i principi astratti sono chiari,

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non altrettanto facile è pronunciare un giudizio sui casi concreti. Bisogna saper applicare i principi cercando di aver presenti tutte le circostanze, ma tenendo pure conto che certi dati particolari (che sarebbe utile conoscere) spesso sfuggono. Il compito del con­fessore consigliere non consiste solo nel fornire, per tutti i casi simili, delle ricette già bell'e preparate: appunto perché sono casi solo simili. Ci può esser * qualche circostanza che incide e fa cambiare la situazione.

La prudenza è una virtù in parte innata; si acquista inoltre con l'esperienza secondo il proverbio: « fabricando fit faber ». Bisognerebbe che il confessore arrivasse ad una tale pratica del suo ministero da afferrare certe delicate situazioni del penitente da una sola parola. A proposito, in particolare, delle interrogazioni sui peccati impuri, il Giordanini scriveva: « Se un confessore una, o due volte avrà studiato seriamente in buoni autori ciò che è necessario per dichiarare la specie di queste oscenità, e voglia seguire le buone dottrine, troverà, che avrà da far pochissime parole, potrà far dire al penitente quanto bisogna, e l'esperienza, che ha tra le mani, e il suo buon zelo e prudenza gli suggeriranno ogni giorno, se vi rifletterà seriamente, nuovi modi più cauti, e più onesti per farlo » {Istruzione per i novelli confessori, I, Roma, 1841, p. 115).

Nel comportamento personale del confessore coi singoli peni­tenti, prudenza ed esperienza suggeriranno ciò che i sacerdoti giovani in genere non pensano (forse per zelo): che le confes­sioni per solito conviene che siano brevi perché valgono di più poche parole ben ponderate ed adatte, che non tante esortazioni, prediche prolisse e generiche. Specie se ci sono altre persone che attendono. Il che è ben diverso da quella insofferenza che certuni dimostrano quando non lasciano neppure parlare i peni­tenti. Si narra che s. Francesco di Sales era un confessore tanto ricercato per questo solo che lasciava parlare (non era solo que­sta la sua virtù, ma ciò fa capire che molti confessori non lascia­vano parlare). Brevità, s'intende, in via ordinaria: il sacerdote impiegherà tutto il tempo necessario e metterà tutto il suo impe­gno apostolico per disporre chi disposto non era.

3. Le capacità d'intelligenza e la virtù della prudenza non bastano. Se il confessore è anche padre, amico e medico gli si richiedono altresì certe doti e virtù che piuttosto nel cuore hanno la loro sede. Un complesso di piccole e grandi virtù. « Vitae inte-gritas... pietas... » {Cat. Rom., p. 244): che suppone sforzo con-

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tinuo di personale perfezionamento, d'autocontrollo, d'apertura. E zelo, certamente. Ma non solo attività, prontezza ed assiduità alle fatiche di questo ministero che potrebbe anche esser eserci­tato con una certa freddezza, per motivi, piuttosto umani, senza l'umiltà, lo spirito di servizio, il calore della carità che caratte­rizzano i santi confessori.

Il confessore sa di esser al servizio di tutti, senza distinzioni e preferenze. Sa che « gli sono affidati in modo speciale i poveri ed i più deboli » (PO, 6) sull'esempio di Cristo.

Preparerà per tutti un'accoglienza festosa. Chi dona letizia comunica l'amore, illumina lo spirito ottenebrato del peccatore, gli infonde fiducia. I penitenti avranno, fin dalle prime battute, la sensazione che s'incontrano con uno che porta la gioia d'un lieto annuncio anche se ha una veste nera ed una stola violacea. Una gioia che egli dà gratuitamente: basta solo che gliela doman­dino. Con il suo volto ed il suo comportamento dice quanto si legge nel « Journal d'un Cure de campagne » di Bernanos: « Non è colpa mia se porto un vestito da beccamorto. Dopo tutto il Papa si veste di bianco ed i cardinali di rosso. Avrei il diritto di passeggiare vestito come la Regina di Saba, perché porto la gioia. Ve la donerei per niente se me la domandaste. La Chiesa dispone della gioia, di tutta la parte di gioia riservata a questo triste mondo » (Gallimard, 1961, p. 1046).

« Pietas » (Cat Rom., p. 244): bontà, amore verso il pecca­tore penitente. Ma l'amore suppone la compassione e la compren­sione. Compassione, cioè sensibilità spirituale, delicatezza, finez­za: facoltà preziosa, frutto e premio della bontà. Certo senza compassione non c'è comprensione (« durch mitleid wissend »). E senza comprensione non c'è il vero amore, verso tutte, indi­stintamente, le anime. Ma comprendere è più difficile che ama­re: non basta l'intelligenza, occorre intuizione ed attenzione amo­rosa agli stati ed ai bisogni spirituali delle anime. Capacità que­sta che è propria di tutti coloro che hanno affinato il loro spi­rito soffrendo ed amando. È quindi la dote che, praticamente, i penitenti maggiormente ricercano nel confessore: solo se si sentiranno compresi, si apriranno ed accoglieranno volentieri am­monizioni e consigli.

Comprendere significa anzitutto riconoscere in ognuno valori e possibilità (forse nascoste, forse solo potenziali e seminali). Ed il penitente (per quanto peccatore) quando apre il suo cuore e confida le sue debolezze, ha bisogno — oltre al dono della gra-

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zia invisibile —• della nostra stima. Non dobbiamo mostrare per lui solo compassione e tolleranza. E la nostra parola di stima non dev'esser solo un complimento d'obbligo (simile alla bugia pie­tosa detta all'ammalato pel quale non c'è più speranza): forse, nel regno dello spirito, il peccatore, che abbiamo dinanzi, è più ricco di quanto noi crediamo. E vale per ognuno quanto Gesù disse ai superbi che si proclamavano giusti: « Amen dico vobis, quia publicani, et meretrices praecedent vos in regnum Dei » (Mt. 21, 31).

Una parola di stima il penitente non la dimentica. Sarà forse l'ancora di salvezza in qualche momento di depressione e di di­sperazione. Stima sincera: è con l'umile coscienza d'esser anche egli un uomo peccatore (ma beneficato da una grazia di predi­lezione) che il sacerdote accoglie altri peccatori per aiutarli a ritrovare la fiducia. Sembra composta per lui — quand'entra nel confessionale — la preghiera che si trova ne « I grandi cimi­teri sotto la luna » di Bernanos: « O Dio! siccome io non so amare secondo la vostra grazia, non toglietemi l'umile compas­sione, il pane grossolano della compassione che noi possiamo spez­zare insieme, peccatori, seduti nel ciclo della strada, in silenzio, a testa bassa, alla maniera dei vecchi poveri » (Les Grands Cimi-tières sous la lune, Gallimard, 1971, p. 526).

Perciò quando rivolge ammonizioni ed esortazioni, il confes­sore non lo farà in tono autoritario. Ed userà il plurale: quel « noi » indica che anche lui ne ha bisogno, che non intende costi­tuire un'eccezione, o, quasi, mettersi al posto di Dio (cfr. K. Till-mann, La catechesi della Confessione, Brescia, 1963, p. 300). « Coraggio, amico — diceva lo Chevrier ai penitenti che accu­savano gravi ed umilianti peccati — siamo tutti fragili, tutti pos­siamo cadere ». Il che non significa scusare il peccato. Bisogna (senza sgarberie) far capire chiaramente quel che è lecito e quel che non è lecito. Con chiunque. Non si strumentalizzi la Confes­sione per motivi inferiori.

Aver comprensione significa, pel Confessore, saper adattarsi al­la psicologia ed ai bisogni spirituali delle diverse categorie di pe­nitenti e dei singoli penitenti. Adattamento non facile. Domanda molta pazienza. Fanciulli impreparati, leggeri, distratti, gente roz­za od indifferente, spiriti pieni di sé, antipatici; e poi fedeli fede­lissimi, ma noiosi e petulanti, ed i vecchi duri d'orecchio e quelli duri di comprendonio... Con costoro saranno messe alla prova le capacità del confessore di sopportare e d'amare (facili colle

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persone simpatiche). D'altra parte, se possiede qualche conoscen­za dell'umana psicologia, egli saprà (senza esser insensibile) non turbarsi e non dare eccessiva importanza a certe espressioni di persone portate — per natura — ad esagerare ed a drammatizzare. Saprà quanto variabile sian l'umore e quanto forti le impressioni della fantasia, specialmente neil!anima femminile.

E poiché la pazienza non è di tutti, si spiega come molti sa­cerdoti rifuggano dal ministero delle Confessioni, passata la no­vità ed il fervore delle primizie apostoliche. Preferiscono get­tarsi nell'attività esteriore. Ma cosi possono rendersi insensibili ai problemi della vita interiore delle anime, fino a sorridere su certe loro aspirazioni od inquietudini. Penseranno che non vai la pena di perder tempo con spiriti complessi, meticolosi o sug­gestionabili, a discutere su questioni senza importanza ed uti­lità. E cercheranno di liberarsene.

Ogni penitente ha il suo temperamento naturale (unico, ori­ginalissimo). Ogni cristiano ha anche (come è stato scritto) un suo temperamento soprannaturale individualissimo ed irripeti­bile. Lo sforzo di adattamento alla psicologia del singolo non cesserà mai nel confessore, per quanto fine sia la sua sensibilità e ricca la sua esperienza. Quante volte dovrà umilmente riconoscere di non aver capito un'anima. E conserverà sempre un certo qual timore nel guidare gli altri nelle vie dello spirito perché sa bene che ognuno è anzitutto guidato da Dio: si tratta d'interpretare il Suo pensiero ed i Suoi disegni. Ma l'azione, i movimenti, gli effetti della grazia non sempre si percepiscono immediatamente e chiaramente. Il confessore sentirà anzitutto il bisogno-d'esser, lui stesso, guidato da Dio. Non può imporre a tutti gli stessi schemi, programmi, mezzi di perfezione. Neppur quelli che egli ha personalmente sperimentato validi. Modo di pregare, di medi­tare, d'esaminare la coscienza, libri spirituali da leggere, durata della preghiera...: sono tutti mezzi relativi, necessari od utili, ma non per tutti in egual modo e nella medesima misura. Le stesse esortazioni al dolore ed al proposito d'una vita migliore varieranno nella forma, lunghezza, espressioni ed accenti, secondo la capacità ed il bisogno del penitente.

Quando in un confessore c'è pietà e carità verso i penitenti, ci sarà anche l'autentico zelo che lo animerà a mostrarsi anzi­tutto facilmente disponibile all'esercizio d'un cosi santo ministero (Doc. C.E.I. 12.VII.74, n. 101). Ad esempio, cercherà di non far aspettare (o di faraspettare il meno possibile) i penitenti,

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specialmente gli uomini che praticano poco la religione. Con co­storo che di volta in volta, almeno a Pasqua, s'accostano ai sacra­menti, il Frassinetti suggeriva, fra le altre avvertenze, quella — la prima — di non farli aspettare quando si presentano e di mostrarsi sempre pronti ad ogni loro richiesta, anche se l'ora è incomoda e inopportuna. Se ci sono poi uomini e donne da confessare, conviene sentire prima-gli uomini perché questi, ge­neralmente, hanno occupazioni più importanti ed hanno meno pazienza. La seconda avvertenza che il Frassinetti dava per la confessione degli uomini è d'accoglierli non solo in modo cortese ma « allegro e festivo ». Dar loro l'impressione che al confessore riesce graditissimo l'ascoltarli. Anche se sono d'infima condi­zione, usare il miglior garbo e mostrare l'affetto che si avrebbe per il più caro amico (cfr. Manuale prat. del parroco nov.,.p. 352).

« Strumento e segno della misericordiosa paternità di Dio e della comprensione materna della Chiesa » (Doc. C.E.I. n. 101): il confessore consapevole di questo suo altissimo ministero sente il bisogno urgente di disporvisi con la preghiera (remota ed imme­diata): perché sa di compiere un servizio: cerca incessantemente d'essere un docile strumento di Dio per aiutare le anime a sco­prire e metter in pratica quelle che sono veramente le sue ispira­zioni. Ma conosce tutti i propri limiti, tutta la propria fragilità, tutti i pericoli inerenti anche a questo ministero. Perciò prima di entrare in confessionale raccoglie il suo spirito, rettifica la sua in­tenzione innalzando lo sguardo in alto chiedendo l'aiuto di Dio e rinnovando la consacrazione della sua castità a Maria, Vergine pu­rissima.

6. Maestro e psicologo

La Confessione non è solo un processo; non si risolve solo in una sentenza giudiziale. E, prima di proferirla, prima di rivol­gere la sua parola al cuore del peccatore, il confessore potrebbe esser impegnato come maestro. Alle volte una qualche istruzione può esser necessaria per avviare il giudizio e perché il sacramento sia amministrato validamente e fruttuosamente. Altre volte que­st'ufficio potrà esser suggerito dalla carità.

Il confessore deve, all'occasione, far uso della sua scienza di maestro e delle sue doti di psicologo perché c'è un duplice ordi-

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ne di moralità: quello oggettivo e quello soggettivo. Secondo l'ordine obbiettivo l'atto umano è considerato alla luce della legge obbiettiva della moralità (legge divina od umana); secondo questa norma l'atto è giudicato nei suoi elementi che sono l'og­getto, il fine, le circostanze. L'oggetto è la finalità intrinseca dell'azione; il fine del soggetto operante può coincidere con questo effetto immediato dell'azione, oppure esser diverso (c'è chi uccide per uccidere e c'è chi uccide una persona per liberare dal pericolo un'altra: priva, ad esempio, della vita il bimbo non ancor dato alla luce, per sollevare la madre togliendola dallo stato di gravidanza).

Sul piano, invece, soggettivo l'atto umano è visto in rela­zione alla norma soggettiva della moralità, che è la coscienza. Si considera inoltre quale sia il merito o l'imputabilità d'un'azione compiuta.

I. Ordine obbiettivo

1. Fonti della moralità: l'oggetto, il fine, le circostanze. L'og­getto: ciò a cui l'azione tende per sé e primariamente. Esempio: l'oggetto (od effetto immediato o finalità intrinseca) dell'aborto terapeutico è l'espulsione del bimbo immaturo dalla madre, e quindi la sua uccisione. Il fine del medico operante può esser non la uccisione del bimbo ma la salute della madre. Ma questo effetto è mediato perché ogni azione non ha che un solo effetto morale immediato da cui è specificata. Per giudicare quale sia l'oggetto morale di un'azione — e quindi la sua moralità buona o cattiva — l'azione va considerata secondo tutte le sue circo­stanze: il ferimento d'un uomo può esser — secondo le circo­stanze — effetto indiretto d'una legittima difesa oppure il fine immediato e l'effetto diretto di una violenza ed aggressione ingiusta.

Le circostanze in senso stretto sono qualità accidentali che modificano in più od in meno la moralità, buona o cattiva, d'una azione senza mutarla sostanzialmente (un furto — in materia gra­ve — può esser più o meno grave). L'oggetto dà all'azione la sua moralità essenziale: difatti se l'oggetto è cattivo l'azione non di­venta buona pel fatto che fine e circostanze accidentali sono buo­ni. A meno che non si tratti di circostanze che mutano la mora­lità dell'oggetto stesso (ma allora non sono propriamente circo­stanze, cioè qualità puramente accidentali). Il lavoro proibito in

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giorno festivo cessa di essere un'azione illecita quando si verifica lo stato di necessità. Ma ci sono azioni che non possono subire una mutazione sostanziale di moralità per quanto possano cam­biare le circostanze: sono le azioni cosiddette « intrinsecamente cattive », ad esempio gli atti impuri contro natura (masturba­zione, omosessualità, pratiche anticoncezionali). E siccome anche il fine soggettivo è una circostanza, perciò un'azione intrinseca­mente cattiva non diventa lecita pel fatto che è posta come mezzo per un fine onesto.

La legge naturale (cioè incarnata nella natura umana di cui esprime le esigenze) è immutabile come la natura stessa ". A meno che non si tratti di atti che pel cambiamento di circostanze, subiscono una mutazione sostanziale della loro moralità, cosic­ché una legge naturale viene a cessare. Una legittima difesa che indirettamente causa un omicidio non è un'azione proibita dalla legge naturale (appunto perché non è un'uccisione diretta ma la conseguenza d'una permessa difesa). Uccidere invece direttamen­te è proibito dalla legge naturale (senza un permesso di Dio).

11 « Objectum a quo actus accipit essentialem et primariam moralitatem est illud circa quod versatur actus moralis et primo et per se attingitur ab ipso actu... Si objectum est intrinsece et natura sua conforme rectae rationi, ut est amor Dei, erit immutabiliter bonus. Si objectum sit indecens et inconveniens naturae rationali, ex eo consurget malitia essentialis actus » (S. Alf., Tb. Mor., 1. V, art. IV, nn. 36-37). «A torto, quindi, molti oggi pretendono che, per servire di regola alle azioni particolari, non si possa trovare né nella natura umana né nella legge rivelata, altra norma assoluta ed immutabile, se non quella che è espressa per mezzo della legge naturale della carità e del rispetto della dignità umana. A prova di questa asserzione essi sostengono che nelle cosiddette norme della legge naturale o nei pre­cetti della Sacra Scrittura, non si deve vedere altro che determinate espres­sioni d'una forma di cultura particolare in un certo momento della storia. Ma, in realtà, la Rivelazione divina e, nel suo proprio ordine, la sapienza filosofica, mettendo in rilievo esigenze autentiche dell'umanità, per ciò stesso manifestano necessariamente l'esistenza di leggi immutabili, inscritte negli elementi costitutivi della natura umana e che si manifestano identiche in tutti gli esseri dotati di ragione » (Dich. « Pers. Hum. », n. 4). Esiste dunque una legge conoscibile della stessa ragione riflettente sul fine e sulle esigenze della natura umana. E ciò che è una esigenza della natura umana è immutabile come la natura stessa. Perciò nella legge naturale non è ammessa epikeia propriamente detta, cioè qualche caso nel quale si possa presumere che il legislatore non intenda obbligare. S. Alfonso affermava si che può darsi epikeia anche per la legge naturale (Th. Mor,, t. I, 1. I, tr. II, n. 201) ma aggiungeva: «ubi actio possit ex circumstantiis a malitia denudari». Egli si riferiva dunque, per esempio, al caso in cui sarebbe da

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Fine e circostanze non giustificano l'uccisione diretta. L'aborto diretto terapeutico non diventa lecito pel fatto che si intende e si proclama di voler solo assicurare la salute della madre amma­lata e di operare a malapena. Ma se si espelle il bimbo mettendolo in condizione di non poter vivere non si può non intendere anzi­tutto la sua uccisione. Chi affermasse che il fine onesto rende lecita l'azione che ha una finalità intrinseca disonesta si pronun­cerebbe sulla moralità oggettiva dell'azione e formulerebbe cosi un principio che, per esser logici, dovrebbe valere per tutti i casi simili. Se si fa invece il caso di uno che erroneamente crede lecito per un fine buono compiere una data azione cattiva, allora ci si porta sul piano soggettivo della coscienza (come vedremo): ma questo giudizio della coscienza vale solo per il singolo che sia in buona fede.

Ed il male non cessa d'esser male pel fatto che il soggetto intende e pensa, con un'azione illecita intrinsecamente cattiva, d'evitare un male maggiore (come potrebbe essere il raffredda­mento dell'amore coniugale od il pericolo d'adulterio da parte di uno dei coniugi qualora essi osservassero la consigliata asti­nenza invece d'usare del matrimonio onanisticamente). La mora­lità obbiettiva resta invariabile sia nei principi sia nelle conclu­sioni della legge morale naturale. E nessuno può trovarsi, obbiet­tivamente, nella necessità di fare il male. Solo l'ignoranza del singolo può indurre una coscienza erronea e far credere lecito o doveroso ciò che non è. Ma allora dal piano oggettivo ci si porta a quello soggettivo u.

restituire a qualcuno il suo. Ma si sa che ne abuserebbe (è un'arma). Cessa allora l'obbligo della restituzione perché è mutata la materia stessa della legge. Se poi s. Alfonso scriveva che può darsi epikeia « si aliter lex red-deretur nimis dura » si riferiva non alla legge naturale, ma alla positiva perché portava l'esempio del precetto d'ascoltar la Messa quando questo importasse un eccessivo incomodo (n. 201). Ma neppur lontanamente pen­sava che epikeia potesse concedersi per quanto riguarda, ad esempio, l'uso contro natura del matrimonio, l'uccisione diretta d'un innocente (anche se solo concepito).

12 « Quantum ad proprias conclusiones rationis practicae, nec est ea-dem veritas seu rectitudo apud omnes; nec etiam apud quos est eadem, est aequaliter nota... et hoc propter quod aliqui habent depravatam rationem ex passione, seu ex mala consuetudine, seu ex mala habitudine naturae » (S. Th. I-II, q. 94, a. 4, e). In questo passo s. Tommaso sembrerebbe afferma­re che la legge naturale in qualche caso particolare cessa d'aver valore obbli­gante. Ma dal contesto risulta come egli si riferisse al solito esempio:

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2. Il fine onesto non giustifica un'azione disonesta: per la salute della madre non si può sacrificare la vita del bimbo inno­cente mediante l'aborto. Se invece un'azione avesse un duplice effetto (uno buono ed uno cattivo) sarebbe lecita se si verifi­cano queste condizioni: che l'effetto immediato, ossia l'oggetto dell'azione (a cui essa tende per sua intrinseca finalità) sia buono od indifferente; che l'effetto cattivo sia mediato (il che è impli­citamente dimostrato se è dimostrata la prima condizione per­ché un'azione non può avere due fini morali intrinseci ed essen­ziali, uno buono ed un altro cattivo); che l'intenzione del soggetto operante sia diretta al fine buono e quello cattivo sia solo per­messo; che, naturalmente, si cerchi se ci sono altri mezzi per rag­giungere l'effetto buono e si prendano tutte le precauzioni per allontanare, se possibile, l'effetto cattivo; nel caso che una via migliore non si trovi, l'effetto buono dovrà controbilanciare, in un giusto apprezzamento, quello cattivo: ci dev'essere (come si suol dire) una causa proporzionatamente grave. Noi dobbiamo infatti preoccuparci anche degli effetti indiretti delle nostre azio­ni (purché però siano umanamente prevedibili, e quindi non trop­po remoti e non puramente accidentali e casuali). Perciò se l'aborto diretto è sempre illecito (anche se « terapeutico » od « eu­genetico » — e non « criminale ») non è illecito quello indiretto quando si tratta di salvare la madre: sarà perciò lecita l'opera­zione di isterectomia — estirpazione dell'utero canceroso — an­che se ha per conseguenza la morte del bimbo « quando il caso sia operativamente curabile e non si possa attendere per il ri­schio che il tumore divenga inoperabile; in questi casi è permesso pure l'uso del radium sempre che non si possa attendere che il feto diventi vitale e che si abbiano elementi per sperare di rag­giungere la guarigione della malata... Nella pan-isterectomia alla Wertheim... l'allacciatura delle arterie che precede l'estirpazione dell'utero provoca la morte del feto... Ma anche in questo caso l'aborto sarà indiretto » (F. Clauser, L'aborto terapeutico sotto il

deposita sunt reddenda: « sed potest in aliquo casu con tingere quod sit damnosum et per consequens irrationabile, si deposita reddantur, puta si aliquis petat ad impugnandam patriam ». Ma in tal caso è lo stesso oggetto morale dell'atto che cambia « per mutationem materiae »: si deve restituire ad ognuno il suo, ma non quando lo chiede irragionevolmente. Perché l'azio­ne diventi da illecita lecita bisogna dunque, come si esprime s. Alfonso, che l'azione « possa esser spogliata della sua malizia per l'intervento di par­ticolari circostanze» (Th. Mor., t. I, 1. I, tr. II, n. 201).

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punto di vista giuridico medico e morale, « Minerva ginecolo­gica », 3, 1951, 22-23). Difatti fra le condizioni del principio del duplice effetto non c'è l'esigenza che sempre l'effetto cattivo si produca, quanto al tempo, dopo quello buono: si considera l'ef­ficienza intrinseca dell'azione e si richiede quindi che l'effetto buono sia immediato e venga prima quanto alla causalità (non strettamente quanto al tempo).

3. Il principio del duplice effetto ci porta e ci aiuta a risol­vere i casi difficili di cooperazione al male. La partecipazione ad un'azione cattiva può esser immediata oppure mediata: è media­ta quando non si partecipa direttamente all'azione stessa ma si dà, a chi la pone, la materia di cui egli si serve per far il male, cioè abusa. Ci sono azioni illecite che ammettono lecita, in certi casi, una cooperazione anche immediata, perché non sono azioni intrin­secamente cattive e quindi le circostanze possono render lecita la cooperazione immediata. Si pensi a chi è costretto a partecipare ad un furto sotto minaccia di morte. Il derubato non può ragio­nevolmente pretendere che uno sacrifichi od esponga al peri­colo la sua vita per difendere un bene materiale altrui: la par­tecipazione immediata al furto è, dunque, in tal caso, giustificata dal diritto ad un bene d'ordine superiore. Ma ci sono azioni illecite nelle quali non c'è causa che giustifichi una partecipazione immediata. È il caso delle azioni « intrinsecamente cattive » (come sono le pratiche anticoncezionali). Per giustificare una parteci­pazione — solo mediata s'intende — a tali azioni si esigono, press'a poco, le stesse condizioni richieste dal principio del duplice effetto anche se è un caso diverso (non sempre dagli autori chia­ramente distinto) da quello di chi pone una causa dalla quale — per l'intervento di circostanze « naturali » — segue anche un effetto cattivo. Ma chi non partecipa all'intenzione cattiva altrui e coopera mediatamente all'atto illecito, dà solo la materia di cui abusa chi vuole e pone l'azione: questi ne è la causa principale. Non è lecito cooperare neppure mediatamente, se non c'è causa scusante. Ma, appunto perché la responsabilità dell'intenzione e dell'azione diretta spetta a chi la pone immediatamente, perciò (dicono gli autori) per giustificare la cooperazione mediata occor­re una causa uguale o meno grave di quella necessaria per chi pone liberamente un'azione che ha un duplice effetto per l'in­tervento accidentale di cause non libere, perché questi — a differenza del cooperatore mediato — può dirsi, in certo qual modo, causa principale anche dell'effetto cattivo (Vermeersch,

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Th. Mor., I, 1947, n. 122). Qualche esemplificazione. Una sposa potrà rendere il debito coniugale (in modo da parte sua regolare, s'intende, non già con l'uso di preservativi) anche se prevede che il marito farà in modo di evitare le conseguenze interrompendo l'atto. Appunto perché l'irregolarità e l'abuso sono praticati solo dal marito direttamente e non mediante strumenti. Basta che, mossa dalla carità, gli faccia capire benevolmente che preferirebbe seguire la natura. Ripeterà questo suo desiderio quando le sembrerà oppor­tuno, cioè quando prevede che la parola buona sarà fruttuosa: altri­menti è più prudente che si astenga. Nel caso che rifiutasse il debito o si mostrasse restia — e cosi il marito si raffreddasse e si disgu­stasse — potrebbero nascere mali e pericoli maggiori. (In tal caso vale il principio che conviene evitare il male maggiore, ma vale per­ché la moglie non pone nessun atto intrinsecamente cattivo). E non deve ritenersi colpevole se — dopo fatto quanto carità e prudenza le suggeriranno — sentisse un sollievo nel non aver una prossima gravidanza (tanto più se è ragionevole una certa limitazione della prole): basta che internamente non approvi l'abuso e, da parte sua, sia disposta ad evitarlo ad ogni costo. Sia invece generosa nell'accettare la figliolanza, se viene. Qualcuna si lamenta col marito rendendogli la vita pesante o addirittura impossibile; cosi facendo potrebbe indirettamente indurlo all'onanismo se invece di portargli con una vita nuova, la gioia, gli porta l'infelicità. Sia generosa comprendendo che se per lei l'astinenza non è diffi­cile, lo è per l'uomo.

Partecipazione ad un atto illecito è quella di un giudice che pronuncia sentenza di divorzio cooperando agli effetti dannosi d'una legge ingiusta. Però tale sentenza, ha, di per sé, come oggetto immediato e diretto solo la cessazione degli effetti civili del matrimonio (che resta valido come prima, secondo la legge morale naturale). Su questo indissolubile vincolo il giudice non si pronuncia. Anzi, il magistrato che non approva questa legge permissiva ed ha coerenza di fede, delicatezza di coscienza, saprà dire espressamente a chi chiede il divorzio che la sentenza civile riguarda solo gli effetti civili, non il vincolo indotto dal diritto e dalla legge morale naturale per chi ha già contratto un matri­monio valido. Si cercherà d'evitare cosf lo scandalo che un giu­dice potrebbe provocare negli altri con un comportamento (sia pur richiesto dal suo ufficio) contrastante con la sua fede ed i suoi principi morali. In modo particolare in una nazione ove il divorzio è introdotto per la prima volta (come in Italia, bene-

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fidata da una delle peggiori tra le leggi divorziste esistenti). Ma, se un giudice per non cooperare alla prassi divorzista, do­vesse dimettersi dal suo ufficio ne avreboe un gravissimo danno per la propria professione e danno recherebbe anche alla co­munità che resterebbe priva d'un giudice onesto. Perciò egli può restare al suo posto: si verificano le condizioni per giustifi­care la sua cooperazione ad un danno morale, sia pur anche so­ciale. Del resto, la stessa legge italiana sul divorzio stabilisce che i coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale personalmente (salvo gravi e comprovati motivi). Ed il presi­dente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiun­tamente tentando di conciliarli (art. 4). Più difficilmente potrà giustificarsi un avvocato che patrocina una causa per ottenere il divorzio perché egli è libero di assumere o rifiutare queste cause. Chi poi dà il suo voto favorevole al divorzio (nel Par­lamento o nel Referendum) questi pone un'azione che ha un oggetto immediato intrinsecamente cattivo: l'approvazione della legge stessa. Né può esser giustificata la cooperazione del co­niuge che sottoscrive — anche se lo fa a malapena ed è incol­pevole nella sua vita matrimoniale — la domanda di divorzio voluto dall'altra parte in seguito al proprio colpevole compor­tamento.

Come si vede, nei casi di cooperazione (mediante un atto che non ha una finalità intrinseca cattiva ma indifferente) bisogna considerare la maggior o minor prossimità di tale cooperazione all'azione illecita; la causa giustificante poi dev'essere prudente­mente considerata e ponderata mettendo sui piatti della bilancia il danno che uno avrebbe se negasse la sua cooperaxione ed il male (più o meno grave, più o meno probabile, più o meno certo, privato o ristretto o pubblico) che consegue a tale cooperazione. Ci sono mali e scandali (specialmente pubblici) ai quali molti sono soliti cooperare scusandosi con troppa facilità, anzi con in­differenza. Si pensi al fenomeno dilagante della pornografia a cui tanti concorrono per scopo commerciale. D'accordo, un film osceno, se fa del male lo fa, in definitiva, perché i singoli vo­gliono andar a vederlo; potrebbero non andarci. E se le sale cinematografiche fossero semivuote si cambierebbe forse regi­stro. Gli spettatori si assumono tutta la responsabilità degli ef­fetti nocivi che subiranno personalmente, nonché della coopera­zione alla produzione di films scandalosi. Però chi li produce e li allestisce offre la materia incendiaria e favorisce lo scandalo

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pubblico. E se approva, raccomanda, fa pubblicità propagandisti­ca di questi spettacoli la sua mala cooperazione è anche inten­zionale. La gravità di questa cooperazione è diversa da quella di un operaio che (senza far propaganda di erronee ideologie e procurando che non sorga scandalo) prende la tessera d'un par­tito che ha un programma antireligioso, e lo fa solo perché altri­menti resterebbe senza il pane per la famiglia. Ci si chiede invece se siano scusabili quegli edicolanti che mettono in mostra pub­blicazioni pornografiche. È vero che son gli autori e gli editori che cooperano al male con azioni in sé, immediatamente, cattive; i rivenditori cooperano mediatamente. Ma se devono (in base ai contratti esistenti in materia) detenere e vendere simili periodici, possono non raccomandarli. E chi non vuol raccomandarli, evita anzitutto di esporli in visione. Questo comportamento può cer­tamente costituire una rinuncia a qualche guadagno maggiore. Ma è questa costosa (e non troppo) coerenza che si domanderebbe. Specialmente da chi vuol esser cristiano militante per una causa ed un ideale.

II . Ordine soggettivo

1. Norma prossima e soggettiva della moralità: la coscienza. Sé esiste una norma obbiettiva della moralità, ognuno dovrebbe cercar — con un impegno ordinario, non si esige straordinario — di conoscerla, in modo che la coscienza corrisponda alla legge. La trasgressione (sia pur per ignoranza) della legge morale « natu­rale » è sempre nociva (Vermeersch, Th. Mor., I I , Roma, 1945, n. 104). L'ideale è, dunque, una coscienza certa e retta. Nel dub­bio che un'azione sia peccaminosa, prima di porla bisogna retti­ficare coscienza ed intenzione. Per formarsi una coscienza giusta e serena si confiderà — specie quando capitano difficili casi per­plessi — nella preghiera e nella divina ispirazione interiore. Senza però trascurare la riflessione, l'analisi razionale, l'esercizio della prudenza; e, all'occorrenza, si chiederà informazione ad un sag­gio consigliere spirituale.

2. Il confessore deve presumere che il penitente, quando si accusa d'un peccato, l'abbia appreso secondo la sua obiettiva malizia. Ma ci possono esser indizi per dubitare che la coscienza sia vera; e la presunzione può, alla prova dei fatti, cadere di fronte alla realtà. Per assolvere un penitente non è necessario che il confessore sia in grado di giudicare se il peccato fu in con-

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creto effettivamente grave o leggero. Questo giudizio è, anzi, spesso impossibile allo stesso penitente. Però il confessore userà coi penitenti un diverso trattamento pastorale a seconda che danno segni d'aver gravemente e consapevolmente, o meno, disob­bedito alla voce della coscienza.

3. Qualora il confessore s'accorga che il penitente non ha appreso il peccato secondo la sua obbiettiva malizia, dovrà cor­reggere la coscienza erronea? Bisogna distinguere. Se constata (o dubita) che il penitente creda peccato (o peccato grave) ciò che non è tale, il confessore deve illuminarlo. Con chi, in buona fede, non ritenga grave ciò che è grave (o creda che non ci sia per lui un obbligo che obbiettivamente c'è) bisogna prudente­mente esaminare se l'ammonizione secondo verità è da prevedersi fruttuosa o no. Se si prevede infruttuosa sarà da omettersi (al fine di impedire la colpa soggettiva): « ratio est — scrive s. Al­fonso — quia magis cavendum est a periculo peccati formalis quam materialis; quia Deus tantum formale punit, siquidem hoc solummodo in sui offensam habet » (Praxis Confess., Venetiis, 1834, p. 84). È il caso d'una restituzione che, per sé, sarebbe doverosa. Altro esempio: il confessore, nella sua veste, al medico che manifestasse in confessione di consigliare o praticare l'opera­zione illecita d'aborto dirà chiaro che non è lecito. Coi fedeli — specialmente se è già stato dato il consiglio ed il giudizio da parte del medico — bisogna agire con quella prudenza che co­nosciamo necessaria: si danno casi eccezionali in cui/conviene lasciare una persona in buona fede, anche perché il confessore non saprà con precisione che genere di operazione sia e non con­viene indagar molto (ci sono casi nei quali l'aborto provocato dall'intervento è solo indiretto).

Può esser però che il bene stesso del penitente od il pericolo d'un male comune postulino o consiglino l'ammonizione. Ad esempio, un ragazzo che per ignoranza compisse atti impuri sarebbe da ammonirsi perché non contragga il vizio, anche se si prevede che forse non si correggerà subito. Quasi tutti iniziano la pratica della masturbazione per caso o per l'esempio dei com­pagni, senza però chiara coscienza che è un male. Poi contraggono l'abitudine e molti sono infelici perché non riescono a vincersi e confessano che non vi sarebbero caduti se avessero saputo che era peccato.

Qualora il penitente stesso dubitasse se abbia avuto la consa­pevolezza necessaria alla colpa grave, si giudicherà in base alla

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presunzione: a seconda che si tratta di coscienza delicata o larga. L'ideale è formare coscienze delicate. Sempre giuste però. Il con­fessore, quindi, di massima, illumina il penitente secondo la verità. E quando si presenta prudente non turbare la buona fede sostan­ziale, anche allora non può positivamente dichiarargli lecito ciò che lecito non è. Altrimenti si pronuncerebbe sull'ordine obiet­tivo della moralità, erroneamente.

4. Sul piano soggettivo può presentarsi pure il problema della imputabilità di un atto per sé disordinato. Ci sono impedimenti al libero arbitrio. Dopo il peccato originale la vita morale è, di per se stessa, difficile. Non per questo si è scusati dallo sforzo di osservare la legge. Però, di fatto, avvertenza e deliberazione hanno gradi diversi, lì peccato grave richiede una certa pienezza di cogni­zione e di consenso. Potrebbe darsi che la forza della passione osta­coli la libertà, oscurando quel giudizio ultimo che precede l'op­zione; conseguentemente anche il pieno consenso verrebbe a man­care. Potrebbe darsi perciò che non manchi la chiara cognizione teoretica della legge, ma che non altrettanto chiaro sia il giudizio pratico (se questo non fosse impedito, anche il consenso, di chi si determina all'atto, sarebbe pieno). In un documento sui pro­blemi dell'etica sessuale in data 2-II-74, i Vescovi Lombardo-Veneti, accennando, fra l'altro, al fenomeno della masturbazione negli adolescenti, dopo aver affermato che secondo « l'insegna­mento certo della Chiesa... sul piano oggettivo è un disordine morale grave », aggiungono che « sul piano soggettivo, soprattut­to nell'età adolescente, pur senza escludere a priori la possibilità di una completa responsabilità — non si deve sottovalutare, allo scopo di un retto giudizio morale, l'incidenza dei condizionamenti psicologici e sociali che possono compromettere un'avvertenza piena ed un consenso deliberato. Tuttavia il giusto riconoscimento delle cause che diminuiscono la responsabilità soggettiva, non de­ve mai velare agli occhi dell'adolescente il fermo valore della norma etica; e tanto meno deve attenuare nell'educatore l'impe­gno di incoraggiarlo con infaticabile fiducia verso un progressivo dominio di sé, prospettandogli la speranza di conquistare la vera libertà, di aprirsi con matura sollecitudine agli altri, di crescere in una fede personale, e anche di accogliere Videale della, verginità, se Dio volesse chiamarlo per tale via a uno specifico servizio nella Chiesa » (nn. 18-20).

E quando al confessore capitasse qualche caso nel quale è dubbia la piena deliberazione di atti obiettivamente gravi (per

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esempio, di masturbazione) il confessore sarà cauto e non preci­pitoso nel proferire giudizi sulla colpevolezza soggettiva d'un penitente. Il dubbio può venire magari dal fatto che si tratta di un soggetto nevropatico il quale durante il giorno combatte contro le tentazioni, prega, ma alla sera, a letto, non riesce a prendere sonno, è tormentato da fantasmi e stimolazioni sessuali, finché non placa questa tensione procurandosi la piena soddisfa­zione. In simili casi il confessore non dirà al penitente che questi atti non gli sono imputati. Tale dichiarazione può essere teme­raria e causa di temerarietà: c'è pericolo che il penitente insensi­bilmente opponga minore resistenza alle tentazioni e suggestioni, e sia meno cauto nell'evitare le occasioni esterne. D'altra parte, il confessore neppure affermerà positivamente che si tratta di colpe gravi: ciò potrebbe provocare uno scoraggiamento. Egli seguirà prudentemente una certa qual via di mezzo. Senz'altro sarà pie­no di benevalenza e di misericordia con questi recidivi che lungo il giorno cercano di evitare le occasioni pericolose {è questo, in­sieme alla preghiera, sostanzialmente il segno tranquillizzante)u. Non farà difficoltà a dare l'assoluzione. Li esorterà alla Comu­nione frequente, anche quotidiana. La Confessione previa e fre­quente è, in genere, tutt'altro che dannosa e credo vani i timori espressi da B. Haring in Adolescenza e Penitenza, Torino, L.D.C^/ 1969, 142. La Confessione può e dev'essere sempre consigliata: è un'infusione di grazia sacramentale ed un ottimo rimedio psi­cologico (i casi psichiatrici non costituiscono la normalità ma una eccezione).

I II . Su questi principi si desidererebbe che il discorso fosse sempre chiarissimo.

1. Ad esempio, in certe dichiarazioni di Conferenze episcopali che hanno commentato l'Enciclica « Humanae vitae » bisogna di­stinguere esattamente la considerazione di un caso sotto l'aspetto oggettivo e lo stesso caso visto da qualche soggetto (forse in

13 « Nel ministero pastorale, per formarsi un giudizio adeguato nei casi concreti, sarà preso in considerazione, nella sua totalità, il comportamento abituale delle persone, per ciò che riguarda non solo la pratica della carità, e della giustizia, ma anche la preoccupazione d'osservare il precetto partico­lare della castità. Si vedrà, specialmente, se si fa ricorso ai mezzi necessa­ri — naturali e soprannaturali — che l'ascesi cristiana, nella sua esperienza di sempre, raccomanda per dominare le passioni e far progredire la virtù » (Dich. Pers. Hum., n. 9).

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buona fede a causa di particolari circostanze delle propria vita co­niugale). Né si deve partire dalla presunzione che legge e coscienza siano in opposizione (e questa impressione può aversi se si pre­senta la legge come qualcosa d'impersonale che s'impone dall'ester­no e va contro i cosiddetti « diritti » della coscienza). Il dissidio fra legge e coscienza ci può essere, ma, come scriveva E. Hamel, dev'esser considerato come qualcosa d'eccezionale, di provvisorio e, per quanto possibile, da superarsi {Conferentiae episcopales et encyclica «Hurnanae vitae », «Periodica», 58, 1969, 347). Al­trettanto si dica di alcuni documenti degli episcopati stessi a pro­posito di qualche caso-limite di estrema gravità, nei quali qual­cuno può ritener lecito il ricorso all'aborto (presso G. Caprile, Non uccidere, il Magistero della Chiesa sull'aborto, Roma, « La Civiltà Cattolica », 1973). Se invece queste dichiarazioni intendes­sero ammettere « eccezioni » vere e proprie sul piano obbiettivo per le « difficoltà sempre mutevoli dei casi particolari », se si spingessero davvero ad ammettere che la stessa legge morale natu­rale è meno rigida di quanto può apparire dall'insegnamento del Magistero supremo della Chiesa, se fossero da intendersi cosi siffatte dichiarazioni, allora bisognerebbe semplicemente conclu­dere che l'insegnamento dei Vescovi è tutt'altro che infallibile quando non concorda in pieno con quello di Pietro.

2. Ed anche per la prassi del confessore la chiara distinzione tra ordine soggettivo della moralità ed ordine oggettivo ha conse­guenze importantissime. Se si dovesse ammettere il principio che le norme della morale sono in concreto flessibili secondo le esi­genze della persona considerata nella sua situazione, il confessore, di fronte a chi, ad esempio, ricorre alle pratiche anticoncezionali, dovrebbe (per esser logico ed onesto) in qualche caso (e forse non raramente) dare la sicurezza ed affermare chiaramente ad un deter­minato penitente che, nella sua situazione, ciò è lecito (e perciò non deve farsene scrupolo, né confessarsi, né astenersi dalla Co­munione). Se invece (a parte il giudizio morale sulla moralità oggettiva) il confessore considera solo la questione della coscienza, può giudicare in qualche caso, prudente tacere, cioè non turbare la buona fede. Ma comportandosi in tal modo egli non approva positivamente: appunto perché si conserva solo sul piano sogget­tivo della coscienza.

IV. La Confessione non è solo una continua ed ottima occa­sione per richiamare ai penitenti la legge morale e per formare coscienze giuste, fornite d'un equilibrato senso del bene e del

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male. E neppur solo per muoverle alla riforma della vita mediante il dolore e Ù proposito. La Confessione offre anche — e bisogna dire anzitutto, se la fede è il fondamento — l'occasione per solle­vare le anime alla contemplazione delle principali e più vitali verità che esse già credono. Perché queste verità — anche se noi le « crediamo » — non le « pensiamo » : perciò non diventan norma del nostro operare, cioè « vita ». È questo non pensarci che ci fa operare come se non le credessimo M. Abilità carisma­tica di certi confessori: con poche parole sanno aprire orizzonti di fede e di speranza. La Confessione può diventare scuola con­densata di vita spirituale.

7. L'accusa. Deve il ministro interrogare od il penitente interrogarsi?

1. L'atto principale del penitente è il dolore dei peccati (con l'implicito proposito di non più peccare). Ed il dolore dovrebbe sorgere immediatamente in chi commette il peccato con certa deliberazione: la voce della coscienza ed il tocco della grazia-si fanno sentire subito senza attender che si faccian esami di ^co­scienza. Siccome però nella pratica della Confessione il penitente suole (e lodevolmente) riflettere sui peccati della vita trascorsa — prima dell'accusa e prima di formulare o rinnovare l'atto di dolore — perciò si può prima trattare della materia dell'accusa sulla quale dovranno puntare dolore e proposito. Con l'esame di

14 Già Aristotele osservava che ógni peccatore è in certo qual modo un ignorante. Il Lessius sviluppando lo stesso concetto, metteva alla radice dei disordini morali la mancanza di considerazione: « Bona énim spiritualia nisi attente, et crebro cogitentur, non cognoscitur eorum dignitas, et pulchritudo; quod autem non cognoscitur, non aestimatur, quod non aestimatur, non amatur, non quaeritur, facile negligitur et contemnitur. Pari modo peccato-rum malignitas, et damna immensa, nisi attenta consideratione, non cogno-scuntur; quo fit ut etiam non horreantur, nec vitentur, ut par est. Et sane, si quis diligenter advertat animum, deprehendet omnes fere lapsus, et peccata hominum ex defectu considerationis provenire; ut merito dixerit Aristoteles: otnnetn peccantem esse quodammodo ignorantem. Nam omnes, vel fere omnes ideo peccant, quod malitiam peccati, et poenam ipsi debitam, vel non considerent, vel non satis considerent... Hinc Scriptura vocat peccatores stultos, fatuos, insensatos, insipientes: non tamen hinc inferas orane peccatum esse ex ignorantia; hoc enim postulat ut noscatur esse peccatum » (L. Les­sius, De iustitia et jure..., I, 2, 29, Venetiis, 1734, p. 10).

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coscienza il peccatore la richiama alla mente, la riconosce, la vede nella sua realtà, forse più brutta (s'egli è di coscienza larga) forse meno brutta (se è di coscienza piuttosto delicata) di quanto gli è apparsa nel momento del peccato. Ora può con animo più sereno e pacato valutare ciò che ha fatto e — per quanto possibile — la maggior o minor malizia con cui l'ha fatto.

Essenzialmente la Confessione è un giudizio. Però un giudizio specialissimo che si differenzia sostanzialmente da quello profe­rito nei processi umani. Un giudizio che ha per scopo la libera­zione e non la condanna del colpevole. Un giudizio che si compie davanti a Dio di cui il confessore è ministro. Perciò da accu­satore funge lo stesso reo il quale nei processi umani, invece, è sempre in stato di difesa ed ha sempre il diritto di negare il suo delitto.

2. Il confessore — dopo aver accolto con benevolenza il penitente — se non lo conosce gli può chiedere (anche per dar l'avvio ad un cordiale colloquio) da quanto tempo non s'è con­fessato. La Confessione è essenzialmente un giudizio, ma il con­fessore (colle sue industrie) farà in modo che ne abbia meno che è possibile l'aspetto: cosicché il penitente senta spontanea­mente il bisogno di riconoscersi — con un atto liberissimo — peccatore e d'aprire la sua coscienza al confessore il quale, oltre che giudice, è padre, fratello, amico, medico delle anime. Questo giudizio si svolge in una sfera sovrumana. La fiducia in Dio sarà il motivo dominante da richiamare a chi ha poca speranza nelle sue forze ed a chi è troppo attaccato alle cose terrene ed a se stesso.

Ci sono penitenti i quali si lamentano di confessori che fanno troppe domande. D'altra parte ci sono penitenti i quali vorrebbero che il giudice non si limitasse ad ascoltare, ma uscisse dal suo mutismo: desidererebbero esser maggiormente aiutati nel loro esame di coscienza, per riconoscere meglio le proprie mancanze, ed anzitutto le radici di certi peccati ed i mezzi per vincerli: penitenti che, in una parola, vorrebbero sapere se han fatto o no quant'era necessario per conoscersi, correggersi, riformarsi e pro­gredire. Pertanto il sacerdote — anche in questo —> userà discre­zione e tatto, evitando ogni eccesso. Ed in genere, quando il confessore sarà richiesto di guidare il penitente nel suo esame di coscienza, non occorreranno molte domande per conoscere a suf­ficienza lo stato d'un'anima (purché però il confessore sia pre­parato a questo compito). Anzitutto può avanzare la discreta domanda: « Cosa le sembra di ricordare? ». Non sarebbe consi-

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gliabile che si assumesse sempre l'iniziativa d'una interrogazione generale sui distinti probabili peccati del penitente. Potrebbe indurre l'abitudine di trascurare la personale preparazione, l'esa­me di coscienza e gli atti di dolore e proponimento.

3. L'accusa specifica dei peccati è una legge non solo eccle­siastica ma divina. Emana dalla natura stessa del sacramento che è un giudizio: il giudice deve conoscere lo stato del reo: non solo che è reo ma perché è reo. S'aggiunge l'esplicito precetto positivo di Cristo: « saran rimessi i peccati a chi li rimetterete: e saran ritenuti a chi li riterrete » (Gv. 20, 23). Il potere comunicato agli Apostoli non può esser convenientemente esercitato se essi non conoscono i peccati; e non li possono conoscere se non vengono loro manifestati nella Confessione. Legge divina, positiva però. Perciò non obbliga con grave incomodo. Su essa prevale il diritto naturale. Per esempio, quando il penitente temesse che il suo complice sia facilmente individuato dal confessore (e cosi perda presso di lui la sua buona fama) può (pel momento e finché si trova nella medesima difficoltà) ometter/la confessione specifica del peccato in questione includendolo iti un'espressione generica. D'altra parte, siccome si può obbiettare che il complice, peccan­do, ha perduto questo diritto alla buona fama, perciò il penitente avrà anche la facoltà di accusare specificamente tale peccato, so­prattutto se ciò si presenta conveniente per avere (da parte del confessore-direttore che lo conosce) un saggio consiglio sul modo di comportarsi.

Tuttavia l'accusa specifica dei peccati non è l'elemento prin­cipale della Confessione. Non bisogna quindi darvi un'importanza eccessiva. Se ci fosse il senso vivo del peccato dovrebbe esser molto facile il ricordarlo (anche se poi — dicevo — l'esplicita riflessione darà una conoscenza più obbiettiva del peccato e della colpa reale). E subito si avrebbe, sotto il tocco della grazia, il dolóre d'averlo commesso. Ma, specialmente oggi, in molti è il senso del male che manca. Perciò l'esame di coscienza diventa più laborioso perché non è solo un richiamo dei fatti, ma una valutazione che si cerca di fare, in un momento di silenzio inte­riore, di atti compiuti forse con coscienza dubbia: coscienza che pertanto va anzitutto corretta sinceramente.

4. Spetta, per sé, al penitente esaminarsi in tanto in quanto è necessario per conoscere i suoi peccati ed accusarli. Il confessore può sentire il bisogno d'orientare chi non sa con chiarezza ciò che deve accusare o non sa come esporre la sua accusa. Tenga

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presente che, se interviene, è per supplire ciò che il penitente dovrebbe confessare secondo le sue possibilità. Lasci quindi che faccia la sua esposizione secondo l'ordine ed il modo con cui s'è preparato. Non lo interrompa con domande che potrebbero disturbare la sua memoria, impedire che si confessi con quella integrità che desiderava e riteneva conveniente. Le eventuali in­terrogazioni — che farà dopo l'accusa spontanea — saranno pro­porzionate alla capacità non del confessore ma del penitente. L'arte più difficile del confessore sta proprio in questo adatta­mento alle condizioni ed ai bisogni dei singoli. Interrogazioni delicate, prudenti, discrete: non bisogna importunare eccessiva­mente il penitente. Anche quando si presenti opportuno fare qualche domanda sui doveri di stato, non conviene entrare trop­po nei particolari. Difatti non si è ragguagliati e non è il caso di far indagini non strettamente necessarie (le quali spesso non fornirebbero in definitiva una sicura e giusta idea) sulla vita privata, sulla condizione del penitente, ad esempio sulle sue di­sponibilità economiche in ordine alla beneficenza consigliabile. Per non esser indiscreti, occorre tatto e sensibilità. Ci son peni­tenti che si lamentano per le domande che vengon loro rivolte. Domande che possono inutilmente turbare certe coscienze deli­cate oppure infastidire certi spiriti suscettibili. Perciò il confes­sore risvegli soprattutto le buone disposizioni di fondo. Ci sono raccomandazioni che non si sbaglia mai a ripetere amabilmente: sul buon esempio (che è.un'implicita professione di fede ed eser­cizio della fortezza cristiana contro l'errore ed il vizio), sulla pratica sacramentaria più frequente possibile... Il timore stesso (almeno io penso) che il penitente —- d'altronde ben disposto — s'indi­sponga in seguito ad una domanda che gli sembrasse sconveniente o superflua, può esser causa giustificante perché non si insista ulteriormente sul numero e la specie dei peccati già in sostanza accusati. Anche nella direzione spirituale d'anime che aspirano alla perfezione cristiana, conviene evitare quell'empirismo che si restringe a particolari minuziosi consigli i quali, alle volte, non sono utili perché non adatti al temperamento del soggetto. Questi deve soprattutto trovare nel confessore una spinta ad agire poi da solo, a far le proprie scelte e prender le proprie decisioni con pronta docilità agli impulsi della grazia ed alla voce della coscienza.

E bisogna star attenti che — ai fini d'ottenere l'integrità della Confessione — non si corra il rischio di far apprendere al peni­tente l'esistenza di peccati che ignorava e che è meglio continui

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ad ignorare. Piuttosto che incorrere in questo pericolo e danno è meglio sacrificare l'integrità della confessione. S'aggiunga che con certi uomini o giovani — poco riflessivi e poco assidui alla pratica sacramentaria — bisogna accontentarsi d'un'accusa som­maria: i loro cervelli non arrivano a percepire certe finezze e distinzioni. Chi studia solo nei libri, conoscerà certi generali e dettagliati esami di coscienza, preparati pel confessore. Ma la pratica pastorale vuole un adattamento continuo degli schemi astratti ed ideali: il confessore deve saper toccar il tasto che più conviene alla situazione del singolo penitente. E dovrà anche far in modo che il proprio linguaggio sia comprensibile: saprà perciò anche conformarsi al modo di esprimersi dei penitenti, secondo le consuetudini del luogo. Ad esempio, il termine « carità », per moltissimi non ha certo quell'immenso significato, quel profondo contenuto, quella soprannaturale finalità che il teologo intende, ma vien ristretto ad indicare l'elemosina .fatta ai poveri.

5. È un fatto che circa il dovere dell'esame di coscienza e della specifica accusa si nota talora una mentalità ed una prassi poco equilibrate. L'esame di coscienza è un mezzo perché non venga meno la doverosa accusa. Quindi la sua necessità ed utilità è relativa al fine. Il dovere poi di accusare distintamente i pec­cati secondo la specie ed il numero è una legge precipiente, posi­tiva, la quale pertanto (anche se divina) non obbliga con grave incomodo. Non c'è obbligo stretto di confessare i peccati dubbi (i quali, se eventualmente fossero reali, possono essere distrutti con l'atto di contrizione o rimessi — a chi è attrito ed in buona fede — dal sacramento dell'Eucaristia). L'accusa distinta dei pec­cati, in definitiva, è richiesta perché il confessore conosca lo stato del penitente: in certe matematiche indicazioni si può tacere dello stato abituale dell'anima. Perciò l'esatto numero dei peccati sarà sufficientemente, anzi meglio, supplito dall'indicazione della con­suetudine (dei peccati commessi in media ogni mese, ogni setti­mana) (cfr. Vermeersch, Th. Mor., I, Romae, 1947, n. 419). L'esa­me di coscienza, in particolare, dovrebbe esser relativo allo stato di coscienza del singolo (che può esser più o meno gravato di pec­cati), all'intelligenza, alle forze fisiche (che possono sconsigliare uno sforzo di memoria o far temere turbe psichiche non salutari), alla mentalità stessa del penitente (alcuni sentono ripugnanze invincibili nel richiamare alla mente e nel manifestare dettaglia­tamente le loro azioni); relativo alle disposizioni abituali di co­scienza (la quale può essere lassa oppure timorata e delicata o

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addirittura scrupolosa). Ad uno scrupoloso il confessore potrà ridurre esame ed accusa (se creano turbamento inutile o dannoso) o addirittura dichiarerà che è dispensato da ogni esame e dal dovere d'una specifica accusa (di peccati non pienamente certi e gravi). Del resto, tutti coloro che fanno ogni giorno un po' di esame di coscienza possono ritenersi sempre preparati alla Con­fessione. Comunque, per nessuno ed in nessun caso, si esige un impegno, una ricerca, una diligenza straordinaria nell'esame di coscienza: basta quella che si usa nelle solite ordinarie faccende, non si richiede quella riservata alle operazioni ardue, delicate, pericolose. La Confessione è una pratica religiosa alla quale Gesù intende sia applicata la Sua parola consolante: « il mio giogo è soave, il mio peso leggero» (Mt. 11, 30). Il confessarsi (anche per chi non lo faceva da anni) è una cosa facilissima con l'aiuto d'un confessore esperto. Certi ammalati, per paura di non saper esaminarsi e di non accusarsi bene, rimandano e rimandano la Confessione. È un errore ed un pericolo: corrono il rischio di non confessarsi mai. Pertanto se, da una parte, non si può approvare il. sistema di confessarsi senza premettere alcuna riflessione e pre­parazione (specie da parte di chi non lo faceva da tanto tempo), d'altro canto non bisogna pretender troppo. Certi studenti di teo­logia ricevevano, pel passato, un'istruzione che rendeva forse troppo complessi gli uffici del confessore ed i doveri del peni­tente. Cosicché pensavano, ad esempio, di dover indagare ed arri­vare al giudizio se un peccato accusato fosse stato grave o no. Ma altro è la materia del peccato ed altro la colpa soggettiva. Certo il confessore deve conoscere la gravità dei principali peccati « ex parte materiae ». Chi' disprezzasse come inutile questa cono­scenza disprezzerebbe tutta la teologia morale che la insegna. Circa la colpa soggettiva, invece, si potrà fare un giudizio di pre­sunzione sulla gravità o meno degli atti accusati da un penitente. Ma in tanti altri casi ciò resta molto incerto; e non è necessario, per assolvere, che il confessore superi questa incertezza: assolve dal peccato come lo vede e lo giudica Dio. Per reazione ad una Morale che' esponeva quasi unicamente la materia oggettiva di possibili peccati, con abbondante casistica, è avvenuto che taluni giovani confessori, dopo qualche esperienza, hanno buttato al­l'aria tutti i manuali e tutte le norme e si sono affidati al proprio buon senso (che speriamo buono). L'odierna invocazione — da parte anche di certi sacerdoti — della Confessione generica, può esser anche una reazione, per eccesso opposto, ad una specie

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di giansenismo che s'era infiltrato nella pratica di questo sacra­mento, f.

In conclusione, tenendo presente che il giogo del Signore è soave e che l'atto principale del penitente è il dolore (con l'impli­cito proposito), conviene che quando il penitente dimostra retti­tudine, sincerità e pentimento, il confessore sia discreto ed eviti investigazioni che possono indisporre. E s'accontenti, in genere, di quanto il penitente, in buona fede, ha creduto di dover speci­ficare. Se presterà il suo aiuto, indirizzando, ad esempio, l'esame su qualche altro punto, lo faccia in modo che il penitente sia lieto e riconoscente d'aver ricevuto questo orientamento.

6. Il confessore sarà prudente anche nei suoi consigli circa l'eventuale accusa di peccati già confessati. Capita talora qual­che penitente che propone di fare una specie di confessione « ge­nerale » (di tutta la vita passata b di parecchi anni). Gli autori di morale e di ascetica distinguono tre casi possibili. Primo, quando fosse necessaria la ripetizione di confessioni già fatte per­ché il penitente è certo dell'invalidità delle confessioni fatte: egli sa che, a partire da un dato momento, si è sempre (dico « sempre ») confessato insinceramente e sacrilegamente. Direi che oggi il caso è meno pratico e meno frequente che pel passato, sia perché c'è più libertà nell'uso dei sacramenti (anche negli ambienti « religiosi ») sia perché c'è più possibilità di sposta­mento (per le suore stesse) per trovare un confessore al quale il penitente è sconosciuto.

C'è poi il caso in cui la confessione generale (di peccati già confessati) pare consigliabile perché spiritualmente utile al peni­tente, anche se non strettamente obbligatoria: ad esempio, per uno di coscienza piuttosto lassa e di vita piuttosto tiepida, il quale abbia dubbi fondati sulla validità delle confessioni prece­denti; oppure per chi si trova ad una svolta della sua vita in cui ha bisogno d'una presa di quota: l'umile richiamo del suo passato sotto la guida del confessore, potrebbe infondergli sentimenti di sincera umiltà e scuotere l'abituale apatia.

Infine c'è il caso in cui si teme che la ripetizione di colpe già accusate sia dannosa e pericolosa: quando un'anima è per indole scrupolosa od è mossa a ripensare alle confessioni già fatte da un'ansia non salutare, oppure quando il rivangare certi fatti della vita passata risveglierebbe la passione e farebbe risorgere le tentazioni.

Il confessore sia prudente. Può domandare amabilmente al penitente (che propone di fare una confessione generale) per

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quale ragione desidera farla. Se la confessione generale vien fatta ma è motivata da devozione e non da necessità, avversa subito il penitente che non è affatto tenuto ad accusare tutto quanto è già stato accusato. Tenga pure presente che spesso (in chi, ad un dato momento, sente l'incubo di non aver accusalo qualche peccato commesso, pur essendosi confessato serenamente innu­merevoli altre volte) c'è, dopo parecchi anni, il ricordo vivo del male fatto, mentre è venuta meno la memoria distinta e certa d'averlo accusato. Pertanto, se il penitente è ansioso, il confes­sore lo può tranquillizzare. C'è il pericolo che se si prendono in considerazione simili timori, il ricordo d'un peccato richiami quello di altri, con la stessa ansietà, e non la si finisca più.

Perciò, tutto considerato, è da ritenere che, in linea di massi­ma, sia più vantaggioso il consiglio di non rivangare la vita passata e di non richiamare alla memoria in particolare e distin­tamente i peccati commessi; neppur allo scopo di rinnovare e rav­vivare il dolore. I maestri di vita spirituale suggeriscono piuttosto di ripensarvi solo in generale « facendone come un fascio affinché non ci tornino ad inquietare » (A. Rodriguez, Esercizio di per-fez. e virtù crisi., IV, Torino, 1926, p. 137). Tanto più che i penitenti i quali tendono a ripensare ai peccati già accusati perché insoddisfatti delle confessioni fatte, non sono, in genere, quelli che hanno debole senso del peccato, ma piuttosto quelli inclini all'incubo della colpa (forse unito ad una concezione legalistica della Confessione).

7. Il confessore preparato ha davanti agli occhi il panorama della vita morale — virtù e ideali, ombre e scogli —. Avrà anche nella memoria qualche breve interrogatorio, adatto alle varie cate­gorie di penitenti. Interrogatorio di cui si servirà con misurate parole. Una domanda ben centrata (è stato scritto) provoca tal­volta tutta una nuova impostazione di spiritualità; particolar­mente in certi uomini che raramente si confessano.

Capita, alle volte, qualche penitente agitato perché gli vien meno la memoria, o non sa come deve accusarsi; perciò ha bisogno o chiede d'esser aiutato ed interrogato. Qualche altro, ap­pare impreparato per abituale negligenza e leggerezza: non con­viene, neppur questo, rimandarlo a far l'esame di coscienza. Qual­cuno, forse, da solo non d riuscirebbe, ed è meglio sia aiutato dal confessore; qualche altro potrebbe offendersi, indisporsi (in­vece che disporsi meglio), potrebbe non ritornar più. Già il Se-gneri ammoniva i confessori: « il più intollerabile errore, che mai potreste commettere in questo punto, sarebbe quando senza

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cagion molto urgente mandaste indietro qualcuni sotto colore, che dovendo» replicare le confessioni di molti anni/riavessero a ciò bisogno di molto esame ». E aggiungeva che anche con costoro « non riesce troppo penoso ad un Confessore, ò patiente, ò pra­tico, esaminarli »: cosa che forse essi non saprebbero fare esa­minandosi « da sé medesimi un mese intero ». L'esperienza poi insegna che, se vengono rimandati « rare volte ritornano » (Il Confessore istruito, Venezia-Bassano, 1672, p. 27). Lo stesso consiglio veniva riferito e dato più tardi da s. Alfonso (Prat. del Conf., n. 20). In altri tempi i confessori potevan esser più severi con chi, non mancando di fede e di pratica religiosa, fosse andato a confessarsi con imperdonabile leggerezza 15. Lo stesso Catechismo Romano consigliava qualche misura pedagogica da usarsi con quelli che non avessero saputo come dichiarare i pec­cati commessi, né come si comincia in questa pratica (sia perché si confessavano raramente sia perché nessuna cura e riflessione usavano nella ricerca delle colpe). Consigliava, se fossero stati del tutto impreparati, di « rimandarli con parole cortesissime e di esortarli a pensare un po' ai propri peccati e poi ritornare » {De Poenit. Sacram., n. 60). Però aggiungeva: « in quo tamen magna cautio adhibenda est ». Ed il Catechismo Romano è il Catechismo del Concilio Tridentino ai Parroci stampato a Roma per volontà di s. Pio V, nell'ottobre del 1566. Ora, nella Pastorale, bisogna distinguere ciò che è accidentale (e può cambiare secondo i luo­ghi ed i tempi) e ciò che è essenziale (come il dolore ed il propo­sito, da parte del penitente, di lasciare il peccato) e su questo non possono ammetttersi variazioni.

S. Alfonso fa anche il caso d'un penitente che « ignori i quattro misteri principali: che Dio esiste, che è rimuneratore del bene e del male, i misteri della SS. Trinità e dell'Incarna­zione e morte di Gesù Cristo ». E riportava l'avvertimento di s. Leonardo da Porto Maurizio (che si trova nel suo Discursu mystico et morali, n. 26): non conviene rimandare questi igno­ranti ad istruirsi, ma insegnar loro brevemente il minimo neces-

15 S. Carlo nelle sue « Avvertenze » ai confessori esortava che quelli che si fossero portati alla Confessione passando da qualche occupazione tem­porale senza qualche raccoglimento nell'orazione, senza cognizione dei pec­cati commessi — in una parola, senza alcuna preparazione — costoro doves­sero esser ammoniti dal confessore « con parole caritative secondo la capa­cità di ciascuno » che andassero « prima a prepararsi convenientemente » e poi tornassero (« Avvertenze », Ada Eccl. Mediol., II, col. 1876).

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sario, con la raccomandazione d'istruirsi meglio: « Bonurri non est consilium — scriveva s. Leonardo — dimittere simileé ignaros ut ab aliis haec doceantur; quia nullus alius sperabitur fructus nisi ut sic ignari remaneant: ideoque expediens est breviter eos docere praedicta mysteria principalia, efficiendo paritei ut secum efforment actus fidei, spei, charitatis et contritionisL. » (Prat. del Conf., n. 22). Quando un fanciullo (od una persona non istruita) risponde affermativamente al confessore che esplicita­mente propone a credere i misteri della fede, per esempio in pericolo di morte, ciò basta strettamente, per il momento, in ordine all'assoluzione.

Speriamo che oggi questo sia un caso piuttosto ipotetico o molto raro nei nostri paesi, dato il grado più elevato di cultura. Però in molti c'è cultura profana ma non più esatta e profonda istruzione religiosa che pel passato. Ed oggi può capitare il peni­tente che, per falsi pregiudizi, pur non ignorando i misteri, li riduce al mito e quindi li ritiene non più seriamente credibili. Ci potrebbe esser in qualcuno un vago senso religioso ed anche una pratica religiosa ma senza la vera fede. Non illudiamoci che tutti coloro che vengono in Chiesa credano pienamente i misteri principali della fede cristiana come li crede e li insegna la Chiesa Cattolica. Il confessore interverrà, all'occasione, farà riflettere che la fede autentica dev'esser adesione anche ai misteri; che essa però è ragionevole in forza dei motivi di credibilità che sono certi. Con questi penitenti che hanno una mentalità erronea il compito del confessore è certo più difficile che con coloro che avevano una semplice e volgare ignoranza della dottrina cristiana.

8. Orientamenti per un esame « generale » di coscienza

Quale falsariga è suggeribile al penitente ed al confessore (qualora debba aiutare il penitente che non vuole o non sa interrogarsi)?

Come primo difetto della vecchia catechesi sulla Confessione si suol denunciare di aver condotto il penitente non a cercare anzitutto Dio (e nemmeno a praticare la virtù) ma a voler soltanto liberarsi dai suoi peccati. Perciò si prendeva come ma­teria d'esame il Decalogo nel quale non figurano né il coman­damento evangelico dell'amore né le virtù caratteristicamente

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cristiane\— come l'umiltà, l'obbedienza doverosa (secondo la con­dizione del singolo), la pazienza, la mitezza, la fortezza, la tem­peranza, la povertà, la compassione, il compatimento —; non figurano i doveri particolari relativi allo stato e professione d'una persona; non è prospettato, oltre allo stretto necessario all'onestà, quell'ideale di perfezione al quale il cristiano tende per esser santo come è santo Dio. A queste critiche si potrebbe rispondere che tutto sta nell'interpretazione e nelle applicazioni che si vuol fare dei 10 comandamenti. Possono esser visti non solo in chiave negativa (quasi una patologia della vita morale) ma anche in chiave positiva (come un invito alla virtù). Biso­gna però presentarli nei loro giusti rapporti e nella loro gerar­chia: dal primo comandamento scaturiscono tutti gli altri. E l'amore di Dio è almeno implicito nei primi comandamenti. Non voler nulla al posto di Dio significa non amar nulla contro di Lui, nulla più di Lui, nulla come Lui. Ogni preghiera può esser un atto d'amore (nel « Padre nostro » le prime tre invo­cazioni sono tre atti di carità teologale). E cosi dall'amore di Dio si può esser mossi all'osservanza di tutti i comandamenti. E chi ama veramente Dio si chiederà sempre quale sia la Sua volontà. L'esame di coscienza serve a formare coscienze rette ed equilibrate che hanno, ad esempio, il senso delle proprie responsabilità professionali. C'è chi si accusa di non aver ascoltata la Messa festiva (forse perché impedito da causa giustificante) e non ha rimorso, in qualità d'impiegato, di perder tempo, d'esser tra­scurato e disordinato abitualmente nel lavoro con danno dei clienti. Ci sono giovani che non si rimproverano d'aver fatto matrimonio sbagliato contro la volontà dei genitori, magari fug­gendo da casa. E chi ama Dio sarà portato anche ad amare il prossimo e non solo a dare a ciascuno il suo diritto.

I. Certamente le virtù caratteristiche ed essenziali della vita cristiana sono le teologali. Fondamento è la fede. E le crisi della fede hanno sempre due cause (fra loro connesse intimamente ed impercettibilmente interdipendenti): ignoranza ed opere cat­tive. Ignoranza che oggi si direbbe spesso « affettata », cioè direttamente voluta ed unita all'indifferenza speculativa ed al­l'insensibilità morale. Per ovviare a questa ignoranza bisogne­rebbe che la crescita nella fede — mediante la catechesi e l'ini­ziazione ai sacramenti — si svolgesse parallelamente alla forma­zione integrale della persona. Altrimenti si rischia di riempire

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con verità religiose delle menti impreparate che non sanno com­prenderle, assimilarle e viverle. E se anche insegneremo ai fan­ciulli tutta la sostanza della religione e li condurremo alla pratica sacramentaria, tutto ciò, col passare degli anni, non reggerà con sicurezza, stabilità, perseveranza, se non è stato un insegnamento progressivo, un momento della formazione totale della persona: è una religione che verrà abbandonata perché non era entrata e sentita come elemento indispensabile della vita. Un'efficace ca­techesi all'uomo — secondo le diverse età della sua vita — deve (oggi specialmente) muovere dai problemi umani che lo interes­sano. Non può partire da verità astratte della vita e restare in questa sfera, anche se sono verità da conoscere e credere neces­sariamente. Bisogna trovare il collegamento fra verità religiose e gli interessi e le esperienze della vita e svelare allo spirito umano il senso religioso delle realtà terrestri e dei problemi esi­stenziali: è verso di questi che la sete di conoscenza del fanciullo, del giovane, dell'uomo s'orienta istintivamente.

Inoltre, a dar fermezza alla fede del singolo, bisogna aggiun­gere all'educazione individuale (opportunamente e tempestiva­mente dosata) l'influsso e la vita della comunità credente. Ogni fedele — e specialmente i più lontani ed i meno assidui alla pratica religiosa — hanno bisogno di trovare nella parrocchia una comunità che tutt'intera testimonia la fede e la vive in un'at­mosfera di gioia e d'amore. Il sacerdote deve avere quest'obbiet­tivo: formare questo popolo di Dio e non credere di essere lui solo che — più o meno burocraticamente, per quanto indefes­samente — espleta il suo ministero, evangelizza, amministra i sa­cramenti. Se tutto si riducesse a questo lavoro del prete, qual­cuno potrebbe anche pensare che egli lo fa perché deve; o, comunque, il singolo non sarebbe trascinato dalla fede comuni­cabile ed irradiante d'una comunità che sente il bisogno di Cristo, d'appartenere alla Sua Chiesa, d'identificarsi con essa. Questa motivazione è ben superiore a quella di chi viene si in Chiesa ma per non aver il rimorso d'aver mancato ad una legge. E natural­mente nella parrocchia ognuno dovrebbe trovare il gruppo che corrisponde alla sua età: ecco, specialmente l'Azione Cattolica.

Bisogna che il confessore inviti discretamente a scoprire, in ogni caso concreto, la specifica radice dell'incredulità. E nel caso che il penitente accusi dubbi di fede, sappia distinguere chiara­mente difficoltà (dottrinale o psicologica), tentazione di dubitare, dubbio vero e proprio. Una difficoltà che il soggetto non riesce,

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al momento, a risolvere e superare gli può dar l'impressione che la fede sta crollando; non eliminata, può esser occasione e diven­tar tentazione di dubitare. Bisogna cercare la risposta esauriente con lo studio e l'informazione attinta da un libro o dalla spie­gazione offerta da una persona dotta. Spesso però (in coloro che lamentano dubbi) la causa del turbamento non è una difficoltà determinata ma solo un vago timore che l'oggetto della fede non sia vero perché non si vede: timore dipendente dall'istin­tiva esitazione ad ammettere ciò che non si percepisce coi sensi. Ma è un timore vago ed irragionevole che chi riflette disprez­zerà. In ogni caso la tentazione di dubitare non implica, per sé, nessuna imputabilità. Talora i cosiddetti « dubbi di fede » si ridu­cono alla paura d'aver perduto la fede (perché non si vede la risposta a qualche speciosa obbiezione oppure si vorrebbe speri­mentare l'invisibile), una paura dipendente da semplice stanchez­za psichica e da impressionabilità: un fenomeno che appartiene al campo dell'affettività e non della razionalità e della volonta­rietà. Altrettanto si dica di certi stati psicologici che qualche penitente accusa come « disperazione » e che non sono vera perdita della speranza teologale ma solo una depressione psichica (indipen­dente dalla volontà): depressione fra le cui manifestazioni c'è appunto la impressione di insicurezza in materia di fede o di scoraggiamento sul piano dell'azione. In simili casi solo il con­fessore che abbia dottrina, intuito ed esperienza può mostrare al penitente tutta la comprensione e compassione di cui ha bi­sogno. Doti che purtroppo si trovano in pochi. Il consigliere spirituale sia però ben persuaso che non bastano scienza e psi­cologia per dare alle anime la tranquilla stabilità della fede e

10 slancio della speranza. È indispensabile il soccorso della grazia. 11 miglior consiglio che, dopo tutto, il confessore può dare è di chiedere la luce a Dio e di ricevere i sacramenti. Anzi, questo è il consiglio che prima di tutto può dare, anche a chi non vor­rebbe riceverli pensando di non avere la fede e la speranza per­ché non le « sente ». Assicuri coloro che cercano la fede od hanno paura di averla perduta, che possono ritenersi credenti. E quando i turbamenti sono originati più che altro da stanchezza nervosa, suggerisca di distrarre la mente e riposarla: lo sforzo intellettuale fatto per eliminare direttamente la causa del turba­mento e per uscire dalle tenebre potrebbe accrescere sempre più l'oscurità. Meglio è procurare uno stato di suprema indif­ferenza e d'incrollabile fiducia nella grazia.

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La fede e la speranza cristiana dovrebbero essere, normal­mente, le forze spirituali che permettono di risolvere i problemi (non facili) della vita (anche naturale). Quando manca la vita interiore spunta inevitabile la tentazione di ricorrere a surrogati che danno solo l'impressione momentanea di euforia ma debi­litano, distruggono e annientano. Il ricorso alla droga (tanto più grave in quanto si verifica specialmente nei giovani) rappresenta una resa a discrezione, una sconfitta di fronte alla vita. Biso­gnerebbe saper cogliere e presentare ai giovani le efficaci motiva­zioni della fede e della speranza non solo illuminando le menti, ma toccando anche i cuori. Se si suscita in loro il sano orgoglio e la fiducia nelle forze dello spirito, può esser che si determinino a tentare uno sforzo. Una qualche vittoria raggiunta può dar la soddisfazione ed infonder la speranza di superarsi. Con la buona volontà, con la guida amorosa e saggia d'un consigliere, chi stava per perdersi può salvarsi.

II . SulTtfmore verso Dio i penitenti comuni non sono soliti interrogarsi. Con ciò implicitamente attestano che, per sé, l'amore di Dio non sarebbe difficile: se non avesse disordinati legami morali l'uomo andrebbe a Lui come attratto da una calamita. D'al­tra parte non dobbiamo far credere che per cercare, trovare, amare Dio bisogna prima essersi liberati dai peccati. Il pensiero e l'amore di Dio è una forza, oltre che un frutto dell'azione morale.

Una mancanza contro la carità teologale e contro la religione che i penitenti accusano frequentemente è la bestemmia. Vergo­gnoso record di qualche regione d'Italia nostra. Si bestemmia per ribellione, si bestemmia a freddo; si bestemmia da parte di adulti, anche di donne; ed anche di ragazzi incoscienti i quali credono di mostrare cosi la loro spregiudicata maturazione. Il sacerdote stenta a rendersi conto, nel caso concreto, della gra­vità soggettiva di questo disordine; e, come confessore, ha pochi mezzi per cooperare ad una efficace riforma che dovrebbe esser promossa con un lavoro ben organizzato nel campo esterno pa­storale; intelligentemente ma fermamente e costantemente; col concorso dei laici cristiani militanti. Bisognerebbe creare una forte mentalità contraria. Allora il bestemmiatore sentirebbe ver­gogna ad offender gli altri (a meno che, in virtù della libertà religiosa, non sia diventato un diritto anche il bestemmiare in pubblico!). Qualche seria ammonizione, anche da parte del con-

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fessore, non sta male. Tanto più che i penitenti riconoscono sinceramente la loro incoerenza. Il confessore può chiedere se « con malizia », se « spesso ». A chi risponde che alle volte non si può farne a meno, mostrerà di non prender la cosa alla leggera e di non ammettere simili giustificazioni. D'accordo, an­che quando l'espressione significa obbiettivamente una grave in­giuria a Dio, bisognerebbe tener conto della intenzione e della volontarietà di chi la proferisce: in un momento d'ira la piena deliberazione può mancare; a chi ha già contratto l'abitudine può sfuggire inavvertitamente qualche bestemmia anche dopo fatto il proposito di non più pronunciarne. Però bisogna insi­stere perché sempre se ne pentano e perché si sforzino di vin­cere l'abitudine: pensino, se non altro, allo scandalo che danno; specialmente ai piccoli cosi facili ad imitare i grandi (nel male più che nel bene).

I II . Nelle accuse di penitenti sono all'ordine del giorno certe mancanze di carità verso il prossimo: risentimenti, rancori, rottura dei rapporti, rifiuto dei segni comuni di carità, invettive, ingiu­rie, offese, invidia. Non è facile invece incontrare coscienze sen­sibili a certe mancanze che comunemente si dicono « impru­denze » ma sono anche contrarie alla carità. C'è chi mette in pericolo la vita propria o di altri esercitando sports pericolosi (ad esempio con una scalata rischiosissima). Il discorso sugli sports pericolosi sarebbe lungo. C'è chi guida l'auto in stato di ebrietà, oppure ha l'abituale ambizione di tenere, sul confronto degli altri, una media di corsa più alta, di effettuare sorpassi spericolati; c'è chi non osserva la segnaletica, chi viaggia di notte sull'autostrada a velocità sostenutissima sentendo che la testa si piega sul volante per il sonno. Si noti che comportamenti del genere si hanno talora anche in persone profondamente religiose: comportamenti che non saranno imputabili perché certuni hanno una certa in­genuità naturale, un certo semplicismo che sa di leggerezza unito a retta intenzione generale e buona fede. Ciò non toglie che sa­rebbe da ricordare anche a costoro l'ammonimento di massima, non per insinuare scrupoli, non per indurre una condotta ecces­sivamente timorosa e perplessa, ma una condotta ragionevolmente prudente.

Né capita di frequente chi, con coscienza delicata, s'accusa d'aver omesso ciò che poteva fare facilmente per aiutare il pros­simo bisognoso. Lo spirito comunitario è oggi proclamato ma (anche dai migliori) spesso solo a parole o per le proprie personali

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rivendicazioni (senza riguardo al bene comune o al danno pub­blico). Si danno penitenti che si accusano di odio. Penso che il caso di vero odio grave non sia frequente (in coloro che vengono a confessarsi) e che taluni non lo sappiano distinguere bene dalla fortissima avversione naturale e dalla detestazione dei difetti (o della malizia) d'una persona (da distinguersi dalla deliberata male­volenza verso la persona stessa). In certe maledizioni lanciate al­l'indirizzo di qualcuno manca la seria intenzione o la piena deliberazione. Tant'è vero che interrogati se soccorrerebbero quel­la persona (che dicono di odiare) qualora si trovasse nel bisogno, rispondono subito di si. Il confessore esorterà a deporre i senti­menti di malevolenza, ad evitare sgarberie e vendette. Sia cauto nel dichiarare ed imporre l'obbligo di dimostrare i segni comuni di carità: qualcuno, avendo ricevuto un torto, crede, in sostan­ziale buona fede, di non esservi più tenuto prima che il colpevole abbia fatto la debita riparazione (escluso, s'intende che ci sia odio interno, ed escluso che gli altri giudichino tale comportamento come espressione di grave odio).

E quando si tratta di soccorrere il prossimo bisognoso, me­glio parlarne (ad esempio negli esami di coscienza comunitari) in termini di carità e di consiglio che in termini di giustizia (e di diritto corrispettivo) per non dare occasione a fraintendi­menti, arbitrarie interpretazioni, applicazioni facili (come se fos­sero giustificate dalla destinazione universale dei beni economici): ecco il frequente ricorso alla compensazione occulta, ecco le asportazioni abusive, l'occupazione di locali altrui fatta con la forza.

IV. Sulla pratica della religione i penitenti si interrogano, ma spesso con una mentalità piuttosto legalista. Guardano più alla lettera che allo spirito. Tutta la loro preoccupazione nella Con­fessione pare sia quella di esaminarsi se hanno posto od omesso l'atto esteriore materiale. Alcuni s'accusano anche quando erano pienamente scusati: non già che costoro sian tutti degli ignoranti e da rimproverarsi come tali in materia di religione e di morale; dobbiamo comprenderli, ben sapendo che spesso ci si confessa più che altro per un motivo psicologico affettivo: sentirsi più tranquilli, esser tranquillizzati. Motivo non disgiunto da quello dell'umiltà e della dipendenza. Il confessore nel suo comporta­mento e nelle sue esortazioni — in questa materia della pratica religiosa — dev'esser positivo e consapevole della realtà. Da un

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lato — come scriveva il card. Suenens in una sua Lettera Pa­storale (OR, 20.VIII.1975, p. 2) — statistiche recenti, registrano una sensibile diminuzione dell'assistenza dei fedeli alla Messa domenicale (e ciò è un segno negativo della vitalità religiosa, anche se l'osservanza di questo precetto non è l'unico criterio per giudicare il senso religioso d'una comunità). D'altra parte è lecito anche pensare che oggi, per certe categorie di persone ci possono esser delle scusanti se non osservano regolarmente il precetto domenicale. A parte il fatto che molti hanno ben poca istru­zione religiosa e formazione spirituale: ciò permette di presumere una qualche attuale buona fede (senza escludere però una qualche colpa in causa). La vita moderna poi impone ad innumerevoli persone un lavoro assorbente anche e proprio nei giorni festivi (si pensi a tutti coloro che, a càusa del turismo, sono costretti a lavorare proprio soprattutto la Domenica). E non sarebbe pru­dente il confessore che, senza conoscere esattamente la situazione o senza speranza di frutto, turbasse con severe dichiarazioni chi non manca di fede e d'una certa buòna volontà. Conviene bensì la generale esortazione agli atti di religione, alla frequenza ai sacramenti. Tanto più quando si tratta di chi tralascia ogni pratica religiosa per la sola ragione di allontanarsi da casa, d'andare all'estero a lavorare, magari per metà anno. Se si omette una volta, due, tre, la Confessione, la Messa, la preghiera quotidiana, diventa sempre più difficile il decidersi a riprenderne l'abitu­dine. Lo sperimentiamo tutti: quando si comincia a non esser regolari, c'è il pericolo delle procrastinazioni all'infinito. Perciò l'importanza — anche nella pratica religiosa — di formarsi delle abitudini e di esser fedeli. Pel fatto che la pratica religiosa è diventata un'abitudine non significa che vi manchi lo spirito e la volontà. Quella che non vale è l'abitudine meccanica che non costa sacrificio e sforzo e produce atti senz'anima e senza vita. Ma i tempi nostri non son troppo favorevoli alle sante abitudini del culto religioso. Si dice, ad esempio, che oggi — di­versamente dal passato — c'è minor sensibilità per gli oggetti sacri (come le corone del Rosario) e per le immagini sacre. Si interpreta ciò come un segno dei tempi. Come dire un segno di religione più autentica? C'è da restar quantomeno perplessi. Le immagini sacre nelle case e per le strade sono sostituite da altre tutt'altro che edificanti. L'immagine sacra, magari col lu­mino davanti sempre accesso, era un richiamo alla fede, alla trascendenza, alla bontà. Un'esteriorità? Non solo. Era un segno

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che diventava una preghiera continua da parte di chi l'aveva voluta, di chi la voleva, la venerava, la guardava. Un'eredità che si tramandava con la fede e come la fede. Ma l'odierna seco­larizzazione da una parte — nell'intento d'eliminare tutto ciò che sa di superstizione — crea un'atmosfera ambientale che può spegnere negli animi il senso del sacro: conseguenza fatale se si demolisce senza sostituirvi qualcosa di migliore. D'altra parte le troppe preoccupazioni pel benessere terreno fan dimenticare Vunum necessarium. Risultato: non c'è più né tempo né amore per la pratica religiosa. Qualcuno risponde che si può esser religiosi e praticanti anche se non si va ogni Domenica e proprio la Domenica ad ascoltare la Messa. Ma è da replicare semplice­mente che di fatto molti non ci vanno quasi mai e c'è molto da dubitare sulla loro abitudine agli atti di culto religioso ed alla preghiera privata. Alcuni — anche ammesso che la Domenica siano impegnati nel lavoro — stanno mesi e mesi senza parteci­pare alla Messa. Cosa che potrebbero fare in qualche giorno non festivo. Certi emigranti che vivono all'estero, per lavoro, la maggior parte dell'anno, riprendono la pratica religiosa solo nei mesi che passano in parrocchia. Non si può ammettere che la vita religiosa d'un cristiano, che vuol esser tale, sia cosi trascurata; specie se si omette anche ogni preghiera privata. Bisognerebbe indurli a sentire il bisogno dell'incontro amoroso col Cristo per ricordare e rivivere l'evento decisivo della nostra vita spirituale: la Pasqua del Signore, la vittoria sulla morte e sul peccato, la risurrezione alla vita soprannaturale. Ma per sentire questo invito occorrerebbe avere e risvegliare la fede. Ed allora ci si sentirebbe mossi ad andare alla Messa non per evitare il peccato d'omissione, non per sgravarsi da un peso e liberarsi da un obbligo, ma per unirsi a Dio. Altrimenti la pratica del culto diventa l'esecuzione d'una legge morta che si sarà tentati di ritenere imposta arbitrariamente da una autorità ecclesiastica. Mentre la Chiesa non fa che render concreto l'invito del Signore: « Tutte le volte che mangerete que­sto pane e berrete questo calice, voi ricorderete l'annuncio della morte del Signore, fino a che Egli venga» (1 Cor. 11, 26). E specialmente coloro i quali per notevole tempo o con molta frequenza prevedono di aver impegni che rendono difficile la partecipazione alla Messa, farebbero bene a chiedere consiglio o la « dispensa ». Lo so come oggi da parte di giuristi si fa voti che in materia di leggi ecclesiastiche positive che hanno per scopo la santificazione personale, non si parli più di « dispense » nel

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futuro CJC. È meglio (si dice) che ognuno, formata la propria coscienza, giudichi liberamente e responsabilmente se ha una giusta causa per omettere un atto: colle « dispense » si cadrebbe nel legalismo. Ma la « dispensa » — per esser esatti — è un favore concesso oltre i casi nei quali si è strettamene « scusati »; ed insieme rende più certi e sicuri anche coloro che già sarebbero scusati; da parte del fedele è una dimostrazione di dipendenza dalla Chiesa e da Dio; un esercizio di umiltà; un riconoscimento della bontà di Dio che sa attenuare la rigidità delle sue leggi per le anime di buona volontà. Nella concessione materna della Chiesa si può e si deve vedere un permesso ed un dono di Dio stesso il quale vuole che il suo giogo sia soave. Comunque, qualun­que possano essere le innovazioni strettamente giuridiche del Codice, un fedele potrà sempre utilmente chiedere almeno il consiglio.

Non sbaglia il confessore che — anche per facilitare la confidente accusa ed iniziare il cordiale colloquio che il peni­tente spesso non sa come introdurre — chiede (a chi non conosce) se è solito recitare qualche orazione. È un tastar il polso della vita spirituale. Ed è una domanda che i penitenti si lasciano fare molto volentieri (diversamente da qualche altra). Però l'in­terrogazione sulla preghiera mattutina e vespertina non do­vrebbe rinforzare l'errata mentalità — legalista anche questa — che si possa e si debba pregare (fuori di Chiesa) solo all'inizio ed al termine del giorno. Quante ore passate nella solitudine e nel silenzio del viaggio quotidiano o di un lavoro manuale meccanico: lunghi interminabili tratti di tempo in cui il lavoratore potrebbe, con qualche semplicissimo atto, rinnovare il senso della presenza di Dio e della dipendenza da Lui. Farebbe, di tutto il lavoro, una preghiera. E supplirebbe sovrabbondantemente a quelle formule d'orazione che talora dice di non riuscir a recitare nella fretta della levata o nella stanchezza di fine giornata. Anche al lavo­ratore è offerto il modo di santificarsi pregando: un modo, una spiritualità propri e adatti alla sua professione. Evidentemente per trasformare il lavoro in preghiera bisogna non aver il cuore travolto dalla dissipazione; e l'abitudine d'elevarsi col pensiero frequente a Dio s'acquista gradatamente. Ma sarebbe già molto infondere l'idea che ciò è possibile e non tanto difficile.

D'altra parte l'avversione al minimismo giuridico non deve spingere nessuno, e tanto meno il confessore, ad affermare ob­blighi che in realtà non esistono. Siccome oggi l'omilia ha assunto

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un più stretto legame col sacrificio (tanto che si chiama « liturgia della parola ») qualcuno ha pensato che (diversamente dal pas­sato) non osservi più la sostanza del precetto chi ascolta la Messa solo dall'Offerta alla fine. Ma ciò non può esser strettamente affermato. Altra è la questione del dovere di istruirsi per cono­scere e coltivare la fede. Questo dovere c'è senza dubbio, obbiet­tivamente. Siccome però l'attuale omilia non pare sufficiente per nutrire e salvaguardare la fede e siccome sono cadute, di fatto, altre forme di evangelizzazione del passato (catechesi domenicale, quaresimali, tridui, ottavari, mese mariano...) bisognerà che si organizzino altre forme e si cerchino altre occasioni per l'istru­zione religiosa. Ad esempio rendendo obbligatoria pei fidanzati | la partecipazione ad un corso di preparazione al matrimonio. Cosi ] i Vescovi delle Marche hanno stabilito normativamente che i fidan- j zati debbano presentarsi al parroco, per un incontro di conoscenza | e di orientamento, almeno tre mesi prima della celebrazione del ' matrimonio; e nell'arco dei tre mesi si terranno almeno tre incontri, eventualmente col sussidio di persone esperte (« Awe- ] nire », ed. emiliana, 31.X.1975). A proposito del precetto fe­stivo, c'è persino chi ha espresso l'opinione che per partecipare •] veramente alla celebrazione della Messa bisogna anche ricevere \ la Comunione: quasi che la Messa senza la Comunione non ' valga nulla. Ma non bisogna confondere precetto e consiglio (oggi ' c'è questa tendenza). Il bene resta bene (e meritorio) anche se " non è il massimo bene. E la Chiesa è madre: quando raccomanda, \ non sempre comanda. Spetta, del resto, a Lei interpretare il di­ritto divino, la natura e la finalità del Sacrificio e del Sacramento e giudicare quindi se la partecipazione alla Messa esiga, non solo per la perfezione ma per sua essenziale natura, necessità, validità, anche la partecipazione dei non celebranti alla Mensa. Cosa che la Chiesa non ha mai affermato. Anzi, ha implicitamente asserito il contrario quando con recenti concessioni ha precisato in quali casi nello stesso giorno si può ripetere la Comunione (cfr. Istruì, della S.C. per la Discipl. dei Sacram., 26.1.1973, AAS, 65, 1973, 264-271).

V. La prudenza. Nella catechesi e negli esami di coscienza che si propongono ai penitenti bisognerebbe soffermarsi maggiormente ad educare e sensibilizzare le coscienze ai postulati di questa virtù che è importantissima. Comunemente s'intende significare con questo vocabolo quelle cautele, quell'assennatezza, ponderazione,

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previdenza, da usarsi nella vita terrena per evitare errori, non dan­neggiare e non metter in pericolo la vita propria od altrui. Ma la prudenza regola tutte le altre virtù (anche le teologali nel loro uma­no concreto esercizio) e quindi dirige tutta la nostra vita considera­ta dinamicamente. Tutta la morale si risolve in un giudizio della prudenza, giudizio che quando è esercitato dal soggetto circa le pro­prie azioni diventa giudizio della « coscienza ». E la coscienza può esser certa e nel tempo stesso erronea: si può, ad esempio, per ignoranza invincibile ritenere lecito ciò che obbiettivamente non lo è. Ma allora ci portiamo sul piano soggettivo. Quando invece si tratta dell'esercizio della prudenza — del giudizio ch'essa sug­gerisce circa l'agire umano — siamo sul piano oggettivo della moralità. E non si può appellarsi a questa virtù per ammettere che tutte le leggi morali sono flessibili secondo le esigenze esisten­ziali e secondo le condizioni situazionali della persona. Né s. Tom­maso né s. Alfonso ammettono questa tesi. S. Tommaso (I-II, q. 94, a. 4-5) parla della possibile ignoranza di qualche legge na­turale (s'intende, d'una conclusione dedotta dai primi principi mo­rali); parla d'una mutazione di circostanze che possono render irragionevole l'osservanza d'una legge naturale: e porta l'esem­pio di chi può (anzi deve) non restituire un'arma avuta in depo­sito se sa che il proprietario ne abuserà funestamente. Ma, come si vede, si tratta di circostanze che mutano la materia della legge e rendono lecito una omissione od un atto che non è intrinseca­mente cattivo. Lo stesso esempio riporta s. Alfonso quando affer­ma (T. Mor., 1. I, tr. II , e. IV, n. 165) che « epikeia non solum locum habet in legibus humanis, sed etiam in naturalibus », ma aggiunge (ciò che alcuni facili commentatori volentieri tralasciano): « ubi actio possit ex circumstantiis a malitia denudari ». Ma que­sto non potrà mai avvenire quando si tratta di una legge che proi­bisce atti contro natura (come la masturbazione, le pratiche anti-concettive, l'omosessualità). Se nel caso concreto la responsabilità viene — più o meno — a mancare sarà per mancanza della libertà richiesta o per ignoranza invincibile. Non è la legge che subisce flessione. In conclusione, le norme morali vanno praticate con rea­lismo secondo le circostanze e secondo l'impulso della grazia. Ma la questione è se — prescindendo dalla questione soggettiva della buona fede — le circostanze possano render obbiettivamente lecita un'azione intrinsecamente cattiva. Se la rendessero lecita, si potrebbe (e si dovrebbe) non solo rispettare la buona fede d'un individuo ma dichiarargli che nel suo caso la legge subisce un'epi-

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keia, cioè fa eccezione, date le particolari circostanze. E lo stesso si dovrebbe dire per tutti coloro che si trovano in un caso simile: appunto perché è un giudizio della prudenza che riguarda il piano obbiettivo della moralità.

Alcuni oggetti particolari circa i quali va esercitata la pru­denza. Saper riflettere prima d'agire frenando la precipitazione. Possedere lucidità di giudizio per dominare i ciechi impulsi. Aver coscienza dei propri limiti, dei pericoli (interni ed esterni); e quin­di mostrar apertura ai consigli degli altri, umiltà e docilità (nes­suno è bastante a se stesso). Ma possedere anche la prontezza ad afferrar le situazioni impreviste e a risolverle: la decisione è l'atto specifico e precipuo della prudenza; esclude tutti gli stati d'irra­gionevole irrisolutezza, d'inadempienza, d'incostanza. S. Tomma­so (II-II, 47, 9) osserva che, se può esser prudente l'indugiare nella considerazione del da farsi, poi prudenza vuole che l'azione premeditata sia rapida, come già notava Aristotele nell'Etica nico-machea, VI, 9: « oportet operari quidem velociter consiliata, con­siliari autem tarde ». E non si può, nelle decisioni, eliminare ogni, anche mìnima, incertezza, ed escludere, con piena certezza, asso­lutamente ogni possibilità di rischio: perché nelle situazioni con­crete contingenti può esserci sempre qualche elemento che sfugge anche allo spirito più vigile ed attento: « quia vero materia pru­dentiae sunt singularia contingentia, circa quae sunt operationes humanae, non potest certitudo prudentiae tanta esse, quod omnino sollicitudo tollatur » (II-II, 47, 9). Resta sempre qualcosa da la­sciar alla Provvidenza di Dio. Con fiducia assoluta, conservando la pace intima. Devono tenerlo presente le anime inclini al perfe­zionismo ed alla perplessità, specialmente quando sanno di tro­varsi in uno stato di debolezza fisica e psichica.

VI. La giustizia. Su questa virtù i penitenti poco si interro­gano e poco si accusano. Eppure tutti sanno che gli abusi in ma­teria di giustizia sono tanti: domestici che arrotondano a pro­prio vantaggio i conti della spesa quotidiana, dipendenti (forse « praticanti » in fatto di « religione ») che falsificano persino le fatture cancellando e correggendo cifre, fattori e agenti che ven­dono abusivamente roba del padrone (prodotti del suolo, piante, bestie) ed intascano personalmente il ricavato; autisti che s'accor­dano col meccanico per ingannare il padrone fingendo guasti della macchina che non ci sono. Capita si qualche penitente che si con­fessa di furto. Ma specialmente sulla giustizia meno stretta sono

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poco sensibili. Raramente si esaminano, a quanto pare, sui doveri del proprio stato, della professione: ad esempio su retribuzioni eccessive (per visite, cure, assistenza, prestazioni) retribuzioni forse richieste a chi ha poca disponibilità. Persone pur religiose e pra­ticanti non fan caso ai postulati dell'equità (virtù che sta in mezzo fra la giustizia e la carità). Ad esempio c'è chi (non avendo figli) fa donazioni, in vita, ad uno solo dei nipoti e poi lascia a lui la eredità intera (ignorando qualche altro pur degno) solo per motivi di preferenza, di simpatia, o per conservar unita la sostanza: si possono cosi suscitare interminabili strascichi di odiosità fra pa­renti. Poco ci si esamina sulla giustizia distributiva (quanti favo­ritismi di persone meno degne a preferenza di altre veramente me­ritevoli!), sulla giustizia legale o sociale. Quando si tratta di imposte, tasse, multe, lo Stato ha i mezzi per riscuotere di forza i contributi. Ma quando si ruba di nascosto allo Stato non è in questione solo la giustizia legale o sociale (la quale chiede al sin­golo un positivo ragionevole concorso al bene comune) ma anche la giustizia commutativa. Però, quando si tratta di furti fatti a danno dello Stato, il confessore tenga presente che per arrivare alla materia grave occorre una somma più forte di quella richiesta nei furti fatti a persone (fisiche o morali) del tutto estranee al ladro: fra lo Stato ed i suoi membri non c'è netta alterità. Ed anche la restituzione urge meno e si può fare beneficando poveri od opere pie. Comunque anche se il cittadino può ritenere di esser in credito collo Stato (al quale pensa di aver pagato, ad esempio, sovrabbon­dante contributo di tasse) non si può dare positivo permesso al singolo di farsi giustizia da sé mediante occulte asportazioni. C'è il rischio che l'interessato stesso sia punito dalla legge penale o che sia accusato e colpito qualche altro che è innocente. La stessa carità verso sé stessi suggerisce di adire (extra i casi eccezionali) le vie legali, regolarmente.

Si direbbe che molti continuino a fare lo stesso esame di co­scienza che facevano da bambini quando il raggio della loro vita d'azione era molto ristretto; e si direbbe che credano di mostrare il loro cristianesimo solo in quella mezz'ora che passano in Chiesa ogni domenica, mentre si è cristiani e ci si dimostra tali special­mente fuori di Chiesa. Perciò qualcuno si domanda se non si debba rendere il sacramento della Penitenza più educativo, sol­levando, per siffatti penitenti, anche delle inquietudini. Però bisognerebbe che queste inquietudini fossero veramente giuste e salutari. In materia, per esempio, di giustizia sociale e di bene-

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ficenza, il confessore prudente ed intelligente sa che per poter affermare precisi doveri o condanne o approvazioni, gli sfuggono molte circostanze concrete circa lo stato ed il comportamento

-del penitente (tanto più se non ne è il consigliere abituale); e sa quanto siano complessi i problemi ed i fatti della vita sociale di oggi. Ad una parola indiscreta del confessore qualcuno potrebbe stizzirsi e indisporsi; qualche altro, di coscienza delicata o scrupo­losa, inutilmente turbarsi. Anche negli esami di coscienza comu­nitari, come già dissi, se si insiste troppo sul diritto e sul dovere dei miglioramenti sociali, sulla destinazione universale dei beni, c'è pericolo che qualcuno pensi gli sia lecito operare di propria inizia­tiva non so quali rivendicazioni (occulte o violente) senza riguardo ai turbamenti provocati nell'ordine pubblico.

A. Il confessore anzitutto possegga chiari / principi indiscussi. Poi, da uomo pratico e positivo, sappia, per esperienza, quali sono in una determinata materia le situazioni normali, ma, col suo intui­to, cerchi inoltre di rendersi conto della concreta e reale condi­zione dei singoli penitenti. Per esempio, fra commercianti, mer­canti, sensali si usa un linguaggio che può sembrare una frode ma reciprocamente è capito e reciprocamente non è creduto. Altro è il caso se avessero a trattare con galantuomini che non sono del me­stiere o con un ignorante od un ragazzo ed avessero a vendere della merce che ha dei difetti (forse non palesi a prima vista) o com­prassero da gente semplice ed inesperta, a vile prezzo, oggetti pre­ziosi od opere d'arte. E per ogni caso che gli si presenta, nel quale è compromessa la giustizia, il confessore dovrà fare una duplice considerazione: una sullo stato (o l'atto) d'ingiustizia che crea uno squilibrio; l'altra sul dovere o meno della restituzione (o della ri­parazione) per riportare l'equilibrio.

1. Le radici della restituzione sono il furto, il possesso (anche se incolpevole) della roba d'altri, il danno ingiustamente causato, la cooperazione ingiusta (sia al furto, sia al danno).

2. Il dovere della restituzione deve constare con certezza. Il confessore sappia distinguere — in linea, anzitutto, di principio — ciò che è certo e ciò che è probabile; ciò che è probabile e ciò che è pura ipotesi. Oggi alcuni autori tendono a ridurre la giu­stizia alla carità; altri, invece, vedono doveri di giustizia là dove comunemente si afferma solo la carità; altri ancora sosterrebbero obblighi di restituzione non solo dove c'è violazione della giu­stizia commutativa e legale, contrariamente al principio tradi-

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zionale: « restitutio est actus iustitiae commutativae » (S. Th. I M I , q. 62, a. 1).

3. Ed anche quando, stando ai principi, il dovere della resti­tuzione in un determinato caso constasse con certezza, bisogna attendere se non ci sia attualmente una causa scusante; o se non sia prudente non turbare la buona fede (qualora si preveda che l'ammonizione sarebbe infruttuosa). Oltre a possedere la scienza, bisogna fare attenzione alle circostanze ed aver sensibilità allo stato d'animo del penitente.

Ma, soprattutto, ripeto, ai penitenti non si dichiarino doveri di restituzione se l'obbligo è solo probabile. Ad esempio, quando è probabile che la dovuta restituzione sia stata fatta ma c'è pure il dubbio che non sia stata fatta, molti autori, interpretando la mente del divino legislatore, pensano che non ci sia obbligo di dare ciò che forse è già stato dato. Altri interpretano in modo di­verso — rigoristico — legge e mente del legislatore, e rispondono che ad un obbligo certo non si soddisfa con una prestazione dub­bia. Altri pensano che non la stretta giustizia ma l'equità sugge­risca una parziale prestazione, specie se il creditore non è ricco. Comunque, data la diversità delle soluzioni, strettamente non si potrebbe imporre nulla. Se c'è bisogno, occorre dire una parola chiarissima perché potrebbe esser pericoloso che uno creda d'aver un obbligo che forse non adempirà. Cosi, perché ci sia obbligo di riparare un danno causato ad altri, bisogna consti con certezza che l'azione fu efficacemente e coscientemente ingiusta: violazione d'un diritto stretto, non solo mancanza di carità; azione che sia vera causa del danno (e non sola occasione, come può avvenire me­diante il cattivo esempio); ingiustizia compiuta con vera colpa « teologica » della coscienza che si mette di fronte alla legge di Dio, non solo con quella negligenza « giuridica » che lo Stato ri­chiede per punire od obbligare alla riparazione dei danni. E il caso d'un danno prodotto ad una persona investita da una macchina per cause (supponiamo) non imputabili: la persona investita non ha colpa, ma neppure il guidatore ha avuto coscienza alcuna di ciò che avrebbe potuto fare per evitare l'investimento. Se l'autorità civile impone un obbligo anche nel caso di negligenza indeliberata, le sue disposizioni sono giustificate in vista dell'ordine pubblico; e bisogna obbedire. Ma quando si tratta di rapporti privati, nei quali non intervenga l'autorità civile, per affermare il dovere della riparazione bisogna si verifichino tutte le condizioni richieste dalla legge morale naturale. Ad esempio, chi avesse avuto relazioni ille-

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gittime con una donna sposata dalla quale è poi nato un figlio, dovrebbe attribuirsene la paternità (con tutte le conseguenze in ordine al mantenimento della prole adulterina) se fosse certo che quella donna non ha avuto alcun rapporto né col marito né con altri.

4. Casi complessi (per la cui soluzione concreta non basta co­noscere la teoria) sono quelli di cooperazione ad una azione in­giusta (per esempio ad un furto); specie circa il dovere o meno della restituzione o della riparazione « in solido ». Chi coopera a « tutto » il danno (anche se secondariamente) per sé sarebbe obbligato a riparare « tutto » il danno se gli altri non facessero la loro parte. Ma perché un cooperatore secondario sia responsa­bile di tutto il danno bisogna che ci sia stata mutua intesa e la azione del cooperatore secondario sia stata necessaria per otte­nere lo scopo. Ciò dev'essere indubbio perché si possa parlare di obbligo a riparare tutto il danno. E bisogna consti che gli altri non hanno restituito né restituiranno: ma, fino a prova con­traria, si può presumere che facciano il loro dovere. Questo in linea teorica. In pratica, riguardo a coloro i quali cooperano ad un furto (o danno) si può ritenere che o non sanno con precisione quanto son obbligati a restituire, o non si persuaderebbero di do­ver restituire o riparare anche per quanto han rubato (o perpe­trato) gli altri cooperatori, o si trovano nell'impossibilità di farlo (impossibilità che è in genere da supporre per un cooperatore se­condario, se venisse e quando venisse a confessarsi). Perciò il confessore potrà presumere il consenso del creditore stesso ad un trattamento di clemenza. Altrimenti, ad esiger tutto, si rischia di non ottener nulla e di turbar inutilmente una certa buona fede. E cosi anche con chi, per sé, sarebbe obbligato a riparare « in solidum » si potrà spesso accontentarsi che restituisca « prò rata tantum »; o si potrà affidare al penitente stesso di determinare secondo la sua coscienza il « quantum » da restituire. Perciò il confessore, prima di ammonire il cooperatore ingiusto sul suo do­vere di restituire, anche dopo essersi accertato che questo dovere obbiettivamente esiste, sarà prudente se tasta il terreno, contro il pericolo che il penitente s'allontani senza un qualche proposito concreto ed efficace.

5. Altra questione nella quale i principi astratti non sono suf­ficienti è quella riguardante la materia grave del furto. Gli autori discutono sul criterio stesso da seguire come misura. La difficoltà

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cresce quando si scende al caso concreto, anche se bisogna ammet­tere la distinzione fra una materia che è sempre (« assolutamen­te ») grave ed una materia che è grave « relativamente » alla con­dizione della persona derubata. Ma bisognerebbe tener conto anche della condizione e del bisogno di chi ruba. Ed anche delle circo­stanze di tempo e di luogo: il valore del denaro è minore nelle grandi città che nei piccoli sperduti paesi di campagna o montagna ove ci sia ancora gente piuttosto povera. Perciò, com'è possibile, nel caso singolo, lo stabilire qual è, nel furto, il confine fra ve­nialità e gravità? Pericolosissimo sarebbe il definirlo; e qualora un penitente lo chiedesse sarà meglio non rispondere con una determinazione precisa. A parte sempre i casi circa i quali è evi­dente la soluzione ed il giudizio da dare. Ed è inutile dire che se non si può pronunciare una definizione sulla gravità o meno, c'è sempre da rivolgere quella esortazione vivissima che non può esser che utile 16.

B. Quando dai principi morali e dalle norme pastorali pas­siamo alla realtà, troviamo che i penitenti, in materia di giustizia, impegnano i confessori meno che in qualche altra virtù morale. Ciò dipenderà certo anche da scarsa sensibilità e poca delicatezza di coscienza, ma bisogna altresì ricordare che i doveri « positivi » di giustizia non sono nei casi concreti sempre ben definibili e certi. Inoltre — siamo realisti — chi si è appropriato indebita­mente della roba d'altri, se viene a confessarsi e quando si trova in questa condizione di penitente, in genere è ridotto ormai

16 «...Haec materia non potest mathematica determinali, sed moraliter, non secus ac pretia mercium quae admittunt latitudinem. Et sane ridiculum foret asserere eum qui furatur viginti quinque asses peccare mortaliter, et illum qui furatur viginti quattuor peccare venialiter. Neque mirum videri debet si difficile sit praecise discernere inter furtum mortale et veniale. Quamvis enim... statuantur regulae quibus mortalia a venialibus generice loquendo distinguantur, si tamen quaestio sit de particularibus casibus, id, inquit s. Augustinus lib. 1, De Civit., cap. ultimo, non solum in hac materia, sed in pluribus aliis "difficillimum est invenire, periculosissimum definire: ego certe usque ad hoc tempus, cum inde satagerem, ad eorum indaginem pervenire non potui; et fortassis propterea latent, ne studium proficiendi ad omnia peccata cavenda pigrescat". Non ergo praesumant animarum directores ad singulos et individuales casus certo resolvere: Hoc est mortale, hoc est veniale, nisi id aperte constet; sed plerumque expedit cum s. Au-gustino suam ignorantiam fateri. Et dum ea de re a poenitentibus interrogan-tur prudenter responsionem absolutam declinent, illisque omnium peccatorum etiam venialium horrorem incutiant » (F.C.R. Billuart, Stimma s. Thomae, IV, Diss. XI, a. 3, Parisiis, 1900, p. 276).

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nell'impossibilità di restituire (almeno tutto il rubato): se sen­tisse dal confessore l'immediata dichiarazione che bisogna resti­tuire, se vuole l'assoluzione, potrebbe indisporsi perché la scossa è brusca ed, al momento, probabilmente può riuscire irragionevole e controproducente.

1. Il confessore esamini e giudichi anzitutto se obbiettiva­mente ci sia o no — nel caso in questione — il dovere di una qualche restituzione o riparazione. Caso non raro: un giovane (o qualche suo parente) chiede consiglio perché la donna colla quale il ragazzo ha avuto rapporti pretende un compenso. Se non ci fosse stata la conseguenza della prole, il dovere di una ripa­razione ci sarebbe solo se la ragazza fosse stata violentata ed inol­tre — a causa di questo fatto — si sia trovata nell'impossibilità di sposarsi. Ma non si può consigliare che riparino con traendo il matrimonio se non si prevede che sarà felice. Quale garanzia può dare senza la debita preparazione e maturazione, tale ma­trimonio, specie se di giovanissimi? E qualora la ragazza e la sua famiglia minacciassero di denunciare il seduttore, questa non sarebbe una ragione per celebrare il matrimonio; anzi sarebbe una ragione per non consigliarlo: se ci fosse vero amore, mutuo, ra­gionato, libero, sereno — come è necessario al consenso — non ci sarebbe bisogno di ricorrere alle minacce che vogliono forzare una decisione. Quanto all'eventuale prole, se la ragazza fosse stata violentata dal giovane, questi — in linea di principio — dovrebbe assumersi tutte le spese pel mantenimento della prole. Se ci fu connivenza, sono tenuti entrambi. Fortunatamente casi del genere non sono portati con frequenza al confessore. Dico fortunatamente perché è tutt'altro che semplice, alle volte, il risolverli con sicu­rezza li per li. Bisognerebbe esaminar bene tutte le circostanze pri­ma di dichiarar obblighi precisi o di indicare il modo più oppor­tuno per adempierli: in caso d'incertezza il confesssore si prenderà il tempo per consultare qualche persona esperta o manderà da questa il penitente. Tenga presente che ci sono donne furbe che sanno far cadere nella rete un ragazzo e colle loro arti fan si che egli creda d'esser stato seduttore, mentre è caduto nel laccio che gli è stato teso. GDmmesso il peccato, possono accusare stato di gravidanza. Ma alle volte fingono e spaventano (per spillar soldi); alle volte hanno avuto relazioni con altri uomini. Dicono che met­teranno tutta la faccenda in silenzio purché abbiano, secondo il loro diritto, un equo compenso. Ma se uno fa loro una elargi­zione (sia pur solo per farle tacere) anche questa può esser presa

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come una confessione ed un'autoaccusa di chi si assume l'even­tuale paternità. Un precedente che gli può impedire, per lungo tempo, di liberarsi da una donna (cfr. A. Vermeersch, Th. Mor., II , 1945, n. 591).

2. Anche quando ci fosse il dovere obbiettivo di una resti­tuzione ci può essere una causa scusante. Oltre che per assoluta impossibilità fisica, l'obbligo di restituire (o di riparare il mal fatto) cessa o vien sospeso se importa la perdita d'un bene più alto (in confronto all'oggetto della restituzione) od il pericolo d'un male maggiore. Pertanto è giustificata la dilazione della resti­tuzione finché uno non potesse farla senza rivelarsi come ladro: è in giuoco la sua buona fama.

Chi poi è convinto del dovere di restituire ed ha attualmente tale proposito, può esser assolto subito anche se pel passato non lo avesse mantenuto.

3. Ma — anche quando ci fosse il dovere obbiettivo e la possi­bilità di restituire — il confessore tenga pure presenti le norme circa l'ammonizione. Prima di farla, cerchi d'esplorare le dispo­sizioni del soggetto. Se prevede che probabilmente l'ammonizione non sarebbe fruttuosa e pare che il penitente sia in sostanziale buona fede e non creda (per un motivo o l'altro, ad esempio se ha rubato allo Stato) di dover restituire, è meglio (pel momento al­meno) non turbare questa buona fede: soprattutto bisogna evi­tare che la mancanza materiale si trasformi in colpa soggettiva. Particolare riguardo occorre coi malati in pericolo di morte nel parlare di obblighi di restituzione.

4. D'altra parte si danno casi nei quali si stenta ad ammettere buona fede e scuse. Ci sono coloro che potendo fare subito la resti­tuzione la rimandano a tempo indeterminato. Ci sono quelli — e son tanti — che hanno avuto un, prestito da un amico (magari con l'abbuono degli interessi) e potrebbero, ad un dato momento, restituire, sia pur a rate, ma procrastinano (forse aspettando la florida condizione per poter restituire tutto in una volta) ma cosi non restituiscono nulla, mentre fan spese e compere non neces­sarie. Certuni restituiscono solo una prima rata e si dispensano dalle altre, pur non trovandosi in maggiori difficoltà. Simili omis­sioni saranno dovute a negligenza, pigrizia, indolenza e non pro­prio al proposito di non restituire. In tali casi l'esame di co­scienza dovrebbe sensibilizzare e scuotere il penitente. Però si

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tenga presente il monito di s. Alfonso: « sono da evitare piut­tosto i peccati formali che i materiali ».

5. Il confessore aiuta e consiglia il penitente sul modo mi­gliore di fare la restituzione. Farebbe, per sé, un'opera di carità se si prestasse a trasmettere al proprietario la roba che il debitore trova difficile consegnare personalmente e con sicurezza. Però la carità dev'esser guidata dalla prudenza: potrebbe esserci pericolo per la fama del confessore stesso; bisognerà (anche se ha avuto l'incarico e quindi non vien meno al sigillo sacramentale) far in modo che il reo resti sconosciuto. Quando si tratta di furti fatti allo Stato, a grandi ditte, società, istituti d'assicurazione, si può soddisfare alla restituzione facendo elargizione ai poveri, ad isti­tuti di beneficenza, opere pie, perché altrimenti il denaro si per­derebbe nel labirinto della contabilità burocratica e difficilmente arriverebbe a destinazione. Se il possessore di mala fede (quale è un ladro) ignora chi sia il proprietario della cosa o non può far­gliela avere oggi e prevede che non potrà fargliela avere neppure in un domani, per particolari circostanze, allora comunissimamente i moralisti ritengono che deve darla ai poveri (anche se non pochi trovano difficile il dimostrare con un chiaro argomento stringente che quest'obbligo viene dal diritto naturale).

A coloro che non possono restituire tutto, il confessore dica che diano quello che possono e cosi avranno modo di farlo a rate. Se dichiarasse che bisogna dar subito tutto, quando ciò fosse dif­ficile, anche se non impossibile, il penitente potrebbe abbattersi. Il confessore alle volte avrà l'accortezza d'intuire, che bisogna ac­contentarsi d'una transazione e d'interpretare in tal senso la mente del creditore. Ad esempio quando si tratta di dipendenti che ru­bano ai loro padroni. Se la somma è modesta (pur raggiungendo forse il limite della materia grave) si potrà ammettere che resti­tuiscano usando maggior diligenza e laboriosità nel loro servizio, con qualche prestazione non strettamente dovuta. Se la somma fosse grossa (magari rubata un po' alla volta) si presumerà che i padroni siano piuttosto remissivi se il dipendente sarà fedele ed onesto per l'avvenire e che si accontentino d'una restituzione ridotta, fatta quando e come sarà possibile. Se il confessore di­chiarasse il dovere della restituzione integrale, il penitente proba­bilmente non restituirebbe nulla. Se si trattasse di qualche caso discutibile sotto il profilo della giustizia, o perché il salario è in­sufficiente o perché i padroni esigono troppo (ed il dipendente non può in alcun modo ottenere di più né trovare altro posto di la-

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voro) allora si potrà esaminare se convenga non proibire positi­vamente una qualche occulta compensazione per un discreto con­guaglio. Ma se si considera la sempre maggiore preoccupazione dello Stato di soccorrere chi per impossibilità di lavorare si trova nell'indigenza, se si considera l'intervento dei sindacati che sor­vegliano e regolano i contratti di lavoro, è da ritenere che si pre­senterà sempre meno facile il caso di chi abbia il diritto di appro­fittarsi della roba d'altri per vero bisogno o perché costretto ad accettare un ingiusto contratto di lavoro che non gli procura un sufficiente guadagno. Resta fermo il principio che nell'estrema necessità ognuno ha diritto a quanto gli è necessario per vivere. Questo è un diritto naturale. Ma bisogna tener conto, quanto al modo di usarlo, delle circostanze (fra le quali c'è anche la legge civile) le quali suggeriscono il mezzo meno dannoso alla comu­nità, all'ordine pubblico ed al soggetto stesso che si trova nella necessità. Comunque, extra i casi eccezionali, non si può am­metter l'occulta compensazione come prassi abituale: sono siste­mi pericolosi a quelli stessi che li applicano.

6. L'obbligo della restituzione è relativo all'entità della materia rubata o del danno causato. Quindi, per sé, obbligo — leggero — c'è anche se non è grave l'entità della somma da restituire. Dico' « per sé » perché è anche da vedere se nel caso concreto questo dovere non sia cessato. Ad esempio quando si tratta di roba or­dinaria da mangiare che un domestico consuma (o dà alla propria famiglia che ha bisogno), oppure di prodotti del suolo, in poca quantità, asportati dal fondo d'altri, è da supporre che il pro­prietario, se non è indigente, voglia condonare esercitando la ca­rità. Nei furti di non grande entità fatti allo Stato si potrà con­siderare se virtualmente il debitore non soddisfi alla restituzione col pagamento delle tasse. Bisogna pure chiedersi, in qualche furto da poco, se l'incomodo costituito dalla restituzione, non sia spro­porzionato, si da scusare. Tutto questo sia detto ed inteso con grande discrezione, senza dimenticare la delicatezza di coscienza, la abituale correttezza e sincerità d'agire, i limiti dell'altrui condono presunto. E resti fermo che bisogna educare alla giustizia. Special­mente i ragazzi. Alla loro età provano fortissime capricciose attrat­tive per qualche oggetto che non hanno: una penna fiammante, un quaderno dall'attraente copertina colorata, francobolli nuovi o antichi... Chi non ha i mezzi di procurarseli può esser tentato di arrangiarsi. E ci può essere anche chi ruba non perché abbia biso-

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gno o particolare desiderio d'un determinato oggetto, ma pel gu­sto e la bravata della rapina e dell'avventura, o per non apparire meno spregiudicato dei compagni (si pensi all'episodio del furto delle pere commesso da Agostino all'età di sedici anni e raccontato nelle Confessioni, 1. II, e. IV-IX). Anche nei collegi, nei semi­nari minori, sono frequenti i furterelli. Qualche superiore forse credeva che ciò sia impossibile in ragazzi che ogni giorno pregano, forse si comunicano, e frequentemente si confessano. Dava una certa libertà e mostrava fiducia. Un giorno deve aprire gli occhi: nel botteghino ove gli alunni acquistano, senza troppo rigidi controlli, roba di cancelleria, risultano degli ammanchi. Che fare? Proporre qualche esame di coscienza, parlare in qualche istruzione del rispetto per la roba d'altri e della giustizia (e non solo dello spirito comunitario) non sarà inopportuno. Dopo di che proba­bilmente qualcuno andrà a confessarsi: « ho preso la stilografica ad un compagno ». Il confessore non minimizzi il fatto. Faccia sen­tire al colpevole il bisogno di restituire l'oggetto, in un modo o nell'altro (senza manifestarsi), appena è possibile: con esortazione paterna, non con una imposizione nuda e brusca che può com­promettere le disposizioni del penitente all'assoluzione. Ma for­mare coscienze rette e delicate in fatto di giustizia è necessario. Tanto più se sono giovani abitualmente praticanti o che si pre­parano al sacerdozio, alla vita religiosa. Altrimenti, quale mera­viglia se c'è tanta delinquenza minorile, quando nei migliori am­bienti d'educazione non c'è il senso della giustizia? Oggi abbiamo gli scassinatori ed i rapinatori di 15-16 anni, perfettamente adde­strati ed organizzati. Chi li ha istruiti? E chi ha mancato di edu­carli a non mettersi sul sentiero della malavita? Bisognerebbe esser forti, anzi severissimi nel formare i piccoli al culto di certe virtù come l'onestà, la sincerità, la giustizia. Senza queste, quale cri­stiano può crescere e quale sacerdote? Perciò un genitore od un superiore manderà il ragazzo a restituire anche cento lire al ven­ditore che avesse sbagliato il conto: è pedagogico. E quando qual­cuno rubasse un oggetto, non si faccia tante distinzioni (se la cosa ha maggiore o minore valuta, se il compagno derubato è ricco o povero). Certamente è più grave rubare (sia pur poco) ad un povero che ad un ricco, rubare ad un estraneo che in famiglia. Ma coi ragazzi, se si sottovalutano certe loro mancanze, c'è pericolo che fraintendano: che con larga interpretazione concludano che, in­somma, si può chiuder un occhio, che rubare ad un ricco non è peccato. Questa idea, in un domani, insensibilmente potrà gene-

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Irarne un'altra: che per far fronte ad un bisogno economico, o per migliorare la propria condizione sociale, sia permesso promuo­vere rivendicazioni che importano danni e privati e comuni: si penserà che le disuguaglianze sociali (non dipendenti dalle colpe dei meno abbienti) sono un'ingiustizia che il singolo ha il diritto di eliminare; anche facendosi la giustizia che crede e come crede da sé, anche colla violenza, anche se ne segue un disordine sociale e pubblico. Certamente, per una convivenza pacifica ed una vita sempre migliore bisognerebbe che al bene comune (oggetto della « giustizia sociale ») attendessero e coloro che sono in condizione privilegiata ed i meno fortunati. Entrambi hanno doveri e diritti.

7. Certi manuali tradizionali di teologia morale, quando trat-r tano dell'elemosina sembra non considerino altro che quella ma-% teriale che procura vitto e vestito ai poveri. Su questa fanno una | abbondante casistica. Quando poi trattano della carità verso chi è I nella necessità spirituale pare contemplino solo il caso d'un pec-$ catore da convertire o di un'anima da salvare dal pericolo e dal-I l'occasione di peccato. Cosicché, ad esempio, l'assistere e con-| fortare una persona oppressa e depressa sarebbe una carità di

ordine temporale, ma non materiale, né spirituale in senso stretto e classico. Però non la si può ignorare quando si parla d'elemo­sina. Già s. Tommaso (II-ÌI, q. 32, a. 2) parla di sette opere della misericordia: temporale, però non solo corporale, ma anche spirituale (come può esser l'insegnamento della verità, il consiglio

j buono, la consolazione data a chi è nella tristezza).

' 8. Anche quando si ricorderà il dovere di riparare danni fatti al prossimo, non si dimentichi lo scandalo dato spargendo errori od offrendo occasioni alle disordinate passioni ed al malcostume. Oggi l'argomento è urgente. Un'esigenza di riparazione può esserci non solo in virtù della carità, ma della stessa giustizia per chi s'era impegnato anche « ex officio » a comunicare l'autentica dottrina insegnata dalla Chiesa ed a dare il buon esempio. Si pensi ai « non pochi membri della comunità ecclesiale » i quali in Italia hanno recentemente dato tutt'altro che « la doverosa solidarietà » alla « tesi giusta e buona dell'indissolubilità del matrimonio » (Paolo VI, 15.V.74, OR, 16.V.74, p. 1). Supponiamo pure «che essi abbiano agito senza rendersi pienamente conto delle gravi inci­denze del loro comportamento ». Ma « affinché tale comporta­mento non si converta in loro perpetuo rimorso », dovranno farsi « effettivamente... promotori della veri concezione della fami-

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glia» (Paolo VI, 15.V.74, OR, 16.V.74, p. 1). È necessario che essi (specie se sacerdoti e religiosi) vogliano — come hanno di­chiarato i Vescovi Lombardi in un comunicato emesso il 14.V.74 — « riesaminare in proposito la loro coscienza con profonda since­rità » {OR, 17.V.74, p. 2). E Paolo VI, in occasione della conce­lebrazione coi vescovi italiani, a conclusione della loro Assemblea generale l'8 giugno 1974, accennava al risultato del Referendum dicendo che non intendeva farne argomento di ormai superate po­lemiche, ma rivolgeva « piuttosto un paterno appello agli Eccle­siastici e Religiosi, agli Uomini di cultura e di azione, e a tanti carissimi Fedeli e Laici di educazione cattolica, i quali non hanno tenuto conto, in tale occasione, della fedeltà dovuta ad un espli­cito comandamento evangelico, ad un chiaro principio di diritto naturale, ad un rispettoso richiamo di disciplina e comunione eccle­siale, tanto saggiamente enunciato da codesta Conferenza Episco­pale e da noi stessi convalidato: li esorteremo tutti — diceva — a dare testimonianza del loro dichiarato amore alla Chiesa e del loro ritorno alla piena comunione ecclesiale, impegnandosi con tutti i fratelli nella fede al vero servizio dell'uomo e delle sue isti­tuzioni, affinché queste siano internamente sempre più animate da autentico spirito cristiano » (OR, 9.VI.74, pp. 1-2). Dunque co­loro che non son stati solidali in un tema d'ordine civile e reli­gioso come questo, son venuti meno alla fedeltà ed hanno creduto affermare propri particolari carismi venendo meno cosi alla « piena comunione ecclesiale »: « non potest... intra unitatem ecclesiasti-cam esse qui ab oboedientia recedit illius qui sedet in Cathedra Pétri » (S. Bonaventura, Quaest. disp. de perf. evang., q. 4, a. 3, 14, Opera omnia, Quaracchi, V, p. 191). Costoro devono sentire il bisogno di ritornare alla perfetta concordia coi loro fratelli di fede ed anche di riparare in qualche modo l'azione funesta che hanno esercitato sugli altri. Almeno se vogliono esser coerenti alla loro fede professata. Serve nulla l'appellarsi, per proprio sostegno, all'opinione ed al comportamento di altri, anche se numerosi, anche se altamente qualificati', nella Chiesa, per dottrina ed uffi­cio. Anche il loro resta sempre un cattivo esempio. E quindi da ripararsi.

VII. La fortezza. Se la prudenza « regola » tutte le virtù del cristiano, la fortezza le « anima ». Si dimostra e si esplica nella testimonianza della fede vissuta. La coerente condotta della vita è una virtuale testimonianza della fede. In qualche caso però

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l'onore di Dio ed il bene del prossimo possono domandare al cri­stiano un'esplicita coraggiosa professione della fede (CJC, 1325). Ma tendere all'ideale cristiano è ardua impresa; domanda spesso l'eroismo. Anche il credente può esser ghermito dalla paura. Perciò è necessaria la virtù « infusa » della fortezza che ci aiuta a vincere la naturale paura. Non è però una virtù indipendente, non guida se stessa: ha bisogno di esser illuminata. Porta ad affrontare le situazioni disposte da Dio ed a prender le decisioni volute da Lui. Con speranza, sicurezza, fiducia. Fiducia anche in sé stessi, ma subordinatamente e in second'ordine rispetto alla fiducia in Dio: «per fiduciam, quae nunc ponitur fortitudinis'pars, homo habet spem in seipso, tamen sub Deo » (S. Th., II-II, 128, 1, ad 2). E, per esser autentica, è integrata dalla pazienza e dalla perseveranza.

Vi l i . La temperanza regola le soddisfazioni della gola e della sensualità.

1. I disordini della gola non superano, per sé, sul piano morale, la venialità. Ma se vi si aggiunge l'uso di bevande alcooliche, stu­pefacenti, droghe (uso oggi diffuso fra i giovani) allora sono da rilevare gli effetti dannosi (e per il soggetto e per le conseguenze ereditarie) di questi abusi. Ai quali pare che solitamente si dia troppo poca importanza nella predicazione e nella confessione.

2. Essenzialmente diverso è l'abuso in materia di sessualità: non si tratta solo di eccesso nell'uso di ciò che, di per sé, è ordi­nato al bene dell'individuo, ma d'una inversione dell'ordine sta­bilito dal Creatore. L'atto impuro è un atto sessuale privato della sua naturale finalità: è quindi sostanzialmente viziato. D'al­tra parte l'istinto sessuale suol esser molto forte e l'uomo fre­quentemente cede alla passione. Pertanto certi confessori credono di dover puntare subito su questa materia con tante interroga­zioni rivolte ai penitenti. Il S. Officio nelle « Norme » (riservate) del 16.V.1943 (De agendi ratione confess. circa VI...) ha dichia­rato che male si comporterebbe quel confessore che desse l'im­pressione d'esser « fere unice de his peccatis sollicitus » (n. II). Difatti le mancanze contro la castità non sono, di massima, le pili gravi perché la naturale concupiscenza « antecedente », pur accre­scendo la volontarietà, diminuisce la libertà dell'atto offuscando il giudizio della ragione. Se il confessore si mostra quasi solo preoc­cupato del sesto comandamento c'è pericolo che i penitenti non s'interroghino debitamente e non sentano adeguata responsabilità per tante altre mancanze gravi che, specialmente oggi, si commet-

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tono: ad esempio, contro la fede (quanti difendono e diffondono Terrore contro la dottrina insegnata dalla Chiesa, ad esempio circa il divorzio, l'aborto), contro la religione e la morale (quanti coi mezzi di comunicazione -— nelle sale cinematografiche, con gli scritti, con qualche radiotrasmissione — cooperano a metterla in cattiva luce ed a schernirla), contro la giustizia: « la corruzione am­ministrativa, la speculazione edilizia, l'abuso di potere, il com­mercio pornografico e altre forme di oppressione dell'uomo na­scondono subdolamente, sotto l'involucro di strutture sociali, gra­vissime responsabilità di persone e di gruppi » (Doc. Past. C.E.I. 12.VII.74, n. 46).

Perciò è meglio conservare la castità come ultima materia di una eventuale interrogazione. Ciò non significa che le mancanze contro questa virtù abbiano a venir minimizzate. Tutt'altro. Sono quelle che maggiormente degradano l'uomo (l'ubbriaco diventa un pagliaccio, il sensuale sfrenato s'inginocchia ai piedi della più lurida prostituta). Sono i peccati più pericolosi anche perché ten­dono a ripetersi e moltiplicarsi. E cosi accecano la mente, indu­riscono il cuore. Julien Green, in data 15 aprile 1950, scriveva nel suo « Journal »: « Conversazione con un giovane religioso circa il peccato della carne. Io gli dicevo che è il solo peccato grave che non sia seguito immediatamente da rimorsi, e che — a mio avviso — la sola prova che è un peccato grave, ed anche molto grave, è che finisce per indurire il cuore. Nessuno è più feroce­mente attaccato alla sua propria volontà dell'uomo dedito al pia­cere. Sul giovane il peccato non ha in apparenza alcuna presa, per­ché niente sembra aver presa' sulla gioventù. In apparenza il frutto resta meravigliosamente intatto. La putrefazione, l'indurimento non compaiono che alla lunga, ma compaiono sempre... » (Jour­nal, 1946-50, Paris, Plon, 1951, p. 360). E chi contrae un vizio sarà tentato di ricorrere ad ogni mezzo pur di soddisfarlo (quanti ladri occulti che passano per persone oneste). Sono i frutti di un certo insegnamento impartito oggi da psicologi e medici secondo i quali il « sentimento di colpa » in materia sessuale dovrebb'esser eliminato e guarito come qualsiasi altra malattia. Diceva Pio XII ai partecipanti al Congresso di Psicoterapia e Psicologia clinica il 15.IV.53: « ...// sentimento della colpa, la coscienza cioè di aver violato una legge superiore di cui tuttavia si riconosceva l'obbligo... può tramutarsi in sofferenza e anche in turbamento psichico ». Però « la psicoterapia tocca qui un fenomeno che non è di sua esclusiva competenza, poiché è altresì, se non in primo

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luogo, di carattere religioso. Nessuno può contestare che può es­serci, e non raramente, un sentimento di colpa irragionevole, per­sino morboso. Ma si può avere egualmente coscienza d'una colpa reale che non è stata cancellata. Né la psicologia né l'etica pos­seggono un criterio infallibile per casi di tale specie, perché il pro­cesso della coscienza che genera la colpevolezza ha una struttura troppo personale e troppo sottile. Ma in ogni caso è certo che nessu­na cura puramente psicologica guarirà la colpevolezza reale... La psicoterapia s'ingannerebbe e ingannerebbe gli altri se, per cancella­re il sentimento di colpa, pretendesse che la colpa stessa non esi­stesse più... Ancor meno la psicoterapia può dare all'ammalato il consiglio di commettere tranquillamente un peccato materiale, per­ché egli lo commetterà senza colpa soggettiva; questo consiglio sa­rebbe erroneo anche se una simile azione dovesse sembrare necessa­ria per la distensione psichica dell'ammalato e, perciò per la finalità della cura. Non è lecito mai consigliare una azione cosciente che sarebbe una deformazione e non un'immagine della perfezione di­vina » (Pio XII, Discorsi ai medici, Roma, 1959, pp. 239-241). Ma i penitenti che non son giunti alla perdita del senso morale, quan­do è passata la passione sentono il disgusto di sé stessi e forse la vergogna d'aprirsi e di manifestare queste loro debolezze ad un uomo. Da una inchiesta condotta, anni addietro, in Francia, fra ragazze studenti, è risultato che i peccati più difficili a confes­sarsi sono quelli contro la purezza, specialmente quando vi si ri­cade indefinitamente: perché allora — è stato detto — « si ha l'impressione di mancare di volontà. Per confessarli bisogna fare un atto d'umiltà molto più grande che per mancanze passeg­gere » (P. Blanchard, Réactions contemporaines devant la Con-fession, « Lumière et vie », X, 1955, 317).

Perciò il confessore, dopo aver invitato il penitente a dire i peccati che ricorda, lo aiuterà se lo vede in difficoltà.

3. Il S. .Officio raccomandava di non far interrogazioni « su peccati di cui non c'è alcun positivo e solido sospetto » che il peni­tente si sia reso colpevole (Norme, n. 1). Però questo sospetto può venire sia da qualche cenno od indizio diretto fornito dal peni-, tente, sia dalla sua generale situazione spirituale (come nel caso che avesse numerose altre mancanze gravi). Allora il confessore è mosso dalla carità (anche se non tenuto) a rivolgere qualche do­manda per poter poi dare l'eventuale consiglio opportuno. Tutto sta che l'interrogazione sia fatta in modo discreto e delicato. Per esempio, ad un ragazzo: « nulla contro la modestia, la purezza? »;

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ad un coniugato: « nulla contro la santità del matrimonio e la legge di Dio per impedire la figliolanza? ».

4. Perciò il S. Officio raccomandava che il confessore, qua­lora interroghi su questa materia (di sua iniziativa o dietro richie­sta del penitente), « cautissime semper procedat » (Norme, n. 1). E nel dubbio che una domanda sia troppa, conviene mancare piut­tosto per difetto che per eccesso. In particolare coi fanciulli. « Somma discrezione e cautela — raccomandava il Frassinetti — per evitare il pericolo d'insegnare » loro « ciò che probabilmente non sanno ancora. Né tema il confessore di mancare per questo all'integrità; poiché il fanciullo non è obbligato a confessarsi in miglior modo di quel che sa, né il confessore lo deve o lo può istruire in questa materia; ... la confessione sarà ben fatta ancor­ché non esprima bene la specie dei suoj peccati » (Manuale del parr. nov., pp. 377-378).

Con nessun genere di penitenti il confessore indaghi su cir­costanze che non mutano la specie morale del peccato. C'è una sola specie (nell'ambito della castità) di peccati consumati in modo naturale: rapporto normale fra uomo e donna extra matrimonio. Ulteriori specie morali possono esser indotte da circostanze par­ticolari ma per violazione d'altra virtù (della giustizia nell'adul­terio; della religione nel sacrilegio; della « pietas » nell'incesto). Specificamente contrari alla castità ci sono alcuni disordini contro natura, quali gli atti solitari, quelli compiuti con persona dello stesso sesso, l'onanismo (coniugale od extraconiugale). Gli atti per sé indifferenti (toccamenti, ad esempio), se sono posti senza in­tenzione sensuale e per una causa onesta, sono leciti; posti senza ragione giustificante sono più o meno pericolosi relativamente al soggetto e sono detti atti « impudici »; diventano « impuri » se la soddisfazione sessuale è intesa.

Quanto alle anomalie, queste possono esser quantitative o qua­litative a seconda che riguardano o l'intensità dell'istinto o l'og­getto dell'istinto. L'ipostenia (carenza dello stimolo sessuale) crea un problema in ordine al matrimonio (occorre la cura ed il con­siglio d'un medico prudente); l'iperestesia (anormale sovreccita­zione) fa sorgere difficoltà in ordine alla scelta del sacerdozio ed all'impegno del celibato (il consigliere spirituale dovrà studiare accuratamente il caso per formulare un ponderato giudizio). Circa le anormalità qualitative il confessore deve saper distinguere, ad esempio, l'omosessualità come vera e propria anomalia da una de­viazione solo parziale o temporanea dell'istinto. La prima importa

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nel soggetto una spontanea ed abituale inclinazione verso persone del proprio sesso, cosicché è questo l'oggetto completo ed esclu­sivo dell'istinto sessuale. A questa inclinazione s'accompagna la avversione al sesso diverso. È ovvio che non si potrebbe giudicare se si verifica la vera anomalia in una persona la quale vivesse in un ambiente dove non vede mai persone dell'altro sesso. C'è in­fatti una omosessualità che è una tendenza transitoria o non esclu­siva, e può dipendere da varie cause, come le condizioni am­bientali (quale la vita collegiale), una mancanza d'evoluzione e di maturità sessuale, o qualche abitudine contratta.

Anzitutto non si può ammettere che Pomossessualità (sia essa esclusiva o parziale, permanente o transitoria) sia una forma na­turale della sessualità, avente uguali diritti dell'eterosessualità. Se si tenesse questa teoria, allora chi avesse questa tendenza potrebbe concludere che è inutile cercar di superarla e di guarirla. E chi si sentisse incapace di condurre una vita solitaria potrebbe rite­nere giustificato il vivere in comunione di vita e d'amore, analoga al matrimonio, con una persona del suo sesso (cfr. S. C. per la dott. della fede, Dichiar. Persona Humana, 29.XII.1975, n. 8, OR, 16.1.1976, p. 1). E non è neppur sostenibile l'opinione se­condo la quale — pur trattandosi d'una prassi che è un disordine sul piano normativo teorico generale — poi, sul piano della vita concreta, in forza della prudenza, lo stesso piano oggettivo dei valori ammetterebbe una flessione delle norme derivate, meno generali. Una norma morale che proibisce un'azione intrinseca­mente cattiva (che resta cioè sempre cattiva, per quanto mutino le circostanze) — qual è l'omosessualità — non può ammettere, obbiettivamente, eccezioni. In chi la trasgredisce potrà, in qualche caso, mancare la piena responsabilità per mancanza di delibera­zione o per ignoranza invincibile. Ma allora siamo sul piano sog­gettivo. Obbiettivamente, « gli atti di omosessualità sono intrin­secamente disordinati e... in nessun caso possono ricevere una qualche approvazione » (Dich. Pers. Hum., n. 8). Questa approva­zione potrebbe e dovrebbe (per esser logici) venir data se, e nei casi in cui, la norma morale subisse^ sul piano obbiettivo dei valori, una flessione. Del resto, chi può con certezza giudicare che quest'anomalia sia, nel caso concreto, talmente connessa con un istinto innato ed una costituzione patologica da essere assoluta­mente incurabile? In nessun caso (ripeto) si può ammettere, sotto questo pretesto, che venga liberamente assecondata. Sta il fatto che molti riescono a dominare — colla forza della volontà e l'aiuto

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della grazia — la loro tendenza, occupandosi intensamente in un campo di lavoro prudentemente scelto, nel quale trovino il meno possibile occasioni di tentazione e di turbamento. Nell'azione pastorale si tratterà con questi omosessuali con comprensione perché non tutti coloro che soffrono di questa anomalia ne sono responsabili. Si sosterranno nella speranza di superare le loro difficoltà personali ed il loro disadattamento sociale. La loro colpevolezza sarà giudicata con prudenza (Dich. Pers. Hum., n. 8). Col passare degli anni — in seguito ad un tenace lavoro di con­trollo e di autoeducazione — alle volte si verifica una parziale normalizzazione, per cui l'istinto si corregge e si raddrizza orien­tandosi anche verso il sesso diverso.

A parte gli stimoli sessuali che hanno un oggetto morale spe­cificamente diverso, bisogna notare che anche quelli che si riferi­scono fondamentalmente a persone d'altro sesso possono essere infinitamente vari (c'è chi è eccitato solo guardando o toccando qualche determinato oggetto dell'abbigliamento femminile). Ma non è necessario che ciò sia specificato in Confessione.

5. Il S. Officio raccomandava al confessore (il quale vedesse conveniente fare qualche interrogazione) di cominciare « dalle questioni più generali » (Norme, n. I) (« qualche mancanza con­tro la modestia, la purezza? »). Poi, se il penitente risponde affer­mativamente, si procederà passando dai peccati meno gravi ai più gravi: « pensieri? »; « volontari? ». Solo in caso di risposta affermativa si chiederà al penitente se abbia anche « fatto » qual­che atto non puro; e (nel dubbio) se furono atti completi. Non si faccia inchieste sull'oggetto particolare dei pensieri e dei desideri. Piuttosto si raccomandi di evitare le cause e le occasioni (sguardi, letture, films, compagnie, discorsi ascoltati e fatti...). Si eviti certe domande in forma disgiuntiva (« da solo o con donne? ») se possono suscitare pericolosa curiosità in chi forse non conosce ancora l'esistenza di certi peccati. Quando i ragazzi si accusano di atti impuri (« cose sozze », « porcherie », dicono) commessi fra di loro, si supponga che si tratta di mutua procurata polluzione. Non si faccia alcuna indagine sul « modo ». Si raccomandi di fug­gire le cattive compagnie, e, magari, si avanzi una domanda per vedere se c'è nell'ambiente qualche occulto corruttore. Se il peni­tente fosse vittima di qualche lupo che fa strage tra gli innocenti d'una comunità, il confessore che abbia le mani legate dal sigillo, dovrebbe suggerire al ragazzo, prepararlo e prudentemente gui-

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darlo a denunciare il fatto a chi può intervenire per evitare un danno comune.

Quando i penitenti non sposati accusano peccati di fornica­zione con persone d'altro sesso, non si indaghi se furono com­messi secondo natura od in modo onanistico. (Per la donna potreb­be darsi il peccato di tentato o procurato aborto. Ma, in genere, se colpevoli, si accusano spontaneamente). Il colpevole dovrebbe invece dichiarare se è sposato e se ha peccato con persona spo­sata (perché in caso affermativo ci sarebbe la specie dell'adulterio). E chi commette « azioni » impure è da supporre che abbia pure brutti « pensieri » volontari, in altre occasioni, anche se non se ne confessa (con certi penitenti è inutile fare minute indagini). Invece, chi non si determina a compiere atti esterni (pur avendone forte sollecitazione e facile occasione) non è da pre­sumere che manchi gravemente con pensieri.

Discrezione anche nel pretendere la dichiarazione del numero dei peccati. Evidentemente è più facile ricordarlo riguardo ai pec­cati esterni consumati che riguardo a quelli interni; più facile se la Confessione precedente fu fatta poco tempo prima.

6. Particolarmente scabroso e tormentoso è il caso, cosi fre­quente, di coniugati che ricorrono all'una od all'altra pratica anti­concezionale per non aver figli.

Si deve interrogare su questo punto? Conviene stare alle direttive date dalla Chiesa. Il confessore

non deve né disinteressarsi affatto del problema né applicare un rigorismo inutile o dannoso. Pertanto non interroghi quando su questo abuso « nulla cadit in poenitentem positiva atque firma suspicio » ,(S. Off., De agendi ratione..., n. I). Interroghi « pru-denter et discrete» quando « fundata adsit suspicio» (ibid.). Il sospetto positivo e fondato può venire sia da qualche cenno che il penitente abbia fatto direttamente al problema dei figli; oppure dal complesso della sua vita spirituale (se ha avuto una condotta mondana e non dà segno d'essersi sufficientemente inter­rogato sulle sue colpe gravi...). Ma chi, pur confessandosi solo una volta all'anno, mostra d'accusarsi con cura dopo un serio esame di coscienza, questi non offre sospetti obbiettivi. È ben vero che si dà talora il caso di chi è esente da colpe gravi nelle altre materie e manca solo in questa. Ma il confessore, ad un dato mo­mento, quando si è conformato alla direttiva generale, potrà ricorrere alla presunzione ed affidare il penitente alle mani ed alla misericordia di Dio, o gli raccomanderà di abbracciare tutte le

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sue colpe, anche quelle eventualmente non ricordate e non ac­cusate, e di chieder perdono secondo che Dio vede. Il confessore potrà presumere che il penitente sia sinceramente disposto spe­cialmente quando gli abbia domandato se non gli pare di ricordar altro ed il penitente abbia risposto negativamente con tono di umiltà e di convinzione.

Nel caso che convenga fare una interrogazione, il confessore la formulerà « prudenter et discrete»: chiederà al penitente se sente forse qualche rimorso per non aver sempre agito secondo la santità del matrimonio e la legge di Dio per aver impedito con malizia la conseguenza dei figli. Domanda discreta, ma chiara. Se risponde affermativamente non si facciano indagini — in base alla direttiva generale del S. Officio, De agendi rat., n. I — sul « modo » (per interruzione dell'atto od uso di strumenti o di pillole); né (praticamente) si chieda sul numero o frequenza (si presume che l'abuso sia abituale: quando succede solo qualche volta i penitenti stessi lo dichiarano).

Chi riconosce d'esser ricorso a questo abuso, dev'esser am­monito ed invitato a fare un proposito contrario? O si può pre­sumere una buona fede che sconsigli l'ammonizione?

Anzitutto è da osservare che il solo fatto che un penitente si confessa di praticare l'onanismo non è sempre segno certo che egli sia gravemente colpevole. Certe spose si accusano anche se in ciò non hanno responsabilità. Interrogate se l'abuso dipende anche da loro o solo dal marito, qualcuna sincèramente riconosce che entrambi sono d'accordo nella maliziosa prassi; qualche altra afferma che il disordine dipende solo dal marito che interrompe l'atto: bisogna allora dire la parola opportuna che serva a retti­ficare eventualmente la coscienza della donna: essa dovrà far noto al marito che sarebbe più contenta se agisse regolarmente; e, quando le sembrerà opportuno ed il momento propizio, dirà la parola buona cercando di convertirlo (ma — si noti bene — con prudenza perché non nasca discordia). Se si sarà comportata così, bisogna assicurarla che, se il marito domanda il debito, essa può soddisfarlo e corrispondere senza scrupoli e perplessità per evitar il pericolo che egli si raffreddi, si disgusti, si allontani (il che sarebbe un male ancor maggiore dell'onanismo). Potrebbe però aver una responsabilità la moglie stessa quando, non volendo i figli, preten­desse dal marito una totale astinenza (per lui troppo difficile) sa­pendo che egli — per non contrariarla — userà irregolarmente del matrimonio. Allora virtualmente egli sarebbe indotto all'abuso

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della moglie anche se essa direttamente non intende usare del matrimonio con malizia ma senz'altro evitare i rapporti sessuali.

A parte il caso della cooperazione solo materiale ed incol­pevole da parte della moglie, si può presumere nei coniugi onanisti una buona fede che sconsigli l'ammonizione? In questa materia l'assoluta buona fede — come ignoranza piena d'ogni malizia — oggi non si può supporre. Ed anche se in qualche caso ci fosse, bisogna attendere al pericolo d'un danno comune (quale si avrebbe se qualcuno frequentasse i sacramenti e parlasse, il che è facile, con altri, di questo abuso come se non entrasse fra i disordini da accusare in Confessione, come se il confessore glielo avesse permesso).

Ma se di massima non si presume l'assoluta buona fede, di fatto ci può esser una certa quale sostanziale buona fede in qualche caso nel quale speciali circostanze straordinarie rendano difficilissima l'osservanza della legge di Dio. Si pensi al caso — specie se si tratta di giovani sposi — in cui il medico avesse dichiarato sul serio che ci sarà per la donna pericolo di morte nel­l'eventualità di una nuova gravidanza; oppure a qualche situa­zione di tale indigenza che il guadagno familiare basta si e no a vivere, cioè a mantenere k famiglia coi figli già procreati... In tali casi il confessore si asterrà dal turbare la buona fede. Ma ri­spettare la buona fede non significa affermare positivamente che questo modo d'agire è lecito, tanto più che questi coniugi rico­noscono essi stessi che è un comportamento « che non andrebbe bene », ma pensano e sperano che Dio non li condanni (almeno gravemente) perché Egli vede la difficoltà e la disposizione a non rifiutare altri figli appena le condizioni economiche miglio­reranno. Il confessore esorterà il penitente a pregare per aver la forza di fare più che possibile la volontà di Dio e lo assolverà. Bisognerebbe pure che il penitente tenesse il caso riservato e non ne parlasse con altri i quali crederebbero facilmente che egli abbia avuto il permesso positivo dal confessore per la pra­tica onanistica.

Ma chi dev'essere, ed è, ammonito, questi deve fare il propo­sito di cambiar condotta se vuol esser logico e coerente nella sua Confessione sacramentale. Ed è nell'ottenere il proposito che si trova più resistenza (anche in coloro che son persuasi di non agire come si dovrebbe). Se il penitente restasse irriducibile per prin­cipio, non sarebbe disposto all'assoluzione ,(però il « proposito » non esige — come taluni pensano — una vera « promessa » con

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una quasi certezza di non ricadere più). Ed anche — anzi particolarmente — in questa materia il miglior confessore non è quello che seccamente nega l'assoluzione a chi non fa su­bito H proposito, ma il confessore che fa di tutto per susci­tare, nel penitente onanista, almeno una qualche disposizione positiva che sia sufficiente per poterlo assolvere sotto condi­zione (specialmente se è uno di coloro che si accostano mol­to raramente ai sacramenti). Il confessore può, quando ra­gionevoli motivi consigliano di limitare la prole, cautamente suggerire di ricorrere alla continenza periodica, riservando l'uso del matrimonio ai giorni che per la donna sono sterili. Que­sti sono individuati secondo i vari metodi. Non spetta al con­fessore entrare nei particolari della questione fisiologica; con­sigli ai penitenti di rivolgersi ad un medico che sia perito ed abbia principi religiosi e morali. La pratica della continenza periodica non nuoce all'amore ma lo alimenta.

Recentemente è stato divulgato l'uso del cosiddetto « am-plexus reservatus » (unione fisica prolungata, mediante l'atto pro­priamente sessuale con l'intento e lo sforzo di non giungere, pri­ma della disunione, alla piena soddisfazione). Cosi non si.otterreb­be la procreazione, bensf gli altri fini del matrimonio; e sarebbe;tin. rimedio contro la tentazione dell'onanismo. Evidentemente non si può dirlo incondizionatamente lecito: in pratica ci può esse­re il pericolo d'una soddisfazione piena separata e priva della sua naturale imaìita (S. Off. 30.VI.1952, AAS, 44, 1952, 546). Occorre perciò una causa proporzionata (pericolo di morte per la moglie in caso di una nuova gravidanza, impossibilità di mantenere altri figli...): stante tale causa, se, dopo l'interruzio­ne dell'atto dovesse succedere raramente una polluzione sepa­rata si può — applicando il principio del duplice effetto — considerarla un effetto accidentale, indiretto, non imputabile (se non è inteso).

L'osservanza della legge di Dio nel matrimonio domanda l'abi­tudine all'autocontrollo ed alla castità che purtroppo una gran parte di giovani non possiede quando arriva al matrimonio. Se, oltre la passione dei sensi, avessero per la moglie un profondo affetto spirituale, troverebbero la forza di sopportare temporanei periodi di astinenza. E quando questa si fa difficile — eppure talora è necessaria o consigliabile — dovrebbero risvegliare la loro fede: coli'aiuto della grazia di Dio si possono risolvere pro­blemi che sul piano naturale sembrano insolubili.

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Ma non si può approvare quanto qualcuno oggi si permette di suggerire: se un coniuge giudica che per lui il ricorso alla contrac­cezione sia il minor male (senza pertanto giustificarsi) gli si può consigliare d'accostarsi abitualmente ed incessantemente alla men­sa eucaristica anche senza essersi prima riconciliato mediante la Confessione (basta una periodica frequenza a questo sacramento). A chi ha fatto la sua scelta di fondo per Cristo — si pensa — la Comunione darà la forza — ma gradatamente — di osservare la legge di Dio. Senonché, a parte l'obbiettiva malizia della prassi anticoncezionale (a cui nessuno può esser necessitato per­ché Dio dà a tutte le anime di buona volontà la grazia di evi­tarla), è inoltre da temere che un suggerimento simile servirà al penitente, anziché a correggere questo disordine, piuttosto a formarsi la coscienza che non è peccato. Quando gli si dicesse: « anche se Lei ricorre a questa pratica, può andare alla Comunione senza bisogno di confessarsi ogni volta », certamente egli inter­preterà (o sarà insensibilmente portato ad interpretare) questa concessione come un'implicita positiva dichiarazione della per­missività (in certi casi) della contraccezione. È ben diverso U contegno che deve osservare il confessore nei casi in cui è prudente rispettare la buona fede: allora egli non dichiara al penitente che si tratta d'un abuso che non è necessario accusare in Confessione prima della Comunione. E la Confessione (oltre alla grazia sa­cramentale che conferisce) ha un'efficacia psicologica e pedagogica insostituibile.

7. Non minore prudenza — aggiunge il S. Officio (De rattorie agendi..., n. II) — occorre al confessore nei suoi consigli ed istruzioni in materia del sesto comandamento. I suggerimenti siano opportuni ed adatti ai bisogni dei singoli.

Ad esempio, ai ragazzi — evitate le troppe interrogazioni —• si rivolgerà piuttosto qualche viva esortazione: si metterà il dito sul rimorso che è frutto cattivo del peccato, sulla gioia che è il frutto buono della presenza di Dio nella nostra anima; si indi­cheranno i mezzi necessari per conservarsi puri. Non molte do­mande ai ragazzi: però un minimo d'informazione sullo stato del penitente è necessario se si vuol dargli un efficace aiuto spiri­tuale: altra è la condizione di chi solo ogni tanto commette il peccato impuro ed altra quella del vizioso (ci sono giovani che hanno contratta l'abitudine quotidiana). E — ferma la direttiva di non entrare in particolari inutili, di non sollevare questioni im-

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pertinenti, di non avanzare domande pericolose — non si può ignorare che molti ragazzi ed adolescenti non hanno idee chiare su ciò che è lecito e su ciò che è illecito in questo materia, sul com­portamento da tenere (per esempio coi compagni pericolosi); qual­cuno ha coscienza di quello che è male ma non ha il senso dell'esem­pio buono da dare; c'è chi ritiene peccato o peccato grave ciò che non lo è (azioni compiute nel sonno o nel dormiveglia, sogni in se­guito a pensieri avuti lungo il giorno; non sanno con chiarezza che nello stato di dormiveglia non c'è l'avvertenza necessaria alla colpa grave, che se i pensieri impuri volontari avuti nello stato di veglia sono imputabili, non lo sono i sogni conseguenti). Certo, nella cate­chesi e negli esercizi spirituali ci sarebbe più tempo per illuminare le coscienze (sempre entro i limiti prudenziali imposti dall'inse­gnamento « pubblico »), però anche al confessore può presentarsi l'opportunità di dare un'istruzione, discreta e breve, ma più effi­cace perché riservata e adatta al bisogno del singolo.

Con chi è tribolato dalle tentazioni eppur fugge le occasioni, occorre una decisa parola rassicurante ed incoraggiante: sono prove che Dio manda anche ai grandi santi. Chi ha la volontà abitualmente contraria al peccato — la retta opzione fondamen­tale — specialmente se si ricorda di Dio nella tempesta, deve ritenersi immune da colpa, anche se ha l'impressione di aver avuto qualche compiacenza (capita facilmente alle anime delicate di temere che alle suggestioni dei sensi s'accompagni qualche consenso e desiderio). Queste tentazioni sono un mezzo tormen­toso ma efficace di santificazione.

Molta misericordia e carità anche con coloro che cadono e ricadono, ma umilmente riconoscono il loro peccato, son pentiti e propongono la conversione. Ci posson esser molte attenuanti. Chi, all'infuori di Dio, può scandagliare gli abissi delle coscienze? Chi può conoscere a fondo il carattere d'una persona, la parte che ha l'ereditarietà morale e fisica, l'educazione ricevuta, l'in­flusso delle letture e delle amicizie e di altri fattori e circo­stanze che possono incidere sulla mente, sulla volontà, sull'ener­gia d'una persona? A proposito, ad esempio, della masturbazione « la psicologia odierna fornisce parecchi indizf validi ed utili per formulare un giudizio più equo sulla responsabilità morale e per orientare convenientemente l'azione pastorale. Essa può aiutare a comprendere come l'immaturità dell'adolescenza, che talvolta si protrae oltre questa età, oppure la deficienza d'equilibrio psicolo­gico, o l'abitudine contratta, possono influire sul modo d'agire

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dell'uomo diminuendo la deliberazione degli atti e facendo si che soggettivamente non si contragga sempre la colpa grave. Però non si deve sempre presumere l'assenza della responsabilità gra­ve » (Dich. Pers. Hum., n. 9). E tanto meno si potrà lasciar intendere agli adolescenti che la masturbazione non è un disor­dine preoccupante da prender in seria considerazione, ma un normale fenomeno dell'evoluzione sessuale. E non si può ammet­tere — opinione anche questa, oggi, difesa — che la colpa grave si ha solo quando il soggetto si chiude nella sua soddisfazione (ossia nella « ipsazione ») senza orientare la passione verso la comunione amorosa con una persona d'altro sesso (Dich. Pers. Hum., n. 9).

Il confessore parlerà quindi con gravità a coloro che con leg­gerezza accusassero i loro indubbi peccati in questa materia, o cercano di difenderli (ad esempio, i rapporti prematrimoniali). La situazione più penosa pel confessore si ha quando i penitenti (ragazze praticanti, ad esempio) rivelano tali colpe ed aggiun­gono di non vedervi nulla di male. Si tenterà (senza umiliarli) di toccare il loro cuore e di far capire che la Confessione non vale nulla se manca la convinzione, il pentimento ed il proposito. Ma oggi, per convertire certuni (che si dicono religiosi) pare non basti toccare il loro cuore: ci sarebbe da cambiare in loro tutta una mentalità. Corruzione di costumi ce ne fu, e tanta, in tutti i tempi (i confronti del presente col passato non sono facili perché bisognerebbe precisare i luoghi, i tempi più o meno re­moti). Il fatto oggi preoccupante è che se alcuni educatori, peda­gogisti e moralisti hanno contribuito ad illuminare i valori d'en­trambi i sessi per un sano umanesimo, « altri invece hanno pro­posto opinioni e modi di comportamento che sono in contrasto con le vere esigenze morali dell'essere umano giungendo al punto di aprire la via alle licenze dell'edonismo » (Dich. Pers. Hum., n. 1). Di qui un disorientamento ed una confusione degli spiriti, anche fra i cristiani: principi morali, finora indiscussi, sono stati fortemente messi in discussione e molti trovano sempre crescenti difficoltà nel prender coscienza della sana dottrina mo­rale e « finiscono col domandarsi quel che devono ancora rite­nere per vero » (Pers. Hum., n. 1). Quali frutti si può attendersi da questa perdita dei principi morali? S'incontrano giovani d'ambo i sessi i quali hanno talmente assimilato la concezione del libero uso della sessualità da esser incapaci di sentire la bellezza e la nobiltà della purezza prematrimoniale e della fedeltà coniugale.

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Tutte le norme restrittive sono viste come il residuo d'una morale anacronistica perché avrebbero avuto origine da un certo tipo di cultura e sarebbero ora superate (o messe in dubbio)'in seguito ad una nuova situazione culturale (cfr. Dich. « Pers. Hum. », n. 5). Ma, siamo chiari, questo è lo spirito del « mondo » a cui né la Chiesa né i confessori possono conformarsi. Gesù l'ha detto. Ed i penitenti che per principio sono irriducibili nel voler seguire la via larga non hanno diritto a ricever i sacramenti: se li chie­dono è una incoerenza, una contraddizione, un assurdo. Non si tratta solo di cadute per debolezza. Perciò la situazione di questi penitenti è tanto più grave. Non si nega che un complesso di fattori interni e di circostanze esterne (non ultima l'amoralismo dell'ambiente) possano talvolta diminuire la responsabilità nel singolo soggetto (cfr. Episc. Lomb.-Ven., Docum. sui principi mo­rali..., 2.II.74, nn. 19, 25). Spetta al confessore istruire e trattare ognuno con gravità e fermezza, comprensione e misericordia — secondo i casi.

Il lavoro per disporre e persuadere certi penitenti non si presenterà facile nel breve corso della Confessione. Si potrebbe illuminarli ed aiutarli anche suggerendo qualche libro. Ma non è facile impresa l'indicazione del libro che sia del tutto buono ed adatto al singolo. Bisognerebbe averlo letto attentamente e non fidarsi con troppa fiducia del giudizio altrui (e tanto meno delle recensioni). Specialmente oggi.

9. Dolore e proposito. L'arte divina di convertire i peccatori

È stato detto che pel passato ci si è troppo affidati all'« opus operatum » del sacramento e si è trascurato di procurare 1'« opus operantis » del penitente. Certo il confessore non è un meccanico distributore d'assoluzioni: se avverte che un penitente accusa pec­cati gravi con visibile leggerezza, cercherà di suscitare in lui dolore e proposito. L'assoluzione non è un biglietto di viaggio che, acquistato da chi paga il prezzo solo materiale dell'accusa, assicura l'arrivo a destinazione ". Ma — intendiamoci — il fatto

17 Anche in materia di indulgenze la Chiesa ha recentemente riaffermato — contro ogni mercantilismo — il primato della carità. Nella Costituzione « Indulgentiarum doctrina » del 1.1.1967 ha (contro qualche tendenza di

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stesso che uno chiede di confessarsi fa presumere che sia mosso da un sentimento di fede, d'umiltà, di pentimento; pentimento che, a sua volta, si presume autentico. Quest'autenticità sarà confer­mata da una accusa che appaia seria e sincera.

All'atto pratico occorrerà equilibrio: non pretender troppo, non accontentarsi di troppo poco.

1. Come maestro, il confessore, prima della sentenza, quando è conveniente, istruisce ed ammonisce il penitente. Come giudice, constata se è disposto, ma, come medico, cerca di disporlo. Quando è già sufficientemente disposto potrebbe assolverlo senz'altro. Ma è bene che rivolga a tutti qualche parola d'esortazione. Anche a coloro che sono ottimamente disposti. L'aspettano, la desi­derano. Desolante commento di qualcuna (ed anche di qualcuno) che torna dalla confessione: « Non m'ha detto nemmeno una parola. Nessuna soddisfazione. Non mi pare neppure d'essermi confessata ». Sono confessori diventati ormai vecchi e mestieranti? Ma taluni son giovani. Eppure han fretta di sbrigarsi dei peni­tenti. È venuto già meno il fervore delle primizie? Si considera questo ministero come un perditempo e come ormai superato? A nessuno conviene fare lunghe prediche, ma piuttosto servirsi di formule brevi, toccanti, incisive. È l'arte e l'abilità carisma­tica di certi confessori, pii, dotti, sperimentati: saper racchiudere in poche parole un concetto profondo, teologico, una massima penetrante, una direttiva adatta al singolo, accendere entusiasmi di vita spirituale. (I giovani confessori fervorosi tendono a far lun­ghi discorsi, tante e tante esortazioni e raccomandazioni, non sempre afferrate e poi non ricordate dal penitente, specialmente se è un ragazzo).

Il confessore psicologo cerca di dire quello che gli sembra corrispondente ai bisogni ed alla formazione del singolo peni­tente. Però non sbaglia mai quando — pio e sensibile — comunica quello che egli stesso vive, quando sa trovare quella parola di Dio che a lui ha fatto impressione e s'è dimostrata, sperimental-

teologi moderni) ribadito la dottrina teologica essenziale sul suo potere e sulla sua volontà di concedere la remissione della pena temporanea dovuta al peccato, ha raccomandato ai fedeli di non trascurare questo tesoro spirituale. Però ha ricordato che l'indulgenza è sostanzialmente un mezzo per unirsi maggiormente a Cristo. A tal fine la Chiesa ha proceduto ad una revisione. Nella indulgenza parziale la misura della remissione della pena è data dalla devozione del fedele e, per intervento della Chiesa, viene raddoppiata. L'in­dulgenza plenaria non si può acquistare più di una volta al giorno.

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mente, efficace. Le parole che vengono dalla convinzione, dal­l'esperienza, dal cuore — e non son dette solo colle labbra e solo perché si deve — incidono, anche senza bisogno di tante in­dagini psicologiche e tentativi.

2. Ci può esser qualche anima che ha bisogno di particolare cura. S. Alfonso consiglia il confessore d'impegnarsi ad aiutare e disporre all'assoluzione quanto può il penitente che ha davanti ed ha trovato non debitamente disposto: non si prenda pena che altri aspettino o se ne vadano. Attenda solo a chi gli sta davanti. « Ancorché vi fosse concorso di penitenti — scrive s. Alfonso — non si dia fretta più del dovere, si che per isbrigarne molti si abbia a mancare nell'integrità della confessione o nel disporre a dovere il penitente oppure nel dargli i dovuti avvertimenti » (Prat. del Confess., Append. I, 1, n. VII). È quanto raccoman­dava già il Segneri: « Dovrebbe il Confessore havere un cuor simile alle arene del Mare, come lo bramò Salomone, che per qualunque inondazione di flutti... non si commuovono. Che im­porta che i Penitenti, ch'aspettano sieno molti? Meglio è risa­narne pochi, che medicarne assai, e non guarirne niuno » (Il Con­fessore istruito, Venezia-Bassano, 1672, p. 28). Un consiglio assai benefico dal punto di vista soprannaturale ed anche naturale. Sarà vantaggioso al penitente e favorirà pel confessore uno stato di calma spirituale, impedirà l'agitazione e la tensione che nasce dal conflitto: dalla preoccupazione di attendere con cura al sin­golo penitente ed insieme dal dispiacere di far aspettare gli altri che fanno la coda per confessarsi. In tali casi però bisogna limitarsi al necessario e non dilungarsi in una direzione spirituale che si può rimandare ad altro tempo quando non ci siano peni­tenti che attendono.

3. Si dice che minore è la facilità di disporre coloro che hanno forte attacco ai peccati contro il quinto, o il sesto od il settimo comandamento: c'è chi nutre qualche radicato rancore od odio verso il prossimo, chi sembra accecato dalla passione sen­suale verso una persona (cosicché, avendola tutto il giorno vicina, gli è difficilissimo non ricadere nel peccato); c'è chi sente grande ripugnanza a restituire la roba d'altri. (Circa il sesto creano difficoltà specialmente gli occasionati ed i recidivi). Perciò con queste tre sorte di penitenti il confessore dovrà usare maggior carità ed esporre e proporre in modo più vivo i motivi di conver­sione. E specialmente a questi raccomanderà come medicina la frequenza ai sacramenti.

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4. Non si dimentichi che, se talora il penitente può mancare di sincero dolore e di buona volontà, in qualche caso ha bisogno che gli siano rettificate dal confessore (che è maestro) le idee sull'essenza del pentimento e del proposito, pena il pericolo di depressioni e scoraggiamenti.

Col dolore « perfetto » (o contrizione) il penitente detesta il suo peccato in quanto è offesa di Dio oppure in quanto è la causa della passione e morte di Gesù. Con questo atto chi era in stato di peccato si mette immediatamente in stato di grazia. E se ama Dio, ha pure virtualmente (anche se non cosciente­mente) il proposito di confessare i suoi peccati secondo la volontà di Dio. Tale efficacia rivivificante e risuscitante non è messa in dubbio pel fatto che il peccatore è mosso all'atto di carità dalla paura di morire e di non salvarsi: basta che emetta effetti­vamente l'atto di dolore il quale abbia come motivo immediato l'amore di Dio.

Raccomandazione da rivolgere abitualmente ai fedeli, nelle pre­diche e nelle confessioni: che rinnovino spesso, specie subito dopo ogni colpa grave, e la sera prima di addormentarsi, l'atto di carità teologale.

Unito al sacramento, anche il dolore « imperfetto » (od attri­zione) basta a giustificare il peccatore. Il suo motivo è meno per­fetto, dell'amor di Dio ma dev'esser anch'esso soprannaturale (la bruttura del peccato come « aversio a Deo » — un voltar le spalle a Dio —, il timore della Sua giustizia, delle pene anche temporali, ma in quanto hanno per causa Dio, non solo in quanto conseguenza naturale d'una vita dissipata...). Ed anche il dolore imperfetto deve implicare la volontà di lasciare il peccato decisa­mente, incondizionatamente, a qualunque costo, e senza eccezione per nessun peccato grave. In questo senso il dolore — dicono i moralisti — deve sempre esser « sommo », se si vuol che sia vero ed efficace; sempre, anche quando si ottiene la grazia, nel sacra­mento, in virtù dell'assoluzione. « Sommo »: in tal senso, non nel senso che debba esser il più perfetto, né nel senso che debba avere il massimo grado possibile d'intensità.

Nel dolore concepito per un motivo soprannaturale ed uni­versale (il timore, ad esempio, di perder col peccato grave la felicità eterna) è implicito evidentemente il proposito di non commetter più nessun peccato mortale. E se c'è l'esplicito propo­sito — che abbia un motivo soprannaturale — di non più com­mettere peccati, allora c'è pure il dolore dei peccati commessi;

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ma è certo meglio formulare, oltre all'atto di dolore, anche un espresso serio proposito.

5. Proposito fermo, efficace, universale, esteso (virtualmente almeno) a tutti i peccati gravi. Proposito d'una vita migliore ed anche di riparare il male fatto quando è possibile e doveroso (la fiducia illimitata nella Misericordia di Dio infinitamente Prov­vido, s'accompagna alla pronta volontà di cooperare colla grazia). Proposito quindi di fuggire le occasioni — quando, considerate le circostanze, la prudenza lo suggerisce — o, se non è possibile fug­girle, proposito di ricorrere ai mezzi per rendersi più forti della tentazione; proposito di procurare la riconciliazione col prossimo (se, tutto considerato, la carità lo consiglia) come raccomanda Gesù (Mt. 5, 23-24); proposito di riparare, eventualmente lo scandalo, o con l'esempio d'una vita rinnovata od, in qualche caso, con un atto esplicito; proposito di riparare anche il danno materiale fatto al prossimo, quando è possibile e quando, secondo i principi della giustizia, lo si è prodotto con un'azione veramente ingiusta, con causalità diretta ed efficace, con la deliberazione che implica una vera colpa « teologica » (e non solo « giuridica »), e via dicendo. Ad esempio, chi convive con un'altra persona senza valido matrimonio dovrà fare — secondo le circostanze — uno dei seguenti propositi: o sanare la situazione e regolarizzare la rela­zione contraendo il matrimonio (ma talora è impossibile; in qual­che caso, se possibile, domanderebbe grande coraggio) o decidere una rottura e separazione (per eliminare occasione e scandalo) o — se continua la convivenza — proporre la castità, ed altresì procurare in qualche modo che sia tolto lo scandalo cogliendo l'occasione per far nota ad altri la difficoltà d'una divisione — ci possono esser figli da educare — ma anche la volontà di vivere come fratello e sorella. Risoluzioni difficili, impossibili? Possono apparir tali, come, del resto, tutta la vita cristiana. Ma ciò che è impossibile colle sole forze umane, non è impossibile colla grazia. E se le difficoltà attuali, in certi casi, son tali che sembra giusti­fichino una certa qual buona fede, sono difficoltà nelle quali uno per sua volontà s'è posto.

6. Proposito fermo ed efficace. Vale a dire seria volontà attuale. Non significa propriamente e direttamente sicurezza nei riguardi del futuro, sicurezza che un'azione non sarà mai più posta. Riguarda l'affetto della volontà, non un evento. E riguarda il presente affetto della volontà; non si esclude che la buona

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volontà possa mutare: pel fatto che poi manca non è, per sé, segno che prima mancasse. Ed il proponimento sincero può coesistere col dubbio, anzi — per sé — colla previsione di una qualche ricaduta nel peccato (in certi casi, stante l'abitudine contratta dal peccatore, occorrerebbe dell'eroismo od un miracolo della grazia perché non ricadesse mai più): ma se ricadrà, lo farà non per la presente volontà — che è di non ricadere — ma per una diversa volontà. Ma qualche speranza di osservare il proposito, però, ci dev'essere: speranza fondata non sulle forze umane (con queste sole la ricaduta sarebbe certa) ma sulla grazia di Dio, dalla quale sempre si può aspettare la vittoria. Se non ci fosse proprio nessuna speranza, si avrebbe la disperazione, incompatibile colla disposizio­ne richiesta al penitente.

7. Il dolore dei peccati è quindi un sentimento molto deli­cato, quando è sano ed autentico. Dovrebbe scaturire naturalmente in chi ha la vera fede e sa di esser peccatore. Ma se si volesse far l'analisi di quest'atto psicologico, vi troveremmo una ricchezza ed un complesso di note, di qualità, di sentimenti, fusi con giusto dosaggio ed equilibrata proporzione. Non c'è dubbio, il pen­timento implica anzitutto un senso di sofferenza per il male com­messo; ma il rimorso ed il senso della colpa non restano soltanto un fatto psicologico spontaneo o determinato da qualche ragione umana. Nella Penitenza — che purifica e riconcilia — il motivo del dolore è anche soprannaturale: il più perfetto è il dispiacere d'aver offeso Dio; meno perfetto il timore di perdere la salvezza ed i beni soprannaturali. Questo dolore non è disgiunto dalla fi­ducia nella Miserciordia. Ma contiene anche un certo timore, al­trimenti potrebbe diventare presunzione. Senza la fiducia sarebbe inutile, sterile e, se intenso, porterebbe alla disperazione perché la colpa apparirebbe imperdonabile, il male irreparabile. Ma per chi crede davvero in Dio ed ha una lucida percezione della realtà, ciò non si verifica mai. La sua tristezza di esser un peccatore e di non esser un santo è serena e fidente. Mai sconsolata.

8. Per la pratica pastorale non è inutile ricordare come il pentimento è essenzialmente un atto della volontà. E voler avere il dolore, si può sempre. Istantaneamente. Perciò se ad un peni­tente sembrasse di non averlo, mentre desidererebbe provarlo, è già segno che lo ha: confonde il dolore voluto con il dolore sentito (il quale non è necessario). Se non avesse il dolore

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non sarebbe spiacente di non averlo 18. Il serio proposito di non commettere più il male è pure, in pratica, un criterio favorevole per supporre che esista anche il dolore del male commesso.

9. Ma c'è qualche penitente il quale riconosce che tutto quanto il confessore gli ha suggerito è giusto, tuttavia dichiara di non sentirsi di « promettere ». È persuaso di dover cambiar condotta. E non vorrebbe più peccare. Ma è avvilito perché tante altre volte l'ha promesso e poi è tornato daccapo. Perciò non osa più prometterlo sapendo d'esser tanto debole. Bisogna istruirlo che non gli è propriamente chiesto di « far promesse » come se avesse in mano, in base all'esperienza, le prove che è in grado di man­tenere la parola data, come se avesse la previsione e la morale certezza di non cadere più. « Proposito » non significa strettamen­te « promessa » a Dio, o voto (il quale, per esser prudente, vuole che il soggetto, in seguito ad un debito esperimento, abbia una cer­ta sicurezza di poterlo adempiere). Per sé dunque, ci può esser il fermo proposito di non più peccare ed insieme qualche timore di cadere ancora. Ma una speranza, ripeto, questa si ci dev'essere, speranza fondata sulla fede: « tutto posso in Colui che potenzia le mie forze » (Fil. 4, 13). A chi gli domandava un miracolo Cristo soleva chiedere un esplicito atto di fede (perché questa non era sempre implicita nella domanda di chi a Lui si rivolgeva per otte­nere un beneficio terreno). All'adultera non chiese un'espressa promessa di non più peccare. Disse che non voleva condannarla (alla pena della lapidazione). Ma, se perdonava il peccato, non poteva non riprovarlo. Perciò aggiunse: « va', e d'ora innanzi non peccar più» (Gv. 8, 11); in queste parole si può leggere, oltre alla raccomandazione, anche una qualche fiducia nella buona volontà di quella donna aiutata dalla grazia del Maestro misericordioso (Lagrange, Jean, p. 231). Quel che si richiede ad

18 « Confessarius... si videtur ei (poenitentem) non habere sufficientem contritionem, cohortetur eum ad maiorem concipiendam illis consideratio-nibus... quae sunt privatio gratiae, mors animae, amissio felicitatis aeternae, recessus a patrocinio divino, et accessus ad subiectionem diaboli. Deinde inducat illum ad Dei amorem propter quem dolorem et detestationem de peccatis praeteritis, propositum firmum cavendi sibi in futurum concipere debet. Quod si adhuc bis omnibus ad dolorem non sufficienter eum moveri consideret, interroget, an doleat, quod non doleat tantum, quantum deberet, et an vellet huiusmodi dolorem sufficientem concipere. Quod si annuat, satis erit... » (Navarrus, Encbiridion sive manuale confess. et poenit., cap. X, n. 4, Venetiis, 1597, p. 49).

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ogni penitente è di decidersi e di proporre risolutamente di non offender più Dio; e — per esser positivi — di ricorrere ai mezzi necessari (naturali e soprannaturali): non mettersi nell'occasione prossima di peccato, attingere la forza alla preghiera ed ai sa­cramenti. Bisogna persuadere il rtcidivo che se è tornato ancora/ a peccare non è perché sia debole (tutti lo siamo) ma perchéj non ha usato i mezzi lasciatici da Gesù Cristo per fortificarci.) Se vuol avere la vita, bisogna che il peccatore ritorni alla fonte della vita. Naturalmente, quando si tratta di anime che per tanti anni sono state abitualmente lontane dai sacramenti, occor­rerà con senso psicologico proporre e chiedere quella pratica sa­cramentale che, pel momento, si prevede di poter ottenere. Un programma d'assidua frequenza, da osservare di punto in bianco, spaventerebbe. Si agirà con tatto. Si far£ capire che le confes­sioni in seguito saranno più brevi e più facili. Si proporrà un arrivederci dopo un certo numero di giorni, o per la prossima festività ricorrente. Così il confessore colle sue industrie cercherà che il penitente, quasi senza avvedersene, contragga, un po' alla volta, l'abitudine di confessarsi frequentemente. Ma per ottenere questo bisognerebbe che il medesimo confessore guidasse il peni­tente in periodici incontri.

10. Giova insistere sull'intuizione e sull'abilità del confes­sore psicologo il quale saprà percepire e richiamare al singolo penitente i motivi di pentimento più adatti per toccarlo, com­muoverlo, smuoverlo quando stenta a decidersi per la conver­sione. Alle volte il processo di trasformazione è graduale. Dap­prima hanno efficacia motivi meno perfetti d'attrizione, sopran­naturali, ma interessati: il penitente è insensibile al fatto che Gesù è morto per lui, ma sente una naturale insoddisfazione intima, l'umiliazione per la propria debolezza e bassezza indegna, ha il timore d'una morte sulla quale pende la minaccia dei ca­stighi eterni... Per indurre i ragazzi e gli adolescenti a vincere l'abitudine impura è spesso efficace motivo farli riflettere sulla necessità di liberarsi dal rimorso stesso: rimorso che, in genere, tutti sentono, ma che si cercherà di mostrare, da un punto di vista soprannaturale, come un sintomo dell'assenza — dall'anima — dell'Amico Divino. Agli adolescenti più avanti negli anni, fidanzati o quasi, sarà efficace, pure, far sentire la bellezza e l'esigenza di portare un corpo puro a quella che sarà la compa­gna della vita. Ma perché il motivo diventi soprannaturale, bi-

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sogna non limitarsi a questo vantaggio solo terreno ma vederlo soprattutto nella luce della volontà di Dio: fin dalla eternità Egli ha amorosamente stabilito quella che sarà la compagna del­l'uomo per una vita felice; colla Sua Provvidenza condurrà en­trambi a realizzare quest'unione. E per prepararsi e corrispondere al disegno di Dio entrambi devono conservarsi puri.

11. Sarebbe sbagliato e segno d'una mentalità piuttosto gian­senistica il ritenere che l'atto d'amore e di dolore perfetto sia tanto difficile e riservato ad anime elette e perfette. Difficile è rompere qualche legame (che costituisce un'occasione prossima di peccato), rinunziare a qualcosa in cui una persona s'è invischiata. Ma la grazia ed il motivo dell'amore di Dio aiuteranno anche in questo l'anima che abbia sincera e buona volontà. Esperienza in­segna che, in genere, anche gli uomini materiali e grossolani si commuovono di più pensando a Dio offeso od a Cristo soffe­rente e morto per noi che non all'Inferno ed alle pene del pec­cato. Talvolta però, per scuotere certi spiriti freddi ed induriti dalla lunga abitudine di peccato, si sente il bisogno di richiamare pure il motivo dei « novissimi »: la morte ci può visitare repen­tinamente quando meno ce l'aspettiamo: cosa avverrebbe, allora, se non fossimo preparati ma in stato di peccato grave, cioè di rottura con Dio? Comunque, il confessore, oltre a richiamare al penitente che ne ha bisogno, questi motivi, può sempre proporre anche quelli più perfetti nella speranza che siano efficaci. Il timore è una scossa necessaria quando l'amore non basta. E perché il penitente si dolga per amore di Dio, bisogna ricordargli quanto Egli ci ha amati per primo: « Sic... Deus diiexit mundum ut Filium suum unigenitum daret » (Gv. 3, 16); quanto Gesù ci ha amati: « diiexit me et tradidit semetipsum prò me » (Gal. 2, 20). Il confessore invita il penitente alla contemplazione della croce con una triplice finalità: far sentire l'orrore per il peccato che è stato la causa della morte di Gesù; far comprendere quanto è mi­sericordioso Dio: a chi, pentito, crede in Lui, Cristo ripete: « oggi sarai con me nel paradiso » (Le. 23, 43); e — terza finalità — indurre l'anima penitente a vivere il mistero della croce: al mar­tirio d'una vita continuamente animata dal senso del dovere e della conformità al divino volere. Il confessore presenterà conti­nuamente ai penitenti l'immagine del Cristo morente: siamo noi — dirà — che l'abbiamo crocifisso per una passione disordinata, per la soddisfazione d'un istante. Ogni nostra ricaduta nel pec-

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cato è un'ingratitudine ch'egli ha prevista e della quale ha par­ticolarmente sofferto. Bisogna che il singolo senta la responsa­bilità del suo peccato e non la riversi sulla famiglia, la scuola, la società. È la contemplazione della Croce che gli farà sentire tutto il suo impegno ascetico di riparazione. Ma — è stato osservato — se ieri si insisteva prevalentemente sulla Croce, oggi si parla solo di Risurrezione, spezzando cosi l'unità del Mistero Pasquale. Il confessore è consapevole d'esser ministro d'un Dio che muore e risorge per noi. Ma è anche consapevole che la stessa conversione dell'uomo che si pente dei suoi peccati resta, per noi, un mistero. L'iniziativa viene da Dio (il quale non solo aspetta ma cerca il peccatore); però Egli attende la libera risposta dell'uomo. E que­sta risposta è, essa stessa, un dono di Dio, pur restando libera. Perciò complesso e misterioso è il fatto d'una conversione. E tale deve restare. Non resterebbe un mistero se volessimo troppo ac­centuare uno dei due fattori (grazia divina - libertà umana) rispetto all'altro. Il confessore sa che, per sciogliere il velo del mistero, dovrebbe avere l'esperienza diretta dello Spirito di Dio. Perciò, in definitiva, non gli resta che contemplare con ammirazione, stupore, umiltà e gratitudine, ed insieme con un senso di tremore, le meraviglie della grazia e le tremende possibilità ed incertezze della libertà umana.

10. L'assoluzione. Pedagogia e finalità del processo penitenziale

Secondo la norma del Catechismo Romano, se il confessore « udita la confessione avrà giudicato che non è del tutto mancata nel penitente la diligenza per conoscere i peccati ed il dolore per detestarli, può assolverlo » (De Poenit. Sacram., n. 60, Padova, Gregoriana, 1930, p. 247). Avere l'assoluta sicurezza che il peni­tente ha le debite disposizioni interne sarà spesso impossibile: basterà quindi, per il confessore, il giudizio prudente e probabile, solidamente fondato, che il penitente è disposto19. Constatato questo, se sussistesse anche qualche grave sospetto contrario, il

19 Se si esigesse di più, nota s. Alfonso, « vix ullus posset absolvi, dum quaecumque signa paenitentium non praestant nisi probabilitatem disposi- -tionis» (Th. Mor., 1. VI, tr. IV, e. I, dub. II, n. 461). Questa dottrina

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confessore zelante procurerà di eliminarlo con una esortazione al pentimento ed al proposito. Però, per sé, da parte sua può pre­sumere la positiva disposizione del soggetto (è la bontà che si presume — qualora ci fosse qualche dubbio — non la malizia). Qui dunque si tratta della condotta del confessore, delle dispo­sizioni del penitente come son viste dal ministro, della assoluzione da darsi o no; non dell'effettivo stato spirituale del penitente (che, per sé, potrebbe anche non corrispondere al giudizio del confes­sore, il quale agisce umanamente: non scruta i cuori come Dio). Ma in ordine all'assoluzione, egli potrà trovarsi di fronte a tre categorie di penitenti: quelli che gli appaiono certamente dispo­sti30; quelli che secondo il suo giudizio umano considera cer­tamente non disposti; e quelli di cui gli pare ci sia da dubitare. I primi hanno diritto, per giustizia, ad esser assolti subito. Se hanno da riparare eventuali danni colpevolmente prodotti, o da rimuovere qualche scandalo, basta, per sé, che abbiano il pro­posito di farlo21. Oggi, indizio di buona disposizione per certi uomini è già il fatto stesso che vengono a confessarsi — almeno se lo fanno spontaneamente; specie in certe zone scristianizzate, in paesi dove dominano movimenti antireligiosi. Indizi favorevoli sono il sacrificio fatto per venire a confessarsi, per attendere il proprio turno, l'atteggiamento di umiltà, di serietà, di fiducia in Dio.

Nel nostro tempo, grazie al maggior senso di libertà ed anche di coerenza nella pratica religiosa, vogliamo credere un'ipotesi il caso del peccatore che è attaccato al suo peccato anche nel mo­mento in cui s'umilia a confessarlo nel sacramento, pur sapendo che è gravemente contrario alla volontà di Dio. A parte questo caso, può verificarsi piuttosto quello di chi pare classificabile fra i dubbiamente disposti: da un lato non presenta un irriducibile

s'appoggia su un passo del Corpus juris canonici: « Judicium Dei ventati quae non fallit neque fallitur, semper innititur; judicium autem Ecclesiae non-nunquam opinionem sequitur quam et fallere saepe contingit et falli, propter quod contingit interdum ut qui legatus est apud Deum, apud Ecclesiam sit solutus » (L. V. Decretai., tit. XXXIX De sententia excommunicationis, e. 28, A nobis).

30 « Certamente disposti »: nel senso inteso — per la pratica — dal Catechismo Romano, sopra ricordato.

21 Si veda, nella parte riguardante le categorie dei penitenti, la questione degli « occasionati »: se per chi è in occasione prossima, continua e libera basti il proposito d'abbandonarla — perché possa esser assolto — o si richieda il previo distacco.

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rifiuto di lasciare il peccato grave o di adempiere qualche obbligo grave, dall'altro dà segni negativi che pare compromettano anche la solida probabilità della buona disposizione richiesta. Faccio l'esempio di chi ricade sempre negli stessi peccati senza dimostrar d'opporre resistenza alle tentazioni (se ne parlerà a proposito dei «recidivi»); di chi si confessa con una certa leggerezza e fred­dezza, senz'umiltà e senza propositi rassicuranti; di chi viene ai sacramenti più che altro (come risulta dal suo stesso colloquio col confessore) per far piacere alla moglie od alla madre e difatti nella confessione pare gli faccia difetto quella spontanea compunzione e quella personale convinzione che si desidererebbero... In questi casi l'assoluzione sarebbe da differire. Ma se c'è qualche ragione può esser consigliabile il darla subito (sotto condizione): in caso di pericolo di morte, d'infamia; se il penitente dovesse stare poi a lungo senza la grazia sacramentale; se ricorre il precetto annuale della Confessione e Comunione; se si tratta di persone che forse non hanno il pieno uso della ragione (ragazzi forse non ancora ca­paci della colpa grave cosicché si dubita se certe mancanze dipen­dano da malizia consapevole o da immaturità psichica); deficienti che si accusano ogni tanto di peccati gravi; fidanzati che si con­fessano prima del matrimonio... In linea di massima, oggi con­viene adoperarsi per disporre chi risulta dubbiamente disposto. C'è da temere che chi fosse invitato a ritirarsi per prepararsi me­glio, non ritorni più. Ed il miglior confessore non è quello che sa negare o differire l'assoluzione ma quello che aiuta il peni­tente a poter ricever l'assoluzione. Altro caso imbarazzante: quello d'un penitente che s'è posto in qualche situazione moralmente irregolare, dalla quale non vede più come poter uscire, pur rico­noscendosi peccatore. Si pensi a chi, sposato, s'è separato dal co­niuge, ha intrapreso un'altra relazione, ha avuto dei figli, forse ha ottenuto il divorzio. Rompere questa seconda relazione può presentarsi praticamente impossibile, essendoci di mezzo i figli. Qualche volta la gente ignora (solo il sacerdote lo sa) che si tratta d'una relazione che non è un vero matrimonio. I principi morali sono chiari. Per l'assoluzione, in casi del genere, il penitente che continuerà a convivere con l'altra parte dovrebbe aver il propo­sito di osservare la castità. Per la Comunione bisogna inoltre attender all'eventuale scandalo. A tale riguardo meno pericolo ci sarebbe se non fosse nota pubblicamente l'irregolarità dei due che convivono senz'esser sposati, o se la Comunione fosse fatta solo privatamente. Qualche facile moralista ha recentemente scrit-

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to al proposito che « si potrà sempre sostenerli con una parola buona e — se gradita — con una autentica direzione spirituale ». E questo senz'altro. Ma, è stato aggiunto, « oggi ci si chiede se debbano sempre essere esclusi dai sacramenti » costoro che in realtà vivono in concubinato. A qualcuno sembra che « il pro­blema dovrà esser studiato attentamente dalla chiesa locale nei suoi molteplici aspetti. Potrà esser utile concedere subito a per­sone responsabili il diritto di esperimentare un nuovo trattamento pastorale... Il problema — è stato scritto — è aperto. Ci vuole solo la volontà di risolverlo sul piano teorico da parte degli stu­diosi e sul piano pratico-sperimentale da parte dei pastori. In questa fase di esperimentazione è accettabile anche un pluralismo di opinioni ». S'intende proporre cosi un trattamento più « uma­no » coi divorziati, non negando loro i sacramenti della Confes­sione e della Comunione: non ci sono — si pensa — difficoltà « in foro interno », ma solo quella di evitare lo scandalo dei fedeli, ma si potrà evitarlo, si dice, se « i sacramenti saranno dati in una comunità che ha discusso il problema, o altrove, dove la coppia non figura irregolare ». Ed a conferma di questa tesi, qual­cuno crede di poter affermare che « tale prassi all'estero è oggi anche "approvata" almeno dal tacito consenso dei vescovi ». Ora, in queste considerazioni ci sono molteplici confusioni. Chi di­vorzia viola una legge morale non solo ecclesiastica ma divina e naturale (perciò non si può ammettere « epikeia » ) a . Chi divorzia si* pone dunque fuori della Chiesa: non può pretendere le grazie che sono concesse attraverso i sacramenti nella Chiesa. Situazioni

a Non si può propriamente ammettere, interpretando la mente del legi­slatore, che la legge naturale cessi in qualche caso particolare (cessazione della legge che i moralisti chiamavano epikeia). Difatti la legge naturale espri­me le esigenze della natura umana stessa, stabilisce un ordine indispensa­bile anche nei casi particolari e proibisce ciò che è intrinsecamente illecito (cfr. Suarez, De legibus, 1. 2, e. 16, n. 2 e 10; Vermeersch, I, 1947, n. 190). Solo una certa qual specie di epikeia si può affermare, cioè quando la legge naturale non è enunciata adeguatamente. Per esempio, è da render a ciascuno il suo, purché (si sottintende) lo chieda ragionevolmente. Non è lecito uccidere un innocente, salvo (si sottintende) il supremo dominio di Dio (cfr. Aertnys-Damen, Ih. Mor., I, 1944, n. 135). Non altre eccezioni ammetteva s. Alfonso (come appare da tutta la sua dottrina) quando affer­mava la possibilità dell'epikeia anche nella legge naturale (Th. Mor., t. I, 1. I, te. 2, n. 201). Altrettanto si dica di s. Tommaso (I-II, q. 94, a. 4 e 5; nella q. 100, a. 8, dimostra che i precetti del decalage» « sunt omnino indispensabilia »).

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tragiche, d'accordo, che possono, ad un dato momento, far sen­tire ad un'anima il bisogno dei sacramenti e tutta la sofferenza di esserne priva. Ma, se, essendoci dei figli da educare, è impossibile venire ad una separazione, e se, convivendo, ritengono che la castità è impossibile ed in buona fede sperano che la Provvidenza comprenda la situazione e non pretenda l'impossibile? Se questa buona fede è ipotizzabile, allora possiamo pensare che la Prov­videnza preparerà un'altra via alle anime di buona volontà. Non si dice che ci sono anche dei protestanti (non si sa quanti) i quali, in buona fede, senza i sacramenti hanno una fervente vita interiore ed un'intima unione di amicizia con Dio? Del resto, non si dimentichi che certuni domandano si i sacramenti, ma sono essi stessi convinti di non poterli ricevere perché sarebbe una in­coerenza; e ci sono anche motivi umani (sia pur rispettabili ed onesti, come l'esempio da dare ai figli) che li muovono a tentar d'ottenere ciò che si meraviglierebbero, essi stessi, intimamente, se fosse loro concesso. La sperimentazione delle Chiese locali non potrà cambiare la legge morale naturale. Nessun Vescovo può né espressamente né tacitamente approvare un confessore che assolva e permetta di accedere alla Comunione coloro che hanno divor­ziato, a meno che non abbiano il fermo proposito di vivere come fratello e sorella e non ci sia lo scandalo della comunità. Da taluni oggi si adduce la ragione del minor male: vale nella situazione di certi divorziati, dicono. Perciò, anche se non propongono di vi­vere castamente potrebbero esser assolti ed ammessi ai sacramenti quando « si amano generosamente, sono impegnati seriamente nel­l'educazione dei figli, pregano quotidianamente, soffrono per la lontananza dai sacraménti ». Ora, bisogna distinguere: ci po­tranno esser ragioni (specialmente l'educazione dei figli) che giu­stificano la convivenza, ma non l'unione sessuale: questa è con­cubinato e non si giustifica con la teoria del minor male: il male resta sempre male. Perciò il proposito di vivere castamente occorre in base alla dottrina sempre tenuta dalla Chiesa: è im­plicita nella semplice definizione che il Tridentino e il Catechi­smo Romano danno del dolore, primo requisito chiesto al peni­tente: « animi dolor, ac detestatio de peccato commisso, cum pro­posito non peccandi de cetero » (Cat. Rom., p. 227). Perché si abbia, vero dolore e vera penitenza bisogna, dice poi il Catechi­smo Romano, che il penitente si dolga di tutti i peccati, li con­fessi e pensi alla conversione. « Primum... necesse est peccata omnia, quae admisimus, odisse et dolere (il che in un divorziato

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che ama la sua compagna può esserci e può non esserci); ne si quaedam tantum doleamus, ficta et simulata, neque salutaris Poe-nitentia a nobis suscipiatur... Alterum est, ut ipsa Contritio con-fitendi et satisfaciencfi voluntatem coniunctam habeat... Tertium est, ut poenitens vitae emendandae certam et stabilem cogitatio-nem suscipiat » (pp. 231-232) (ed è questo che sarà difficile nei divorziati: il proposito di non continuare a vivere come marito e moglie in una unione anche sessuale la quale solo per gli sposati è legittima).

11. Trasformazione immediata o progressiva del penitente?

È curioso come quelli che criticano oggi la Confessione pri­vata, adducono varie ragioni che sono fra loro contraddittorie. Ad alcuni sembra che dovrebb'esser stimolata maggiormente l'attività del penitente (l'« opus operantis ») perché c'è pericolo che si con­fidi nell'« opus operatum » del sacramento come in uno strumento a magico effetto. Ad altri — al contrario — pare che si sia data, pel passato, troppa importanza alla riflessione psicologica, richiesta al soggetto penitente, e sia venuta meno la sua fede semplice nel­l'efficacia risanante e trasformante del sacramento, l'abbandono al Dio misericordioso, al Cristo redentore. Costoro pensano che il confessore, invece d'indicare ed esigere tante opzioni e propositi particolari secondo il metodo casistico, farebbe meglio a rimettere le decisioni alla coscienza del penitente suscitando, in lui, piutto­sto atti generali di fede, di speranza, di fiducia nell'ispirazione e nell'azione di Dio. In realtà, è una questione d'equilibrio, dal momento che la grazia, concessa da Dio nel sacramento, domanda la collaborazione dell'uomo.

Recentemente è stato scritto che secondo la dottrina del Con­cilio Tridentino « il perdono divino non è una semplice amnistia, ma causa una trasformazione progressiva del penitente, il quale, sotto l'influsso della grazia, faticosamente si eleva attraverso il ti­more, la speranza... fino alla riconciliazione con Dio » (Z. Alszeghy, Sarà abolita la confessione?, « La Civiltà Cattolica », 2.V.1970, p. 256). Certo non è un'amnistia perché l'amnistia può esser con­cessa anche se il reo non fosse intimamente pentito del male com­messo. Nella Penitenza è richiesta la riforma interiore, personale, libera: riconoscimento e dolore sinceri del peccato col propo-

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sito serio di non più commetterlo. Bisognerebbe però precisar meglio cosa s'intende affermando che il penitente, quando riceve questo sacramento inizia una progressiva conversione e trasforma­zione che lo porterà fino alla riconciliazione con Dio. Dobbiamo tener per certo che in chi ha il dolore, il sacramento opera imme­diatamente questa riconciliazione. Il Tridentino chiama bensì la Penitenza « laboriosus quidam baptismus » (come era stato detto dai Padri) (D.S. 1672) ma nel senso che questo sacramento richiede nel peccatore lo sforzo del pentimento e del proposito (il che non sarebbe richiesto in chi ricevesse il battesimo, raggiunto l'uso di ragione, senz'aver peccati personali). E lo stesso Tridentino aggiunge che non solo la contrizione (motivata dall'amore di Dio) ma anche l'attrizione (purché il motivo di questo pentimento — anche se inferiore alla carità — sia, almeno implicitamente, riferito a Dio e contenga il proposito di lasciare il peccato a qua­lunque costo), anche quest'attrizione basta ad ottenere l'effetto del sacramento (D.S. 1677). E dichiara esplicitamente che questo effetto « è la riconciliazione con Dio » (D.S. 1674). Riconcilia­zione che si opera certamente anche se tale grazia non è perce­pita e sentita. « Ordinariamente — è detto — avviene che le anime pie le quali ricevono con devozione questo sacramento, hanno ogni tanto un senso di pace e di serenità della coscienza con grande consolazione spirituale» (D.S. 1674). Il confessore deve assicurare quindi il penitente che, quando il dolore sopran­naturale (anche se non « perfetto ») non gli manca, può fer­mamente credere — grazie al sacramento — nel perdono imme­diato e gioire subito della ritrovata amicizia con Dio. Tutto il Vangelo attesta che la riconciliazione del peccatore con Dio av­viene istantaneamente, appena l'anima riconosce umilmente la sua colpa ed implora, pentita ma fidente, la salvezza. Il buon ladrone al compagno: « Nemmeno tu temi Dio... riceviamo quel che è dovuto alle nostre azioni... E diceva a Gesù: Signore, ricordati di me, giunto che sarai nel tuo regno. E Gesù gli disse: In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso » (Le. 23, 40-43).

Ricuperato lo stato di grazia, non sempre il penitente ottiene anche un'immediata conversione e riforma effettiva. Consigliato ed aiutato, all'occasione, dal confessore, avrà forse tutto un la­voro interiore da compiere per metter in pratica i propositi, to­glier gli ostacoli. Ed oltre alla conversione « morale » c'è quella « ascetica », dal bene al meglio. In questo senso si può dire che « il perdono divino causa una trasformazione progressiva del pe-

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nitente ». Però non bisogna confonder il perdono di Dio, che opera l'immediata riconciliazione del peccatore, con il lavoro di riforma che, praticamente, può conoscer ritardi, progressi e re­gressi. Né bisogna confonder l'ufficio di consigliere a cui il con­fessore può esser chiamato (per aiutare il penitente a perseve­rare nella grazia ricevuta, a realizzare quanto ha proposto) con quello di ministro del sacramento.

La dottrina cattolica — formulata dal Tridentino — sull'effi­cacia del sacramento nell'anima del penitente attrito contrasta con la concezione luterana. Secondo la quale il peccato cessa d'es­ser imputato quando l'uomo ha e sente ferma fiducia in Cristo redentore, e crede nel proprio stato di grazia, quale effetto della sola fede. Ma a questa certezza non si perviene se non attraverso grandi prove, sofferenze, fors'anche per la strada della dispe­razione. Una disperazione che salva se porta alla fiducia. L'attri­zione, invece, è — secondo il riformatore — un sentimento infe­riore che rende l'uomo ipocrita ed ancor più peccatore (D.S. 1677). I nostri peccati sono rimessi solo in virtù del sangue di Cristo. E perciò Lutero ritiene che da parte nostra abbia valore — in ordine alla salvezza — solo la fiducia nel Redentore.

Per quanto riguarda la pratica religiosa dei cattolici, se è giu­sto denunciare un uso del sacramento che si riducesse ad una specie di magia o sapesse di superstizioso, non bisogna però esa­gerare. Né quando si critica il passato, né quando si propongono riforme per l'avvenire. C'è anche il pericolo di far credere che il sacramento della Penitenza supponga nell'anima una cosi forte volontà di conversione, purificazione e santificazione da esser riservato a poche anime elette. Ma ci sono anche i deboli che ricadono nel peccato (e per insufficiente decisione di volontà e per la forte concupiscenza e per l'abitudine contratta) ma non mancan di fede, vorrebbero risorgere ed han bisogno della Con­fessione e della Comunione per eliminare, un po' alla volta, le loro ricadute nel peccato. Cristo — possiamo credere — vuole che la grazia del sacramento giunga anche a costoro, se sono sin­ceramente pentiti.

E non si dimentichi che la Confessione — se in certi casi domanda, per esser una cosa seria, la sincera e, si direbbe, eroica rinuncia ad un passato — però è un dono di Dio, prima e più che un atto di volontà ed un sacrificio dell'uomo. Dono della grazia, dono della liberazione, dono d'una vita nuova. Bisogna infonder nei penitenti questa fede. Senza di essa il peccatore

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che sente tutta la propria fragilità e l'invincibile concupiscenza — ed è coerente — non potrà né capire, né accettare, né desi­derare questo sacramento.

12. Il confessore deve ancora assegnare penitenze per i peccati?

Il confessore dev'esser un diligente ministro che cura l'inte­grità del sacramento. Dev'esser anche medico intento alla guari­gione delle anime dai loro vizi.

1. Perciò — dopo aver conosciuto lo stato del penitente e dati gli opportuni consigli — impone la soddisfazione (o peniten­za). Anche se si tratta di colpe solo veniali o di mortali già diret­tamente rimesse, non omette di suggerire una qualche penitenza, per quanto leggera. Soddisfazione che ha quattro finalità: ripa­rare l'offesa fatta a Dio; partecipare attivamente all'opera reden­trice di Cristo in unione con la Chiesa; ottenere il condono delle pene che restano da espiare dopo il perdono dei peccati; produrre un benefico effetto medicinale: reagire al male, puntare al bene ed al meglio. Spero non sia vero quanto si legge nell'inchiesta sulla Confessione fatta da « La Vie Spirituelle », dicembre, 1968, p. 487: che molti confessori ormai non assegnano più penitenze (mentre dalla stessa, inchiesta risulta che chi si confessa ne sente invece il bisogno e le desidera). Se fosse vero, sarebbe da con­cludere che per smania di novità si omette di dare alla Confes­sione tutto il suo senso penitenziale (come da molti si omette un minimo di direzione spirituale concentrata nelle brevi parole di esortazione). E poi — stranezza e contraddizione — s'accusa la Confessione privata d'esser diventata uno strumento per ottenere effetti quasi magici. Ma chi l'ha fatta diventare una magia?

Una qualche penitenza è da imporsi sempre (anche se questo obbligo del confessore e quello conseguente del penitente non sono gravi quando la materia della Confessione non è necessaria).

Al penitente, come atto e disposizione» necessaria, è richiesta l'accettazione della soddisfazione (imposta, s'intende, per peccati gravi confessati e rimessi per la prima volta). L'adempimento della soddisfazione non è parte essenziale, ma integrante, del sacra­mento già ricevuto.

La penitenza dovrebb'esser, per sé, proporzionata alla gravità

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ed al numero dei peccati accusati, nonché alla condizione del pe­nitente. Si può sempre assegnare un'opera già comandata da un'altra legge (come la partecipazione alla Messa festiva, la Co­munione pasquale). In questo modo e con altre industrie non è difficile imporre una penitenza per sé grave la quale sarà com­piuta dal penitente senza tanta fatica. Ad esempio si può asse­gnare la Comunione (con l'aggiunta di qualche preghiera): Comu­nione che molti hanno già intenzione di ricevere dopo la Con­fessione. Ottima soddisfazione da suggerire è qualche opera in-dulgenziata: ad esempio l'acquisto del Giubileo, quando ricorre: è una penitenza grave e tale resta anche per chi è venuto a con­fessarsi proprio in vista del Giubileo. Quando, in altri casi, non consta della possibilità e intenzione del penitente, gli si chiederà, per delicatezza, se può e si sente di fare l'opera prescritta dal­l'indulgenza plenaria. (Chi è impedito da malattia o da altra grave causa può acquistare il Giubileo senza far visita alla chiesa, offren­do le proprie sofferenze ed unendosi agli altri con la preghiera). Ma le indulgenze, oggi, da qualche cattolico che vuol evitare una materia di dissenso coi Protestanti, son considerate con poca simpatia; oppure si va dicendo che la concezione cattolica tradi­zionale dell'indulgenza è superata. Ma sostanzialmente non c'è stato cambiamento da parte del Magistero: la Chiesa raccomanda ancora di non trascurare questa pratica santa, basata su sicuri fondamenti teologici; tuttavia, è vero, ha affermato il primato della carità e dell'unione a Cristo (per esempio abolendo, nell'in­dulgenza parziale, la misura in giorni o anni e prendendo invece come misura la pietà, la devozione, il fervore personale del fe­dele); con la stessa finalità la Chiesa ha stabilito che l'indulgenza plenaria non si possa acquistare più d'una volta al giorno ed ha sottolineato la necessità del distacco da ogni affetto disordinato. Ma, ripeto, la Chiesa raccomanda che non si trascuri la pratica delle indulgenze. In quella parziale, per intervento della Chiesa, vien raddoppiata quella remissione della pena che il soggetto ottiene nella misura del suo fervore.

Di questo dono della Chiesa si può approfittare, quindi, nella prassi delle penitenze per i peccati. »

Sarà edificante quel confessore il quale, intuendo che il peni­tente difficilmente compirebbe una grave soddisfazione, lo av­verte che si assumerà — in sua vece e in suo favore — l'aggiunta di qualche altra opera penitenziale. Comunque, può sempre chie­dere al penitente se un'opera gli è troppo difficile, o dare una

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certa opzione aggiungendo che ha facoltà di compiere l'opera quando vorrà e quando potrà farlo agevolmente. Se poi il peni­tente fosse incapace di fare alcuna penitenza positiva, non sarebbe necessario imporla, neppur colla clausola di farla quando potrà. È il caso di certi ammalati gravi: si potrà suggerir loro un'invo­cazione, dar a baciare il crocifisso, invitarli a sopportare con fede i dolori come una penitenza per aver il pieno condono delle man­canze ed acquistare incommensurabili meriti per l'altra vita.

2. La penitenza, come si disse, dovrebb'esser anche medicinale (oltre che penale). Medicinale significa non solo proporzionata alla gravità dei peccati, ma corrispondente alle specifiche condizio­ni ed infermità spirituali del soggetto. Perciò la prassi di dare a tutti come penitenza la recita di qualche preghiera, non sarebbe l'ideale. Ma anche nel correggere quest'abitudine bisogna andar cauti. Alle volte qualche penitenza — che non è ardua ed,.insie­me, corrisponde alle colpe commesse — si offre a portata di ma­no: a chi s'accusa d'aver mancato alla carità verso qualcuno si può suggerire di dire una preghiera proprio per quella persona. Qualche giovane riflessivo e generoso propone lui stesso al con­fessore che, come penitenza per peccati d'impurità, gli sia impo­sta l'astinenza da qualche soddisfazione, non proibita, della gola (stare un giorno senza fumare). Se lo chiede il penitente non v'è difficoltà. Ma se lo propone il confessore c'è qualche pericolo: che il penitente, al momento, abbia timidità nel rifiutarsi o pensi di mantenere il proposito ma, poi, per una causa o l'altra, non lo adempia. Per evitare queste complicazioni, il confessore per lo meno dovrebbe chiedere al soggetto se gli pare d'esser libera­mente e sinceramente disposto a fare una penitenza simile. Co­munque, per una ragione o l'altra, praticamente e normalmente ci si riduce ad imporre come penitenza la recita di alcune preghiere o la Comunione. I penitenti desiderano una penitenza che sian sicuri di compiere e di compier presto; non amano certo con­trarre obblighi a lunga scadenza; tanto meno se non avessero, per oggetto, prestazioni ben definite o dipendessero da qualche circostanza aleatoria (« fare un atto di carità verso una persona quando si presenterà l'occasione »: ma cosa? e quando?). Il Ca-fasso voleva e cercava che le penitenze fossero brevi, ben deter­minate, pratiche, esterne. In definitiva, le preghiere restano sem­pre un'ottima penitenza (anche se sembran poco medicinali). Sa­rebbe certamente sbagliato dar l'impressione che la preghiera sia

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! ?

anzitutto una penitenza o sia la sola penitenza possibile. Ma £on è il caso d'aver scrupoli e rimorsi nell'assegnarla come penitenza. Basta pensare quale valore ha quest'atto se vi si mette il cuore. È ciò che meglio corrisponde — come gesto libero e gratuito — al perdono gratuito di Dio. Certamente le penitenze che, secoli addietro, venivano imposte ai convertiti erano più gravi di quelle oggi in uso. Con ciò si metteva più in rilievo l'offesa fatta a Dio e l'esigenza della riparazione. La mitezza delle penitenze odierne mette invece in evidenza la misericordia ed il perdono di Dio per suscitare sentimenti di gioiosa riconoscenza nel peccatore. Sa­rebbe segno d'una mentalità farisaica la pretesa di ricomporre l'equilibrio fra i nostri debiti e la giustizia di Dio « ad aequa-litatem » (come nella giustizia commutativa). La penitenza re­sterà sempre e soltanto un umile gesto che testimonia la nostra buona volontà rinascente (cfr. « La Vie Sp. », 1968, XII, 484): è la misericordia di Dio, sono i meriti di Gesù Cristo che ci sal­vano. Una vita di macerazioni non sarebbe che un granello di sabbia gettato su un foglio sterminato di debiti. Ed « il perdono non è un'"oncia" di grazia ma il dono stesso dello Spirito, il quale non conosce la misura e di cui abbiamo bisogno in maniera smisurata » {Orient. per un rinnov. della prat. perni., o.c , p. 35).

13. « Amico prudente e fedele » (Cat. Rom.)

Pel confessore — « vicario di Cristo Signore » — dice il Ca­techismo Romano {De Voenit. Sacram., n. 37, p. 235) « è stabi­lita... la legge severissima del perpetuo silenzio ». La legge natu­rale lo obbliga al segreto su ciò che gli è rivelato dal penitente ai fini d'un consiglio. Ma c'è un vincolo estremamente più stretto, assolutamente inviolabile: il « sigillo sacramentale ».

1. È inerente ad ogni Confessione « sacramentale » e soltanto alla Confessione sacramentale. Sacramentale è la Confessione fatta per ottenere l'assoluzione. Il sigillo tiene anche se la Confessione fu solo cominciata, o sacrilega, anche se venne negata l'assoluzione e non si ebbe il sacramento. Non ci sarebbe invece nessun obbligo del segreto se constasse che una persona (son fatti reali) s'è finta penitente ed ha intrecciato un colloquio col confessore solo nel­l'intento di sentire (o registrare) le sue risposte a scopi, ad esem­pio, pubblicitari. Ma se l'intenzione d'un penitente è d'ottenere l'assoluzione, egli ha una cauzione ed un salvacondotto che lo assi-

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cura contro ógni rivelazione (ed ogni uso indesiderato) di quanto confida al confessore. Appunto perché egli ha il dovere di esporlo al sacerdote solo al fine d'ottenere l'assoluzione. Le regole comu­ni riguardanti l'obbligo del segreto naturale non bastano dunque: non cesserebbe l'obbligo del sigillo neppure se urgesse evitare uno scandalo pubblico; piuttosto che violare il sigillo si dovrebbe persino amministrare il sacramento della Comunione ad un sacri­lego; e se una persona violasse il sigillo narrando un peccato udito stando presso il confessionale, tutti coloro che ne venissero a conoscenza sarebbero gravissimamente obbligati al segreto.

2. Ho parlato di « rivelazione » e di « uso di notizie » avute in Confessione. Il CJC (e. 889; 890) fa una chiara distinzione (mentre in molti autori del passato si nota una certa confusione). Rivelazione, o pericolo di rivelazione: è la violazione propria­mente detta del sigillo. Diretta, quando vengono manifestati aper­tamente il peccatore ed il suo peccato. Indiretta quando si narra il peccato, oppure si rivela il peccatore, ma col pericolo che chi ascolta colleghi i due termini. Questa violazione propriamente detta (sia diretta, sia indiretta) è sempre intrinsecamente illecita e quindi assolutamente proibita. Sempre è stata ritenuta tale, anche se la rivelazione avesse per oggetto un minimo peccato veniale. Dalla violazione propriamente detta del sigillo (e quindi anche dalla rivelazione indiretta) il Codice ha distinto l'uso delle notizie acquisite dalla Confessione. Quest'uso è detto « omnino prohibitus » se fatto « cum gravamine poenitentis ». Perciò se un Superiore, dopo aver ascoltato la Confessione d'un dipendente (il che, per ovvi motivi, è sconsigliabile), cercasse tutti i pretesti per espellerlo dalla casa (decisione che non avrebbe presa senza le informazioni avute dalla Confessione) farebbe un uso illecito di tale conoscenza acquisita: illecito appunto perché gravoso al penitente. Non è invece proibito, anzi, che il confessore — co­noscendo meglio dalla Confessione un penitente, le sue difficoltà ed i suoi sforzi — gli mostri più stima e benevolenza di prima. Ma il confessore non può rifiutare la Comunione ad un penitente che gliela domanda se solo dalla Confessione fosse venuto a sa­pere che il soggetto non può, al momento, riceverla pubblica­mente per ragione di scandalo (ad esempio d'un notorio concu­binato). Neppur potrebbe pregare la concubina (in base a quanto ha conosciuto solo dalla Confessione) d'allontanarsi durante la Comunione dalla stanza del morente, per evitare lo scandalo. È al penitente, durante la Confessione, che il confessore deve di-

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! chiarare quanto deve fare; oppure a lui deve chiedere il permesso di dare qualche avviso necessario perché sia tolto lo scandalo. (Perciò è consigliabile che, prima di portare ad un ammalato, non ben conosciuto, la Comunione, il sacerdote gli faccia qualche visita per rendersi conto della situazione e delle disposizioni del soggetto).

Il confessore d'una comunità, alla quale egli tiene pure delle istruzioni, può bensì — per esser pratico — prender i temi anche da quanto apprende nelle confessioni. Purché però si tratti di difetti che, più o meno, si trovano in tutte le comunità del genere. Non, invece, se si trattasse di disordini particolari propri di quella singola comunità. D'altra parte non si deve neppur para­lizzare la predicazione con esagerati riguardi e timori che qual­cuno possa collegare quanto ascolta con quanto ha accusato, in Confessione. Con tali ansie un predicatore (che sia anche con­fessore in una comunità) non colpirebbe mai efficacemente il male. Scriveva il Frassinetti colla sua saggezza ed equilibrio: « ... Neanche in materia di sigillo... sono buoni gli scrupoli, sem­pre d'altra parte riprovevoli, sempre dannosi. Ecco adunque la regola da tenersi. Dei peccati sentiti in Confessione non si parli mai senza che vi sia una qualche utilità di parlarne, e non se ne parli neppure quando non paia esservi alcun pericolo di violazione di sigillo. Che se invece siavi qualche utilità di parlarne: quando cioè siavi qualche utilità di servirsi delle cognizioni avute per mezzo della Confessione, non se ne parli mai ove siavi un vero morale pericolo di far conoscere direttamente o indirettamente chi li abbia commessi, oppure ove siavi un vero morale pericolo che il penitente soffra gravame dalla sua Confessione. Quando poi il pericolo è soltanto possibile, non vi si deve attendere. La ragione è, perché il possibile non può essere regola per le umane azioni, né quanto al farle, né quanto all'ometterle... L'uomo deve far caso soltanto di ciò che è probabile, e non guardare mai al possibile... Lo scambiare il probabile col possibile è la fonte d'in­numerevoli scrupoli, abbagli ed errori » (Compendio della T. Mo­rale di s. Alfonso, I I , Torino, S.E.I., 1937, pp. 183-184).

3. La casistica in questa materia è abbondantissima. I mora­listi parlano anche di una violazione indiretta del sigillo « in senso largo » che si avrebbe quando il confessore raccontando ad altri un peccato udito da un penitente che appartiene ad un gruppo o ad una comunità, facesse sorgere il sospetto su tutti i membri

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di quella comunità (sospetto tanto più probabile e pericoloso quan­to più esiguo è il gruppo); oppure quando il confessore viene cosi a ledere la fama di una comunità (numerosa) o di un luogo (esclu­so ogni pericolo di sospetto nei singoli). Ma è meglio lasciar la casistica e tener l'aurea norma: « non parlare mai... né in pub­blico né in segreto di ciò che è avvenuto in confessionale, nep­pure usando le cautele che sembrassero sufficienti a salvare il sigillo » (G.M.C., Tratt. per confessori, p. 38). Difatti i fedeli hanno un concetto altissimo del segreto sacramentale: presumono che tutto quanto è detto al confessore sia sepolto in una tomba. Qualche confessore, ad esempio, chiacchierando, racconta ad altri che una data persona (che tutti sanno esser suo penitente) è piena di scrupoli, o ha la tendenza allo scrupolo. Nessun penitente che venisse a saper queste indiscrezioni sulla sua coscienza, lo sop­porterebbe di buon animo, neppure se si tratta di difetti o ten­denze che sono note anche fuori della Confessione.

Quando, nella soluzione d'un caso difficile, il confessore aves­se bisogno di consultare qualche altro, ricorra ad un teologo al quale il penitente è completamente ignoto; se ciò non fosse pos­sibile, proponga al sacerdote consultato un caso fittizio,'lo vesta di circostanze cosi diverse dalle reali che non si possa mai so­spettare del vero penitente. In caso estremo chieda licenza al penitente (purché però sia delicato nel chiederla e la concessione sia pienamente libera). Altrimenti non gli resterebbe che risol­vere da solo il caso prendendosi il tempo necessario per riflet­tere, studiare, pregare.

4. La Chiesa nel CJC, e. 889, § 2, dichiara che il confessore ed anche « tutti coloro ai quali in qualsiasi modo giungesse qual­che notizia di confessione » — sulle colpe da altri accusate nel Sacramento — hanno il dovere di rispettare l'inviolabilità del sigillo. In materia di tanta gravità e delicatezza aggiunge anche delle sanzioni per impedire violazioni dannose al singolo peni­tente ed alla comunità tutta dei fedeli. C'è la scomunica riservata « specialissime » alla S. Sede (CJC, e. 2369), la quale però col­pisce solo « il confessore » che con coscienza certa e con pieno dolo rivelasse direttamente peccato e peccatore.

Una recente dichiarazione del 23 marzo 1973 della S. Congr. per la Dottr. della Fede ha annesso la scomunica (non riservata però) al peccato di chi si permettesse registrare confessioni vere o simulate, e di chiunque prendesse consapevolmente parte alla loro pubblicazione (come autore o come collaboratore). Tale mi-

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sura ha lo scopo di tutelare il segreto della Confessione (od, in ogni caso, il rispetto dovuto al Sacramento) contro chi volesse violarlo con mezzi che finora non erano stati ipotizzati (AAS, 65, 1973, 678).

5. « Amico prudente e fedele »; « vicario di Cristo Signore » (Cat. Rom., De Poen. Sacram., n. 37, p. 235). Se il confessore è vicario di Cristo, il suo intento e tutta la sua preoccupazione de­v'esser di condurre le anime a Lui. Non già conquistarle al pro­prio affetto umano. E tanto meno approfittare della Confessione per permettersi qualche atto meno puro. Dovrebb'esser un assurdo che il sacramento dell'amore di Cristo fosse strumentalizzato per fini indegni. Eppure l'uomo — anche se sacerdote — può trovar tentazioni in questo santo ministero. La Chiesa lo ha previsto. E per proteggere il sacramento e scongiurare la rovina delle anime ha stabilito severe sanzioni contro abusi del genere (CJC, e. 884; e. 2367; e. 904). Trattandosi di leggi penali umane, la casistica è vastissima ed intrincata. Si trova in tutti i manuali scolastici di teologia morale e di diritto canonico. Nel capitolo seguente ne tratterò ma solo schematicamente, omettendo la sterminata ca­sistica.

14. La santità del sacramento da proteggere contro ogni abuso

Il demone della lussuria è sempre in agguato. Non lo placa il matrimonio (giovani che si son conservati intemerati fino alle nozze confessano che la lotta più ardua è venuta dopo: per osser­vare la castità « coniugale » e la legge di Dio nell'uso del ma­trimonio). Ed anche nel più santo dei ministeri il demonio im­puro cerca d'insinuarsi, subdolo e mascherato, perché odia la Confessione che gli strappa di mano tante anime. Perciò, affin­ché non avvenga che il Sacramento del Cuore di Gesù sia profa­nato e diventi uno strumento di rovina, anziché di salvezza, af­finché sia tenuta lontana ogni possibilità d'abuso, la Chiesa ha stabilito alcune sanzioni severissime. Devono servire per far osser­vare ai confessori ed ai penitenti la debita prudenza nei loro rap­porti. Perché, se qualche abuso è avvenuto, agli inizi si è trattato solo di imprudenze. Ma l'imprudenza in materia delicatissima può avere le più gravi conseguenze ed esser fatale.

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Tre disposizioni severissime. 1. La Chiesa priva il confessore della giurisdizione ad assol­

vere il complice in peccato turpe (CJC, e. 884) perché non suc­ceda che un sacerdote si permetta di peccare con una persona assicurandola che poi la potrà assolvere. Però quando si parla di « complicità » s'intende un peccato grave contro il sesto coman­damento, grave anche se non completo e consumato, grave nel­l'una e nell'altra parte, grave esternamente ed internamente.

Solo in pericolo di morte la Chiesa (che è madre preoccu­pata soprattutto della salvezza delle anime) concede al sacerdote la facoltà d'assolvere validamente la persona complice; ed a questa è sempre lecito, in tale frangente, chieder di confessarsi presso il suo complice (e. 884).

2. Altra disposizione. È stabilita la pena della scomunica riservata in modo specialissimo alla S. Sede contro il confessore che assolva o finga d'assolvere il complice in peccato turpe (e. 2367): pena che il sacerdote incorre anche se il penitente confessandosi tacesse tale peccato perché persuaso dal confessore che non è peccato. Ma perché si incorra in questa sanzione occorre che il peccato contro il sesto comandamento sia grave (anche se non completo e consumato) nell'una e nell'altra parte.

3. Terza legge severissima. Perché il Sacramento della puri­ficazione e della riconciliazione non diventi occasione a commet­tere delle colpe (particolarmente in materia d'impurità) la Chiesa ordina che il confessore il quale (approfittando del ministero della Penitenza) si rendesse reo di « sollecitare » (cioè d'indurre od invitare) un penitente a cose turpi, dev'esser denunciato entro un mese al Vescovo (od al suo vicario generale) oppure alla S. Congregazione per la Dottrina della Fede (CJC, e. 904); ed un confessore che dal penitente « sollecitato » vien a conoscere tale abuso, deve imporgli la denuncia da farsi entro il mese (e. 2368, § 2) — sempre supposto che l'obbligo di tale denun­cia sia, in base al e. 904, certo. Difatti, affinché si verifichi il caso contemplato dalla legge e colpito dalle sue sanzioni, biso­gna che consti con certezza la prava intenzione libidinosa del confessore. Non basta una imprudenza per quanto grande23.

23 E la « sollicitatio » colpita da questa legge ecclesiastica deve proce­dere dal sacerdote « come confessore »: cioè, come precisa la Costituzione Sacramentum Poenitentiae di Benedetto XIV (1.VI.1741), citata dal CJC,

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Quindi, prima d'imporre una denuncia, bisogna esaminare accu­ratamente le circostanze del caso per rendersi conto che si veri­ficano tutte le condizioni. Nella incertezza — sul dovere o meno d'una denuncia o sul modo di procedere nel farla — il peni­tente farà bene a consigliarsi in Confessione con un sacerdote stimatissimo, osservando con tutti gli altri il segreto perché non nasca scandalo o non si procuri uri grave danno ad un confes­sore che forse ha agito più per imprudenza ed ingenuità che per malizia. Qualora non urga l'obbligo giuridico della denuncia, ma appaia comunque opportuno, per una esigenza morale naturale, un intervento (per evitare il pericolo d'altri scandali) si cercherà la via migliore per far pervenire al confessore colpevole un pri­vato e fraterno avvertimento, una « discreta ammonizione » (PO, 8). Magari si potesse con questo aiuto tempestivo impe­dire ulteriori imprudenze del genere e cosi evitare il naufragio morale con tutte le conseguenze e l'obbligo della denuncia impo­sta dal diritto.

La Chiesa, se tutela la dignità del sacramento della Pe­nitenza contro i possibili abusi per colpa dei confessori, nel tempo stesso però difende il confessore contro le false accuse. Gravissime sanzioni spirituali sono stabilite contro chi falsamente denuncia, con procedimento giuridico, un sacerdote d'aver abu­sato del suo ufficio di confessore per fini impuri (cfr. CJC, e. 894; e. 2363). Sanzioni dalle quali non si può assolvere il col­pevole senza prima esigere la ritrattazione della falsa accusa, con uno scritto firmato od una dichiarazione di fronte a due testi­moni (a meno che ciò non sia impossibile perché la morte è immi­nente). Inoltre — come è stabilito nella Lettera Apostolica « In-tegrae servandae », data « Motu Proprio » di Paolo VI, del 7.XII.1965 (AAS, 57.1965, 952-955) — il confessore, anche se reo, ha sempre, d'ora innanzi, « la facoltà di difendersi o di sce­gliersi un difensore tra quelli che sono autorizzati dalla Congre­gazione » (n. 8) per la Dottrina della Fede (prima che si pro­ceda contro di lui).

e. 904, quando ha luogo nell'atto della Confessione, o immediatamente prima o immediatamente dopo, o in occasione della Confessione (non avvenuta), o sotto pretesto della Confessione (non avvenuta), o in confessionale od in luogo stabilmente adibito alle confessioni oppure provvisoriamente scelto ma con simulazione della Confessione.

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Parte seconda

CATEGORIE DI PENITENTI

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A. Secondo l'età ed il sesso

1. Fanciulli

Gli psicologi distinguono molteplici tappe nel processo evo­lutivo dell'uomo: la prima infanzia che arriva fino ai quattro anni circa; la seconda infanzia dai quattro ai sette circa; la fan­ciullezza dai sette-otto agli undici-dodici circa, cioè fino alla preadolescenza che comprende un paio d'anni (ed è un po' anti­cipata per le fanciulle, rispetto ai ragazzi). Pel nostro fine pasto­rale — la Confessione e la direzione spirituale — si prenderanno in considerazione le grandi categorie dei fanciulli, degli adole­scenti e dei giovani.

1. La Confessione dei fanciulli — ed in particolare la loro jprima Confessione — merita tutta la nostra attenzione. Di­fatti — come IT stato osservato — il modo di fare le prime Confessioni diventa per molti la regola di quelle che faranno in futuro. I difetti possono trascinarsi per tutta la vita. Talvolta crescono con gli anni (A. Grazioli, La Confessione dei giova­netti, Torino, 1935, p. 49). Diceva il cardinale Merder ai suoi parroci, curati, vicari: « Non potete rendere alla vostra parroc-

' chia servizio migliore che preparando con zelo apostolico i vostri bambini alla prima comunione... alla confessione... È a piccolis­simi gruppi, ad ore in cui non sono sbandati, dopo una prepa­razione generale, pia, raccolta, che i fanciulli devono accostarsi con rispetto e compunzione al s. sacramento della penitenza. Ed

[il momento è eminentemente propizio per dare a ciascuno di | essi una istruzione personale ed una direzione. Six una direzione. Dalla più tenera età, bisogna, con consigli ed esortazioni appro­priati, far intrawedere ai fanciulli l'ideale della perfezione evan-

' gelica, far loro desiderare, al di sopra di tutto, l'amore di Nostro Signor Gesù Cristo, le relazioni d'amicizia con lui, il culto del Verbo di Dio e del suo Santo Spirito nel santuario della loro

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anima. Quanti non ci sono tra noi nei quali il primo bagliore dalla vocazione alla vita sacerdotale ha fatto la sua prima appa­rizione nell'anima il giorno della prima comunione? » (La vie intérieure, Bruxelles, 1918, pp. 245-246). E non si creda che per poter esser santi si debba diventare più maturi d'età. « Si può esser santi a dieci anni. Le grandi idee d'unione a Dio, di rinun­cia, di spirito di sacrificio sono accessibili a queste anime ancora pure, delle quali lo Spirito Santo ha fatto il suo santuario. Una delle grandi opere realizzate dal Papa Pio X, di santa memoria, è d'aver aperto le anime dei fanciulli alla recezione della Santa Eucaristia, prima che fossero alterate per il peccato mortale » (D. Mercier, La vie int., p. 245). I fanciulli poi offrono terreno propizio alla nostra pastorale della Confessione perché, anche se sono facili alle mancanze quando non hanno ancora piena cono­scenza e coscienza della legge morale, poi, appena ne sono avver­titi, sono sensibilissimi al rimorso. Quindi, anche se hanno pec­cato, facilmente si dispongono all'assoluzione. « Assai più facil­mente che i cuori degli adulti » — scriveva il Frassinetti — per­ché « sono ancora semplici né tiranneggiati da vecchie passioni » (Manuale pratico del parroco novello, Alba, 1928, p. 367). Lo stesso Frassinetti riportava una lettera scrittagli dal moralista P. A. Ballerini S.I., che, fra l'altro, diceva al proposito: « Credo difficile trovare un fanciullo che non senta subito rimorso, e grave, del male fatto: ...essendo annessa all'idea di confessarsi quella di dovere e voler essere buono, niente pare più facile che l'avere i fanciulli disposti a ricevere la grazia del Sacramento » (ivi). Ed aggiungeva il Frassinetti: « che se poi con facilità rica­dano, non è a credere che fossero male disposti quando furono assolti; ma invece è da giudicare che sieno caduti per mutazione di volontà, in essi assaissimo volubile ed incostante. Ed è per questo motivo che ritornando a confessarsi, con molta facilità si devono nuovamente assolvere, perché assai agevolmente si farà loro concepire nuovo dolore dei peccati, il quale basti per loro giustificazione; il che s'intende quando non siano in occasioni libere di peccati che non vogliono abbandonare » (Manuale del par­roco nov., pp. 367-368).

I fanciulli, poi, spesso han particolare bisogno di trovare nel confessore appoggio, comprensione, bontà. « Fanno ben presto esperienza sofferta della vita... È desiderio di avere e delusione per ciò che non si può realizzare. Alcuni fanciulli portano nel loro corpo i segni di mali incurabili » (Il Catechismo dei fanc. « Io

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sono con voi», Ed. C.E.I., 1974, p. 107). Anch'essi possono attraversare periodi di profonda indicibile malinconia. Cosi scri­veva Papini della sua fanciullezza: « ... Io non sono stato bam­bino ... Fin da quel tempo, tagliato fuori dall'affetto e dalla gioia, mi rintanavo, mi distendevo in me stesso nella fantisti-cheria bramosa, nella solitaria ruminazione del mondo rifatto at­traverso l'io. Non piacevo agli altri e l'odio mi rinchiuse nella solitudine. La solitudine mi fece più triste e spiacente... e mi stringe il cuore ripensando a tutti quei giorni smorti, a quegli anni infiniti; a quella vita rinchiusa, a quella mestizia senza motivi; a quella nostalgia incancellabile di altri cieli e d'altri ca­merati » (Un uomo finito, Firenze, 1939, pp. 10-12). Quali le cau­se di questa tristezza dei fanciulli? Sono svariatissime. Vanno dalla costituzione fisica a qualche fatto e vicenda particolare che può aver provocato una specie di trauma: la paura per una rapina a cui han assistito (o di cui han sentito parlare), lo spet­tro degli esami sopravvalutati da qualche educatore, eccessiva severità, minacce, busse... Ci son genitori che non hanno la minima nozione d'igiene, di psicologia e di pedagogia (obbligano, ad esempio,"il fanciullo a mangiare mentr'egli non ne ha mai voglia, senza fare in modo di ridonargli l'appetito). Certi disturbi fisico­psichici non curati da ragazzi possono esplodere in forma acuta nella giovinezza. Con facili accorgimenti si sarebbe potuto evi­tarli; quando si cercherà il rimedio, forse sarà troppo tardi. Il sacerdote dovrà essere un amico nel quale il ragazzo possa riporre

i la sua fiducia e confidarsi in tutto. Il cuore e la simpatia d'un fanciullo (specialmente se è ancora bambino) si conquista, più che cori le parole, con l'atteggiamento, l'accoglienza, l'affetto: può bastare uno sguardo, un sorriso; egli non dimenticherà facilmente i primi incontri col confessore. Il quale però ha un

; compito delicatissimo: il suo intento non sarà d'affezionare a sé il giovane, ma, sia pur servendosi di motivi umani, d'orientarlo verso Dio, verso Cristo, supremo Maestro ed amico.

Il fanciullo ha oggi bisogno urgente del confessore perché è al centro di una universale fermentazione e cospirazione lussu­riosa che lo scandalizza. Infanzia: età della vita, della rinascita soprannaturale, del candore, della speranza. Questa vita sta in molti per morire soffocata dall'impudicizia. Impudicizia che, come sempre, porta al mutismo ed alla disperazione. « L'impurità dei fanciulli, soprattutto..., fa dire Bernanos al "Curato di campa­gna" nel suo "Diario". Io la conosco... Io ho conosciuto anche

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troppo presto la tristezza, per non sentirmi in rivolta contro la scemenza e l'ingiustizia di tutti nei riguardi di quella dei pic­coli, cosf misteriosa. L'esperienza, ahimè, ci dimostra che ci sono delle disperazioni infantili. Ed il demonio dell'angoscia è essenzialmente, io credo, un demonio impuro » (Journal d'un cure de campagne, 1961, ed. Gallimard, pp. 1106-1107).

E non si venga a dire che la Confessione e la direzione spi­rituale (pratiche private) possono essere sostituite da una forma­zione religiosa, morale, ascetica fatta « in gruppo ». È un'illu­sione. Ad esempio, da un comunicato emesso a chiusura dei lavori del Consiglio permanente dell'Episcopato francese nel di­cembre del 1974, risulta che la Chiesa francese è molto preoccu­pata per il progressivo allontanamento dei fanciulli dall'insegna­mento religioso. Fra le cause s'individua l'azione deleteria di cer­ta stampa che presenta ai ragazzi stessi un'immagine falsa della Chiesa e mina la loro fede (OR, 18.XII.74, p. 3).

2. Bisogna preparare con cura ed intelligenza pastorale la Prima Confessione dei fanciulli. Si eviterà quell'atmosfera lu­gubre che alle volte avvolgeva le Confessioni precedenti la Prima Comunione alla quale sembrava riservata la nota della festosità. Eppure anche la Prima Confessione è il primo incontro con Cristo, tanto più lieto ed entusiasmante in quanto il suo perdono costi­tuisce per l'anima la vera condizione ed il motivo supremo del gaudio pasquale. Forse è il passaggio dalla morte alla vita anche per il ragazzo (almeno psicologicamente, qualunque sia la vera gravità dei peccati che accusa). Può esser utilissimo inserire la Confessione dei fanciulli in una celebrazione penitenziale, con una preparazione e (possibilmente) una conclusione comunitaria. Ma se si organizza questa celebrazione « tutto deve essere pre­parato con cura, perché i fanciulli la sentano propria e possano parteciparvi con gioioso impegno, senza ansietà e indebiti timori » (Doc. past., C.E.I., 12.VII.74, n. 102). E specialmente bisogna dare a loro piena libertà: tutti sanno per esperienza come — anche e specialmente a quell'età — ognuno è attratto a confes­sarsi con facilità e confidenza da un determinato sacerdote men­tre può provare un'invincibile ripugnanza ad aprirsi con qualche altro. Lo si tenga presente anche quando, in seguito, si avesse a fissare un orario per la Confessione dei fanciulli. Da una parte bisogna abituarli a confessarsi con una certa regolarità, dal­l'altra bisogna evitare ogni imposizione, sia quanto al latto della

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Confessione, sia quanto alla persona del confessore. Anche il fanciullo deve confessarsi se vuole, quando vuole, da chi vuole. E deve sapere che è nello spirito della Chiesa lasciare la massi­ma libertà, specialmente nella scelta del confessore. L'ideale sa­rebbe di fargli sentire il bisogno interiore di confessarsi senza che fosse necessario parlargli di obbligo. Perciò queste celebra­zioni comunitarie della penitenza — come con qualunque categoria o gruppo di penitenti — riusciranno bene se ci saranno molti confessori a disposizione. Allora in poco tempo si potrà assol­vere un folto gruppo. E si darà a tutti la libertà di scelta.

3. Sono note le riflessioni e le raccomandazioni di pedago­gisti e di moralisti moderni i quali mettono in guardia gli edu­catori sul danno che ci sarebbe nel parlare troppo presto ai fanciulli di peccato « grave ». In chi (dicono) ancora non riesce a distinguer bene il peccato mortale dal veniale, può nascere l'ossessiva apprensione di veder in ogni mancanza il peccato grave; e questi sensi di colpa, molto facili nell'infanzia e nella fanciullezza — è stato scritto — « possono servire a spronare l'individuo a far meglio, ma molto più spesso provocano scorag­giamento e insicurezza, o portano per reazione alla indifferenza morale » (M. T. Bellenzier). C'è da dubitare sull'obbiettività di tanta apprensione. Certamente son da rimproverarsi quegli edu­catori che per ottenere che il piccolo non commetta qualche mancanza, per sé non grave, gli fan credere che è peccato grave, sgridandolo con severità e minacce di condanna eterna (come non si può approvare quel parroco il quale, per ottenere il silen­zio dai ragazzi durante la Messa, li rimprovera affermando che, se parlan fra loro, non soddisfano al precetto). Qualora il con­fessore si trovasse a correggere le idee del fanciullo in seguito ad errato insegnamento dei genitori lo farà con delicatezza (non dirà che essi hanno sbagliato ma che egli deve aver capito male). La catechesi, dunque, abbia sempre il marchio dell'obiettività e dell'equilibrio. Però i temperamenti inclini allo scrupolo, alla fobia, ed all'incubo della colpa sono eccezioni. E per costoro anche il parlare solo di peccato « sic et simpliciter » (senza alcuna allu­sione alla gravità o meno) non ovvierebbe al pericolo di paure irrazionali (dato che per lo scrupoloso non esiste che una specie di peccati: quello mortale). Per evitare questa possibilità si potrà dire al fanciullo che fra le azioni non buone ce ne sono che dispiacciono di più ed altre di meno al Signore. Talvolta si riscon-

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tra piuttosto se c'è qualche erroneo giudizio sul peccato e c'è mancanza di coscienza giusta perché non hanno ricevuto idee chiare, non perché manchi la capacità di distinguere peccato grave e peccato leggero (difatti alle volte sono già adolescenti). Ma è evidente come la norma che si legge nei manuali dei mora­listi: « il confessore può presumere che il penitente abbia ap­preso il peccato secondo la sua obiettiva malizia se non c'è ra­gione contraria », questa norma non potrebbe dare la presun­zione che, nel caso concreto, la colpa è grave se il soggetto non ha ancora raggiunto l'uso della ragione e non ha chiara nozio­ne di peccato grave. Psicologi e moralisti odierni, dal canto loro, quando denunciano il pericolo che il senso del peccato degeneri in senso patologico della colpa, dovrebbero anche pensare che a forza di insister sulla libertà religiosa, sul rispetto della buona fede e della coscienza, sulla incapacità del fanciullo a vincere i suoi difetti ed a mantenere i propositi, ad individuare chiara­mente il valore dell'intenzione nel determinare la responsabilità d'un atto, a forza di tutte queste precauzioni si può omettere d'illuminare fin dalla fanciullezza e dalla adolescenza i giovani sulle verità di fede e sulla moralità obiettiva delle azioni. Men­tre hanno bisogno d'istruzione e di buoni esempi (non sarà alla scuola di religione che conserveranno il senso del peccato se, per caso, sanno che il loro insegnante ha i suoi illeciti rapporti amo­rosi). Il senso normale del peccato esiste naturalmente. È perce­pito chiaramente (anche se confusamente). Però va coltivato sa­pientemente, delicatamente, attentamente. Altrimenti potrebbe venir soffocato dalla marea del vizio e dei cattivi esempi. Edu­catori ed educatrici dichiarano che negli adolescenti è oggi man­cante in modo pauroso. (Le cronache quotidiane hanno registrato il caso di fanciulli fra gli 8 ed i 13 anni che, armati di rivoltella, hanno compiuto rapine in negozi ed hanno sparato e ferito i proprietari).

4. La Chiesa ha dato delle disposizioni pastorali sull'uso del sacramento della Confessione che non suppongono strettamente la soluzione di tante questioni biologiche e psicologiche riguar­danti la prima età. La prassi della Chiesa si dimostra comunque (a chi riflette serenamente) ragionevole. Il CJC dà semplicemen­te questa direttiva: chi ha raggiunto l'età della discrezione si confessi almeno una volta all'anno (e. 906). Questo canone però va commentato. E, perché sia inteso rettamente, va collegato

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storicamente con altre disposizioni e consigli che manifestano la « mens Ecclesiae ». Nel decreto Quarti singulari, emanato dalla S.C. de Sacram. l'8.VIII.1910 (AAS, 2, 1910, 582 ss.) sotto il pontificato di s. Pio X, è stabilita questa norma, al n. 1: « Aetas discretionis tum ad confessionem tum ad sanctam communionem ea est, in qua puer incipit ratiocinari, hoc est circa septimum annum, sive supra sive etiam infra. Ex hoc tempore incipit obli-gatio satisfaciendi utrique praecepto confessionis et communio-nis » (D.S., 3530). L'età, dunque, della discrezione: s'intendeva quella in cui i fanciulli, come aveva precisato già s. Tommaso, « jam incipiunt aliqualem usum rationis habere, ut possint devo-tionem habere huius sacramenti ». Allora « potest eis hoc sa-cramentum conferri » (S. Th. III . 80, 9, ad 3). Non è dunque necessario che sappian ragionare perfettamente e pienamente. La Chiesa quando poneva questa norma non lo richiedeva. Mentre invece lo richiedevano alcuni autori del passato e lo richiedono anche autori moderni (forse considerando il problema sotto un altro punto di vista). In conformità a questa direttiva fu fissata la norma del CJC: « omnis utriusque sexus fidelis, postquam ad annos discretionis, idest ad usum rationis pervenerit, tenetur omnia peccata sua saltem semel in anno fideliter confiteri » (e. 906). Ma perché ci sia vero obbligo occorre — secondo i principi morali sulla necessità della Confessione — che ci sia: l'uso della ragione; il settennio; peccati gravi e certi. (Ciò è evidentemente sottinteso quando, ad esempio, il I Sinodo Ro­mano, 1960, e. 447 afferma il dovere della Confessione per i fanciulli che hanno l'uso di ragione « quamvis nondum ad sacram Synaxim admissis »). Certo anche quando non c'è stretto precetto, ci può esser il consiglio.

5. In questi ultimi tempi in alcuni luoghi si era introdotta una innovazione circa l'ordine della Prima Comunione e della Prima Confessione. Contrariamente al decreto « Quam singu­lari » (8.VIII.1910) si era creduto opportuno procrastinare (per un tempo più o meno lungo) la Confessione, dopo la Comunione. Il Direttorio Catechistico Generale edito dalla «S.C. prò Cle-ricis », approvato da Paolo VI, pubblicato l'I 1 aprile 1971 (Ed. Vaticana, 1971), mostrava d'essersi anche reso conto dei motivi addotti; ma aggiungeva che « l'accesso al sacramento della peni­tenza fin dagli inizi dell'età della discrezione non porta danni per sé, all'animo dei fanciulli, purché segua quella delicata e pru­dente preparazione catechistica che si richiede » (Addendum, n. 4,

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p. 115). È questa considerazione psicologica che interessa per­ché, per la parte disciplinare, la Chiesa ultimamente (24.V.1973) ha disposto che tutti ed in ogni luogo cessino ogni esperimento nuovo e tornino alla pratica tradizionale secondo il decreto « Quam singulari »: la prima Confessione dei fanciulli non si rimandi a dopo la loro prima Comunione (AAS, 65, 1973, 410). E la disposizione della Chiesa è ragionevole: il fanciullo che è in grado di capire cosa riceve nella Comunione e di distinguere il pane eucaristico da quello naturale, perché non saprà distin­guere anche il bene dal male? Qualunque sia il grado della colpa, il confessarla, il pentirsene, il ricever la grazia di Dio ed il consiglio prudente del confessore, non può esser che un bene. L'esperienza l'attesta. Quali sono i risultati positivi riscontrati dalla ritardata Confessione? \ La possibilità che in qualche caso si esageri il senso del peccato fino alla nevrosi, non giustifica che si rinunci ad una prassi che è, in genere, benefica. Del resto, gli scrupoli possono venire a qualunque età, persino ai conver­titi, che non possono certo addebitarli alla Confessione fatta troppo presto. Di fatto, anche nei migliori sono un'eccezione. Comunque non dipendono dal Sacramento. Possono dipendere da una meno saggia preparazione e catechesi fatta ai piccoli; pos­sono dipendere dal modo come il confessore li accoglie e ammi-

1 Ma siccome in alcuni luoghi, nonostante la dichiarazione della Chiesa del 73, si è continuato ad ammettere i fanciulli alla Comunione senza la previa ammissione alla Confessione, la S.C. per i Sacramenti ed il Culto Divino e la S.C. per il Clero, in data 20.V.77 (OR, 28.V.77, p. 1) hanno ribadito le norme della Chiesa mediante la risposta ufficiale ad un quesito sull'argomento. Ed in un chiarimento aggiunto si giustifica questa prassi specialmente con tre ragioni: 1) « qualunque sia il contesto sociale e cul­turale » nel quale il ragazzo è cresciuto, se è « capace di ricevere con pro­porzionata consapevolezza l'Eucaristia è altresì in grado di avere la coscienza del peccato e di chiederne perdono a Dio in confessione »; 2) l'esame di coscienza sul quale s. Paolo (1 Cor. 11, 28) ammonisce chi si accosta alla Mensa, è al fanciullo « molto più facile e rassicurante » se compiuto non da solo ma con il sacerdote confessore. « Molti sono infatti i fanciulli che si sentono turbati e angosciati per piccole cose, mentre potrebbero ignorare o sottovalutare cose più importanti »; 3) qualunque siano i peccati che i fan­ciulli accuseranno nella Prima Confessione, « questa personale e viva con­vinzione della piti profonda purificazione possibile per ricevere degna­mente l'Eucaristia, che si inizia appunto alla prima Comunione, se pruden­temente e adeguatamente realizzata, accompagnerà certamente i fanciulli nel corso della loro vita e li porterà a stimare maggiormente e a frequen­tare più e meglio il Sacramento della Riconciliazione » (Confessione e Prima Comunione dei fanciulli, OR, 28.V.1977, p. 1).

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nistra loro il sacramento. Forse taluni creano nell'animo dei fan­ciulli qualche stato complesso e rendono difficile la Confessione perché partono dal falso presupposto: che il fanciullo debba confessarsi come l'adulto, mentre invece ha da comportarsi se­condo la sua mentalità e la sua psicologia (J. Galot, Bucar, e Penti., «La Civiltà Cattolica», 1.1.74, 134-135). Se poi qual­cuno avesse la predisposizione psichica ad un eccessivo senso e timore del peccato, è il confessore che deve capirlo e quindi usare uno speciale trattamento, in modo che la Confessione sia una liberazione e non diventi una fonte di angosce e di osses­sioni. Ma quando sia serenamente ricevuto, questo sacramento purificherà o comunque premunirà il ragazzo in un momento nel quale sta per fare le prime opzioni, forse decisive per la sua vita (cfr. G. Hansemann, Pedagogia della Confessione nella cate­chesi, Padova, Gregoriana, 1968, p. 86). Tutti riconoscono che oggi i fanciulli son precoci, tutti sanno quanti pericoli li minac­ciano. Si vuol attender che siano già trascinati nel vortice prima d'esser soprannaturalmente premuniti mediante i sacramenti del­l'iniziazione cristiana? Per la Cresima, nel diritto comune della Chiesa (CJC, e. 788) è stabilito che non venga amministrata pri­ma dei sette anni circa, se non c'è pericolo di morte o qualche ragione particolare, giusta e grave, a giudizio del Vescovo. Per l'Italia la C.E.I. ha recentemente disposto che si rimandi ai dieci dodici anni (fra la fine della scuola elementare e l'inizio della scuola media). Ma « ad experimentum ». Il che significa che non si ha affatto la certezza che tale prassi sia la migliore, neppure per la Cresima. La Confessione, in particolare, abbia o no il fanciullo peccati gravi, sia già o non ancora capace di commetterli, gli servirà sempre come medicina almeno preventiva, perché non arrivi mai alla grave malizia pienamente deliberata. Sarebbe sba­gliato il fargli credere che non si può comunicarsi se non ci si è confessati anche quando non ci sono peccati gravi (Direct. Catech. Gen., addendum, n. 3). Però una volta che il ragazzo è stato ammesso alla Confessione, questa dovrà esser periodica e frequente se si vuole che influisca efficacemente sulla sua vita. Anche qualora non servisse altro che a conservare la sua sensi­bilità morale, bisogna ammettere che sarebbe già molto, se si pensa all'odierna insensibilità morale. Ed i sacerdoti devono pre­starsi. Anche i fanciulli hanno diritto di confessare i loro peccati, di ricever il sacramento e non solo una benedizione. « Con-suetudo non admittendi ad confessionem pueros, aut numquam

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eos absolvendi, cum ad usum rationis pervenerint, est omnino improbanda » (Quam singulari, n. VII, AAS, 2, 1910, p. 583). Nel Direct. Catech. Gener. (11.IV.71) si legge: «A stento (vix) si provvede (consuli potest) al diritto che i fanciulli battezzati hanno di confessare i propri peccati, se quando comincia l'età della discrezione non vengono preparati e soavemente condotti (adducuntur) al sacramento della penitenza » (Add. n. 5). La que­stione se coll'« età della discrezione » si dia la capacità di com­metter peccato non solo leggero ma anche grave, può restar aperta. Secondo la Chiesa a sette anni si presume ci sia o cominci 1'« uso della ragione », almeno tale da distinguere il bene dal male e quindi da render possibile una qualche colpa. E ci sono illustri psicologi che ritengono pienamente giusta questa norma tradi­zionalmente tenuta dalla Chiesa, in linea di massima. Si danno, del resto, dei segni per riconoscere se un fanciullo di fatto abbia o no raggiunto l'età della discrezione. Si osserverà, se, nelle sue scelte, mostra di non esser condizionato solo da motivi este­riori ed ambientali — come la paura del rimprovero, del ca­stigo — ma di saper guidarsi da un giudizio personale circa le proprie azioni: un giudizio che gli fa percepire — indipendente­mente dalle ragioni e dai risultati puramente umani — la voce della coscienza che si rivela col senso di gioia, di pace, di sod­disfazione, oppure di rimorso e di tristezza profonda. Questa personalizzazione ed interiorizzazione dell'agire è evidentemente progressiva. Ed è relativa. Quindi solo approssimativamente si può determinare in quale età il ragazzo può commetter peccati, in quale età può commetter anche il peccato grave. Pertanto il confessore gli può parlare del bene da fare, del male da evitare, senza usare il termine « peccato mortale ». E certamente nella prassi della Confessione conviene insistere di più sulla necessità di evitare il peccato, ogni peccato, che sulla necessità di evitare quello grave (come se solo questo fosse da evitare).

6. Nella lettera inviata (tramite il Card. Villot) alla XXVI Settimana Liturgica Nazionale, Paolo VI poneva « un accento par­ticolare sulla Confessione dei fanciulli, e specialmente nella pri­ma Confessione, che — diceva — deve sempre precedere la prima Comunione, anche se da essa opportunamente distanzia­ta » (OR, 27.VIII.1975, p. 1). Per un complesso di ragioni è desiderabile che la prima celebrazione della Confessione preceda d'un po' di tempo la festa della prima Comunione. E sarà utile,

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dopo la conveniente istruzione, far precedere la celebrazione sa­cramentale della Penitenza da qualche celebrazione comunitaria non sacramentale. Cosi il ragazzo imparerà a pentirsi prima di imparar a confessarsi. La prima Confessione assuma anch'essa — dicevamo — il carattere d'una festa (a cui dovrebbero colla­borare famiglia e parrocchia). Festa che lasci nel cuore del fan­ciullo un'impressione di pace e di gioia: impressione che con­serverà per tutta la vita (cfr. G. Frumento, Iniziazione dei fan­ciulli alla Penitenza, Torino, L.D.C., 1973, pp. 59-64).

7. Qualora circa la prima Comunione di qualche fanciullo venisse il dubbio se sia più opportuno ammetterlo alla Comu­nione od aspettare ancora un po' di tempo, si terranno presenti due principi (applicandoli e contemperandoli prudentemente se­condo i casi). Primo: «l'Eucaristia è "culmine" della vita cri­stiana; esige una maturazione spirituale, che la famiglia insieme con la parrocchia è chiamata a considerare. Cosi l'ammissione alla iMessa di prima Comunione è legata non solo all'età o alla classe ma, soprattutto, alla maturità di fede dei fanciulli e del loro ambiente di vita ». Secondo principio: « d'altra parte l'Eucaristia è "fonte" della vita, per i fanciulli come per gli adulti. Gesù chiede di andare a lui con grande confidenza. Egli è "viatico" per il nostro cammino » (Il Catech. dei fanc. « Io sono con voi », Ed. C.E.I., 1974, p. 108).

8. Importantissima la prima catechesi ai fanciulli sulla Con­fessione. Importantissima l'iniziazione all'esame di coscienza. Pos-son esser decisive e determinare tutta la loro vita spirituale, per sempre, nella sua essenziale fisionomia e nelle sue motivazioni. Un'istruzione quindi senza fretta e che non si riduca agli ultimi giorni che precedono immediatamente l'amministrazione dei sacra­menti: le idee dovrebbero depositarsi e bisognerebbe assicurarsi che la dottrina è penetrata nelle anime, è stata compresa, ha portato frutto. Quindi sarebbe augurabile che la preparazione fosse, se non individuale, quanto più possibile specializzata e adat­tata alle capacità ed ai bisogni spirituali d'un piccolo gruppo. Bisognerebbe infatti poter controllare ed assicurarsi che tutti hanno compreso, almeno « grosso modo », il significato del mistero e della presenza eucaristica.

Qualunque sia lo schema che si intende scegliere per sugge­rire al fanciullo il modo di interrogarsi sulla sua condotta, biso­gnerà non ridursi a qualche applicazione (magari stiracchiata) dei dieci comandamenti in chiave puramente negativa (sulle disub-

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bidienze, le bugie, i furterelli, le baruffe fra compagni, la prepo­tenza, la superbia, l'ira, l'egoismo, i brutti discorsi...) con l'ag­giunta di un paio di doveri religiosi positivi (dir le orazioni quo­tidiane ed ascoltar la Me* sa festiva). Il fanciullo ha bisogno di sapere che c'è un Amico venuto sulla terra e nel suo cuore per vivere con lui, per insegnargli a fare la volontà di Dio e dargli la forza d'esser buono e santo. Un Amico che ha tutte le doti d'un amico umano e, per di più, è Dio: è fedelissimo e non ci abbandonerà mai; e può tutto perché è Dio. Il ragazzo deve sentire vicino quest'Amico e con Lui vivere tutti i giorni della settimana (non solo la Domenica), tutti i momenti della sua giornata, in tutti i luoghi: casa, chiesa, scuola, campo da giuoco. Questo Amico ci ammaestra e ci corregge. Ci manda anche i dolori, ma sempre pel nostro bene e perché diventiamo più buoni. Ci suggerisce di fare la volontà di Dio, specialmente nell'adem­pimento dei doveri di stato che per il ragazzo saranno (dopo la preghiera e la santificazione del giorno del Signore) lo studio e l'impegno scolastico. Far la volontà di Dio non per condannarsi ad esser meno lieti di chi fa invece la propria volontà, ma per esser felici. Questo Amico divino si è sacrificato per noi e ci ha cosi insegnato che la vita non è solo piacere ma anche sacrificio. Per noi ha istituito i sacramenti. La Confessione è un mezzo per stringere sempre più intimamente l'amicizia con Lui (o per resti­tuircela, qualora l'avessimo infelicemente perduta). Nel confessore bisogna vedere il rappresentante di Gesù e perciò venerarlo ed amarlo perché per mezzo del sacerdote Egli ci comunica le Sue gra­zie, cioè viene nel nostro cuore. Dunque la catechesi dovrà pun­tare anzitutto sull'amicizia di Gesù e sull'amore di Dio che non verrà mai meno e sarà sempre con noi se noi gli saremo obbe­dienti. Chi lo ama non fa ciò che Egli non vuole, ma cerca sem­pre di conoscere e fare ciò che a Lui piace. Insomma, si cercherà che il fanciullo comprenda come il rapporto con Dio non si riduce ai pochi istanti delle preghiere quotidiane (pur necessarie) ma a tutta la giornata, perché se si fa la volontà di Dio si vive sem­pre con Lui, specialmente se si procura qualche volta di rivolger a Lui il pensiero, nel modo più semplice ed immediato, come anche al fanciullo è possibile. Dovrebbe abituarsi a collegare la preghiera con gli avvenimenti (anche piccoli) della sua vita quo­tidiana perché pure in questi veda la presenza e domandi l'aiuto di Dio. Cercheremo di fargli capire che anche per lui la vita è lotta spirituale segnata da un alternarsi di speranze e di delu-

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sioni, di gioie e di lacrime. Vivere significa, fin dalla prima età, lavorare, studiare, godere, soffrire. Perciò, proprio per vivere, deve sentire il bisogno di Dio, della Confessione, di Gesù Euca­ristia, della Madonna, dell'Angelo Custode.

Una fede in .Dio presentata cosi dovrebbe metter radici sta­bili nei cuori giovanili e non aver la stessa sorte di certe nozioni scolastiche che non hanno relazione alcuna colla vita e svani­scono col passar degli anni.

Poi l'amore verso il prossimo. Una fede pratica, una reli­gione aperta, una pietà soprannaturale ed insieme umana. Amore che si manifesta nelle opere (la simpatia non conta nulla). Amore che non si riduca solo alla sua parte negativa: evitare le discor­die, i litigi, le rappresaglie, la sopraffazione, la violenza. Bisogna render il fanciullo sensibile alla sofferenza di tanti altri che sono malati o poveri o senza lavoro. Non deve vivere — immemore degli altri — in una felicità ed agiatezza naturale nella quale forse è nato e si è trovato. Perché, anche questa, fino a quando durerà? Tutto è precario ed ognuno dovrebbe, fin da piccolo, non farsi illusioni. Solo se si abituerà a non pensare solo a se stesso e a non godere solo del suo benessere, si può attender da lui la carità effettiva. Le occasioni si presenteranno continua­mente. Ma la generosità di chi dona non è sempre istintiva. Fare un piacere, dare un aiuto, mostrare il sorriso benevolo a tutti. Salutare anche chi non ci ha fatto del bene. Si nota spesso nel fanciullo una parzialità nel trattare sia coi suoi compagni sia coi suoi educatori, anche sacerdoti (qualcuno dei quali non ha altro difetto se non quello d'esser meno espansivo o di non pos­sedere il dono dello « charme »). In particolare durante il giuoco sarà messa alla prova la generosa benevolenza del ragazzo verso tutti i compagni indistintamente, la cortesia, lo spirito di distacco dal proprio io, di rinuncia a vantaggio degli altri, la capa­cità di soffrire per render contento qualcuno, la sensibilità e la compassione per i dolori e le privazioni altrui... Alle volte invece esplodono anche nei piccoli degli istinti selvaggi e belluini che li portano ad azzuffarsi ciecamente ed a picchiarsi fino al sangue:

« Era il tramonto: ai garruli trastulli erano intenti, nella pace d'oro dell'ombroso viale, i due fanciulli.

Nel gioco, serio al pari d'un lavoro, corsero a un tratto, con stupor de' tigli,

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tra lor parole grandi più di loro.

A sé videro nuovi occhi, cipigli non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue, ne' tenui diti si trovò gli artigli,

e in cuore un'acre bramosia di sangue, e lo videro fuori, essi, i fratelli, l'uno dell'altro per il volto, il sangue! »

(G. Pascoli, Primi poemetti, Mondadori, 1952, p. 85).

Se il ragazzo stenta a vedere nel prossimo il Signore ed a sentire questo motivo soprannaturale, cercheremo di fargli capire « il valore della rinuncia per stare meglio con gli altri; per fare "comunione" con gli altri. Se vivono nel loro ambiente queste esperienze, i fanciulli maturano il senso dell'amicizia, della gene­rosità e della fiducia; imparano ad ascoltare gli altri e a dialo­gare, a dire "grazie" e ad offrire doni » {Cai. dei fatte. « Io sono %òn voi », p. 108).

La preghiera. Al mattino ed alla sera. E sta bene. Ma — dicevo — dobbiamo anche infondere negli animi, cominciando dai fan­ciulli, l'idea che se si fa tutto secondo la volontà di Dio e si vive per Lui e con Lui, ogni atto diventa preghiera. Il che non significa che si possano eliminare i tempi consacrati all'esplicito contatto con Dio. Ma bisogna che il ragazzo si abitui a non concepire la preghiera e la religione come un'attività spirituale che sia del tutto distinta dalla vita, o addirittura serva solo a frenarla ed a sacrificarla, quasi contro natura, unicamente allo sco­po di far meritare all'anima, attraverso la rinuncia, il Paradiso ed evitare l'Inferno. Bisogna coltivare l'entusiasmante persuasione che l'unione con Dio è ciò, che, solo, può dare senso e pienezza alla vita. Bisognerebbe condurre il fanciullo a concepire la pre­ghiera come un colloquio personale e spontaneo: si parla all'Amico delle proprie cose, di ciò che ci sta a cuore, di ciò che Lo interessa di noi, si chiede ciò che ci interessa. Ciò non significa che preghiere come il Pater, l'Ave, vengano scartate. Ma bisogna spiegarne il significato ai ragazzi affinché sentano quelle parole come qualcosa che parte dal loro interno, come un'espressione della loro anima bisognosa d'elevarsi. Altrimenti la recita di quelle formule sarà un peso dal quale non vedono l'ora di liberarsi.

Parte negativa: il peccato. Sia presentato come ciò che disgu­sta e rattrista Gesù; ci fa perdere l'intimità con lui; può condurci

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alla rottura ed alla perdita della Sua amicizia. Si eviterà così il pericolo d'una concezione legalistica la quale potrebbe far sorgere nell'animo impressionabile di certi fanciulli l'idea d'aver « fatto peccato » anche quando hanno agito male in buona fede o sopra pensiero, od hanno avuto nella parte sessuale un fenomeno naturale (magari notturno) od un'impressione della fantasia che non è stato possibile evitare o frenare. Il fanciullo buono — data la sua immaturità — tende a confondere mancanza volontaria e disav­ventura, colpa e disgrazia, senso e consenso. Va istruito perché abbia la lucida coscienza che è male fare ciò che il Signore non vuole, ma il peccato sta nel farlo quando si sa quello che si fa e si sa che il Signore non lo vuole. Perciò gli si deve discretamente suggerire di pentirsi e di accusarsi di quelle azioni che avrebbe dovuto e potuto non fare o di quelle che avrebbe dovuto e potuto fare mentre, invece, non ha seguito il suggerimento della co­scienza che è la voce di Dio. Bisogna insegnargli prima a pentirsi e poi ad accusarsi; condurlo a chieder perdono a Dio quanto prima dopo le mancanze commesse con certa malizia, e non solo aspettar la Confessione. Aspettar questa è sintomo di spirito lega­listico. Occorre quindi che il bambino prenda l'abitudine di fare un — sia pur breve e sempre sereno — esame quotidiano di coscienza, seguito da un atto di dolore e d'amore di Dio e da un buon proposito. Ma bisogna fargli ben capire che non è la recita d'una formula che costituisce il pentimento, la riparazione, la peni­tenza e la conversione: la quale si deve dimostrare colle opere, adempiendo con sacrificio un dovere, con qualche atto di genero­sità, col perdono... Bisogna insistentemente richiamargli questa idea: Dio perdonerà a noi se noi perdoneremo ai nostri fratelli e non ci vendicheremo umiliandoli e colpendoli (cfr. Io sono con voi, p. 138).

Si insegnerà poi chiaramente al fanciullo che, quando ha il dolore e la volontà di accusarsi sinceramente, non deve turbarsi se dimentica qualche peccato; e che i peccati leggeri non è necessario confessarli tutti. Stiamo attenti a non presentargli la Confessione come una pratica in sé difficile (non lo è mai e per nessuno) e tanto meno come un atto che richiede conoscenze, riflessioni, lavoro interiore superiori all'età ed alla maturità del penitente. Non meraviglia che nel fanciullo (il quale non ha ancora interio­rizzata la sua pratica religiosa) ci sia la tendenza a dare più importanza all'accusa che al pentimento ed al proposito. Potrà anche darsi che, più di puntare energicamente e costantemente sul

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difetto o sui difetti reali predominanti, qualcuno applichi atten­zione e preoccupazione a preparare un'abbondante lista di pec­cati, con più o meno obbiettività e criterio; allo scopo forse, chi lo sa?, di far presso il confessore la bella figura d'essersi esaminato con cura o, persino, d'aver qualcosa di nuovo da raccontargli.

D'altra parte è bene preavvisare e preparare i penitenti, fin da piccoli, a non aver nessuna vergogna di confessare quelle colpe delle quali sentono più rimorso (perché il confessore non si mera­viglia di nulla e tiene tutto in assoluto segreto).

Mentre si invita il fanciullo a riflettere sui suoi peccati bisogna ravvivare in lui la fede che Dio abita nel suo cuore e che tutta la sua vita dev'essere un'amicizia con Lui. Accennando, ad esem­pio, alle mancanze contro la purezza o la modestia, gli si ricor­derà che il nostro corpo è qualcosa di santo perché dimora di Dio, e quindi bisogna rispettarlo servendosene secondo la sua volontà. Con tutta semplicità lo si abituerà cosi a metter in pra­tica il principio: l'imitazione del Cristo storico (cioè la vita morale) non è fine a se stessa ma una condizione per godere la vita del Cristo mistico nelle nostre anime. S. Tommaso scrive che alla Nuova Legge evangelica spetta (pertinet) principalmente (principaliter) « gratia Spiritus Sancti interius data » (I-II, 106, 2). Gesù è nato a Betlemme e nei nostri cuori. Solo se noi non lo vogliamo Egli se ne va mestamente. E chi prenderà il Suo posto? Purtroppo oggi chi cerca di suscitare nei fanciulli il santo timore di Dio e d'ogni azione che lo disgusta, si trova in un momento particolarmente delicato. Da una parte bisogna evitare ogni esa­gerazione e materializzazione che ad animi piuttosto sensibili po­trebbero nuocere; dall'altra parte non dimentichiamo che c'è, in genere, imo scadimento del « senso del peccato »; e di questa mancanza risentono anche i ragazzi. Con tanti timori di insegnare una moralità solo negativa e di creare un senso eccessivo del pec­cato, si corre il rischio — ripeto — che non abbian più paura di far peccati.

9. Nell'atto della Confessione il sacerdote avrà accorgimenti ed attenzioni corrispondenti alla psicologia del penitente. Special­mente al fanciullo — a causa della sua timidità — bisogna non dar l'impressione che egli ci è di peso e che si vuol liberarsene il più presto possibile. Qualche confessore, ad ogni peccato che il ragazzo accusa ribatte seccamente « e poi? », « hai altro? », quasi per dirgli che è ora di finirla con siffatta tiritera.

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Solo dopo l'accusa si deve fare le debite osservazioni ed ammo­nizioni, come suggerisce, del resto, per ogni penitente il Rituale Romano: « Demum, audita confessione, perpendens peccatorum, quae ille admisit, magnitudinem, ac multitudinem, prò eorum gra­vitate, ac poenitentis conditione, opportunas correptiones ac mo-nitiones, prout opus esse viderit, paterna cantate adhibebit » (De Sacrarti. Poen., n. 18). Il Frassinetti dava al confessore come una delle più importanti avvertenze « quella di non sgridare mai il fanciullo o rimproverarlo aspramente nel momento che si con­fessa. Ad una severa parola, il fanciullo subito tace; se ha altri peccati da accusare non li accusa più; a qualunque interrogazione risponde un no... Gli si deve parlare sempre con buona grazia, ancorché accusi peccati molto gravi; anzi in questo caso è neces­sario incoraggiarlo assai, e promettergli anche espressamente di non sgridarlo » (Manuale del parroco novello, p. 377). Se il con­fessore sarà abitualmente aspro, i fanciulli lo abbandoneranno oppure — per non incorrere nei suoi duri rimproveri — taceranno su ciò che sentirebbero il bisogno di manifestargli. (Ho anche ap­preso che qualche confessore, quando un ragazzo s'accusa di peccati impuri, non si accontenta di sgridarlo, ma lo schiaffeggia).

Infine il confessore avrà molta fiducia nelle parole che, dopo l'accusa, cercando d'interpretare il cuore di Dio, rivolgerà al peni­tente, specialmente al fanciullo: il suo spirito non è ancora oscu­rato dai pregiudizi, il suo cuore non è ancora indurito dalle pas­sioni e dai vizi. Certo l'efficacia dell'esortazione dipende dalla sua aderenza ai bisogni del singolo, suppone una giusta considerazione del caso concreto. Solo nella confessione auricolare questo si rende possibile. Una predica, un esame di coscienza fatto in co­mune, un sermone — per quanto toccante ed esauriente — rivolto ad un gruppo di persone, difficilmente avranno la forza della pa­rola detta dal sacerdote nella Confessione privata. Il quale, per­tanto, non si limiterà a fare al fanciullo qualche raccomandazione generalissima: « esser sempre più buono, voler più bene al Signo­re... ». Il fanciullo ha anche bisogno, per la sua età, di concre­tizzare le disposizioni di fondo e di concepire, come frutto della Confessione, qualche proposito determinato. Saper suggerirlo op­portunamente ed efficacemente quanto all'oggetto e quanto al modo e quanto alle motivazioni: motivazioni adatte ai particolari doveri del fanciullo; motivazioni che non siano soltanto naturali (« esser bravo in scuola per esser premiato agli esami ») ma neppur troppo vaghe o astratte o lontane (« per andar in Cielo »). Que-

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stabilità è un'arte pedagogica che non tutti possiedono. Domanda un complesso di doti pastorali, oltre che interiorità ed intuito. Ma non si sbaglierà certo nel raccomandare al ragazzo obbedienza ai ge­nitori ed ai maestri e la buona volontà nell'attendere alle lezioni ed allo studio. Non si sbaglierà nell'insister molto e sempre (anche se non hanno accusato colpe in complicità) sul problema delle buone e cattive amicizie. L'esperienza insegna che un amico buono può esser la salvezza, uno cattivo la rovina, per sempre.

Però — specialmente ai piccoli — di propositi non bisogna suggerirne molti né moltiplicare le raccomandazioni. Neppur se­guirebbero i nostri lunghi discorsi; e non ricorderebbero poi nulla di determinato. Difatti si nota come il fanciullo si distrae facil­mente, anche quando gli si parla con gravità di cose importanti. Bisogna che il confessore riesca a fissare l'attenzione del piccolo e ad impressionarla — sanamente — con discorsi brevi, anzi bre­vissimi, ma incisivi e toccanti. E piuttosto che fargli discorsi, pre­diche e ragionamenti, conviene, allo scopo, usare la forma del dia­logo: « dunque, quale ti sembra il proposito più importante che ora devi fare? ».

Se sarà interrogato su qualche questione, il confessore sia chia­ro, deciso, pratico. Si adatti alla mente ed alla comprensione del ragazzo. Si assicuri che è rimasto soddisfatto ed ha capito. Sia sempre breve.

2. Adolescenti e giovani

I. L'adolescenza vien definita con aggettivi vari: età critica, età preziosa, età ingrata, età incompresa. Una cosa è certa: è un'età difficile e delicata. E perciò l'adolescente — che non conosce se stesso — cerca qualcuno che lo capisca e lo guidi. Il bisogno che i fanciulli stessi sentono — almeno quando la loro vita non è pienamente tranquilla e fortunata — di trovare nel confessore un amico confidente, s'acuisce nell'adolescente. « Avevo bisogno d'affetto — scriveva Papini in Un uomo finito. Volevo sentire una mano nella mia mano, volevo essere ascoltato ed ascoltare; aver qualcuno a cui dire in segreto nell'abbandono indimenticabile delle prime amicizie, quei sentimenti, quei desideri e pensieri, che non si possono dire ai babbi e alle mamme. Volevo qualcuno eguale a me, per lavorare assieme; qualcuno più grande di me per

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imparare, per esser guidato; qualcuno al di sotto di me, per aiutare e ammaestrare » (Firenze, 1935, p. 76).

1. Cosa porta l'adolescente alla ricerca, in particolare, d'un confessore e d'un consigliere? Un senso d'insicurezza spirituale, uno stato di malessere, diranno gli psicologi. Un senso di rimorso per certe azioni commesse, un bisogno di luce e di verità, una aspirazione alla felicità, dicono i moralisti. In realtà è la stessa cosa. L'adolescenza è l'età « in cui si profilano le prime e ancora acerbe manifestazioni della personalità, e incominciano a definirsi orientamenti e scelte di vita ». In questo periodo « è di massima importanza che l'adolescente sperimenti, nel sacramento della Penitenza, l'incontro con la bontà del Padre e il sostegno della persona e della grazia di Cristo. Efficacissimo in questa età è il richiamo a una forma di serena introspezione, che pur mettendo a nudo manchevolezze e colpe, non provochi scoraggiamenti o depressioni, ma ravvivi piuttosto la fiducia in Colui, che dalla debolezza stessa sa trarre la spinta per un rinnovato impegno di ripresa. Ed è d'ordinario proprio la Confessione frequente, che aiuta l'adolescente « a scoprire e a seguire la sua vocazione » (C.E.I., Penit e Unz. d. Inf., 12.VII.74, n. 103). Ed il confes­sore, da parte sua, dovrebbe venirgli incontro per aiutarlo a pas­sare dal dubbio alla certezza, dall'instabilità alla fortezza, dal tur­bamento alla pace interiore: « presbyteri... peculiari etiam dili-gentia prosequentur iuniores » (PO, 6).

2. Dopo un'età nella quale il ragazzo era portato a tutto ogget-tivizzare, viene un momento in cui egli si ripiega per entrare in se stesso. È la fase della soggettivizzazione, della personalizzazione, dell'interiorizzazione, dell'anticonformismo (cfr. Coudreau, L'en­fant et le problème de la fot, Paris, 1961). Dio che prima era immaginato piuttosto antropomorficamente come il Padre buono od il Signore irato, diventa un interrogativo sul quale la ragion critica comincia a discutere, come disorientata e spaventata, sve­gliandosi da un sonno felice. E tutta la vita dell'adolescente — che era una realtà goduta spensieratamente — diventa un pro­blema. Il problema dell'amore. Il problema del dolore e della felicità. Il problema della giustizia nel mondo. Il problema della ricchezza e della povertà. Il problema della libertà e dell'obbedien­za ad un'autorità. Il problema della mitezza cristiana e della violenza intesa a rivendicare qualche preteso diritto. Il problema della scelta dello stato, cioè della vocazione. Ed anche quello della scelta della professione.

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Tipiche manifestazioni di questo periodo dell'età evolutiva: insofferenza, stravaganza, contestazione, variabilità d'umore, slanci estasiami, abbandoni e depressioni accascianti. Guaì se il con­fessore si mostra come spaventato o si pone, per principio, sulla difensiva od assume atteggiamenti di stroncatura pesante ed umi­liante come chi non sente un problema e non partecipa alla sof­ferenza del suo interlocutore. Ma questo pericolo c'è da parte di chi non ha mai provato, o non ricorda più, questi stati d'animo. À lui possono sembrare inspiegabili o trascurabili. Ma non lo sono pel giovane. Egli cerca, nella sua sofferenza, qualche presenza umana. Ha bisogno di cordialità intelligente perché ha bisogno di luce, di coraggio; ed anche di forza psichica (non lo si dimentichi). Il confessore che ha soffertole sofferto molto, saprà comprendere, aiutare, soccorrere chi soffre (cfr. I. Lefort, Adolescente, domani uomo, Torino, Gribaudi, 1970).

3. Tenga presente che i giovani, specialmente gli studenti sono sensibilissimi alla prima impressione. Se vengono dal sacer­dote per un consiglio — « extra » od « intra » Confessione — bisogna che restino soddisfatti. Qualora un impegno urgente im­pedisse al confessore di ascoltarli, egli fisserà un appuntamento per un colloquio. E se si accorge che un giovane ha vero bisogno di conferire con lui veda se può rimandare qualche altro lavoro programmato: passato il momento buono chissà se il giovane troverà il tempo e la volontà per decidersi a ritornare. E quando lo si ascolta non bisogna mostrar segni di fretta o di aver altre preoccupazioni importanti che assorbono la mente. Egli deve sentire che il consigliere è con lui e tutto per lui, disponibilis­simo finché sarà necessario. E quando racconterà le sue vicende (più o meno ordinatamente) bisogna mostrare la massima atten­zione ed interesse, senza interromperlo, senza fare osservazioni critiche, senza sorridere come su cose di poca importanza.

In tutto però discrezione. C'è anche l'eccesso dei colloqui in­terminabili, magari notturni. Ciò non è necessario, né vantag­gioso, né opportuno. Scrive Claire Arbelet: « Non bisogna in­sistere. Non ripetersi. Non annoiare. È necessario riuscire a farci sopportare. Il modo giusto esiste: guardare con simpatia il gio­vane che si è rivolto alla nostra vecchia saggezza: lo sguardo di simpatia è la cosa più necessaria; la sola, forse, che resterà. Quindi parlare, esprimere la propria idea, una volta sola. Poi, tacere » {Quando si fa sera, Torino, Boria, 1969, p. 80). Più che le molte parole, avrà efficacia la sicurezza equilibrata dei

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nostri consigli; e, soprattutto, un raggio ineffabile della bontà di Dio2 .

4. Oggi i ragazzi discutono su problemi che si direbbero superiori alla loro età, presentano spirito di contestazione, dubbi o addirittura scetticismo in materia di fede8, anticlericalismo (anche se in grado e forma diversa dal passato), irreligiosità, spregiudicate concezioni in materia morale, oltre alle mancanze di fragilità contro il sesto comandamento: qualcuno (e qualcuna), ad esempio, vorrà sostenere, come principio, che non c'è nulla di male se due che si vogliono molto bene si comportano come marito e moglie, quando hanno intenzione di sposarsi ed il ma­trimonio non è un sogno lontano. E c'è chi pretenderebbe con­ciliare con queste idee la pratica religiosa e la frequenza ai sacramenti. Sono i casi più difficili pel confessore il quale dovrà, senza spegnere il lucignolo fumigante, trovar la via per riformare la mentalità dell'adolescente. Dovrà riparare ad una educazione sbagliata o supplire la mancata educazione. Ci sono mamme (vedove e non vedove) che, per ragioni di lavoro, passano quasi tutta la giornata fuori casa: si disinteressano dei figli o li affidano ad altre mani. Se riusciranno male, si scuse­ranno dicendo che i ragazzi oggi son vittime della società, dell'am­biente, della miseria. In parte è vero. Ma non si dovrebbe dimen­ticare che la società è costituita dai padri, dalle madri, dagli insegnanti, da ognuno di noi. Ed ognuno dovrebbe chiedersi se ha fatto quanto poteva per preservare i giovani dal cattivo influsso di compagni, di maestri infidi, di gruppi, movimenti, par­titi sovversivi.

5. Particolare interessamento e carità avrà il confessore quando s'incontra in giovani che sono infelici perché la loro famiglia

* « Id, quod saepe numerò est maxime necessarium, iam non est ver-borum abundantia, sed potius sermo cum vita magis evangelica consentiens. Ita profecto est; mundus indiget testimonii sanctorum... Animos attendamus ad eas quaestiones, quae ipsa vita hominum, potissimum vero iuvenum, proferuntur... Indulgenter toleremus interpellationes, quae pacem nostrani et quietem obturbant. Patienter feramus illorum haesitationes, quae ad lucem iter veluti pedibus praetentant. Fraterne ambulare sciamus cum iis omnibus, qui, eo lumine carentes, quo ipsi fruimur, nihilominus contendunt, ut per dubii caliginem repetant domum paternam». (Paulus VI, Adhort. Ap. Quinque iam anni, 8JQI.1970, AAS, 63, 1971, 104).

3 Non è difficile sollevare difficoltà contro la fede; ma non tutti sono preparati a vederne e comprenderne la soluzione.

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è in dissesto ed in dissoluzione. Questi figli stanno volentieri lontani da casa. Talvolta fuggono per non tornare. Provano av­versione verso i genitori. Ed anche quando sono fra i compagni, si senton menomati, invidiano la loro fortuna, la gioia d'un focolare domestico. Il loro cuore è stretto da malinconia ed amarezza.

È molto difficile trattare con questi giovani. Sulle prime sono chiusi e forse rispondono sbrigativamente. Stentan a svelare tutto il loro singolarissimo e complesso mondo interiore. Potran farlo gradatamente. Ma bisogna che il confessore sappia con­quistarsi la loro fiducia mostrando che li stima. Poi potrà susci­tare qualche speranza. Il ragazzo troverà nel sacerdote la com­prensione ed il calore d'un affetto che gli mancava. Forse troverà la sua salvezza.

6. Il recupero poi dei minorenni rinchiusi nei centri di rie­ducazione è difficile perché non sono solo afflitti per la vita che conducono ma anche in stato di ribellione contro l'am­biente. Si sente il bisogno che questi istituti siano sempre meglio organizzati per procurare il reinserimento nella società dei ragazzi reclusi. I quali dovrebbero esser veramente rieducati e non solo controllati perché non disturbino, non aver solo un trattamento di massa che li umilia e li irrita. Occorrerebbe un personale scelto e preparato e non quello proveniente dai penitenziari e dalle car­ceri per adulti. Il risanamento dei riformatori (come anche delle prigioni) renderà meno difficile la conversione morale dei singoli e faciliterà il compito del sacerdote assistente e del confessore.

7. La psicologia della giovane ha caratteri propri che la distinguono da quella del giovane. Il confessore deve tenerlo presente per poter dare con lucidità e decisione i suoi consigli. Dev'esser preparato a trovare nelle ragazze particolare instabilità e bruschi cambiamenti d'umore — dipendenti dalle condizioni di salute, dalle « epoche » cicliche, dallo sviluppo naturale stesso del sistema nervoso strutturalmente fragile. Perciò la giovane ha bisogno d'appoggio, d'una parola sicura. E non dev'esser il con­fessore che, per debolezza e condiscendenza, si lascia guidare ed in­fluenzare dalle sue penitenti. Discrezione e garbatezza, ma anche una certa fermezza. Bisogna abituarle a sapersi condurre con la ragione e la volontà e a non dar importanza a quei disturbi fisico-psichici che sono passeggeri. Non si ricorra però ai rim­proveri che umiliano, ma alle persuasioni.

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E nelTeducare i penitenti alla pietà il confessore- saprà che il cuore d'un giovane non è quello d'una giovane. L'amicizia col Cristo, la devozione alla Madonna si devono presentare e suggerire a tutti. Ma nella donna — per il suo temperamento più sensibile, delicato, gentile — certe devozioni sono apprezzate in modo del tutto particolare e coltivate con maggior intensità. E ciò dev'esser favorito (purché non si cada nella morbosità, nel naturalismo, nella superstizione) perché il sentimento è una grande forza. Sa­rebbe sbagliato voler imporre o consigliare ad una donna una forma di religione, fondata sul ragionamento e le persuasioni, che è piuttosto propria dell'uomo. Perciò nelle sue esortazioni il confessore che conosce la psicologia, saprà quali sono le corde del cuore che può toccare colla sicurezza di ottenere un effetto positivo.

8. La Confessione e la direzione spirituale sono un bisogno che l'adolescente ed il giovane « sinceri » sentono spontaneamente. Purché non abbiano ancora subito l'influsso d'una mentalità oggi diffusa. Il documento pastorale della C.E.I. (12.VII.74), dopo aver affermato l'importanza e l'efficacia della Confessione per gli « adolescenti », tratta poi in particolare dei « giovani » comin­ciando con un « rilievo di situazione »: il quale « ha mostrato una crisi della Confessione assai diffusa e preoccupante tra i giovani, anche tra quelli che rimangono vicini alla vita e ai problemi della Chiesa, e aderiscono ai suoi movimenti e alle sue associazioni. Si rende perciò necessaria un'attenta pastorale giovanile, che ri­desti nei giovani il senso cristiano del peccato e la gioiosa cer­tezza del perdono di Dio » in. 104).

IL Nella « pastorale giovanile della penitenza » « dovrà essere affermato il primato. di Dio e del rapporto personale con lui » (C.E.I., o.c.y n. 105). Il primo e fondamentale problema che s'agita nell'animo umano è quello della fede. Una regolata fre­quenza al sacramento della Penitenza sarebbe un « aiuto impareg­giabile di grazia per la formazione della coscienza, per il supera­mento delle tentazioni e per la crescita della vita spirituale » (ibid. n. 105).

1. Il problema della fede. Da una parte — come osserva il Vaticano II — il giovane d'oggi trova nel popolo di Dio una fede cristiana che, purificata in virtù d'una più acuta riflessione cri­tica, da certi atteggiamenti piuttosto magici e da certe supersti­zioni (ancora peraltro circolanti) permette e favorisce una ade-

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sione di giorno in giorno sempre più personale e più attiva. E di fatto non pochi giungono ad un più vivo senso di Dio. D'altra parte l'adolescente vede un numero, maggiore che pel passato, di persone che si staccano dalla religione; sente procla­mare da filosofi, scienziati e letterati questo abbandono come un'esigenza della scienza e dell'umanesimo. Di qui un turba­mento ed un disorientamento nell'animo dei giovani (GS, 7). Hanno bisogno di qualcuno nel quale trovare un punto d'appog­gio, principi e orientamenti sicuri. Quest'appoggio non lo trovano negli amici, non lo trovano nella scuola, spesso non lo trovano nella famiglia. Hanno la sconcertante impressione che gli adulti stessi brancolano nel buio: in una confusione d'idee, nel dubbio sistematico sulle verità religiose e morali. Sentono quindi il bi­sogno di passare, nella loro fede, da un livello di abitudini e di passività ad un livello di personali persuasioni, mediante un lavoro di reinvenzione, di controllo, di discussione.

Il consigliere spirituale, che vuol illuminare ed aiutare l'ado­lescente, terrà conto del suo stato d'animo e si adatterà alla sua psicologia individuale.

a) Molti oggi — pur non dicendosi antireligiosi od incre­duli — si mostran piuttosto indifferenti ed apatici in materia specificamente religiosa. Pel passato era più netta la distinzione: da una parte i giovani che avversavano la religione come nemica della libertà e della vita; dall'altra i giovani che aderivano in pieno alla fede, oppure, sentendo vivamente i problemi teologici, li discutevano e passavano magari attraverso crisi e dubbi. Oggi molti non mostrano d'interessarsi pei dogmi che il cristiano deve credere, giudicano ed interpretano con molta disinvoltura e flessi­bilità le leggi morali, muovono critiche (ed in pratica disobbe­discono) alla gerarchia ecclesiastica. Tuttavia sono pronti a pre­starsi per le opere di bene. Il problema ecumenico, ad esempio, da non pochi è visto non come ricerca dell'unità — di fede, sacramenti, governo — in un'unica Chiesa, ma come collabora­zione delle diverse Chiese per portare e realizzare nel mondo il messaggio sociale del Cristianesimo. In costoro bisognerebbe su­scitare interesse anche per una fede veramente personale ed in­teriore.

b) In altri c'è un processo di maturazione della fede, sereno, normale corrispondente all'età. Allora pel confessore il compito è facilitato: egli può — con soddisfacente risultato — assistere, sostenere il giovane, chiarirgli qualche punto oscuro, fornirgli in-

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dicazioni, suggerirgli qualche lettura e tutti i mezzi utili alla cultura ed al progresso spirituali.

e) In alcuni, invece, scoppia una vera crisi tormentosa. Un conflitto: da una parte sono affezionati alla fede dell'infanzia, dall'altra temono che ci siano obbiezioni insuperabili contro la fede. Bisognerebbe scoprire la causa — vera o principale — di questa crisi: causa che può esser di ordine intellettuale (dif­ficoltà di conformarsi alle espressioni di fede adulta e pacifica degli anziani) oppure d'ordine morale (come più spesso, anche se in modo subconscio). Comunque, il confessore deve sapere che il giovane (per la sua immaturità ed impressionabilità) è incline ad agitarsi per qualche oscurità della fede. Qualcuno è turbato senza tregua come da un'idea fissa che solo il sonno interrompe. Vorrebbe vedere la soluzione di certi misteri della fede: com'è possibile che l'Infinito sia presente e rinchiuso in un piccolo disco di pane? Come può esistere una Provvidenza quando tanti strazi, guerre, torture, s'abbattono su degli in­nocenti? Perché la preghiera (contrariamente, sembrerebbe, a quanto il Figlio di Dio ha promesso) >non sempre ottiene la grazia ai buoni che la chiedono? Un confessore sarà tentato di stizzirsi a sentir che qualcuno ripropone sempre le stesse que­stioni; e forse risponderà sbrigativamente: « o si crede o non si crede; se si avesse l'evidenza la fede sarebbe senza merito; e questa fede non si acquista ragionando ma umiliando la propria mente e pregando ». Il giovane invece vede i problemi della fede secondo un'altra prospettiva: non secondo il merito della fiducia nella Parola rivelatrice, ma secondo l'esigenza d'una dimostra­zione razionale, cioè con mentalità scientifica, come in altri campi del suo studio. Ed in certo senso ha ragione perché non può credere chi non possiede una prova razionale sicura dei mo­tivi di credibilità. Ma siccome il giovane non ha studiato ancora una solida, larga inconfutabile dimostrazione, dei « praeambula fidei » perciò non se la sente di ricorrere alla fede per spiegare, ad esempio, il dolore; ma parte dal dolore (che non capisce e vorrebbe capire) per metter in discussione la fede. In realtà (senza saperlo) yivoca la fede perché è alla ricerca dell'unica spie­gazione del dolore.

Il confessore non giudichi Ì giovani secondo il proprio metro; non pretenda una formazione intellettuale che non possono avere; e tanto meno prenda in derisione, con termini pungenti, i loro stati psicologici. Lasci invece parlare chi desidera aprirsi se vuol

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rendersi conto delle sue difficoltà e dare il consiglio opportuno e specifico. Le chiarificazioni in materia di fede devono corri­spondere alle esigenze del singolo giovane. Perciò il sacerdote deve essere preparato a rispondere a qualunque obbiezione ragionevole, a saper, con tutti, portare il discorso fino in fondo per una soluzione diretta delle difficoltà. Nulla renderebbe tanto anti­patico il confessore e la sua direzione spirituale quanto un'esor­tazione untuosa che vale per tutti. Il giovane ha bisogno di sen­tirsi compreso. Aspetta una parola di luce che sia proprio e solo per lui. Ed alla fine e soprattutto, una parola di conforto: « ti sembra che Dio non esista, che sia tanto lontano; sappi che mai ti e stato cosi vicino come ora: se ne senti il bisogno Lo hai già trovato. Nel mondo dello spirito il criterio della certezza non è la sensibilità ma la ragione e la fede » (difatti oltre al giovane che domanda una dimostrazione, c'è il giovane che vorrebbe « sentire » Dio; ma l'Infinito non è, almeno ordinariamente, og­getto della sensibilità e neppure d'una diretta esperienza spi­rituale).

Insomma, quando un giovane vuole discutere su qualche pro­blema della fede non va trattato come un imberbe saccente, vanerello o ribelle. In genere, quando tratta col confessore lo fa con serietà: è segno che realmente vuol - che la sua fede diventi un fatto personale, una realtà vissuta. Ed in genere — nelle nostre regioni — l'adolescente educato nella religione cristiana, quando sente il bisogno d'una riflessione razionale per convincersi dei motivi di credibilità, ha già fatto una personale « esperienza » della fede. Bisogna persuaderlo che il metterla seriamente in dubbio, anche se vede qualche difficoltà, sarebbe irrazionale finché i motivi di credibilità non gli risultino con certezza privi di solidità; irrazionale il sospendere l'assenso a causa di qualche speciosa obbiezione che lo impressiona. Del resto, se volesse esaminare tutte le prove da sé, non ne avrebbe né il tempo né la voglia. Il confessore ricordi a chi dice e pensa di dubitare in materia di fede che bisogna nettamente distinguere difficoltà intellettuale (prodotta da una obbiezione di cui non si vede al momento la soluzione) e dubbio di fede vero e proprio. Ed anche distinguere (cosa facile in teoria, ma non altrettanto in pratica) la tentazione di dubitare dal dubbio. Le obbiezioni contro la fede quando non siano risolte, possono dar l'impressione (od insinuare la tentazione) di dubitare. Ma altro è dubbio, altro difficoltà, altro tentazione di dubitare.

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d) Purtroppo c'è anche la categoria di coloro che veramente dubitano e che non vogliono neppure uscire dal dubbio. Come mai? Perché ciò è più comodo e non crea nessun vincolo per la libertà? Sarebbe, questo, un motivo inferiore dettato dall'egoi­smo. O perché hanno sentito filosofi e scienziati metter tutto in discussione (anche le leggi fisiche) ed affermare che non c'è nulla di assoluto e di certo? Allora il disorientamento sarebbe d'ordine intellettuale: si supporrebbe in partenza che nessun ragionamento abbia titoli ed argomenti per imporsi come valido e per generare la certezza. Bisogna far capire che questo atteg­giamento è contrario alla natura ed alla ragione dell'uomo la quale è fatta per la luce, la verità, la certezza.

2. Fermo il primato di Dio e del nostro rapporto personale con Lui, « la pastorale giovanile della penitenza dovrà sapiente­mente porre in risalto quei valori ai quali le nuove generazioni sono particolarmente sensibili: l'aspetto ecclesiale e comunitario, l'autenticità e la concretezza, l'apertura ai problemi della giu­stizia e della solidarietà » (C.E.I., Doc. Post., 12.VII.74, n. 105).

a) In fatto di sensibilità a questi problemi e valori si po­trebbero distinguere due categorie di giovani. Ci sono coloro che, nati in famiglie ricche, preferiscono godere del loro benes­sere piuttosto che proporsi un'inquietante problematica sociale. Contenti del loro stato, vogliono essere conservatori indisturbati. Altri (e non solo fra i poveri) riflettendo sulla realtà (ricchezze eccessive da una parte, indigenza e miseria dall'altra) desiderano un mondo migliore, lo creano colla fantasia, domandano che le riforme vengano attuate. Nasce in loro uno spirito di reazione, di protesta, di contestazione. E per loro natura i giovani puntano al massimo dei programmi, vorrebbero vedere realizzazioni imme­diate. Non sanno moderarsi (come quando un affetto — più o meno altruistico — li travolge). Sono estremisti, in tutto. (Se noQ fossero cosi, non avremmo nessuno che sceglie la via del sacerdozio o dello stato religioso). Perciò vanno compresi, stimati, anche se dolcemente-frenati nei loro slanci. Altrimenti possono passare anche alla violenza. Comunque, suppongo che le loro aspirazioni siano generose. Non parlo di coloro che, ancora ado­lescenti, praticano, organizzati, la rapina. Si giustificano appel­landosi a qualche ideologia. Si potrà, forse, ammettere in certuni, sulle p'rime, una reazione contro tante ingiustizie. Ma, di fatto, fanno della rapina un mezzo per non lavorare e per soddisfare i propri vizi. Questa è delinquenza minorile nella quale influisce,

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oltre alla volontà del soggetto, un complesso di fattori: indole, educazione, ereditarietà. Sono casi difficili che impegnano piut­tosto gli assistenti dei riformatori. Per questi ragazzi ci sarebbe bisogno d'una rieducazione integrale, delicata e specialissima; la quale suppone adeguati mezzi ed ambienti, preparazione accurata e specifica nelle persone addette.

Parlo ora dell'adolescente serio e riflessivo che, mosso da un ideale, s'interessa del problema sociale. Non ha la maturità di capire che la storia procede senza sbalzi violenti (solo Gesù — il più grande rivoluzionario di tutti i tempi — ha potuto segnare una svolta nella storia, ma era Dio). L'adolescente, se è religioso, forse si turba quando legge che Marx ha prevenuto la Chiesa ed ha promosso, nel campo specificamente sociale, ciò che (per altra via e finalità) avrebbero dovuto fare i cristiani: un uomo — e non in nome della carità cristiana — ha schiuso le porte d'un avvenire di maggior giustizia ai poveri ed agli affa­ticati. Mentre la Chiesa (che avrebbe dovuto realizzare il mes­saggio sociale cristiano) ha piuttosto difeso la proprietà privata e cosi si è schierata dalla parte dei capitalisti e non dalla parte degli operai e dei servi. In questi ultimi tempi ha cambiato rotta prendendo posizioni favorevoli ai poveri ed ai lavoratori. Ma è arrivata in ritardo. È quanto sente dire l'adolescente. Ed egli s'impressiona quando gli par di constatare che anche negli uomini di Chiesa spesso si annunciano le beatitudini evangeliche ma non si praticano; si esorta, si auspica, si sollecita, ma poi — ogni volta, o quasi — gli uomini di religione non ritrovano nelle opere quella presenza, quell'ispirazione e quei propositi che predicano. È tentato di chiedersi se l'attuazione del mes­saggio evangelico non vada, a mano a mano, smorzandosi, esau­rendosi, e quindi se lo stesso messaggio sia credibile o meno.

b) Il sacerdote dev'esser preparato e pronto a dir la parola illuminante (che suppone però una profonda conoscenza delle questioni nelle loro radici ed in tutti i loro aspetti):

1) anzitutto — quando si discute su quanto la Chiesa ha fatto, fa e farà per una maggiore giustizia sociale nel mondo — bisogna fissare e tener ben fermo il principio: la missione spe­cifica di Cristo e della sua Chiesa « non è d'ordine politico, eco­nomico o sociale » ma « religioso » (GS, 42): portare la salvezza e la vita soprannaturale alle anime. Perciò, ad esempio, la Chiesa primitiva non parti col programma d'abolire la schiavitù. Il suo annuncio era un invito alla conversione predicata sulla linea

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dei principi: l'amore di Dio e del prossimo. L'abolizione della schiavitù sarà la conseguenza della nuova spiritualità cristiana. Nel Medioevo (e nei secoli seguenti) permasero stridenti disu­guaglianze di carattere economico. La Chiesa non pensò che bi­sognasse prima risolvere efficacemente il problema sociale se si voleva che le anime accogliessero il Vangelo. Le situazioni d'in­giusta indigenza — negli individui e nei popoli — andranno sem­pre più eliminandosi. Ma non è questo l'obbiettivo diretto della missione della Chiesa: ne sarà uno dei frutti. Del resto, Cristo ha preannunciato che lo sviluppo dello stesso Regno di Dio — nella sua essenzialità e nelle sue benefiche conseguenze sociali — sarà progressivo e sarà simile al seme che lentamente diventa pianta. Ma se si sposta sul piano puramente terreno il fine mis­sionario della Chiesa è logico che i giovani siano presi dai dubbi di fede quando affrontano i problemi sociali. Almeno nei paesi cristianizzati — pensano — la Chiesa avrebbe dovuto realizzare di più nel campo sociale: non solo compiere, qua e là, opere di carità, ma indurre una più generale trasformazione del mondo secondo giustizia. Se non ci è riuscita, concludono, si può chie­dersi se sia davvero una società divina e non solo umana.

2) Sicuramente, se la vita spirituale dei credenti fosse fio­rente, ne scaturirebbero anche « impegno, luce, forze » per lo stesso benessere terreno dell'umanità (GS, 42). E se gli uomini di Chiesa non hanno sempre lavorato con zelo per il fine sopranna­turale, è comprensibile che anche i benefici temporali della loro missione non siano stati quali potevano essere nei desideri della Provvidenza e dell'umanità. C'è un elemento umano della Chiesa con tutti i suoi limiti e volontarie manchevolezze.

3) Comunque, nessuno può negare che gli uomini di Chiesa abbiano lavorato direttamente nel campo della carità, della cul­tura, della civiltà, fondando istituti con un primato da tutti indi­scutibilmente riconosciuto. Il giovane s'impressiona di fronte alle incoerenze d'alcuni uomini di Chiesa, perché non è ancora in grado di giungere ad una globale e serena visione che gli per­metterebbe di registrare anche gli eroismi. Certo se gli uomini corrispondessero più generosamente alla grazia, il disegno di Dio s'attuerebbe più celermente. Eppure, nonostante le debolezze e gli errori dei suoi figli, la Chiesa è sempre in crescita e diventa sempre più pura, più bella, più giovane. Ma l'adolescente non riesce a formarsi da solo, con sicurezza, questi giudizi.

4) Si accusa la Chiesa di non aver affermato più decisamente

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e tempestivamente certi diritti della classe povera, ma di aver piuttosto difeso la proprietà dei ricchi. Ora, anzitutto si dovrebbe riconoscere che documenti quali la « Rerum Novarum » non na­scono dalla sera alla mattina. E quanto la Chiesa insegna e fa non si trova solo nelle Encicliche e nelle opere promosse dalla gerarchia. Ci sono altri scritti ed altre opere di cristiani che appartengono alla Chiesa, lavorano nella Chiesa e rappresentano la Chiesa. (Ad esempio, l'opera La questione operaia ed il cri­stianesimo del Ketteler usci nel 1864, quattro anni prima de Il Capitale di Marx). La Chiesa ha difeso la proprietà privata, è vero. Ma l'ha fatto anzitutto perché è un diritto (salva la desti­nazione universale dei beni), diritto da rispettarsi sotto pena di aprir le porte al disordine sociale, alla violenza, alla delinquenza; e la Chiesa ha sostenuto la proprietà privata nell'intento che venga sempre più estesa anche a coloro che possono giungervi solo per mezzo del proprio lavoro, cioè agli operai. Lo scopo a cui tende nel suo lavoro l'operaio — si legge nella Rerum Novarum (n. 4) — è di possedere qualche cosa « come sua e propria ». Se poi, dopo aver provveduto alle necessità della vita, riesce colle sue economie a far dei risparmi ed investe il denaro in un terreno (come ha diritto), questo non è altra cosa che il salario « il quale ha assunto altra forma ». Questa libertà, questo diritto, questa speranza di migliorare la propria condizione sarebbe resa impossibile in un regime statale collettivista (quando parla dei « socialisti » — Intr. n. 3 — l'Enciclica si riferisce a quelli estremisti che pretendono doversi abolire la proprietà privata dei beni e fare di tutti i patrimoni particolari un patrimonio comune da amministrarsi per mano dello Stato).

Quanto poi a suggerire allo State quale può essere il suo intervento nel limitare il diritto dei singoli secondo il principio della' destinazione universale dei beni, è ovvio che la Chiesa ha dovuto pronunciarsi con somma discrezione, sia per non esor­bitare dal suo compito sia per non favorire azioni di forza con­trarie all'ordine pubblico ed ai diritti naturali del singolo. Il progresso della civiltà e della giustizia sociale è graduale (nei disegni stessi di Dio) e non era compito della Chiesa proporre diret­tamente formule e programmi determinati. Il giovane sente dire dai critici della Chiesa che Leone XIII nella « Rerum Novarum » sarebbe stato alquanto miope affermando con intransigenza il diritto di proprietà privata come diritto naturale inviolabile, quasi ignorasse la distinzione fra beni produttivi e beni di consumo.

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Evidentemente (si dice) egli alludeva ad una società agricola e non si prospettava i problemi dell'incipiente società indu­striale nella quale beni ingenti si sarebbero accumulati nelle mani d'una classe dirigente preoccupata d'accrescere il capitale anziché di migliorare le condizioni dei poveri operai. Pertanto la Chiesa praticamente avrebbe sostenuto coloro che sfruttavano i lavoratori. Ma anche questo non è esatto. La « Rerum Novarum » parlava di « operai » i quali « sive in agris artem atque manum, sive in officinis exerceant » (n. 18); trattava di « salari », di « scioperi », di « associazioni operaie ». Quindi non solo di rurali. E richiamava — com'è suo specifico compito — i principi morali interessanti la vita sociale. Da una parte, il Pontefice affermava energicamente, contro il collettivismo, il diritto di proprietà pri­vata. Il quale non può essere ristretto ai beni di consumo ed esser negato in linea assoluta per i beni di produzione. D'altra parte e nel tempo stesso però l'Enciclica rivolgeva un invito ai privati ed allo Stato perché facessero tutto il possibile per mi­gliorare le condizioni degli operai (n. 18). Cosa si pretende di più dalla Chiesa? Che in modo definitorio dichiarasse che l'unica soluzione del problema sociale e l'unico rimedio contro le eccessive disuguaglianze era la generale socializzazione dei mezzi di produ­zione, sui quali soltanto allo Stato spetterebbe il dominio? E si pretende forse (anche da parte di certi cattolici) che la Chiesa affermasse — prima d'ogni altro, in modo assoluto e profetico

— che bisogna e conviene indurre la partecipazione di tutti gli operai agli utili dell'impresa? Ma questioni come questa — a parte i principi del diritto naturale — in concreto vanno risolte secondo modi e gradi che dipendono dalle varie situazioni e circostanze (come osserva la Mater et Magistra, n. 78). E la Chiesa — in quanto Collegio Apostolico docente — non ha il compito specifico di fare le indagini sociologiche sulle condizioni eco­nomiche della società, secondo i luoghi ed i tempi. Se, alle volte — nell'esposizione dei principi dottrinali — vi fa qualche rife­rimento è perché il discorso non rimanga astratto e privo di ade­renza ed efficacia pratica. Perciò — a proposito, ad esempio della partecipazione degli operai agli utili dell'azienda — la Chiesa, al massimo, potrà suggerire (come si leggeva già nella Quadragesimo Anno, n. 30; 34) che si veda (secondo le possi­bilità, s'intende) di temperare il contratto di salario con quello di società di modo che gli operai siano cointeressati o nella pro­prietà o nella cura (« curatio ») dell'impresa e diventino partecipi

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in qualche misura dei guadagni realizzati. La Ma ter et Magistra di Giovanni XXIII (15.V.1961) richiamava quanto affermato nella « Quadragesimo Anno » (promulgata trent'anni prima) esortando che dove le imprese realizzano ingenti sviluppi produttivi me­diante l'autofinanziamento, sia riconosciuto ai lavoratori qualche titolo di credito nei confronti delle imprese in cui operano, spe­cialmente quando venga loro corrisposta una retribuzione non superiore al minimo salario (n. 81); ricordava (n. 82) il prin­cipio esposto nella stessa Quadragesimo Anno: « è del tutto falso ascrivere od al solo capitale od al solo lavoro ciò che si ottiene con l'opera unita dell'uno e dell'altro» (AAS, 23, 1931, 195); auspicava altresì che i lavoratori, nei modi più convenienti, possano giungere a partecipare alla proprietà delle imprese stesse, in modo che oggi — come e più che ai tempi della Quadrage­simo Anno — i capitali guadagnati non si accumulino se non con equa proporzione presso coloro che dispongono di mezzi eco­nomici, e si distribuiscano con sufficiente larghezza presso i prestatori d'opera (cfr. AAS, l.c, p. 198). Tuttavia l'enciclica Mater et Magistra aggiunge che questo adeguamento fra la rimunerazione del lavoro ed il reddito va attuato in armonia alle esigenze del bene comune, sia della propria comunità politica sia dell'intera famiglia umana. Bisognerebbe, ad esempio, sul piano nazionale, dare occupazione al maggior numero possibile di lavoratori, evitare che si costituiscano categorie privilegiate, anche fra i lavoratori, eliminare o contenere entro certi limiti gli squi­libri esistenti fra i settori dell'agricoltura e dell'industria (nn. 84-85).

Circa la nazionalizzazione di certi mezzi di produzione la Re­rum Novarum fissava anzitutto il principio che individuo e fami­glia non devono esser assorbiti dallo Stato, che bisogna lasciare « facoltà d'agire con libertà, quanta se ne può, cioè salvo il bene comune e gli altrui diritti ». Ma se non c'è altra via per riparare, od impedire, un danno arrecato, o sovrastante, alla società, od a qualche sua parte, allora « l'intervento dello Stato è necessario » (n. 19). Un principio generalissimo, ma che conteneva virtual­mente quanto la Quadragesimo Anno dichiarerà: « si può so­stenere a ragione che certi generi di beni siano riservati allo Stato quando portano con sé tale potere economico che non si può lasciare in mano di privati senza pericolo pel bene comune » (n. 46). La Mater et Magistra richiama e riafferma lo stesso principio considerando la tendenza dell'epoca moderna d'estendere sempre

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più la proprietà dello Stato e degli enti pubblici. Lo può esigere il bene comune, però secondo il principio di sussidiarietà: « al­lora solo è lecito allo Stato ed agli enti pubblici ampliare i con­fini del proprio dominio, quando lo esige evidente e vera necessità del bene comune; e deve esser escluso il pericolo che le proprietà dei privati siano oltremodo ridotte o — il che sarebbe ancor peggio — siano completamente eliminate » (n. 124).

5) Nessuno può negare che la Chiesa abbia sempre pre­dicato carità e giustizia ed anche realizzato, qua e là, innumeri opere di misericordia e di civiltà. Quel che le si rimprovera è che la sua dottrina sia rimasta sulla carta e non abbia portato — nel corso di tanti secoli — un più sensibile cambiamento d'in­giuste strutture sociali. Si può rispondere che se la Chiesa avesse fatto di più, la si sarebbe accusata d'aver abusato del suo mi­nistero occupandosi anche d'economia e di politica: il liberalismo contestava ogni attività della Chiesa che non fosse strettamente religiosa.

6) C'è un'altra accusa (che non lascia insensibili gli.'animi, specialmente giovanili) mossa alla Chiesa: di esser ricca (oltre ad aver difeso le classi privilegiate)4. E come può esser credibile (si conclude) questa società che ha accumulato e continua ad accumulare ricchezze, mentre dovrebbe avere una missione spi­rituale? A questo rimprovero bisogna rispondere decisamente che se la Chiesa ha amministrato (e continuerà ad amministrare) molti beni economici di sua proprietà, ciò non è contràrio alla povertà evangelica. Perché anche per le opere d'ordine spirituale e soprannaturale sono utili e necessari i mezzi materiali5. Quel che importa è il modo come si usano, la finalità, lo spirito'con cui ci si serve di quanto è terreno. Certo la Chiesa è composta da uomini che non sono senza difetti. Anche nei componenti la gerarchia cattolica può esser mancato (in grado vario, a seconda dei luoghi e dei tempi) quello spirito di distacco e di povertà

4 Si noti la confusione che questi critici fanno fra i beni economici della S. Sede con quelli di tutte le comunità, enti, famiglie, istituti religiosi ed ecclesiastici: questi hanno una proprietà indipendente dei loro beni (anche se ovviamente la suprema autorità ecclesiastica esercita un certo con­trollo perché sia assicurato l'ordinato funzionamento ed il fine sociale e spi­rituale al quale le varie opere rette da ecclesiastici e religiosi sono destinate).

5 E se la Chiesa ,deve aiutare le opere apostoliche di tutto il mondo cattolico, non dovrebbe recare né meraviglia né scandalo se i mezzi materiali di cui dispone la S. Sede fossero notevoli relativamente alla superficie territoriale del simbolico Stato della Città del Vaticano.

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che dovrebbero distinguere i veri cristiani, ed anzitutto quelli che hanno abbracciato una vita di perfezione. Specialmente pel passato ci fu troppa differenza economica fra una classe e l'altra della società: a questa situazione si sono conformati nella loro vita — non sempre evangelica — anche molti uomini che nella gerarchia ecclesiastica avevano posti di responsabilità. E questi non si possono lodare.

7) Resta il fatto mortificante — si obbietta — che un non cristiano, Carlo Marx, ha prevenuto i cristiani facendo una dia­gnosi sociale per certi lati tuttora valida. Ebbene, possiamo rispon­dere semplicemente che qualsiasi uomo (anche non credente) può esser — nei disegni della Provvidenza •— occasione solle­citante la Chiesa ed i Cristiani a riformare i costumi morali, a migliorare le condizioni di vita. È stato scritto che come l'Assiria fu la « verga » con cui Dio cercava di convertire il popolo d'Israele che Lo abbandonava, cosi il comunismo ha una fun­zione punitiva nel mondo moderno. È il concime della nostra civiltà, il fertilizzante — magari maleodorante — alle narici degli uomini dabbene; la scopa in mano dei sovietici ai quali Dio permette di spazzar via le imperfezioni del pensiero orientale; la spada punitrice della civiltà occidentale che ha troppo dimen­ticato la funzione dello spirito nella cultura umana (Fulton J. Sheen, La crisi del mondo e la Chiesa, 1956, pp. 6-7; 22).

Questi ed altri spunti potranno esser sviluppati e servire per qualche risposta che illumini sui problemi sociali le menti immature dei giovani.

3. Il problema del rapporto fra autorità e libertà. Sorge prestissimo ed acutissimo nei giovani d'oggi — anche nei migliori. Precoci, più impazienti che pel passato, sono coscienti d'avere anch'essi un ruolo importante nella società: « non semel impa-tientes, immo angore rebelles fiunt, et conscii de proprio mo­mento in vita sociali, citius in eadem partes habere cupiunt » (GS, 7). Bisogna far sì che siano evitate certe contestazioni e contrasti violenti, anzitutto nei rapporti coi genitori. Le « fughe », ad esempio, sono segno d'un problema non risolto. La colpa della mancata soluzione può trovarsi tanto nell'una come nell'altra parte.

a) Prima condizione ed accorgimento per ottenere che i gio­vani seguano il prudente consiglio dei più anziani: bisogna saperli prendere, iniziare il dialogo dimostrando loro fiducia. Non trat-

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tarli come ragazzini. Il confessore, abbia questa^ sensibilità. Ed ai genitori, all'occasione, raccomanderà che procurino anzitutto d'ottenere il bene senza bisogno di ricorrere all'esercizio dell'auto­rità. L'ideale: comandare meno che è possibile. Agli adolescenti è anche opportuno spiegare le ragionevoli motivazioni d'un con­siglio. Non sono più bambini. Vogliono esser persuasi, sentirsi valutati ed amati da parte degli educatori. Allora potrà stabilirsi un clima di collaborazione per una educazione che non si riduca alla disciplina della caserma. Però se un giovane, nonostante tutte le cure intelligenti ed amorose dei genitori, si comporta indegna­mente ed irresponsabilmente, non si dovrà escludere ogni ricorso ai mezzi piuttosto energici. Infine, in certi casi nei quali ogni metodo e tentativo si è dimostrato inefficace, l'esperienza inse­gna che bisogna ricorrere anche ad un consulto e ad una cura medica.

b) Al giovane bisognerebbe far capire che quanto gli chiedono i suoi consiglieri, mossi da ragionevoli motivazioni, sarà il meglio per lui. Perciò quando si sentirà sollecitato da qualche impulso, o ragione — personale o di terze persone, amici, ad esempio — a dissentire ed agire contro il suggerimento dei genitori, dovrebbe avere la decisa abituale autocoscienza che, nel dubbio, normal­mente non sbaglia nel fidarsi di chi è retto, spassionato, ha più esperienza di lui, lo ama ed ha la missione di aiutarlo e guidarlo. Dico: normalmente, perché non è escluso che, in qualche caso, un consiglio pressante dei genitori — per esempio sulla scelta dello stato, della professione —• appaia, per ben fondate ragioni, contrario alla volontà di Dio. Allora il giovane potrà consultarsi col suo esperto confessore e direttore spirituale che gli sugge­rirà come comportarsi prudentemente e quale decisione prendere responsabilmente, con sicurezza e tranquillità di spirito.

4. Il problema della purezza. a) È purtroppo attuale quanto scriveva il Mercier parecchi

decenni fa: «Due vizi ignobili decimano la nostra gioventù con maggior ferocia d'una guerra mondiale, Palcoolismo e la prostituzione » {La vie intérieure, p. 249). Per i giovani delle nostre città e delle nostre scuole — è stato scritto — « l'aprirsi del periodo della pubertà non corrisponde — come poteva essere nell'età del risorgimento o del romanticismo — a uno spalan­carsi di nuovi orizzonti, di nuovi ideali, di possibili nuove felicità. Il giovane, molte volte, prima ancora che al problema della

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"cotta", si trova di fronte a quello del meretricio. Ne sente parlare, lo conosce, talvolta lo esperimenta, prima ancora di ca­pirlo, prima ancora di avere la possibilità di comprendere quanto sia turpe e triste l'esperienza amorosa senza l'amore » (AA.W., Responsabilità della cattedra, Roma, 1944, p. 84).

In questi ultimi anni s'è aggiunto e diffuso l'uso della droga. Da inchieste abbiamo dati allarmanti. A Roma, ad esempio, non c'è, praticamente, scuola nella quale la droga non sia entrata o non sia in grado di entrare. Risposte date da cinquemila alunni fra i 16 e i 18 anni, ci fanno sapere che una percentuale fra il 30 ed il 35 per cento degli studenti ha provato, almeno una volta, la droga. A Milano la droga è venduta nelle vicinanze, di quasi tutte le scuole e stazioni ferroviarie dei piccoli centri. Al Centro antidroga dello stesso capoluogo lombardo, l'età media degli assistiti è intorno ai 18-20 anni. Ma spesso i genitori vi conducono ragazzi di 13-14 anni che presentano sintomi gravi d'intossicazione. Diagnosi delle cause e valutazioni delle respon­sabilità non sono facili, nei singoli casi. La pubertà esplode im­provvisamente e trova molti ragazzi spiritualmente e moralmente impreparati (oltre che, per natura, strutturalmente fragili). S'ag­giunge un ambiente familiare e sociale che fornisce continui in­centivi alla passione sessuale. I giovani pertanto meritano anche comprensione.

b) Bisogna affrontare il problema con intelligenza, amore e fede. Ho sentito dire che un educatore — il quale conosceva bene l'animo degli adolescenti e le vie di Dio — non temeva affermare: « datemi un giovane puro e ve ne farò un santo ». Ed un autore di Teologia Pastorale scriveva: « Ogni età ha i... suoi particolari peccati, onde si riferisce un detto di s. Filippo Neri, che, tolta da' giovani la lascivia, da' vecchi l'avarizia, tutti si salvano» (Giordanini, Istruz. per i novelli conjess., I, 1841, p. 85). Indubbiamente chi possiede una delle virtù cardinali (auten­tica s'intende, anche se non in grado straordinario) possiede virtualmente tutte le altre virtù morali cardinali (in grado più o meno elevato). Chi ha dunque la castità — e la possiede come un valore amato, acquisito, conquistato e difeso — questi sarà anche laborioso: nei doveri del suo stato non conoscerà ozio e dissipazione. Sarà generoso: coltiverà l'amicizia e l'amore verso gli altri, specialmente verso i più deboli ed i più poveri. Irradierà la sua fede e la sua virtù con più efficacia di tante prediche. Non si dovrà imporgli altro che il dovere dell'esempio: alTocca-

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sione saprà — spontaneamente — impegnarsi anche nel dialogo, professare la sua fede e cosi comunicarla agli altri. Per la sua purezza — praticata intelligentemente e serenamente con un con­tegno rettilineo ma disinvolto — godrà un prestigio ed eser­citerà un'influenza fortissima e profonda, anche se non appari­scente e forse non avvertita.

e) Ma la purezza esige un'aspra lotta continua e tante rinunce. Il problema si risolverà nell'uso dei mezzi che siano pedagogica­mente, psicologicamente, naturalmente e soprannaturalmente ef­ficaci per conservarla (o riconquistarla).

1) Anzitutto nessuno s'impegnerà con decisione e sacrificio in questa battaglia se non ha un ideale che lo affascina. L'entu­siasmo, a sua volta, dev'esser fondato su solide persuasioni. Invece, nelle menti giovanili spessissimo non ci sono che idee torbide e confuse sull'alta finalità dell'istinto sessuale. C'è una frattura tra valore religioso e valori umani della sessualità e del­l'amore: effetto deleterio della secolarizzazione. Perciò si passa con leggerezza da una amicizia all'altra come per gioco, solo per godere passeggere soddisfazioni. Al confessore — in quanto tale — è proibito (S. Off., De agende ratione confess. circa VI, n. II , 16.V.1943) di dare ai giovani una specifica istruzione sessuale. Ma, all'occasione, se necessario, potrà (pare) indicare con deli­catezza ed elevatezza d'espressioni, i fini provvidenziali che Dio ha avuto dando all'uomo l'inclinazione verso la donna. Non si presenterà quindi la purezza come una legge che viene solo dal­l'esterno — per autorità della Chiesa — ma come una necessità della natura per la sua felice realizzazione. I giovani si ribellano ad ogni imposizione che abbia la sua giustificazione solo nell'au­torità da cui procede. Talora sentiamo che si pongono e ci pongono la domanda: perché Dio ci ha dato la libertà e nel tempo stesso la vincola con una legge morale? Possono vedere, in questo, una contraddizione appunto perché considerano la legge morale come una negazione della libertà. Bisogna far loro capire che questa legge non viene solo dall'esterno: è un'esigenza della natura razionale. Se vogliamo raggiungere il nostro fine dobbiamo seguirla. Il bimbo può credere che i genitori sacrifichino il suo bisogno di moto quando gli proibiscono di correre all'impazzata, in luoghi pericolosi, colla sua bicicletta. Solo quando sarà ca­duto e dolorante, forse capirà. Ma l'adolescente non è un bimbo. Può e deve comprendere che la legge morale è dentro di noi: è la nostra stessa natura considerata secondo le sue più profonde

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aspirazioni e secondo tutte le sue relazioni. Il giovane pretende difendere la sua libertà da imposizioni — dogmi, leggi morali, strutture —: in realtà, proprio oggi, ognuno rischia di perdere la sua autentica libertà e di subire le pressioni esteriori — spe­cialmente degli strumenti di comunicazione sociale — anziché seguire gli impulsi interiori alla verità ed al bene6.

2) Infondere convinzioni esatte; suscitare la passione per un ideale. E perché i buoni propositi si traducano nei fatti, il gio­vane ha bisogno d'esser sollecitato — dolcemente ma insisten­temente — a formarsi un carattere, ad irrobustire la propria volontà. E la volontà si fortifica con l'allenamento. Le grandi energiche decisioni, gli atti eroici suppongono l'abitudine ai pic­coli sforzi ed alle rinunce d'ogni giorno: vincere l'indolenza e la pigrizia, evitare ogni eccesso nell'accontentamento del corpo, dei capricci e delle vanità.

E cosi la castità del giovane, se da una parte può dirsi garan­zia d'ogni altra virtù, dall'altra dev'esser vista e presentata sempre come la risultante d'un complesso di sforzi generosi e costanti compiuti in tutti i campi della vita morale, ascetica, religiosa. Si comprende allora e si deve ammettere che chi la possiede è sulla via della santità.

3) Ma le sole forze umane, per quanto buona sia la volontà, non sono sufficienti alla formazione di questa virtù. La natura umana è debole. Il confessore quindi incessantemente infonderà e ravviverà nei giovani penitenti l'idea che è necessaria la grazia: bisogna possedere un ideale vivo, un carattere forte e l'anima unita a Dio per resistere alle passioni se si scatenano veementi ed improvvise (cfr. S.C. per la Dottrina della Fede, Dich. Pers. Humana, 29.XII.75, n. 12). Strumentalizzeremo cosi la religione come un mezzo per risolvere il problema della prudenza? Ma, è un fatto, i giovani stessi quando hanno capito le alte finalità del sesso e sentono il bisogno di conservarsi puri, sono istintivamente indotti — senza far esplicita questione sulla gerarchia dei fini — ad un consapevole e non solo abitudinario esercizio della preghiera e della pratica sacramentaria. Vita eucaristica. Devozione alla Ma­donna che — Madre purissima, Vergine delle vergini — è sem-

6 Per l'influsso continuo della TV, del cinema, d'un determinato gior­nale quotidiano, si può modificare la mentalità dell'ascoltatore e del let­tore. E questo avviene gradatamente, senza ch'egli se n'accorga.

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pre stata invocata in particolare da chi desidera la grazia della castità. Devozione all'Angelo Custode (oggi trascurata, mentre tutta la Scrittura e la Tradizione la raccomandano). Frequenza alla Confessione. Una direzione spirituale, sia pur breve ma perio­dica e costante: l'incontro stesso, una sola parola con un sem­plice « arrivederci » serve come una carica per conservare la buona volontà, esser pronti nel resistere alle tentazioni e, nel caso di cadute, non scoraggiarsi e non arrendersi mai. Ricorrendo a questi mezzi i giovani migliori mettono cosi in pratica questo principio: senza il sentimento religioso e la pratica religiosa non si risolve positivamente ed abitualmente il problema morale. Qualche mam­ma chiede: «quali argomenti devo portare al mio figliolo per­ché sia forte nei pericoli e nelle tentazioni? Gli dico che se comin­cia a cedere alla passione dei sensi può, un po' alla volta, diven­tare un vizioso, ed allora risentirne nella salute, contrarre qualche malattia, ed inoltre rovinare qualche compagna irrimediabilmen­te... ». Tutto bene. Ma sono motivi in pratica inefficaci. Se non c'è una fede sentita e vissuta, il giovane, quando esplode la sen­sualità, non avrà freni che lo arrestino: sarà travolto dall'im­moralità, sedotto dai cattivi esempi dei compagni. Vizio, malavita, teppismo possono essere le estreme conseguenze.

4) L'impurità volgare — farà capire il confessore all'adolescen­te — è sempre una forma di egoismo. Egoismo che molti adole­scenti vorrebbero coprire, ad esempio cercando di scusare come una necessità fisiologica la pratica della masturbazione. D'altra parte se ne confessano. Dunque hanno coscienza che è qualcosa che sconviene, che non si dovrebbe fare. Forse senza colpa hanno contratto l'abitudine e, non riuscendo a vincersi, cercano una giu­stificazione. Per vincersi sarà ottima medicina l'aprirsi, l'interes­sarsi ed il prestarsi per gli altri con generosità e dedizione; parte­cipare ai dolori altrui recando qualche servizio, aiuto, conforto; non approfittare di chi è più debole per dominarlo, ma rispettarlo, aiutarlo, proteggerlo. Anche l'affetto per una compagna — ap­punto perché non è solo la ricerca d'una soddisfazione egoistica — può esser, per un giovane, un mezzo per superare le tentazioni im­pure o risollevarsi dal fango. Però quest'affetto — anche se non privo di simpatia sensibile — deve conservarsi sempre in una sfera di spiritualità: perciò domanda forza di volontà, autocontrollo.

d) Anche in materia di sessualità l'indole della giovane è di­versa da quella del giovane. Nell'uomo l'istinto sessuale si ma­nifesta, in genere, fortemente, sia pur con diversità di tempo e di

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grado. Tuttavia egli può ben distinguere, nella sua vita, la sim­patia e l'affetto elevato (anche se non immune da sensibilità) dalla passione puramente sessuale verso altre persone alle quali nessun affetto spirituale lo muove e lo lega. In genere la donna è molto meno incline dell'uomo ai rapporti sessuali. In lei pre­domina il cuore. Però ognuna ha il suo temperamento. Alcune, al pensiero dei rapporti sessuali, provano un senso di disagio (prima del matrimonio e nel matrimonio stesso) che può arrivare fino all'avversione ed al ribrezzo: si senton chiamate al matrimonio e lo desiderano, però lo vedono solo sul piano dell'affetto spiri­tuale ed ai fini della maternità. Queste dovranno esser illumi­nate (o richiamate a riflettere) sul fine stabilito dal Creatore: sul merito, anche soprannaturale, che avranno nel compiere tutto ciò che rientra nella volontà di Dio. L'ideale d'una vita più spiri­tuale sarà astrattamente più alto ma in concreto non conforme all'ordine provvidenziale per coloro che abbracciano lo stato ma­trimoniale. E la santità che Dio vuole da ognuno consiste nel compiere i doveri del proprio stato.

Qualche ragazza, invece, che ha sortito una sessualità prepo­tente e precoce dovrà esser aiutata a frenarla, a cercare e coltivare un affetto più serio, spirituale e profondo.

Il confessore adatterà i consigli alle penitenti a seconda delle loro particolari inclinazioni prevalenti. Se la fisiologia e la psico­logia del ragazzo è diversa da quella della ragazza, anche per questa esistono pericoli, crisi, disordini. Saranno d'altro genere, ma non sono meno gravi pel fatto che riguardano meno aperta­mente e meno direttamente la parte fisica. Anzi. Se la giovane ha, in genere, una natura meno sensuale del giovane, è più facile a lasciarsi travolgere dal sentimento. Per il giovane un amore è uno degli elementi della sua vita; per la giovane spesso diventa l'ideale che s'impadronisce interamente della sua anima, in ordine al quale organizza tutta la sua vita. La ragazza prova poi l'innato e vivo bisogno d'esser ricercata, assistita, vezzeggiata, amata. Per­ciò può asser tentata ed indotta ad usare ogni mezzo per attirare a sé altre persone, specialmente giovani, senza rendersi conto de­gli effetti e delle conseguenze di questi suoi atteggiamenti Ci tiene ad esser preferita. Dal confessore stesso. E facilmente fa capire ad altri questa sua compiacenza. Siccome oltre lo spirito ci sono anche i sensi, se un confessore ingenuo perdesse il pieno auto­controllo, potrebbero nascere pericoli e guai anche per lui. Per­ciò anche la giovane è impegnata in una lotta per la purezza. Ha

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da tener a freno la sua vanità: il desiderio di piacere è naturale e non è un male, ma non deve portare agli eccessi. Bisogna mo­derare certe libertà, negli atteggiamenti, nei gesti, nell'abbiglia­mento, nelle parole. Una ragazza composta ma disinvolta, franca, padrona di sé contro tutte le insidie e le turpitudini (che non ignora) saprà reagire senza paura colla sua parola, ed anche col solo sguardo e contegno, ad ogni insinuazione o provocante allu­sione che possa venire da un compagno o da una compagna. Per l'attuale precocità degli adolescenti, nei rapporti fra i due sessi, c'è maggior libertà e minor timidità che pel passato. Il fenomeno, se fosse contenuto entro i limiti e nell'ordine della disinvoltura, della franchezza, della semplicità, non sarebbe da considerarsi negativo. Ma i pericoli sono ovvi quando manca la formazione spi­rituale che assicura a questi rapporti un'atmosfera d'elevatezza, di rispetto, di gentilezza, di riserbo.

5. La scelta dello stato. I giovani riflessivi e religiosi — tanto maschi che femmine —

quando sentono il bisogno d'un consiglio in materia, spesso non ricorrono né ai genitori, né a parenti, conoscenti, amici (per quan­to prudenti): l'unica persona alla quale s'aprono con confidenza e fiducia è il confessore.

a) Bisogna presentare chiaramente ai giovani i due stati — ma­trimonio e verginità (o celibato) — come due vocazioni e due carismi che testimoniano, in diversità di espressioni, l'unico amore per Cristo: due vocazioni le quali, entrambe, offrono i mezzi per la santificazione personale e concorrono all'edificazione della Chie­sa. Ma non si può tacere la superiorità della verginità o celibato, abbracciati « per amore del Regno dei Cieli » (Mt. 19, 12): « si quis dixerit statum coniugalem antepònendum esse statui virgi-nitatis vel caelibatus, et non esse melius ac beatius manere in virginitate aut caelibatu, quam iungi matrimonio: an. s. » (C. Trid., Sess. XXIV, De matrim. e. 10, D.S. 1810). Oggi però que­sta superiorità è quanto mai messa in discussione sul piano ideo­logico ed è messa in pericolo sul piano pratico. Per difenderla in teoria e coi fatti coerentemente, occorre un amore ardente e gioioso pel Cristo ed il desiderio d'una intima unione con Lui.

b) Ferma la superiorità in sé — astrattamente ed idealmen­te — dello stato di verginità sullo stato matrimoniale resta da considerare il problema in relazione al singolo soggetto. La scelta in sé più perfetta non è sempre la migliore in concreto II con-

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fessore, invitato a dare un consiglio, prima di proferire una ri­sposta sicura si prenderà il tempo necessario per esaminare tutte le circostanze e per attendere se mai venga alla luce qualche fatto ed elemento che potrebbe esser determinante. D'altra parte, sa­rebbe il più grave degli sbagli il tenere un'anima continuamente sospesa, rimandando all'infinito una decisione. Non prenderla tem­pestivamente può significare il rimanere per sempre, nel mondo, come una persona spostata. Per solito la chiamata avviene fra i sedici ed i vent'anni.

e) Il consigliere spirituale aiuta il giovane o la giovane a sco­prire la volontà di Dio nella scelta dello stato. Bisognerà atten­dere a tutte le circostanze — attitudini fisiche, morali, spirituali, inclinazione, impedimenti — per riconoscere se un determinato genere di vita è adatto ad un soggetto e se ci sono garanzie di sicurezza e di perseveranza. In questo esame sui segni di voca­zione c'è ima collaborazione fra la persona interessata ed il suo direttore spirituale. Collaborazione fondata soprattutto sulla pre­ghiera. In una Nota sulla perfezione del clero secolare del 13.VII.1952, Pio XII suggeriva che ad un giovane o ad una giovane bisogna dire press'a poco cosi: « Nella preghiera, nella medita­zione, nel consiglio, e, in base ai tuoi talenti naturali e alle tue serie intenzioni, chiediamo al Signore la luce necessaria per ve­dere se tu devi raggiungere la perfezione stando nella vita ordi­naria di un padre o madre di famiglia oppure entrando in un Istituto Secolare, in un Ordine religioso o in una Congregazione. Se devi farti sacerdote in un seminario diocesano o in un Isti­tuto religioso ».

La decisione ultima, liberissima e personalissima spetterà e sarà lasciata sempre al soggetto. Anche quand'egli volesse affidare la scelta al suo consigliere (« faccio quanto decide Lei che mi conosce »), il consigliere propriamente potrà assicurarlo soltanto che una data decisione è — tutto considerato — prudente e gli sembra esser secondo la volontà di Dio, cioè la migliore. Se il consigliere imponesse questa scelta o la facesse al posto dell'in­teressato, gli inconvenienti che in seguito possono sorgere sono ovvi: di fronte a difficoltà (immancabili in ogni stato ma supe­rabili colla fiducia e la grazia di Dio) nascerebbe forse l'idea con­troproducente ed opprimente d'aver fatto una scelta non libera, ma imposta (cfr. J. De Guibert, Th. Spirti., Romae, 1939, n. 192).

d) La grande maggioranza dei giovani e delle giovani è chia­mata al matrimonio, e, di fatto, lo segue senza incertezze e senza

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far questioni sulla scelta. La via migliore e più sicura, in ordine alla perfezione resta sempre lo stato religioso con la pratica dei consigli evangelici. Perciò se un'anima ha questa vocazione, biso­gna favorirla: provarla e assodarla prudentemente, ma, quando ci siano le debite garanzie, si deve sostenerla ed incoraggiarla e non lasciarsi condurre da preconcetti erronei o da motivi umani. Un parroco può esser tentato di trattenere una giovane che svolge un'attività benefica in parrocchia e di proporle una consacrazione a Dio mediante i voti privati, restando e lavorando dov'è: biso­gna fiorire dove si è stati piantati, si sente dire come argomento. Ma è una responsabilità ostacolare una vocazione ad una vita che offre maggiori titoli di stabilità e di perfezione. Quindi il*clero non può pensare soltanto alle vocazioni sacerdotali diocesane, di­menticando tutto il resto, ostacolando per principio ogni vocazione religiosa o missionaria. Ed i religiosi, da parte loro, non possono cercare e favorire solo le vocazioni al proprio istituto o congrega­zione. E l'Azione Cattolica non può eludere il problema delle vocazioni — ecclesiastiche o religiose — se non vuole essa stessa scomparire. Qualche anno fa il cardinale Pellegrino in una Let­tera ai religiosi ed alle religiose della sua diocesi di Torino, dopo aver constatato che il numero delle vocazioni alla vita religiosa va decrescendo in maniera impressionante con grave danno della diocesi e delle sue istituzioni, lamentava il « mancato apprezza­mento, da parte di un certo numero di sacerdoti e di laici impe­gnati, della vocazione e dello stato religioso ». Pur ammettendo che ciò forse dipenda da una carente testimonianza che alcuni reli­giosi e religiose danno colla loro vita, ciò non giustifica — aggiun­geva — « il disprezzo, talora dichiarato e ostentato, verso la vita religiosa, la mancanza di rispetto per coloro che la praticano, il disinteresse, o, peggio, l'avversione dimostrata talvolta di fronte ai segni della vocazione religiosa » (M. Pellegrino, I religiosi e le religiose nella pastorale diocesana, 20.VIII.1971, Torino, L.D.C., n. 6, p. 10).

e) La libera scelta della verginità e del celibato virtuoso da parte di chi resta nel mondo, importa molte difficoltà ed è quindi la più rara. Oggi però l'appartenenza ad un Istituto seco­lare offre maggiori aiuti spirituali e tempera la solitudine spiri­tuale di chi non abbraccia la vita religiosa dove troverebbe una nuova famiglia. Quindi se un giovane od una giovane vogliono vivere in uno stato di perfezione abbracciando Ì consigli evange­lici mediante i voti privati, e nel tempo stesso si sentono chia-

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mati a continuare la propria vita, attività, professione nella so­cietà, allora si può indicare loro questa via. Qualcuna, ad esem­pio, non può lasciar la famiglia, abbandonar sola la mamma, oppure teme per la sua salute nel sottomettersi ad una regola di vita comune. L'adesione ad un Istituto secolare domanda l'impe­gno a seguire una certa regola e programma di vita, dà aiuti e stimoli alla perfezione anche senza la vita in comune: un'anima non è abbandonata a se stessa ed alla sola guida d'un direttore spirituale (più o meno prudente). Trattandosi poi di associa­zioni clandestine, non ci sarebbero praticamente difficoltà per chi, ad un dato momento, non si sentisse di continuare.

f ) Non si può ignorare il caso di chi aveva sognato il matri­monio ma, per qualche ragione, non può realizzare il suo sogno, né, d'altra parte, sente la vocazione ad uno stato più perfetto. È una prova spirituale: il direttore spirituale aiuterà l'anima a su­perarla felicemente, anzi santamente. C'è un pericolo: certe don­ne disincantate — scriveva Jean Guitton — provano talora « un sentimento di disinganno per la vita, di risentimento contro l'auto­re della vita. Provano una specie di rabbia che rende tristi i loro tratti... È necessario che la giovane si prepari una vita bella, qua­lunque sia l'ipotesi... La vocazione fondamentale della donna è una vocazione spirituale, una vocazione ai misteri... »: la missione « di portare e di suscitare la vita, non dimenticando che la vita dell'anima sola è più di quella dell'anima incorporata. La voca­zione alla vita, nella nostra civiltà, ha mille volti. La maternità e il matrimonio costituiscono uno di questi aspetti; il più natu­rale. Ve ne sono altri. La donna non deve convincersi che ha bi­sogno di un uomo per realizzare la sua missione totale » (J. Guit­ton, La fanciulla di domani, OR, 18.XII.1975). In pratica il con­siglio da dare a queste donne che non si sono sposate né fatte suore, è che si occupino molto, anzitutto in famiglia e poi nell'apo­stolato: non si dissipino né si perdano — come spesso — in preoc­cupazioni inutili, né cadano nello stato di permanente depres­sione per un complesso d'inferiorità. Bisogna confortarle e far loro capire che sono tutt'altro che delle fallite: possono svolgere un'attività preziosissima, fonte di grandissimi meriti, anche se lo stato nel quale si trovano è una necessità e non è stato l'oggetto d'una libera scelta.

g) Particolari problemi, condizioni ed impegni esistono per quei giovani che sono chiamati al sacerdozio cattolico, specie nella Chiesa Latina. Problemi che saranno considerati a parte nella trat-

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tazione sulle varie categorie di penitenti. Osservo solo come, a proposito del problema sul numero dei chiamati al sacerdozio, la risposta non è tanto semplice se si vuol considerare la questione radicalmente. Il confessore lo deve sapere. Si suol affermare che la quasi totalità dei giovani — ed anche delle ragazze — è chia­mata al matrimonio. Ammettiamo che di fatto sia cosi, almeno per quanto riguarda la vocazione « prossima ». Ma si può ag­giungere che se i coniugi sanno santificare il loro matrimonio, se le famiglie sono sane e — per quanto possibile — numerosi i figli, allora più liberamente e facilmente si svilupperebbe quel seme di vocazione (al sacerdozio od alla vita religiosa) che remo­tamente è nell'animo di non pochi fanciulli e fanciulle. Ma, per questo, bisogna che il matrimonio sia santificato, che nella famiglia si tenga in grande stima questa vocazione superiore. Per rispon­dere, quindi, alla questione se essa sia o no frequente, bisogna distinguere fra disposizione remota e chiamata prossima.

6. Anche la scelta della professione è di capitale importanza. Dal punto di vista non solo umano, ma anche soprannaturale. Va fatta con criterio, rettitudine, sagge motivazioni. È facile che il giovane immaturo, impressionabile, suggestionabile, si lasci con­durre da miraggi puramente naturalistici, egoistici, capricciosi, di immediato interesse. In seguito dovrà forse pentirsi d'una scelta fatta con leggerezza senza il consiglio di persone prudenti. Altre volte è vittima dell'influsso della famiglia, mossa da ragioni grette o dal tradizionalismo che ostacolano le giuste esigenze e la libertà dei figliuoli: « questa famiglia ha sempre tenuto la farmacia: la tua strada è studiar farmaceutica ». Il direttore spirituale saprà capire ed aiutare chi, per la sua età, può sentirsi solo e senza il coraggio d'una decisione personale responsabile. Procurerà di co­noscere quelli che sono i problemi che interessano i giovani e quelli che sono propri invece delle giovani. Avrà la sensibilità per adattarsi alle loro esigenze, diciamo pure, professionali, che sono diverse in chi è chiamato ad una vita intellettuale ed in chi è in­vece avviato ad un lavoro piuttosto manuale o ad un'attività pra­tica: diversi saranno quindi i suggerimenti, le esortazioni, tutto il modo di trattare da parte del direttore spirituale.

7. Per terminare, osservo come risulta dall'esperienza e da inchieste fatte che i giovani — se hanno estremo bisogno d'un appoggio, d'una guida, d'una direttiva sicura — desiderano però che l'ultima parola e decisione venga da loro. A parte le disposi-

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zioni necessarie a ricevere il sacramento della Penitenza, in ma­teria di consigli che chiedono desiderano esser informati, illumi­nati, rassicurati ma, poi, esser lasciati liberi e fare le loro scelte responsabilmente. Non sopportano di sentirsi sotto tutela. Voglio­no esser amati, ma rispettati. Aiutati, senza perder la propria autonomia. Guidati, senza esser condizionati. Sentono vivo il de­siderio, il bisogno, il piacere di consultarsi con qualcuno, il quale però non faccia pesare la sua autorità; non li costringa, non li opprima ma li aiuti ad affermarsi. La domanda del consiglio e la discussione su certi problemi verranno da sé, quand'è il mo­mento. Particolarmente su quello della scelta dello stato. Ma se il confessore, di sua iniziativa, lo proponesse esplicitamente ed in­sistentemente sollecitando la soluzione, potrebbe farlo fuor di tempo od anzi tempo, e quindi non fruttuosamente. Bisogna indi­rettamente condurre il giovane a sentirne il bisogno personale spontaneo. Ed indirizzare, ma senza forzare (cfr. G. Barra, In­chiesta sulla confessione, Torino, Boria, 1963, pp. 53-55).

3. Adulti. Uomini e donne

1. I due sessi mostrano la loro diversità d'indole anche nella Penitenza. L'uomo, in genere, nella manifestazione del suo inti­mo, deve superare più resistenze psicologiche della donna la quale è portata, per natura, alle confidenze, anche sulle sue debolezze morali. È più affettuosa e sensibile. Parla di più. È pure abile nel narrare le sue pecche e, nel tempo stesso, compensarle, e quasi coprirle d'un velo, raccontando i suoi atti virtuosi. L'accusa dei suoi peccati sarà quindi abbastanza abbondante e dettagliata, an­che se poco razionale. Spesso, ad esempio, non si riesce a capire ed a giudicare fino a che punto arrivi la vera colpevolezza: può apparire e risultare come attenuata anche dai riferimenti alle man­canze altrui; altre volte invece la donna afferma la colpa là dove in realtà non esiste: ha piacere d'accusarsi comunque, per naturale bisogno d'aprirsi e di confessarsi, per avere come una garanzia contro ogni rischio, eventualità ed ipotesi e per acquistare cosi uno stato di sicurezza psicologica (bisogno, del resto, sentito, più o meno, da tutti, anche dagli uomini). Per esempio, può esser che la moglie, in caso di sua cooperazione solo materiale ed incol­pevole all'onanismo, accusi in confessione l'abuso come se entram­bi i coniugi fossero ugualmente responsabili.

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La donna, per il suo temperamento, è portata ad ingran­dire i fatti ed a drammatizzare. Talvolta fino alle lagrime. Lagrime talora di dispiacere e di avvilimento; lacrime, qualche volta, di rab­bia. Il confessore lo terrà presente quando raccontano le mancanze altrui ed i torti ricevuti. Bisognerebbe, per giudicare con esatta obbiettività, sentir anche l'altra campana. Il confessore intelli­gente, specie se non è la prima volta che ascolta la confessione d'una penitente, si renderà conto della situazione reale. Qualcuna racconta piuttosto i peccati degli altri che i propri. Qualche altra, dopo l'accusa d'ogni mancanza, fa anche la parte di direttore spirituale perché aggiunge l'ammonizione debita. Ma accanto a penitenti piuttosto ciarliere e superficiali, ci sono donne colpite da dolori tremendi, le quali portan la loro croce con virilità e co­raggio intrepido. Nella Confessione cercano e trovano il conforto e l'energia per proseguire il loro cammino eroicamente. Il con­fessore resta allora edificato. Vorrebbe esser un santo per tro­vare e dir loro quelle parole che vengono dal cuore di Cristo.

X'uomo^ anche perché non possiede l'arte d'esporre con garbo e finezza i fatti dello spirito, può sentir ripugnanza a raccontare ad un altro uomo i suoi nascosti pensieri e le sue azioni personali: per lui è un'umiliazione. Spesso vi si aggiunge il rispetto umano. Per tutte queste ragioni d'ordine psicologico, l'accusa dell'uomo penitente sarà più imperfetta e sommaria di quella della donna. Alle volte è grossolana (cfr. A. Chanson, Per meglio confessare, 1956, p. 217). Ci adatteremo. Il Signore — che rappresentiamo — domanda a ciascun penitente di comportarsi secondo le proprie possibilità che dipendono dalla natura del singolo. Pretender trop­po, interrogare ulteriormente il penitente per sapere ciò ch'egli non ritiene necessario dire, potrebbe indisporlo. A meno che non si presenti chiaramente la necessità di dargli un determinato avviso per evitare un male all'individuo od alla comunità (ad esempio per togliere uno scandolo prima di ricevere pubblicamente l'Euca­ristia). A parte un caso del genere, quel che importa è che la Con­fessione sia fatta in buona fede, induca sinceri propositi di vita nuova e riporti allo spirito del penitente la pace e la gioia. Il confessore — se avrà la sensibilità d'intuire gli ostacoli (interni ed esterni) che gli uomini devono spesso superare per fare la loro confessione — andrà loro incontro ricevendoli e trattandoli con molta cordialità, anche se danno l'impressione d'esser freddi e di non cercare parole gentili ed affettuose: ne sentono invece il bisogno, ma non lo esprimono e non sanno corrispondere (diver-

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samente dalle donne). E con essi non c'è quel pericolo di eccedere nel calore affettuoso che ci può esser trattando con le donne.

2. Particolare pazienza, bontà, rispetto occorrerà coi vecchi, sia uomini che donne. Mentre spesso son trattati peggio del gio­vani; e qualche volta vengono umiliati pei difetti caratteristici della loro età.

Ridotti allo stato d'inattività possono esser inclini a rivan­gare il passato. Naturalmente ora giudicano certe azioni con co­scienza e sensibilità diversa da quando le hanno compiute. Pos­sono quindi sentir il bisogno di far confessioni generali. Ma, se non c'è evidente necessità od utilità, sarà bene che il confessore li rassicuri assumendosi tutta la responsabilità e suggerendo loro piuttosto un atto generale di dolore e la fiducia nella miseri­cordia di Dio. Abbia pazienza però, anche se sentirà che ripe­tono sempre gli stessi peccati, anche se si accusano di mancanze nelle quali non hanno colpa (e sanno di non averla): le confes­sano per una ragione affettiva, per esser più tranquilli o tranquil­lizzati. Pazienza dovrà avere il confessore quando gli racconte­ranno d'esser abbandonati, trattati male dai figli, dai parenti, dalle persone dirigenti od inservienti nell'istituto o nell'ospedale dove vivono. Ci può esser del vero in quanto asseriscono, ma spesso esagerano. Bisogna aver comprensione: dipende dalle loro condizioni fisiche. Non li rimprovereremo. Hanno bisogno d'una parola di conforto e d'incoraggiamento affinché accettino con fede la loro condizione e non diano troppa importanza alle mancanze di riguardo, di cui si sentono oggetto, ed alle contrarietà della vita: l'essenziale è esser in pace con Dio (cfr. G. B. Guzzetti, TV. di T. Dogm., I I I /2 , Torino, 1965, pp. 154-155).

3. Circa i doveri morali e la necessità di riformare la vita, l'uomo sente il bisogno d'esser « persuaso » fermamente: sarà smosso ed indotto alla conversione dalle considerazioni razionali (purché adattate alla sua capacità). La donna, invece, general­mente è già abbastanza convinta — dal momento che viene a confessarsi — che certe azioni non si dovrebbero fare. Più che ricorrere alle ragioni, bisognerà quindi far leva sul sentimento. Grande influenza può avere il confessore col prestigio stesso della sua personalità: con la sua santità e con una sana suggestione può ottenere irresistibilmente da una donna la conversione completa. E se si accorge ch'essa manca di generosità e di fedeltà a propositi e promesse, potrà usare, qualche volta, la maniera un po' forte.

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Con l'uomo, abituato a comandare, conviene esser più cauti: il confessore gli ricorderà che non si può servire a due padroni; che, • una volta conosciuta la volontà di Dio, bisogna esser coerenti, che vai poco la pratica religiosa se non è accompagnata dalla vita cristiana. Ammonizione rispettosa, calma, grave: allora l'uomo ne comprenderà l'importanza e potrà sentirsi scosso.

4. Si dice che gli uomini, a differenza delle donne, non ama­no star a lungo nel confessionale e che hanno stima del confessore che regola rapidamente e risolutamente gli affari della loro anima (cfr. Chanson, o.c, p. 217). Penso invece che l'uomo, se parla meno della donna, non ha meno piacere (oltre che bisogno) di sentire una parola buona da parte del confessore. Discorsi troppo ' lunghi no, con nessuna categoria di penitenti. L'uomo vorrebbe quella parola che fa proprio per lui, non solo quella generica; e non quella che va bene per la donna. D'una esortazione, però, han bisogno non solo gli uomini, ma anche le donne. Queste saran più facili a far propositi; ma il difficile è mantenerli. Le donne si presentan al confessore in atteggiamento più devoto, contrito, e talvolta piagnucoloso. Ma non è da credere che l'uomo, pel solo fatto che sembra accusarsi con più freddezza, sia intimamente me­no disposto della donna. Può esser agitatissimo, preoccupatissimo, ansioso, addolorato e pentito; ma, per indole, ha una specie di rispetto umano che lo trattiene dal manifestare ciò che prova. Tiene dentro, come se avesse paura d'apparire un debole.

Il confessore, dolcemente e gradatamente, cercherà d'educare i suoi penitenti, moderando la naturale tendenza del loro tempera­mento: abituerà le donne a non esser eccessivamente verbose e gli uomini a fare della confessione un colloquio, per quanto breve, che offra pure la possibilità d'una minima direzione spirituale.

In genere e tutto sommato, gli uomini avrebbero più necessità d'assistenza e d'aiuto: per un complesso di cause sono più dis­sipati e travolti dalla vita materiale con tutti i suoi pericoli è tentazioni; sono gravati da uffici impegnativi (professionali, oltre che familiari); spesso hanno funzioni direttive di responsabilità; più difficilmente sentono il bisogno e si decidono a varcare la soglia del tempio per riconciliarsi con Dio, mentre, specialmente quando si fa sera, dovrebbero farlo spesso, per esser sempre pronti a ricevere la visita di Dio, della quale non conosciamo il giorno e l'ora. Se si riuscisse a curare la formazione spirituale degli uomini

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si procurerebbe indirettamente, e forse in maniera decisiva, il bene delle famiglie e della comunità.

Perciò un parroco, quando — nella ricorrenza di qualche so­lennità o durante qualche missione — dispone, ordina, organizza le confessioni periodiche in massa, si preoccuperà soprattutto degli uomini; darà ad essi la maggiore opportunità e comodità di con­fessarsi, mettendo a loro disposizione, se è possibile, più d'un confessore, preavvisando tempestivamente: i penitenti conoscano chi sono i confessori disponibili e l'ora in cui saranno pronti all'ap­puntamento. Bisogna sian evitate agli uomini quelle lunghe attese che non favoriscono certo una soddisfacente Confessione. Se si prevede un grande afflusso di penitenti si distribuirà il lavoro in più giorni.

5. La Confessione dovrebbe essere un mezzo non solo per cancellare i peccati, ma anche per progredire nel cammino della perfezione. Quali risultati si ottengono di fatto? Prescindo dal caso di coloro che, rinunciando al matrimonio, ma rimanendo laici e vivendo nel mondo, hanno voluto e saputo fare della loro vita una missione di bene e d'apostolato: questi trovano il tempo ed il modo per coltivare con cura la vita interiore. Mi riferisco in particolare alle persone sposate o, comunque, gravate da pen­sieri, occupazioni e responsabilità familiari e professionali. Fra le spose, specialmente se mamme, è meno difficile trovare anime che vivano in intima abituale unione con Dio ed usino i mezzi normalmente richiesti alla perfezione, quali la meditazione e la direzione spirituale. Abituate al sacrificio ed al dono di sé, più delicate ed elevate degli uomini, nei loro affetti, le mamme hanno una finezza d'animo che le dispone alla vita spirituale, al senso ed al gusto del soprannaturale. Lo stato di vedovanza, poi, offre spesso — a quelle che sono bene animate e guidate — ancor mag­giori occasioni per progredire nella via della perfezione e dedicarsi ad opere di beneficenza e d'apostolato.

Fra gli uomini è, di fatto, più difficile trovare chi — oltre a partecipare alla Messa, ad accostarsi alla mensa eucaristica — coltivi la vita interiore con la preghiera personale, la lettura spi­rituale, la meditazione, la direzione spirituale. Non bisogna ces­sare tuttavia, nonostante i pochi risultati, dal tentativo di avviare anche gli uomini all'intimità divina. Se saranno maggiormente assistiti le eccezioni potranno moltiplicarsi.

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B. Secondo lo « stato spirituale » e le « condizioni psico-fisiche »

1. Timidi e reticenti

Do la precedenza a questa categoria di penitenti per una con­siderazione psicologica.

I. Può succedere a qualsiasi persona che — pur accostandosi alla Confessione con l'idea di accusare sinceramente tutti i suoi peccati — poi, al momento di aprirsi, si senta come bloccato per il rossore e la timidità. E se la grazia è necessaria al peccatore perché interioramente si converta, possiamo credere che è anche necessaria perché abbia l'umiltà di riconoscere i suoi peccati e di confessarli ad un uomo. « Scrisse s. Gregorio che la facilità di cadere in peccato e poi la difficoltà di confessarlo, usitatum Im­mani generis vitium est. Basta esser uomo per vergognarsi di ma­nifestare le proprie turpitudini, ancor quando si ha gran desi­derio di manifestarle per conseguire la giustificazione » (G. M. C, Tratt. per Confessori, p. 15).

1. Che si vada alla Confessione col proposito di tacere certi peccati (sapendo che sono peccati) oggi è certo meno presu­mibile che in altri tempi. Allora ci si teneva a seguire la tradi­zione della famiglia o della comunità, oppure interessava (anche per fini temporali) aver l'attestato di Confessione e l'immagine-ricordo della Comunione Pasquale. In tempi più lontani, poi, fa­cilmente si conciliava fede ed immoralità abituale, pratica religiosa (più o meno sincera) ed opere cattive. Oggi si può supporre che chi si decide spontaneamente a confessarsi, abbia pure l'intenzione d'accusare tutti i peccati della cui gravità ha coscienza. C'è, in ge­nere, più autenticità ed interiorità personale nella pratica religiosa.

2. D'altra parte, per quel relativismo morale ai nostri giorni diffuso, può capitare il caso di penitenti che non accusano o scu­sano certe mancanze, ad esempio l'uso irregolare del matrimo-

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nio. Occorrerà l'intuito del confessore per giudicare se, in con­creto, ci sia o no una certa buona fede. E ci vorrà prudenza per decidere se, nel caso di buona fede, sia meglio non turbarla oppure convenga istruire ed ammonire delicatamente ma chiaramente. E quest'ammonizione può esser ardua impresa, talora snervante, specie quando per mancanza d'umiltà il penitente non si lascia in­durre alla persuasione, al dolore, al proposito. Il Catechismo Ro­mano indicava il primo ostacolo ad una buona Confessione nella superbia che difende o minimizza certi disordini morali: « In pri­mis... reprimenda est quorundam superbia, qui scelera sua excusa-tione aliqua vel defendere, vel minora facere nituntur » (p. 246).

3. L'esperienza insegna che i peccati che i penitenti trovano più difficile dire al confessore (anche quando sono convinti di doverlo fare) sono anzitutto quelli contro il sesto comandamento. Pur non essendo queste le colpe possibili più gravi, tuttavia, l'uomo, ripensando a mente fredda alle sue cadute nell'impurità, ne prova vergogna perché sente d'essersi come degradato, ab­brutito, contaminato.

A questi peccati sono connessi quelli contro il quinto coman­damento, commessi dalla donna per sopprimere la conseguenza di relazioni disoneste, ed evitare la maternità.

Poi ci sono le mancanze contro il settimo. Crediamo pure che sono molto frequenti. In tutti i luoghi, anche i più santi. Ma c'è in ognuno un forte amor proprio che rende difficile il riconoscere e manifestare le mancanze (gravi o leggere che siano) in questa materia. È umiliante l'impressione d'esser qualificato per « ladro ». E veramente, a sentir certuni, sono solo questi i « di­sonesti » (come se non ci fossero tante altre « disonestà »).

4. Quanto alle persone, il rossore di confessare i propri pec­cati colpisce, secondo s. Alfonso, specialmente tre generi di pe­nitenti: le persone rozze, le donne, i fanciulli ed i ragazzi. Nel ragazzo, ad esempio, può avvenire che, al momento della Con­fessione, la vergogna diventi un'emozione così alterata, da inibir­gli quasi di parlare e di manifestarsi qual è. E questo per un complesso di circostanze: il temperamento emotivo e timido, la persona intimidatrice del confessore, la particolare situazione scabrosa, e, particolarmente, le conseguenze che sono forse previ­ste o temute da una confessione sincera (si pensi ad un semina­rista che si trovi nella necessità d'aprire al direttore spirituale tutto il suo intimo e tempestoso stato d'animo, anche in ordine

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alla vocazione). Non si deve poi ignorare che da piccoli si è natu­ralmente inclinati — per mancanza d'esperienza — a stimare tutti gli altri (siano simpatici od antipatici): il ragazzo può quindi cre­dere d'esser il solo ad avere siffatte e cosi forti tentazioni ed a commettere certi brutti peccati. Pertanto si spiega la tendenza del fanciullo a chiudersi in se stesso. Ma se, in confessione, non manifesta subito le prime cadute, si troverà, ad un certo punto, nella necessità di ritornare sul passato per metter a posto lo stato della sua coscienza rivelando quanto in precedenti Confes­sioni è stato taciuto e non doveva esser taciuto. Il che richie­derà ancora maggior sforzo, tanto più penoso quanto più si rimanda.

5. I classici autori di morale e di pastorale aggiungono alla vergogna altri motivi che possono indurre il penitente a tacere i suoi peccati: il timore d'esser sgridato dal confessore aspro; di esser udito da altri penitenti che s'accalcano presso il confessio­nale; che sia percepito quanto dice il confessore il quale parla troppo forte (e forse non se n'accorge perché sordastro, ma do­vrebbe esser avvisato); il timore che il confessore non dia l'asso­luzione, non permetta la Comunione oppure la celebrazione del matrimonio; paura che egli imponga l'obbligo di lasciare un'occa­sione, di fare una restituzione; timore (sia pur irragionevole) che il confessore violi in qualche modo il sigillo, o si serva della scien­za avuta dalla Confessione per qualche decisione gravosa o svan­taggiosa al penitente. C'è, infine, una mancanza d'apertura e di confidenza che viene dalla troppa familiarità che intercorre fra confessore e penitente (cfr. G. M. C, Tratt. per Confessori, pp. 37-38). Il confessore avrà l'avvertenza di eliminare le cause di ra­gionevoli timori.

II. C'è un duplice modo d'incoraggiare i penitenti all'accusa sincera: indiretto e diretto. La pastorale (si ricordi sempre) è una arte: al confessore occorre intuizione, sensibilità e tatto per usare i mezzi più efficaci, dosati in giusta misura, per disporre il sin­golo penitente in difficoltà.

Incoraggiamenti indiretti: benignità dei modi; pazienza inal­terabile; aria abitualmente serena del volto; tono normalmente mite della voce. Questo linguaggio eloquentissimo ed efficacissimo dev'esser usato generalmente e prudentemente con tutti i peni­tenti perché tutti possono averne bisogno. Con tutti, ma special-

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mente con coloro che si avverte esser imbarazzati, confusi, pau­rosi, preoccupati della propria accusa.

Altro mezzo indiretto per impedire ogni reticenza: il confes­sore eviterà qualsiasi monopolio sulle anime. Mostrerà gradimento «— anzi esorterà — che il penitente abituale si confessi ogni tanto da qualche altro sacerdote (a meno che non si tratti di anime scrupolose). E cosi terrà lontano il pericolo che il penitente provi vergogna e manchi di coraggio per confessare un eventuale pec­cato grave al sacerdote che gli dimostra grande stima. Qò vale per penitenti che vivono in una comunità oppure, anche, nel mondo.

Altro accorgimento: ci sono notizie circa la sua vita che il penitente può con pieno diritto, e forse desidera, tener riservate. Il confessore intelligente e delicato avrà l'avvertenza di non mo­strar di conoscere il penitente, specie chi s'accosta alla grata del confessionale, ma anche chi si fa vedere dopo tanto tempo (forse pensando e sperando che il confessore non lo ricordi più). E, se non c'è necessità, è meglio non chieda particolari circa il suo ambiente, professione, stato, patria, parrocchia, famiglia, condi­zione, confessore abituale... Ad un penitente abituale, quando sospetti che vada talvolta da altri confessori, non gli domandi nep­pure da quanto tempo non si è confessato (Frassinetti, Manuale del parroco, p. 359).

Incoraggia indirettamente il penitente il confessore che ha la pazienza di lasciarlo parlare. Se mostra che gli è un peso e non vede l'ora di levarselo dai piedi, lo mette in uno stato d'imbarazzo e lo paralizza. Se c'era già nel penitente una difficoltà psicologica a manifestare certe miserie, se c'era una certa perplessità sul modo di rivelarle, sui particolari da specificare, sulle parole da usare, che sarà se vede che ogni sua parola indispone ed impazientisce il confessore? Si sentirà come bloccato.

Gli incoraggiamenti diretti vanno rivolti a chi dà segni positivi d'averne bisogno. Sono quindi relativi. Fatti indebitamente, avreb­bero l'aria d'un sospetto e potrebbero offendere. Se ce n'è quin­di bisogno, si dirà al penitente che non abbia nessun timore; che il confessore non si meraviglia di nulla perché ha visto cadere an­che i cedri del Libano; che non c'è miseria a cui la natura umana non sia incline ed esposta; che la sincerità e l'umiltà d'accusare le proprie mancanze è già un segno positivo ed un merito per otte­nere il perdono da Dio; che, aprendosi, l'anima si sentirà sol­levata e liberata...

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Mentre il penitente si accusa, il confessore non mostri il mi­nimo segno di meraviglia, di turbamento, di nausea (per quanto di ributtante o di strano ci sia nella esposizione) ma con la sere­nità del volto ed il tono della voce incoraggi e faciliti ogni con­fidenza più intima che può esser terribilmente difficile. Consta che taluni ad una parola d'ammonizione (anche se garbata), fatta durante l'accusa, non hanno più avuto la forza di rivelare altri peccati più gravi. In genere, secondo una naturale tendenza psi­cologica, il penitente comincia dai peccati meno gravi e riserva i più gravi per la fine. Però, se non trova confidenza nel confes­sore, non si sa se avrà il coraggio di arrivare sino in fondo. Il confessore quindi si riserverà di fare le ammonizioni prima del­l'assoluzione. Durante l'accusa è solo per facilitare l'esposizione, lodare la sincerità, assicurare d'aver capito bene, che può inter­porre qualche parola. E soltanto qualche parola quando vede che il penitente ha preparato la sua accusa: altrimenti questi po­trebbe perder il filo, dimenticar qualcosa e poi restar meno sod­disfatto della confessione fatta.

III. Riguardo ad eventuali interventi per supplire all'accusa (o per aiutare il penitente che desidera esser interrogato) il con­fessore tenga presente il principio: necessario in concreto è che il penitente non ometta di specificare ciò che sa di dover spe­cificare, quando lo può: cioè quando non ci sia un incomodo estrinseco alla Confessione (ed estrinseco al disagio interiore che essa naturalmente può importare) o quando non ci sia qualche altra causa (ad esempio il pericolo di scandalo) che scusa dall'integrità effettiva e, talora, suggerisce al confessore che è meglio acconten­tarsi di ricevere un'accusa piuttosto generica. Perciò l'aiuto del con­fessore che s'accorge di aver a trattare con penitenti timorosi mira ad ottenere che non tacciano sui loro peccati gravi, volontaria­mente e maliziosamente.

1. Ad esempio, circa le Confessioni passate, non bisogna su­scitare angustie irragionevoli perché Confessioni mal fatte sono soltanto quelle nelle quali si tace peccati gravi con piena avver­tenza. Si sappia che ci sono penitenti i quali — anche se non han­no una vita interiore fervente — sono sempre preoccupatissimi circa il modo di confessarsi e sempre ansiosi sulla sufficienza e bontà delle Confessioni passate. Bisogna assolutamente distoglierli dal ripensarci e dal confessare alcunché delle colpe commesse pri­ma dell'ultima Confessione che han fatta. Se, invece, il confes-

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sore avesse fondato motivo per sospettare sulla sincerità di con­fessioni precedenti e ci fosse stata realmente qualche grave reti­cenza del penitente pel passato, basterà che il sacerdote gli offra dolcemente l'aiuto della sua mano pietosa: il penitente — spe­cialmente se ammalato od in pericolo di morte — he approfit­terà, felice di liberarsi dal peso che l'opprimeva.

2. Per le eventuali interrogazioni, c'è questa regola pastorale: « predicando si mostri di supporre l'uditorio migliore di quello che è; confessando, di supporre il penitente peggiore del vero­simile ». Massima da applicarsi, come ogni altra, con discrezione. Bisogna unirla all'altra, importante: nelle interrogazioni si pro­ceda con gradualità: dai peccati più leggeri ai più gravi e, quanto al numero, dal minore al maggiore. L'uomo, pel suo innato amor proprio, è riluttante ad esporre di colpo tutto il suo stato e rive­lare tutte le sue colpe. Ma se vede che il confessore, senza nes­suna meraviglia lo conduce gradatamente, con avvertenza e deli­catezza psicologica, allora con minore o nessuna difficoltà passerà a rivelare anche le miserie più nascoste ed umilianti. Ad esempio, circa il tempo dal quale non si son confessati, tralasciando il pre­cetto pasquale, taluni cominciano col dire che « è un pezzo » (per­ché hanno avuto tanti pensieri, occupazioni e preoccupazioni). Poi, talvolta, risulta che per una decina di anni hanno trascurato ogni pratica religiosa, messa festiva, Confessione e Comunione pasquale.

3. Particolare delicatezza occorre con fanciulli e ragazzi quando stentano a manifestare i peccati contrari al sesto comandamento. Questa difficoltà psicologica può dipendere anche dal naturale pudore istintivo che li trattiene dal parlare di certi argomenti, dalla perplessità sui termini da usare, sul modo d'esprimersi circa il lato più personale e nascosto del proprio essere, circa ciò che — lo sentono — sta avvenendo e cambiando nella loro vita. Il confessore, da una parte, deve facilitare la manifestazione di quan­to è strettamente necessario accusare. D'altra parte, cercherà di non urtare la buona riservatezza dell'animo. Anche il ragazzo ha la sua personalità che noi dobbiamo rispettare trattandolo con un certo riserbo. Guardiamoci dal tempestarlo con domande e scan­dagli fino ad annoiarlo ed umiliarlo, spogliandolo, quasi, spiri­tualmente, per ridurlo in nostra balia. Alle volte il ragazzo stesso desidera che il discorso sui suoi stati d'animo sia avviato dal con­fessore, preferisce che gli sia rivolta qualche domanda sui pec-

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cati {perché è imbarazzato, non sa come introdursi, quali parole usare). Ma al confessore spetta intuire se c'è o no bisogno di entrare in una materia, di fare o no una determinata domanda. E, se interroga, occorre sempre la discrezione: non bisogna insi­stere oltremodo con le indagini, non bisogna dilungarsi con una se­quela di domande: insomma, non soffermarsi in questa delicata materia della castità più del necessario. È da rispettare nei ra­gazzi il naturale pudore. E non si deve indurli a pensare che i peccati contro la purezza siano l'unica materia importante da ac­cusare e che la questione sessuale sia il centro di interesse di tutta la vita morale e spirituale.

IV. Per concludere, sia ben chiaro che facilitare l'accusa non significa sottovalutare la bruttezza del peccato, minimizzare la malizia delle colpe, oppure indurre la persuasione che il peccare è una fatale condizione dell'umana esistenza a cui bisogna ras­segnarsi con indifferenza, apatia, inerzia. C'è anche questo peri­colo. Perciò nelle ammonizioni e nelle esortazioni — prima del­l'assoluzione, non durante l'accusa — il confessore userà parole la cui gravità corrisponda alla gravità della colpa. Il peccato può e deve esser vinto; ma, per esser vinto, dev'esser combattuto con tutte le forze.

2. Gran peccatori in via di conversione

1. Si possono distinguere (in astratto almeno) tre conversioni: intellettuale: dall'errore alla verità, dall'incredulità alla fede; mo­rale: dal male a bene; ascetica: dal bene a meglio.

Tratto, qui, direttamente della conversione morale (di quel­la ascetica in seguito). Si suppone che chi si decide di confessarsi abbia la fede, anche se qualcuno può aver l'impressione di non averla e va dal confessore per discutere e poi (se resterà per­suaso) per confessarsi. Alle volte la conversione totale sembra avvenire in due tempi: prima si ha il passaggio dall'incredulità (o dall'indifferenza) alla fede, poi la liberazione dalle catene del vizio. Però in concreto il cambiamento della mentalità e la ri­forma della vita sono strettamente connesse ed esercitano un vi­cendevole influsso. E ci sono penitenti i quali fanno quest'espe­rienza: difficoltà e dubbi di fede si risolvono automaticamente colla Confessione sacramentale: « faciendo illuminati sunt » (S.

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Greg. Papa, Hom. 23 in Evangelia). Il fenomeno si spiega sia perché la causa delle oscurità ed incertezze non era effettiva­mente d'ordine intellettuale, ma piuttosto morale, sia perché la grazia del sacramento illumina anche la mente. Perciò confes­sori dotati di speciale carisma, come il Curato d'Ars, l'abate Huvelin, a certuni che andavano da loro per discutere sulla fede indicavano subito, decisamente, il confessionale.

2. « Gran peccatori »: anime che erano incatenate in abitu­dini gravemente disordinate e, ad un dato momento, si pentono e propongono di mutar vita. Si pensi al legame che teneva pri­gioniero Agostino anche dopo la conversione intellettuale e prima della sua piena conversione morale.

« In via di conversione »: perché, spesso, non sarà una con­fessione che assicurerà immediatamente la. piena e stabile conver­sione che escluda ogni ricaduta nel peccato. Talvolta resta pure qualche dubbio sulla serietà dei propositi del penitente, sulla sin­cerità delle sue professate intenzioni. Sia che questa incertezza dipenda dalla libera volontà del soggetto, sia da cause — ad esem­pio il temperamento psichico — che possono sfuggire alla vo­lontà. Si pensi all'ambiente carcerario, al mondo della prosti­tuzione. Ma si può avere almeno la speranza d'una perseverante conversione se questi detenuti o queste prostitute vengono a confessarsi spontaneamente e non per evidenti motivi umani.

3. Non ripeto quanto dissi sull'aiuto che il confessore può dare al peccatore per suscitare sincero pentimento e fermo pro­posito. Ricordo piuttosto, con PAdloff (Il Confessore Direttore, pp. 89-90) come il confessore dev'esser preparato e consapevole di due particolari pericoli che possono minacciare anche questo ge­nere di penitenti quando hanno preso la decisione e sono sulla via della conversione: il pericolo dello scoraggiamento e quello (che potrà sembrar strano) degli scrupoli. Sono gli ultimi dispe­rati tentativi del demonio per trattenere un'anima che sta per sfuggirgli di mano.

Lo scoraggiamento può ghermire il convertito quando — no­nostante Confessione, Comunione, propositi, preghiera — gli capita di ricadere negli antichi peccati. È facile passare alla conclusio­ne: tutto è inutile, non servono né i mezzi naturali, né i so­prannaturali. Ed allora s'insinuerà la tentazione: tanto vale non tentar più e ritornare alla vita d'un tempo. Il confessore non solo aiuterà il penitente a non cedere a questa terribile tenta-

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zionip ma farà bene a prevenirlo sulle tentazioni, forse più forti di pfrima, che si faranno sentire anche dopo la riconciliazione. Prevenire discretamente, s'intende; qualcuno non pensi (anche questo è possibile, specialmente oggi) che è fatale peccare. Il Confessore ricorderà a chi pecca per debolezza che a fondamento d'ogni sicura conversione sta l'umiltà: la convinzione che solo la grazia di Dio può dare la forza di risorgere e di non ricadere. E questa grazia sarà concessa a chi è assiduo alla preghiera, per­severa nella fiducia e nello sforzo. Chi corrisponde con genero­sità avrà, in merito, grazie sempre più abbondanti. Fino alla vittoria completa.

Gli scrupoli. Può arrivare ad un dato momento anche questa prova. È una tentazione diabolica, come tutto ciò che turba, senza utilità. Ma si spiega anche psicologicamente. L'anima che prima era fredda, insensibile e, alle volte, aveva quasi perduto il senso del peccato, ora ha acquistato, illuminata dalla grazia, una viva conoscenza delle sue colpe, una conoscenza sperimen­tale della propria malizia. Può sorgere lo scrupolo di non aver ben riconosciuto e confessati certi particolari delle sue colpe. Il confessore distoglierà il penitente dal ripensare alla vita che fu. Se qualche altro atto penitenziale è voluto da Dio, Egli lo farà sentire, passata rinquietudine, in un momento di pace. Una volta fatta una sincera Confessione, il penitente deve pensare che la pace è un suo diritto: è il Signore che la vuole. Talvolta biso­gna abbandonarsi ad occhi chiusi nella misericordia di Dio. Ha detto un poeta italiano: « La coscienza della propria miseria sen­za la conoscenza di Dio è la disperazione ».

3. Occasionari

Penitenti difficili. Mettono alla prova tutte le doti del con­fessore: di giudice, maestro, padre, medico, consigliere. La mag­gior parte delle cadute morali risalgono ad una qualche occasio­ne sollecitante che il soggetto avvicina con imprudenza (più o meno cosciente) oppure trova per necessità di cose nella sua vita — in scuola, nell'ufficio, sul lavoro, nella famiglia stessa alla volte. Non preparato e non corazzato spiritualmente, è trascinato, tra­volto e cede. Talvolta quasi subito; talvolta attraverso graduali

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concessioni, debolezze e compromessi7. Caso tipico frequentis­simo: quello della segretaria d'azienda o d'ufficio. Qualcun^ era sempre stata irreprensibile nel contegno e nell'abbigliamento. Ma ad un dato momento, in seguito al quotidiano contatto ed alla collaborazione della ragazza con un capo-ufficio od un collega, fa­cilissimamente sorge, nei due, una simpatia fisico-psichica (con tutte le varianti che dipendono dai temperamenti diversi e dal­la natura dell'uomo e della donna). E quando cominciano a per­mettersi intimità, libertà, manifestazioni esterne d'affetto, è dif­ficile che si fermino. La sensibilità s'ingigantisce e porta alla sensualità, con tutte le conseguenze. Si può arrivare al punto che la segretaria, se è dipendente sul piano del lavoro, diventa una dominatrice sul piano sentimentale. Anche se la seduzione è par­tita dall'uomo. Al legame passionale, spesso s'aggiunge il cal­colo d'un avanzamento o d'un vantaggio economico. Si tratta di « esperienze », come si suol dire oggi. Ma chi se le permette non pensa alle conseguenze. Spesso una giovane, dopo qualche tempo, viene abbandonata. Resterà sola. Alle volte, talmente di­sillusa e sfiduciata da non trovar più né l'occasione né la vo­glia di sposarsi. E chi l'ha sfruttata — per soddisfare egoistica­mente la propria passione — se n'infischia d'averla rovinata e resa infelice per sempre.

Ci sono occasioni che non si possono fuggire, ma ce ne sono di evitabili senza difficoltà. È una questione di prudenza. È idea diffusa che la forza morale non si dimostra fuggendo i pericoli morali, ma rendendosi superiori (senza dire che, per taluni, rendersi superiori significa giustificare il male stesso). Psicologia ed esperienza insegnano che spessissimo chi credeva di poter vincere l'occasione, si lascia vincere dall'occasione. Spe­cialmente quand'essa esercita una forte suggestione sulla concu­piscenza. Gli antichi maestri di vita spirituale raccomandavano — quando l'occasione non sia « necessaria », ma « libera » — non solo di fuggirla, ma di fuggirla subito perché chi non la

7 « È certo che se gli uomini attendessero a fuggire le occasioni, si eviterebbe la maggior parte de' peccati. Il demonio senza l'occasione poco guadagna, ma quando l'uomo volontariamente si mette nell'occasione pros­sima, per lo più e quasi sempre il nemico vince. L'occasione, specialmente in materia di piaceri sensuali, è come una rete che tira al peccato ed insieme accieca la mente, sf che l'uomo fa il male senza quasi vedere quel che fa » (S. Alf., Prat. del Conf., n. 59).

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fugge subito, non la fuggirà più. Prime cadute: primi anelli d'una catena.

Nella guida degli occasionari ci sono due eccessi opposti da evitare. Il primo è la negligenza, la rilassatezza, la leggerezza, la fretta del confessore che si accontenta di distribuire assoluzio­ni senza sollevare e presentare nella sua giusta gravità, al peni­tente, il problema dell'occasione (da fuggire o da superare coi dovuti mezzi). L'altro eccesso è quello dei confessori che af­fermano il principio morale sul dovere di evitare o vincere l'oc­casione ma non offrono con comprensione e pazienza utili sug­gerimenti. Difettano di zelo, difettano di prudenza la quale vuole la considerazione di tutte le circostanze. Se manca questa virtù e ci si accontenta di dichiarare una nuda e rigida norma, c'è an­che il pericolo di esigere troppo, col rischio di gettare qualche penitente in uno stato di scoraggiamento e di quasi disperazione.

Il compito del confessore con certi occasionari, oltre che dif­ficile, può diventare penoso anche perché spesso sono penitenti di passaggio. Vengono in una data chiesa proprio perché non vi sono conosciuti: non andrebbero da un confessore che li conosce. Ed allora, a chi ascolta per la prima volta la loro confessione, non sarà facile né afferrare tutte le circostanze del caso e l'esatta obiettiva situazione spirituale del penitente; né vien data la pos­sibilità di una direzione continuata. Per tutte queste ragioni si capisce come il Segneri, dopo aver formulato tante regole pei confessori circa questa importante e scabrosa materia, sentisse il bisogno di rivolger loro, col cuore, questa parola di fede: « il miglior partito, per quando voi vi troviate fra tali angustie, si è alzar gli occhi al Signore, e dimandare umilmente quella Sa­pienza... affinché voi non manchiate né per troppa austerità, né per troppa amorevolezza » (Il Conf. istruito, 1672, p. 27).

I. Principi chiari, anzitutto. Quando non c'è seria probabi­lità che il penitente, se resta nell'occasione o continua lo stesso comportamento nei suoi riguardi, abbia ad evitare il peccato grave, allora un qualche cambiamento sulla sua condotta s'im­pone assolutamente. La previsione della caduta è fornita in base a vari criteri: la frequenza delle cadute precedenti, l'indole del­la persona, la normale inclinazione e fragilità della natura umana stessa. Mettersi in certe occasioni significa contrarre « in cau­sa » la responsabilità degli effetti prevedibili e previsti. Anzi, è una questione morale ed un caso di coscienza anche l'entrare

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in un cinema senza informarsi del contenuto dei film proiet­tato: è un esporsi.— con probabilità « di fatto » — al pericolo; una responsabilità <c in causa >•, anche se poi, in realtà, il peri­colo non risultasse grave.

I casi più difficili sono quelli dell'occasione che il penitente trova (o conserva), « presente » nella sua vita, in continutà od abitualmente (una persona colla quale convive od a contatto della quale lavora tutto il giorno). Difficili specialmente quando, per evitare il pericolo, non ci fosse che una soluzione: dimettere una persona o dimettersi; licenziarla o licenziarsi. Ma, spesso, uno è ostacolato in questa decisione da motivi d'interesse o di gratitu­dine, o dal rispetto umano e dalla timidità. Ma se da una parte il compiere quest'atto costa tremendamente, dall'altra può essere che s'imponga se si vuole che cessi lo stato di continuo peccato, e sia tolto lo scandalo pubblico (come nel caso d'un notorio concu­binato). I casi d'occasione « continua » sono pertanto i più delicati e scabrosi e per i penitenti e per i confessori. Siamo positivi. Una ragazza che ha contratto da tempo una relazione peccaminosa, in occasione del suo ufficio d'impiegata, con una persona dalla quale dipende o colla quale lavora, è difficilmente presumibile che trovi la forza di rifiutarsi al suo complice, se continua a vivere in stretto contatto con lui. A meno che non intervenga qualche fatto parti­colare che cambia tutta la situazione e lo stato psicologico dei due (o di quello dei due che ha un influsso determinante sull'altro) e cosi toglie, praticamente, l'occasione.

Certo bisogna ammettere che se il lasciare l'occasione fosse, nel caso concreto, impossibile o troppo difficile, Dio darà la grazia d'evitare il peccato a chi fa tutto quanto sta in sé pur restando nell'occasione. È il caso di due fidanzati prossimi al matrimonio, di due che convivono ma senza regolare matrimonio (perché im­possibile) ed ormai hanno figli da educare, è il caso di un operaio che, se lasciasse il suo posto di lavoro, mancherebbe (al momento almeno) del pane per sé o per la famiglia. E non si parla di coloro che, se volessero fuggire certe occasioni, dovrebbero rinunciare all'esercizio della loro professione (com'è il caso d'un medico). Ma tutti costoro, per aver da Dio la grazia di superare le tenta­zioni, devono usare i mezzi naturali e soprannaturali. Mezzi che si riducono a tre gruppi. Primo, quelli che servono a smorzare la suggestiva influenza dell'occasione. Ad esempio, quando si tratta di pericoli in materia di castità bisognerebbe evitare tutti quegli atti che sono fatalmente preparatori di più gravi mancanze: familiarità,

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inutili e prolungati sguardi di compiacenza, toccamenti non neces­sari (quello che per un medico nell'esercizio della professione può esser necessario, non lo è per un altro), conversazioni intime e con­fidenze. Mezzo sicuro sarebbe il non stare, senza necessità (e soprattutto non appartarsi) « solus cum sola ». Chiudere gli occhi dinanzi alle scene più scandalose d'un film (che uno per necessità di cose si è trovato a vedere) non è scrupolo ma con­tegno risolutamente conforme alla prudenza ed alla coerenza. In simili circostanze è valido il consiglio di quei maestri di spirito i quali ritengono che il confessore non deve accontentarsi di esor­tazioni generiche e vaghe. Ci sono poi i mezzi che servono a dimi­nuire la forza dell'interiore concupiscenza. Tutto un regime di vita temperata, un lavoro assiduo ed assorbente (senza però giungere allo stato di tensione dannosa). Don Bosco ai suoi giovani: « Non vi raccomando cilici e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro ». Ci sono infine i mezzi che potenziano le forze morali e le resistenze naturali. Specialmente la preghiera e la frequenza ai sacramenti.

II . Non basta possedere i principi. Bisogna poi applicarli pru­dentemente con intuito delle circostanze e dello stato psicologico del penitente.

1. Il confessore individuerà anzitutto chiaramente l'occasione dalla quale dipende il disordine morale del penitente: quelle con­versazioni, quella casa, quell'amicizia, quel ritirarsi in luoghi soli­tari, quell'ozio... E bisogna puntare con lucidità e senso pratico sul comportamento concreto che s'impone urgentemente al pecca­tore occasionano. Alle volte si sentono curiose osservazioni che sono scuse per giustificare la mancanza di generosità, di coraggio, di decisione. Il padrone che entra nella stanza da letto della came­rièra e chiude a chiave la porta. Ma una donna contro un solo uomo sa.come difendersi ed in genere ci riesce (se non è misera­mente ignorante ed impreparata). Può gridare, reagire con tutte le sue forze fisiche. Questa resistenza che non cede può importare pericolo, in qualche caso, per la vita stessa. A questa resistenza pericolosa, perseverante a qualunque costo fino all'estremo delle forze, una non è obbligata se evita l'interno consenso. Ma sarebbe eroismo. È frequentissimo il caso di ragazze che dalla campagna o dalla montagna s'inurbano andando a servizio in qualche casa ove trovano — nel padrone o nei suoi figli — chi approfitta della loro ingenuità per rovinarle. Avrebbero ragione per licenziarsi su due piedi. Però non sempre hanno la forza ed il coraggio d'af-

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frontare i disagi conseguenti. Sono disorientate. Cercare un altro servizio? Con quali garanzie? Tornare a casa? Hanno bisogno d'una mano che le aiuti: se avessero una persona sicura, una buona ed esperta signora del luogo alla quale confidarsi, potreb­bero avere una via di uscita e di salvezza. Non dovrebbero mai avventurarsi in una grande città senza la conoscenza e l'appoggio d'una persona amica e fidata. Comunque, se pel momento riman­gono nell'occasione, devono usare i mezzi — ma decisamente ed efficacemente — per non cadere ancora: mostrarsi serie, severe, minacciare di gridare, di parlare con la moglie di quel padrone... Non basta che il confessore rivolga loro le solite raccomandazioni generiche: « bisogna usare precauzioni, stare in guardia... ». Oc­corre suggerire anche quei rimedi e mezzi pratici che appaiono im­mediatamente necessari. Perché la confessione è una cosa seria. Occorre volontà, non velleità. Ci sono sfruttatori assassini del­l'innocenza verginale, talora però anche le ragazze sono responsa­bili. Perché deboli nella virtù e perché più che alla virtù tendono ai lauti e facili guadagni. Sognano macchina, pelliccia e via dicendo.

2. Il confessore ascolterà benevolmente chi si trova nell'occa­sione prossima di peccato grave, mostrando comprensione per le difficoltà del caso e per l'umana debolezza. Ma cercherà d'otte­nere una decisione energica e precisa quando ne vede chiaramen­te la necessità. Come procederà, per essere prudente ed insieme raggiungere lo scopo? Anzitutto tasti il terreno, cerchi di sondare fin dove arriva la disposizione generosa ed il proposito concreto del penitente. C'è chi di punto in bianco non prenderebbe la deci­sione di troncare il legame con l'occasione, anche se questa deci­sione è obbiettivamente la sola ragionevole. Il confessore non lo abbandonerà. Eviterà le imposizioni intempestive e drastiche. Lo seguirà procurando di disporlo e persuaderlo. Cercherà di dargli forza con l'arte della più sana e santa suggestione. Un'anima che non avesse ancora questa forza (pur desiderando la sua salvezza) e fosse messa bruscamente di fronte all'alternativa: « o lasciar l'occasione o esser privata dell'assoluzione », potrebbe urtarsi oppure dichiararsi non disposta a seguire quest'imposizione, op­pure mostrarsi disposta ma solo a parole perché non ha il coraggio, per timidità, di confessare che non è intimamente convinta o coe­rentemente decisa. Il miglior confessore non è quello che sa solo imporre gli obblighi ma quello che sa anche intuire come il penitente reagirà ai suoi consigli ed ha la pazienza di compiere il lavoro di persuasione per sgomberare certi spiriti da errori ed

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illusioni (l'illusione di non bruciare accostandosi al fuoco): il confessore che cerca e propone al penitente i motivi più efficaci per sbloccare la situazione, i motivi dell'amore di Dio e, se neces­sario, del timore di Dio.

3. Altro prudenziale accorgimento. Prima che il confessore dichiari al penitente che è obbligato a lasciare un'occasione, consi­deri se sia più difficile, nel caso concreto, ottenere che eviti il peccato, pur rimanendo nell'occasione, oppure che allontani o lasci l'occasione con un atto positivo che può importare tanta fede e tanto coraggio. Se il penitente non l'ha e non adempisse tale imposizione del confessore, c'è il rischio che manchi e nel non lasciare l'occasione e poi nel cedere alla tentazione. Il Segneri, dopo aver ricordato che « quasi tutti i Dottori si riportano alla prudenza del Confessore, che attese bene le circostanze determini il danno » che uno avrebbe lasciando l'occasione, aggiungeva che « il precetto di fuggire l'occasione è stat'imposto dalla Legge naturale per diminuire i peccati, non per accrescerli. Adunque quando il togliere l'Occasione è più difficile in pratica, che non è difficile posta l'Occasione, l'evitare effettivamente il peccato, non vi può essere obbligatione di toglierla: altrimenti si accrescerebbe il pericolo di raddoppiare la colpa per quei medesimi mezzi, che sono prescritti dalla Legge a distruggerla » (i7 Conf. istruito, p. 48).

È ovvio però che se il non romperla con un'occasione impli­casse anche uno scandalo pubblico allora s'aggiunge un'altra legge morale naturale che il confessore non può dimenticare.

4..Ma per assolvere subito il peccatore basta che trovi in lui il proposito sincero, non solo quando l'occasione è « necessaria » (e richiede la volontà di usare i mezzi immunizzanti) ma anche nel caso d'occasione « libera » (che dev'esser abbandonata); non solo nel caso d'occasione « non presente », ma anche in quello d'occa­sione « presente ». Non è necessario che il penitente abbia dato prova d'aver effettivamente lasciata l'occasione: se ha il proposito sincero di fare tutto quanto sta in sé colla grazia di Dio, è degno di ricevere subito la grazia sacramentale che sarà, per lui, una forza a realizzare quanto ha proposto e quanto Dio domanda da lui8.

8 Pili severo s. Carlo nelle sue « Avvertenze » ai confessori: se il pe­nitente si trova in occasione continua che di per sé costituisce pericolò prossimo ed è libera, «come tener la concubina o simile, non deve il

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I I I . Però è evidente che questo proposito di lasciar l'occasione è il più costoso ed impegnativo. E di fatto il confessore si prepari a trovare, in genere, il penitente restio a questa decisione, anche quando sarebbe la soluzione liberatrice. È restio per varie ragioni. Talvolta, ad esempio, disapprova, detesta, da parte sua eviterebbe certi atti sessuali, ma gli sembra impossibile soffocare l'affetto del cuore; pensa, sulle prime, che un'amicizia possa continuare con­servandosi sul piano spirituale-sensibile. Ma una moglie che cerca e favorisce un'amicizia extraconiugale per riempire il vuoto che prova per mancanza d'affetto verso il marito, dovrebbe prevedere che, oltre al proprio cuore, darà ad un altro uomo — un momento o l'altro ma con ogni probabilità — tutta se stessa, per un adul­terio spirituale e materiale. Talvolta l'occasionario presume nelle sue forze di resistere alla tentazione: pensa che colla buona volon­tà ed i mezzi soprannaturali supererà il pericolo. Altre volte, per debole spirito di fede, perché tiene molto al posto che occupa: posto che, in qualche ambiente, purtroppo, è dato con preferenza a qualcuna che, oltre ad un buon servizio, è disposta a prestare qualcosa d'altro. Bisognerebbe indurre l'anima a riflettere che la sua salvezza va sopra tutti i vantaggi terreni e ben merita qualunque sacrificio: « Se... la tua mano o il tuo piede ti è occa­sione di peccato, mozzalo...; è meglio per te entrar nella vita monco o zoppo che esser gettato con due mani e due piedi nel fuoco eterno » (Mt. 18, 8).

Poiché ha la viva coscienza del suo ufficio, il confessore, in certi casi, si sente come dibattuto in un intimo conflitto: da una parte non vuol dare l'impressione di minimizzare il dovere del penitente di evitare il pericolo, dall'altra ha paura che il penitente non si mostri disposto a seguire una direttiva decisa. Non intendo riferirmi ai casi nei quali occorre solo un po' di volontà e di

confessore assolverlo se prima non lascia essa occasione » (Acta Eccl. Me-diol., II, col. 1885). S. Leonardo da Porto Maurizio si conforma alla di­rettiva di s. Carlo: « Certo è che in simili casi non si deve assolvete se prima attualmente non si tronca l'occasione » (Discorso Mistico e Mt 'ale, n. 23, 1739, p. 107). (Non si dimentichi le condizioni dei tempi: la fa­cilità e l'abitudine di conciliare pratica religiosa e vita peccaminosa). Anche s. Alfonso afferma la stessa regola « ordinariamente parlando », eccetti cioè casi speciali, per esempio quando il penitente dimostrasse stra­ordinari segni di dolore (Prat. del Con]., nn. 61-62). Gli argomenti di s. Alfonso però non sembrano convincenti: l'occasione, finché non è di­messa, costituisce un pericolo, ma la grazia del sacramento può dare (come si spera) la forza di mantenere il proposito.

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coraggio per evitare (ad esempio con una scusa) un'occasione peri­colosa, quale può essere una gita, una conversazione notturna, un ballo che si sa per esperienza essere estremamente eccitante (per l'una o l'altra parte)... Non si può, quando non ci siano speciali difficoltà indipendenti dalla volontà, far discussioni: il penitente sincero, pel fatto stesso che è venuto a confessarsi, deve avere (almeno « hic et nunc ») il debito proposito risoluto. Ci sono, dall'altra parte, situazioni nelle quali non si potrebbe consigliare di lasciar l'occasione neppure all'anima più generosa: è il caso di un medico che si è lasciato travolgere dalla tentazione nel norma­le esercizio della sua professione, d'un sacerdote che per necessità di ministero è messo a contatto con determinate persone. In queste occasioni « necessarie » occorre che il penitente si disponga ad usare energicamente i mezzi per non cadere. Ma fra questi due tipici casi estremi (di occasione « libera » e di occasione « neces­saria ») ce ne sono altri nei quali non si verifica lo stato di stretta « necessità »; il lasciare l'occasione importerebbe però qualche inconveniente e qualche danno (e non solo un rincrescimento sog­gettivo e un dispiacere d'ordine affettivo). Come norma, quanto maggiore è il pericolo effettivo di peccato e quanto più grave è il peccato (in sé e nelle sue conseguenze, tenuto conto anche dello scandalo che produce) tanto più grave ragione dev'esserci perché si possa ritener l'occasione come « necessaria » e si possa ritenersi scusati dal lasciarla. Nel dubbio se sia il caso d'indicare al penitente la via più sicura o meno, il confessore potrà assolverlo se gli pare che abbia il proposito serio d'usare i mezzi per vincere la tentazione. Però, in seguito, l'esperienza può ammaestrare con­fessore e penitente che praticamente questi mezzi non sono serviti a render « remota » l'occasione « prossima ». Realtà purtroppo frequente. Colpa certamente del penitente che non ha usato tutti i mezzi che poteva per preservarsi dalle cadute. Sta il fatto che le cadute si ripetono. Son questi i casi più spinosi pel confessore. Strettamente egli può assolvere anche questi occasionari recidivi purché (al presente almeno) propongano sinceramente d'usare con più impegno i mezzi necessari. Non si può però negare che, specie in tali casi, sarebbe quanto mai consigliabile fare un taglio netto (con quell'amicizia, quell'ufficio, quella casa, quel gruppo, quel­l'ambiente...). Costerebbe minor sofferenza e pena che il combat­tere settimane, mesi, anni contro un'occasione continuamente vi­cina, implacabilmente assediante (è un'illusione il pensare di riu­scir a ridurre o limitare certe relazioni alla semplice affettività

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spirituale). Ma occorrerebbe generosità e decisione. Ad esempio, un religioso od una religiosa (anche se superiori d'una comunità) possono chiedere un trasferimento adducendo un pretesto; un'im-piegata — appena può trovare un altro ufficio che le dà i mezzi, per vivere — lascerà quel posto di lavoro che è un'occasione abi­tuale di peccato; chi in un reparto di fabbrica, ospedale, azienda, vede che, rimanendo dov'è, non avrà la forza di rompere un legame con una donna che ivi lavora (e non può sposare) veda se può ottenere il proprio trasferimento in un altro reparto (tanto più se è stato lui che l'ha sedotta e rovinata). Certo, ogni cambia­mento pesa, ed è sempre, sulle prime almeno, un incomodo non indifferente, importa qualche incognita, rischio, inconveniente imprevisto. Ma sono rischi che assicurano la liberazione e la salvezza.

4. Recidivi

1. Evidentemente le norme sulla condotta del confessore nei riguardi dei recidivi dipendono anzitutto dal significato che s'in­tende dare al termine « recidivo ». Significa tutti coloro che rica­dono nello stesso peccato dopo essersene tante volte confessati? Ma ciò capita a molti penitenti i quali hanno pur fatto qualche sforzo e mostrato della buona volontà: questi non si possono dire « non disposti » a ricevere l'assoluzione, anche se non hanno mes­so tutto quanto l'impegno che sarebbe stato loro possibile. Il fe­nomeno ha la sua spiegazione semplicemente nella debolezza umana (che non significa incolpevolezza). Questi sono penitenti recidivi in senso largo; i quali però devono certamente proporre d'esser più generosi. O per recidivo s'intende chi finora non ha mostrato nessun impegno di conversione e perciò è ricaduto e ricade? Questi è veramente recidivo in senso specifico stretto. Oppure, ancora, per « recidivo » si vuol addirittura indicare chi anche attualmente manca di pentimento o del proposito richiesti? Questi sarebbe recidivo nel senso più deteriore: è uno semplice­mente « non disposto » all'assoluzione (finché si conserva irri­ducibile).

2. Equivoci nel significato del termine « recidivi » possono spiegare come si ha negli autori di morale (antichi e moderni) una certa confusione e divergenza sulle direttive che danno al confes­sore per l'assoluzione (o meno) di questa categoria di penitenti.

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S. Alfonso (Th. Mor., VI, n. 459; Pratica del Confessore, e. V, n. 66) ed alcuni moralisti con lui, richiederebbero che i recidivi — se vogliono esser assolti — diano qualche segno « straordina­rio » di dolore. Perché, dicono, dev'esser eliso il sospetto che non siano sufficientemente disposti. Sospetto causato dalle ricadute stesse. È da rispondere che se al presente ci son segni di vero dolore e di proponimento, il sospetto è già tolto; e pertanto non si vede perché un tale penitente non possa esser assolto, anche se non presenta segni straordinari di penitenza9. È per la debo­lezza costituzionale della natura umana che possono verificarsi questi due fatti: volontà, oggi, di non peccare, ed inadempienza, domani, di questo proposito. Tanto più quando si tratta di consue­tudini per concupiscenza (« antecedente » l'atto umano) la quale diminuisce il libero arbitrio (come in certe miserie solitarie di peccato impuro). Del resto, ci sono circostanze ed atti che pos­sono far pensare all'esistenza di disposizioni penitenziali piuttosto straordinarie. Il fatto stesso di andar a confessarsi in certe zone scristianizzate; la vittoria sul rispetto umano (tanto forte in certuni); il sacrificio del viaggio fatto per portarsi in chiesa, la paziente attesa fra tanti penitenti, l'ascolto della predica (oltre la Confessione)... La dilazione dell'assoluzione (che, in pratica, agli occhi del penitente, significa negazione, per quanto vellutata) oggi non è, in genere, fruttuosa. Poteva esserlo in epoche passate: anime che avevano istruzione e fede ma poca coerenza, si sentiva­no impressionate e salutarmente scosse, erano indotte a riflettere ed a convertirsi sinceramente 10. Ai nostri giorni bisogna cercar di disporre chi non lo è (o lo è dubbiamente) e poi, appena possibile,

9 « Poenitere est anteacta peccata deflere, et flenda non commit-tere, scilicet simul dum flet vel actu, vel proposito. Ille enim est irrisor, et non poenitens, qui simul dum poenitet, agit quod poenitet, vel pro-ponit iterum se facturum quod gessit, vel etiam actualiter peccat eodem vel alio genere peccati. Quod autem aliquis postea peccat vel actu, vel proposito, non excludit quin prima poenitentia vera fuerit: numquam enim veritas prioris actus excluditur per actum contrarium subsequentem; sicut enim vere cucurrit qui postea sedet, ita vere poenituit qui postea peccat » (S. Th. Il i , 84, X, ad IV).

10 Cosi s. Carlo nelle sue « Avvertenze » ai confessori poteva sugge­rire che chi suol cadere in occasione prossima libera (non continua e non presente) deve promettere di lasciarla (per esser assolto); ma « se avendo promesso altre volte nondimeno non si sia emendato, (il confessore) dif­ferisca l'assoluzione fin tanto che veda qualche emendazione » (Ada Eccl. Mediol., II, e. 11, 1884).

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assolverlo (almeno condizionatamente). Specie se si tratta di gente che in fatto di religione mostra tanta ignoranza e grossola­nità, viene a ricevere i sacramenti molto raramente. Negare o differire l'assoluzione potrebbe causare un avvilimento con pro­blematico risultato. Dobbiamo far capire che ricever l'assolu­zione è un impegno alla coerenza, ma insieme (per quanto possi­bile) far in modo che il penitente non si allontani del tutto dalla pratica sacramentaria. Vorrei dire che questa norma di massima si può estendere anche a certe anime di debole fede e scarsissima pratica religiosa, le quali si trovano in qualche occasione libera, propongono di lasciarla ma non mantengono: si spera che col-l'aiuto della grazia rafforzino la loro volontà: « dicendum quod maius remedium praebetur contra peccata vitanda ex gratia quam ex assuetudine nostrorum operum » (S. Th. Suppl. 25, 1, ad IV). Insomma, pare che oggi convenga che il confessore (nel dare o no l'assoluzione) inclini piuttosto verso la misericordia che verso il rigore della giustizia. Comunque, quando il ministro del sacra­mento agisce con rettitudine d'intenzione, cercando il bene del penitente, Dio interverrà a riparare qualche eventuale sbaglio, qualunque possa essere, per eccesso sia in un senso sia in senso opposto. Può darsi che — in due casi simili — dei due confessori, uno si senta piuttosto ispirato a scuotere il penitente, l'altro a mostrar compassione, a toccare e intenerire il cuore, a piegare la volontà dolcemente colla bontà. Dio sa ricavare vantaggio per un'anima sia dall'uno come dall'altro comportamento dei confes­sori. Perciò può capitare ad un confessore di sentire un penitente che si lamenta di non aver ricevuto l'assoluzione da un primo confessore. In tal caso non è mai opportuno che il secondo confessore — anche se giudica che il primo ha agito con troppa rigidità od in un momento d'impulsività — ne critichi apertamente l'operato. Dirà semplicemente che forse non ha capito bene la situazione perché il penitente non s'è spiegato chiaramente (come invece ha fatto in questa nuova Confessione). Però può anche darsi che il penitente, impressionato dalla lezione ricevuta, sia ritornato a confessarsi con ben diverse disposizioni, anche se a lui sembra d'esser lo stesso (l'amor proprio impedisce di riconoscere che la misura usata, umiliando l'anima, ha giovato). In tal caso non ci sarebbe che da far capire che il primo confessore ha agito ragio­nevolmente perché allora, forse, il penitente non aveva mostrato un deciso proposito, quale ora.

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3. Nella cura spirituale dei recidivi (che di solito sono anche consuetudinari) il confessore procurerà d'ottenere un sincero pro­posito (che provochi lo sforzo attuale d'una volontà coerente), qualunque siano state le Confessioni ed il passato del penitente. La guarigione — di fatto e di solito — non si ottiene istantanea­mente. Però il confessore deve conservare la fiducia ed infonderla nel penitente. E tenendo conto che si tratta, di solito, non solo di recidivi, ma di consuetudinari — mossi dalla forza della concupi­scenza antecedente e dell'abitudine contratta — proprio per questo il confessore avrà speciale compassione, pazienza ed indulgenza. Certamente per riuscire a ridurre progressivamente la frequenza delle sue ricadute e giungere alla piena liberazione, il peccatore recidivo avrebbe bisogno d'una direzione spirituale stabile e con­tinuata. Invece spesso avviene ch'egli si confessa presso diversi sacerdoti secondo il momento e l'occasione; e forse non trova mai un confessore che s'informi del suo stato e pensi a dargli i consigli necessari. Bisognerebbe quindi consigliarlo a ricorrere possibilmente allo stesso confessore e quanto più frequentemente è possibile. Ed al confessore bisognerebbe consigliare di non accon­tentarsi d'assolvere ma di voler praticare anche un minimo di dire­zione spirituale. Potrà quindi, appena sospetta che si tratti d'un recidivo, fare qualche discreta domanda: scf simili mancanze son compiute abitualmente, da tempo; quali raccomandazioni gli son state fatte da altri; se, oltre alla passione interna, c'è qualche occasione anche esterna... Osserva s. Alfonso (Pratica del con­fessore, e. V, nn. 68-69) come più che non verso gli occasionari, bisogna usare bontà ed indulgenza verso coloro che soccombono per debolezza intrinseca, come accade nei peccati di collera, di bestemmia, di pensieri impuri, di polluzioni solitarie... Perché l'occasione esterna eccita dei pensieri assai più vivi e la presenza dell'oggetto o della persona commuove più facilmente i sensi e rende quindi più intenso l'amore al peccato di quanto non lo faccia la cattiva abitudine. Inoltre, una volta presa — sia pur colpevolmente — un'abitudine, esiste un'inclinazione, alla quale bisognerebbe resistere, ma che non dipende attualmente dalla volontà. Mentre dipende dalla volontà il togliere o non togliere l'occasione libera. Perciò il penitente deve farsi forza per allon­tanare l'occasione, se è libera, o per neutralizzarla e rendersi invulnerabile se l'occasione è necessaria.

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4. In conclusione, ai recidivi bisogna mostrare paternità e dolcezza per preservarli dallo scoraggiamento ed insieme esortarli a non desistere mai dallo sforzo di correggersi, ad avere il corag­gio di fare sempre gli stessi propositi: questo è l'autentico spirito evangelico. Fiduciosamente, ma umilmente, per non cedere alla tentazione di scusarsi e di giustificarsi: su questa via si arrive­rebbe a difendere il male, all'amoralismo. Ma carità e tenerezza del confessore, queste dovranno crescere a mano a mano che il penitente moltiplica i suoi peccati. Questi deve sentire che è sempre invitato a ritornare alla casa del Padre e che la porta è sempre aperta. Misericordia da usare e conciliare, da parte del confessore, con una certa fortezza, quando occorre. Perché si può dare anche il caso di chi s'accontenta d'accusare i peccati ma non vuol proporre (per egoismo, indolenza, incoerenza) di romperla con un'occasione libera e cosi non fa solo del male a se stesso ma detiene qualche vittima in stato di peccato e di schiavitù. Bontà, prudenza, fermezza. Saper conciliare queste virtù non è facile per un Confessore. Suppone una luce ed una forza interiori che vengono dalla grazia e dalla santità.

5. Abitudinari

1. Sono coloro che, in. seguito alle ripetute cadute nello stesso peccato, ne contrassero forte inclinazione e per la prima volta se ne confessano. Se si fossero confessati molte altre volte, allora sarebbero anche « recidivi ». Per sé, quindi, il penitente potreb-b'esser « abitudinario » senz'esser « recidivo ». Se si sta alle leggi della natura e della psicologia umana, normalmente i vizi non si perdono di punto in bianco. Ma non è escluso che la grazia dia la forza al penitente generoso di fare una Confessione con fervore straordinario e, poi, d'intraprendere una pratica assidua di preghiera e di mortificazione, cosi da non ricadere più nel peccato grave. Ed il « recidivo » è sempre un « abitudinario »? Ordinariamente si. Però, ad esser esatti, l'abitudinario è colui che suol commetter un determinato peccato non solo con una certa ripetizione, ma con facilità e forte inclinazione. Per giudicare se, nel caso concreto, un penitente abbia o no contratto una vera abitudine, bisogna considerare tutte le circostanze: la frequenza delle cadute, la materia; ad esempio, molto maggior frequenza si richiede quando si tratta di bestemmie che quando di peccati

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(esterni e consumati) contro il sesto comandamento: il ricadere in questi più volte al mese per lungo tempo (un anno) si può ritenere già un'abitudine. Bisogna considerare anche l'indole del soggetto e la sua inclinazione ad un dato disordine morale: quanto più forte è questa strutturale propensione, tanto più rapidamente si contrae l'abitudine. L'inclinazione, a sua volta, s'accresce col ripetersi degli atti. Specialmente di quelli esterni, i quali suppon­gono una più deliberata, decisa, audace, sfrenata determinazione da parte della volontà. Dapprima il peccatore deve quasi farsi violenza quando trasgredisce la legge morale. Poi può subentrare una certa indifferenza alla malizia di tali atti che diventano quasi una seconda natura.

2. La consuetudine, per sé, non crea speciale difficoltà pel confessore in ordine all'assoluzione. Anzi, siccome la debolezza s'accresce per la consuetudine, è meno colpevole chi ricade in forza d'una inclinazione (antecedente l'atto volontario) di chi ha minor trasporto spontaneo e cerca le eccitazioni. La consuetudine, per sé, non è peccato, ma un'inclinazione a peccare. Taluni si credono pessimi perché hanno una fortissima concupiscenza. Non è giusto il giudicarli tali, ma non si deve neppure scusarli: c'è pericolo che pensino che la concupiscenza è invincibile. Il consue­tudinario, pertanto, può esser assolto anche se non è preceduta alcuna emendazione purché ne abbia la seria volontà col proposito d'usare i mezzi naturali e soprannaturali necessari.

3. Difficile è bensì che il consuetudinario si corregga effet­tivamente e prontamente. Tanto più difficile quanto più la consue­tudine è radicata. Perciò sarebbe un problema per chi stesse per assumere l'impegno della castità (con l'Ordine Sacro o la profes­sione religiosa). È per questo che si richiede una prova sufficiente. Senza la quale può esserci fondato dubbio che uno mantenga quanto s'appresta a promettere: il voto di castità sarebbe teme­rario. Ma il semplice penitente, in quanto tale, può esser, per sé, sufficientemente disposto all'assoluzione anche se umanamente è prevedibile che non si correggerà subito. Ottimo rimedio per vincere le consuetudini impure (le più frequenti) è l'uso assiduo dei sacramenti della Penitenza e dell'Eucaristia. I penitenti stessi spesso riconoscono e dicono espressamente che se avessero la forza d'esser fedeli alla Confessione ed alla Comunione sarebbero anche in grado di vincere le tentazioni. Non è facile che in pratica, specie oggi, usino altri mezzi: non pregano, non leggono libri spirituali, non meditano, non recitano il Rosario (come si faceva un tempo).

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Perciò non raramente l'uso dei sacramenti dovrebbe dirsi un mezzo necessario (anche se non si può strettamente imporlo).

6. Carcerati

1. Non bisogna illudersi che molti detenuti trovino nelle sof­ferenze del carcere uno stimolo alla riflessione salutare e la via della redenzione. Per un complesso di ragioni, solo una minoranza torna alla fede, si pente e si converte. Molti non diventano né migliori, né peggiori. Sembrano strutturalmente fissati nelle loro abituali disposizioni psicologiche. Taluni si direbbero in uno stato d'indif­ferenza e d'incoscienza. Sono coloro che in carcere riescono a dormire molte ore, a mangiare, a non pensare, a cercar soddisfazioni e rapporti sessuali (anche se superficiali) con persone che avvici­nano; son diventati quasi insensibili ai disagi della vita carceraria, conducono un'esistenza non umana, amorale, perché senza pro­blemi. E siccome l'insensibilità morale è la più grave malattia dello spirito, possiamo dire che per toccare e commuovere simili indi­vidui ci vorrebbe un miracolo della grazia.

Ma ci sono anche coloro che si convertono. Nel documento pastorale della C.E.I. Evangelizzazione e sacramenti (12.VII.1973, n. 112) si legge che « non di rado, proprio nell'ascolto della parola di Dio e nella pratica sacramentale il carcerato ritrova quella serenità e quel desiderio di ripresa, che gli sono tanto necessari per un dignitoso reinserimento nella società ». E fra coloro che rico­noscono il proprio passato riprovevole, il confessore si prepari a trovare ed a sorreggere anche qualcuno a cui il demone della disperazione cerca di togliere la fiducia insinuando il dubbio più insidioso: « il mio delitto, le mie colpe non sono troppo gravi perché io possa esser perdonato da Dio? ».

Ci sono infine quelli e quelle che, sia per reazione e ribellione, sia per l'amicizia ed il deleterio influsso di altri (o di altre) incal­liti e più esperti nelle tecniche della delinquenza, diventan peggiori.

Sappiamo quali sono le richieste dei detenuti e le accuse contro gli attuali sistemi carcerari. Tutti siamo d'accordo nell'auspicare un loro risanamento e la trasformazione delle prigioni in istituti capaci di agevolare il reinserimento degli ex-detenuti nella società. Ma, ad esempio, al fine d'impedire l'autoerotismo e l'omosessualità, non si potrà positivamente approvare che siano loro concessi, se-

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condo il capriccio personale, i rapporti sessuali extraconiugali (solo parte dei detenuti sono ammogliati).

Il sacerdote deve conoscere la realtà della vita carceraria. Ma non per questo deve perder l'entusiasmo della sua missione. Un cappellano, un confessore che sia intelligente e santo potrebbe ottenere anche conversioni quasi miracolose.

2. Ogni detenuto merita gran compassione. Come tutti coloro che soffrono (anche se non sanno sfruttare la sofferenza per redimersi ed elevarsi). Come le prostitute che si dicono infelici, possono versar lagrime, senza però desistere dal loro degradante mestiere. Avere compassione ma non esser neppure ingenui. È gente che può continuare a perseguire anche in prigione quello che ha fatto prima (se capita l'occasione rubano, hanno rapporti ses­suali, altrimenti si soddisfano da soli). Pel fatto che hanno l'aspetto dei falliti, dei finiti e dei pentiti non vuol dire che siano convertiti. La bugia e la doppiezza è talora, nei delinquenti di professione, una componente della loro struttura psicologica e della loro per­sonalità. Alle volte, son finti e mendaci senza saper d'esserlo. È questa una caratteristica dei tipi anormali (frequenti fra i crimi­nali e le donne di malaffare). Ed è l'arma dei malviventi reclusi. Forse l'unica. Forse, per cosi dire, con un certo fondamento giu­ridico, dato che hanno sempre il diritto di negare il proprio reato (eccetto che in Confessione).

3. Il confessore non ignori tutto questo. Possono non esser pessimi, ma non è improbabile che si servano di tutto, anche della pratica religiosa (più o meno in buona fede) per raggiungere scopi materiali (aiuti, raccomandazioni presso giudici, guardiani, direttore del carcere). Cosi una prostituta può venire anche alla Comunione per far credere che s'è convertita e per trarre in inganno qualcuno da cui spera avere dei vantaggi. Quindi, per principio e per presunzione, non si può credere a tutto quanto dicono. Ma neppur contraddirli senza carità disprezzandoli ed umiliandoli. A proposito, in particolare, dei reati loro imputati, il sacerdote che li avvicina noterà che ci son quelli che riconoscono sinceramente d'aver mancato (pur con l'aggiunta delle attenuanti, ad esempio per un momentaneo stato d'ebrietà). Altri negano sempre (anche dopo la sentenza) d'esser colpevoli e sostengono l'er­rore giudiziario. Può anche essere. E se, quanto al resto, sono pentiti e dan segni di fede, si potranno assolvere: sotto condizio­ne perché resta pure un indizio sfavorevole. È certo che, almeno tempo addietro, qualcuno conciliava abbastanza pacificamente pra-

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tica religiosa, bugie e furti. Oggi speriamo ci sia, in chi esterna­mente non rifiuta gli atti di religione, una fede più autentica e meno formalistica; e, d'altra parte, speriamo non ci sia chi si pro­fessa irreligioso poco sinceramente, cioè più che altro per rispetti e motivi umani. Potrebbe anche darsi (come dicevo) che qualcuno non sia perfettamente normale: la bugia entrerebbe allora nel suo temperamento e nel suo comportamento senza ch'egli abbia coscienza della sua malizia morale, anzi, senza che abbia la coscien­za di mentire. Certi tipi bisognerebbe avvicinarli spesso se si volesse aver elementi per un giudizio fondato. E talora si stenta, comunque, a formularlo perché sono abilissimi ed abilissime.

4. Per tali ragioni sarebbe meglio che facessero la loro Con­fessione presso un sacerdote estraneo e non presso il cappellano delle carceri; tanto più se sanno che questi fa parte del consiglio di disciplina dell'istituto penitenziario: c'è pericolo e tentazione che vengano da lui per ottenere qualche favore e raccomanda­zione. E Chanson scrive che sarebbe bene si confessassero solo dopo che l'istruzione giudiziaria è compiuta, altrimenti è quasi impossibile che siano sinceri e pentiti (A. Chanson, Per meglio confessare, 1956, p. 252). E sarebbe bene fossero avvisati che dal confessore non avranno aiuti materiali ma solo il perdono dei peccati: quindi è inutile vadano da lui per altre ragioni. E bene anche ricordar loro che il confessore è obbligato al più rigoroso segreto: non farà il minimo cenno di quanto ha sentito con nes­suno, né con guardiani, né con avvocati, né coi giudici. Sappiano pertanto che la Confessione — se vogliono che sia efficace — non serve ad altro che all'anima; per il resto non porterà né alcun dan­no, né alcun aiuto direttamente (A. Chanson, Le).

7. Prostitute

1. Oggi, quando in molti paesi (come in Italia) le « case chiu­se » di tolleranza sono state abolite, il fenomeno della prostituzione non è diventato meno preoccupante. Consta, ad esempio, che si è diffusa anche fra le ragazze che hanno un certo grado di cultura. Da recenti indagini (interessanti l'Italia) risulterebbe che il 14,7% delle prostitute « professioniste » (non solo occasionali) possiede una laurea od un titolo di studio press'a poco equivalente. Son dunque persone intelligenti che han fatto una consapevole scelta riguardante tutta la propria vita. Scelta che è un altro

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sintomo della degradazione morale del nostro tempo, proprio mentre si sperava che la chiusura delle case di tolleranza avrebbe contribuito ad un risanamento del costume (G. Garbèlli, La pro­stituzione in Italia oggi, Ed. Paoline, 1973, p. 43).

2. Molte di queste donne, ad un certo momento della loro esistenza, devon essere giudicate con infinita compassione. Il più delle volte hanno-imboccata la via che le ha portate alla rovina perché erano ignare, ingenue e si son lasciate ingannare o suggestionare. Pensavano che tutto si limitasse ad alcune affetti­vità e carezze (e per la donna questo può essere sufficiente per sod­disfare in pieno la sua sensualità). Alcune sono state rovinate ed hanno cominciato una vita viziosa quand'erano ancora ragazzine. Per molte c'è stato il deleterio influsso della situazione familiare. Molte rimasero prive dell'affetto dei genitori, sono orfane di padre o di madre, o figlie di ragazze-madri: ecco allora le « fughe » di giovanissime che s'infatuano di qualche ragazzo e lo sposano in fretta. Dopo appena un anno di matrimonio avviene facilmente la rottura. Subentra quindi uno stato di tensione. Ed allora cer­cano una liberazione nell'incontro con altri uomini. Lo spirito geme nella nostalgia d'un amore deluso. Per qualcuna di queste relazioni susseguentisi ci può esser anche l'elemento affettivo. Comunque, ormai hanno iniziato la discesa sulla china che porta all'abisso: fatta un'esperienza, sono sollecitate a provarne altre, forse per stordirsi, dimenticare, vincere l'infinita malinconia verso la quale si sentono disperatamente franare.

Vittime, dunque, di squallide situazioni familiari, di delusioni e di tradimenti. In Italia il 4 1 % sono «fuggitive»; di questo 4 1 % , l'82% lasciò la casa dai 12 ai 19 anni (quindi senza la piena consapevolezza dei rischi, Garbèlli, o.c, p. 43). Per altre il bisogno economico, è stato la causa per cui hanno ceduto. Altre volte, ancora, è stata la promessa (non mantenuta) di matrimonio il tranello che le ha fatte cadere. Talune hanno per ereditarietà una natura caratteristicamente sensuale, tanto che si è parlato di « prostitute nate ». Ciò non va generalizzato: se sono, più o meno, anche fisicamente e psichicamente tarate, ciò può esser anche la conseguenza della loro sregolata e tempestosa condotta di vita. Consta che solo in via eccezionale sono state indotte a quel me­stiere da una iperestesia sessuale. Esiste si qualche prostituta costituzionale, ma la spiegazione lombrosiana è oggi sempre più messa in dubbio. Ordinariamente non provano inclinazione alcuna a compiere l'atto sessuale; ne sono anzi disgustate (Garbèlli, La

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prostit. in Italia oggi, p. 34). È innegabile però (lo si vede nelle carcerate) che la loro fame del sesso è diventata un tormento. Sono sensibilissime ed avidissime di amicizie particolari (con mani­festazioni esterne passionali). Il sesso è il loro chiodo fisso. Non possono non parlarne. Vanno al cinema perché questa è la materia del film. Non leggono che libri che trattano di questi argomenti e cercano i più piccanti, pornografici e veristi sull'istinto (normale od anormale) del sesso. Alcune confessano che impazzirebbero se non potessero soddisfare la loro passione (secondo o contro na­tura). Se in carcere vedono un uomo non son capaci di non guar­darlo e di distogliere lo sguardo da lui.

D'altra parte, fanno pietà perché sono e si dicono infelici. I medici che le avvicinano nei reparti clinici (dove sono curate dalle malattie veneree) affermano che son poche quelle che non conoscono la depressione e l'angoscia e che quelle poche risultano psichicamente anormali (P. Babina, Corruzione della donna, re­sponsabilità dell'uomo, Milano, I.P.L., 1942, p. 48).

3. Nei primi anni del loro smarrimento c'è qualche umana speranza di salvarle. Se la loro vita di dissipazione si è ormai protratta per lungo tempo, danno l'impressione d'esser struttural­mente fissate in un'invincibile consuetudine. Ciò non toglie che possano, ogni tanto, recarsi in chiesa, e persino accostarsi ai Sacramenti. Ma il vizio resta: è diventato una seconda natura. La loro pratica religiosa come va giudicata? È espressione d'una mentalità legalista cosicché la considerano come un compenso per regolare i conti con Dio? Oppure è segno d'una fede sincera ma che non ha la forza d'esser coerente, d'una volontà e di un'umile speranza di non rompere ogni legame con l'ai di là? Di fatto è una religiosità superficiale che non porta una trasformazione della vita. La conversione di queste donne (almeno finché hanno salute suf­ficiente per godere la vita) è un problema difficile. Ci sarebbe bisogno d'una radicale riforma perché, ordinariamente, tutta la loro vita è disordinata. Fumatrici accanite, spesso dedite all'alcool, non raramente alla droga, senza regola alcuna nei pasti e nel riposo: la loro regola è l'istinto, il capriccio, il piacere (il che non esclude gesti di bontà, di generosità, di compassione per gli altri). Specialmente nelle drogate c'è un'ossessione del sesso.

È stato scritto che nelle carceri circa il 20% sono mercenarie del sesso. Per queste recluse — se si sta a certe inchieste — si dovrebbe esser pessimisti circa la speranza di redenzione. Non sono in galera solo per aver commesso qualche grosso sbaglio o

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qualche debito. Sono viziose che hanno perduto ogni ideale. Non credono in una società che possa diventare migliore. Sono preoc­cupate solo di sé stesse, di soddisfare le loro passioni: sesso, alcool, fumo, droga. E, per farlo, sono pronte anche a rubare. È da aspettarsi (come di fatto avviene) che, uscite dal carcere, ripren­dano la vita di prima. Qualcuna va a convivere stabilmente con uno sposato. Quelle che si sposano, facilmente e ben presto si separano dal marito. Non si sa se la vita dissipata abbia portato in esse qualche squilibrio psichico, o viceversa. Una cosa è certa: alle loro parole non si può credere. Sapendo che non cambieranno condotta, cercano ogni espediente per scusarsi. Vorrebbero farci credere che han trovato il fango nel carcere (anche in qualche persona religiosa che si è votata alla verginità) e che nel carcere son diventate peggiori. Solo un miracolo della grazia potrebbe operare la loro conversione. Tuttavia anche le peggiori meritano gran compatimento perché noi non conosciamo le cause remote che le hanno portate a tale insensibilità, amoralismo, fissazione perversa. Basti pensare che la grande maggioranza delle donne che vanno in prigione sono analfabete o semianalfabete. Qual­cuna, quand'era ancora giovanissima ed ignorava il male, ha subito violenza; qualcuna è stata vittima d'un padre alcoolizzàto e bestiale dal quale non hanno saputo liberarsi, difendersi, fuggire, contro il quale non hanno avuto il coraggio di sporger denuncia rivelando l'incesto.

4. Alcuni caratteri tipici di queste donne: a) incostanza, variabilità d'umore e di sentimenti (sintomo

dell'isterismo). In carcere con tutta facilità s'aggrediscono e si pic­chiano; poco dopo fanno pace e si danno baci ed abbracci;

b) la finzione (conscia od inconscia) è comunissima (come nell'isterico). Possono andare alla Comunione per far credere che si son convertite se è loro interesse conquistarsi la stima d'un sacerdote o di qualche altro;

e) hanno atteggiamenti contraddittori. Accettano in dono la corona del Rosario e la tengono con sé, ma, in altra occasione bestemmiano; baciano un'immagine sacra, una medaglia che si regala loro e, più tardi, proferiscono un discorso sconcio. Sono molto generose con l'individuo a cui si affezionano. Ma, all'occa­sione buona, sono capaci, con tutta disinvoltura, di rapinarlo. Molte hanno una naturale generosità nel dare, nel prestarsi e prodigarsi che le rende simpatiche. Ma non si può fidarsi. Son

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facili a mettere le mani sulla roba d'altri od a suggerire e favorire qualche furto da parte dei loro amici. In genere la prostituzione è in stretto legame e complicità colla malvivenza e la delinquenza;

d) raramente dotate d'un aspetto avvenente, talora ele­ganti, ma spesso vestite in forma dimessa, modesta e senza trucchi (sia per naturale trascuratezza, sia per l'intento di non esser no­tate) sanno usare tutte le arti per far cadere sugli altri respon­sabilità, sospetti, calunnie, difetti, sollevare supposizioni imma­ginarie. Perciò mi chiedo quanto credito meriti qualche inchiesta sulle voci di prostitute ex detenute;

e) non si ignori che sono particolarmente attratte verso coloro che non hanno ancora perduto il candore della loro pu­rezza e verginità: esca desideratissima che tentano con tutti i mezzi di carpire, sia per confermarsi nella persuasione che la castità è impossibile, sia per aver la soddisfazione di conquistare e far cadere chi si credeva invulnerabile, sia perché si tratta di uomini ancora illibati coi quali non corrono il rischio di con­taminarsi.

5. Cristo incontrò anche le prostitute, parlò loro, perdonò loro aggiungendo la raccomandazione di non più peccare. Compren­sione, compassione, ma discrezione nelle Sue parole. Non sap­piamo se tutte avranno corrisposto al Suo perdono ed al Suo invito. La grazia di Dio può toccare ogni cuore, riportare la vita e ricostruire l'unità sui frantumi d'un'anima spezzata e spenta.

Il sacerdote al quale sia offerta l'occasione di porgere una mano ad una di queste sventurate nel tentativo di salvarla, agirà — come il Maestro — con la semplicità e la dignità dei puri di cuore, ma con la cautela di chi conosce il mondo. Con carità ma con gli occhi aperti. Non dimenticherà che si tratta di gente strut­turalmente falsa (in mala o buona fede). Non ignorerà che ci sono quelle dalla doppia vita: le quali fanno le serie colle persone serie e la notte si danno alla prostituzione (od albergano le prostitute). Ma prendono l'atteggiamento delle offese e delle calunniate se sono scoperte e qualificate per quel che sono. Si presentan sempre come vittime: a sentirle, avrebbero sempre ragione, il torto sarebbe sempre del marito il quale (dicono) non le rispetta, le sospetta, le picchia. Perciò non meraviglia che, con chi spera di convertirle, siano disposte a discutere per ore, ripetendo, su per giù, sempre le stesse cose; ma, alla fine, forse concluderanno mestamente che non si sentono d'impegnarsi,

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di promettere, di proporre. Se sono coerenti, diranno che non si sentono neppure d'accostarsi ai sacramenti della Confessione e della Comunione.

Ma se qualcuna (che non è ancora prostituta cronica) desi­derasse sinceramente di rialzarsi e si rivolgesse al sacerdote, egli potrebbe darle grande aiuto. Purché però sappia usare discre­zione, tatto, intelligenza. Sbaglierebbe se impostasse tutto il problema sul piano della responsabilità morale e della colpa grave. Se si tien conto di tutte le circostanze individuali, familiari, ambientali, che hanno influito nella vita d'una prostituta, ogni giudizio semplicistico apparirà carente d'obbiettività. Tanto più se conduce alla condanna implacabile od all'ironia umiliante. Il confessore terrà presente di trovarsi di fronte a persone profon­damente frustrate, coi nervi a pezzi, incapaci di prender deci­sioni ferme, prostrate dalla sfiducia, instabili per temperamento, oltremodo impulsive, impressionabilissime. Per tutte queste ra­gioni, la riabilitazione morale d'una donna perduta sarà pos­sibile solo se essa avrà l'impressione di trovare chi le dimostra anche — sull'esempio di Cristo — comprensione, fiducia e stima. Evidentemente non basterà il generico invito a non voler più peccare per ottenere lo scopo (noi non siamo, come Cristo, autori della grazia che trasforma i cuori): bisogna indicare anche i mezzi necessari. E qui ritorna il discorso che è stato fatto per gli occasionari, i recidivi, gli abitudinari. Soprattutto bisognerebbe ottenere che l'ambiente di vita e di lavoro di queste donne fosse — in un'atmosfera di libertà e di serenità — favorevole alla loro redenzione morale; ottenere, specialmente, che sostituiscano alle loro pessime amicizie (quali sono le colleghe nel lurido mestiere) altre di migliori, dalle quali, quasi insensibilmente si sentano ricondotte, con delicatezza ed affetto, sulla via della risurrezione e della salvezza.

8. Tiepidi

Non sono, per l'esattezza, i seguaci della mediocrità. Tiepi­dezza è un termine classico — insostituibile^ penso — mediante il quale gli autori d'ascetica intendono significare uno stato ed un disordine spirituale ben preciso. Non già il senso d'aridità che uno prova nelle pratiche di pietà — orazione mentale e vocale — (aridità che può dipendere da cause non volontarie e rendere

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gli esercizi spirituali più meritori); e neppure la prima istintiva ripugnanza — possibile anche nei santi — a compiere certe azioni, ad intraprendere certe attività volute o desiderate da Dio. Nemmeno possono dirsi in stato di tiepidezza coloro che com­mettono qualche peccato veniale al quale fanno prontamente seguire il pentimento ed il proposito. La vera tiepidezza si ha quando un'anima — pur non giungendo al peccato grave, eccetto, forse, qualche volta — commette con frequenza ed abitudine peccati veniali senza più reagire col rimorso ed il dolore, ma scusandoli: « Non è dunque il fatto del peccato veniale che è il segno distintivo » della tiepidezza, « è la facilità a commetterlo, l'abitudine presa e soprattutto l'attacco. La persona tiepida si lascia andar senza lotta a questa sorta di mancanze... e finisce per vi­vervi tranquillamente » (Pratique progressive de la confession et de la direction, Paris, 1903, I, p. 112-113).

I. Questo discorso riguarda e deve interessare particolarmente coloro che hanno abbracciato uno stato di perfezione (nel quale godono di privilegiati aiuti spirituali) oppure, attratti dalla grazia, erano già giunti ad un alto grado di fervore. Per queste anime lo stato di tiepidezza denota una certa incorrispondenza alla grazia. É pericoloso. Può far perder anche il sano ed equilibrato senso del peccato. Ci sono anche coloro che dopo essersi convertiti da una vita di peccato — si veda la categoria dei « gran peccatori in via di conversione » — poi si fermano a vivacchiare nello stato di tiepidezza. Però è meno difficile scuotere queste anime che non quelle cadute dall'antico fervore nelle quali maggiore è l'abuso delle grazie e più avanzato l'indurimento della coscienza (cfr. Prat. progress, de la conf., I, p. 116).

Ci sono poi quei cristiani che vivono nel mondo e si conser­vano fedeli alla legge morale naturale ed a quel minimo di pre­ghiera e di pratica religiosa richiesto ad ogni cristiano ed imposto dalla Chiesa. Per essi, praticamente, non facciamo la questione della tiepidezza. In genere, coloro che (vivendo fra i pericoli e le tentazioni del mondo) evitano, lottando, il peccato grave, non si trovano propriamente in stato di tiepidezza. Avranno una vita cristiana mediocre per mancanza d'istruzione e formazione spiri­tuale, però animata da solida virtù (anche se per motivi naturali). Virtù che qualche volta può raggiunger l'eroismo pel fatto stesso che si conservano sostanzialmente onesti. Bisogna esortarli a

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perseverare nella preghiera ed a frequentare, più che è loro pos­sibile, i sacramenti.

Ci sono poi coloro (uomini in particolare) che sono piuttosto alieni dalla pietà, quantunque qualche volta, almeno a Pasqua, si accostino ai sacramenti. Hanno le loro cadute gravi, più o meno frequenti. Bisogna incoraggiarli e stimolarli a sempre rinnovare il proposito e la tensione all'onestà e ad usare i mezzi necessari. Il Frassinetti raccomandava al Confessore di guardarsi « dal sug­gerire a costoro regole di perfezione, le quali non sarebbero né gustate né intese. Ordinariamente dovrà contentarsi d'instillare nei loro cuori l'odio al peccato mortale, e inculcare l'adempimento dei precetti mostrandosi intanto franco, disinvolto, indulgente e benigno ». Altrimenti — diceva — c'è pericolo che lo tengano in conto di uomo bigotto, come essi dicono, e rifuggano dal ri­tornare (Man. Pan. nov., p. 353). Benignità si, ma, intendiamoci, anche fermezza nei principi, per esempio, nel richiedere l'abban­dono delle occasioni prossime di peccato. Del resto, un invito discreto a vivere generosamente la vita cristiana (senza fissare ed imporre rigide norme di vita e programmi) non farà male a nes­suno; e la grazia può far sentire l'attrattiva ad un fervore e ad una perfezione maggiore di vita. Allora sarà chiesta all'anima la corrispondenza a questo impulso interiore e si avrà, forse, la con­versione « ascetica ».

II . I segni della tiepidezza sono facilmente riconoscibili. 1. L'anima sa che dovrebbe e potrebbe pregare di più. In­

vece prega poco e male senza applicazione e gusto. Prega più che altro perché costretta da una regola, trainata da una comu­nità alla quale appartiene.

2. È trascurata negli uffici del proprio stato: li compie senza nessun impegno ed esattezza, ed in parte li tralascia spendendo del tempo senza utilità.

3. Accontenta soddisfazioni disordinate senza alcuna delica­tezza di coscienza, preoccupata solo di non arrivare alle conse­guenze gravi: per esempio, si permette amicizie sensibili con esterne manifestazioni pericolose, sia pur senza giungere alla deli­berata impurità vera e propria.

Insomma, una vita spirituale contrassegnata da un grigio mi-nimismo.

Ma la coscienza non fa sentire la sua voce? Evidentemente la consuetudine di commettere coscientemente e frequentemente

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mancanze (anche se veniali) diminuisce il senso del peccato e la delicatezza della coscienza. Però, ad intervalli, un rimorso si fa sentire; ma vien soffocato. E cosi lo spirito si avvia verso uno stato d'indurimento. È come una malattia che s'aggrava progres­sivamente, invade, colpisce, devasta sempre più profondamente e sempre più diffusamente l'organismo. Indebolimento generale: porta aperta a tutti gli attacchi del male.

I I I . Rimedi. Siccome la tiepidezza propriamente detta si veri­fica, in genere, in coloro che hanno già sentito una vocazione alla perfezione, il primo rimedio è risuscitare in essi l'entusiasmo per quell'ideale che un giorno li affascinò. Si richiamerà al loro spirito l'amore che Dio ha per noi. Amore che si manifesta spe­cialmente nel mistero della Croce e nel mistero dell'Eucaristia. Quest'amore domanda il nostro amore. Se necessario, colle anime meno sensibili ai motivi dell'amore, si ricorrerà pure ai motivi di timore: il peccato veniale deliberato, specie se commesso abi­tualmente e freddamente, è una preparazione alla colpa grave, con tutte le sue conseguenze. Oltre a suscitare il generale desiderio della virtù e della perfezione, sarà utile puntare, col dolore ed il proposito, su qualche mancanza predominante. I propositi generici e vaghi possono restar superficiali e sterili. Ed in par­ticolare, bisognerà indurre i tiepidi a superare quell'indolenza e ripugnanza che di solito provano per l'orazione della quale hanno perduto il gusto; indurli a riprendere la pratica d'una preghiera veramente personale. E della preghiera anche mentale, perché quella orale comunitaria, alla quale partecipano, può fer­marsi, per tali anime, all'esteriorità. Bisogna spingerle allo sforzo di penetrazione e di ricerca, nella meditazione. Siano preparate ed aiutate a superare gli ostacoli iniziali: dapprima proveranno ari­dità, distrazioni, vuoto, solitudine. Non devono impressionarsi e buttare subito le armi per questa mancanza di consolazione e devozione sensibile. Più si prega e più si pregherebbe. Anche questo problema si risolve in un atto di fiducia nell'aiuto imman­cabile della grazia.

9. Scrupolosi

A. C'è qualcuno che chiama senz'altro scrupolosi tutti coloro che hanno coscienza delicata. Ma la distinzione è (almeno teori­camente) netta, anche se in concreto può facilmente darsi la in-

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clinazione allo scrupolo in chi ha la coscienza delicata. Questi è sensibile anche alle microscopiche mancanze. Lo scrupolo è una malattia, un danno, un pericolo, un inciampo, una tentazione: si vede il peccato anche dove non c'è; lo si vede grave anche dove non può esser che lieve. Il soggetto opera una erronea maggiorazione. Ed anche quando la materia è lieve, egli teme di avere una interiore disposizione ed intenzione viziata da grave malizia. Perciò per lo scrupoloso non esiste di fatto la distin­zione fra peccato grave e peccato lieve: il peccato (commesso o da commettersi) lo pensa sempre grave (se lo ritenesse veniale non avrebbe l'angoscia della colpa).

B. I sintomi della coscienza scrupolosa non sono difficili a riconoscersi. In ultima analisi le turbe si riducono ad un « sen-timent d'incomplétude »: ad una eccessiva ansietà circa la suffi­cienza delle azioni (di tutte o di alcune determinate, rientranti nei doveri abituali oppure occasionali del soggetto). Ad esempio, nei conti, registrazioni, misure di sicurezza, d'igiene, c'è l'incubo del controllo, della precauzione, dell'esattezza ad oltranza. Nel campo religioso la coscienza scrupolosa si manifesta frequente­mente in una eccessiva meticolosità nell'accusa dei peccati e delle loro circostanze e nella paura di non informare (o di non aver, pel passato, informato) sufficientemente il confessore. Nonostante questi dia la decisa assicurazione che l'accusa è sufficiente, il penitente trova difficoltà ad acquistare l'intima sicurezza perché manifesta e ripete sempre gli stessi timori e turbamenti.

Circa le azioni da cui deve astenersi lo scrupoloso ha l'irra­gionevole timore di commettere peccato grave, se non esterna­mente, almeno interiormente, per esempio con pensieri impuri. Si noti che la stessa paura d'avere un pensiero cattivo può farlo sorgere e violento, data l'impressionabilità del soggetto. È un fenomeno psicologico: come la stessa fobia di turbarsi, nel caso che abbia ad accadere un determinato fatto, produce (verificandosi il fatto) il turbamento.

Alla coscienza scrupolosa s'accoppia facilmente la coscienza perplessa. Si vede peccato sia nel porre un'azione, sia nel non porla: non soddisfa una decisione né quella contraria. Ciò provoca un esasperante esame ed una debilitante altalena. Anche quando si è deciso per una parte, il soggetto si sente scontento e cambia decisione ma è sempre insoddisfatto. Esaurite, in questo lavoro interiore, tutte le sue energie psichiche, potrà trovarsi come bloc-

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cato. Chi ha tale tendenza dovrebbe — per evitare questo stato penosissimo — determinarsi subito per l'una o l'altra parte (quando il dovere od il meglio non è evidente) e poi non ripensarci più, affidando tutto alla misericordia di Dio. Se trova la forza di far questo è già vittorioso e sicuro. Sicuro può e deve esserlo, perché, in questi casi, rettificata Pintenzione non è possibile ci sia colpa morale, quand'anche la decisione presa non fosse obbiet­tivamente la migliore.

C. Cause della coscienza scrupolosa. Potrebbero essere, oltre che naturali, anche preternaturali: Dio che direttamente prova un'anima per purificarla nella via della santificazione. È un fatto che queste « passive » purificazioni sono assai simili agli stati psichici di nevrosi (depressioni, malinconia, tristezza, incubi, te­nebre, apparente perdita della fede e della speranza, angoscia, languore).

C'è poi il demonio che, col permesso di Dio, può causare questi stati. Secondo s. Tommaso, però, il demonio non può agire sull'intelletto dell'uomo né influire direttamente sulla sua volontà, ma solo sulla fantasia e sulla sensibilità (anche se l'uomo può aver l'impressione che lo stesso intelletto e la volontà siano aggrediti) (I, q. 114, a. 1-3; I I I , q. 80, a. 1-4).

Ma è abbastanza raro il caso di scrupoli che abbiano una causa solo preternaturale. E questi, di solito non duran per lungo tempo. Molto più spesso le cause sono naturali: o fisiche come la stan­chezza causata da eccessivo lavoro (le quali causano una debolezza, od astenia psichica), o cause morali: errata educazione spirituale, atmosfera opprimente prodotta da ambiente, compagnie, libri dan­nosi (per taluni almeno). Di solito c'è una qualche predisposizione psico-fisica che poi il tenore di vita attua determinando lo stato di coscienza scrupolosa.

Si noti però come Dio può servirsi dei nostri malanni fisici per purificarci (anche se non è Lui che causa direttamente — come invece avviene nelle purificazioni « passive » — questi stati). Il demonio stesso, col permesso di Dio, può approfittare dello stato di debolezza fisica d'una persona che gli dà noia, per giuo-care le sue carte: indurla allo scoraggiamento, disturbare le sue azioni più sante, come la preghiera, la pratica dei S. Esercizi Spirituali, la celebrazione della Messa o della Penitenza. Perciò la classificazione delle cause dello scrupolo (soprannaturali - natu­rali) è solo astratta e teorica: nella dinamica concreta posson es­ser molto complessi i fattori determinanti questo fenomeno.

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Lc*_ scrupolo nella grande maggioranza dei casi dipende da una naturale debolezza psichica. Più precisamente è una manifestazione

"3elìa psicastenia. Malattia che ha molteplici espressioni: produce manie e fobie ad oggetto determinato oppure agitazioni diffuse, vaghe, indeterminate. Lo scrupoloso si distingue dall'isterico per­ché in questo c'è la perdita inconsapevole di qualche fenomeno del cosciente e del reale (perciò si spiegano le bugie incoscienti). Nello psicastenico non c'è perdita di fenomeni, ma percezione torbida di alcuni di essi. Poiché è indebolita la forza psichica del soggetto, un fenomeno fa più impressione di quanto dovrebbe fare, cosicché lo spirito non riesce più a percepire in tutta la loro chiarezza obbiettiva altri fenomeni, che dovrebbero donare l'equi­librio. Un sacerdote, ad esempio, che ha distribuito la Comu­nione vede una macchia bianca sul pavimento. Potrebbe esser una particola che mi è caduta, pensa. Se non fosse impressiona­bile, a questo pensiero («è possibile ») farebbe seguire un altro: non è un fatto così « probabile » da esser preso in considera­zione. E rimarrebbe pienamente tranquillo. Lo scrupoloso, invece, anche se non si lascia prendere dall'idea preoccupante e la supera, tuttavia si turba. Per la debolezza psichica, non ha la forza d'attri­buire a ciascuna idea il suo vero posto, peso, valore nella sintesi interna: perciò il giudizio non sarà sicuro e tranquillo, deciso e soddisfacente. Però lo psicastenico (percependo, sia pur imper­fettamente, tutti i fenomeni e gli elementi per giudicare la sua azione) ha coscienza di questa sua tendenza esagerata. Ma non ha la forza di superarla. Perciò ne soffre. È una debolezza psichica cosciente e che egli vorrebbe non ci fosse. Un sacerdote, ad !

esempio, sa che le parole della consacrazione sono state da lui pro­nunciate, sa che è impossibile non avere l'intenzione richiesta, ma — non avendo avuto l'attenzione desiderata e, soprattutto, la calma — non riesce a vincere il turbamento irrazionale: tur­bamento, perché il soggetto, forse, non lo giudicherà neppure vero dubbio. Perciò si sforzerà di esaminare l'idea preoccupante e tor­mentosa nell'intento di vedere una soluzione tranquillizzante e cosi acquistare il senso di sicurezza. Ma quanto più ripensa, indaga, analizza (in stato di tensione) tanto più si stanca e s'indebolisce. E cosi tanto più l'idea torturante si fissa, l'incubo e l'oscurità aumentano. Occorrerebbe tagliar corto subito, prender una posi-

i' zione o decisione e non pensarci più. Forse agli inizi sarebbe pos-J sibile. Ma chi è inesperto può avviarsi verso uno stato terribile. ) Una parola di consiglio da parte di chi è edotto in materia, può

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liberare uno spirito dal labirinto nel quale rischia di diventare prigioniero disperato. Perché, sentendosi, nonostante gli sforzi, impotente ad uscire, si deprimerà, si accascerà. A causa di questa cosciente incapacità di superarsi, si produrrà allora l'angoscia, come stato vago e generale di sofferenza psichica. Qualcuno ha l'impressione d'esser trasportato verso il basso da una corrente più forte di lui e di non aver la forza di resistere e di risalire la riva.

Caratteristiche, dunque, della vita spirituale dello scrupoloso: mancanza di serenità e di gioia, languore, depressione (più o meno grave), angoscia (più o meno acuta), stati di perplessità. Anche l'isterico soffre (ad esempio per — più o meno immaginarie — persecuzioni) ma non soffre della sua malattia psichica perché c'è la perdita di qualche fenomeno del reale, una perdita inconscia. Lo psicastenico soffre per la tensione interna che lo strazia. Ma, appunto perché cosciente, il suo disturbo è meno grave dell'iste­rismo.

Lo scrupolo, fobia, idea fissa, che ha per oggetto la vita reli­giosa o morale d'una persona, alle volte sembra paralizzare ogni campo della sua condotta, alle volte restringersi ad una materia particolare. Sotto il profilo morale si può dare anche il tipo scru­poloso in una determinata materia e di coscienza lassa in altre materie. La direzione spirituale di tali soggetti si fa più difficile.

D. Sia ben chiaro: controllo e delicatezza di coscienza sono qualità morali sane che nei singoli soggetti, più o meno sensibili, esistono in grado maggiore o minore. Diventano vero scrupolo quando (nonostante la sufficiente istruzione) vi si insinua il timore irragionevole, l'ossessione e l'angoscia. Altrettanto si dica in altri campi dove non bisogna diagnosticare con troppa facilità casi patologici e giudicare come mania ciò che è senso accentuato, per esempio, dell'esattezza, dell'ordine, dell'igiene. Certe esigenze e tendenze fan parte dell'indole d'una persona (ed esistono, ripeto, in grado vario). Lo stesso temperamento psicopatico non costi­tuisce, per sé, un'anormalità, ma una variante del carattere. Bi­sogna quindi che il confessore eviti certi giudizi frettolosi e superficiali i quali — oltre ad essere sbagliati — potrebbero indurre disagi e conflitti interiori nella persona giudicata così malamente. Pertanto non bastano alcuni sintomi d'instabilità mentale, o di depressione o di emotività, per ritenere d'aver a che fare con una persona anormale. Nei sistemi nervosi delle persone c'è una gradazione: alcuni funzionano meglio, alcuni

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peggio (la perfezione non è di questa terra). Per chi ha un sistema nervoso piuttosto debole bastano certe difficoltà trovate nell'am­biente, nella famiglia o nel lavoro, per addurre uno stato di sofferenza. Bisogna quindi non drammatizzare, non eccedere nel­l'impegno clinico che eccita l'intuito, muove alla scoperta della malattia e forse la sopravvaluta. Ci sono personalità ricuperabili perché sostanzialmente sane; ma bisogna star attenti che la cura psichica, invece di esser tranquillizzante, non diventi trauma­tizzante.

E. La guarigione. Bisogna che il confessore dia allo scupoloso i consigli opportuni, usi i modi, gli suggerisca i mezzi affinché trovi la forza — è questa che gli occorre — di seguire i consigli ricevuti.

I. Generalmente queste turbe psichiche hanno come sotto­fondo una debolezza fisica: quindi fra i mezzi di guarigione bisogna porre anche una cura medica ricostituente, e, quanto meno, un igienico tenore di vita. Razionale però. Un discreto riposo: tale da permettere un ricupero di energie ed, insieme, non rendere impossibile la ripresa normale dell'attività; se si tronca ogni occupazione può esserci il pericolo di provocare uno stato di depressione e di avvilimento, o di lasciar il campo agli inutili e dannosi ripiegamenti (su idee preoccupanti che bisogna invece cancellare dalla memoria), il pericolo di favorire l'impres­sione di non aver più la forza per nessun lavoro, neppur per leggere una pagina di libro. Comunque tutte le cure sono relative: quel che importa è che siano, in definitiva, vantaggiose. E bisogna che il direttore spirituale — dando consigli empirici, forse svan­taggiosi — non invada quello che è specificamente il campo medico.

II . Occorre poi un'efficace psicoterapia. Questa non consiste solo nel dare ordini e nell'esiger l'obbedienza. A chi non ha mai provato lo scrupolo, l'obbedire a consigli benevoli e benefici può sembrare la cosa più facile del mondo perché la più logica, perché liberatrice. Ci sono autori di morale e d'ascetica i quali trattano dello scrupolo solo in chiave d'obbedienza e, diciamo pure, in modo troppo rigido e semplicistico. Dicono che è l'unica medicina. In un certo senso è giusto perché quando lo scru­poloso riesce a seguire con tranquilla sicurezza le direttive del confessore è già guarito. Ma quest'obbedienza non è solo una questione morale ed ascetica. È un problema psicologico. Igno-

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rarlo porta a giudicare come un disobbediente lo scrupoloso che non segue ciecamente e pacificamente gli ordini del consigliere spirituale. Bisogna invece aiutarlo a trovare la forza di obbedire. Perché egli vorrebbe obbedire ma non ci riesce per mancanza d'energia psichica. Quest'obbedienza a comandi di cui, al mo­mento, non percepisce la ragione può essergli difatti difficilissima. Bisogna illuminarlo e persuaderlo che obbedendo non sbaglia per­ché si conforma alla volontà ed al desiderio di Dio. Quante volte, per esser ragionevoli, tutti dobbiamo fidarci del giudizio altrui senza poter renderci conto dei perché. Perciò quella dello scrupoloso è l'obbedienza d'un uomo libero che si autodetermina a seguire un consiglio colla coscienza d'agire ragionevolmente. Ma bisogna che quest'idea non resti astratta, debole, fredda, ma diventi cosi luminosa ed efficace da infondere nello scrupoloso il senso della sicurezza: la persuasione che è bene obbedire. Bisogna che questa persuasione acquisti una carica ed una motivazione psi­cologica cosi forte da aver il sopravvento sull'idea ossessionante. Ma non sempre ciò è facile. Ci sono scrupolosi che non vogliono neppur convincersi d'esser scrupolosi e d'aver bisogno di curarsi fisicamente e d'obbedire. Vogliono solo ragionare e discutere (credendo cosi d'arrivar a persuadersi). Ed il confessore ripete sempre gli stessi argomenti senza nulla concludere.

Bisogna, dunque, chieder allo scrupoloso, l'obbedienza, ma facilitarla, prima con una sana suggestione e poi abituandolo a praticare l'autosuggestione.

1. Una benefica suggestione. Questa sarà tanto più efficace quanto più il direttore spirituale avrà il prestigio d'una non comune scienza ed esperienza, e d'una autentica virtù. Allora tanto più facilmente l'ammalato avrà fiducia e crederà alle parole del medico, anche se non ne percepisce le ragioni.

2. Colla fiducia la confidenza. Per ottenerla, il confessore userà dolcezza nel tratto. Il Bucceroni gli suggeriva questa prima norma: « Patiens ac cantate plenus sit, cum scrupulosorum cura longa sit et ardua, ac miserrima eorum condìtio » (Instit. T. Mor., Romae, 1914, I, 1, n. 164). Le misure dure, secche, sbrigative non sono, in genere, consigliabili appunto perché lo scrupoloso non è un disobbediente colpevole ma ha bisogno di formarsi l'effi­cace persuasione che è bene obbedire. Ma ci sono sacerdoti, pur onesti e laboriosi, che per natura sono impazienti ed insofferenti di fronte alle piccole debolezze del prossimo, hanno aspetto

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arcigno, maniere aspre, facilità allo sdegno, al risentimento, ten­denza a pungere ed umiliare gli altri. Siffatti temperamenti non sono adatti alla direzione spirituale e, tanto meno, a quella delle anime scrupolose. Anche costoro però possono acquistare con lo sforzo e l'esercizio ascetico quanto non possiedono per indole e spontaneità (cfr. G.M.C., Tratt. per Confess., p. 67).

3. Insieme alla bontà ed alla gentilezza per ottenere che lo scrupoloso s'apra senza difficoltà, il confessore gli dimostrerà tutta la sua stima. Riferendosi agli scrupolosi che hanno retta intenzione, il Godinez non temeva asserire: « Tutti questi scru­polosi sono buoni e predestinati alla gloria. Perché, come solo i predestinati entrano nel Purgatorio della vita futura, cosi pure Dio non dà ordinariamente ai reprobi il Purgatorio degli scrupoli in questa vita. Altri scrupolosi che divorano peccati mortali e sollevano scrupoli in inezie, questi sono pazzi piuttosto che scrupolosi » (M. Godinez, Praxis theologiae mysticae, Paris, 1921, p. 16).

4. In genere non è il caso di rimproverare lo scrupoloso come un disubbidiente, né di spaventarlo (per ottenere di forza l'obbe­dienza) presentandogli il pericolo d'avviarsi, su questa strada, verso la follia. Pericolo, del resto, infondato perché di rado la psicastenia, anche negli stadi più avanzati, porta alla demenza. Né il consigliere sorriderà ironicamente sullo scrupoloso come su uno strano individuo, mostrando tutta la sua meraviglia perché dà peso a sottigliezze e futilità (ciò si verifica, di fatto, anche in uomini intelligentissimi e, d'altronde, equilibratissimi).

5. Bisogna, invece, infondere nel malato la fiducia in se stesso e nella sua guarigione. La quale è possibile e — come conferma l'esperienza — si deve ottenere se si usano i mezzi efficaci. Almeno, si deve riacquistare quel minimo di pace che rende la vita, se non felice, almeno sopportabile.

6. Presupposto l'uso di queste industrie — allo scopo d'in­fondere nell'ammalato confidenza e fiducia — come procederà, in particolare, la cura*? In fondo, tutto si riduce ad ottenere l'obbe­dienza. Ma non è possibile che il penitente porti ogni fatto e caso che lo turba al confessore per conoscere le singole decisioni con­crete. Perciò tutti gli studiosi insegnano che il consigliere dovrà dare allo scrupoloso alcune norme generali d'azione che egli se­guirà senza voler ricercarne le ragioni. Queste norme devon essere

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poche, molto chiare, brevi, adatte ai singoli scrupoli e tali da non prestarsi ad eccezioni.

Per chi ha tendenza generale allo scrupolo si suggeriscono queste tre regole a cui il soggetto ricorrerà appena gli si insinua qualche ansietà o dubbio in materia morale. Prima regola: nel timore d'aver peccato (nel fare una cosa o nel dirla o nel pensarla) stia certo di non aver peccato gravemente, a meno che non possa giurare d'aver chiaramente conosciuto che era peccato mortale e di aver avuto piena volontà di commetterlo.

Seconda regola: nel timore di peccare facendo o dicendo o pensando una cosa, agisca liberamente ogni volta che non può giurare che vi sia peccato.

Terza regola: lo scrupoloso pratichi tutto ciò che può in­fondere nella sua anima pace, santa letizia e dolce fiducia in Dio; ed eviti tutto ciò che può mantenere od accrescere i suoi abituali timori (cfr. G.M.C., Tratt. per Conf., pp. 58-59).

Poi ci sono norme meno universali, relative e adatte a scru­poli determinati. A chi, ad esempio, ha ansietà circa le Con­fessioni passate — per temuta mancanza del dolore o dell'in­tegrità — si può dire che, « se per qualche notevole tempo è stato solito accedere al sacramento della Penitenza con diligenza e pietà, deve non pensar più alle colpe passate e non farne più parola, a meno che non possa giurare di aver commesso certa­mente quei peccati mortali e di non averli mai scaricati nella Confessione » (I. Bucceroni, Inst. T. Mor., I, 1, n. 164).

A chi teme di aver aderito a pensieri cattivi (contro la fede, la carità, la castità) bisogna ricordare che non i cattivi pensieri ma l'assenso cattivo è peccato; che un brutto pensiero — pura­mente naturale ed involontario — può esser molto forte e persi­stente. Il fatto poi vien ingrandito dal timore stesso. Questi timori vanno quindi disprezzati, se non c'è la certezza d'aver dato il consenso. « Spesso converrà pure — scrive il Bucceroni — d'imporre allo scrupoloso d'astenersi dalla Confessione di questi pensieri, se non è conscio d'avervi acconsentito con tale certezza da poter immediatamente giurare » {Le). In particolare chi è solito comunicarsi assai frequentemente o quotidianamente, dovrà esser distolto dalla previa Confessione.

Ad un sacerdote scrupoloso, alla Messa, nella consacrazione, bisogna proibire di ripetere alcunché se non è certo come alla luce del sole d'aver tralasciato una parola essenziale o d'averla

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sbagliata. La paura che manchi l'intenzione necessaria va sempre disprezzata: in chi pronuncia le parole è impossibile manchi l'in­tenzione di consacrare (qualunque sia l'impressione contraria o la distrazione od il turbamento). Perché venga meno l'intenzione occorrerebbe che la volontà di dar efficacia alle parole della formula fosse ritrattata con un atto esplicito. La validità non è compro­messa dalla distrazione volontaria perché l'intenzione può esser virtualmente duplice. Non bisogna quindi confondere attenzione ed intenzione. Del resto, il timore stesso che l'intenzione manchi è segno che c'è.

Un sacerdote può trovar scrupoli nel suo ministero di con­fessore. Per esempio, può talora sperimentare l'ansia di non essersi adoperato abbastanza per scuotere un penitente (della cui disposi­zione dubita) oppure di non essersi informato sufficientemente sul suo stato. Ebbene, tenga per regola che, se ha cercato in qualche modo di eccitare il penitente al dolore ed al proposito (richiamandogli il pensiero e l'immagine di Gesù morto per i nostri peccati) poi, superi il dubbio, dia l'assoluzione, affidi il caso alla misericordia e provvidenza di Dio e non ci pensi più. Tenga poi per norma che gli è sufficiente conoscere lo stato generale del penitente. Perciò nelle eventuali interrogazioni sia sobrio, particolarmente in quelle dirette a conseguire l'integrità circa il sesto comandamento.

Il direttore spirituale come imporrà queste (e simili) norme? a) Senza esporne le ragioni ed i motivi. Altrimenti lo scru­

poloso — sottile com'è — ne troverà qualcuno che non gli sembra valido; ed allora verrà a dubitare del valore della regola stessa. Ad esempio il confessore non motiverà le sue direttive colla ragione che il penitente è di coscienza delicata: perché proprio di questo, forse, lo scrupoloso dubiterà: « sta a vedere se io sono davvero di coscienza delicata ».

b) Il direttore spirituale darà le risposte e direttive con estre­ma sicurezza e decisione. Terrà presente la massima: « l'accento di convinzione è la prima potenza della parola ».

e) Se il penitente mostra qualche timore di non aver suffi­cientemente specificato 'il suo stato, il confessore lo tranquillizzerà. Se necessario, farà qualche domanda (che denoterà il suo interes­samento e la serietà del suo impegno); ma, per dimostrare d'aver ben capito il caso, non ripeterà l'esposizione fatta dal penitente. Altrimenti con tutta probabilità ometterà qualche particolare; ed allora lo scrupoloso, che è esattissimo, si preoccuperà che al con-

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fessore sia sfuggito qualche elemento necessario per un giudizio retto.

d) Il confessore, quando si è reso conto che il penitente si sforza sinceramente d'evitare ciò che dispiace a Dio, non defletterà dal suo giudizio fondato sulla presunzione. Mostrerà di non dare assolutamente alcun peso a qualsiasi ansietà del penitente, né ai motivi che egli può addurre per giustificare il suo turbamento e le sue preoccupazioni. Per esempio, quando si tratta di pensieri cattivi, moralisti e psicologi fan presente che alcuni penitenti sono cosi impressionabili ed impressionati da asserire che potrebbero giurare d'aver acconsentito. Il confessore sia risoluto: non ne fac­cia alcun conto e dica che si assume tutta la responsabilità dinanzi a Dio. Scriveva il Berardi: « Se il penitente cominciasse già a dire di poter giurare del consenso, il confessore (durante gli scrupoli) non lo creda, se il soggetto non confessa di aver peccato anche con azioni esterne » (E. Berardi, Praxis Confessariorum, Bologna, 1891, II , p. 290).

e) Una volta conosciuto un penitente scrupoloso ed iniziata una benefica terapia, il confessore farà bene ad indurre anche un certo monopolio. Lo sconsiglierà di rivolgersi ad altri confessori che non lo conoscono, o non sono idonei (certuni non sanno neppure cosa sia lo scrupolo); lo distoglierà dal legger libri di medicina o trattati riguardanti le questioni morali che lo preoc­cupano oppure certi scritti terrificanti adatti per anime di coscienza lassa (che sono la grande maggioranza).

7. Tutti i maestri di spirito suggeriscono che delle regole date allo scrupoloso e riguardanti la materia che lo turba non si deve a lui render conto. Ad esempio non si porterà la ragione di questa norma: « non ritenere d'aver mancato gravemente in pensieri se non ci sono azioni cattive compiute con piena coscienza e libertà ». Difatti è probabile che qualche ragione non soddisfi lo scrupoloso, e quindi non lo tranquillizzi. L'esperienza lo con­ferma: qualche volta lo scrupoloso stesso preavvisa il confessore di non esporgli il perché dei suoi consigli.

Però ci sono dei principi generali che si può sempre utilmente richiamare; che servono a tutti, ma particolarmente agli scru­polosi, in specie quando non potranno chieder consiglio ma do­vranno guidarsi da soli facendosi forza con l'autosuggestione. Ad esempio, terranno presente che il Signore è il Dio della pace: il turbamento infruttuoso non viene da Lui, ma dal demonio. Nel

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dubbio, possiamo chiederci quale consiglio ci darebbe il direttore spirituale che ci conosce, o come comunemente agirebbero gli uomini onesti. Nel timore di qualche cattivo effetto delle nostre

.$: azioni, si terrà questo principio: dobbiamo attendere agli effetti '§;•• probabili, non a quelli solo possibili, delle nostre azioni. E, fatto %i, quanto è richiesto alla nostra provvidenza, affidare il risultato

alla Divina Provvidenza la quale penserà a riparare quanto ci fosse eventualmente di dannoso. Dio non vuol renderci la vita impos-

;'i sibile, né troppo pesante, obbligandoci ad eccessive precauzioni. Bisogna poi abituarsi a ben distinguere il giudizio dell'intelletto da quell'ansietà (propria dello scrupoloso) che non risiede nella parte superiore dell'anima ma in quella inferiore, affettiva, sen­sibile. (Però, in pratica, è facile confondere nei nostri atti interni l'elemento emozionale con quello razionale. Perciò può darsi l'im­pressione, ad esempio, d'aver perduto la fede e la speranza; di non aver avuto l'intenzione di consacrare l'Eucaristia pur avendo pro­nunciato la formula; di aver acconsentito a brutti pensieri).

Questi e simili principi saranno molto utili perché lo scru­poloso impari a superare, anche da solo, le sue irragionevoli ansietà.

8. Considerato lo stato dello scrupoloso — perché sia liberato dalle angustie e conquisti la pace di cui ha diritto — è giusto che egli sia liberato da certi doveri positivi che, per lui, sarebbero fonte di inutili ed eccessive preoccupazioni, non volute da Dio. Pertanto gode di certi privilegi. Ad esempio, non deve mai ritenersi obbligato a correggere gli altri. Nessun impegno quanto all'esame di coscienza, prima della Confessione; talora il confes­sore potrà dirgli che, non solo non manca, ma fa meglio a non esaminarsi. È scusato anche dall'integrità materiale della Confes­sione. Il confessore lo tenga presente in modo da usufruire di questa legittima libertà a favore di se stesso e del penitente. È stato scritto che se le confessioni delle persone devote devono esser brevissime, quelle degli scrupolosi arcibrevissime (G.M.C., Tratt. per Confess., p. 62). Però anche questo dev'esser applicato con criterio e con adattamento, secondo i principi della psicologia. La natura non vuol esser violentata. Scriveva saggiamente il

, Berardi: « Si dà pure come regola di non permettere la con-; fessione sulla materia degli scrupoli, non solo circa il passato ma ^ anche circa il presente. Ma questa regola è affidata alla prudenza v del confessore. Non raramente — specie quando si tratta di per­ii. sone che già da lungo tempo accusano scrupoli, e particolar-

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mente in certe materie che inducono fortemente il pericolo del consenso — conviene piuttosto che sia ascoltata la confessione e usata la pazienza » (Praxis Confess., II , p. 290). Certo è bene condurre il penitente a formarsi la coscienza sicura che, fidan­dosi della parola del confessore (il quale lo esonera da ulteriore accusa e prende tutto sulla sua responsabilità) egli si conforma pienamente alla volontà di Dio e riceve la grazia del sacramento. Ma non bisogna dimenticare che, in genere, solo gradatamente lo scrupoloso si forma il giudizio limpido e deciso che è meglio non accusare ciò che gli premeva accusare: si può dire che quando si forma questo giudizio — generatore di pace e di tranquillità — è già sulla via della guarigione. È stato pure scritto che agli scrupolosi bisogna far capire che « noi confessori dobbiamo spendere il nostro tempo soprattutto a riconciliare con Dio i po­veri peccatori » (G.M.C., Tratt. per Conf., p. 62). Ma si deve pure ricordare che gli scrupolosi sono anime delicate e meritano ogni cura (entro i limiti della discrezione) come tutti coloro che aspirano sinceramente alla santità. Inoltre gli scrupoli, se durano per qualche spazio di tempo, possono esser molto utili per puri­ficare, far progredire, istruire un'anima. Ma se si protraggono per lungo tempo possono aver serie conseguenze, non solo per il fisico, ma anche per lo spirito, perché inducono talora uno stato di disperazione e, talora, per reazione, l'abbandono d'ogni aspirazione alla perfezione e forse anche al bene ed alla virtù (cfr. s. Ignazio, Exerc. Esp., Reglas, Escrupulos, 3a reg., n. 348). Perciò, al fine di ottenere la guarigione, al confessore è chiesta molta pazienza e sacrificio.

9. La guarigione sarà, normalmente, graduale, secondo le leg­gi della natura e della psicologia. Procederà attraverso due stadi. In un primo, non sarà sufficiente neppure il dare alcune norme che dovrebbero esser valide per i casi che creano turbamento allo scrupoloso. Egli avrà bisogno di sentire frequentemente dalla voce del confessore la parola di conferma che in una determinata situazione fa bene ad applicare la regola generale ricevuta. Il fatto stesso di manifestare la propria ansia lo rende cosciente che essa è irragionevole. Il sentire poi ripetere una norma d'azio­ne (anche se ben nota) gli dona un senso di persuasione, di deci­sione e di sicurezza che non riusciva a formarsi da solo. In una parola, in questo primo stadio ha bisogno della suggestione che viene da un altro per uscire dal suo cerchio chiuso e vedere la realtà sotto altra luce.

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Ma dopo aver per qualche tempo sottoposto al giudizio ed al consiglio del direttore spirituale le principali situazioni della sua vita, in un secondo stadio — un po' alla volta — si awierà a ricuperare il governo di se stesso, avendo fatto tesoro delle esperienze e delle esplicite rassicurazioni ricevute dal direttore spi­rituale. In base alla soluzione dei casi datagli, di autorità, dal con­fessore, saprà da solo risolvere i casi simili. É questo dovrebbe esser il fine di ogni direzione spirituale: portare il penitente a saper gui­darsi da solo limitandosi a chieder esplicito consiglio solo per i casi più difficili ed insoliti. Per gli altri, più comuni, quando dovrà farsi forza, lo scrupoloso saprà ricorrere all'autosuggestione do­mandandosi cosa il direttore spirituale gli consiglierebbe in tale situazione. Quando l'idea autosuggestionante acquista più forza dell'irragionevole idea ossessionante, allora l'ammalato ha vinto. Ed ogni vittoria sarà un aumento di gioia, di soddisfazione ed anche, conseguentemente, di forza psichica che assicura una sem­pre più completa liberazione. Chi non conosce le leggi della psi­cologia può credere che lo scrupoloso, per superarsi, basti vo­glia superarsi ed obbedire. Chi conosce queste malattie sa che lo psicastenico, oltre alla forza di volontà, ha bisogno di domi­nare l'idea fissa mediante un'altra idea più forte, ch'egli ha reso forte mediante la suggestione e l'autosuggestione. Questo potenzia­mento di forza psichica dovrà esser ottenuto non solo sul piano psicologico ma anche su quello organico, qualora ci sia — come d'ordinario — anche uno stato di debolezza fisica. D'altra parte molti medici, credenti e non credenti, riconoscono il van­taggio, anche naturale, della Confessione e della direzione spiri­tuale — saggiamente praticate — nella cura della psicastenia.

10. Chi aspira alla perfezione

Oggi, da parte di molti scrittori, si mette sott'accusa anche l'ascesi (finora praticata nella Chiesa cattolica) per la santifica­zione personale. La si denuncia come malata d'individualismo religioso, d'egoismo, di perfezionismo — una specie di malattia psichica — o addirittura di narcisismo. Al suo posto, si vuol favorire una spiritualità più aperta, più comunitaria. Si pensa che la rinuncia a qualche valore terreno non sia giustificata se è intesa solo al perfezionamento dell'individuo: il sacrificare lo sviluppo della persona — si dice — è apprezzabile se si tra-

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sforma in un aiuto agli altri. Ma chi ragiona in tal modo di­mentica che ognuno, perfezionando autenticamente se stesso, aiuta automaticamente gli altri, più o meno direttamente. E non ci può esser vera perfezione senza il sacrificio di qualche passione istintiva.

Certamente a chi tende a ripiegarsi eccessivamente su se stesso sarà da raccomandare semplicità, rettitudine d'intenzione e dedizione operosa agli altri. Sarà da suggerire come motivo della penitenza non solo la ginnastica della propria volontà, la formazione del carattere, l'acquisto delle abitudini virtuose, ma l'ideale d'una vita riparatrice per il mondo e per la Chiesa: per la Chiesa che è santa perché animata dallo Spirito di Dio, ma è anche peccatrice per la debolezza delle sue membra. Se l'amo­re per la Chiesa avrà per oggetto questo suo duplice aspetto tean­drico, sarà un amore fattivo. Fermo però il principio che non ci può esser amore alla Chiesa ed all'umanità se non c'è vita interiore e sforzo di personale santificazione; e, d'altra parte, se c'è vera virtù — cioè amore — non può mancare lo spirito comunitario (LG, 40). Ma oggi (come è stato scritto) un certo sociologismo di esteriorità può esser scambiato cori lo spirito comunitario (AA. VV., La penitenza..., 1968, Milano, Ares, p. 152).

I. Circa la perfezione, il confessore anzitutto avrà, dalla Teo­logia Ascetica, idee esatte.

1. Tutti vi son chiamati. Non tutti, di fatto, vi tendono. Perciò distinguiamo la categoria di coloro che chiamiamo « aspi­ranti alla perfezione». C'è chi ritiene che, per aver garanzie di santità, bisognerebbe aver scelto uno stato particolarmente adat­to: religioso o sacerdotale; quasi che nelle attività, pur dove­rose, della propria vita e professione ci sia un fatale ostacolo alla perfezione. È piuttosto da dire che molti, per semplice man­canza di generosità si chiudono la via alla santità, perché sanno bene ciò che dovrebbero fare e non fare nel loro stato, ma mancano di coerenza e di carattere.

2. Parlare, come si fa volgarmente, di vocazione generale alla « somma perfezione » non è esatto. Se « secundum caritatem specialiter attenditur perfectio christianae vitae » (S. Th. II-II, q. 184, a. 1; cfr. LG, 40), la perfezione in ogni anima può cre­scere sempre; quindi la somma perfezione è irrealizzabile.

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3. Né tutti sono chiamati, di fatto, allo stesso grado di san­tità. C'è per ognuno un disegno divino il quale si attuerà per opera della grazia. Non senza però la libera corrispondenza della volontà umana. Se l'uomo manca di generosità piena, il disegno di Dio potrà realizzarsi su scala ridotta. Anzi, ad ognuno — dopo qualunque suo rifiuto della grazia — « è per sé possibile, in qualsiasi punto della vita, sia la salvezza dell'anima sia il con­seguimento della perfezione; cosi il ladrone in crocex in condizioni disperate, non solo salvò l'anima ma forse giunse fino alla perfezio­ne » (L. Hertling, Th. Asc, n. 70). « Com'è vero ch'io vivo, dice il Signore Dio, io non voglio la morte dell'empio, ma che l'empio si converta dalla sua condotta e viva» (Ez. 33, 11). Certo è un mistero l'economia della grazia: mistero di giu­stizia, di misericordia, di predilezione. Ed è certo che chi cor­risponde alla grazia attira altre grazie; chi non corrisponde può rendersi indegno. Ma Dio, volendo la salvezza di tutti, per sé è disposto a dare la Sua grazia a tutti. Dico « per sé » perché è anche possibile (senza che venga meno la volontà salvifica uni­versale di Dio) che l'uomo sia privato della vita e non abbia più il tempo di convertirsi e di ricevere la grazia. E, per chi vive, la scelta del bene e del meglio sarà meno facile se non ha cor­risposto» pel passato, alla grazia, meno facile di quanto sarebbe se avesse sempre corrisposto. In pratica, ognuno — qualunque sia il suo passato — conviene non rifletta inutilmente sugli errori commessi e su quanto, invece, poteva fare, ma si chieda cosa, al momento, corrisponde alla volontà di Dio, segua la sua co­scienza; e cosi potrà riparare il passato con la fiducia che Dio da ogni situazione sa trarre possibilità di santità, oltre che di salvezza, perché infinitamente provvido e potente.

Questi principi illumineranno il confessore affinché, nella direzione spirituale, segua la grazia: non esiga da un'anima ciò che non corrisponde alla volontà di Dio e nel tempo stesso la sostenga e la incoraggi perché sia docile e pronta agli impulsi soprannaturali. Compito non sempre facile.

4. Se le anime non sono predestinate tutte allo stesso grado di santità e se il massimo grado è irraggiungibile, tutte però devono tendere alla perfezione. E nessun limite devono porre; nessun grado ulteriore devono escludere (LG, 40). Anzi il cessar di « tendere al meglio » significherebbe praticamente indietreggia­re, come insegnano i maestri di vita spirituale. « Il non progredire

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è un indietreggiare », si dice. Quel « non progredire », per es­ser esatti, significa cessar di tendere al meglio. Perché non è esclu­so che, attraverso alterni periodi di crescenza e di rilassamento, si stabilisca un livello di media nella vita spirituale — comples­sivamente considerata — di un'anima.

È consigliabile il cercare di conoscere se nella vita della per­fezione si avanza o si indietreggia o si conservan le posizioni? Tutti i maestri di vita spirituale rispondono che, se può esser utile l'esame ed il bilancio circa qualche difetto o virtù parti­colare, non è opportuno voler sapere se si progredisce o no nella perfezione globalmente considerata: è meglio abbandonare il ri­sultato ed il giudizio alla misericordia di Dio e vivere in uno stato d'umile fiducia (cfr. De Guibert, Th. Spir., 1939, nn. 124-125).

5. La misura della perfezione è data principalmente dall'amo­re di Dio (II-II, 184, 1): amore affettivo ed effettivo; essen­zialmente però la virtù e la perfezione consistono nella carità interiore (le opere possono venir meno pur essendoci il sincero desiderio e l'efficace proposito di compierle). Illuminato da questi principi, il confessore farà capire alle anime pie che la loro per­fezione, più che in quanto fanno, sta nel modo come lo fanno e nel motivo per cui lo fanno. Molti si credono esclusi dalla per­fezione perché chiamati e destinati, in forza delle circostanze, ad un lavoro molto ordinario. Invece, qualsiasi attività — per quan­to umile — se non contrasta colla volontà di Dio, può esser occasione per esercitare nel grado più alto la virtù (LG, 40-41). Fare le cose comuni, ma non comunemente; farle per un motivo d'amore, quanto più è possibile attuale, quanto più è possibile universale, quanto più è possibile intenso: in questo sta la per­fezione u.

II . Il confessore che vibra d'amore per Dio e per le anime sa comunicare loro l'ideale della santità — alla quale tutti sono chiamati e devono tendere —, suscitare questo desiderio e que­sta tensione. Procederà con tatto ed intuito psicologico.

11 « Praemium essentiale, ad quod tenemur, mensuratur secundum in-tensionem caritatis, non secundum magnitudinem factorum, quia Deus magis pensat ex quanto quam quantum fiat » (S. THOM., In IH Sent., d. 29, q. I, a. 1, ad 2). « Multum facit qui multum diligit. Multum facit qui rem bene facit. Bene facit qui communitati magis quam suae voluntati servit» (De Imit. Chr., I, XV).

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1. Con chi è appena risorto da una vita di peccato potrà esser più opportuno non usare certe parole forti: « perfezione », « santità », « rinuncia », « sacrificio », « mortificazione »... Bisogna arrivare allo scopo e portare in alto le anime senza, quasi, che se ne accorgano. Specialmente non si dovrà presentare la pratica della perfezione con le tinte dell'austerità cupa e desolata: non c'è nulla di più facile che compiere la volontà di Dio, poiché la Sua volontà s'identifica con l'impulso interiore dello Spirito. Santità attuata significa sviluppo pieno della vita. Frutto della santità è pace e gioia.

Il segreto per condurre insensibilmente un'anima verso la santità (anche dopo una vita di peccato) è riuscir ad infonderle la persuasione che ha bisogno della grazia di Dio: far si che abbia sete dell'acqua che zampilla nella vita eterna e che è comunicata specialmente mediante i sacramenti. L'incontro, ad esempio, col confessore con frequenza e periodicità regolari — anche se l'ac­cusa si riduce a pochi minuti ed a pochi minuti l'esortazione del sacerdote — servirà a tener viva nel penitente l'aspirazione all'ideale.

2. Anche coloro che sono già in cammino verso la perfezione meritano le cure del confessore. Il tempo ad esse dedicato non è sprecato. Egli non deve ritenere che molto meglio sarebbe oc­cuparlo nel convertire i lontani. Afferma s. Alfonso: « Vale più innanzi al Signore un'anima perfetta che mille imperfette » (Pra­tica del Confessore, IX, 99). Ed in ogni luogo, anche nelle più piccole parrocchie, il sacerdote trova anime che sono già in un grado piuttosto elevato di perfezione. Il confessore deve dimo­strar loro rispetto, usare carità, aiutarle con dedizione. Troverà in loro forse qualche esagerazione che può irritare come qualcosa che falsifica la vera religione. Ma sono deviazioni accidentali che non compromettono la sostanza della loro fede e della loro rettitudine. Purtroppo c'è qualche sacerdote, piuttosto leggero ed imprudente, che si permette di stroncarle con aria di disprezzo e d'ironia. Questo comportamento fa molto dispiacere ai fedeli e fa molto piacere ai non praticanti perché getta il discredito sulle anime pie in blocco e sulla pietà stessa (G. Adloff, II confes­sore direttore, Torino, 1930, p. 137).

Il Reuter suggeriva ai novelli confessori di riconoscere l'au­tentica pietà delle anime che tendono davvero alla perfezione da questi indizi: uno spirito d'umilità nell'obbedienza a Dio

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(e quindi nell'accettazione d'ogni sua provvidenziale disposizione anche nelle circostanze difficili); ordinariamente una certa qual gioia nel compiere la divina volontà; non voler guidarsi sempre da sole, ma saper ricorrere, quand'è prudente, anche al consiglio altrui, particolarmente del direttore spirituale; una certa superio­rità spirituale che rifugge dalle meschine vanità mondane (Neo-confessarius practice praesertim instructus, Ratisbonae, 1906, p. 285).

I II . Il progresso verso la santità sarà graduale (per un mi­racolo della grazia si può diventare eroici istantaneamente, come avvenne per Saulo a Damasco).

1. Il direttore spirituale moderi la corsa eventualmente trop­po precipitosa nella quale un neofita fervente ed impulsivo può, sulle prime, lanciarsi. Le erbe che crescono in fretta non hanno la stabilità delle piante dalle radici profonde e dalla crescita lenta. C'è chi si addossa un peso eccessivo d'esercizi spirituali, pratiche ascetiche e fatiche apostoliche; c'è chi leggendo le vite dei santi si sente spinto ad imitarli alla lettera. Ma non tutti, per quanto generosi, possono aver la forza — e neppur la grazia — per ricopiare quanto essi fecero una volta giunti ad un grado elevatissimo di virtù e di unione con Dio. Chi non ha discre­zione ed esperienza può, in seguito, non riuscendo a realizzare propositi e programmi, gettare dalle spalle tutto questo carico, cadere nello scoraggiamento, e forse passare all'eccesso opposto rinunciando addirittura ad ogni sforzo di progresso, dare un addio all'ideale della perfezione. Con la guida d'un esperto direttore spirituale ognuno deve, giorno per giorno, compiere quei passi che sono voluti da Dio e portano infallibilmente — anche se insensibilmente — verso l'alto. E quand'anche i primi tentativi andassero a vuoto, né l'anima né il suo direttore spirituale de­vono perdere l'entusiasmo ed il coraggio di rinnovare gli stessi propositi con umiltà e con fiducia in Dio.

2. Il consigliere spirituale deve quindi tenersi pronto a risol­levare le anime pie dallo scoraggiamento (provocato, in genere, dalle cadute che si credevano ormai scongiurate)'oppure dalla cessazione delle consolazioni spirituali e del fervore sensibile. A queste anime bisogna ricordare che Dio guarda più allo sforzo della volontà che ai risultati ottenuti; che permette le cadute perché acquistiamo l'umiltà di cui tanto abbiamo bisogno. Nei santi canonizzati ci furono tutte le virtù in grado eroico: tale

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santità però non implica una immunità da imperfezioni, peccati semideliberati, e neppure da ogni peccato veniale deliberato (Her-tiling, Th. asc, 1944, n. 41). Il direttore spirituale terrà presente e toccherà con mano che quanto più un'anima si unisce a Dio, tanto più illuminata dalla grazia, acquista una percezione speri­mentale — quasi morbosa, si direbbe talora — della sua miseria e delle sue imperfezioni, di cui prima non s'era accorta. E questa sensibilità può causare una sofferenza acutissima. Solo la fiducia — fondata sulla pura fede — salva l'anima, in certi casi, dallo stato di depressione e d'angoscia. I santi sono sinceri quando si credono peggiori di qualsiasi altro: quanto più cresce la san­tità di un'anima, tanto più questa prende coscienza delle grazie ri­cevute e s'acuisce il senso della sua indegnità di fronte a Dio.

Riguardo alle consolazioni non c'è che da richiamare alle anime l'economia della grazia. Ne parlano tutti i maestri della vita interiore. Le consolazioni sono concesse da Dio ai princi­pianti perché ne hanno bisogno. Sono indice d'uno stato d'im­maturità e di debolezza. Nello stato d'aridità non si è meno cari a Dio. Anzi, molto più cari e ricchi di meriti. È, del resto, da attendersi — anche dal punto di vista naturale psicologico — che, col passar del tempo si smorzi, in certuni, il fascino di quanto v'è d'accidentale o d'esteriore nella pietà. Ad esempio, di certe cerimonie liturgiche. Bisogna aspettarselo. Qualcosa del genere avviene spesso nel periodo del noviziato per chi ha abbracciato lo stato religioso. La vita di comunità che per qualcuno, in un primo tempo, sembrava felice, ad un dato momento può diventare pesante (specialmente quando la salute fisica sia inde­bolita). Bisogna non impressionarsi ma ravvivare lo spirito di fede, concedersi le cure, il riposo necessario alla salute. E continuare fidenti nonostante si abbia l'impressione che la stessa fede e spe­ranza siano venute meno. La grazia non mancherà: darà i mezzi per realizzare la vocazione. Il consigliere spirituale — come una voce ed uno strumento di Dio — deve sostenere l'anima che si trova sotto la furia dell'uragano o nell'aridità del deserto.

3. L'altro pericolo — opposto allo scoraggiamento — per chi vuol percorrere il cammino della perfezione è la fiducia ec­cessiva in se stesso, ossia la presunzione. Più facile nei princi­pianti. È occasionata, in genere, dalla mancanza di gravi tenta­zioni, dall'assenza di tribolazioni (fisiche e psichiche) e dalle abbondanti consolazioni spirituali e sensibili (cfr. Adloff, Il conf. dirett., p. 159). Queste consolazioni sono molto utili al progresso

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spirituale. Anzi è normalmente necessario che, ogni tanto, ci sia qualche consolazione (grande o piccola) nella vita dello spi­rito. Chi le disdegna sbaglia in pieno. Quel che si deve evitare è il ricercarle con troppa sollecitudine. E bisogna sempre tenersi preparati ad esserne privati. Sono, in genere, di breve durata. Il consigliere spirituale disporrà l'anima alla fortezza ed alla santa indifferenza. E siccome la grazia normalmente perfeziona la natura, bisogna che non trovi nel corpo uno strumento inetto. Dio può render forte proprio chi è debole, se ciò rientra nei suoi disegni di salvezza e di misericordia. Ma è pur vero che la salute fisica ha, nella vita dello spirito, più importanza di quanto si crede: ad esempio, lo stato d'aridità e di desolazione s'unisce ordinariamente alla stanchezza e depressione psichica.

IV. Il consigliere spirituale terrà sempre presente e metterà in pratica la fondamentale distinzione fra perfezione e mezzi di perfezione. Perfezione significa pratica delle virtù cristiane, spe­cialmente della carità. L'autentico amore di Dio e del prossimo si esprimono in una disposizione abituale a compiere in tutto la volontà di Dio.

Riguardo ai mezzi di perfezione il direttore spirituale saprà ben distinguere ciò che, di massima, può esser molto utile e ciò che si deve ritenere necessario. Ad esempio, l'esame di coscienza particolare (su un determinato difetto più frequente e più spia­cevole) può essere efficacissimo alla riforma della vita, però non è in egual grado .idoneo per tutte le anime e per tutte le materie (Hertling, Th. Asc, 1944, n. 283). Necessaria, perché si possa dare vera vita interiore, è la preghiera, la vita sacramen­taria, lo spirito di penitenza e la mortificazione. Ma ciò che ha solo valore di mezzo andrà applicato e praticato secondo le pos­sibilità, lo stato, i bisogni concreti d'ogni singola anima.

1. Preghiera. Non basta la orale. Neppure quella liturgica. Questa è bensì frutto ed alimento della vita interiore ma sup­pone una spiritualità, almeno in qualche grado, già esistente. Non può quindi far a meno della preghiera personale e mentale la quale è preparazione e continuazione dell'orazione liturgica. Il Concilio Vaticano II afferma esplicitamente: « Il cristiano, ben­ché chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto ad en­trare nella sua stanza per pregare il Padre nel* segreto » (SC, 12). « Secondo l'insegnamento del Concilio — diceva Paolo VI ai Superiori generali degli Istituti Religiosi, il 25.V.1973 —

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rettamente e giustamente s'afferma l'importanza e l'utilità della preghiera fatta dalla comunità. Ma oltre a questa è da coltivarsi anche quella privata. Per essa il vigore spirituale d'ognuno si conserva e s'accresce, gli animi si dispongono salutarmente alla preghiera comune, specialmente a quella liturgica, dalla quale poi ricevono alimento ed incremento » (OR, 26.V.73, pp. 1-2)u. In particolare la celebrazione del Sacrificio Eucaristico manchereb­be della desiderata interiorità qualora celebrante e fedeli non aves­sero una pietà nutrita nel silenzio e nell'intimità. Il pericolo non è ipotetico: sacerdoti che sbrigano la Messa in dieci minuti senza premettere e far seguire alcuna pausa di raccoglimento. So cosa si risponde: per chi cerca di fare sempre la volontà di Dio tutta la vita è una preghiera e quindi una preparazione ed un ringraziamento all'atto principale del culto divino: le nostre azioni anche se non hanno la stessa dignità oggettiva, non van­no — come soggettiva attività morale — considerate su piani diversi. Del resto — si aggiunge — la Messa stessa contiene la preparazione — orazioni e letture bibliche — ed il ringraziamento esplicito dopo la Consacrazione (che è l'atto strettamente es­senziale del Sacrificio).

Ora, non c'è dubbio la continua disposizione a fare in tutto la volontà di Dio attua l'invito evangelico alla continua pre­ghiera. È l'abituale unione con Dio: dello studioso che studia in spirito di preghiera, del mietitore che miete in spirito di pre­ghiera. È la preghiera latente, animatrice dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre fatiche. Anche chi non è giunto allo stato di abituale e consapevole intimità con Dio, propria della vita contemplativa, può (colle sue forze e l'aiuto della gra­zia) rivolgere, per qualche istante, frequentemente, il pensiero a Dio, durante il lavoro; può far si che questo pensiero non si allontani mai dalla soglia della coscienza ma vi rimanga — sia pur oscuramente — in forza dell'esplicita intermittente elevazione a Dio, anche quando l'attenzione chiara si rivolge ad altri oggetti. Però, nella realtà pratica, è da vedere se sia possibile attuare questo esercizio della presenza di Dio senza riservare qualche tempo esclu­sivamente alla preghiera prolungata. Perché non si diffonde nella

12 «Concilio docente, momentum et utilitas praecationis, quae a com-munitate fit, recte ac merito praedicantur. Sed praeter hanc colenda est etiam oratio privata, qua cuiusque vigor spiritualis servatur et augetur et quae ad praecationem communem praesertim liturgicam, animos salubriter disponit et ab hac ipsa alimoniam et incrementum potest accipere ».

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vita spirituale se non ciò che già esiste, non perdura virtualmente se non ciò che era già presente ed operante. In particolare è da chiedersi se la celebrazione della Messa, senza un qualche espli­cito raccoglimento, sarà praticamente attenta, devota, calma, edi­ficante. Non bastano dunque le letture bibliche (che, per diven­tare preghiere dovrebbero esser anzitutto comprese e poi gustate e meditate), non basta l'orazione liturgica. Dimostrativo è anche il fatto di sacerdoti che oggi si dispensano spesso e volentieri dalla recita dell'Ufficio divino o addirittura si son dispensati una volta per sempre, per principio.

Per l'intima unione con Dio e per la perfezione della vita spirituale si ritiene che sia normalmente necessaria anche l'ora­zione mentale, oltre a quella vocale. Ognuno però sceglierà il modo che più gli è adatto e fruttuoso secondo le sue disposizioni e condizioni di vita, secondo il suo temperamento. La grazia scen­de abbondante nelle anime generose. Conduce ognuno per la sua via. Il direttore spirituale dovrebbe scoprire questi impulsi e non imporre a tutti gli stessi schemi e sistemi. Tutti però pos­sono — in una maniera o nell'altra — praticare una orazione anche mentale. Ci sono, ad esempio, operai della campagna o dell'officina i quali non hanno tempo a disposizione per rac­cogliersi in una prolungata meditazione ma potrebbero — anche in mezzo alle loro occupazioni — pensare frequentemente a Dio od a qualche verità della fede: un'orazione mentale praticata secondo l'istruzione del soggetto e secondo il suo stato di vita, ma che condurrebbe l'anima a gran passi sulla via della santità. Manca purtroppo a loro l'assistenza e la guida d'illuminati diret­tori spirituali (Adloff, Il conf. dirett., pp. 147-148). S. Ignazio nei suoi « Esercizi Spirituali » propone sette modi d'orazione men­tale. Fra i quali c'è quello della recita lenta, ritmica, gustata d'una preghiera vocale; e c'è quello che consiste in una breve rifles­sione sulle singole parole ed espressioni d'una preghiera (Exerc. espir., nn. 249-260). Alcuni, dopo una lunga pratica della medita­zione (a base di riflessioni e propositi determinati) sono in grado di praticare un'orazione mentale, di semplicità. Il P. Lallemant fra le tante forme d'orazione mentale consigliava anche quella che « è un insieme di semplice attenzione alla presenza di Dio e di meditazione »: « prima d'applicarsi a meditare l'argomento preparato, ci si mette alla presenza di Dio, senza occuparsi di nessun altro pensiero distinto, senza eccitare nessun altro senti­mento se non quello del rispetto e dell'amore per Dio, che ci

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vien ispirato dalla sua presenza. Si persevera in questa quiete di spirito finché vi si trova gusto... E nel corso della medita­zione... si può molto utilmente indugiarsi alquanto in questa sem­plice attenzione a Dio ». Cosi « ci si prepara a poco a poco alla contemplazione che è un semplice sguardo a Dio fatto con amore e rispetto » (La dottrina spirituale, Milano, 1945, pp. 388-389). Ma la meditazione è la via normale all'orazione mentale di semplicità ed alla contemplazione (sia essa « acquisita » od « infusa »): le quali, d'altra parte, non son sempre da temersi come pericolose illusioni o da credersi come difficilissime, ra­rissime, quasi impossibili e riservate ai santi canonizzabili. Non sarà difficile riconoscere se un modo di pregare è, nel caso con­creto, autentico ed efficace: si guarderà alla sua perseveranza ed ai suoi frutti. E gli istanti di raccoglimento, lungo il giorno, diventeranno — man mano che un'anima progredisce nella per­fezione — sempre più frequenti e (per quanto le occupazioni lo permettono) prolungati, per realizzare sempre più il senso della presenza di Dio.

« Sembra — scriveva qualche anno fa un vescovo — che si preghi meno che in passato. Non se ne trova più il tempo. L'urgenza sostituisce l'essenziale. Eppure da due o tre anni un certo numero di cristiani, molti dei quali sono giovani, sentono sorgere in sé stessi un bisogno di pregare, un richiamo alla pre­ghiera di cui finora non si aveva conoscenza » (L. A. Elchinger, Vesc. di Strasburgo, Riflessioni e orientamenti pastorali per la Quaresima, 1973, OR, 20.IV.1973, pp. 1-2). Perciò ogni confes­sore e direttore spirituale non si stancherà d'esortare i peni- \ tenti ad esser assidui all'orazione, cercherà d'insegnar l'arte di pregare, a tutti e specialmente a coloro che hanno abbracciato uno stato di perfezione e della preghiera dovrebbero essere gli specialisti. Tutti gli autori d'ascetica distinguono, nella vita spi­rituale, lo stato d'abituale unione con Dio e gli esercizi di pietà nei quali un tempo determinato è consacrato unicamente all'ora­zione, esercizi necessari per ottenere e conservare l'abituale unio­ne con Dio.

2. Penitenza. Ci sono termini che non fan piacere e — spe­cialmente oggi — si vorrebbe bandire dal vocabolario ascetico, perché opprimono: « mortificazione », « rinuncia », « sacrificio ». Si preferiscono altri che fan piacere: « gioia », « amore », « bon­tà », « generosità ». Certo il messaggio cristiano è la lieta novella. Ma la croce non può esser eliminata. Specialmente da chi aspira alla

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perfezione. Alla virtù eroica è indispensabile la mortificazione, non solo quella imposta dalle necessarie circostanze della vita, ma anche quella volontaria, non solo quella interna ma anche quella esterna e corporale. Non è detto che una determinata soddisfazione (per sé lecita) sia incompatibile colla santità. Ma è certo che la mor­tificazione volontaria (in una o l'altra materia) non può mancare. E particolarmente oggi bisogna ritrovare — come scriveva il ve­scovo di Strasburgo nella citata lettera pastorale per la Quaresima del 1973 — la fierezza della rinuncia. Perché la propaganda commerciale crea bisogni sempre nuovi e ci tenta per portaroi a spendere sempre di più. Spetta a noi saper discernere ciò che c'è di puramente artificiale in molti desideri che la società con­sumistica suscita. Discernere ciò che è ragionevole e ciò che è eccessivo. Saper dominarci, riuscir a frenare i capricci, a limitare le spese. Per esser capaci d'osservare sempre la misura necessaria, occorre, praticamente1, saper rinunciare anche a qualcosa di le­gittimo.

A tutti coloro che aspirano alla perfezione il confessore-direttore comunicherà, insieme allo spirito di preghiera, anche lo spirito della mortificazione. Questo spirito è indiscutibilmente necessario. Relativa è invece la concreta applicazione e la pratica effettiva della preghiera e della penitenza. Ma ci sono mortifica­zioni che possono esser praticate da tutti senza pericoli: saper sopportare con pazienza e silenzio contrarietà e contrattempi d'ogni giorno, rinunciare a curiosità pericolose od inutili, prontezza nel prestarsi — potendo — a chi domanda un atto di carità o di cortesia, qualche piccola rinuncia nel mangiare e nel bere. Per chi ha abbracciato lo stato religioso « la perfetta osservanza delle regole, specialmente circa la vita comune e la povertà, contiene eminentemente le mortificazioni volontarie richieste alla perfezione. Di fatto l'esatta (non una qualunque) osservanza della vita comune non può darsi senza una continua mortifica­zione, anche esteriore » (Hertling, Th. Asc, n. 49).

Il direttore, in qualche caso, dovrà anche moderare chi all'inizio della sua fervente conversione ascetica si lanciasse senza discre­zione nella pratica della penitenza. Se ciò diventasse dannoso alla salute potrebbe subentrare (senza uno speciale aiuto della grazia) uno stato d'aridità e di depressione. Ed allora — in chi non ha ancora una solida formazione spirituale — ci sarebbe il pericolo dello scoraggiamento e, forse, la tentazione di lasciare

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tutti gli esercizi della vita spirituale, anche l'orazione (Adloff, Il conf. diretta p. 151).

I genitori abituino i figli a non aver paura dello sforzo e del sacrificio. Devono però impartire un'educazione equilibrata: non negare ai figli ciò che è necessario alla vita del corpo ed al sollievo dello spirito, ma neppure adottare il sistema di conce­dere tutto quello che chiedono.

La mortificazione non può esser amata per se stessa. Il di­rettore spirituale farà capire che tutte le opere di penitenza (co­me la pratica volontaria della castità perpetua) non sono che applicazioni d'una scelta fondamentale: seguire generosamente il Cristo. Non ha valore il soffrire se non è un soffrire per Lui e con Lui. Solo se c'è questo motivo soprannaturale sarà sen­tito ed accolto l'invito a vivere una vita che importa delle rinun­ce; e sarà evitato ogni pericolo di compiacenza e d'amor pro­prio.

3. Mezzo ed espressione d'una vita spirituale che tende alla perfezione è il voto: atto di religione, olocausto fatto a Dio me­diante la consacrazione della persona o dell'attività; consacrazione che in grado eminente si ha nella promessa di praticare i consigli evangelici (nella vita religiosa od in modo simile). Questa ma­teria può interessare il confessore per varie ragioni: anzitutto perché ci sono penitenti che affermano d'aver fatto un determi­nato voto ma può esser dubbio che si tratti di vero voto; poi perché da qualche penitente generoso può esser chiesto il consi­glio ed il permesso di far qualche voto; infine potrebbe pre­sentarsi — per chi ha già fatto un voto — la difficoltà d'os­servarlo.

II CJC (e. 1307 § 1) ne dà questa definizione: promessa deliberata e libera fatta a Dio d'un bene possibile e migliore (cfr. S. Th. II-II, q. 88). Promessa: non semplice proposito. In pratica, poi, neppure chi dichiara d'aver « promesso » offre sem­pre un criterio sicuro per giudicare che si tratta di vero voto. Bisognerà chiedere se c'era l'intenzione d'obbligarsi dinanzi a Dio sotto pena di peccato. E se restasse il dubbio, si deve ritenere che non era un vero voto.

Bisogna che il confessore eviti sia l'eccesso d'escludere, scon­sigliare, proibire per principio ogni voto, sia l'eccesso di permet­terlo con facilità senza ben considerare il soggetto ed il suo stato spirituale, senza illuminarlo esattamente sul dovere preciso che si assume: bisogna premunirsi contro ogni complicazione

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ed incertezza. Ma i voti hanno il loro intrinseco valore e la loro utilità quando sian emessi dopo debita ponderazione, preghiera, ricerca della volontà di Dio. Conferiscono ad un atto buono un merito maggiore; confermano nel bene la volontà dell'uomo che cosi viene ad imitare l'indefettibile santità di Dio; psicologica­mente costituiscono — per chi ha sanità ed equilibrio fisici e psichici — una carica d'entusiasmo per una più fervente ascesi. Lutero, prima, senza calma riflessione previa, fece il voto di farsi religioso e lo mantenne; in seguito il riformatore abbandonerà la vita del convento e condannerà i voti come immorali perché incompatibili colla libertà. Ma la vera libertà sta nel fare la vo­lontà di Dio. E se il voto è fatto prudentemente, vuol esser un'interpretazione dei desideri di Dio circa la vita, la scelta dello stato, certe azioni buone. Ad esempio, ad un giovane o ad una giovane che hanno dimostrato di saper dominare le passioni ed hanno acquisito l'abitudine della castità, non è imprudente per­mettere il voto temporaneo d'osservarla.

Complessa sarebbe la trattazione sui modi come viene a ces­sare l'obbligo d'un voto. Si veda il CJC, e. 1307:1315. Noto solo che il voto cessa di sua natura se l'oggetto diventa illecito, inutile, impossibile (sia per un'assoluta impossibilità sia per un sopraggiunto grave incomodo non previsto) o quando sarebbe d'ostacolo ad un maggior bene. Perciò quando diventasse occa­sione di scrupoli, ansietà, turbamenti non facilmente superati, allora il voto privato cessa perché non sarebbe più utile ma dan­noso. Chi per sopraggiunte difficoltà è scusato, ma vuol esser generoso, può commutare il voto fatto in un altro che gli è più facile. Lo studio della fede, la partecipazione alla catechesi o a conferenze religiose, la frequenza ai sacramenti, gli « Esercizi Spirituali » sostituiscono validamente qualunque voto.

Se si trattasse di casi in cui il voto non cessa di sua natura, il confessore ha facoltà di dispensare per ottenuta speciale facoltà o in particolari situazioni: nel tempo del giubileo o in ordine al matrimonio, quando questo si dovesse contrarre in pericolo di morte, od in caso di grave e urgente necessità, come quando « iam omnia sunt parata ad nuptias » e non c'è il tempo per ricorrere all'Ordinario, oppure, ricorrendo, ci sarebbe pericolo di violare il segreto (anche non sacramentale) con grave disagio del penitente. Verificandosi le dette condizioni, anche i confes­sori possono dispensare da tutti i voti che impediscono il ma­trimonio ma solo « prò foro interno in actu sacramentalis confessio-

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nis », e purché si tratti di caso occulto (CJC, e. 1043-1046). Extra questi casi, il confessore può ricorrere, per la dispensa, a chi ha il potere, ordinario o delegato, di sciogliere i voti. Questo potere è concesso, per sé, ai vescovi secondo la parola di Gesù: « Tutto quello che avrete sciolto sulla terra, sarà sciolto anche in Cielo ». Ma bisogna distinguere i voti pubblici da quelli privati. Per quelli pubblici (ricevuti dal legittimo superiore ecclesiastico in nome della Chiesa), se sono perpetui, solo la S. Sede può concedere la dispensa; se sono temporanei, hanno tale facoltà i superiori gene­rali degli istituti religiosi nei quali sono stati emessi. Ci sono pure due voti privati per i quali la dispensa dev'esser chiesta alla S. Sede (e. 1309) (extra il caso, come si disse, d'urgente necessità in ordine al matrimonio): il voto di perfetta e perpetua castità ed il voto d'entrare in un istituto religioso di voti solenni (purché questi due voti siano stati emessi assolutamente e dopo compiuto il diciottesimo anno d'età). Durante il giubileo vien concessa ai confessori particolare facoltà di dispensare dai voti (anche riservati alla S. Sede) commutandoli — come è stato detto per l'anno 1975 — con moderazione e prudenza in altre opere buone (« Riv. Dioces. di Roma », 1974, nn. 9-10, p. 1039).

4. Chi vuol tendere alla perfezione dev'esser aiutato e consi­gliato circa la sua vita interiore. Però conviene suggerirgli anche la partecipazione a qualche attività di gruppo (oltre a quella liturgica). Sarebbe un'illusione il credere che una persona, colla sola guida del suo direttore spirituale, possa realizzare in grado non comune, anche nei rapporti sociali, l'ideale della perfezione cristiana. Fu ed è provvidenziale l'Azione Cattolica. Oggi si pro­pende a creare piccoli gruppi i cui membri s'animano a vicenda, con attività idonee, a vivere un cristianesimo autentico, confi­dando nei carismi dello Spirito. Tuttavia questi gruppi devono restar aperti gli uni agli altri ed in reale e continua comunione — di mentalità e d'azione — con chi è posto a capo ed alla guida di tutta la Chiesa. Certa autonomia che sa di contestazione, non si vede quanto sia conforme alla volontà dello Spirito.

11. Ammalati e morenti

I. La cura spirituale dei malati suppone una qualche cono­scenza della complessa problematica teologica giuridica liturgica riguardante i sacramenti che interessano questa categoria. Ecco alcuni cenni.

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1. Per la Penitenza c'è la questione se gli atti esterni del sog­getto siano essenziali e quindi assolutamente necessari alla vali­dità. In pratica è da regolarsi secondo l'opinione che ritiene essen­ziali solo le disposizioni interne e che gli atti esterni sono obbli­gatori quando sia possibile. Perciò anche a chi non abbia dato segni di dolore ed attualmente si trovi ormai nella incapacità di far atti esterni ed in grave pericolo (per malattia od infortunio) si può dare l'assoluzione condizionata. Si può, anzi conviene, in base al principio « sacramenta propter homines ». La condizione (tanto per l'assoluzione come per l'unzione) non deve riguardare le disposizioni del soggetto richieste al frutto del sacramento (« si es dispositus ») ma i requisiti alla validità (« si es capax ») perché secondo alcuni autori non è improbabile che anche nella Penitenza si possa ricevere — per insufficienza (ma non assoluta carenza) dell'attrizione — un titolo alla grazia che può in seguito produrre la reviviscenza del sacramento qualora le disposizioni del soggetto migliorassero fino alla attrizione richiesta.

2. Altra questione discussa. Quale intenzione (oltre all'at­trizione) si richiede nel soggetto perché riceva la grazia mediante il sacramento della Penitenza? Secondo alcuni autori un battez­zato che ha la volontà di fare quanto Cristo domanda ed è in buona fede, avrebbe l'intenzione implicita (od interpretativa) sufficiente per ottenere mediante l'assoluzione la grazia sacra­mentale. Ciò potrebbe verificarsi in un cristiano non cattolico mo­rente il quale — in sostanziale buona fede — non riconosce la Confessione come vero sacramento. Perciò un ministro cattolico che lo assiste potrebbe assolverlo, non solo se avesse perduto i sensi ma anche quando fosse ancora cosciente: dopo recitati con lui gli atti di fede, di speranza, d'amore, di dolore, lo può bene­dire ed assolvere condizionatamente senza che se ne accorga. Una questione simile si fa per un adulto che avesse perduto i sensi e non avesse ancora ricevuto il battesimo. Poiché questo sacra­mento, oltre ad esser un dono è anche un impegno, molti autori pensano che per riceverlo validamente non basti nel soggetto la volontà di fare quanto è necessario alla salvezza, né la sola attri­zione: esigono una qualche intenzione di riceverlo; almeno quella implicita nel desiderio e nel proposito di farsi cristiano. Ma prati­camente si può comportarsi secondo l'opinione meno esigente e pertanto amministrare il battesimo a tutti coloro che hanno perdu­to i sensi. La questione si risolleva nel caso di coloro che sono

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precipitati nella demenza che si prevede insanabile. Se si sta stret­tamente alla lettera del CJC, e. 754, § 3, il battesimo potrebbe esser loro amministrato solo in pericolo di morte e se hanno mani­festato, prima di perdere la ragione, almeno un probabile desi­derio di ricever, il battesimo. Ma secondo qualche autore, se l'amenza non fosse continua bisognerebbe bensì aspettare un mo­mento di lucidità: però in pericolo di morte tutti coloro che son privi dell'uso di ragione potrebbero essere battezzati sotto condi­zione anche se nessuna intenzione espressero di farsi cristiani: pre­vale il principio « sacramenta propter homines », specie in questo caso di sacramento estremamente necessario.

3. I sacramenti che conferiscono il beneficio della grazia senza onere speciale {Cresima, Viatico, Unzione degli infermi) si amministrano senz'altro a coloro che avevano la volontà di vivere o morire cristianamente ma attualmente non possono manifestare la loro volontà perché hanno perduto i sensi. Questa regola è valida di massima. Sarà applicata dal ministro prudentemente se­condo i vari soggetti e secondo i singoli sacramenti. A chi aveva ricevuto una qualche istruzione cristiana, ma ora ha perduto la ragione, conviene conferire anche la Cresima, a meno che non ci sia forte presunzione che il soggetto non è in stato di grazia. Un particolare riguardo si richiede per l'Eucaristia: bisogna evi­tare il pericolo d'irriverenza esteriore perché non viene solo con­ferita la grazia, ma Cristo stesso in persona; e siccome minore è la necessità di questo sacramento, perciò quando si trattasse di una persona che ha perduto i sensi pare si richieda anche una positiva presunzione che il soggetto l'avrebbe chiesto ed è inter­namente ben disposto a riceverlo. Sacramenti d'estrema necessità possono esser per un'anima la Penitenza e l'Unzione degli infermi. Praticamente non si rifiutano a nessuno di coloro che hanno per­duto i sensi (neppure a chi avesse rifiutato fino all'ultimo i sacra­menti). Chi ha perduto i sensi non può più essere qualificato come impenitente contumace (CJC, e. 942) perché nel frattempo può esser avvenuto un finale ravvedimento intimo. Se l'amministra­zione dei sacramenti a chi ha condotto una vita indegna suscitasse ammirazione negli astanti, il ministro cercherà di togliere tale impressione con una parola d'istruzione oppure restando solo per qualche istante col moribondo. Con tali cautele si può dare l'Olio Santo anche ad un eretico che abbia sempre negato che l'Unzione degli infermi sia sacramento. Non si deve dimenticare

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che questo sacramento può esser pili necessario e più utile della assoluzione: non è infatti dubbia la sua validità pel fatto che il soggetto non può fare atti esterni di pentimento. Ed anche se non è arrivato a fare l'atto di contrizione (che lo rimetterebbe in stato di grazia) ed ha solo l'attrizione dei suoi peccati con la buona fede, certamente l'Unzione conferisce lo stato di grazia. Ha come primaria finalità di confortare spiritualmente il malato; ma secondariamente è istituita anche per togliere i peccati. Doman­da l'uso della ragione. Ma a chi l'ha raggiunto non è da negarsi anche se è ancora fanciullo, come raccomandava il decreto « Quam singulari » e, più recentemente, il I Sinodo Romano, 1960, e. 461. Sarebbe da amministrarsi anche a coloro che non fossero ancora stati ammessi alla prima Confessione e Comunione. Se si dubita del loro uso di ragione l'Unzione si darà sotto condizione. È sba­gliato credere che i fanciulli non ne abbiano bisogno. Possono avere le loro colpe (anche se non mortali), le loro tentazioni. Nei dolori della malattia, nei momenti di paura, di avvilimento e di tristezza che anch'essi provano (forse abitualmente) saranno soste­nuti dalla grazia e troveranno colla fede e la speranza immortali il senso della gioia cristiana. E per ricevere il Viatico basta che sappiano distinguere il pane eucaristico da quello comune ed adorarlo (CJC, e. 854), anche se non sono stati ancora istruiti sui misteri principali della fede.

4. Circa la realtà e l!entità della malattia (a cui è equiparata la vecchiaia) richiesta per l'Unzione degli infermi, basta il proba­bile pericolo di morte. Ci sono malattie che possono dirsi gravi (nevrosi, perdita della vista, artrosi) le quali affliggono oltremodo ma non inducono alcun pericolo di morte. Ad esempio, non a tutti i malati che si recano in pellegrinaggio a Lourdes è da ammini­strare il sacramento. Si richiede « il pericolo » (almeno probabile) di morte. È questa la direttiva della Chiesa che si legge anche nella recente Cost. Ap. « Sacram. Unct. Infirm. » di Paolo VI (30.XI.1972). Ciononostante, secondo qualche teologo, « il fatto che la Chiesa non conceda l'Olio santo ai sani che vanno verso la morte (militari, condannati a morte ecc.) e che l'Oriente non esige dai malati che essi siano in pericolo di morte per conferirlo loro, sembra chiaramente dimostrare che questo sacramento concerne i malati in quanto tali, fuori di ogni prospettiva di morte » (Didier, in « L'Ami du Clergé », 7, 1968, 104). Questa interpretazione

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però mal s'accorda con recentissime espressioni troppo chiare della Chiesa13.

Nel nuovo rito è prevista accanto alla celebrazione singola ed individuale dell'Unzione, anche quella comunitaria che può esser inserita nella Messa secondo le modalità indicate. Celebrazione che vuol esser predisposta con cura. Ogni tanto si potrà farlo. « Essa non soltanto servirà a correggere a poco a poco l'idea che si ha del sacramento, come se fosse destinato ai soli moribondi, ma favorirà una partecipazione serena e raccolta in chiara testimonian­za di fede » (Docum. past. della C.E.I., 12.VII.74, n. 163). Ma siccome questo sacramento non si può neppure amministrare a « qualsiasi malato », perciò in un luogo di cura, ospedale, pelle­grinaggio, si domanderebbe una selezione degli infermi (la quale importa un giudizio implicito sulla loro malattia nei confronti di altri non ammessi: giudizio ed annunzio che presumibilmente non sarà ben accetto neppur alle anime di gran fede). Prima d'un'ope-razione chirurgica spesso il malato è già attualmente in un qualche pericolo. Però, anche quando lo si potrebbe fare, non si è soliti conferire l'Unzione quando si tratta di operazioni facili ed il pericolo non è effettivamente certo.

5. Sotto debite condizioni, ai malati anche il presbitero può amministrare la Cresima. Hanno la facoltà i parroci e coloro che hanno piena cura d'anime, con determinata chiesa, certo territorio e tutti i doveri e diritti dei parroci. Non possono però delegare la facoltà (AAS, 38, 1946, 349-356). Maggiori facoltà sono state concesse nel '47 agli Ordinari dei luoghi soggetti alla S.C. di P.F. (AAS, 40, 1948, 41) e nel '54 ai Cappellani delle navi (AAS, 46, 1954, 416ss.). Dal '63 tutti i vescovi residenziali possono con­cedere la facoltà di cresimare ai cappellani di ospedali, case di cura, orfanotrofi, carceri (quando non sia présente il parroco) (AAS, 56, 1964, 5-12). La facoltà data dalla Chiesa al sacerdote (come ministro straordinario) di cresimare vale per i fedeli che si trovino in pericolo di morte: pericolo che deve apparire certo e

18 E non è conforme al Magistero della Chiesa quanto è suggerito in una rivista diocesana italiana (XI-XII, 1976): d'iniziare «una nuova prassi che estenda la celebrazione ai casi di malattia seria che mina la salute sia sul piano fisico che psicologico ». Cosicché i destinatari dell'Unzione sarebbero « i battezzati colpiti da malattia grave, che si trovano, cioè, in uno stato patologico che importa una vera rottura dell'equilibrio vitale, anche se non vi è pericolo di morte».

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cosi grave per cui si prevede, umanamente parlando, che seguirà la morte del malato. Ciò non significa che si debba aspettare 1'« articulus mortis », cioè che la morte sia imminente. Ed evi­dentemente la Chiesa non può richiedere altro che il prudente giudizio sullo stato della malattia richiesto: se tale giudizio c'è stato, la validità del sacramento non è da metter in dubbio nel caso che il malato avesse a sopravvivere. La Chiesa però vuole che il vescovo resti il ministro ordinario: perciò domanda che si ricorra al vescovo diocesano (se è possibile averlo e se non è legittima­mente impedito) od ad un altro vescovo che possa prestarsi senza grave incomodo. Il ricorso al vescovo (anche qualora fosse dispo­nibile) non è però una condizione alla validità, ma solo alla liceità della cresima conferita dal presbitero. Praticamente i parroci di città prima di amministrare la Cresima avvertono il loro vescovo, se è in sede, o qualche altro (come a Roma dove ce ne sono molti). Naturalmente un parroco avvertirà il vescovo che sia presente nella sua parrocchia in visita pastorale. Non ricorrerà al vescovo quando suppone che gli sarebbe di grave incomodo l'accorrere, oppure quando sia urgente l'amministrazione perché c'è pericolo che il malato muoia prima che arrivi il vescovo.

6. La categoria di coloro che sono mentalmente infermi fa sorgere un complesso di questioni (oltre a richiedere particolare prudenza e carità pastorale).

Coloro che sono completamente e perpetuamente privi dell'uso di ragione fin dalla nascita sono da equipararsi ai bambini. Si amministra loro il battesimo (poiché è soprattutto un dono di Dio) ed in pericolo di morte la Cresima. Per coloro che cadono nella demenza dopo aver goduto l'uso della ragione, si dovrà, come norma generale, tener conto dell'intenzione e delle disposi­zioni che avevano quand'erano sani di mente. Comunque, se sono moribondi, si dà sempre, almeno sotto condizione, l'assoluzione e l'Unzione degli infermi (che può esser più utile dell'assoluzione). Si può amministrar loro anche l'Eucaristia? Per diritto divino la liceità ci sarebbe se, dalla precedente vita cristiana, si può posi­tivamente presumere, che abbiano l'implicita intenzione e la dispo­sizione richiesta. Si suppone sempre che non ci sia pericolo d'irri­verenza per questo particolare sacramento (che non conferisce solo la grazia ma comunica l'Autore della grazia). Il CJC non considera esplicitamente questo caso. Il Rituale Romano sembrerebbe nega-

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i I tivo: escluderebbe l'amministrazione dell'Eucaristia, se non nei f: momenti di lucidità nei quali il soggetto dimostri devozione (T. IV, l e. I, n. 10). Alcuni autori, però, pensano che, in pericolo di morte,

dopo l'Unzione e l'assoluzione sotto condizione, si possa ammini­strare il Viatico anche se attualmente non comprendono nulla, purché non ci sia pericolo di irriverenza e si possa presumere che

l_ sono positivamente disposti a ricevere questo sacramento. Incertezze circa l'amministrazione dei sacramenti creano pure

certi deficienti, o dubbiamente pazzi, o taluni sordomuti non istrui­ti nella religione. Nei casi più gravi si dovrà porre la condizione

\ anche quando si amministra loro Battesimo, Cresima e (ogni tanto) l'assoluzione. In casi meno gravi si cercherà, come regola, di comporre l'utilità del soggetto e la riverenza al sacramento (nel

| dubbio prevarrà il principio: « sacramenta propter homines »). I Ogni tanto si assolveranno. In pericolo di morte si darà l'Unzione. I; Circa la Comunione, dovrebbe essere il confessore che li conosce

a giudicare prudenzialmente quale sarà (oltre che a Pasqua ed in l pericolo di morte) la ragionevole frequenza: si terrà conto del l loro grado di discrezione, del desiderio e devozione. Non esiste una

legge precisa: non c'è da esser scrupolosi; basta evitare gli eccessi.

7. Qualche altra nota liturgica e giuridica. Nel '72 {Cost. Apost. di Paolo VI del 30.XI. 1972) la formula deUVnzione degli infermi è stata sostituita con questa nuova: « Per istam Sanctam

\- Unctionem et suam piissimam misericordiam adiuvet te Dominus t gratia Spiritus Sanctì, ut a peccatis liberatum te salvet atque

propitius alleviet ». Le unzioni si faranno solo sulla fronte e sulle' mani; in caso di necessità è sufficiente un'unica unzione in fronte

; o, se l'infermo si trova in particolare condizione, in un'altra, più i conveniente, parte del còrpo. La formula non si ripete più ad \; ogni unzione, ma si pronuncia una volta sola ". Il sacramento si I può iterare quando sopraggiunge un'altra malattia; nella stessa • quando si verifica un nuovo pericolo (cioè dopo un imperfetto | ristabilimento) ed anche quando il pericolo si faccia più grave

I | M Nella versione italiana edita dalla G E I . ed ufficiale per l'uso li-| turgico, la formula è stata divisa in due parti: « Per questa santa Un-f zione e la Sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello £'. Spirito Santo ». R. Amen. « E, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella Sua | bontà ti sollevi». R. Amen. Ed è bene (si legge) far in modo di pronun-I ziare la prima parte mentre si fa l'unzione sulla fronte e la seconda men-I tre si fa l'unzione sulle mani (Sacram. dellVnz. e Cura past. degli Infermi, | Roma, 1974, nn. 23-25).

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(AAS, LXV, 1973, 8-9). Passato parecchio tempo (un anno) ciò si può presumere e, nel dubbio, è da propendere piuttosto per la iterazione.

8. Ora (AAS, 57, 1965, 409) ogni sacerdote può tenere in casa l'Olio Santo e portarlo con sé, specialmente quando viaggia (il consenso dell'Ordinario certo non manca). Ed oggi non è esagerato un sacerdote che lo avesse sempre con sé. E se lo lascia in casa, sia in luogo decoroso ma visibile e reperibile (nell'even­tualità che debba mandarlo a prendere d'urgenza).

9. Anche per la Cresima còl nuovo rito (Paulus VI, «Const. Ap. » De Sacrar». Confirm., AAS, 63, 1971, 657-664) una novità nella formula: « N. accipe signaculum doni Spiritus Sancti »: al cresimato lo stesso Spirito Santo è dato in dono, come nella Pentecoste, e con questo dono gli è impresso un « carattere » (signaculum)1S.

10. Nel decreto del '46 è detto che il sacerdote che ammini­stra la Cresima osservi (se c'è tempo, ovviamente) le disposizioni disciplinari e liturgiche che si trovano nel CJC e nel Rituale. Quindi sarebbe anche da nominare il padrino o la madrina. Però piuttosto che ammettere persone indegne (noti concubinari, donne di cattiva condotta) è meglio omettere tale nomina, tanto più che si prevede il decesso del malato. (Per il battesimo « privato », amministrato in pericolo di morte, non consta con certezza l'ob­bligo di nominare il padrino o la madrina).

11. Richiamo le norme riguardanti il digiuno eucaristico per coloro che sono infermi. Chi è in pericolo di morte non è tenuto a nessuna legge. Vige poi ancora la concessione di Pio XII (AAS, 49, 1957, 178): « gli ammalati, anche se non degenti, possono prendere bevande non alcooliche e medicine (sia liquide sia solide) prima della celebrazione della Messa o della Comunione senza limite di tempo ». È detto: « quamvis non decumbentes »: perciò l'indisposizione può essere anche passeggera (indigestione, emi­crania, insonnia, tosse) — purché questi disturbi non siano leggeri. « Infermi » sono anche i convalescenti. Ed anche i vecchi (« sene-ctus ipsa est morbus »). Qualche moralista pensa che si possa

15 Quanto all'imposizione della mano, è stato autorevolmente dichia­rato che, alla validità, essa è sufficientemente manifestata dalla stessa un­zione crismatica fatta col pollice della mano (AAS, 64, 1972, 526).

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ritener « vecchio » — giuridicamente — chi è entrato nel ses-; santesimo anno d'età. Difatti il CJC, e. 1254, § 2, pone questo { limite per la legge del digiuno ecclesiastico penitenziale (che ora

inizia quando il fedele ha compiuto i 14 anni, e non i 7 come aveva stabilito il CJC, e. 1254, § 1). Certamente osserva lo spirito, e non solo la lettera, della legge chi tien conto, più che del numero materiale degli anni, del proprio stato di debolezza o vigore in cui si trova ad una certa età. Le nuove norme del '73 (AAS, 65, 1973, 264-271) riguardano il limite di tempo entro il quale gli infermi possono prendere anche cibo o bevande alcoo-liche (che per i sani è di un'ora). L'astinenza è ridotta a « circa un quarto d'ora » in favore degli ammalati costretti a stare in casa di cura od in casa propria, anche se non siano a letto; in

? favore di coloro che avanzati d'età (« aetate provectioribus ») I sono costretti in casa; in favore delle persone che assistono gli I ammalati (o gli anziani) e desiderino ricever con essi la Comunione | e non possono senza incomodo osservare il digiuno di un'ora; in | favore dei sacerdoti ammalati od avanzati d'età (« aetate provec-| ti »), anche se non costretti a letto od a casa. ;V 12. Infine ricordiamoci di dare al fedele, in pericolo di morte, (••' la benedizione apostolica con l'annessa indulgenza plenaria (a nor-'• ma del e. 468, § 2, del CJC): « Ego, facultate mihi a S. Apost. I tributa, indulgentiam plenariam et remissionem omnium peccato-I rum tibi concedo, et benedico te in nomine Patris et Filii et Spiri-I tus Sancti. Amen ». È da darsi a tutti coloro che hanno raggiunto È l'uso di ragione (anche se ancora fanciulli) purché abbian dato I qualche segno di penitenza o, se privi di sensi, si presume l'avreb-I bero chiesta. Non vien data a coloro che (secondo il nostro umano I giudizio) si conservano impenitenti. Ha il suo effetto « in articulo I mortis »: perciò, se è data prima, non è da ripetersi; nella stessa I malattia è da darsi una volta sola, anche se l'infermo si fosse ripre-1 so e poi fosse ricaduto nel pericolo di morte. Si dà anche quando I il pericolo non dipende da malattìa, ad esempio prima d'una 1 battaglia. La Chiesa però concede ugualmente l'indulgenza plena-1 ria in punto di morte al fedele che non possa esser assistito da I un sacerdote: basta che sia debitamente disposto ed abbia recitato 1 abitualmente durante la vita qualche preghiera (cfr. Cost. Apost. 1 Indulgentiarum doctrina, norma 18, AAS, 59, 1967, 23). Chi lo i assiste gli faccia presente questa concessione e lo inviti a con-I templare con fede il Crocifisso.

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II. Il sacerdote che ha cura d'anime prepara il suo ministero presso i malati anzitutto illuminando i fedeli. C'è la catechesi ufficiale, pubblica, programmata. È risultato che dove si è fatta un'istruzione periodica (semestrale) sull'Unzione degli infermi e sul Viatico si è visto aumentare il numero delle chiamate al letto degli infermi (G. De Barros Camara, Comp. di T. Pastor., Roma, 1955, II, p. 146). Poi c'è la catechesi occasionale, privata, spic­ciola. Si cerchi, in particolare, di togliere il pregiudizio, quasi superstizioso, che ricevere l'Olio Santo significa la perdita d'ogni speranza: ciò è in contrasto con tutta la liturgia del sacramento il quale, oltre a confortare lo spirito, può portare anche dei bene­fici corporei e restituire la sanità. Tanto più che i due elementi — spirituale e corporale — si devono considerare come, per loro natura, sempre connessi. Ciò si deve tener presente « se si vuole comprendere il segno e la grazia sacramentale dell'Unzióne degli infermi. La malattia fisica, infatti, aggrava la fragilità spirituale propria di ogni cristiano, e potrebbe portarlo, senza una speciale grazia del Signore, alla chiusura egoistica in se stesso, alla ribel­lione contro la Provvidenza e alla disperazione » {Doc. past. C.E.I., n. 140). Ma oggi, secondo una mentalità che rifiuta la presenza e l'azione del soprannaturale nel mondo, il sollievo corporale e la guarigione sono attese solo come un effetto della scienza medica: « l'invocare Dio come "terapeuta", come Colui che può compiere cose che non sono in potere dell'ingegno umano sembra sconve­niente e superstizioso a un uomo che tende ormai a considerarsi unico arbitro del proprio destino » (doc. e, n. 123). Certo non si deve attendere e pretendere che l'Unzione degli infermi agisca miracolosamente (quantunque possa fare e di fatto faccia anche questo). Perciò non è da aspettare, per riceverla, di esser « in extremis »16. Ma Dio, oltre che con interventi prenaturali, suole premiare la fede e la buona volontà del malato disponendo e ordi­nando, colla Sua Provvidenza ordinaria quei mezzi ed aiuti natu­rali che procureranno all'uomo la guarigione od almeno un con­forto fisico-psichico.

Si istruiscano i fedeli anche sulla facoltà concessa al parroco (o

16 Perché non è il sacramento dei morenti, ma dei malati (in pericolo, almeno probabile, di morte). È piuttosto il Viatico il sacramento della morte, il sacramento che la trasfigura nel mistero del Cristo risor­to: «fidelis, in suo transitu ex hac vita, corpore Christi roboratur, pi-gnore resurrectionis munitur» (Istr. Euch. Myst., AAS, 59, 1967, 562).

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a qualche ajtro, se autorizzato) di amministrare la Cresima (sia agli adulti sia £^ bambini che non hanno ancora l'uso della ragione): procureranno cosi che possibilmente nessuno sia privato di questo sacramento c|ie accresce quaggiù la grazia ed in Cielo la gloria del cristiano. *Ma bisogna che il parroco sia informato e chiamato per tempo presso l'ammalato. Si spieghi pure ai fedeli come si è incerti sul moniento esatto in cui l'anima abbandona il corpo, an­che se il medico ha giudicato che non c'è più nulla da fare. Perciò chiamino subito il sacerdote anche presso chi è apparente­mente morto. Ed il sacerdote (si dirà) può amministrare il sacra­mento dell'Unzione e dare l'assoluzione anche entro lo spazio di più ore se la perdita dei fenomeni vitali è dovuta ad un fatto fulmineo o quasi violento (esterno od interno al soggetto); entro lo spazio di un'ora, circa, se è preceduta da una lenta malattia che abbia lasciato minori possibilità latenti di resistenza fisica.

I II . L'assistenza pastorale ai malati domanda al sacerdote zelo e spirito di sacrificio. Questa cura rientra nel suo ministero diretto ed essenziale. « Presbyteri maxime... solliciti sint aegro-tantium et morientium, eos visitantes et in Domino confortantes » (PO, 6). Bisognerebbe soprattutto che non mancasse agli infermi l'opportunità di ricevere frequentemente i sacramenti, secondo la loro devozione ed il loro desiderio ". Ce ne sono che si lamentano di esser trascurati. I pastori d'anime si giustificheranno col fatto che infinite altre occupazioni li assorbono. Occorre però osservare una gerarchia anche nei ministeri.

1. Il I Sin. Rom. 1960 (e. 463) consiglia che si tenga un registrino privato nel quale si segnino i malati gravi che ci sono in parrocchia: accanto si potrà notare se hanno ricevuto o no i sacramenti, le morti ed anche le guarigioni. Si potranno avere utili indicazioni sugli effetti corporali dell'Unzione degli infermi: ci sono parroci che dichiarano di aver toccato con mano casi di guarigioni quasi miracolose.

2. Quando visita il malato il sacerdote s'introdurrà con tratto

17 Per esempio, anche se un fedele si fosse comunicato in giornata, è molto consigliabile, se poi è ridotto in fin di vita, che si comunichi di nuovo (cfr. Istr. Euch. Myst., AAS, 59, 1967, 562). Non si dimentichi poi l'Istruzione emanata il 15.V.69 dalla Congr. per il Culto divino secondo la quale è possibile ottenere dall'Ordinario la facoltà di celebrare la Messa nella casa d'un infermo o d'un anziano impedito a recarsi in chiesa (AAS, 61, 1969, 807-808).

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soave e procederà con discrezione e tatto. A seconda/ anzitutto, delle reazioni spirituali del singolo di fronte alla sofferenza: su alcuni la malattia non incide sensibilmente perché conservano le loro fondamentali ed abituali disposizioni interiori (che posson esser di religiosità o di areligiosità o di antireligiqsità); altri nel dolore trovano l'impulso alla conversione; altri invece mettono in crisi la loro fede od acuiscono la loro incredulità fino a giun­gere, talora, alla rivolta contro Dio ed alla bestemmia. Anche con costoro bisogna aver molta pazienza e comprensione. Non sap­piamo fino a che punto siano responsabili. L'infermità può esser un impedimento alla piena deliberazione. Non bisogna perciò rimproverarli umiliandoli. Dolcemente e gradatamente si cercherà di condurli alla rassegnazione facendo loro capire che questa è, per ogni conto, più vantaggiosa della ribellione.

3. Il sacerdote non impressionerà esageratamente ed inutil­mente il malato. Certi inganni però possono essere spiritualmente dannosi: qualche ammalato che ha bisogno di ricevere i sacra­menti, li riceverebbe se chi sta intorno a lui non gli facesse cre­dere fino all'ultimo che non è ammalato seriamente. E cosi egli — come dice il I Sin. Rom. 1960, e. 460 — forse non si prepa­rerà — come potrebbe, nel modo migliore — a fare la volontà di Dio. Spesso sono i familiari che s'impressionano se lo vedono ricevere i sacramenti. Il malato ha una specie di « grazia di stato » per.prendere lucida coscienza e serena consapevolezza della sua condizione e del suo destino senza funeste illusioni. Il Documento Pastorale della C.E.I. (12.VII.74) indica come uno dei sintomi rivelatori della secolarizzazione (che mette in crisi fede e speranza teologali) lo « sforzo che si compie per nascondere sia all'amma­lato come alle persone che gli sono vicine qualsiasi segno della gravità del male e soprattutto della morte » (n. 119). Conseguen­temente, familiari, personale sanitario ed ospedaliero « tengono lontano il più possibile quei segni e aiuti della fede, ai quali il credente ammalato avrebbe diritto » (n. 120). La malattia peri­colosa e la morte, sono eventi drammatici che devono necessaria­mente provocare la riflessione sul perché e sul fine dell'esistenza umana. Ma la visita del sacerdote sarà sempre rasserenante •— sia perché egli aiuterà a comprendere l'arricchimento spirituale della malattia e della morte, sia per i soccorsi soprannaturali che può dare al malato come ministro del Signore, sia per quell'atmosfera di festosità di cordialità e di fraternità evangelica ed umana che egli porterà in ogni casa come messaggero di Cristo. Le sue visite

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saranno frequenti ma brevi (come consigliano i medici). Le sue parole daranno coraggio e susciteranno speranza: non tradiranno preoccupazione sulla gravità o l'aggravarsi della malattia né con­terranno sentenze, in termini specificamente medici, le quali pos­sono essere oltre che una impertinente ostentazione di compe­tenza, un motivo al malato per riflettere, fantasticare, impres­sionarsi. \

4. Quando il malato ha bisogno d'un confessore bisogna, con delicatezza, dargli la possibilità di avere il sacerdote che più desi­dererebbe (o meno difficilmente riceverebbe) e non metterlo nella quasi costrizione d'aprirsi (su fatti che forse stenta a manifestare) con quell'unico sacerdote che ha la cura d'anime del luogo (o con un parente proprio).

5. Quando sia chiamato presso un malato, il sacerdote s'in­formi, prima, chi sia e cosa abbia. Se sente che è grave, prenda con sé, oltre all'Olio Santo, anche il Viatico, ed eventualmente, il Crisma.

6. A scanso di rigorismo e di scrupoli si tenga presente che la Confessione per l'infermo è e dev'essere facilitata (quanto all'esame di coscienza ed all'accusa) relativamente allo stato del singolo (che può esser in condizione e difficoltà più o meno grave). Faci-cilitata pel penitente (che ne ha diritto) e facilitata pel confessore (che non deve crearsi inesistenti doveri di interrogare su ciò che il malato non è tenuto a ripensare ed esporre). Con l'aiuto discreto d'un abile confessore egli potrà, anche se da anni non si confes­sava, manifestare in pochi minuti sufficientemente lo stato della sua coscienza. Il confessore deve prepararsi a trovare qualcuno che — mentre nello stato di sanità fisica si sentiva tranquillo e non riteneva di dover ripensare al passato — nello stato di ma­lattia è in preda ai timori: sulle Confessioni precedenti e su altre questioni di coscienza. In prossimità della morte il ricordo sì fissa tormentoso sul male fatto (non sul dolore e la confessione di questi peccati, dolore e confessione che possono esserci stati). Se non supera questa impressione accasciarne — coll'aiuto della grazia e del confessore — il malato potrebbe mettersi sulla strada della disperazione*. E s. Alfonso (Pratica del Confess., App. II , § II , 2) afferma che è questa la precipua tentazione dei moribondi. Il confessore deve sapere che per la debolezza fisico-psichica lo spirito è esposto a queste impressioni e turbamenti. Sia deciso. Coi malati non è da comportarsi come coi sani. Hanno bisogno

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d'un trattamento speciale: da malati. Bisogna tagliar córto ad ogni loro ansietà. Dio, somma bontà e misericordia, vudle che siano nella pace. La pace del Suo perdono. La pace e la/gioia dell'in­contro con Lui. Rivangare il passato significherebbe non finirla più. Anche perché lo stato di prostrazione (e di mipressionabili-tà) non permette di percepire e ricordare con chiara obiettività i fatti che sono causa di agitazione. Evidentemente/non mi riferisco al caso di peccati certi e certamente non confessati da parte di chi ha sempre avuto coscienza di non essere in amicizia con Dio. Questi il malato li confesserà (come può secondo le sue forze) per riconciliarsi con Dio. E la Confessione allora porterà la liberazione e lascerà un senso di profondo sollievo. Ma deve restar sempre una pratica da compiersi con una certa facilità, senza incubi, e con piena fiducia nella divina misericordia. Talora poi converrà accon­tentarsi d'una accusa generica (sia nel caso che quella specifica fosse troppo gravosa, sia nel caso che non potesse essere fatta segretamente). Si avviserà il malato che la sua Confessione, anche se generica, è valida, quando c'è l'intimo e generale pentimento per tutto quanto ci può esser stato di male. Se potrà, si confesserà specificamente in seguito. Ma conviene prevenire ogni eventuale dubbio sulla efficacia della Confessione fatta. Tranquillità, sicu­rezza. E' stato scritto che l'infermo facilmente si turba e difficil­mente si tranquillizza da solo: tocca al confessore tagliare la strada alla paura ed allo sgomento. Più che a risvegliare il ricordo d'un passato (che procura spesso inutili preoccupazioni e turba­menti allo spirito sensibile e depresso) il malato sarà invitato a santificare l'attimo presente, le proprie sofferenze. Il confessore (intra ed extra Confessione) lo esorti quindi a confidare nella bontà e provvidenza di Dio, ad unirsi spesso a Lui col pensiero e la preghiera semplice: parteciperà cosi alla passione del Cristo redentore; riparerà qualche mancanza o sbaglio morale commesso; acquisterà meriti immensi per sé e per tanti altri. Molte occasioni di merito sono offerte ad ognuno nel tempo d'una malattia: l'eser­cizio della pazienza (per quanto possibile), del buon esempio, qual­che attenzione ai bisogni di altri malati (negli ospedali), qualche segno di riconoscenza verso coloro che prestano assistenza e cure (cfr. Ordo poemi., 1973, App. II).

7. Con coloro che dà tanto tempo non avessero ricevuto i i sacramenti od avessero condotto una vita cattiva, occorre una speciale delicatezza. Si comincerà con l'inviare un saluto. Si cer-

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cherà di informarsi indirettamente (prima di fare domanda espli­cita) se l'ammalato riceverebbe volentieri la visita del sacerdote, di quel sacerdote che si pensa essergli più gradito. Comunque si avrà l'avvertenza di farsi annunciare in modo da scegliere il tempo e l'ora che l'ammalato preferisce. Anzitutto visite di cor­tesia. Nessuna espressione che non dimostri stima. Non si dirà a bruciapelo: « è giunto anche per lei il momento di avvicinarsi di più a Dio »: il malato si offenderebbe pensando di esser giu­dicato peggiore di quanto sia; forse ne soffrirebbe profondamente. Riguardo al problema della pratica religiosa ed ai sacramenti, bisogna tastar il terreno e prender le mosse alla lontana. Si può, intanto, dire all'ammalato che si prega per lui perché il Signore gli conceda di star meglio, di sopportare con serenità la malattia: dalle risposte apparirà se c'è qualche sensibilità ai richiami sopran­naturali. Quando si troverà la porta aperta si potrà fare un accenno esplicito a quegli aiuti soprannaturali che conforterebbero l'infer­mo e possono — gli si dirà — portare anche un miglioramento delle condizioni di salute. Ancora maggior riguardo avrà il sacer­dote quando si trattasse di donne notoriamente dedite alla vita dissipata. Si procurerà che siano prima visitate da qualche altra persona che sappia, colla sua carità e prudenza, preparare la via al sacerdote.

8. Il quale, se giunge d'urgenza presso chi ha ormai perduto i sensi, farà bene, prima di amministrare l'Unzione e l'assoluzione, a suggerire ad alta voce, con una pia giaculatoria, un atto di fiducia e d i pentimento (dicendo di esser un sacerdote o quel dato sacer­dote che l'infermo conosceva bene). Anche se han perduto i sensi non è escluso che possano intendere: so di qualcuno che, ripre­sosi, ha dimostrato di ricordare quanto il sacerdote gli aveva detto. Anche a chi aveva debitamente ricevuto i sacramenti ma persevera per qualche tempo nello stato di paralisi celebrale, è bene ripe­tere ogni tanto l'assoluzione sotto condizione (dopo averlo invi­tato a disporsi) perché nel frattempo potrebbe averne bisogno.

È noto come secondo la tradizionale prassi pastorale si consi­dera il caso della morte apparente nel quale si amministra condi­zionatamente gli ultimi sacramenti necessari. Oggi da parte di taluni questa prassi è contestata e si suggerisce invece « di non conferire l'unzione a chi sia appena spirato, perché incapace del tutto a percepire il segno del sacramento » (G. Davanzo, II batte­simo al neonato si, l'unzione a chi è spirato no?, in « Anime e cor-

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pi » 59, 1975, 353-354). Ma la questione è se si tratti di chi, pur essendo giudicato spirato, sia con certezza già morto del tutto. Qualora non si abbia tale certezza si è sempre tenuto il principio generale: « sacramenta propter homines »: qualora la morte sia dubbia non si priverà l'anima d'un probabile, e forse necessario, aiuto soprannaturale; e non si vede come possa esser proposta con sicurezza la norma pastorale « di esigere qualche segno di vita e di disponibilità prima di conferire agli adulti infermi l'unzione sacra » (ibid., p. 354)18.

IV. Ci sono dei suggerimenti pel buon uso delle malattie sui quali possono utilmente riflettere anche i sani per disporsi a quelli che sono i problemi, i pericoli, le difficoltà, le tentazioni proprie dello stato di malattia.

1. Prepararsi a sperimentare che specialmente quando si starà male non sarà sempre facile conformarsi alla volontà di Dio. Nella malattia non si deve vedere né solo il caso, né un castigo di Dio, ma un mezzo da Lui disposto per la nostra elevazione, purifica­zione e redenzione.

2. Esser convinti che Dio desidera che noi usiamo tutti i mezzi disponibili per guarire. E conserviamo sempre — per quanto possibile — ottimismo e speranza. La malattia rappresenta una forzata sosta ad una stazione; ma poi si riprenderà il viaggio. Non si ignori che c'è un pessimismo — connesso o conseguente alla malattia — che talora blocca anche chi è guarito e paralizza ogni sua attività ed ostacola il ritorno alla vita normale. Si ve-

18 Anche in una rivista diocesana italiana del XI-XII 1976, leggo la proposta che « al malato che è già in stato di coma, venga conferita l'Un­zione solo se egli l'aveva già richiesta o almeno se si può presumerne il desiderio. In caso contrario pare pastoralmente più utile non conferirla, sia per rispetto alla personalità del malato, sia per logica coerenza con le finalità del sacramento, sia per togliere l'errata concezione che i fedeli hanno sul sacramento stesso. Nel caso di persona già morta, i criteri per un conferimento "sub conditione" dovranno essere anche più restrittivi». È invece da ritenere che proprio la finalità del sacramento (« sacramenta propter homines ») e la preoccupazione per la salvezza del malato sugge­riscono di non privarlo del sacramento: finché consta con certezza od è probabile ch'egli sia vivo, è sempre possibile che cambi le sue precedenti disposizioni spirituali ed abbia il bisogno di riconciliarsi con Dio. Non si manca di rispetto alla sua personalità offrendogli un aiuto forse da lui invocato.

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rifica specialmente nei pensionati, anche in persone molto spi­rituali.

3. Nelle interminabili giornate e nelle notti insonni la fan­tasia del malato lavora terribilmente. Egli pensa cosa sarebbe e cosa farebbe se non fosse malato. Ritorna con nostalgia al passato, di cui non ricorda che le gioie, prevede un avvenire fosco ed incerto. Pensieri deprimenti che bisognerebbe fugare in un modo o nell'altro, leggendo un.libro, ascoltando la radio, conversando con una persona...

4. C'è il pericolo che il malato si concentri troppo sul suo male e ne faccia l'unico oggetto delle proprie riflessioni e conver­sazioni. Per quanto le forze lo permettono, cerchi di parlare e d'interessarsi anche degli altri e d'altri problemi.

5. Certuni son troppo esigenti con chi li assiste (i quali, a loro volta, specie se infermieri di professione, non sempre la eser­citano per vero amore cristiano). D'altra parte, il malato non cadrà nell'avvilimento pensando d'esser un peso per gli altri. Si conforti ricordando come rientra nell'ordine provvidenziale che alcuni ab­biano bisogno delle cure e dell'assistenza da parte di altri e diano a questi l'occasione d'esercitare carità e pazienza. Nella società anche il malato ha un ruolo; e prezioso.

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C. Secondo lo « stato di vita » e le « professioni »

1. Prefidanzati e fidanzati

Possono creare problemi gravi pel confessore. Purtroppo i giovani, nella loro grande maggioranza, li risolvono di propria testa e secondo il proprio istinto. In modo disastroso. L'istru­zione sessuale può esser nient'affatto educativa se non porta a scoprire con umiltà e rispetto il disegno arcano e mirabile del Creatore e se non induce a dominare le passioni con l'esercizio della volontà e la formazione del carattere.

Simpatie, affetti, sogni, amicizie fra ragazzi e ragazze (quando forse di fidanzamento non si può ancora parlare): il confessore, interrogato, dev'esser preparato a dare almeno qualche direttiva orientatrice, qualche norma di massima; poi, se il penitente ricor­rerà ancora a lui per un consiglio, potrà avere indizi offerti da un complesso di circostanze, che gli permetteranno di formulare un giudizio più deciso sul caso concreto.

I. Che un adolescente, chiamato al matrimonio, pensi, e presto, con la purezza e l'idealità che caratterizza il primo idillio, a quella che sarà la sua futura compagna della vita, non si può dir male. E neppur sconsigliabile se fosse un mezzo di preserva­zione o di liberazione dall'impurità egoista e volgare. Colle gio­vani che avvicina (nel lavoro o nel divertimento) bisognerebbe che il giovane si abituasse a trattare con rispetto, disinvoltura, caval­leria, cercando di vedere nella donna non solo la parte sensuale ma anzitutto e soprattutto la parte spirituale che può elevarlo e renderlo migliore.

II . Ma pensiero, simpatia, cameratismo (esclusa la nota della particolarità e della segretezza) non significa amicizia e relazione amorosa. Questa si ha quando l'affetto non resta più contenuto e riservato, ma diventa consapevolmente mutuo con manifesta-

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zioni ed atti esterni. Questi amoreggiamenti cominciati troppo presto — anche se, sulle prime, sono o sembrano superiori alla sensualità — è un'illusione che si conservino tali. Lo saranno, per qualche tempo, ma non a lungo. La sensibilità quando viene sod­disfatta liberamente e senza freno ingigantisce. E così inevitabil­mente porta alla sensualità (anche se il passaggio non è avver­tito). Quindi in linea di massima le amicizie particolari sensibili iniziate molto tempo prima del vero fidanzamento, sono da scon­sigliare. « La dichiarazione di amore tra due adolescenti, fosse anche soggettivamente sincera — si legge nel Documento che in questa materia l'Episcopato Lombardo e Triveneto ha pubblicato in data 2.II.1974 — è da considerarsi per lo meno immatura e precaria a motivo dell'acerbità del loro sviluppo umano. Perciò da tale dichiarazione, e più ancora da un formale fidanzamento, gli adolescenti vanno distolti con diligente opera di convinzione » (n. 26) {Boll. Eccl. Intera, di Belluno e Feltre, 1974, n. 1, pp. 43-55). La regola e la raccomandazione vale di massima. Non in modo assoluto è esclusa la possibilità d'una relazione seria e pura, piuttosto prematura. Per un giovane durante il servizio militare, ad esempio, potrebbe esser un sostegno ed un conforto nei mo­menti difficili, una difesa contro la scatenata dissipazione che tra­volge la massa. Ma bisognerebbe che la ragazza fosse formatis-sima e, colla sua forte personalità, esercitasse il suo influsso sul giovane: un giovane — si suppone — fondamentalmente buono. E tutto questo non dispensa da quella prudenza e da quelle pre­cauzioni che sono necessarie anche ai migliori.

I I I . Il fidanzamento — preparazione prossima al matrimo­nio — consiste anzitutto e principalmente in una scelta prudente.

1. Il primo requisito è l'amore fra i due. « Amore pienamente umano: vale a dire nello stesso tempo sensibile e spirituale » (Hum. vitae, n. 9). Spirituale perché non si riduce alla istintiva simpatia, sensibile o sensuale, ma si fonda anche su un complesso di doti spirituali e tende non solo all'egoistica soddisfazione ma anche a rendere felice la persóna amata. Ognuno dona all'altro anzitutto e soprattutto il suo cuore e poi tutto se stesso. L'amore autentico dev'esser spirituale fin dal fidanzamento se si vuol spe­rare che sia tale nel matrimonio. Nel quale prevarrà in un primo periodo la componente sensibile e sensuale, poi quella spirituale. Ma anche questa ci dev'essere. Altrimenti se dovesse cessare l'at­trattiva sensibile oppure (per malattia o forzato distacco) fosse

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necessaria l'astinenza, allora ci sarebbe il vuoto. Perciò sono peri­colosi quei matrimoni nei quali si prevede che mancherà la fu­sione degli spiriti perché c'è, fra i due, diversità piena di forma­zione, di cultura, di educazione e solo si guarda alla parte sen­suale. D'altra parte, in ordine al matrimonio, non basta l'affetto spirituale. Ci dev'esser pure la simpatia. E fin da principio. Se non c'è, bisogna troncare senza misericordia, qualunque siano state le promesse. Pericolosissimi sono i matrimoni combinati solo per calcolo, ragionamento, volontà: è facile che un uomo, dopo qualche tempo, per la moglie conservi solo tutto il suo apprezza­mento di stima e di rispetto ma senta sorgere e svilupparsi in sé un affetto sensibile e sensuale verso un'altra donna.

Si noti che il primo amore — quand'è vero amore — fra due giovani in vista del matrimonio comincia con una simpatia fortis­sima e dolcissima, ma non con la passione propriamente sensuale. Desiderano stare vicini, aver contatti corporali, non però ancora sensuali. Per questi, all'inizio, provano una ripugnanza. Ma la sensibilità crescerà sempre più in intensità e secondo le leggi del meccanismo fisico-psichico porterà alla sensualità. Siccome non conoscono questo processo molti si concedono fin da principio troppe libertà mutue. Sono, specie le giovani, forse in buona fede. Ma l'amore sensibile condurrà a quello sensuale: altrimenti in genere non perdura neppure come sensibile ed alla simpatia suc­cede il tedio, il disgusto, l'avversione, l'antipatia. Il passaggio dall'amicizia sensibile a quella sensuale avviene insensibilmente. Ad un dato momento vien meno il primitivo pudore istintivo ed i due si sentono trascinati dalla passione a compiere atti stretta­mente sessuali. Dovrebbero esser istruiti e messi in guardia. Ed una volta istruiti, dovrebbero con l'autocontrollo comportarsi ra­gionevolmente e volitivamente. Altrimenti sono spiegabili i rap­porti prematrimoniali.

2. Doti spirituali. Principi morali e religiosi. L'ideale sarebbe che circa questi principi ci fosse, nei due, 1'« idem velie » 1'« idem sentire ». Circa i principi necessari, s'intende, perché psicologia e temperamento posson esser ben diversi: anzi, questa diversità può apportare una ricchezza ed un completamento reciproci. Ci può esser sostanziale accordo nella fede e nella religione, ma nel modo di viverla e praticarla non si deve pretendere l'uniformità: ognuno deve rispettare la personalità dell'altro, nella quale influiscono molti fattori, non escluso il sesso stesso.

In fatto di moralità l'ideale sarebbe che i due giovani giun-

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gesserò casti al matrimonio perché il mutuo dono — di spirito e corpo — fosse totale. Non esiste una moralità per le ragaz2e diversa e più severa che per gli uomini. Spesso però l'uomo pre­tende nella fidanzata una integrità fisica, mentre da parte sua non porta e non crede di esser affatto tenuto a portare alla sua com­pagna un corpo verginale. Consuetudini e concezioni umane sba­gliate. Deve una fidanzata rivelare al suo fidanzato di aver per­duto la verginità in seguito a rapporti con un altro uomo? Non si può affermare che ci sia stretto dovere perché è un difetto non sostanziale che è molto gravoso rivelare. A meno che H fidanzato non esigesse la verginità come condizione per contrarre il matri­monio; ma ciò non si presume, se non lo dichiara esplicitamente. In genere, però, si consiglia che la ragazza sia sincera perché siano evitate spiacevoli sorprese che potrebbero render meno felice il primo periodo di matrimonio e, forse, tutto il matrimonio. Una volta contratto il matrimonio è, invece, sconsigliabile che uno ma­nifesti il proprio passato spiacevole: e se l'altro lo sa, faccia finta di non saperne niente. Ad una ragazza che chiedesse se, in seguito ad atti impuri solitari, ha perduto la sua verginità è da rispondere decisamente e sbrigativamente di no. Comunque, specie per aver un criterio sulla valutazione morale, non bisogna solo considerare se c'è stata qualche caduta e sbaglio, sia pur materialmente grave. Una caduta occasionale, dovuta più che altro ad inesperienza, può esser stata poi riparata. Ma cosa sarà da aspettarsi da una ragazza strutturalmente leggera, instabile, facile a passare da un fidanza­mento (o amoreggiamento) all'altro, senza fede sentita e senza spirito cristiano, con una pratica religiosa quasi nulla o puramente superficiale e abitudinaria? È dalla madre che dipende soprattutto la formazione spirituale dei figli. Simile discorso (tenendo conto però della diversa psicologia) va fatto anche per l'uomo: occorrerà un giudizio prudenziale, caso per caso. Qualche giovane non ha mai fatto questione di principi: è la sua vita che ha avuto un periodo di smarrimento che egli riconosce ed ha sinceramente riconosciuto. Però una volta, innamorato d'una ragazza buona che esercita su lui un forte preponderante influsso, subisce una trasformazione psichica completa. Tutto quello che pensa, dice, fa, è messo in relazione colla persona amata. È una liberazione ed una conversione: ha inizio (per un soggetto fondamentalmente sano o ricuperabile) una vera vita spirituale: la conversione ama­toria coincide colla conversione religiosa. Ma altri, ormai avanti negli anni, che non hanno mai dimostrato alcuna dote di labo-

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riosità (sulla quale bisogna far molto calcolo), che sono dediti al vizio (specie se a quello impuro s'unisce anche quello dell'alcooli-smo), quali speranze possono dare se non c'è la prova d'un lungo radicale miglioramento? Qualcuna, già avanzata negli anni e ter­rorizzata di restar zitella, accetta anche un partito simile. Poi sono dolori.

La Casti Connubii (AAS, 2, 1930, 585-586) porrebbe l'ac­cordo, dei due, circa la vera religione di Cristo come il primo requisito per un matrimonio felice. Difatti, anche escluso il peri­colo d'una influenza funesta, è prevedibile un intimo disagio e conflitto se uno ha un grande amore verso l'altro ma insieme deve dissentire da lui in una materia cosi profondamente vitale: vorreb­be che l'unione spirituale fosse perfetta e soffre che non sia perfetta. Inoltre, anche quando l'amore autentico assicura una fedeltà assoluta e perenne, non basta solo questa alla moralità, alla castità, alla santità coniugale. C'è una legge morale da osser­vare anche nell'uso del matrimonio. E non facile. Nel fidanza­mento, ed anche quando iniziano una seria amicizia in vista del matrimonio, è desiderabile che ognuno sappia come la pensa l'altro su questo argomento. Meglio discutere e soffrire prima che dopo: e soffrirebbe una sposa costretta a continua complicità (sia pur incolpevole) in un disordine sul quale il marito fosse irriducibile. Altrettanto si dica d'una fidanzata che per principio non volesse che un paio di figli e cosi costringesse, in partenza, il marito o ad una astinenza difficilissima o ad un abuso abituale. I metodi della continenza periodica possono risolvere provvidenzialmente le difficoltà che dovessero sorgere aumentando il numero dei figli, ma non è certo l'ideale che ci sia come programma il proposito di godere le soddisfazioni coniugali e di evitarne le conseguenze ed i pesi. L'esperienza però insegna che questo è di fatto un problema gravissimo, anche per coloro che sono onesti, anche per i migliori. Non basta che si vogliano bene: occorre una grande fede e fiducia cristiana, una religione vissuta.

Si noti che i pericoli ed i disagi non ci sono solo quando uno è credente e l'altro non credente ma anche quando appartengono a religione diversa. Sia la Chiesa cattolica sia quella protestante sconsigliano i matrimoni misti. I vescovi cattolici, nella loro gran­de maggioranza, si augurano che permanga l'impedimento di mista religione (anche se molti hanno chiesto che sia data loro la facol­tà di dispensare dalla forma canonica del matrimonio che vuole la presenza del ministro cattolico autorizzato, oltre che di due testi-

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moni). Certo, quando l'incendio è scoppiato sarà difficile spe­gnerlo: ed allora è meglio che si sposino (colle debite garanzie e supposti gli altri requisiti morali, spirituali e fisici) piuttosto che vivano in concubinato. Ma sarà piuttosto la donna, se non ha una forte personalità, un fermo carattere, una solidissima forma­zione religiosa, che subirà l'influsso dell'uomo anche in materia religiosa. Perché la donna per natura è portata a modificare insen­sibilmente idee, principi, fede, secondo l'orientamento del cuore. Se ama molto un uomo, e proprio perché lo ama molto, è facile che sia da lui trascinata tanto ad abbracciare una religione come a metterla in crisi o in second'ordine.

3. Sufficiente sanità fisica. Il consigliere spirituale avrà chiari anzitutto i principi morali. Chi avesse una malattia grave deve — in ordine al coniuge ed in vista dei figli — cercar di curarsi. Se non riuscisse a curarsi deve avvisare del suo stato l'altra parte. Ma se questa accetta di sposarsi, non consta con certezza che cessi nella persona malata il diritto al matrimonio e che abbia l'obbligo grave di rinunciarvi. Tanto più che per taluni il celibato può esser difficilissimo e farà sorgere quindi un grave problema di ordine morale. Si noti che, oggi, i metodi della « continenza periodica » offrono anche a coloro che sono gravemente tarati per malattie ereditarie (per esempio mentali) la possibilità di unirsi in ma­trimonio secondo le loro aspirazioni senza l'incubo di metter a loro volta al mondo dei figli anormali e deficienti.

La « continenza periodica » non toglie però il pericolo del con­tagio per l'altra parte (se nella malattia in questione questo pericolo è asserito dalla scienza medica). Però, a parte lo stretto diritto e la stretta legge « matrimoniale », può venire il sospetto che, tutto considerato, un dato matrimonio debba esser sconsigliato. E talo­ra può esser vivamente sconsigliato nell'interesse stesso di chi lo desidererebbe. Perché la salute ha più importanza di quello che spesso si può credere: proprio perché ci possa esser la perfetta amicizia coniugale, spirituale, sensibile, sensuale. E poi bisogna pensare anche ai figli: a dar loro una esistenza meno infelice possibile. Nel caso concreto però è da attendere a tutti gli ele­menti e aspetti del caso (fisici, psichici, morali). Il sacerdote quando, richiesto di consiglio, apprende l'esistenza d'una grave malattia (che in realtà può essere più o meno grave) sarà saggio se suggerirà all'interessato di rivolgersi ad un medico: un medico che abbia esperienza, principi morali e religiosi, che sappia, con

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interessamento, affetto sacerdotale e lucidità, considerare la sin­gola situazione in tutte le sue circostanze, non solo sotto l'aspetto fisico ma anche morale; un medico al quale il fidanzato possa quindi dir tutto, come e più che ad un sacerdote, per avere non solo un giudizio clinico ma un consiglio concreto, umano e frater­no per una effettiva decisione. Ad esempio ci sono talune che hanno onestà, religione, ed anche vigore fisico, ma un tempera­mento che pare strutturalmente nevrastenico (od isterico). Sarà un difetto insanabile? Dipende da mancanza di volontà e di forma­zione morale e spirituale, oppure da una debolezza psichica e da una irresponsabile incapacità d'autocontrollo? Sta di fatto che in casa, coi genitori, fanno continuamente scenate; non accol­gono mai un'osservazione ma rispondono malamente, incapaci di frenarsi; col fidanzato stesso litigano abitualmente, alle volte stanno ore ed ore senza far parola. Che cosa sarà in seguito? Una donna all'uomo non deve servire solo a soddisfare la passione dei sensi. Deve portare in casa il sole dell'ottimismo, della gioia, della serenità. Quando il temporale s'annuncia coi suoi brontolìi è chia­mata ad essere la compagna confortatrice, armata di coraggio e di speranza incrollabili. Non avrà paura ad avere un figlio di più perché ha una carica inesauribile di fiducia e di adattamento. Date le difficoltà dell'esistenza, senza queste doti come è possi­bile, come può essere felice la vita matrimoniale? Purtroppo spesso, di fronte a preoccupanti difetti fisico-psichici, i fidanzati non chiedono un consiglio spassionato. Alle volte lo chiedono, ma poi non lo seguono. Si lascian trasportare dal cuore o dalla pas­sione dei sensi. Qualcuno (o qualcuna) dice che l'amore sta nel-l'unirsi ad una persona anche se malata, anzi proprio perché ma­lata. Noi non possiamo non ammirare con commozione simili atti di carità e di dedizione, ma sappiamo che la virtù-guida di ogni virtù è la prudenza. E non possiamo approvare qualche consigliere (fra i parroci ad esempio) che, nell'intento di combinare qualche matrimonio, guarda solo alle doti di ordine religioso e morale.

4. Risorse economiche ed abilità personali (almeno sufficienti) per mantenere una famiglia, dirigere la vita domestica, educare i figli. Un giovane, anche se non si è ancora fatta una posizione sicura, deve dare però garanzie che ha le capaoità e la volontà energica di svolgere un proficuo lavoro professionale. I primi tempi di matrimonio possono presentarsi però un po' difficili ed austeri. Occorre prudenza ma anche un po' di confidenza. Altri-

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menti, nell'attesa di una sicurissima posizione e d'una vita agiata, bisognerebbe, per molti, ritardare troppo il matrimonio. Con sofferenza e pericoli morali. Sono consigliabili — sia dal punto di vista igienico come dal punto di vista spirituale — i matrimoni in età piuttosto giovane. E sono sconsigliabili (salvo casi speciali) i lunghi fidanzamenti. In età giovane: come può essere per la donna il periodo fra i 18 ed i 23 anni e per l'uomo fra i 23 ed i 30. Sono pure sconsigliabili i matrimoni contratti troppo presto o troppo in fretta. Secondo le ultime statistiche aumentano in Italia i matrimoni di giovani al di sotto dei 18 anni. Ragazze, anche di 12, 13, 14 anni, che invece di frequentare la scuola dell'obbligo, sono costrette a sposarsi. Considerando questo feno­meno i vescovi della Lombardia e della regione Tri veneta, nel recente documento sopra citato, scrivono: « I l matrimonio nella prima adolescenza deve essere sempre dissuaso anche nel caso di gravidanza: la maternità fuori del matrimonio è un male minore in confronto ad un matrimonio senza garanzie di futuro » (n. 26). In Italia con la legge deU'8.III.1975t_n. 39, la maggior età è por­tata dai 21 anni ai 18. E con la legge del 19.V.1975, n. 151 (G.U. n. 135 del 23.V.75) i minori di età non possono contrarre matri­monio. Però « il tribunale, su istanza dell'interessato, accertata la sua maturità psico-fisica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può con decreto emesso in camera di consiglio ammettere per gravi motivi al matrimonio chi abbia compiuto i sedici anni » (art. 4 della nuova legge). È intervenuta cosf una discordanza fra diritto civile e diritto canonico, il quale (pur consigliando l'età più usuale e più opportuna) ammette valido il matrimonio se l'uomo ha compiuto i 16 anni e la donna i 14 (CJC, e. 1067, § 1 e 2) e, previa dispen­sa, anche ai 14 anni pel giovane ed ai 12 per la giovane. Ci si augura che tale difficoltà giuridica venga risolta. Sul piano pasto­rale resta comunque dissuaso un matrimonio contratto solo per riparare una situazione qual è lo stato di gravidanza della giovane se tale matrimonio fosse contratto da chi non ha ancora raggiunto la dovuta maturità psico-fisica. Un vescovo può dunque, per sé, concedere anche il matrimonio solo religioso (facendo avver­tire gli interessati che potrebbe non essere trascritto nei registri dello Stato ed esser quindi privo degli effetti civili). Molti vescovi però propendono a rifiutare il matrimonio a chi abbia questo impedimento civile, a meno che non ci sia l'autorizzazione da parte del tribunale dei minorenni od una previa visita presso un

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consultorio familiare. Si vuol che sia assicurata nei minorenni la maturità, specialmente psicologica.

Quanto alla durata del fidanzamento, qualcuno (cfr. J. Leclercq, Verso una famiglia nuova, Brescia, 1965) pensa che oggi le condi­zioni di vita, le esigenze della professione e dello studio impedi­scono spesso un matrimonio prossimo: si sarebbe instaurata per­tanto una nuova impostazione di rapporti fra fidanzati cosicché si può ammettere il fidanzamento come uno stato che duri anche anni senza pericoli. Senza pericoli? Purtroppo l'esperienza smentisce in pieno questa fiducia. Il fidanzamento, secondo la saggia norma tradizionale, dovrebbe avere una durata sufficiente alla mutua conoscenza, necessaria perché la scelta sia matura; ma non una durata cosi lunga per cui diventi occasione prossima di abusi prematrimoniali. Ordinariamente nello spazio di un anno, se gli incontri sono abbastanza frequenti, i due avrebbero tutto il tempo per conoscersi bene.

IV. Il periodo del fidanzamento occorre per una duplice finalità: una conoscenza reciproca più intima, necessaria alla decisione definitiva; e l'unione degli spiriti, preparazione, pre­supposto, sostegno dell'unione fisica. Le oneste manifestazioni d'affetto sono giustificate dal fine di favorire il mutuo amore in ordine al matrimonio. E siccome l'amicizia è anche sensibile, questi atti saranno accompagnati necessariamente da un piacere che non è di natura solo spirituale. Ma il confessore, qualora do­vesse trattare in materia eòi fidanzati, non conviene che dia loro una esposizione particolareggiata degli atti che sono leciti o no, sconsigliabili o meno; e neppure che faccia domande sulla fatti­specie di tali atti. Senza entrare nelle distinzioni dei moralisti (in teoria esatte) fra sensibilità e sensualità, richiamerà, all'occasione, il principio morale e la norma generale: nelle visite e negli incon­tri, non è proibito che si scambino qualche segno d'affetto secondo la consuetudine dei buoni; con moderazione però e con le debite precauzioni: soprattutto evitino di star soli in luoghi cosi segreti da non poter esser visti da nessuno. Ed aggiunga che assoluta­mente non possono concedersi ciò che è diritto solo dei coniugi. Per la semplice ragione che il fidanzamento non è il matrimonio ma la preparazione al matrimonio. Specialmente la fidanzata^ dovrebb'es-ser vivamente esortata a mostrarsi energica fin da principio: a non prestarsi a ciò che è apertamente illecito né a permettere certe libertà pericolose; a riflettere che certi atti che per lei possono

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non eccitare fortemente la sensualità hanno un effetto diverso sul giovane, perché uomo e donna non hanno la stessa natura fisico-psichica in materia sessuale. Più passiva e sensibile alle impressioni non propriamente sessuali, la ragazza cerca però di attirare con tutto il suo comportamento il giovane. Di queste attrattive non prevede le conseguenze (a meno che non sia abile nel mestiere di conquistatrice). È comprensibile come qualcuna s'accusi, in confessione, di esser stata — ad un dato momento — come aggredita contro la sua volontà. Non ha considerato, per irriflessione o leggerezza, che poteva esser anch'essa la causa di quanto ora lamenta. La giovane onesta è giustamente superba della sua integrità fisica e morale. Pensa e dice che nessuno ap­profitterà di lei. In realtà anche col fidanzato può resister molto, prima di cedere e darsi. Però se crolla, può esser finita: subentra in lei talora lo stato psicologico di chi non sa più opporre resi­stenza alcuna. Si dona completamente all'altro, come se ciò ormai fosse fatale. Può giungere al punto di lasciare che l'uomo faccia di lei quello che vuole. Si offre a lui come un campo sperimentale. Senza, si direbbe, pensare più a sé: difatti, per sua natura, la donna non è egoista. Ecco perché allora troviamo qualche ragazza che pratica la religione regolarmente e racconta (anche in Con­fessione) atti consumati col suo fidanzato come se fossero la cosa più naturale. Stato psicologico pauroso, perché sembra perduto il senso morale. Si pensa che se non si fa danno a qualcuno contro il suo volere, un'azione sia permessa: argomento evidentemente invalido perché il danno si fa anche se chi lo subisce non ne è, al momento, conscio, anche se non manifesta la sua volontà con­traria (come il bimbo prima di nascere, il quale è già persona, coi suoi inviolabili diritti). E comunque il danno è una conse­guenza della violazione della legge morale: ed è anzitutto a questa che bisogna attendere e conformarsi. Non si avrebbe il coraggio di portare tali giustificazioni se ci fosse il senso di Dio. Ma se non si guarda più a Lui e non ci si chiede quale sia la Sua volontà, si arriva a dubitare di tutto, persino della propria identità e della propria vita. Quindi una giovane intelligente (oltre che onesta) deve prevedere ciò a cui giungerà se concede troppo al­l'altro; deve sapere che la prima caduta può essere il primo anello d'una catena; dev'esser preparata a qualsiasi insidia e tranello: se il giovane le facesse capire sul serio che ai rapporti sessuali non può rinunciare e che se non li avrà con lei li dovrà avere con qualche altra, allora lo lasci pure senza paura di perder chi

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non dà migliori garanzie morali. E se la maggioranza degli uomini tenta di suggestionare la donna per anticipare ciò che è loro lecito solo quando saran sposati, è la donna che dovrebbe non lasciarsi suggestionare e col suo influsso elevare il tono dei rapporti. Ma oggi molti pensano che non possono sperimentare di volersi veramente bene se non hanno anche l'esperienza sessua­le. Perciò « rivendicano il diritto all'unione sessuale prima del matrimonio, almeno quando una ferma volontà di sposarsi e l'affetto, in certo modo già coniugale nell'animo d'entrambi, invocano quel complemento che essi pensano naturale; e ciò spe­cialmente ogni qualvolta la celebrazione del matrimonio è impedita dalle circostanze esterne, o questa intima congiunzione è giudicata necessaria perché l'amore stesso perduri » (Dich. Pers. Hum., 29.XII.75, n. 7). Se ciò fosse vero, crollerebbe tutta la morale del matrimonio, nel cui quadro soltanto è lecito l'atto genitale. A parte l'incertezza (nonostante propositi ed illusioni) che questi rapporti prematuri assicurino la stabilità, la fedeltà sincera dell'unione futura (cfr. Dich. Pers. Hum., n. 7). Ora, come si può conciliare la frequenza ai sacramenti con siffatta mentalità? E, dal momento che se ne confessano, è segno che provano un conflitto intimo nonostante lo sforzo di interpretare in modo personale la legge morale.

Certe mamme dicono che oggi coi fidanzati bisogna mostrar fiducia, ricorrere alla persuasione e non ai controlli, e cosi lascia­no completamente libere le loro figliuole. L'esperienza ammonisce che non possono esser assolutamente approvate: perché non si può ciecamente fidarsi neppure dei buoni; e quelli, tra questi, che sono formatissimi non esigono di stare completamente soli e si per­mettono solo ciò che gli altri possono vedere, per la ragione che sono consapevoli del pericolo.

V. Ed il confessore come si comporterà coi fidanzati che si concedono ciò che è solo un diritto dei coniugati? Quando hanno rotto i freni e contratta una consuetudine è difficile supporre che cambino condotta. La situazione assume particolare irregolarità quando dicono di non poter sposarsi presto, ossia non fra alcuni mesi. D'altra parte se si tratta di un'occasione di matrimonio so­stanzialmente buona e se questi abusi prematrimoniali (pur es­sendo un segno negativo ed un punto scuro) dipendono più che altro dalla comune debolezza umana e dalla sofferenza pel ritar­dato matrimonio, anche allora sarà praticamente difficile imporre

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di troncare tale relazione. A meno che il contegno stesso di uno dei due (unito ad altri elementi negativi) non faccia sorgere seri dubbi sulla sua sanità morale. Ma se non mancano le condizioni e qualità indispensabili ad una scelta e ad un matrimonio pru­dente, non resta che ammonirli vivamente e gravemente a riparare lo sbaglio vivendo meglio il periodo del fidanzamento che hanno davanti. Specialmente alle ragazze si raccomandi l'uso di tutti i mezzi naturali e soprannaturali: frequenza ai sacramenti, ricorso ad un saggio confessore stabile dal quale accogliere umilmente i consigli (e non solo l'assoluzione per poi agire come prima). Devono pensare, che le benedizioni di Dio sulla loro famiglia e vita futura possono essere compromesse da una condotta irre­sponsabile.

VI. Per aiutare i fidanzati a prepararsi con rettitudine, consa­pevolezza e senso di responsabilità al matrimonio, oggi sono andate moltiplicandosi le iniziative. « Nella pastorale prematrimoniale sono ormai diffusi e sperimentati i cosiddetti "corsi per fidan­zati" che uniscono alla presentazione dei problemi religiosi e morali del Matrimonio la trattazione dei diversi valori umani della sessualità; dell'amore e della famiglia. Simili corsi sono da inco­raggiarsi e da promuoversi su più vasta scala, sia perché provve­dono ad una avvertita necessità d'informazione e di formazione, sia perché possono raggiungere una larga parte di persone che si preparano al Matrimonio. Laddove nemmeno questi corsi fossero possibili sarà necessario offrire ai singoli fidanzati un maggior numero di incontri e colloqui pastorali con il sacerdote e con quan­ti si impegnano più intensamente nella comunità cristiana » (C.E.I., Evangelizzazione e sacramento del Matrimonio, 20.VI.1975, n. 82). Occorre perciò che i futuri sposi si presentino tempestivamente (un mese circa prima) al parroco per stabilire i documenti neces­sari, per fissare il giorno dell'esame e dei colloqui. Devono a norma del CJC, e. 1020, § 2, esser interrogati (anche separata­mente) perché consti che non ci sono impedimenti, che il loro consenso è libero, che sono sufficientemente istruiti nella dottri­na cristiana (il che può essere accertato dalla qualità stessa delle persone, senza bisogno d'esame). Chi non ha partecipato a corsi preparatori in comune, verrà opportunamente istruito dal parroco a norma del e. 1033. Questi incontri potranno protrarsi per più volte, quante appariranno necessarie. È consigliabile che, appena i due si presentano per le pratiche richieste e prima dell'esame e delle istruzioni, il parroco offra loro un opuscolo che contenga

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l'essenziale che devono sapere, sia circa la dottrina cristiana, sia circa i doveri e i diritti matrimoniali, i consigli igienici riguardanti sposi e figli. Di queste brevi « guide » ce ne sono molte. Per esempio: A. Alessi, Catechismo degli sposi, L.D.C., Torino-Leu-man; C. Van Agt, Guida al matrimonio (ottimo ma un po' più ampio), Torino, Boria, via Andorno, 31. Con l'aiuto di uno di questi catechismi, i fidanzati potranno prepararsi sia all'esame eventuale sia agli incontri nei quali solleveranno tempestivamente i loro particolari problemi. La lettura d'un libretto non può però sostituire l'istruzione. Nella quale saranno messi alla prova, oltre alla scienza, il senno, la prudenza, il tatto, il garbo, la pazienza, la sensibilità psicologica d'un pastore. Deve saper adattarsi alle diverse condizioni delle persone, alla loro cultura, alla loro forma­zione religiosa. Insisterà sull'affetto vicendevole, sull'impegno di non separare mai l'esercizio della sessualità dall'amore, sul mutuo compatimento, sulla completa fedeltà nell'amore. Dirà chiara­mente che « per sua indole naturale l'istituto del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole » (GS, n. 48; 50). Non è pertanto lecito che i coniugi usino del matrimonio impedendo positivamente la finalità pro-creatrice. Il sacerdote può accennare anche ai metodi della « con­tinenza periodica » da praticarsi sotto il controllo d'un medico di fiducia (che è bene scelgano come medico di famiglia): a questo metodo (secondo il quale nel ciclo mensile della donna c'è un periodo di giorni sterili ed un periodo di giorni fecondi) gli sposi potranno ricorrere quando vedranno prudente, limitare la prole per ragioni sanitarie od economiche. Il sacerdote, infine, racco­mandi ai fidanzati che se in seguito si trovassero in straordinarie difficoltà od avessero bisogno di qualche altra informazione, espon­gano il loro caso ad un sacerdote dotto e pio, in Confessione o fuori, in modo da agire sempre con coscienza retta e tranquilla.

2. Coniugati

Vale anche nei riguardi dei coniugati l'ammonizione del S. Officio del 16.V.1943, sulla prassi del confessore circa i pec­cati contrari al VI comandamento: male si comporterebbe quel confessore che si mostrasse « fere unice de his peccatis sollicitus ». Il pericolo però esiste. Lo Chanson, ad esempio, nel suo libro: Pour mieux confesser, Arras, 1952 (trad. it.: Per meglio confes-

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sare, ed. Paoline) dedica forse troppe pagine a questa materia scendendo a certi particolari e dettagli della vita intima coniugale su cui praticamente i penitenti non sentono un bisogno o un dovere di far questioni in Confessione e non è conveniente che il confessore indaghi. Anzi, è buona norma che circa l'uso del matri­monio, regolarmente, il confessore non muova per primo questio­ne, a meno che non veda, per positive ragioni, la convenienza d'aiutare il penitente nell'esame di coscienza su questo punto e di rivolgere un'appropriata interrogazione (come si disse nel capi­tolo: « Orientamenti per un esame generale di coscienza »). E quando capita l'occasione e vede che qualche persona sposata ha bisogno d'esser illuminata su ciò che è lecito od illecito nell'uso del matrimonio, prudenza e delicatezza consigliano al confessore che è meglio si limiti a dare regole piuttosto generali come que­ste: è gravemente proibito ciò che impedisce positivamente la procreazione; pel resto, ognuno cerchi di comportarsi secondo quanto suggeriscono, oltre l'amore e la passione, il ragionevole di­ritto dell'altra parte, la carità generosa e discreta, una certa tem­peranza, k dignità umana e cristiana della persona.

I coniugi avrebbero anzitutto da interrogarsi sull'autenticità del loro amore; sull'impegno ed il metodo che usano nell'educa­zione dei figli; sul buon esempio che a loro danno colla propria condotta, discorsi, comportamento, in casa e fuori. Per assolvere tutti questi compiti e risolvere i casi difficili, fortunati saranno se trovano un confessore che (come auspica il Vaticano II, PO, 6) li segue e li guida « peculiari diligentia ».

I. Natura, esigenze, problemi dell'amore coniugale

1. Non dobbiamo dare ai penitenti sposati l'impressione che li consideriamo in uno stato d'inferiorità dal punto di vista spi­rituale ed ascetico — rispetto a chi ha rinunciato al matrimonio per un fine superiore — e che riteniamo, per essi, pili difficile la santificazione (anche se di fatto lo è). Cercheremo invece ài mostrar loro grande stima e d'infondere nei loro cuori grande fiducia. Lo « stato » matrimoniale (al quale è chiamata la grande maggioranza del genere umano) non può non esser casto e santo. L'« atto » stesso coniugale, se compiuto regolarmente, non può non esser onesto. E, per chi è in grazia di Dio, è meritorio. S'ag­giungono gli impegni dell'educazione: opera intelligente, deli­cata, gravosa, preoccupante, fonte di meriti inestimabili. Però

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il controllare e moderare secondo ragione l'attività sessuale nel matrimonio domanda forza e generosità. Spesso è meno difficile la continenza assoluta di coloro che, scegliendo il celibato santo, han fatto un taglio netto e contratta l'abitudine della castità per­fetta. Errore ed illusione di certi giovani: che il matrimonio risolva del tutto ed automaticamente il problema della purezza. La debita continenza coniugale può richieder una lotta più aspra di quella prematrimoniale (talora necessità vuole che i coniugi vivano qualche tempo lontani uno dall'altro; un marito deve aver riguardo per la salute della moglie e dei figli, pur vivendo con lei in continuo contatto e dormendo nello stesso talamo). Perciò raccomanderemo sempre agli sposati che coltivino una intensa vita interiore e frequentemente ricorrano alle fonti della grazia per avere il dominio sugli impulsi istintivi e la fiducia nella Provvidenza: quella fede che Dio stesso ispira ed insieme domanda.

Gli atti sessuali incompleti — anche se non ordinati all'at­to completo — sono legittimati dallo stato stesso coniugale. (Sostanzialmente diverso il giudizio circa gli atti propriamente sessuali, anche se incompleti, compiuti intenzionalmente dai fi­danzati, perché questi sono solo in uno stato di preparazione alla vita coniugale ed all'attività specificamente sessuale).

Gli atti incompleti corrispondono particolarmente all'indole ed alla psicologia sessuale della donna. Se guardasse solo a se stessa — e non alla maternità, al bisogno ed ai diritti dello sposo — forse la donna si accontenterebbe di questi atti incom­pleti cosi da esser pienamente soddisfatta e felice e non cercar altra attività sessuale. L'uomo dovrebbe saperlo, non già per rinunciare al ragionevole uso completo del matrimonio, ma per un adattamento ai desideri della moglie. In entrambi, al di sopra della soddisfazione egoistica, dovrebbe stare l'amore generoso.

Anche nell'uso completo del matrimonio gli atti incompleti vanno visti specialmente in ordine alla natura della donna. L'uo­mo può non averne bisogno. In lui l'eccitazione sale subito con prontezza per subito scendere e cessare, dopo l'atto completo. Nella donna l'eccitazione è più lenta e più prolungata. Gli atti incompleti preparatori servono perché l'eccitazione piena si ot­tenga in entrambi nello stesso tempo. Ciò conferisce alla salute fisica facendo evitare alla donna un certo sforzo ed, alla fine, una stanchezza nervosa. Anche di questo il marito dovrebbe te­ner conto. Un confessore non può entrare in simili particolari:

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in genere i penitenti non domandano e neppur desiderano che egli faccia sfoggio di troppo intendimento psicologico in questa materia. Una qualche discreta nozione però — tenuta in riserva — sarà utile in argomenti cosi delicati, se non altro perché si sappia quel che non conviene dire, oppure perché ci si limiti a tacere senza disapprovare, o perché si dica quella parola che forse è poco, ma con un'altra ancora, sarebbe troppo.

Gli atti sessuali incompleti sono dunque utili. Talora, forse, son da dirsi necessari, per evitare l'incontinenza o l'infedeltà, nel caso in cui non sia possibile o conveniente che i coniugi ab­biano altri figli. In tale situazione possono ricorrere anche ai metodi della continenza periodica. Comunque, l'uso incompleto, può supplire l'uso completo dando agli sposi un'onesta e legit­tima soddisfazione, anche sensuale. Non illudiamoci però: ciò suppone capacità di freno, spirito di temperanza. Suppone l'acqui­sita abitudine alla purezza. Al coniuge non è lecito procurarsi, con questi atti mutui incompleti, la polluzione separata (a meno che questa non possa considerarsi come un effetto acci­dentale, non direttamente inteso, e solo qualche volta conseguente ad atti compiuti da sposi che non possono o non vogliono, per buone ragioni, consumare il matrimonio).

Sostanzialmente la castità matrimoniale domanda ai coniugati: che non si procurino la polluzione separata (e quindi non pra­tichino l'onanismo) nei loro rapporti sessuali; che osservino la mutua fedeltà: fedeltà esterna (evitando sia gli atti completi ad essa contrari, sia le amicizie amorose extramatrimoniali, anche se non portano ad atti consumati) e fedeltà interna (non asse­condando neppure il desiderio sensuale adulterino).

2. Il vero amore coniugale, si legge nell'Enciclica « Humanae vdtae » n. 9, è umano (cioè insieme sensibile e spirituale), totale, fedele ed esclusivo, fecondo. « Sensibile » è un termine che può comprendere anche il « sensuale ». In genere l'affetto auten­tico, all'inizio — appena due si conoscono e nella prima fase della loro amicizia — è specificamente sensibile (e spirituale) e non ancora sensuale. In seguito la sensibilità porta anche alla sensualità. Si dice che tre specie di amicizie debbono unire i coniugi: la spirituale, la sensibile, la sensuale. Ovviamente non si tratta di tre attività distinte, indipendenti una dall'altra. Sono aspetti complementari ed intrinseci d'uno stesso ed unico amore: l'amore totale. L'affetto spirituale non dovrebb'esser

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raffreddato e minacciato — ma favorito ed accresciuto — dal­l'affetto sensuale e sensibile (se questo è controllato dalla virtù della temperanza secondo la legge di Dio e secondo la dignità umana e cristiana della persona). E lo spirituale deve guidare, dirigere, illuminare, santificare l'affetto sensibile e la stessa at­tività sessuale perché conservi sempre la nota della dedizione e non sia solo godimento ma anche un dono. Un dono che tal­volta importa sacrificio. Al di sopra d'ogni considerazione inte­ressata egoistica sta la carità che suggerisce ad ognuno dei due coniugi di tener conto delle necessità, della natura, dell'indole dell'altro, e non solo dei propri desideri e dei propri gusti. Ele­vata e moderata dalla carità, l'attività sessuale dei coniugi non dev'esser ritenuta solo come una concessione, quasi una tolleranza concessa dalla morale e dall'ascetica alla natura inferiore, come se l'ideale di perfezione matrimoniale fosse un amore tutto spi­rituale o solo spirituale-sensibile. Nell'affetto coniugale le com­ponenti sensibile e spirituale non vanno concepite come opposte e contrastanti cori quella sensuale. Perciò non dovrebbero indurre conflitti interiori. Anzi. L'attività sessuale, per sua natura e per disposizione divina dovrebbe servire ad esprimere il dono mutuo, ad alimentare e costantemente approfondire l'affetto spirituale. Deve però esser esercitata rettamente, con piena sicurezza e se­renità di coscienza ed in perfetto accordo fra i due coniugi.

Ma col passare degli anni la passione dei sensi può decre­scere. Avviene allora come una purificazione spirituale dell'amore coniugale. Purificazione ed elevazione che, del resto, l'anima femminile opera sempre e per sua natura. Più delicata, tenera, materna, a poco a poco, insensibilmente suole elevare anche l'altra anima, la maschile, spesso più debole e superficiale nell'amore, quasi sempre più grossolana e densa d'istinti. La donna riesce, amando, a dimenticare anche se stessa. L'uomo cerca più egoi­sticamente il godimento. La donna sa concepire l'amore stesso come un servizio. L'uomo vive soprattutto di desideri; la don­na può vivere anche di ricordi. Hanno una struttura psichica di­versa. Ma dovrebbero completarsi a vicenda; e.cosi ognuno ve­drebbe sorgere nell'altra anima una qualche immagine di se stesso. L'amicizia perfetta (cfr. N. Salvaneschi, Breviario della felicità, Milano, 1935, pp. 65-80).

3. Il mondo (ed in questa parola comprendo anche — anzi, in modo tutto speciale — i fidanzati) suol dare ai primissimi

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anni di matrimonio il nome di « luna di miele ». E cosi i fidan­zati vanno alle nozze coll'illusione che, col matrimonio, cominci un'epoca di felicità perfetta. Ma il primo anno della vita-a-due non è generalmente il più felice e sereno. Anzitutto, la maggior parte dei giovani si unisce con un concetto errato dell'amore. Amore che difficilmente può durare se la passione, che spinge uno verso l'altro, non è basata sulla reciproca stima, sulla mutua conoscenza morale e spirituale e sulla coscienza d'una missione da compiere. Le cause per cui il primo anno di matrimonio riserva agli sposi sorprese spiacevoli, sono varie. I due sessi hanno caratteri diversi: se l'amore non ha un solido fondamento spirituale è minacciato da incomprensioni spesso gravi e, talvolta, insuperabili. La donna è, in genere, romantica, incline alla gelosia, alla permalosità, imbevuta spesso di false idee correnti che ha assorbite da certe letture. Va al matrimonio credendolo una con­tinuazione del periodo idilliaco del fidanzamento (nel quale ha molto gioco l'infatuazione). L'uomo, anche quello che ama mol­tissimo la moglie, attende forse con impazienza il termine del viaggio di nozze per riprendere il suo lavoro. Ecco allora suc­cedere i primi diverbi. La sposa vorrebbe sentire e vedere che è in cima ai pensieri del marito, in primo piano, e che tutto il resto vien dopo. Non pensa che il lavoro del marito esige da lui gran parte dei suoi pensieri e della sua attività. Il vero amore dovrebbe suggerirle di non ostacolare, ma anzi di favorire, con spassionati consigli, le aspirazioni, la vocazione (culturale, ar­tistica, politica) dell'altro, e di riconoscere ed assecondare lieta­mente le sue necessità fisiche ed anche ricreative. Chi ama pro­fondamente e ragionevolmente, non pretende per sé tutto il suo coniuge. Sia pur col dispiacere della sua lontananza tem­poranea, lo incoraggia ad assolvere tutti i suoi uffici professionali ed anche le convenienti prestazioni d'ordine caritatevole e so­ciale. Si guarda dal fargli perder tempo e rinunciare a giusti in­teressi spirituali e materiali. Si nota in qualche sposa la tendenza a troncare e rifiutare per principio tutte le relazioni sociali. Ciò potrebbe indicare un'eccessiva preoccupazione a coltivare l'unità, la totalità e l'esclusività dell'amore coniugale. Quest'esagerazione può indirettamente, presto o tardi, avere le sue conseguenze dannose. Possono sorgere penosi e pericolosi malintesi. Per evi­tarli, la sposa dovrebbe persuadersi che la vera, cristiana, dure­vole intesa col compagno le domanda anche delle rinunce. Da molte esperienze si può desumere che l'accordo coniugale dipende

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in massima parte dalla donna. Esistono, sì, delle unioni nelle quali la moglie è infelice e trascurata. E questo dipende, in mol­tissimi casi, dall'età troppo giovane degli sposi o, comunque, dalla loro mancanza di maturazione e formazione. In questi casi bisognerebbe che avessero la forza e la prudenza di attendere e curare una migliore preparazione spirituale al matrimonio. Pre­parazione che porti alla reciproca conoscenza della natura e dei caratteri. Preparazione che premunisca entrambi contro i peri­coli e le minacce dell'egoismo. La carità pura è amore di bene­volenza: fa anche dimenticare 1'« io ». La sposa non attenderà il compagno che torna dal lavoro solo per avere da lui tenerezze e parole d'affetto. Anche queste ci dovrebbero essere. Ma — da parte sua e per prima — gli preparerà un volto sorridente, una accoglienza lieta, un ambiente in cui, dopo fatiche e preoccupa­zioni, possa ristorare il corpo, rasserenare il cuore, riposare la mente.

4. La psicologia insegna che uomo e donna non hanno la stessa natura, desideri, comportamento in materia di sessualità (come, del resto, anche in altri campi: diversa natura fisico-psichica e quindi diversi oggetti d'interesse).

Il marito, in genere, domanda l'atto coniugale completo, cer­ca la propria soddisfazione sessuale nella donna (più o meno egoisticamente). La donna è più passiva, si fa cercare, richie­dere; ma, per sua natura, desidera piuttosto gli atti fisico-affettivi, preliminari all'atto coniugale. Meno desidera l'atto completo. Spesso, anzi lo tollera, più che desiderarlo. Se vogliono accordo, pace e matrimonio felice, ognuno dei due dovrebbe tener conto della natura dell'altro. L'uomo dovrebbe venir incontro al desi­derio della donna che cerca soprattutto le manifestazioni dell'af­fetto (e questo, se capita l'occasione, può delicatamente racco­mandarlo anche il confessore). Agli uomini, poi, in genere sa­rebbe da raccomandare un po' di temperanza negli atti sessuali completi (in pratica, però, è indelicato e non conviene che il con­fessore entri in questo argomento). L'uomo che ama spiritual­mente, ha un senso di rispetto per la moglie la quale, colla ma­ternità, ha i maggiori pesi, almeno diretti ed immediati. Ma ci sono dei mariti che si comportano nel matrimonio come dei bruti. Tornano a casa avvinazzati e svegliano la moglie due, tre volte in una notte. E se essa, per malattia, non può prestarsi all'atto coniugale secondo natura, vorrebbero si prestasse contro

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natura in modo indegno. All'uomo — per la sua stessa felicità — bisognerebbe ricordare il principio della discrezione. Il pia­cere sensuale (la differenza dell'affetto spirituale che non viene mai meno e cresce sempre) non muore pel fatto che l'appetito non è pienamente soddisfatto ma perché è troppo saziato fino alla nausea. Ma come oi potrà esser temperanza nell'uso del ma­trimonio in chi non è mai stato abituato a frenare le sue pas­sioni? È un'ingenuità il credere che per gli impuri il matrimo­nio risolva il problema morale.

Ma la sposa ha il dovere di rendere il debito quando il marito lo chiede ragionevolmente. E la donna fa bene ad as­secondare e soddisfare lo sposo nei suoi bisogni e desideri ses­suali giusti e decenti. Fa bene anche ad attirarlo con stimoli sessuali e non deve, per questo, aver scrupoli: l'attività sessuale non è da trascurarsi (pena, forse, pericolose conseguenze). Per­ciò una moglie avrà l'accorgimento di curare il suo vestito ed abbigliamento in quella forma e con quella eleganza che piace al marito (senza esagerazioni, si capisce, e senza mancare alla modestia in pubblico): ma ciò importa rinuncia e dono di sé perché significherà alle volte scegliere e vestire non come piace a sé ma come piace all'altro. La donna deve anche pensare che gli stimoli dell'istinto sessuale possono perdurare nell'uomo mol­to più che in lei. Qualcuna in Confessione racconta d'essere nauseata e ritrosa all'atto sessuale, d'essersi lamentata col ma­rito che lo domanda, d'avergli ricordato che, essendo entrambi ormai vecchi, è ora di finirla di pensare a certe cose. Un tale comportamento merita un'ammonizione benevola ma grave. Que­ste donne non pensano che con simile contegno possono creare pericoli per la vita morale del marito: questi, se non trova nella moglie le soddisfazioni a cui avrebbe anche diritto, forse le cer­cherà in altro modo od altrove. Però anche il marito può man­care se priva la moglie di quelle manifestazioni d'affetto in cui essa ripone la felicità della vita coniugale. E l'uomo spesso non se ne rende conto perché giudica in base alla sua natura. Se la moglie diventa infedele non è perché l'uomo s'astenga dall'atto coniugale (come può avvenire in un periodo di lunga malattia) ma perché ci sono piuttosto ragioni e tentazioni d'ordine affet­tivo, sentimentale. In genere, la moglie, se trova nel marito af­fetto, non sente il bisogno della vita sessuale propriamente detta. Quindi, nel caso in cui avesse a darsi ad altri fuori del matri­monio, il marito potrebbe interrogarsi se non sia stato anche

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lui occasione di queste crisi, perché non ha compreso la psico­logia femminile. Ci sono però, sappiam bene, anche altre cause che spingono la donna all'infedeltà: vanità, aspirazione ad attirare in tutti i modi qualche uomo di grido; bisogno di danaro o ca­pricci di spese inutili e lusso. Gravissima responsabilità. Si di­rebbe che certune sono incoscienti: non capiscono le conseguenze disastrose d'un atto di debolezza morale per chi ha una famiglia.

5. Marito e moglie devono tener sempre presente che ognuno dei due ha una sua propria e diversa psicologia, non solo in ma­teria d'affettività e sessualità, ma anche in tutte le altre espres­sioni ed aspetti della loro vita morale e spirituale. Si domanda pertanto mutuo rispetto della personalità e mutuo adattamento. In tutto. All'uomo, se giudica in base a quello che lui sente, può sembrar ridicolo quel che per la donna è tutt'altro che indif­ferente. Se il marito le ricorderà che domani essa compie ormai trentacinque anni, questo discorso può gettarla in uno stato di malinconia e depressione. Per lui sarebbe come avvisarlo che, l'in­domani, il mese ha quel numero di giorni. Perciò l'amicizia co­niugale è delicatissima ed esigentissima. Bisognerebbe che en­trambi evitassero tutto ciò che fa dispiacere all'altra parte e non è necessario dire, rivelare, ricordare. Amare significa non interrogare neppure quando si può chiaramente intuire i desi­deri dell'altro. Amare significa comunicare ciò che può far piacere. Però non bisogna neppur dar troppo peso a qualche stato d'animo passeggero. L'uomo non si impressionerà per i cambiamenti d'umore della moglie, tanto più se ne conosce il temperamento sensibile e suscettibile. Non si turberà se la vede in una crisi di pianto. Subito dopo la donna passa con tutta fa­cilità al riso. L'uomo, invece — quando s'impressiona, s'affligge, si turba — subisce un'alterazione e scossa psichica che suol esser più profonda e duratura. La donna potrà, la sera, piangere sconsolata per subito dopo addormentarsi e dormine fino alla tarda mattinata; l'uomo, se è sensibile, forse passerà una notte insonne. Bisogna dunque che gli sposi siano anche preparati a qualche cambiamento d'umore nell'uno o nell'altra. Guai se, per esempio, uno dei due pensa che l'altro non gli voglia più bene pel fatto che alle volte trascende. Certamente se questi difetti non ci fossero sarebbe molto meglio; ed ognuno dei due dovrebbe far di tutto per vincerli ed eliminarli. Ma, dopo il fatto, bisogna non darci importanza. Compatirsi e dimenticare. Cercar di sollevare e distrarre chi pare depresso. Sarebbe contro-

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producente anche il rilevare un cambiamento d'umore: la moglie, ad esempio, non dirà al marito: « cos'hai questa sera? ti è andato male qualche affare, operazione, causa? ». Ognuno s'indispone maggiormente se gli altri notano il suo turbamento o preoccupa­zione che, internamente, forse, fa ogni sforzo per superare. Bi­sognerebbe poi che la donna, di fronte a certe difficoltà (tanto più se non gravi) vincesse la sua tendenza a drammatizzarle; e l'uomo, da parte sua — conoscendo la mobilità ed impressio­nabilità dell'animo femminile — non dovrebbe, per reazione, in­quietarsi ed irritarsi, ma lasciar perder, come non dette, certe espressioni esagerate.

Diversità nella natura fisico-psichica dell'uomo e della donna. E quindi diversità nei loro oggetti d'interesse. Il che domanderà spesso il sacrificio degli interessi e dei gusti personali. La mo­glie, quando il marito torna a casa stanco e si mette a leggere il giornale cerchi di non infastidirlo — per quanto possibile — procurandogli nuove preoccupazioni domestiche. A tavola si interessi e gli parli di ciò che gli fa piacere (qualcuno parla volentieri della sua professione, qualche altro preferisce non pen­sarci durante i momenti di riposo). Ed il marito, da parte sua, mostri un po' d'interesse per le cose che sa essere in cima ai pen­sieri della donna: lavori ed oggetti domestici, vestiti, letture, qualche attività professionale o da dilettante. La moglie non s'offenda — quasi fosse dimenticata — se il marito vuol as­sistere alla televisione, ad una trasmissione di sport che a lei non interessa; non s'offenda se, dopo cena, va a fare una par­tita con gli amici. Non gli faccia rimproveri e scene perché guarda l'orologio, non gli dica che vuol più bene agli amici che a lei. Sia comprensiva e mostri di riconoscere lietamente che per l'uo­mo ci vuole anche qualche ragionevole svago. Se essa non si mostrerà troppo esigente, è probabile che il marito sia sensibile e riconoscente di fronte a tanta bontà e spontaneamente sacrifichi ogni altra ricreazione per stare con lei. Insieme al marito e per far piacere a lui sappia — se necessario — sopportare anche i parenti del marito coi loro immancabili difetti. È tanto frequente il caso di suocera e nuora in contrasto. Eppure, siccome la situa­zione a tre è spesso inevitabile, bisogna che ognuno metta, fin da principio, ogni sforzo per evitare i dissidi e conservare la pace. La parte principale sarà chiesta alla giovane sposa perché è dif­ficile prentedere che una persona anziana cambi punti di vista, abitudini, mentalità. Sulle prime, dunque, al postò d'una facile

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felicità sognata, occorrerà anche della sopportazione. Ma poi, in virtù della fede, della carità, della perseveranza, si stabilirà una armonia, frutto di comprensione e di adattamento. Ed è una grande vittoria, per una moglie, riuscir a stabilire nella propria famiglia un'armonia estesa ad altre persone oltre al marito. Al quale cosi si eviteranno quegli interni dolorosi dibattiti — causati da due sentimenti ugualmente forti — dibattiti che possono cam­biare l'umore abituale e, talora, persino il carattere.

6. Quando un confessore sentirà lamenti e lagnanze da parte di uno dei coniugi contro l'altro, non sia facile a prestar fede ed a schierarsi per una parte. Bisognerebbe sentire anche l'altra campana. Non accresca, dando subito piena ragione, l'ebollizione interna d'una persona. Ed a tutti i coniugi che vogliono pace e felicità va ricordato che entrambi dovranno compatirsi a vicenda nei loro inevitabili difetti. Purtroppo, qualche volta, una moglie dovrà perdonare al marito se verrà a conoscere qualche isolato atto materiale d'infedeltà; certi uomini pensano che in ciò è in gioco solo un bisogno fisiologico (specie quando la moglie non può prestarsi all'uso del matrimonio): soddisfazione d'un bisogno compatibile col profondo amore alla propria donna, se non do­nano anche il cuore ad un'altra persona. Non si può scusarli, ma essi ragionano cosi ed intimamente possono ben conservare la fedeltà alla moglie. La quale, di fronte ad una semplice av­ventura passeggera del marito, farà quasi sempre bene a chiuder un occhio comportandosi come se non ne sapesse nulla e facendo di tutto per dare al marito le oneste soddisfazioni sessuali che desidera. Si domanda alla moglie, in questi casi, autocontrollo ed umiltà: quel che importa è che le sbandate non si ripetano. Se invece si trattasse di un marito che si è lasciato conquistare completamente, con tutta l'anima, da un'altra donna, allora c'è da metter forse in discussione tutto un « modus vivendi » e cercar le cause ed i rimedi della nuova grave situazione veri­ficatasi. Ho fatto il caso dell'infedeltà del marito e taciuto quello della moglie: non perché sia quasi sempre e solo l'uomo colpe­vole di questo tradimento. È anche pacifico che entrambi han­no gli stessi doveri e diritti: l'infedeltà è, per sé, ugualmente riprovevole nell'uno e nell'altra. Di fatto l'adulterio consumato dalla moglie assume spesso gravità e conseguenze maggiori, per un complesso di circostanze accidentali, sia esteriori, sia interiori. La donna — per la sua stessa psicologia — quando si dà ad un uomo (se non è per ragioni d'interesse materiale) lo fa per mo-

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tivo d'affetto: toglie al marito il suo cuore per darlo ad un altro. Comunque, di fronte a mancanze di fedeltà, la carità sug­

gerisce anzitutto, e soprattutto, che si cerchi di non rompere l'unità della famiglia; che, lasciando da parte lo stretto diritto, non si ricorra alle vie legali per ottenere la separazione; che si compatisca, si perdoni e si dimentichi; che si usino tutti i mezzi per ricostituire l'unione coniugale affettiva e cosi superare le tentazioni contrarie. Finché è possibile e c'è speranza, s'intende. Perché in qualche caso un coniuge può perder ogni freno, come uno squilibrato ed un irresponsabile, cosi da render per l'altro insopportabile la convivenza.

7. Se l'infedeltà <— anche quella spirituale è un male grave e può esser la rovina del matrimonio, c'è pure un difetto oppo­sto ed è la gelosia. Uno stato di tormento che supera i limiti del giusto e del normale. Può ben aver origine dal fatto che un coniuge è stato trascurato dall'altro il quale ha preferito una terza persona. Alle volte però la gelosia è senza fondamento, uno stato psichico nel quale la naturale tendenza egoistica può di­ventare morbosa, una specie d'idea fissa che colpisce ed afflig­ge un soggetto strutturalmente nervoso. Un'ossessione che fa vedere in ogni atto del coniuge i sintomi della freddezza, una minaccia di tradimento. Il geloso soffre indicibilmente, l'altro s'irriterà tremendamente vedendo interpretata ingiustamente ogni sua azione. Una situazione che impedisce la pace, porta una ten­sione (che in qualche caso ha una tragica conclusione).

Bisogna eliminare questo male, combattere questo pericolo. Se il fenomeno fosse effetto d'uno stato d'esaurimento psichico, bisogna ricorrere al medico, oltre che al direttore spirituale. Come pure nel caso che la sofferenza — pur avendo anche una causa obbiettiva — raggiunga un'intensità superiore alle resistenze fi­siche d'una persona. Dal punto di vista spirituale, ognuno dei due agisca apertamente e con semplicità, senza reticenze e sot­terfugi: nulla si nascondano (eccetto quanto riguarda il segreto professionale). Allora ci sarà piena fiducia mutua che esclude ogni sospetto d'infedeltà. E quando c'è il vero ed equilibrato amore, nessuno dei due pretenderà che l'altro tronchi ogni preesistente rapporto di convenienza con persone dello stesso o dell'altro sesso. Pena il creare, un po' alla volta, il deserto intorno alla famiglia.

D'altra parte né l'uno né l'altro dev'esser troppo sicuro del

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suo amore. La tentazione può giungere per tutti. E chi comincia colle piccole concessioni non sa dove può giungere, trascinato insensibilmente dalla passione che s'ingigantisce ed acceca. Forse, ad un dato momento dovrà confessare a se stesso: non so spie­garmi come ciò sia possibile, ma del mio pensiero, del mio cuore, della mia vita s'è impossessata una terza persona.

IL II problema dei figli e k loro educazione 1. L'amore coniugale è fecondo {Hum. vitae, 9). Però es­

senzialmente e direttamente unisce due persone. Ed il matrimonio non dovrebb'esser motivato solo da fini che non sono il mutuo amore degli sposi. Non ha il vero affetto chi cerca e tiene caro il proprio coniuge solo (dico « solo ») come uno strumento per ave­re dei figli, continuare la famiglia, o solo per avere una qualsiasi sistemazione, rinsanguare le proprie condizioni economiche. Simili finalità (anche se non esclusive) erano abbastanza frequenti ed influenti specialmente nel passato, anche nei fidanzamenti dei migliori.

I figli sono una conseguenza dell'amore. Il quale, se non è prima e soprattutto personale, avrà fragili puntelli. Quando sopraggiungeranno le difficoltà della vita comune o s'accenderà in uno dei due una forte attrattiva verso una persona estranea, allora scoppieranno i dissensi, i bisticci, e, forse, si profilerà il pericolo d'una separazione.

2. Gli sposi dovranno interrogarsi sul problema dei figli: nu­mero ed educazione.

Riguardo al numero dei figli, si dice che ci possono essere due opposti eccessi: uno è quello di considerare la prole come un peso evitandola per non abbassare il tenore di vita della fami­glia e per non dover, alla morte, divider troppo i beni ereditari; l'altro eccesso è di voler una famiglia numerosa, senza conside­razione e senza discrezione, per una certa qual ambizione. Nelle nostre regioni europee è molto e molto più frequente il primo difetto a causa di calcoli troppo umani e per mancanza di fiducia nella Provvidenza. Pertanto, se in Confessione si dovrà far que­stione circa questo argomento, sarà normalmente sull'uso delle pratiche anticoncezionali.

Ci sono sposi che vorrebbero avere un bimbo, ma non pos­sono o perché sterili o perché è stata loro sconsigliata la procrea­zione naturale a causa del pericolo d'un'ereditarietà tarata. A questi — diceva Pio XII in uno dei suoi ultimi discorsi ai me-

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dici, il 12.IX.58 — « si suggerisce il sistema dell'adozione. Si constata, in fondo, che questo consiglio è in generale seguito da felici risultati e rende ai genitori la felicità, la pace, la se­renità... Sotto l'aspetto religioso bisogna chiedere che dei figli di cattolici si prendano cura genitori adottivi cattolici; la mag­gior parte delle volte infatti i genitori finiscono con l'imporre al loro figlio adottivo la propria religione » (Disc, ai med.t Roma, Ed. « Orizz. Med. », 1959, pp. 709-710).

3. Neil'educazione, dei figli è da augurarsi che padre e ma­dre non procedano ognuno per conto proprio, ma di comune accordo, evitando, per quanto possibile, conflitti e divergenze. Allora i figli non si sentiranno oggetto di due influssi alternativi, non saranno messi in imbarazzo e perplessità, nelle loro scelte, da due direttive diverse. In pratica si domanda che entrambi i coniugi, sorretti dall'amore e guidati dalla comprensione, guardino spassionatamente al bene ed al meglio nella formazione dei figli, e poi procurino di seguire la stessa linea sia nel metodo educativo sia nei consigli determinati che daranno. Se in una data questione — che per un figlio può avere un'importanza e conseguenze decisive — egli ricevesse dai genitori due suggerimenti fra loro contrastanti, allora potrà consultare un consigliere illuminato e fare la sua scelta responsabile davanti a Dio preferendo il consiglio migliore, sia esso quello del padre o quello della madre.

4. Molti sono i problemi dell'educazione sui quali i genitori dovrebbero riflettere, studiare, esaminarsi. Pochi lo fanno con serietà e senso di responsabilità.

Hanno anzitutto il dovere del buon esempio. Dovrebbero anche ripensare all'educazione che essi stessi hanno

ricevuta e chiedersi se sia stata intelligente, indovinata, sufficien­temente curata.

Occorre equilibrio in tutto. Non accontentare i figli in ogni loro capriccio; ma neppure stroncare (volendo dominare colla forza) ogni loro personale iniziativa.

Non preferire uno agli altri. La riuscita negli studi non deve esser né l'unico né il massimo criterio d'apprezzamento. Talora avviene che chi (fra i fratelli) ha minore intelligenza, prontezza d'intuizione, precocità, viene umiliato con odiosi confronti. Si mostri di stimare soprattutto la bontà, la buona volontà e la laboriosità.

I genitori orienteranno i figli chiamati a formarsi una famiglia.

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Ma useranno « il prudente consiglio, che possa esser ascoltato vo­lentieri. Eviteranno di indurli con coazione diretta o indiretta a contrarre matrimonio od a scegliere come coniuge una determinata persona » (GS, 52). Circa la scelta dello stato devono « favorire la vocazione sacra » (LG, 11). Quindi aiutare a scoprire, e poi asse­condare, la vocazione autentica del giovane. Non voler quasi im­porre tradizioni e pregiudizi familiari irragionevoli. Importantissi­mo e delicatissimo il loro compito in caso d'eventuale vocazione d'un figlio al sacerdozio od alla vita religiosa. Nessuna pressione (la quale, pel passato, talora non mancava): il giovane deve con­servare la massima libertà nella scelta del suo stato. Ma i genitori possono e devono ben influire positivamente in modo indiretto. Anzitutto infondendo nei figli un altissimo concetto ed una stima profonda della vita sacerdotale e religiosa. Poi abituandoli ad un regime di vita discretamente austero. È perché s'è bandita la parola «mortificazione» che molti genitori vogliono pochissimi figli; e per la stessa ragione fra questi pochi le vocazioni sono rare e non sono favorite. E cosi le missioni mancano di missionari. E le conversioni diminuiscono (AG, 20).

Bisognerebbe che i genitori sorvegliassero specialmente le amicizie dei figli. Fin dalle prime, in modo che i giovani s'abituino ad essere discretamente controllati e saggiamente consigliati in questo punto. Una certa sorveglianza, poi, occorrerebbe sulle let­ture e sui cinema che frequentano. Ed anzitutto i genitori non dovrebbero condurli a vedere spettacoli pericolosi. Ma ci sono mamme che portano figli e figlie a films segnalati come grave­mente offensivi della dottrina e della morale cattolica, senza essersi prima informate della qualità dello spettacolo.

Sarebbe compito anzitutto dei genitori (e non della scuola pubblica) anche un'opportuna educazione sessuale (o, meglio, alla castità). Non dovrebbero disinteressarsene del tutto ma prepa­rarsi a darla tempestivamente, rettamente, discretamente, secondo il ragionevole bisogno del singolo. Quando il giovane o la giovane hanno bisogno « ragionevole » di conoscere « i misteri della vita » l'ignoranza non è più benefica. Per esempio, la ragazza di ieri andava talora al matrimonio ignorante ed impreparata. Ora — è stato scritto — « è necessario che la fanciulla conosca, riconosca e rispetti in se stessa il mistero proprio della donna eterna, di cui porta nel suo essere il germe e la rassomiglianza. La fanciulla di domani, a differenza di quella di ieri, non dev'essere un'ignorante poiché c'è un'immensa differenza fra ignoranza e innocenza ».

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Ma « sul problema importantissimo della conoscenza della vita, la scienza non basta. Ci vuole anche una specie di conoscenza del mistero », Bisogna « far si che la scienza non sia soltanto una conoscenza tecnica, ma scienza totale, completa, piena; la scienza che non si limita a conoscere un meccanismo, ma che conosce la finalità di questo meccanismo, cioè il suo significato profondo » (J, Guitton, La fanciulla di domani, OR, 18.XII.75). Special­mente la donna può e deve avere questo senso del mistero. Saprà allora elevare anche l'uomo al di sopra di se stesso e del proprio egoismo.

Riguardo agli studi ed al lavoro, bisogna certo coltivare nel fanciullo il senso del dovere: non marini la scuola, stia attento all'insegnamento, faccia i suoi compiti, prenda passione per qual­che lettura adatta (passione che nasce solo se si comincia anche con qualche sforzo a leggere il libro che piace ed interessa). Quindi i genitori spingeranno ad applicarsi i figli indolenti. Ma special­mente bisognerebbe suscitare in essi interesse per l'oggetto del loro studio (o lavoro manuale) e non limitarsi ad imposizioni, rimproveri, castighi. Ci sono genitori che credono di educare soprattutto con le busse, talvolta brutalmente. Spesso non è che manchi la voglia di lavorare: manca o la capacità, o l'attitudine, o l'amore e l'entusiasmo per un dato genere di studi. Non si sfor­zerà quindi nessuno ad avviarsi per una professione alla quale non sente inclinazione. E non si dovrà sovraccaricare di lavoro spalle ancor tenere né pretendere dei risultati superiori, forse, alle capacità d'un ragazzo (alcuni hanno un ingegno precoce, pron­to, intuitivo, altri hanno uno sviluppo intellettuale più ritardato, sono più lenti e riflessivi). Non si drammatizzerà quindi se un esame è andato male come se l'esame fosse un criterio assoluto del sapere od il massimo problema nella vita del fanciullo. Qualche genitore dà più importanza alla pagella scolastica che alla vita morale del figlio. Per un esame rimandato lo tormentano tutte le vacanze. Con metodi troppo severi si può opprimere un'anima che sta sbocciando alla vita, render infelici i primi anni della vita cosciente. Impressioni, amari ricordi, sforzi inumani si riflettono poi su tutta un'esistenza. Certo, bisogna educare il piccolo a saper rinunciare per qualche tempo al gioco, a star fermo (se possibile) a scuola od in chiesa. Però non misuriamo condotta, disciplina e devozione in base al tempo che riesce a star immobile a braccia conserte o a mani giunte (§econdo la pedagogia di qualche maestro del passato). Bisogno che ogni fanciullo trovi — in casa e a scuola

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un ambiente caldo d'affetto, sereno, dove possa sentirsi sicuro, fiducioso, godere la giusta libertà senza timori e tremori. È dunque certamente preferibile interessare il ragazzo nei suoi doveri ed ottenere che compia quello che è bene perché gli piace. Però è pure sana misura pedagogica, se non basta l'amore, ricorrere a qualche motivo di timore. Tutto sta usare di questo mezzo con discrezione. Bisogna evitare ogni eccesso: anche un'educazione ed un ambiente troppo austeri, senza le. necessarie ricreazioni e le buone amicizie, possono produrre reazioni pericolose.

I genitori devono interessarsi degli studi dei figli e (nel caso che non continuino gli studi) del lavoro che intraprendono. Oggi, diversamente dal passato, non solo i ragazzi, ma anche le ragazze si orientano giovanissime verso un posto di lavoro. Per sé, niente da eccepire (se non hanno attitudine allo studio e non c'è necessità della loro presenza in famiglia): meglio lavorare che oziare. Però per chi lavora fuori di casa ci sono innumerevoli pericoli. I geni­tori pertanto non devono disinteressarsene. Non devono preoccu­parsi soprattutto che una ragazza realizzi il maggior guadagno possibile, ma che quel dato lavoro non le sia dannoso. Dannoso per il fisico, quando fosse troppo faticoso od eccessivamente seden­tario. Dannoso per lo spirito: in certi ambienti s'annida la corru­zione (che dai dirigenti si propaga ai dipendenti), si fa professione d'ateismo, si getta in ogni modo il disprezzo sulla religione e sulla moralità. I figli, dal canto loro, dovrebbero — anche se concor­rono al sostentamento della famiglia — riflettere sulla propria inesperienza, prestar fede al prudente consiglio dei genitori e non affidarsi solo alle proprie vedute ed ai propri impulsi. Noto in particolare che se i denari o le spese d'una figliuola superano i limiti dello stipendio, i genitori hanno ragione di nutrire preoc­cupazione e sospetto che ci siano anche dei guadagni poco puliti.

5. Infine, non si può non accennare ad un gravissimo proble­ma: il lavoro extradomestico della donna (anche sposata). Oltre ad una mentalità nuova che proclama l'individualismo e l'emanci­pazione femminile, ci sono spesso reali necessità economiche che allontanano la donna dal focolare. Non si discute sul diritto ch'essa ha ad assumersi uffici che pel passato erano riservati all'uomo. Non si nega neppure che la donna, lavorando accanto all'uomo possa contribuire ad un ingentilimento dei costumi, elevare e ren­dere migliore il suo compagno di lavoro. Però una donna, anche se — sotto la pressione delle condizioni economiche — è obbligata

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a cercar lavoro fuori di casa, non deve dimenticare che il suo vero compito resta sempre quello di sposa e dà madre. Se essa ha diritto a lavorare fuori di casa, anche il fanciullo ha diritto alle cure di sua madre (la sola persona dotata da Dio di tutte le qualità per educare le creature che essa ha dato alla luce). Son troppo fre­quenti i casi di giovani traviati perché non hanno avuto le cure d'una madre. A parte tutti i pericoli morali che la donna stessa trova fuori di casa e che le impongono precauzione continua. Biso­gnerà poi cercar il modo che sia sentita il meno possibile la sua lontananza dalla casa cosicché possa sostanzialmente adempiere la sua missione di sposa e di madre. Si procurerà, ad esempio, che le ore di lavoro extradomestico coincidano con quelle della scuola dei figli. Sia fermo che i genitori non potranno mai abdicare al loro compito educativo lasciando ogni preoccupazione alla scuola od a terze persone.

3. Nubili

I. Con questo termine intendo significare quelle giovani che — pur restando nel mondo — non si sposano e probabilmente non si sposeranno mai. Per quali motivi? Come si vedrà, alcuni paiono tutt'altro che validi. Non è quindi escluso che una serena resipiscenza induca, un momento o l'altro, al matrimonio qualcuna che in un primo tempo aveva, magari per una delusione, deciso di rinunciarvi per sempre.

Ordinariamente, coloro che sacrificano le nozze umane per contrarre quelle mistiche collo Sposo Divino abbracciano la vita religiosa entrando in un convento o si iscrivono ad un Istituto Secolare restando e continuando la loro vita nel mondo, facendo i voti privati di castità, obbedienza e povertà a norma delle Costituzioni dei singoli Istituti.

Dio ha dato ad ogni donna una costituzione fisica ed un tempe­ramento morale fatti per la maternità. E difatti molte che pur vogliono conservare la loro verginità per il Regno dei cieli, dichia­rano che sarebbero felici se potessero avere delle maternità senza rinunciare alla consacrazione totale — di anima e di corpo — che hanno fatto al Signore. Difatti non si tratta solo di una rinuncia: devono elevare ad un piano superiore l'amore e la maternità dandovi un'apertura senza limiti che supera gli stessi legami del

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matrimonio. Amore e maternità che saranno soprannaturalizzati dalla fiamma dell'amore divino.

Ma varie sono le situazioni, vari (e qualche volta discutibili) i motivi che inducono una giovane a rimanere nubile nel mondo (cf. G. Grimaud, Non-mariées, Paris, 1933).

1. Alcune erano entrate nella vita religiosa, ma la salute fisica non ha resistito. Tuttavia hanno conservato vivo l'ideale. Pur uscite dal convento perseverano nella consacrazione del loro cuore a Dio e nel proposito di conservarsi vergini.

2. Altre avevano la vocazione religiosa, ma hanno trovato in famiglia un'opposizione inflessibile. Non hanno avuto il coraggio e creduto opportuno fare un colpo di forza. Hanno atteso giorni migliori. Ma quando questi son giunti, forse era troppo tardi.

3. Qualche altra non trova un'espressa opposizione a farsi suora da parte dei genitori. Ma pensa che senza il guadagno che porta in casa, come frutto del suo lavoro, essi stenterebbero a vivere. In qualche caso poi uno dei genitori è gravemente amma­lato, paralizzato o cieco, ed ha bisogno di continua assistenza. In tali situazioni la giovane pensa che il comandamento: « onora il padre e la madre » prevalga sul consiglio: « vieni e seguimi ». E rinuncia alla vita religiosa. Quando si troverà libera da questi legami e doveri familiari, la giovane potrà realizzare il suo sogno di vita religiosa. Ma, alle volte, è ormai troppo anziana per entrare in convento. Non le resta che continuare a vivere sola nella propria casa.

4. C'è anche la giovane che avrebbe avuto la vocazione, non alla vita religiosa, ma al matrimonio, però — per le condizioni familiari — ha sentito l'invito interiore alla rinuncia. È la più anziana d'una numerosa nidiata di fratelli dei quali l'ultimo è appena nato. La madre è ammalata e dopo poco muore. La primo­genita forse è già fidanzata, ma come fa ad abbandonare la fami­gli ed il padre in lagrime? Coraggiosamente darà l'addio al fidan­zato per un eroico sacrificio.

5. Alcune non si decidono a sposarsi perché sono spaventate pensando ai pesi ed alle sofferenze della maternità, agli obblighi (non facili specie per l'uomo) d'osservare la legge di Dio nell'uso del matrimonio, alle responsabilità di condurre una famiglia* di educare (oggi specialmente) dei figli. Certo non esiste, per sé, una legge che obblighi a sposarsi e ad avere dei figli, tutti, indistinta­mente, coloro che non scelgono la verginità per il Regno dei

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Cieli, essendo la moltiplicazione del genere umano in pratica sufficientemente assicurata. Nel caso concreto sarà da considerare prudentemente quali siano i motivi ed i propositi di vita che determinano la rinuncia alla vita coniugale. (Faccio il caso della donna e non quello dell'uomo la cui situazione è diversa per tante ragioni). Se fosse per aver tutto il tempo di dedicarsi ad attività benefiche con tutta l'anima e tutto il cuore — educazio­ne dei giovani, carità ed assistenza sociale, ricerca scientifica — non sarebbe da riprovarsi una giovane che sceglie questo stato (sempre supponendo che sappia conservare la continenza). Ma se fosse solo per godere la libertà (sia pur onestamente), e non avere i pesi del matrimonio (sapendo che, in genere, sono maggiori delle gioie), allora una donna non sceglierebbe certo la via più perfetta: rifuggirebbe dall'impegnarsi in una professione: quella di sposa o di madre che rende più meritoria la vita e più facile e più proba­bile la santificazione. In conclusione, per restare nelle scelte degne di stima, bisognerà decidersi fra il matrimonio (colle sue gioie e responsabilità) ed una vita piena di attività che importino fatica ma forse meno rischi e responsabilità del matrimonio.

6. Ci sono le sfortunate che avrebbero la vocazione al matri­monio ma mancano delle doti fisiche richieste o d'una salute sufficiente. Per questo (o per qualche altra ragione) non trovano il fidanzato che abbia le qualità per renderle felici.

7. Alcune, già fidanzate, sono state private dell'uomo che amavano — perito in un incidente o in guerra o per malattia violenta. Ed il dolore della giovane è talora cosi grande che essa sente la sua vita spezzata. Qualcuna, dopo qualche tempo, gradatamente riacquista la serenità e rientra nella normalità della vita, sente il desiderio di sposarsi ed accetta la proposta di qualche pretendente. Ma molte pensano che sposandosi tradirebbero il primo uomo che hanno amato con tutto il cuore e restano quindi nella categoria delle nubili generose.

8. Ci sono anche quelle che non possiedono l'arte di farsi amare e stimare. Arte difficile che domanda criterio, tatto, sen­sibilità, sforzo. Si lanciano violentemente all'assalto d'un fidan­zato ma usano un contegno, ostentano un abbigliamento, tengono un linguaggio che, invece di conquistare gli uomini migliori, li lascia quanto meno perplessi. Possono esser ragazze fondamen­talmente oneste ma non riflettono che col loro modo di fare provocante suscitano — come donne di malavita — in alcuni

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tentazioni, mentre non attirano i giovani che hanno seri propositi di matrimonio. S'illudono e s'ingannano. Vanità e leggerezza più che altro esteriori: ma che fan pensare sia tale anche l'interiore e cosi non offrono ai giovani benpensanti garanzie di virtù e di doti sostanziali. Rischiano di restare nel regno delle nubili, per sempre, se non mutano condotta.

9. E r i sono le giovani difficili che nessun partito trovano soddisfacente. Lamentano che il pretendente o non ha qualità fisiche e spirituali affascinanti, o non ha una professione abba­stanza degna, o non ha le desiderate virtù e doti morali, od ha origini troppo modeste (a questo proposito è ben augurabile che fra i due fidanzati non ci sia troppa diversità di condizione). Se queste ragazze cercano nel fidanzato quello che è difficilissimo a trovarsi e pretendono quello che esse stesse forse non possono offrirgli, finiranno per restar nubili. Dovrebbero prepararsi a cer­car l'essenziale: amore vero, bontà e principi religiosi e morali, salute, intelligenza e amore al lavoro che assicurino il manteni­mento della famiglia: la felicità coniugale domanda questi requi­siti ma non dipende da altre risorse — come la posizione elevata e distinta, i molti denari — che sono elementi accidentali.

10. C'è la giovane che ha intrecciato un'amicizia con uno sposato (forse infelice nel suo matrimonio). Questa relazione che qualche volta resta solo sentimentale, spesso diventa sessuale, talora provoca la rottura d'una famiglia, porta al divorzio ed al matrimonio civile. Se ci- si arresta all'amicizia segreta, questa, dopo anni, ad un dato momento può venir meno. Il marito può riavvicinarsi alla moglie. Ed allora la sua amica resterà sola. Dopo aver spremuto dal suo cuore tutto l'affetto per un uomo, è quasi certo che non cercherà e non troverà un altro per sposarsi.

11. Qualcuna aveva riposto tutto il suo amore — il primo, prorompente, ardente — e tutte le sue speranze in un giovane dal quale aspettava la domanda di matrimonio. Ma un dato giorno, viene a sapere ch'egli s'è fidanzato con un'altra giovane. La ragazza delusa cade in un tale abbattimento da ritenersi incapace d'amare altri. Resterà nubile. Uguale conseguenza può avere la decisione del giovane di farsi religioso o sacerdote. Ma la decisio­ne di non più sposarsi da parte d'una tale giovane, che è stata abbandonata, è una decisione priva di giustificazione e di ragio­nevolezza. Passato il primo periodo di abbattimento, essa deve credere che Dio la chiama alla missione di sposa e di madre, fa

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bene a dimenticare il passato ed a cercare la felicità invece di chiudersi in amari e sterili rimpianti.

I I . Qualunque siano le circostanze che han condotto una donna a non sposarsi, sia questo suo stato volontario o non vo­lontario, causato da qualche colpa o da qualche disgrazia, la nubile, ad un dato momento deve ritenere che la sua condizione rientra nella volontà di Dio. Alla quale bisogna conformarsi sforzandosi di santificare questo stato liberamente scelto od im­posto dalla necessità.

1. Una nubile — specialmente se iscritta ad un Istituto Secolare di Perfezione — ha più tempo e maggiori mezzi spiri­tuali che una sposata, per attendere alla propria vita interiore ed alla propria santificazione.

2. Non mancano tuttavia i pericoli, sia interni, sia esterni. Non bisognerà meravigliarsi né spaventarsi se sorgeranno delle tentazioni (anche per chi ha fatto un taglio netto col mondo). Bisogna stare in stato di continua vigilanza ed in posizione di difesa perché si son visti cadere anche i cedri del Libano. In qualche momento l'anima della nubile sarà assalita dalla impe­tuosa nostalgia d'una famiglia propria, avrà l'impressione do­lorosa che la sua vita sia inutile e stroncata. Momenti tristi, più tristi e pericolosi per la signorina ricca che non ha un lavoro assorbente, ad orario fisso, non ha preoccupazioni materiali che riempiano la sua vita e la sua giornata.

3. Perciò non si raccomanderà mai abbastanza ad una nu­bile di esser sempre occupata in lavori che siano impegnativi e non solo gingilli per passatempo. Tante occasioni si daranno per le generose prestazioni d'una nubile. Prestazioni ed aposto­lato che cominceranno dai suoi parenti per poi estendersi ad altri secondo l'opportunità e le circostanze. Quasi ogni nubile ha una famiglia con sorelle, fratelli (forse minori); e poi ci sono le famiglie dei fratelli e delle sorelle dove qualche mamma passa molte, ore della giornata fuori casa, occupata in fabbrica od in ufficio. L'aiuto d'una sorella è provvidenziale. Essa saprà la­vorare nell'ombra, dotata d'una maternità più umile, più timida della maternità vera, ma tanto soave e commovente. Queste coadiutrici sono come angeli: sempre presenti ma quasi invisi­bili. Angeli specialmente di pace perché le famiglie nelle quali vivono non saranno sempre il soggiorno della pace. Anche nelle case nelle quali non vi sono grandi motivi di discordia succedono

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spesso piccoli malintési e screzi. La nubile non entrerà in queste contese come giudice ma come conciliatrice dei cuori, cercando di trovare la parola che scusa una dimenticanza, attutisce un ri­sentimento. Anzitutto e soprattutto starà ben attenta a non far nascere i malumori, a non mettere in risalto i difetti del marito o della moglie.

Allora, così occupata, la nubile sentirà che, se è sola, non è isolata, che la sua vita non è inutile e sterile. Il campo di bene che si offre — ad ognuno che ha la buona volontà di soccorrere il prossimo — è vasto quanto il mondo e le occasioni si pre­senteranno e si moltiplicheranno continuamente.

4. Dicono che ci sono certi difetti propri delle donne che non si sposano. Difetti, intendiamoci, che possono ben unirsi a tante virtù. Ad esempio, la tentazione ad insuperbirsi del proprio stato disprezzando il matrimonio come uno stato inferiore. Realmente la verginità (scelta per un motivo soprannaturale) è superiore alla vita coniugale. Ma a questo principio bisogna aggiungere un dato di fatto: ci sono fra gli sposati anime elette alla cui santità tutti devono inchinarsi.

Se la donna, in genere, ha un cuore particolarmente sensibile, la creatura che è sola e priva d'affetti può andar soggetta ad una ipersensibilità per cui soffre e fa soffrire gli altri. L'ipersensi­bilità porta tristezze e disuguaglianza d'umore, paralizza lo slan­cio e l'energia ad operare il bene, fa perder tempo: lascia libero il corso alla fantasia la quale spazierà nell'irreale, sognerà l'im­possibile. È necessario un continuo energico autocontrollo.

È anche naturale che nel cuore solitario della donna che non ha potuto sposarsi s'insinui la tentazione dell'invidia sottile ver­so l'amica che ha realizzato il suo sogno d'amore, che sembra felice nel suo nido col marito ed i figli. Se l'invidia è assecondata può tradursi in espressioni di critica e di maldicenza. Bisogna reagire ricordando che la maggior parte dell'umanità — anche se agli altri sembra realizzare, col più invidiabile matrimonio, ogni suo desiderio — in realtà non attinge che una felicità molto im­perfetta o, comunque, precaria. Mentre c'è una felicità umana anche per la donna che non si sposa, qualora sappia organizzare la sua vita per un ideale di bene e per la gloria di Dio.

5. Una nubile ormai decisa a non sposarsi si guarderà da tutto quanto può turbare quella pace che ha ormai conquistata o cerca di conquistare. Ci sono letture che è meglio evitare, quando siano troppo sentimentali, romantiche, perché snervano

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l'anima, ridestano rimpianti: una nubile ha bisogno d'vin'anima virile, e quindi di letture forti, sane, nutrienti. Altrettanto si dica dei films. Riservatezza, delicatezza, austerità è poi necessaria nei discorsi delle nubili. Se bisognerà toccare certe piaghe, lo si faccia (come deve farlo un sacerdote) per necessità e solo a scopo di bene, evitando ogni compiacenza, ogni curiosità inutile e soprattutto procurando di non restare invischiati. Ma in certi ambienti mondani vien fatto di sentire qualche signorina che parla dei problemi del sesso e del matrimonio con estrema libertà lasciando in qualche ascoltatore un'impressione sgradevolissima e penosissima.

È da attendersi che una nubile senta il bisogno di qualche amicizia. Ma certe amicizie ostacolano la libertà dello spirito, impediscono il volo dell'anima verso la perfezione. Sono le amicizie sensibili che generano inquietudine, tolgono la sere­nità, assorbono e concentrano l'anima nel pensiero continuo della persona amica, sono le amicizie che reclamano anche il con­tatto fisico e le esterne manifestazioni d'affetto. Si tenga come regola che le amicizie it9 persone di sesso diverso non si man­tengono, per solito, sul piano esclusivamente spirituale: a lungo andare diventano sensibili e sensuali, almeno se non si tratta di anime di vera vita interiore e se, una almeno, non possiede un'au­tentica santità.

6. Per una nubile, dunque, non mancano gli ostacoli lungo la non facile via della perfezione, alla quale deve credere d'esser chiamata. Ha perciò bisogno d'una pratica assidua della pre­ghiera e di una discreta ed equilibrata direzione spirituale. Abbia, fra il suo programma, anche il proposito d'irradiare la gioia. Gioia che nasce dalla coscienza di esser un'esistenza non già fallita ma ricca di risorse interiori utilizzabili a render meno infelici tante anime ed a raggiunger più facilmente il fine supre­mo della vita.

4. Vedove

Vedovanza: uno dei più crudeli dolori. Un dolore che, sulle prime, pare inconsolabile. La perdita del marito sembra stron­care anche la vita della moglie. Una esistenza si spegne ed un'altra precipita nella desolazione, fino forse ai confini della disperazione. La vedovanza è la più grande sventura per una

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donna, specialmente se giovane (quantunque spesso non sia me­no cupa l'afflizione d'una vedova anziana). La donna è per na­tura più debole, ha bisogno di protezione e d'appoggio. La ve­dova è come l'edera che resta senza l'olmo che la sosteneva. Sola, senza quel complemento spirituale ed affettivo che le era un naturale bisogno, talora priva d'una sicurezza e d'un'autono-mia materiale ed economica. Se ha figli, la sua solitudine è meno grave, ma sentirà gravare solo su di sé la difficile missione d'educarli. Ci sono i famigliari ed i parenti: ma, da questi, spesso, avrà più motivi di sofferenza che aiuti spirituali e materiali.

C'è un'altra ragione — al di sopra d'ogni egoismo ed inte­resse — che spiega perché la vedovanza sembra stroncare la vita d'una donna: una ragione inerente alla sua psicologia ed alle sue aspirazioni naturali. « La donna è alterocentrista, fa centro cioè del suo piacere, della sua ambizione, non in se stessa, ma in un'altra persona che essa ama e da cui vuol esser amata... mentre l'uomo fa centro dei propri piaceri, delle proprie ambizio­ni in sé » (G. Lombroso, L'anima della donna, I, Bologna, Zani­chelli, 1926, p. 6).

In questo stato di desolazione le facoltà dell'anima sembrano paralizzate mentre memoria e fantasia della donna sono avvinte dai ricordi e dai rimpianti. Nulla di quanto la vita può offrire serve a consolarla ed a distrarre il suo spirito ma si trasforma in motivo di malinconia e di turbamento. Solo col passare del tempo — grande medicina — potrà tornare un po' di sereno. Ma, qualunque siano le impressioni, una vedova non deve pen­sare d'aver perduto la fede e la speranza. Tant'è vero che simile stato di quasi disperazione si verifica talora (per dolori spirituali od esaurimento nervoso) anche in anime sante le quali — come dichiarano — anche se potessero farlo, non vorrebbero cambiar nulla di quanto Dio ha disposto.

I. Nel primo periodo della sua vedovanza, una donna può sentire la sua anima cosi presa dal ricordo del marito da esser ten­tata di chiudersi in se stessa, di vivere solo di memorie e di consi­derarsi ormai incapace d'ogni attività. Anche l'affetto verso i figli sembra quasi assopito. Non è questo che Dio vuole. Sulle prime, occorrerà uno sforzo per superare questo stato di para­lisi spirituale. Ma, col passare del tempo, per una legge di natura, la vita riprenderà a pulsare colle sue speranze, le sue gioie, i suoi ideali. La vedova prenderà coscienza che il suo amore per il compagno che è in Cielo — ed è presente, in spirito, nella sua

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casa — si dimostra colle opere. Anzitutto (impegnandosi a dare ai figli una saggia ed accurata educazione. E, passato l'uragano del primo dolore, la vedova lascerà il posto alla madre.

Ci sono anche motivi di grande consolazione in questa sven­tura.

1. Anzitutto la fede assicura la vedova d'esser amata da Dio con un amore di predilezione. Amata ed assistita dalla Sua Prov­videnza.

La Scrittura mette la vedova sullo stesso piano del pupillo. Nell'Antico Testamento si legge che Dio ne prendeva le difese (Deut. 10, 18). « Non nuocerete alla vedova ed al pupillo. Se farete loro del male, grideranno a me; io udirò il loro grido... » (Es. 22, 23). E fa dire al profeta: « Non fate torto alla vedova ed al pupillo, al forestiero ed al povero » (Zac. 7, 10). La legge ebraica poi voleva che fosse assicurato il sostentamento della vedova. Come pel levita, cosi pel forestiero, il pupillo, la vedova, i quali si trovavan dentro le porte, si doveva metter da parte in tutte le case la decima triennale d'ogni prodotto (Deut. 14, 28-29; 26, 12-13). Ognuno doveva ammetter ai banchetti nelle feste delle Settimane e delle Capanne, oltre ai figli, agli schiavi, al Levita, al forestiero, all'orfano, anche la vedova che si tro­vava dentro le sue porte (Deut. 12, 11-14). Alla mietitura, ognuno doveva lasciare qualche manipolo di grano dimenticato, non doveva ripassare la punta ed i rami dell'olivo, e non tornar in­dietro a racimolare la vigna: questi resti dovevano esser pel fo­restiero, l'orfano, la vedova (Deut. 24, 17-21).

L'episodio di Eliodoro penetrato nel tempio di Gerusalemme per ordine del re d'Asia Seleuco, allo scopo d'impossessarsi dei depositi di grano ivi accumulati, offerti da anime generose e desti­nati ad alimentare le vedove ed i pupilli, quest'episodio, risol-tosi colla miracolosa cacciata dal tempio dell'invasore e profa­natore, dimostra non solo quanto Dio proteggesse il luogo santo, ma come considerasse sacro il patrimonio delle vedove e dei pupilli (2 Macc. 3, 1-40).

Quando Giuda Maccabeo con soli seimila uomini vinse l'eser­cito ultranumeroso di Nicànore, fece molto bottino. Ne destinò parte « ai mutilati, agli orfani ed alle vedove » (2 Macc. 8, 28).

Nel Nuovo Testamento si legge che « religione pura ed im­macolata agli occhi di Dio e del Padre è visitare i pupilli e le vedove nelle loro tribolazioni e non macchiarsi a contatto del mondo » (Giac. 1, 27).

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2. A suo conforto, la vedova pensi che se Dio l'ha privata del marito non è senza un provvido disegno per la santificazione della sua anima e l'elevazione della sua vita. Si trova ora in uno stato nel quale le è possibile e più facile praticare molte sublimi virtù cristiane che non avrebbe avuto l'occasione e lo stimolo a praticare quando l'affetto umano del marito era cosi totale da rendere — di fatto ed incoscientemente — meno vivi il biso­gno e la ricerca di Dio.

3. Altro motivo di conforto per una vedova: l'affetto dei figli si concentrerà su di lei, mentre anche l'affetto della madre per i figli si farà più tenero ed attento. Proprio per riguardo verso i figli, dovrà, talora, specie nei primi tempi, soffocare la pro­pria tristezza per non opprimere gli altri. Sarà una grande ca­rità: domanderà forse dell'eroismo. Pensi che i figli hanno diritto a vivere ed a sperare in un avvenire sereno e felice. La sof­ferenza della madre vedova non deve oscurare per essi l'auro­ra che sorge. Procurerà quindi di non gettare troppo a lungo e troppo pesantemente l'ombra del proprio dolore su chi — figli e parenti — ha bisogno di riprendere la vita normale. Terrà bensì vivo nei figli il ricordo del padre, specialmente delle sue virtù (senza far allusione ai suoi torti e difetti). Ma si adopererà perché i figli non trovino nella propria casa un'aria di mestizia, un vuoto deprimente: potrebbero, per reazione, cercare altrove di­versivi dissipanti e pericolosi.

II . Non parlo di chi, dopo la perdita del coniuge, trova troppo presto e troppo facilmente la distrazione in ciò che non può dare un vero e profondo conforto. Mi riferisco a chi, dopo la prova tremenda, stenta a rialzarsi dal suo stato di abbattimento per ritornare alla normalità della vita.

1. È consigliabile che una vedova, specialmente se giovane, si occupi molto. Anzitutto della sua casa e dei suoi figli. Scrive S. Francesco di Sales: « La vedova che ha figliuoli bisognosi della sua protezione e guida, principalmente in ciò che riguarda l'anima e l'assicurazione del loro stato, non può e non deve abbando­narli in alcuna maniera » (Filotea, Alba, p. 262). Sembrerebbe ovvio. Ma oggi molte mamme (vedove e non vedove) passano quasi tutta la giornata fuori casa per ragioni di lavoro (talora per vera necessità); e si riducono a stare accanto ai figli nel tempo dei pasti e solo qualche ora della giornata. Quando son piccoli, si limitano a condurli fin sulla soglia dell'asilo. Quando

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son più grandi li affidano ad altri, sperando e confidando nella naturale bontà delle loro creature. La casa rischia di diventare un albergo. E cosi, succede non raramente che adolescenti — cresciuti in regime di troppa libertà — ad un dato momento si lascian travolgere nel vortice del malcostume. Avrebbero bi­sogno d'una mamma che vivesse, soffrisse, lottasse con loro, giorno per giorno, ora per ora. Di una mamma che apre volen­tieri la propria casa ai ragazzi amici dei suoi figli, favorendo e discretamente sorvegliando questi incontri perché si svolgano in un'atmosfera di letizia, di semplicità, di spiritualità e di mu­tuo rispetto. Se ha il tempo e la buona volontà, una vedova deve aver fiducia di poter supplire, coll'aiuto di Dio e le risorse del proprio cuore, anche alla parte del marito: secondo un proverbio giapponese « la famiglia riposa sulla madre ». Certamente l'opera è ardua, specialmente oggi, nei riguardi sia dei figli maschi, sia delle ragazze: in questi ultimi decenni i giovani d'ambo i sessi hanno assunto uno stile di vita, comportamenti ed abitudini che in un passato, non tanto remoto, erano inconcepibili. Una madre intelligente e prudente non dovrà né ignorare le esigenze del suo tempo, né chiudere ingenuamente gli occhi sui pericoli che minacciano la purezza, la sanità fisica e morale dei giovani e delle giovani fin dalla loro fanciullezza. Si pensi all'uso cosi esteso della droga da parte di adolescenti e di preadolescenti. Questa strada porta facilmente alla delinquenza minorile. Una vedova che ama veramente e soprannaturalmente i suoi figli, che ama più la loro anima che il loro corpo, starà dunque in guardia perché la sua affettività esuberante non la porti alla debolezza. E saprà evitare anche l'eccesso opposto: un autoritarismo istintivo. L'educatore troppo severo non è ascoltato.

2. Una giovane vedova dovrà intraprendere forse nuovi rap­porti con parenti, suoceri, fratelli, cognati. Per quanto possibile, siano rapporti improntati a cordialità, serenità, pace, concordia (il che non significa rinuncia ai diritti propri e dei figli). Una vedova sappia che potrà esercitare una benefica influenza sui pa­renti perché è in grado d'unire all'innata soavità e delicatezza femminile, la sua sofferta esperienza. Se dovrà passare dalla casa propria alla casa d'altri — dei suoceri, per esempio — avrà oc­casione e necessità di praticare molte virtù e molto controllo su se stessa: di sopportare gli altri (specialmente gli anziani) coi loro difetti e le loro manie; d'abituarsi a tacere: cosa difficile, specie per una donna (S. Francesco di Sales ha scritto d'aver tro-

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vato nella sua vita molte donne buone ma quasi nessuna che sapesse tacere).

3. Ad una vedova, dopo l'educazione dei figli ed il governo della sua casa, s'offrirà la possibilità — specialmente se non ha bisogno di guadagnarsi, lavorando, i mezzi per vivere — di darsi ad opere buone ed all'apostolato. Fra le donne che seguivano Gesù c'erano vedove caste e ferventi di spirito religioso. Al tempo delle persecuzioni molte vedove fecero delle loro case e dei loro palazzi, centri del cristianesimo nascente. Più di una, dopo aver assistito il marito nel martirio, tornava nelle catacombe per incoraggiare ed aiutare i cristiani. Oggi, il campo dei mali sociali da curare, delle umane miserie da risollevare, della luce e della carità da comunicare, è molto vasto e molto vario. Ci sono persone che, bisognose di consiglio e d'aiuto, possono ri­ceverlo più efficacemente da una vedova che da una nubile. Per esempio, giovani cadute, ragazze-madri. Le occasioni per far del bene non mancano. Non conviene però abbracciar troppo col rischio di lasciar tutto incompiuto. È meglio specializzarsi in un determinato ramo d'attività. Le circostanze suggeriranno cos'è meglio. Tutto sta che una vedova non sd chiuda nei suoi pensieri e nei suoi personali problemi ma sia disponibile ed aperta anche ai bisogni degli altri, e, nel tempo stesso, spiritualmente preparata e corazzata (cfr. M. dal Covolo, Vedova, Roma, 1947, pp. 318-321).

4. Il lavoro è un diversivo ed un sollievo nel dolore. Una difesa contro i pericoli dell'ozio. Ma le tentazioni, comunque, non mancheranno. Una vedova giovane le troverà esternamente, cioè nell'ambiente; le troverà internamente, cioè nel suo cuore stesso di donna che si sente sola. Nella maggioranza dei casi una vedova non può vivere di rendita, lontana dal mondo, nel rac­coglimento della sua casa. Il lavoro la porta spesso a vivere in continua promiscuità cogli uomini, in fabbrica, in negozio, in la­boratorio, in ufficio. Le persone colle quali viene in contatto non hanno sempre onestà, illibatezza e coscienza scrupolosa. Prima di accettare un posto di lavoro, una vedova dovrebbe an­zitutto informarsi circa la serietà o meno dell'ambiente nel quale verrà a trovarsi. In tutti i casi è da prevedere che i pericoli non mancheranno. Perciò le occorre — oltre alla preghiera e alla frequenza ai sacramenti — una continua vigilanza, prudenza, riservatezza e, all'occasione, fortezza d'animo e volontà decisa.

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Perché, quando cominciasse a concedere qualche libertà ad un uomo, difficilmente si arresterebbe sulla cima che porta al pre­cipizio: relazioni fra impiegate e qualche compagno di lavoro o capoufficio sono all'ordine del giorno.

Ma il pericolo per una vedova viene anche dall'interno. Il suo stato di solitudine può farle sentire il bisogno d'un affetto e portarla a cercare qualche amicizia che riempia il vuoto del suo cuore. Oppure sarà invitata a ricevere le confidenze ed accettare l'amicizia d'un uomo sposato che si dice incompreso ed infelice nel suo matrimonio. Amicizie fra uomo e donna che, dapprima, possono bensì essere spirituali, ma poi facilmente diventan sen­sibili e sensuali (perché la comunione degli spiriti, se basta alla donna, non soddisfa l'uomo). Una amicizia solo spirituale fra per­sone di diverso sesso — delle quali né l'una né l'altra abbia una santità distinta — è molto difficile.

Per tutte queste ragioni il pericolo di non osservare la pu­rezza, per una vedova giovane che vive nel mondo, è grande e continuo. Forse la castità è più facile per una vergine.

Noto infine che — nonostante tutte le precauzioni e gli accorgimenti — una vedova potrà essere oggetto di calunnia. Se in coscienza e davanti a Dio sa di agire in buona fede ed anche colla debita prudenza, non deve turbarsi: anche i santi soffrono calunnie.

I II . Ho parlato della vedova che rimane (e finché rimane) in questo stato. Ma si presenta anche il problema: « è meglio restare nello stato di vedovanza o passare a seconde nozze? ».

1. In linea astratta è senza dubbio più perfetta la vedovanza quando sia abbracciata per motivi soprannaturali: coltivare mag­giormente l'unione con Dio, consacrare a Lui la seconda ver­ginità, conservare il cuore fedele allo sposo, dedicarsi, a tempo pieno, all'educazione dei figli ed alle opere buone. Allora la vedova trasforma la rassegnazione in olocausto: offre liberamente e gioiosamente a Dio un bene legittimo al quale rinuncia: le gioie d'un altro possibile matrimonio. E per la vedova che, per un motivo superiore, non si rimarita, diventa più facile la santità perché può pensare di più a Dio ed al prossimo con spirito d'amore e d'apostolato.

Anche nell'Antico Testamento la vedova che non si riposava era venerata come in uno stato di maggiore purezza morale. Si legge che Giuditta rimase vedova dopo soli tre anni e mezzo di

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matrimonio. Nonostante la sua rara bellezza preferì restar ve­dova. È esaltata la sua forza d'animo ed il suo coraggio. Ecco l'elogio della Scrittura: « Siccome hai operato virilmente ed il cuor tuo è stato forte, siccome hai amato la castità e, dopo il tuo marito, non hai conosciuto altro uomo, cosi la mano del Si­gnore t'ha sorretta e perciò sarai benedetta in eterno » (Giud. 15, 11). Ma questa castità era frutto della preghiera, d'una vita segnata dall'austerità e passata nel raccoglimento.

Anche presso i pagani la vedova che restava fedele alla me­moria del marito defunto era degna di venerazione: sulla sua tomba si scriveva « univira ».

Nel Nuovo Testamento, trattando esplicitamente della ve­dova, s. Paolo dichiara che, se viene a mancare il marito, è libera di risposarsi: « Tuttavia — aggiunge — sarà più felice se resterà cosi secondo il mio consiglio. Credo d'aver anch'io lo spirito di Dio » (1 Cor. 7, 40). Il Concilio Fiorentino, dopo aver affermato che una vedova può lecitamente risposarsi anche più d'una volta se le vien a morire il marito, aggiunge: « Diciamo tuttavia più degne d'onore quelle che astenendosi da ulteriore matrimonio, rimangono nella castità, perché riteniamo che la casta vedovanza è da preferirsi per lode e merito alle nozze, come la verginità alla vedovanza » (D. S. 1353).

2. Tutto questo come un consiglio e sul piano ideale. In con­creto, per giudicare se sia consigliabile la vedovanza o le seconde nozze, bisognerà esaminare prudentemente tutte le circostanze. An­zitutto, è ovvio che, piuttosto di correre il pericolo prossimo d'ab­bandonarsi alle leggerezze, di contrarre legami illeciti e scandalosi, è meglio che una vedova passi alle seconde, ed anche alle terze nozze. Perciò l'Apostolo scrive: « Ai non sposati... e alle vedove dico: è bene per essi se rimangono come me. Se però non sanno serbarsi continenti, si sposino: è meglio infatti sposarsi che bru­ciare » (1 Cor. 7, 8-9). Meglio dunque passare alle seconde nozze piuttosto che ardere pel fuoco della concupiscenza e lasciarsi vin­cere dalla tentazione.

Nella prima lettera a Timoteo, s. Paolo, trattando delle ve­dove che si consacravano in modo speciale al servizio della Chie­sa — ad esempio, nell'educazione dei fanciulli, nella cura dei ma­lati — dice che devono avere non meno di sessantanni, esser state mogli d'un solo marito, ed aver dato testimonianza di virtù, e di opere buone (1 Tim. 5, 9-10). Edotto, poi, dall'esperienza di tante

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giovani vedove che, a quei tempi, colla loro condotta leggera o scandalosa davano ai nemici della Chiesa occasione di diffamare i cristiani, s. Paolo aggiunge che a queste bisogna piuttosto imporre di risposarsi: « voglio che le più giovani si maritino, abbiano figli, governino una casa, non diano all'avversario alcuna occasione di maldicenza» (1 Tim. 5, 14).

Occorre dunque prudenza nel prender la decisione (e nel dare il consiglio) sia di permanere nello stato di vedovanza, sia di pas­sare ad altre nozze. Più facilmente per l'uomo vedovo (specie se giovane) si presenterà la convenienza — per un complesso di ragioni d'ordine sessuale, affettivo, pratico — di risposarsi per ritrovare una compagna che riempia il vuoto della sua anima, della sua casa, della sua vita. Ma anche per una donna può esser meglio — considerata la sua situazione — rimaritarsi, specie se è giovane e senza figli. La vedovanza perenne è una vocazione, come la verginità. Ci dev'esser una certa sicurezza di conservarsi, senza troppe difficoltà, immuni da ogni caduta peccaminosa. Se la soli­tudine, le tentazioni, le difficoltà e le preoccupazioni, invece di elevare serenamente lo spirito d'una donna, dovessero inasprirlo perché la impegnano in una lotta estenuante e non sempre vitto­riosa, allora ritorna l'avvertimento dell'Apostolo: meglio rispo­sarsi che bruciare. Per una scelta dello stato bisognerà pertanto prender in esame il temperamento, le tendenze d'una vedova, la sua religiosità (più o meno solida e fervente), le sue condizioni economiche, familiari, ambientali. Si dovrà tener conto anche delle condizioni della vita moderna, ben diverse da quelle di alcuni decenni fa. Con tutta probabilità, una vedova, per ragioni di lavoro, dovrà vivere non ritirata in casa ma in mezzo al mon­do, a continuo contatto cogli uomini, esposta ad ogni sorta di pericoli, insidie, seduzioni, tentazioni. Perciò, se lo stato di vedo­vanza perenne è idealmente più perfetto, sarebbe sbagliato lo stimar meno chi prende la risoluzione di risposarsi. S. Francesco di Sales arriva a scrivere: « La vera vedova non deve mai cen­surare, né biasimare quelle che passano alle seconde, alle terze ed alle quarte nozze; perché in certi casi Dio dispone cosi per la sua maggior gloria: e ci conviene aver sempre davanti agli occhi quella dottrina degli antichi che né la vedovanza né la verginità hanno in Cielo altro posto, se non quello che è ad esse assegnato dalla umiltà » (Filotea, Alba, p. 264).

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3. In qualche caso, l'anima d'una vedova è agitata dal dubbio e dalla perplessità: possono alternarsi momenti di propensione al matrimonio e momenti di propensione allo stato di vedovanza. In questi casi non basta la calma riflessione personale: bisogna ricor­rere alla preghiera (perché nella scelta dello stato in modo tutto particolare si manifesta la volontà di Dio) ed anche ad un esperto consigliere spirituale (cfr. M. dal Covolo, Vedova, pp. 237-242).

4. La vedova che decide di passare a seconde nozze non deve lasciarsi condurre solo dai sensi o da calcoli umani, ma da una mente lucida, da un cuore calmo, dalla prudenza cristiana. Nelle prime nozze si edifica; nelle seconde bisogna ricostruire una esi­stenza, se non felice, almeno serena e tranquilla, sulle rovine d'un passato che non può mai esser completamente distrutto e dimen­ticato. Un passo che richiede quindi una ponderazione ancora mag­giore (cfr. M. dal Covolo, o.c, pp. 247 ss.). Bisogna che la donna non si lasci solo conquistare dal fascino esteriore, dalle doti appa­riscenti e, tanto meno, dalle sole possibilità finanziarie del suo nuovo compagno nel miraggio d'una vita lussuosa. Motivo predo­minante e determinante della scelta dev'esser l'affetto che non è solo passione cieca e travolgente, ma si fonda su un complesso di doti e di fatti che una vedova ha da cercare e trovare nell'uomo al quale sta per legarsi. Dovrà studiare il suo carattere, informarsi del suo passato, dei suoi principi morali e religiosi. E, se ha già dei figli, saprà con tatto presentar loro la nuova situazione che si determinerà quando avranno da accogliere un uomo il quale dovrà esser per loro un secondo padre (si spera provvisto di tutte le doti). E nell'accettare come padre un estraneo, nel vedersi strap­pati alla loro casa, è presumibile che essi soffriranno. Se questa sofferenza fosse troppo grande e se il nuovo matrimonio compro­mettesse la benefica influenza che la madre godeva sui figli e rom­pesse la pacifica unione preesistente, allora l'eroismo può sugge­rire ad una vedova anche la dolorosa rinuncia.

5. Ed una volta contratto il nuovo matrimonio, occorreranno pure molti riguardi e delicatezze. Ad esempio, nel saper conser­vare nell'intimo e non manifestare al secondo marito ricordi e nostalgie del primo matrimonio. Memorie e rimpianti si faranno vivi all'apparire di qualche nube sul nuovo cielo coniugale. Bi­sognerà — per conservare pace, speranza e fiducia — gettare un po' di cenere sul passato. Altrimenti il secondo marito potrebbe soffrire di gelosia. Tanto più pericolosa in quanto non ha per

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oggetto una persona vivente ma un fantasma contro il quale non si può combattere. E l'amore coniugale è sempre esclusivo.

Se una vedova senza figli troverà nelle seconde nozze i figli del nuovo marito, cercherà di esser per loro una mamma (anche se in senso pieno una donna lo può esser solo per i propri figli). Saprà soprattutto conquistarsi i loro cuori con la bontà e la virtù, prima d'instaurare nuovi metodi d'educazione, i quali possono es­ser ottimi ma contrastare con le memorie, le tradizioni, le abitudini della famiglia nella quale i figli sono nati.

Bisogna anche prevedere gli inconvenienti che ci possono es­sere qualora una vedova abbia dei figli ed anche il suo secondo marito sia vedovo con figli, o qualora altri figli avessero ad aggiun­gersi ai già preesistenti (cfr. M. dal Covolo, Vedova, pp. 247-267).

5. Aspiranti al sacerdozio

L'autentica aspirazione al sacerdozio suppone una vocazione divina. E « la voce di Dio che chiama si esprime in due modi diversi, meravigliosi e convergenti: uno interiore, quello della grazia... dello Spirito Santo...; e uno esteriore... quello della Ge­rarchia, strumento indispensabile... » (Paolo VI, Alloc, 5.V.1965, OR, 6.V.65, p. 1).

Ad ogni confessore può offrirsi l'occasione d'indirizzare, gui­dare, consigliare qualche giovane che presenta segni di vocazione al sacerdozio. Egli dovrà però esser molto prudente (anche nel suo fervore di suscitare vocazioni) specialmente oggi in cui sem­pre più fanno difetto le solide virtù che garantiscono riuscita e perseveranza. Non c'è dubbio, le vocazioni ci sono; il male è che poi si perdono: al momento della scelta definitiva la voca­zione spesso non c'è più. Per molteplici cause che rendono il fe­nomeno, oggi, quanto mai complesso e preoccupante. Non ultima causa lo spopolamento sempre crescente delle campagne, e quindi l'assottigliamento delle famiglie ricche di salute fisica e spirituale, nonostante la loro povertà. È da queste che usciva la maggior parte dei giovani leviti, sani, robusti, resistenti al logorio dello studio, al lavoro della vita interiore, sereni di fronte alle diffi­coltà ed alle rinunce, formati, fin da piccoli, secondo gli incrol­labili principi della fede e della morale. Queste doti verranno sempre più a mancare, se si considera l'odierno ed il prevedibile tenore di vita delle famiglie urbane. Le previsioni sono tutt'altro

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che rosee. E non ci consola affatto l'assicurazione di qualcuno secondo il quale, se aumenteranno i diaconi, i sacerdoti potranno senza danno diminuire. Solo il sacerdote che vive una vita di castità, di lavoro, di preghiera, rappresenta ed alimenta efficace­mente la fiamma dei più puri ideali evangelici nella comunità cristiana. È stato scritto: « Il Sacerdote si presenti come un uomo che ha operato una scelta, la più bella, e dimostri di essere con­tento e soddisfatto. Non si ripeterà mai abbastanza che il Prete deve essere anzitutto pienamente uomo e che gli stessi valori sacerdotali vanno presentati al mondo dei giovani e dei fanciulli in modo simpatico » (C.P.D. di Belluno, Indicazioni per la so­luzione del problema delle vocazioni, 1973). È esatto. Però non si può nascondere che in questa scelta è implicata la più grande rinuncia che eleva il giovane sopra tutti gli altri. Senza impove­rirlo. Ma per capir questo occorre una fede viva. Bisognerebbe non concentrare tutti i problemi dello spirito sul sesso, come fanno tanti e tanti genitori. Bisogna non insinuare nell'animo dei ragazzi — mediante l'istruzione sessuale pubblica (sostenuta anche da qualche educatore cattolico) — che cognizioni e vita sessuale sono un elemento indispensabile per esser pienamente uomini. In certo clima lo sperare che fiorisca una vocazione è quasi attendere il miracolo: lo spuntar d'un mazzo di fresca erba verde sotto il solleone d'agosto dalle pietre senza terra e senz'acqua.

I. Non sempre il confessore potrà formulare il giudizio posi­tivo sicuro che un soggetto ha tutte le doti richieste al sacer­dozio. I (dubbi possono presentarsi specie a chi solo occasional­mente ascolta la Confessione del penitente. Più elementi di giu­dizio avrà chi è confessore abituale e direttore spirituale del gio­vane. Ma anche a questo possono non esser note certe circostanze riguardanti la condotta del candidato. Siamo quindi cauti nel dare ai giovani, « in foro interno », assicurazioni perentorie circa la loro vocazione. Qualche volta capita che il giudizio del diret­tore spirituale è smentito in pieno dai superiori della comunità seminaristica che conoscono gli alunni nella loro vita esterna e nei loro reali difetti. D'altro canto, al confessore — special­mente se è anche direttore spirituale dell'alunno — possono esser noti certi fatti intimi e segreti della vita del giovane. Il quale potrebbe avere una condotta esterna irreprensibile, ma esser privo della richiesta inclinazione ed attitudine alla vita sacerdotale o di qualche requisito morale.

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1. Fra i segni della vocazione ci dev'esser un'inclinazione alla vita sacerdotale? Non è necessario che il soggetto « senta » una specie di ispirazione soprannaturale (cfr. J. Lahitton, La vo-cation sacerdotale, Paris, 1913). Però deve avere una generale attitudine e la spontanea, libera volontà di farsi sacerdote. In pratica — dato che non occorre un'ispirazione interna — piò ancora che il desiderio di diventar sacerdote sarà da considerare l'attitudine e le qualità spirituali, morali, intellettuali, fisiche (tenendo in qualche conto anche le condizioni di sanità morale e fisica, o meno, della famiglia). Insomma vagliare l'elemento oggettivo più che quello soggettivo ed affettivo. Specialmente oggi, quando il clima familiare e sociale non favorisce entusiasmi vocazionali e quindi c'è pericolo che la vocazione sia ostacolata e che l'elemento soggettivo non sia alimentato, non regga, non perseveri. Certo, oltre a possedere il fondo di doti richieste, bisogna che uno voglia liberamente esser prete. Oltre la voca­zione, occorre la risposta decisa alla chiamata divina. Alle volte gli indizi d'una vocazione possono esser percepiti dal direttore spi­rituale prima che dal giovane stesso. Il sacerdote però si guarderà dal farne troppo presto esplicita proposta al soggetto. Lo guiderà come se si trattasse di chi ha effettivamente la vocazione e così ve­drà le reazioni. Se queste sono positive, allora potrà dolcemente attirare l'attenzione del giovane sulla chiamata divina. C'è qualcuno che ha realmente la vocazione ma per qualche tempo resiste, pare ne abbia quasi paura e cerca di convincersi del contrardo. Ha quasi l'impressione d'esser ghermito dall'angoscia se dirà di si, perché ha coscienza d'immettersi in un cammino che è pieno di rinunce (anche se porta alla più alta felicità). Ma, a queste prime ripulse d'un giovane, non bisogna scoraggiarsi. La grazia ha le sue ore. Occorre aver pronta la parola affettuosa, illuminante, incorrag-giante; saper aiutare ognuno con molto tatto, in modo da fa­vorire quella che è la reale vocazione divina e nel tempo stesso lasciare all'interessato tutta la libertà di decisione. Ci sono, poi, dei giovani che danno qualche indizio di vocazione, ma meno chiara. Questi vanno stimolati ad una più intensa vita interiore, condizione e garanzia d'ogni scelta generosa e d'ogni chiamata superiore (cfr. G. Siri, La grazia nell'educazione dei giovani, Roma, 1941, pp. 67-69).

Vocazione certa; risposta libera. Sia i superiori di disciplina, sia i direttori spirituali vigilino se, nei singoli soggetti e nelle singole situazioni, ci siano indizi che facciano dubitare della libertà

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nella scelta dello stato sacerdotale. Oggi è meno facile che pel passato il caso di genitori i quali esercitino una pressione morale perché il figlio che ha iniziato la vita seminaristica si faccia prete e, se non prosegue, lo trattino come un disertore. Altri, opposti, condizionamenti saran più probabili (anche se a parole tutti proclamano la libertà di scegliere la propria professione). Ci sono genitori che esplicitamente o virtualmente distolgono un figlio che sente la vocazione sacerdotale o religiosa. Il confessore deve aiutarlo, sostenerlo, suggerirgli il prudente comportamento.

2. Nel Supplementum della Summa Tbeol. I l i , q. 36, a. 1, s. Tommaso solleva la questione se, in chi vuol ricevere l'ordine sacro, si richieda la « bontà della vita ». E rispon­de che è necessaria « non de necessitate sacramenti », non al­la validità del sacramento, ma « de necessitate praecepti »: per precetto divino. Anzi aggiunge (riferendo un testo di s. Dio­nisio) che, essendo il sacerdote la luce, deve risplendere per la sua virtù; siccome è chiamato ad esser guida di altri « in divino omni », non può aver il coraggio di assumersi questo ufficio se non è « deiformissimus et Deo simillimus ». In quest'esigenza d'una eminente virtù rientra l'impegno del celibato che la Chiesa Latina domanda al diacono che vuol farsi sacerdote. Celibato che è un olocausto: offerta, rinuncia, sublimazione d'un amore per sé onesto. Rinuncia che facilita l'unione e l'assimilazione a Dio, puro spirito; ed è espressione dell'amore verso Dio. Difat­ti la virtù più sublime resta sempre l'amore a Dio, lo zelo per la Sua gloria, la carità verso il prossimo. E la castità stessa ha il suo valore nella vita del sacerdote solo come offerta a Dio, come trasferimento e concentrazione sul piano soprannaturale — Dio e le anime — di quella capacità e forza d'amore che è un bi­sogno insopprimibile. Questa castità non significherà allora coi-bizione, oppressione, frustrazione. E dovrà esser come la risul­tante di tutte le altre virtù morali (specialmente dello spirito di preghiera e d'abituale mortificazione). Preghiera anzitutto, perché il celibato è una grazia speciale e suppone una vocazione particolare: « non omnes capiunt verbum istud, sed quibus datum est» (Mt. 19, 11). Ed anche chi vi è chiamato, avrà bisogno — per perseverare — di praticare tutto un complesso d'esercizi ascetici: orazione mentale, pietà eucaristica e mariana, frequente uso della Confessione e ricorso alla direzione spirituale. Sarebbe sbagliato impostare tutto il problema della vocazione sulla castità, considerandola isolatamente.

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In chi s'impegna pel celibato ci dev'esser l'esenzione da peccati impuri e la previsione di saper osservare la castità. Il confessore che è anche direttore spirituale, può (e forse lui solo) venir a conoscere (o dubitare) che un giovane — pur animato da buona volontà — ha un'eccessiva propensione alla sensualità. In qualche difficile caso può esser opportuno consi­gliargli di chiedere il parere d'un medico perito e religioso (può capitare che un giovane abbia desiderio sincero di farsi sacer­dote ma sia affetto da una specie di nevrastenia sessuale, la quale assume espressioni svariatissime). Inoltre è da vedere se l'inclinazione abituale verso la donna non sia cosi forte da dis­suadere il celibato. Può darsi che un giovane si conservi (almeno per il momento) puro — e tutti dovrebbero conservarsi tali fino al matrimonio — ma abbia una propensione verso la donna che è incompatibile col celibato perpetuo. E questa spiccata ten­denza ed attrattiva potrebbe esser non propriamente sessuale, ma piuttosto affettiva e romantica (a seconda della natura del giovane). È evidente come un giovane che ha i suoi pensieri ed immaginazioni incentrati soprattutto sulla donna, non è fatto né per la vita religiosa né pel sacerdozio. Però, quando ci sia tale inclinazione, in genere è il giovane stesso che spon­taneamente s'orienta verso il matrimonio. Evidentemente, non è necessario — per aver la vocazione — che manchi ogni tendenza verso l'altro sesso. Qualche tendenza normale (superata però sempre vittoriosamente e gioiosamente) può esser, anzi, un segno di vocazione più sicuro che l'assenza attuale d'ogni inclinazione sessuale (sempre supponendo che ci sia l'altissima stima ed il desiderio del sacerdozio, il senso ed il gusto della vita interiore, un'aspirazione all'azione missionaria ed apostolica e tutte le altre doti richieste).

3. In chi sta per ricever l'ordine sacro al quale è annesso l'obbligo del celibato è, di massima, necessaria una prova suf­ficiente della castità. Non c'è un'esplicita legge della Chiesa La­tina che imponga questo esperimento; esso però è una condizione ed un'esigenza implicita nell'obbligo stesso del celibato. Assu­mersi l'impegno della castità perfetta e perpetua senza averne l'abitudine acquisita, sarebbe una temerarietà. Non si può at­tendersi, coll'ordinazione, un cambiamento repentino e miraco­loso. Ordinariamente non ci si libera da un'abitudine se non gradatamente, in seguito a sforzi e lotte. Chi, senza essersi prima corretto da qualche vizio grave (specialmente in materia d'im-

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purità) intendesse, ad esempio, di confessare il suo stato pec­caminoso e, subito dopo l'assoluzione, ricever il presbiterato, non sarebbe disposto né a ricever l'ordine sacro né il sacramento della penitenza (se non propone d'astenersi, almeno per il mo­mento, dal ricever il presbiterato) (s. Alf., Prat. del Confess., e. V, n. 70). E non sarà certo sufficiente l'esperimento positivo di pochi mesi, passati in seminario dopo il rientro dalle vacanze (durante le quali l'abitudine cattiva è continuata): l'imminenza dell'ordinazione può indurre uno stato psicologico d'emergenza provocando sforzi straordinari. Ma quale garanzia di perseveranza ci può essere? (cfr. Vermeersch, Th. Mor., I l i , 1948, n. 30).

4. All'atto pratico, che esperimento, quindi, si richiede? Si possono dare alcune norme orientative:

a) Per chi aspira al sacerdozio (nella Chiesa Latina) e si trova in trepida situazione morale, la prova — di regola — dovrà durare più o meno a lungo a seconda del numero delle colpe, della tendenza alla sensualità, della facilità del soggetto a cadere. L'esperimento dovrà esser tanto più severo quanto mag­giore si prevede, nel caso determinato, il pericolo delle ricadute, dello scandalo (per esempio, di peccati in complicità) e quanto minori risultano le altre qualità positive (come la pietà). Ora, l'esperienza insegna che il pericolo delle ricadute è maggiore in chi ha propensione (con gravi mancanze) verso persone dello stesso sesso: maggiore pericolo che nel caso di mancanze in com­plicità (per normale propensione) con persone d'altro sesso. E queste sono più pericolose dei peccati solitari. L'abitudine della masturbazione in certuni può cessare — per qualche occasione — repentinamente e pienamente; in altri può eliminarsi gradata­mente, in virtù dello sforzo costante e della pazienza. Quindi, con ragazzi costituzionalmente normali e spiritualmente deboli, è opportuno, sotto certe condizioni, tentare l'emendazione. Si farà una prova, la quale dovrà durare, di massima, un anno e comprendere anche le vacanze passate fuori di seminario. Se c'è qualche miglioramento si potrà proseguire la prova ancora per qualche tempo. Se non c'è nessun miglioramento, non è il caso di far altri tentativi. Meglio un laico fervente che un languido sa­cerdote (Vermeersch, I I I , n. 30).

b) Perciò, quando si prevede — pef segni chiari offerti dall'indole naturale, dalle consuetudini contratte, dalle tendenze (innate od acquisite) — che un candidato non eviterà in futuro le mancanze contro la castità, è, regolarmente, da dissuadere

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questa scelta. Non si può né aspettare miracoli né porre sulle spalle di chi ha una forte sensualità, un peso cosi gravoso che domanderebbe un continuo eroismo.

e) Si può ipotizzare qualche caso 'in cui il confessore do­vrebbe negare l'assoluzione a chi pretendesse accedere al dia­conato, od al presbiterato, od all'episcopato, con speciale inde­gnità: ad esempio, lasciando prevedere che cadrà ancora con scandalo altrui, oppure per una vera abitudine solitaria (specie se le cadute sono molto frequenti) mentre non ha che una tiepida vita interiore. In casi meno gravi l'accesso agli ordini sacri sarà da dissuadere.

d) Un confessore occasionale, nel dubbio, dirà (od imporrà) al penitente che, prima d'impegnarsi pel celibato, stia al giudizio del suo direttore spirituale.

e) Il caso si farebbe particolarmente penoso se un confessore « straordinario » venisse a conoscere solo alla vigilia del diaconato o del sacerdozio che un soggetto penitente non può (per le sue consuetudini peccaminose) accedere all'ordine sacro. Questo caso non dovrebbe capitare e si spera non capiti. Ma se l'indegnità fosse evidente il confessore dovrebbe esser energico.

5. Norme orientative, perché — come già ammoniva Bene­detto XIV — non c'è una regola generale che in simili casi pos­sa esser applicata in modo assoluto ed uniforme. Perciò, nel caso concreto, il confessore terrà presenti alcuni principi direttivi e poi procurerà di « esaminare diligentemente e di valutare con calma tutte le circostanze della persona, delle cose e dei casi; e si ricordi di non aver soltanto l'ufficio di giudice, ma anche quello di medico » (De Synodo, 1. XI, e. 2, n. 18).

6. Comunque, la prova della castità e della vocazione dovrà comprendere anche un periodo di tempo passato fuori del se­minario perché si veda se anche a contatto col mondo il giovane sappia guidarsi, vincersi, ricorrere ai mezzi per conservarsi puro. E cosi potrà fare un confronto lucido e consapevole fra quello a cui rinuncia (il matrimonio che pure è un sacramento che rende santo l'amore) e quello che sceglie (uno stato più perfetto nel quale la castità è possibile ma può esigere l'eroismo). Potrà al­lora sentire di più la sublimità della vocazione. Non è un pre­cetto, ma un consiglio. Non è esclusione del male, ma una scelta del meglio. Il giovane dev'esser persuaso che — colla grazia di Dio e la propria cooperazione — non avrà rimpianti. Se non ha

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questa fiducia e questa certezza, vuol dire che non ha una voca­zione sicura. La sua scelta dev'esser liberissima e perciò serena e senza interiori incertezze. Egli ha un ideale: dare tutto se stesso — specialmente il cuore — a Cristo. Per questo sacrifica tutto volentieri. A tal fine è consigliabile che — durante gli anni di preparazione al sacerdozio — ci sia anche un sufficiente contatto del giovane colla vita, di modo che non possa dire d'esser rimasto chiuso in un mondo irreale. Di fronte a tenta­zioni ed attrattive (inevitabili e necessarie) deve mostrar di sa­perle superare decisamente ed allegramente; deve constatare e dar l'impressione che si sente a suo agio nell'ambiente religioso anziché nei trattenimenti e divertimenti mondani.

7. Oggi questa prova della vocazione è predicata insistente­mente da molti. Tuttavia osservo che — se è giusto esigere un maggior approfondimento dello spirito della castità sacerdotale — non si devono però sottovalutare i pericoli ai quali si può andar incontro mettendo i giovani a contatto col mondo allo scopo che la loro scelta sia più matura e più deliberata. Questo scopo si può ottenere anche usando le dovute precauzioni contro le tentazioni del mondo.

6. Sacerdoti

Pio XII nell'Esortazione « Menti Nostrae » rivolgeva un par­ticolare pensiero « a quei sacerdoti che con animo umile ma con ardente carità solertemente si prestano a procurare ed accrescere la santità degli altri sacerdoti, sia come consiglieri, sia come guide nei casi di coscienza, sia come ministri del sacramento della Penitenza. Rendono un bene inestimabile alla Chiesa. Que­st'opera, durante la loro vita, per lo più rimane nascosta. Un giorno, nella gloria del Regno divino si manifesterà in fulgida luce » (AAS, 42, 1950, 681). Son passati più di venticinque anni da quando Pio XII cosi scriveva. Da allora si sono avuti cam­biamenti d'una profondità, vastità, celerità impressionanti. Già il Vaticano II mostrava di rendersi conto « delle difficoltà che i sacerdoti devono sopportare nelle circostanze della vita di oggi. Trasformazioni nelle condizioni economiche e sociali e nello stes­so costume (mores). Mutazione nella stima degli uomini circa la gerarchia dei valori. I ministri della Chiesa — anzi, talvolta, gli stessi fedeli — hanno l'impressione d'esser estranei a questo

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mondo; ansiosamente cercano con quali mezzi idonei e con quale linguaggio possano comunicare col mondo. Nuovi impedimenti per la fede, apparenti sterilità del lavoro compiuto, il senso d'un amaro isolamento. Tutto questo può portare i sacerdoti at pericolo della depressione » (PO, 22). Essi certamente « non sono mai soli: hanno a sostegno l'onnipotente forza di Dio » (ibid.). È inconcepibile che un sacerdote il quale vive intensamente la vita interiore si senta solo. Però Dio stesso desidera che, proprio fra gli aiuti della vita interiore sacerdotale, intervenga la parola amica d'un confratello.

A. C'è una categoria di sacerdoti ferventi; un'altra di me­diocri o addirittura tiepidi; ed infine ci sono coloro che sono miseramente ed infelicemente caduti. Queste cadute gravi son sempre precedute da uno stato di tiepidezza e di trascuratezza in tutti i campi della vita spirituale e morale (omissione delle pratiche di pietà, facilità e consuetudine ad esonerarsi dalla recita del breviario, Messa celebrata in fretta, disordine ed omissione nell'applicazione delle Messe ordinate...). La maggior parte dei sacerdoti secolari che si professano favorevoli per un celibato facoltativo e non obbligatorio, ha l'età fra i 35 ed i 40 anni: « Dopo lunga esperienza di vita parrocchiale ed amare delusioni », ha detto qualcuno. Diciamo piuttosto: dopo passati gli anni del fervore giovanile al quale è subentrato l'attivismo, la rilassatez­za della vita spirituale, i compromessi con le suggestioni della mondanità e della sensualità. Certamente le contrarietà, gli insuccessi, le frustrazioni possono portare uno stato di abbatti­mento ed anche la malattia, dannosa alla stessa vita spirituale. Ma coll'aiuto della grazia e la cooperazione d'una volontà energica, tutto può trasformarsi in purificazione dello spirito ed in sem­pre nuovo slancio d'apostolato nel campo di lavoro voluto da Dio.

Il confessore può fare un bene immenso ai suoi confratelli che gli chiedono l'assoluzione sacramentale e l'aiuto d'una qualche direzione spirituale. Potrebbe arrestare un sacerdote che sta sci­volando sulla china che porta verso l'abisso. Chi è già recidivo, consuetudinario ed occasionano, è assai difficile che si liberi dai legami peccaminosi: coloro che hanno esperienza della vita (oltre che conoscenza della dottrina morale ed ascetica) dicono che la risurrezione d'un sacerdote gravemente abitudinario è una specie di miracolo. C'è chi aggiunge che, come ogni miracolo, non è frequente. Però — abbiamo fede — è possibile: la gra-

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zia, nell'intimo delle anime, miracoli ne fa continuamente. Cer­to non si può attendere i miracoli senza usare i mezzi naturali e soprannaturali per la guarigione. E per la guarigione la dose del farmaco dev'essere proporzionata alla gravità del male. An­zitutto bisognerebbe ottener da un sacerdote lo sforzo energico per riprendere l'assiduo esercizio della preghiera — vocale e mentale — per la quale la sua anima, arida e dissipata, non sente più, sulle prime, nessuna attrattiva.

B. Consideriamo, ora, i presbiteri in genere. Il confessore aiuterà il confratello penitente a risolvere specialmente tre con­flitti, oggi sentiti in modo particolare dai sacerdoti: il conflitto fra personalità ed obbedienza; il conflitto fra azione e contempla­zione; il conflitto fra umanesimo e povertà, fra umanesimo e pe­nitenza.

I. Personalità ed obbedienza. La vera obbedienza non è an­zitutto adesione alla cosa comandata (che può esser contraria al proprio giudizio e desiderio) ma all'autorità: per conseguenza lo è anche a ciò ch'essa comanda. Gesù non accordò in primo luogo il suo si alla morte sulla Croce (che, anzi, la sua umana volontà chiese, se possibile, che le fosse risparmiata) ma al vo­lere del Padre. Ed aderire ad un'autorità, in quanto derivata da Dio, è la nobiltà dell'uomo libero perché significa legarsi a Dio. La grandezza dell'uomo sta in quest'unione, non nella indipendenza del suo arbitrio personale. La sua personalità uni­ta a Dio non verrà impoverita ma affermata ed accresciuta. Perciò il Vaticano II ricorda « fra le virtù che massimamente sono richieste, al ministero dei presbiteri quella disposizione d'ani­mo per la quale sono sempre preparati a cercare non la propria volontà, ma la volontà di Colui che li ha mandati ». E siccome « il ministero sacerdotale è il ministero della Chiesa stessa, perciò non può esser adempiuto se non nella comunione gerarchica di tutto il corpo ». La « carità pastorale » domanda ai presbiteri « il dono della propria volontà nel servizio di Dio e dei fratelli »; l'obbedienza « al Sommo Pontefice, al Vescovo, agli altri supe­riori » (PO, 15). D'altra parte, aggiunge il decreto, questa stessa carità muove i presbiteri a « cercare prudentemente vie nuove, nell'esercizio del proprio mandato, per un maggior bene della Chiesa ». Perciò essi « esporranno con confidenza le proprie ini­ziative a coloro che esercitano autorevolmente l'ufficio di reg-

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gere la Chiesa di Dio e saranno sempre preparati a conformarsi al loro giudizio» (ibid.).

Obbedienza verso chi è al governo della Chiesa. Fra di loro, i presbiteri sono uniti da una fraternità che si fonda nella stessa ordinazione sacerdotale (« inter se intima fraternitate sacramen­tali nectuntur », PO, 8). Questa fraternità si esprime in tutte le forme che la carità può suggerire secondo i casi concreti. Perciò « i più anziani accoglieranno veramente come fratelli i più gio­vani, li aiuteranno nelle prime esperienze e fatiche ministeriali, cercheranno di comprendere la loro mentalità, anche se diversa dalla propria, seguiranno con benevolenza le loro iniziative. I giovani, ugualmente, rispetteranno l'età e l'esperienza degli an­ziani e con loro studieranno i problemi riguardanti la cura d'ani­me e volentieri collaboreranno » (PO, 8).

Ma oggi c'è chi pensa che il Vaticano II è superato, in quanto, se parla dei sacerdoti anche come fratelli ed amici del vescovo (PO, 7), con troppa insistenza afferma che i vescovi debbono trattare i sacerdoti come « figli » (LG, 28; CD, 16). Contro questa concezione s'invoca da certuni un regime collegiale ed una democratizzazione delle strutture della Chiesa. Ma purtroppo, si dice, Consigli presbiterali e pastorali non funzionano perché c'è poca capacità al dialogo e poca generosità a rinunciare ad una monocrazia vigente da secoli. A costoro si potrebbe far presente che il regime collegiale importerebbe ai singoli una responsabilità più pesante dell'obbedienza di chi — dopo aver esposto le sue ragioni — rimette la decisione al Superiore. Si può anche chie­dersi se le soluzioni dei problemi approvate dai Consigli dopo tante discussioni, siano sempre soddisfacenti, e se, pel fatto che rappresentano l'opinione della maggioranza, siano sempre le più illuminate. Comunque, il Vaticano II, pur suggerendo ai vescovi di avere i sacerdoti come fratelli ed amici, d'esser pronti ad ascol­tarne i pareri, anzi, di consultarli e d'esaminare insieme i pro­blemi riguardanti i ministeri ed il bene della diocesi, di avere « una comunione o senato di sacerdoti, rappresentanti il presbi­terio, che coi suoi consigli possa aiutare efficacemente il ve­scovo nel governo della diocesi » (PO, 7), d'altra parte lo stesso Concilio non poteva non raccomandare ai presbiteri di venerare nel loro vescovo l'autorità di Cristo, d'essere a lui uniti nella carità e nell'obbedienza: un'obbedienza pur pervasa dallo spi­rito di collaborazione (PO, 7). Ma se c'è un'autorità legittima efficiente, non si può aspettarsi che le sue disposizioni con-

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cordino sempre col giudizio e colla volontà di chi all'autorità è unito per carità ed obbedienza. Conformarsi all'altrui volontà è, talora, molto pesante alla natura umana. La fede lo facilita.

II. Azione e contemplazione. Uno stato di vita che le unisce e realizza entrambe in giusta dose ed equilibrio è lo stato più completo (S. Tb. IMI, q. 188, a. 6).

1. L'apostolo di vita attiva deve coltivare anche ed anzitutto la sua vita interiore, sia perché questa è l'opera più sublime, sia perché è la garanzia d'una attività conforme ai desideri di Dio, protesa alla Sua maggior gloria, esercitata — come pregava S. Bonaventura — « cum humilitate et discretione, cum dilectione et delectatione, cum facilitate et affectu, cum perseverantia usque in finem ». Parlo di contemplazione in senso molto amplio che comprende, oltre all'orazione vocale e mentale, anche lo studio (visto come vittoria dello spirito sulla materia, come subordina­zione a Dio Verità): « contemplari et contemplata aliis tradere ». La « vita contemplativa » in senso stretto designa un singolare stato di vita, un mezzo particolare di perfezione, una specifica spiritualità che non è praticamente possibile ad un sacerdote che vive ed opera nel mondo. Ma la vita interiore e lo studio sono possibili e necessari a tutti. Tanto più al sacerdote di vita attiva. Il quale non può mai tralasciare lo studio e lo sforzo per ap­prendere i migliori metodi d'evangelizzazione e d'apostolato (PO, 19). E nella sua vita — accanto (e non solò dentro) al tempo con­sacrato allo studio ed all'attività apostolica — deve fissare un tempo consacrato alla sua personale intimità con Dio. Bisogna ch'egli sappia volgersi a Lui che lo aspetta (GS, 14) per un incontro esclusivo: evadere dalla vita, sospendere ogni altra at­tività, escludere ogni altra preoccupazione, per stare sotto lo sguardo di Dio con una preghiera che sia solo preghiera, allo stato puro. Come ci ha insegnato il Maestro.

2. E non basta la preghiera liturgica. Occorre anche l'ora­zione mentale, altrimenti neppur quella liturgica sarà gustata e trasformata in vita. Il Vaticano II la raccomanda (perché « di provata efficacia » PO, 18). Come raccomanda « il colloquio quo­tidiano con Cristo Signore nella visita e nel culto personale della Santissima Eucaristia » (ibid.) (visita ed adorazione oggi da certi cattolici poco praticata e poco favorita); come raccomanda «di

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fare volentieri il ritiro spirituale e di avere in grande stima la direzione spirituale », {PO, 18). Il Vaticano II parla dei presbiteri i quali insegnano ai fedeli a partecipare in tal modo alle celebra­zioni della Sacra Liturgia da attingere « anche in esse » l'orazio­ne « sincera »: segno d'un pericolo che questa sincera orazione venga a mancare nelle pratiche comunitarie. « Vorremmo pro­porre una ... questione — diceva Paolo VI il 13.VI.1973: sap­piamo pregare? Non mettiamo in dubbio con questa aggressiva domanda — aggiungeva — la validità, l'efficacia, il successo della riforma liturgica...; intendiamo piuttosto chiedere se l'uomo di oggi... sappia ancora cavare dal suo cuore qualche sincero, sia pure informe, ma vivo e personale colloquio con Dio » {Inse­gnamenti, T. Vat. XI 1973, pp. 597-98). Il Vaticano II parla dei presbiteri che guidano i fedeli ad avere « lo spirito di pre­ghiera sempre più perfetta, da esercitare in tutta la loro vita, secondo le grazie e le necessità di ciascuno » {PO, 5). Ma i sacerdoti non potranno dare simili consigli se per primi non li praticano con impegno e perseveranza.

3. I sacerdoti non hanno — in virtù del presbiterato — il dovere di celebrare ogni giorno la Messa. Bensì hanno dalla Chiesa l'incarico di pregare in suo nome, santificando la giornata con quell'« opus Dei » che è la recita dell'Ufficio divino. Con questo « estendono alle diverse ore del giorno le lodi ed il rin­graziamento che compiono nella celebrazione dell'Eucaristia... Pregano Dio, in nome della Chiesa, per tutto il popolo loro af­fidato, anzi per tutto il mondo » {PO, 5). Nella « Institutio generalis » della Liturgia delle Ore (S. C. prò Cultu Divino, 11.IV.1971) si legge: « I vescovi..., i presbiteri e gli altri mi­nistri sacri che hanno avuto dalla Chiesa il mandato di cele­brare la Liturgia delle Ore, lo adempiano recitando ogni giorno integralmente le parti secondo le quali l'Ufficio si svolge, cer­cando per quanto possibile, che la recita delle singole ore corri­sponda ai tempi » (n. 29). E Paolo VI nella Costituzione Apo­stolica Laudis Canticunu del 1.XI. 1970, ripete la stessa espres­sione: « integrum eius cursum cotidie religiose persolvant ». Qual­cuno però si è chiesto se la recita dell'Ufficio costituisca ancora un obbligo stretto e grave — com'era affermato prima — dal momento che non se ne parla più nei termini usati dal CJC (« obligatione tenentur », e. 135); e questo specialmente nei riguardi di certe « Ore » dell'Ufficio, poiché è detto, con una

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certa gradualità, che la prima importanza dev'esser data alle Lodi ed ai Vesperi che sono come i cardini della liturgia delle Ore; che si sia fedeli all'Ufficio della Lettura; e che, per meglio santificare tutta la giornata, si abbia anche a cuore la recita del­l'Ora Media e di Compieta. Pertanto alcuni hanno avanzato l'opi­nione che, almeno per quanto riguarda qualche singola « Ora », la recita del breviario sia diventata un consiglio. Senonché è sta­to autorevolmente affermato che la riforma del breviario « non ha cambiato l'obbligatorietà tradizionale... Il verbo persolvant ha lo stesso valore morale di obligatione tenentur del can. 135 ». La scelta d'una espressione diversa sarebbe motivata solo dal­l'intento di venir incontro alla « mentalità moderna » che « ama assecondare più le convinzioni che le imposizioni » (A. Bugnini, Opportuno ordinamento, OR, 24.XI.1972, p. 2). Di fatto, oggi non è più tanto facile vedere sacerdoti col breviario in mano. Neppure in chiesa. Fino a qualche decina d'anni fa si aveva l'im­pressione che questo libro fosse, per 1'« uomo di Dio » — a cominciare dal suddiaconato — il compagno inseparabile: lo si portava sotto braccio o in tasca; si cercava l'edizione secondo la misura più idonea all'uso — dal grande salterio per la recita corale o domestica al minuscolo formato che si portava nei viag­gi e nelle scalate entro il sacco da montagna; lo si recitava do­vunque, in chiesa davanti al SS. Sacramento o per i viali ed i sentieri appartati, nel .giardino di ogni istituto religioso; qual­che volta lo si dimenticava in una panchina dei giardini pub­blici od in treno ma lo si ritrovava immancabilmente alla più vicina canonica o stazione ferroviaria. Purtroppo non è solo la mancanza della visibile recita in luogo pubblico che fa nascere preoccupanti sospetti. Qualche inchiesta parla chiaro. Un set­timanale del clero riferiva di recente i risultati d'un sondaggio operato dalla conferenza episcopale austriaca nel 1971. Si leg­geva che tra i sacerdoti sopra i 61 anni il 90% recitava l'uf­ficio regolarmente; il 10% saltuariamente o non quotidia­namente; tra i giovani (sotto i 32 anni) solo il 18% lo reci­tava quotidianamente; P82% non ogni giorno. Gli intervistati (non fedeli alla recita) hanno addotto a loro giustificazione il so­vraccarico di lavoro e la molteplicità di attività che non lascia nep­pure il tempo al ministero delle Confessioni ed ai colloqui sulla fede, al lavoro d'assistenza pastorale ai gruppi, di direzione spiri­tuale ai singoli. Sono scuse che non meritano neppure risposta.

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4. Bisogna che il sacerdote sappia unire armoniosamente pre­ghiera ed azione e cosi superi un certo qual conflitto o senso di divisione che può provare nella sua vita spirituale: l'impres­sione d'esser quasi lontano da Dio (a causa di tante occupazioni disparate e dissipanti), impressione contrastante col bisogno di esser 1'« homo Dei », tanto vicino a Lui. Ma se è mosso dal de­siderio della gloria di Dio — cioè dalla carità teologale — al­lora egli deve aver fede che azione e contemplazione non sono come divise e giustapposte. La sintesi è offerta: in virtù della carità; e questo principio d'unificazione della vita sacerdotale è anche il segreto della sua efficacia. L'azione allora non è solo santificata, ma santificante. Per la sintesi operata dalla carità la santificazione del sacerdote è effetto sia della preghiera sia del­l'attività esterna. S. Tommaso nella II-II, q. 182, a. 3, si chiede « utrum vita contemplativa impediatur per vitam activam » e risponde che, da una parte, certamente l'attività esterna può impe­dire di pensare esplicitamente a Dio; d'altra parte è un vantaggio e favorisce la stessa contemplazione, quando il lavoro sia ordinato e sano, in quanto che « quieta le passioni interiori dalle quali provengono i fantasmi che impediscono la contemplazione ». Il Vaticano II ai presbiteri i quali « non sine anxietate quaerere possunt quomodo cum exterioris actionis ratione interiorem vitam suam ad unitatem componere valeant », ricorda che per ottenere questa unità non bastano da sole, né l'ordinata organizzazione esterna delle opere di ministero, né la pratica — per quanto utile — degli esercizi di pietà... I sacerdoti dovranno << unirsi a Cristo nel riconoscere la volontà del Padre e nel donare sé stessi pel gregge loro affidato... Cosi nello stesso esercizio pastorale della carità troveranno il vincolo di perfezione sacerdotale che realizza l'unità della vita interiore e dell'attività esteriore » (PO, 14).

I II . Umanesimo e mortificazione. Un sano umanesimo è favo­rito e vissuto dalla Chiesa, sempre antica e sempre nuova. Ma non c'è perfezione della vita cristiana senza mortificazione interna ed esterna, spirituale e corporale.

1. Il sacerdote sarà aperto e sensibile a tutti i problemi che travagliano l'umanità. Ma terrà sempre presente che il suo compito specifico non è d'ordine sociale, economico, politico, ma religioso (GS, 42). Egli civilizza evangelizzando e dispensando i « Misteri di Dio ». « Oggi — diceva Paolo VI il 10.X.1973 al

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Collegio Germanico Ungarico — anche si pone fortemente l'accen­to sulla vita del sacerdote come vita di servizio, sull'esempio di Cristo "uomo-per gli altri", secondo una felice e ben nota espressione. Va però precisato che il servizio del sacerdote, che voglia restare fedele a se stesso, è servizio squisitamente ed essenzialmente spirituale. Questo oggi occorre ben ricordare, con­tro le molteplici tendenze a secolarizzare il servizio sacerdotale, riducendolo ad una funzione prevalentemente filantropica e sociale. È nell'area delle anime, delle loro relazioni con Dio e dei loro rapporti interiori con i propri simili, che si qualifica la specifica funzione del sacerdote cattolico » (Insegnamenti di Paolo VI, T. Vat. XI, 1973, p. 893). Ministeri principali del sacerdote: evan­gelizzazione in tutte le forme (è sufficiente la brevissima omelia domenicale? ed, anche questa, com'è preparata?); amministrazione dei sacramenti (ci sono sacerdoti che si dolgono perché non trova­no penitenti presso il confessionale, ma ci sono fedeli che si lamentano perché non trovano confessori presso i confessionali).

2. Il Vaticano II anzitutto ricorda la soprannaturalità della missione sacerdotale: « il fine a cui tendono i presbiteri con il loro ministero e la loro vita è la gloria di Dio Padre in Cristo » (PO, 2). Poi, secondo le istanze dell'umanesimo, raccomanda loro quelle virtù « molto utili e molto apprezzate nella società umana, quali la bontà del cuore, la sincerità, la forza d'animo e la costan­za, l'assidua osservanza della giustizia, la gentilezza... » (PO, 3). E su queste virtù un sacerdote (specialmente se di vita attiva ed in cura d'anime) avrà senza dubbio molta materia e molte occasioni per interrogarsi.

Ma la virtù-guida sarà sempre la prudenza. Nello stesso eser­cizio della bontà. Non la prudenza del mondo (che non è virtù) ma la prudenza soprannaturale; la quale però non trascura gli umani accorgimenti. Ad esempio, c'è chi vive d'entusiasmo — for­za potentissima e preziosissima — ma rifugge dalla prudente va­lutazione delle proprie possibilità, dalla riflessione sulle circostan­ze e le conseguenze d'una iniziativa. Formula — con sensazionali dichiarazioni — splendidi programmi ma senza possedere i mezzi adeguati, e quindi con una certa leggerezza e faciloneria (a cui può far seguito l'incostanza). È questa, in taluni sacerdoti, una tendenza caratteristica della loro indole; talora però questa con­dotta è difesa per principio. La fiducia nella Provvidenza non è che da ammirarsi, ma, senza speciale e sicura ispirazione, non si può confidare nei miracoli. Si pensi alla predicazione attuale: c'è

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chi tiene come regola che, per questo ministero, basta la prepa­razione remota e la vita fervente (come se lo Spirito suggerisse ai suoi amici quanto dovranno dire). Ma così, spesso, la predica­zione — non preparata, non meditata — non riesce o conclude poco;, talora disgusta. D'altra parte, ci può esser anche la più fatale delle imprudenze: l'irrisolutezza, l'inadempienza, l'eccessiva esi­tazione, complessità, perplessità, timidità. Bisogna osservare il giusto mezzo: né esser troppo sbrigativi né minuziosi. Dare un po' d'ordine e di gerarchia alle proprie azioni, senza però diventar schiavi d'un programma fino a riuscir duri e scortesi col prossimo. Prudenza, dunque, nell'organizzazione del lavoro apostolico, come ha raccomandato Gesù colla parabola dell'uomo che « coepit aedificare et non potuit consummare » (Le. 14, 30). C'è un corag­gio che Dio approva, sostiene, premia; e c'è il falso coraggio di chi osa senza la debita ponderazione, di chi vive di fantasia: nel regno della fantasia i progetti si realizzano in un baleno; nell'ordi­ne della realtà domandano un lavoro lento, faticoso, paziente, attraverso mille difficoltà prevedibili ed imprevedibili. C'è chi ha la tendenza a far tutto da solo, a non chieder mai consiglio, col risultato, spesso, di lasciar poi cadere tutto. Nella sua « Lettera sulla S. Sede » il Lacordaire affermava che il segreto del prodigio­so influsso che il Pontificato Romano ha avuto nella storia del mondo è anzitutto la grazia di Dio, ma che, da parte degli uomini, ci sono due virtù che illuminano e spiegano questo prestigio ope­rante: una prudenza insuperabile ed una costanza invincibile (che mancano a molti politici). Prudenza, per la quale ci si chiede non solo se un'azione è lecita, ma anche se è opportuna, come s. Ber­nardo consigliava al suo discepolo, il Pontefice Eugenio I I I : « primo quidem an liceat, deinde an deceat, postremo an expe-diat ». La prudenza può suggerire di frenare un gesto di carità, di cortesia, di benevolenza, che, in sé considerato, sarebbe buono, ma considerate le circostanze, forse è sconveniente o pericoloso. Prudenza, ad esempio, nei colloqui, specialmente con persone d'altro sesso. Come ci ha insegnato Gesù nel suo colloquio colla samaritana. Tono cordialissimo, gentilissimo (« Dammi da bere », Gv. 4, 7), ma, nel tempo stesso, elevatissimo. Un accento che conquista confidenza e fiducia ed, insieme, venerazione e rispetto, anzi, fa sentire la presenza di Dio (« Signore, io vedo che tu sei un profeta », Gv. 4, 19). Saper introdursi con dolcezza e con una santa abilità, ma aver, come Gesù, la fermezza nei principi e la -riservatezza nel contegno. Il sacerdote non deve perder tempo a

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parlare con tutti delle cose proprie, dispiaceri, gioie, malesseri. C'è chi pensa che, per una efficace direzione spirituale, per dispor­re gli altri ad aprirsi sinceramente, sia bene che il sacerdote apra a loro la sua anima. Ma c'è invece da chiedersi se queste confiden­ze sui propri intimi problemi — come le facili ed acide critiche sull'operato della gerarchia ecclesiastica — favoriscano la fiducia che i fedeli devono avere nel rappresentante di Cristo. Uno scrit­tore d'ascetica suggerisce al sacerdote che incontra qualche anima femminile (od ha un ministero fra le giovani): « Senz'esser chiuso, sii riservato. Senz'esser distante, mantieni le distanze » (G. Cour-tois, A te giovane sacerdote, Milano, 1952, p. 195).

« Bontà di cuore » e « gentilezza » (PO, 3): ad esempio, mode­rare una certa aggressività — con cui l'uomo d'azione (anche apostolico) crede di travolgere chi gli ostacola il cammino: colle belle maniere, senza prender di fronte il prossimo e senza perder il buon umore, forse raggiungerebbe più efficacemente lo scopo. Si deve esser fermi nei principi che non permettono cedimenti e compromessi, ma nel modo di difenderli bisogna toccare il tasto che meglio dispone l'animo e persuade la mente del singolo interlo­cutore. Certe mancanze di tatto e certe cocciutaggini, con sfoghi e scatti (specialmente in questioni di poca importanza) irritano ed allontanano il popolo quando lo si contraria in ciò a cui è per tradizione affezionato. Certe imprese azzardate fan poi tanto sof­frire ed il sacerdote che prende l'iniziativa e chi forse è stato trascurato (mentre poteva perlomeno essere consultato) e chi vi è coinvolto.

« Bontà di cuore » e « gentilezza ». Avere con tutti, senza far distinzione di persone — « cavendo a personarum acceptione » — quella « simplicitas » (di cui parla Benedetto XIV, De Beatificat. servorum Dei et de Beat. Canoniz., Bononiae, 1744, e. 24) e quella « humanitas » di cui parla il Vaticano II (PO, 6).

3. Umanesimo significa servirsi, a scopo d'apostolato, di tutti i mezzi umani che servono alla cultura dello spirito ed al sano e ragionevole divertimento. Il problema sorge tormentoso quando questi strumenti di comunicazione sociale trasmettono anche noti­zie ed immagini dannose o pericolose. Resti fermo: ciò che è male resta male; non diventa bene per la ragione che è il minor male.

4. Umanesimo pel sacerdote significa dare giusta importanza (anche se di strumentalità) al fattore « corpo ». Il ritmo febbrile della vita moderna — con le tensioni e gli esaurimenti di tante

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/ persone impegnate — ha fatto sentire, più che pel passato, la funzione che il fisico ha nella stessa vita spirituale. Il sacerdote pertanto che vuol condurre un'intensa vita d'apostolato e di pre­ghiera, cura debitamente anche la sua salute. Certi sbandamenti dipendono più da fattori patologici che da cattiva volontà: qual­cuno s'è smarrito perché è andato avanti senza una sapiente ed energica terapia di qualche grave squilibrio fisico e psichico. Oc­corre dunque, senza cadere in un naturalismo eccessivo, realizzare una sintesi prudente dell'elemento spirituale e di quello fisico. Per questo, è richiesta talora una moderazione nelle attività. Il Vaticano II afferma che i sacerdoti devono avere una « retribu­zione che consenta loro, ogni anno, un debito e sufficiente periodo di ferie. Ed i vescovi devono cercare e controllare che questa possibilità ai sacerdoti non manchi » (PO, 20).

5. Mortificazione. Il discorso su quest'argomento oggi mal si sopporta. Ma non esiste autentico umanesimo senza mortifica­zione. La vita moderna poi mette il sacerdote nella necessità d'una continua vigilanza. Pio XII nell'Esortazione « Menti Nostrae », accennando ai tanti pericoli, alla dissolutezza dei costumi pubblici, alle seduzioni del vizio che oggi con tanta frequenza e facilità insidiano la castità sacerdotale, rilevava pure « l'eccessiva libertà nei rapporti fra persone di diverso sesso che alle volte s'introduce senza debiti riguardi, anche nell'esercizio del suo sacro ministero. Vigilate e pregate, — raccomandava ai sacerdoti — sempre me­mori che le vostre mani toccano le realtà più sante. Memori che siete consacrati a Dio ed a Lui solo dovete servire. L'abito stesso che portate, in qualche modo vi ricorda che la vostra vita non è per il mondo ma per Dio » {AAS, 42, 1950, 664).

6. L'intensa attività apostolica d'oggi domanda al sacerdote temperanza nel vitto (perché, sia in ogni momento, pronto e dispo­nibile all'azione), temperanza nell'uso del tempo, nelle stesse occu­pazioni oneste e sante, quali i colloqui.

7. Umanesimo significa non temere d'usare (per falsa povertà od inerzia) tutti i mezzi in quanto servono al fine supremo (la gloria di Dio e la salvezza delle anime). Ma questo prudente umanesimo può e deve unirsi allo spirito di povertà e ad una reale povertà (relativa alla situazione dei singoli) la quale non interessa solo i religiosi che ne hanno fatto il voto. Il sacerdote dev'esser « sibi austerus »: osservare temperanza, moderazione, semplicità nel suo tenore di vita, nella sua abitazione, nel mezzo

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di trasporto, evitando ogni lusso non giustificato da un fine superiore. Testimonierà, coi fatti, che usa dei mezzi umani solo per la gloria di Dio ed è staccato dalle cose terrene.

8. Ci si augura che sacerdoti e religiosi non mostrino — per falsa povertà od indolenza — anche nella loro chiesa quella sciat­teria che, specie oggi, si nota spesso nel loro abito. Pur non dimenticando il proverbio: « prima le anime e poi il campanile », non si può non desiderare che « la casa di preghiera nella quale la Santissima Eucaristia è celebrata e conservata, nella quale i fedeli si radunano... sia nitida ed atta alla preghiera ed alle solenni cele­brazioni sacre » (PO, 5; cfr. SC, 122-127).

9. In ossequio ad un certo umanesimo od alla secolarizzazio­ne, molti sono tratti ad eliminare dal proprio abito ogni segno distintivo del loro stato sacerdotale o religioso. Eliminazione che — sia pur per motivi d'ordine pratico — vorrebbero estendere anche alle celebrazioni e riti sacri: è stato chiesto all'autorità competente se sia lecito celebrare la Messa senza i paramenti sacri o colla sola stola indossata sopra la veste talare o l'abito civile. E la S.C. per il Culto divino ha risposto che non intende deroga­re né circa le disposizioni di carattere generale né circa gli indulti particolari. È stato dato il permesso di celebrare la Messa colla sola casula chiusa tutt'intorno fino ai talloni e colla stola posta all'esterno. Ma anche quest'uso è limitato ai casi di necessità e dev'esser autorizzato su richiesta della Conferenza Episcopale di ciascun paese (cfr. « Notitiae », 81, 1973, pp. 96 ss.; A. Bugnini, Celebrare con decoro, OR, 28.VII.1974, p. 2). Con tali disposi­zioni si vuol mantenere il decoro dei riti, aiutare, anche mediante i segni esteriori, lo spirito umano ad elevarsi e sentire il mistero del sacro.

Anche per esser affezionati alla divisa che abbiamo indossato come segno del nostro ingresso ufficiale nella vita sacerdotale o religiosa, ci sono validi ed alti motivi. La amiamo perché rappre­senta — per noi e per gli altri — la nostra consacrazione a Dio; perché è benedetta; perché ci è stata consegnata dal Vescovo a nome della Chiesa; perché è continuo richiamo ad una fede intre­pida di fronte al mondo; perché ci ricorda che tutto è transitorio e siamo in cammino verso la patria; la amiamo perché ci guada­gna più rispetto e venerazione da parte di tutti; perché anche se povera, vecchia, rattoppata (purché pulita) è sempre dignitosa, sempre bella, sempre elegante; la amiamo perché sappiamo che è per noi una difesa contro tutti i pericoli del mondo.

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10. Il presbitero è l'uomo che con eroico olocausto, ha rinun­ciato « propter Regnum coelorum » a certi valori terrestri, in primo luogo alle soddisfazioni della vita sessuale. Il suo umanesi­mo è quindi unito alla rinuncia. La quale non sarà una perdita (se desiderata e suggerita da Dio con la vocazione) ma un guada­gno: fonte d'una gioia immensa. Perciò i sacerdoti « per la loro vocazione e per la loro ordinazione vengono ad esser in certo modo, segregati in seno al Popolo di Dio. Ma non per rimaner separati dal Popolo e da ogni persona, ma per poter darsi total­mente all'opera per la quale il Signore li ha assunti... Testimoni e dispensatori d'una vita che non è quella terrena, non potrebbero servire gli uomini, se si estraniassero dalla loro vita, ignari delle sue condizioni reali » (PO, 3). Proprio in virtù sia d'un sano umanesimo, sia della stessa rinuncia a qualche umana soddisfa­zione, il sacerdote acquista una sensibilità spirituale e sopranna­turale che gli permette di interpretare e pesare (come se l'avesse vissuta e sofferta) tutta la vita concreta d'un uomo o d'una donna. Ha scritto un laico: « Quando i laici cristiani hanno vera­mente incontrato una volta in vita un prete, che ha "compreso", che è entrato con cuore d'uomo nella loro vita, nelle loro diffi­coltà, essi non lo possono più dimenticare ». Vogliono però che rimanga « padre »: non occorre che adotti lo stile cameratesco; e tanto meno la stessa vita del laico. « Quando io chiamo "padre" un giovane frate che può esser mio figlio e lo tratto con grande rispetto, come se la sua età non fosse la sua età d'uomo, ma i duemila anni della Chiesa, lo faccio anche perché lui fa rinunzie che io non sarei mai stato capace di fare » (V.C. Rossi, in « Epo­ca », Febbraio 1970). « Purtroppo — diceva Paolo VI ad un gruppo di sacerdoti il 26.IX. 1973, viviamo in un momento in cui da molte parti, in nome di un adeguamento ai tempi che è invece conformità allo spirito del mondo, si sollevano dubbi e incertezze sulla vera natura del sacerdote e sulla sua giusta collocazione in seno alla società. Sacerdoti carissimi... rimanete fedeli alle vostre scelte, ai vostri sacri impegni, alla vostra irrevocabile consacra­zione a Dio avvenuta nel giorno della vostra ordinazione » {Inse­gnamenti, XI, p. 894).

IV. Sul problema del celibato al confessore può capitare di dover sia discutere sul piano teorico, sia dare qualche consiglio sul piano pratico a chi è sconvolto dall'uragano e, forse, ha già preso intimamente la decisione di defezionare. Il celibato importa

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una difficoltà — si legge nel n. 7 dell'Enciclica « Sacerd. Cae-libatus » di Paolo VI, 24.VI. 1967 —, difficoltà che spinge taluni a chiedersi se sia giusto allontanare dal sacerdozio coloro che avrebbero la vocazione ministeriale senza aver quella della vita celibe (AAS, 59, 1967, 660). Oggi può darsi che anche qualche aspirante al sacerdozio si permetta di contestare la disciplina della Chiesa Latina. Tempo addietro nessuno si sarebbe sognato di far questione su tale argomento: esser sacerdote significava anzitutto, pacificamente, rinunciare alla vita coniugale ed impegnarsi ad osservare la castità esterna ed interna. Realmente, per una persona che ha normali tendenze, è il più grande sacrificio. Un sacrificio ed un'offerta fatta a Dio, la quale però è garanzia d'un'abbondan­za straordinaria di grazie divine pel sacerdote e di carismi pel suo ministero a vantaggio degli altri. Strettamente parlando, secondo la morale, non sono peccaminosi i desideri spirituali di ciò che è proibito solo dal diritto positivo purché sia posta la condizione: « se non fosse proibito »; perciò, per sé, non sarebbe illecito avere questa condizionata disposizione di spirito: « mi sposerei se non fossi sacerdote » (purché non sia una disposizione accom­pagnata da deliberata concupiscènza). È ovvio però come simile desiderio possa esser pericoloso; anzi, sarebbe indice (specie se si trattasse di chi aspira al sacerdozio) d'una mentalità che lascia perplessi.

1. A chi non è sacerdote e mette in dubbio l'opportunità del celibato obbligatorio si dovrebbe dire che spetta alla Chiesa rego­lare colle sue norme la vita dei sacerdoti e stabilire i requisiti al sacerdozio. A meno che non si neghi l'autorità che il Maestro le ha conferito. Certamente è Dio che chiama un'anima al sacerdozio ma nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Ognuno è libero di fare questa scelta. Se la fa non può non conformarsi alle disposi­zioni della Chiesa. Chi può esser sicuro di sentirsi chiamato al sacerdozio, ma non al celibato ed aver il coraggio di metter deci­samente in dubbio che, circa questo requisito tanto importante, la volontà di Dio s'identifichi colla volontà della Chiesa?

2. Può anche darsi che qualcuno s'appelli alla Scrittura contro la legge attuale della Chiesa che impone il celibato ai sacerdoti. Certamente il celibato non è richiesto dalla natura stessa del sacerdozio. Paolo parla del vescovo sposato. Ma conosciamo bene qual è il suo consiglio. E sappiamo quale fu la vita di Gesù; e quale fu, dopo la chiamata, la vita degli apostoli che — « lasciata

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ogni cosa »: casa, famiglia, mestiere — « lo seguirono » (Le. 5, 11) per andar incontro, sulla scia del Maestro, ad un destino di vita e di morte. Comunque, la Chiesa alla quale il credente guarda per conoscere la sua « mens », è la Chiesa viva d'oggi, la Chiesa guidata lungo i tempi dallo Spirito. E nessuno può esigere ch'essa, quando emana (o conserva) una legge, domandi l'approvazione dei singoli, con metodo democratico. Ma, per esser sinceri ed andar in fondo, c'è da chiedersi se la battaglia anticelibataria non tradisca in molti la persuasione che la continenza è impossibile. Eppure, oltre ai sacerdoti, ci sono molti laici che non possono usare del matrimonio. La grazia deve dar loro (se fanno il possibile) la possibilità di conservarsi casti. Sarà difficile, sarà eroico, ma deve esser possibile. Gli sposati stessi devono osservare la castità «coniugale», il che significa fedeltà al coniuge, conformità alla legge di Dio nell'uso del matrimonio, osservanza della continenza in certi periodi.

3. Il confessore quando accoglie un confratello in crisi e gli richiama i motivi del celibato procurerà di non inasprirlo con risposte secche, dure ed umilianti. Bisogna esser pieni di com­prensione e di tenerezza verso chi, in certi momenti, si trova nel totale disorientamento, nel buio assoluto, nella perplessità ango­sciosa: una prova che domanda un coraggio eroico. Il compito del consigliere spirituale talora è tutt'altro che facile: ha due obbiet­tivi: ottenere che il sacerdote non ceda alla passione travolgente dei sensi; e poi — conquista ancora più profonda e più stabile — ottenere un certo cambiamento di mentalità riguardo a questo problema. Chi solo si rassegna al suo stato dovrebbe esser con­dotto ad aderirvi « con grande slancio dell'animo e con tutto il cuore..., a riconoscere questo prezioso dono concesso dal Padre e tanto apertamente esaltato dal Cristo » {PO, 16). Il confes­sore consigli anzitutto al confratello d'attender con fede ed -in preghiera che passi la tempesta, senza impressionarsi, senza pren­der decisioni precipitose, senza manifestar imprudentemente ad altri certi stati d'animo che sogliono esser transitori (dipendono spesso ed in gran parte dalle condizioni di salute: bisogna che ritorni un po' di energia che favorisce uno stato di maggior calma e serenità). Saprà poi con delicatezza ed amore ricordargli ragioni e fatti che fanno necessariamente riflettere chiunque (a prescin­dere dalle discussioni teologiche e dalle disposizioni ecclesiastiche): difficoltà (dirà) ci sono in ogni stato; laici che si sono conservati

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puri fino al matrimonio, confessano di trovar maggiori difficoltà a conservare la fedeltà coniugale e l'astinenza (nei periodi in cui è necessaria o consigliabile agli sposi). È un'illusione credere che rinunciando al celibato si risolva il problema della purezza: gli adulteri tanto frequenti e gli abusi matrimoniali fanno pensare che è più facile osservare e difendere la castità assoluta, per chi ne ha contratta l'abitudine. S'aggiunga, pel sacerdote, il disagio e l'imbarazzo di sentire intorno a sé gente la quale (anche se non ha fede e pratica religiosa) non ama, non approva, stima meno chi, dopo aver preso un impegno (che lo eleva al di sopra degli altri) getta le armi e segue la via comune: una bandiera ammainata per mancanza di maturità. « Anche il matrimonio dei preti? », si chiedeva Alfredo Oriani. E rispondeva: «.. . Cristo nasce dalla Vergine, passa sulla terra senza alcun amore di donna... Dopo di lui, sulle sue orme, e per le sue parole, il prete ripete ancora la stessa mediazione celeste... Non può amare, esser marito e padre. La sua paternità è spirituale, il suo amore deve essere uguale per tutti... L'amore umano nuoce, quello della famiglia è angusto: è preferenza, necessaria nella vita, impossibile nella Religione » (17/-tima carica, Bologna, Cappelli, 1933, p. 174). A quei sacerdoti o religiosi che propongono il celibato facoltativo appellandosi al giudizio del popolo di Dio contro l'autorità della Chiesa, bisogna dire che i loro voti non trovano l'approvazione né da parte del popolo fedele, né da parte di quello laico, né da parte di chi conduce una vita lussuriosa.

Anche dal punto di vista delle soddisfazioni naturali e della felicità personale ci sono molte riserve da fare alla proposta d'un sacerdozio non celibatario. Chi volesse congiungere sacerdozio e matrimonio dovrebbe prevedere gli incerti ed aspettarsi le delu­sioni. La scelta della moglie, anzitutto, presenta tante difficoltà se si considerano le esigenze che un sacerdote ha, e deve avere, in forza della sua preparazione intellettuale, morale, spirituale. S'aggiunga l'arduo problema di conciliare ministero sacerdotale, vita familiare e professione secolare. Quanto allo stato ed al senso di solitudine (che figura fra le motivazioni più frequenti degli anticelibatari) il confessore cercherà d'infondere la ferma speranza che un accresciuto fervore della vita interiore dissiperà quest'impressione. È il « mondo » che giudica il sacerdote come l'uomo della solitudine. Ma il mondo non conosce quale sia la vita che riempie questa solitudine. « Riconosciamo — scriveva Paolo VI — che il sacerdote, a causa del celibato santo, è un

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uomo solo (solitarium). Ma la sua solitudine non ha la vastità e l'inanità del puro vuoto. È riempita da Dio e dalle ingenti ric­chezze del suo regno celeste » (Enc. « Sacerd. caelib. », n. 58, AAS, 59, 1967, 680). In questa solitudine potrà talvolta insinuarsi una vena di tristezza perché anche il sacerdote conserva la natura d'uomo, per quanto confortato dalla grazia. Ma sarà una tristezza superficiale e passeggera: lo consolerà il pensiero che questo sacri­ficio lo associa alla missione salvifica di Cristo. Se la Chiesa ha introdotto il celibato pei sacerdoti, certamente l'ha fatto perché vuol esser sempre più pura, sempre più bella, sempre più santa: « con la verginità od il celibato osservato per il Regno dei cieli, i sacerdoti si consacrano a Cristo in maniera nuova ed esimia, aderiscono più facilmente a lui con un cuore non diviso, si danno — in Lui e per Lui — più liberamente al servizio di Dio e degli uomini » {PO, 16).

A chi fa propaganda per il celibato opzionale, il confessore farà riflettere che questa campagna genera turbamento a tanti confratelli tra i quali alcuni (sia pur insensibilmente) ne risenti­rebbero l'influsso, una diminuzione di certezza e d'entusiasmo; infine, questa umanizzazione del sacerdozio sarà tutt'altro che fa­vorevole al sorgere delle vocazioni: sono i preti con l'esempio della loro vita generosa ed eroica che attirano i giovani a prender la strada che porta senza compromessi alla santità.

Infine, a chi ha fatto prudentemente (dietro consiglio di sagge persone competenti) la sua scelta del sacerdozio, ma pensasse che, a lungo andare, il celibato è nocivo alla salute fisica, il confessore darà una risposta assolutamente tranquillizzante. Ma mi dispenso dal riferire le testimonianze di autorevoli clinici. Non è l'osservanza della castità — quando sia motivata da un amore soprannatu­rale — che, di per sé, porta squilibri nervosi, ma può esser invece una sopraggiunta debolezza fisica, particolarmente del sistema ner­voso, che provoca talora maggiori difficoltà nella pratica della castità.

4. Tentiamo infine una qualche classificazione di sacerdoti circa questo problema del celibato. Ci sono anzitutto coloro che si conservano coerenti agli impegni, sia nella vita sia nel pensiero: castità assoluta, convinzione fermissima che il celibato è il mag­gior titolo di grandezza per chi è ministro e rappresentante di Cristo, specialmente nella celebrazione eucaristica. Ma c'è pure chi afferma di voler esser fedele alla promessa del celibato, però

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dichiara (e sente il bisogno d'accusarsi) che preferirebbe una disciplina ecclesiastica nella quale il celibato sia facoltativo e non obbligatorio. Qualche altro arriva senz'altro a dire che (pur non sentendosi di venir meno a quanto ha promesso) pensa sarebbe bene fare anche altre « esperienze » — quelle sessuali — oltre quella della paternità spirituale. Su questi pensieri e discorsi sentiranno il bisogno d'aprirsi e d'accusarsi in Confessione. Sono in uno stato di conflitto: da una parte non sanno decidersi ad abbracciare con convinzione, gioia, entusiasmo l'impegno che han­no assunto; dall'altra sentono che questa mancanza di dedizione generosa non li rende felici. Situazione penosa, per essi e pel loro confessore. Infine ci può essere il sacerdote che ha pratica­mente rinunciato al suo impegno di castità. (C'è chi sostiene — per ragioni intuibili, cioè non spassionatamente — che la mag­gior parte del clero secolare non pratica il celibato: ma come si può affermarlo e dimostrarlo?). Certo, chi non è fedele alle sue promesse non può esser tranquillo. Si sente in uno stato di falsità, anche umanamente e civilmente. Perciò — per un senso di coe­renza — la rinuncia al celibato può portare all'abbandono del sacerdozio. Occorrerebbe dare una mano a chi è caduto, anzitutto tentando d'ottenere il desiderio, la decisione, lo sforzo supremo di liberarsi dal legame che lo incatena. Se la defezione dal sacer­dozio dipendesse da crisi di pensiero bisognerebbe discutere quelle difficoltà che minacciano la fede d'un sacerdote. Ma dalle inchieste risulta che solo una minima percentuale (circa 1 su 100) abban­dona il sacerdozio perché ha perduto la fede. Gli altri lo fanno perché non si sentono di mantener fede all'impegno del celibato. In questi intervengono, in concreto, un complesso di cause (come, del resto, in chi lascia la fede). Spesso nel fisico stesso c'è qualche squilibrio che sta al fondo della crisi. Perciò chi si sforza, ma non riesce, a superare la prova, merita sempre comprensione e compa­timento. E spesso è la donna che cerca con ogni arte di far cadere il sacerdote. Egli non dovrebbe ignorarlo ma premunirsi. Non concedersi e non concedere nessuna libertà pericolosa. La donna è attratta da tutto ciò che può appagare la sua vanità e leggerezza. Più che stimoli di sensualità sono motivi di estetismo che la muovono: il nome, la carica, la fama d'una persona, la sua divisa stessa, specialmente se portata con inappuntabile proprietà, può indurla a cercarvi la sua preda. D'altra parte i sacerdoti che si son lasciati travolgere da una passione umana, avevano già perduto la passione, l'entusiasmo, lo zelo per la loro missione. Il

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sacerdote, è stato scritto, non sarà vulnerabile da questa tentazione se non nella misura in cui la sua vocazione non riuscirà più a riem­pire la sua vita.

Anche al confratello che avesse decisamente defezionato, il confessore offrirà la sua mano e darà il suo consiglio. Lo aiuterà a regolare la sua posizione, a trovare una decorosa sistemazione. Il sacerdote che ha chiesta ed ottenuta la dispensa dal celibato deve sentire ancora intorno a sé l'affetto della comunità cristiana e dei confratelli nel sacerdozio. La carità suggerisce che non sia trattato come un reprobo, uno scomunicato da fuggire, un pub­blico peccatore. Isolato e malvisto, la sua vita precipiterebbe nella tristezza e nell'amarezza. Ma non sarà neppur il caso che, quando gli giungerà la dispensa dal celibato, i compagni d'ordinazione si riuniscano con lui per una cena d'addio. Non si può esser lieti e far festa per un abbandono che è una sventura. Anche se, nelle vie di Dio, non è irreparabile, perché subentrerà un altro ordine di circostanze provvidenziali. Per la misericordia di Dio e la buona volontà dell'uomo, lo sbaglio e la mancanza di fedeltà e generosità non escludono nuove possibilità di vera vita cristiana. Anzi, di santità. Questo pensiero di fede deve rimanere sempre nel cuore del sacerdote; e, se venisse meno, bisognerebbe ravvi­varlo. Ad un dato momento, presa la decisione di contrarre rego­lare matrimonio, egli dovrà aggrapparsi alla fede sia per non esser ghermito dall'angoscia degli sterili rimpianti (che impedirebbero d'intraprendere con entusiasmo la nuova vita, coniugale e profes­sionale) sia per non perder la stima verso il sacerdozio e l'ammi­razione verso coloro che hanno il coraggio e la forza di perse­verarvi.

Ricordo che, extra il pericolo di morte, la Chiesa non permette al confessore d'assolvere — neppur inducendo il caso urgente (CJC, e. 2254) — un sacerdote che abbia contratto matrimonio civile ed asserisce che gli è umanamente impossibile cessar di convivere con la sua compagna; non si può assolverlo neppur se promette d'osservare la castità completa (AAS, 28, 1936, 242-243). Perché possa ricevere l'assoluzione, il sacerdote dovrebbe dunque prendere una di queste due decisioni: o troncare la rela­zione e cessare la convivenza con la complice della sua defezione, o chiedere la dispensa dal celibato e poi contrarre matrimonio religioso. La Chiesa, in questi ultimi tempi, ha allentato l'intran­sigenza osservata nel passato, quando era difficilissima persino la concessione d'accedere (extra il pericolo di morte) ai sacramenti

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per un sacerdote che avesse contratto iT matrimonio (e fermo sempre l'obbligo della castità). Oggi colla dispensa — sia pur concessa caso per caso, debitamente considerato in tutte le sue circostanze — la Chiesa s'è mostrata madre misericordiosa. Troppo buona? si chiede qualcuno. Non spetta a noi giudicare ciò che è il meglio in materia tanto delicata. La dispensa regolarizza — da­vanti a Dio e davanti alla Chiesa — certe situazioni (ormai uma­namente irreversibili) e cosi leva l'ostacolo alla pratica sacramen­taria anche pubblica. Bisognerebbe che la bontà della Chiesa verso coloro dei quali non si può sperare il ritorno, non favorisse l'eva­sione d'altri sacerdoti deboli ed ondeggianti. La dispensa dal celibato va considerata come una misura di ripiego, come il minor male, perché certamente non edifica, non incoraggia, non stimola ad una vita di purezza austera, non accresce la stima per la vergi­nità ed il celibato offerti a Dio: celibato che significa dominio dello spirito sui sensi, anticipazione della vita futura, azione trion­fante della grazia, vocazione privilegiata.

7. Vescovi

1. Anche chi ha avuto solo qualche volta l'occasione di pre­starsi per amministrare il sacramento della Penitenza a qualche vescovo di passaggio si sarà confermato nell'idea di uomini che portano una croce spaventosamente pesante. Uomini che, se tro­vano anche il più umile sacerdote che mostri pazienza e compren­sione nell'ascoltarli, sentono il bisogno di sfogarsi, di manifestare certi crucci ed angustie che straziano il loro spirito, pur nella sicu­rezza della fede e nella fermezza della speranza. In ogni diocesi il Signore deve pur preparare qualche sacerdote al quale il ve­scovo possa confidare il suo intimo. Non sarà facile il trovarlo perché dovrebbe avere virtù eminente, cultura profonda, espe­rienza matura, sensibilità fine e delicata. Però qualcuno ci deve essere; e non tanto lontano da ogni sede vescovile. Non sarebbe cosa indiscreta od esagerata, bensì edificante (e, per ogni eve­nienza, forse utile) se si sapesse da quale sacerdote (o da quali sacerdoti) più frequentemente il vescovo si confessa. D'altra parte, immagino anche che un sacerdote confessore di vescovi si troverà spesso imbarazzato, sia perché non sempre conosce tutte le circo­stanze di chi gli chiede un consiglio su questioni non a prima vista solubili, sia perché la presunta scienza, prudenza ed espe-

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rienza del penitente stesso renderà il confessore cauto e discreto nei suggerimenti. Cosicché per i vescovi, i quali più dei sacerdoti vanno soggetti a prove di spirito ed attraversano momenti d'ab­battimento, si profilerà spesso lo spettro della solitudine: non avranno vicino qualcuno al quale pienamente aprirsi e tutto con­fidare per avere una parola d'incoraggiamento, di luce e di conforto.

2. Strana condizione del vescovo d'oggi. È l'uomo che si direbbe il più popolare e, forse, è il più solo: il più presente fra le sue pecore ma che, in realtà, rischia d'esser il più assente dei pastori della sua diocesi. Le sue visite sono frequenti dovunque, ma frettolose; e cosi i contatti restano superficiali. Vede tutto, ma non conosce intimamente nessuno. E cosi non trova il tempo né di lavorare in profondità per gli altri né d'accumulare energie spirituali per sé, di sostare in calma nella sua Cappellina, di con­sultare la sua biblioteca dove una volta aveva tanti amici.

3. Il più solo ed il meno libero fra il clero della diocesi. I suoi movimenti sono sotto controllo. Il suo orario di vita è noto, anche nei minimi particolari. La sua casa è di cristallo. Tutti spiano più dentro che è possibile per vedere se c'è qualche critica da muovere: se mai ci sian lusso e comodità eccessive oppure l'abbandono all'indolenza, alla trascuratezza, al disordine, alla sciatteria.

4. Non è il lavoro che lo spaventa. Spesso è piuttosto la per­plessità sulla linea migliore da seguire perché ci sono spinte for­tissime da sinistra e da destra (non mi riferisco ad orientamenti politici). Come e più che il semplice sacerdote si sentirà agitato da tormentosi conflitti. Colla grazia di Dio ed il consiglio illumi­nato potrà e dovrà certo risolverli con decisione. Però lo stato di tensione forse rimarrà. È inerente al governo. È la croce del vescovo.

5. Guarda ai suoi sacerdoti con spirito d'umanità, anzi, di fraternità, più che di autorità. È la prima condizione per poter esercitare un influsso efficace, ottenere confidenza, affiatamento, collaborazione. Se, insieme al prestigio, eserciterà il fascino della bontà, non sarà quasi mai necessario che ricorra allo stretto co­mando. Scriveva un sacerdote (parroco e docente universitario): « I rapporti tra vescovi e preti debbono... essere improntati alla amicizia e alla fiducia. A volte, si ha l'impressione che il sacerdote sia visto soltanto o, esclusivamente, come operatore pastorale o,

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peggio, come delegato, e tutti gli altri aspetti vengano trascurati. L'amore di amicizia guarda all'altro nella sua .totalità e globalità, si interessa di tutti i suoi problemi personali, non solo esteriori come la salute, i rapporti familiari, le necessità economiche, ma anche interiori come gli stati d'animo, le aspirazioni, le disillu­sioni, le difficoltà nelle relazioni con gli altri... Il presbitero, se sente il vescovo amico, supera più facilmente tante frustrazioni e incomprensioni che sono il vero male che paralizza energie preziose e buona volontà... Il sacerdote deve imparare, deve educarsi ad incontrare nell'amore il proprio vescovo... Questo amore, come quello di Cristo, sopporta, perdona, scusa, compatisce, condivide. E quanto anch'essi chiedono al proprio vescovo » (A. Mazzolali, II vescovo: mio fratello, « Presbyteri », 1973, n. 10, pp. 768-769).

Ma allora pel vescovo può sorgere un conflitto. Da una parte egli vorrebbe che il suo ministero avesse come regola fondamentale quella di essere un umile e fraterno servizio (S.C. per i vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, 1973, n. 32): lasciar benevolmente a tutti esprimere con libertà la loro opinione, consultare nelle decisioni gli interessati, promuovere il dialogo e cosi provocare la collaborazione degli altri. E questo sia per l'af­fetto che deve nutrire per i suoi sacerdoti sia perché oggi tutti invocano un clima di maggior libertà e democrazia, l'abbandono di ogni paternalismo, autoritarismo, burocratismo (Dirett. Ve­scovi, n. 36). D'altra parte il vescovo sperimenta che per questa via si spende molto tempo nella discussione e si conclude poco, gran parte dei partecipanti restan scontenti. Per quanto egli cerchi di soddisfare le comuni aspirazioni — ad un regime nel quale decisioni e scelte sian frutto d'una collaborazione di tutti — alla prova dei fatti toccherà spesso con mano come coloro (sacerdoti e laici) i quali son chiamati a coadiuvarlo, spesso son molto divisi nei loro pareri; la maggioranza stessa stenta ad accordarsi; molti mancano di competenza, d'esperienza, d'equilibrio, di serietà, son mossi più dal desiderio di novità che dal vero bene spirituale delle anime. Perciò il vescovo deve conservarsi calmo ed esser deciso: saprà ascoltare, saprà comprendere poiché — oggi si dice — ognuno ha il suo carisma; però, in definitiva, l'ultima parola spetta a lui (Dirett. Vesc, n. 34); ed egli la dirà dopo essersi consigliato (se lo crede necessario) con qualcuno, particolarmente con chi esercita l'autorità di metropolita, oppure con qualcuno della sua o d'altra diocesi che abbia non comune virtù e consumata espe­rienza. Però tutti devono aver l'impressione che chi decide e

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dirige è il vescovo (e non qualche suo amico). Quindi egli dovrà conciliare una certa mitezza con la fortezza, una certa arrendevo­lezza e duttilità (e, diciamo pure, diplomazia) con la prontezza ad intervenire risolutamente; ma praticare la gentilezza con tutti, la finezza, la mitezza e la serena dolcezza, la comprensione (special­mente per le infermità ed i limiti di sacerdoti che hanno meno energie e meno ingegno di lui), conciliare tutte queste virtù con la debita energia. Il suo ministero è un servizio umile e fraterno, ma anche paterno. Ed è, sarà sempre, un governo. Da esercitarsi spe­cialmente quando dev'esser assicurata l'unità della fede e della mo­rale, l'unità fra tutti i membri ed i gruppi della chiesa diocesana. Egli deve sapere che in materia delicata il diffondere certe opinioni od ipotesi di lavoro significa praticamente comunicare dubbi ed errori sulla fede e la morale. Oggi da taluni s'invoca un pluralismo — specie in materia di morale — variante secondo le diverse Chiese locali. Ma quello che la Chiesa universale ha sempre inse­gnato come rivelato o conforme al diritto ed alla legge morale naturali, non può mutare. Solo le formule potranno esser sosti­tuite con altre più intelligibili dall'uomo d'oggi (purché però nulla del contenuto oggettivo sia cambiato o perduto). In campo asce­tico potrà mutare accidentalmente la manifestazione della virtù e della santità cristiana, non la virtù e la santità.

Un vescovo non può non esser amareggiato alla vista del dis­senso, della divisione, della contestazione, dell'autolesionismo che oggi esistono nell'interno stesso della Chiesa. E più grave è il fatto che ci si appella alla distinzione fra Chiesa istituzionale e Chiesa carismatica per giustificare le disobbedienze ed un malsano plura­lismo (Paolo VI, Discorso, 29.VIII.1973, OR, 30.VIII.73, p. 1). Ebbene, perché siano preparati a questi momenti d'emergenza « il Concilio Vaticano II ha rammentato nuovamente ai vescovi l'autorità magisteriale che hanno sempre posseduto. Ad essi tocca decidere in prima istanza sulle dottrine teologiche, perché sono i portatori del ministero apostolico. Ma devono anche avere il co­raggio di designare errore l'errore, eresia l'eresia, affinché i fedeli, il popolo di Dio, non divengano insicuri e non siano sviati nella loro fede. I vescovi, quando fanno uso della loro autorità dottri­nale, non devono temere i mass-media, la cui potenza non è oggi inferiore a quella della Chiesa di Stato alcuni secoli fa » (H. Jedin, Teologia e magistero, OR, 13.1.1973, p. 5). Certo, coi singoli, prima di giungere alle misure punitive ed alla riprovazione pub­blica, il vescovo tenta d'ottenere colla persuasione il suo scopo:

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« egli tempestivamente ammonisce coloro che osassero proporre dottrine discordanti dalla fede e, in caso di mancato ravvedimento, li priva della facoltà di predicare o di insegnare » (Dirett. Vesc, n. 65). « È suo dovere e suo diritto nella Chiesa quello di esami­nare e, se del caso, riprovare e condannare i libri e le riviste nocivi alla fede o alla morale. Perciò personalmente o per mezzo di altre persone adatte, egli vigila su libri e riviste che si stampano o si vendono nel suo territorio ». Fa opportunamente confutare gli « scritti la cui lettura potrebbe costituire un danno o un pericolo spirituale per i fedeli... Tuttavia se quegli scritti hanno in diocesi una larga diffusione, e il pericolo per la fede e la morale è grave e certo, allora egli ricorre anche alla pubblica riprovazione ». Ma « non addiviene alla condanna di libri prima di avere per quanto possibile, informato i loro autori degli errori di cui li si accusa, e aver loro data ampia possibilità di difendersi anche a mezzo di altre persone di loro scelta ». Ed « a meno che, in casi particolari, un grave motivo non consigli di fare diversamente, vengono espo­ste pubblicamente le ragioni della proibizione dei libri... » (Dirett. Vesc, n. 73).

Insomma, i vescovi — in materia di fede e di morale — si preoccupano soprattutto del bene comune delle anime, ma usano, per quanto possibile, delicatezza e riguardo anche verso i singoli erranti che recano danno alla comunità.

6. Nelle Visite pastorali alle parrocchie c'è, o almeno c'è stato in passato, qualche vescovo il quale aveva piuttosto l'aria dell'ispet­tore che faceva tremare parroci e parrocchiani. Segno di particolare temperamento e d'una personale mentalità che possono ben coesi­stere colla santità, anche se non la rendono simpatica. Si legge nel Direttorio dei Vescovi: « In Visita, come del resto in tutte le cir­costanze della sua vita, è conveniente che il Vescovo si comporti verso tutti con semplicità e dolcezza di modi, con bontà e affa­bilità, dia esempio di pietà, povertà e carità: virtù, che, assieme alla prudenza, costituiscono la caratteristica dei pastori della Chiesa e che, soprattutto oggi, sono molto apprezzate » (n. 170). Egli giungerà in mezzo ai suoi figli come un padre comprensivo e consolatore ma, insieme, come un trascinatore che trasmette irresistibilmente il suo slancio apostolico.

7. Nei suoi scritti — rivolti a tutti i suoi diocesani — sarà consapevole che non è il momento « di elaborare dissertazioni sco­lastiche » (Dir. Vesc, n. 57). Oggi, poi, si preferiscono lettere

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pastorali più brevi, ma più frequenti (Dir. Vesc, n. 60). Allo scopo, occorrerà un'intelligente « scelta degli argomenti », « uno stile appropriato e conciso », « una forma di linguaggio ispirata dalla fede che... sia aderente al pensiero della Chiesa e compren­sivo delle molteplici esigenze dell'uomo d'oggi » (n. 57). Cosi pure nella predicazione. Il vescovo cercherà di « conoscere bene la mentalità, le consuetudini, le situazioni, i pericoli, i pregiudizi delle persone e delle categorie alle quali predica » e di « adattare continuamente la forma del suo insegnamento alla loro capacità, alla loro indole, alle loro necessità » (Dirett. Vesc, n. 59). « La predicazione — avverte il Vaticano II — nelle odierne situazioni del mondo è diventata non raramente assai difficile... Non basta esporre in modo generale ed astratto la parola di Dio. Bisogna applicare la perenne verità dell'evangelo alle concrete circostanze della vita » (PO, n. 4). A tal fine, si richiederà uno sforzo con­tinuo. E tempo per prepararsi: per questo, il vescovo affiderà ai suoi collaboratori fidati il disbrigo di certe pratiche, controlli, con­teggi, perizie. Anche nelle Visite delle parrocchie lascerà « a pre­sbiteri idonei, specialmente ai Vicari foranei, il compito di esami­nare i registri della parrocchia e degli altri Istituti, di ispezionare i luoghi sacri e la suppellettile, di controllare l'amministrazione dei beni, in giorni antecedenti o susseguenti alla Visita: cosi egli potrà dedicare il tempo della Visita piuttosto ai colloqui e ai sacri ministeri, come ben s'addice alla sua missione di capo, maestro e pastore della comunità cristiana » (Dir. Vesc, n. 168).

Non c'è dubbio, una certa sorveglianza del vescovo ci dovrà essere sempre e in tutto. E la sua presenza ed assistenza in certe occasioni è senz'altro e per molteplici ragioni, utile a lui ed agli altri. Se ad esempio, presiede qualche esame dei candidati al sa­cerdozio, conoscerà meglio i suoi futuri collaboratori, si renderà conto dell'insegnamento che hanno ricevuto e dei frutti che ne hanno ricavato.

Un vescovo più parla al suo popolo, al suo clero, ai suoi seminaristi, meglio è. Però siccome tempo e forze sono limitate, è preferibile che parli quando può farlo bene e preparato, piut­tosto che spesso, improvvisando e senza lasciare alcuna im­pressione.

8. Accenno ad un conflitto che può agitare l'animo d'un ve­scovo: egli vorrebbe soddisfare le richieste di tutti, non smorzare mai gli entusiasmi, ma, se va un po' a fondo, s'accorge che insieme all'onestà e suggestività dei programmi, allo zelo delle

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iniziative, covano personalismi e campanilismi radicati e difficil­mente sradicargli. Tutti oggi parlano di collegialità, di dimensione sociale, di spirito comunitario, però, in realtà, ci sono gruppi — e do a questa parola un senso larghissimo — i quali intendono autogovernarsi, essere indipendenti, E cosf non progredisce la vera unità. Bisogna dunque che il vescovo — dopo essersi, se occorre, consultato ad avere l'appoggio dell'autorità superiore — prenda in mano con una certa decisione le redini per organizzare il lavoro. Quante maggiori attività ed iniziative si realizzerebbero pel bene comune se ci fosse più unione fra le forarne, fra le diocesi, fra i seminari, fra i sacerdoti ed i religiosi (cf. Dirett. dei Vesc, n. 53).

9. Altro conflitto: un vescovo dovrebbe vigilare sulla stam­pa che si pubblica e circola nella sua diocesi e, se necessario, ri­correre alla proibizione {Dirett. Vesc, n. 65; 73). D'altro canto si sente come legato perché vede che questi stessi scritti altrove (dove si potrebbero e si dovrebbero riprovare) sono liberamente diffusi e venduti nelle librerie cattoliche. Eppure sono libri, di au­tori ad esempio protestanti, che contengono errori. Comunque, il vescovo, per quanto sta in lui, seguirà la sua coscienza e le diret­tive le quali sono chiare {Dir. Vesc, n. 73).

10. Poi ci sono le critiche e le contestazioni. Da parte di laici e di ecclesiastici. Ci son sempre state e sempre ci saranno. Se il vescovo — scriveva già s. Pier Damiani — « talvolta crede bene d'osservare il silenzio, si dice che quando il pastore è muto il lupo invade il gregge. Parla finalmente? Ci si chiede con quale diritto questo ciarlone intende imporre silenzio agli altri » (Opusc XXI, cap. II).

A simili maldicenze egli dev'esser preparato. E non deve farne conto se non per riflettere una volta di più se mai qualcosa gli fosse sfuggito degli elementi e dei fatti che deve sapere per fare con sicurezza le sue scelte che ritiene, spassionatamente, conformi alla divina volontà. Anche una santa indifferenza, quindi: s'egli fosse troppo sensibile, la sua vita diventerebbe impossibile. Qua­lora, ad esempio, in pubblica adunanza, gli fosse mosso qualche attacco od interrogazione con mancanza di riverenza e di discre­zione, non si lasci trasportare dall'impulso. Anzi, è meglio che neppur risponda né discuta ma inviti l'assemblea a proseguire i suoi lavori.

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11. Più comprensibile e fondato motivo di tribolazione sono pel vescovo le defezioni e gli scandali di chi nella sua diocesi e fra il suo clero vien meno ai suoi voti ed impegni. Di fronte a tali casi si sentirà talora perplesso sul comportamento migliore da te­nere e bisognoso della parola illuminante e rassicurante di un saggio consigliere. Certamente non può essere insensibile. E quan­to più è santo, tanto più il pastore soffre, sull'esempio di Gesù. In qualche situazione la sua sofferenza — unita alla consapevo­lezza dei propri limiti — può raggiungere un grado tale da sug­gerirgli propositi di rinuncia. Ma chi può influire su di lui, farà bene a distorglielo da tale decisione quando le energie sono ancora valide ed il motivo è costituito soltanto dai dispiaceri, dall'impres­sione d'esser incapace a risolvere un complesso di difficili pro­blemi, di non esser adatto al suo ufficio, d'esser addirittura un uomo finito e fallito. Questa stessa consapevolezza delle difficoltà, unita alla vera umiltà (che è verità) è uno dei segni dell'idoneità all'ufficio. Il decreto del Vaticano II sul ministero e la vita sacer­dotale termina con un'esortazione alla fede. Vale soprattutto per i vescovi, nei loro momenti di crisi interiore. Gesù ha detto: « ab­biate fiducia in me, io ho vinto il mondo » (Gv. 16, 33). « Con queste parole non ha promesso alla sua Chiesa la vittoria perfetta nel tempo presente ». Ed « il disegno di salvezza... non si realizza che a poco a poco... Tutto è nascosto con Cristo in Dio. Si arriva a percepirlo colla fede... Il dispensatore dei misteri di Dio può esser paragonato ad un uomo che usci a seminare nel campo...: "dor­mirà, si alzerà di notte e di giorno: nel frattempo, il seme germo-glierà e crescerà mentr'egli non se ne accorge", Me. 4, 27» (PO, 22).

12. Un servizio spassionato. Perciò quando si tratterà di pren­der decisioni per nominare ad un ufficio la persona più degna, meritevole, adatta, userà tutta la ponderazione possibile, pur sa­pendo che non riuscirà ad accontentare tutti. « Poiché l'abolizione della legge del concorso nell'assegnazione degli uffici vacanti ha reso quasi del tutto libero l'intervento del Vescovo, questi agisce con maggior prudenza onde evitare perfino il sospetto — tanto deleterio per i rapporti tra Vescovo e presbiterio — che nelle assegnazioni prevalgano l'arbitrio, il favoritismo, le pressioni in­debite. Perciò egli chiede in ogni caso il parere di persone sagge e di quelle che per diritto deve consultare; ma in casi particolari, udite le persone di cui sopra, può ancora ricorrere al concorso per esami » (Dirett. Vesc, n. 116).

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13. Servizio soprattutto spirituale. Tutti devono aver l'im­pressione che la jprima preoccupazione del vescovo è il bene delle anime. Perciò, a proposito di richiesta e raccolta d'offerte per la costruzione d'edifici od altre opere (pur utili alla vita spirituale) bisognerà evitare « con ogni cura che l'aspetto finanziario pre­valga su quello pastorale: anzi, agli occhi di tutti deve risplendere lo spirito di povertà e di fede che è proprio della Chiesa » {Dirett. Vesc, n. 182). Cosi pure, cercherà di « rendere visibile l'aspetto spirituale ed apostolico della Visita » alle parrocchie (n. 169). Provvedere perché tale visita non sia fuoco di paglia, come sarebbe se si riducesse a « fasto di parole e di attività » (n. 170). Effi­cacissima preparazione e fonte di frutti duraturi « un corso di sante missioni popolari, svolte in modo da raggiungere ed interes­sare all'avvenimento tutte le categorie e tutte le persone, anche le più lontane dalla vita cristiana » (n. 169).

14. Un servizio spirituale distaccato. In genere, un sacerdote pio e cosciente, quando gli è proposta la promozione alla pienezza del sacerdozio ed il governo d'una diocesi, trema e cerca di sot­trarsi. Ma poi, diventato vescovo, quando s'è affezionato alla sua diocesi — specialmente se il suo ministero ha avuto successi e frutti abbondanti — allora, anche se sente ormai sopraggiunta la vecchiaia, avrà l'impressione che lasciare il suo campo di lavoro sia come un morire. Forse, da una parte ha l'impressione di poter ancora lavorare, dall'altra non vede per lui aperti altri campi d'at­tività. Teme di esser condannato alla vita del pensionato. Invece, questo è il momento d'aggrapparsi alla fede. Dio non l'abbandona. Un sacerdote non è mai solo. Ed anche sul piano umano, il Signore gli preparerà il modo migliore d'impiegare le sue restanti energie. Perciò quando un amico vero, o chi detiene il governo di tutta la Chiesa, gli farà capire che è opportuno, pel bene della diocesi, un cambio di guardia, non avrà neppur un attimo d'esitazione.

8. Religiosi e religiose

La perfezione cristiana si realizza specialmente nella pratica dei consigli evangelici (pratica motivata dall'amore di Dio). Lo « stato religioso » (sostanzialmente specificato dalla pratica dei tre « voti » e dall'osservanza delle « Regole ») è pertanto tipo ed esempio di perfezione evangelica. Perciò i presbiteri — si legge nel Vaticano II — invitano tutti a compiere i doveri del proprio

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stato, ma mostrano, a quelli che hanno fatto maggiori progressi spirituali, la bellezza e l'attrattiva dei consigli evangelici, da prati­carsi nel modo più opportuno per ciascuno (PO, 5). Sarebbe sba­gliato il sistema d'istradare per principio tutti coloro che deside­rano vivere il Cristianesimo nella sua perfezione, all'apostolato laico nel mondo. Sbagliato il non favorire le vocazioni al sacer­dozio od allo stato religioso (come se questo — come oggi qual­cuno asserisce — fosse destinato a scomparire). Le vocazioni alla vita più perfetta vanno favorite « sempre nel rispetto della piena libertà, sia esterna che interna » dei, singoli (PO, 11). In partico­lare, « i presbiteri ricordino che i religiosi tutti, uomini e donne, costituiscono una parte esimia nella casa di Dio: son degni perciò d'esser curati in modo speciale perché progrediscano spiritualmente pel bene di tutta la Chiesa » (PO, 6). Tanto pili che, mentre in epoche passate la vita religiosa si considerava come professione dei consigli evangelici rivolta solo alla ricerca della perfezione perso­nale, oggi, specie dopo il Vaticano II , si è affermato l'aspetto mis­sionario della vita religiosa, sotto i più vari punti di vista: ad esempio, anche gli istituti di vita contemplativa sono guardati come fonti di grazie celesti e d'una misteriosa fecondità aposto­lica per la Chiesa missionaria (cfr. LG, 44).

I. Il sacerdote secolare che sia confessore abituale di penitenti appartenenti allo stato religioso, dovrà procurarsi una sufficiente conoscenza della natura e finalità della vita religiosa: conoscerla, comprenderla, apprezzarla. Il che non è facile per chi non ne abbia avuto, anche personalmente, almeno un qualche desiderio.

Saprà distinguere tra virtù e voti; fra pratica dei voti ed osser­vanza delle singole Regole. I voti hanno sempre un oggetto ben specificato ed inducono un obbligo (grave o leggero). La virtù invece può od imporre un obbligo o suggerire un semplice con­siglio. Le Regole, poi, talvolta obbligano, talvolta si limitano a dare un consiglio (come, ad esempio, ora è diventata regola di consiglio quella di confessarsi con una certa frequenza: prima era regola d'obbligo). Ma anche quelle regole che stabiliscono dispo­sizioni obbliganti, per sé non lo fanno sotto pena di peccato. Il peccato però potrebbe esserci già, indipendentemente dalla regola, se il movente della trasgressione fosse di per sé disordinato. È anche da aggiungere che — pur conservando la giusta libertà di spirito e la discrezione — chi aspira alla perfezione tien conto anche dell'esempio edificante, quando si tratta di scegliere il meglio.

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II . Utilissima ad un confessore abituale sarebbe inoltre una qualche cognizione delle Regole e delle Costituzioni particolari dell'Istituto a cui il penitente appartiene. Ogni Ordine o Congre­gazione ha un suo spirito, un suo programma, una sua finalità particolare. È a tutti noto il fermento attualmente in atto negli istituti religiosi, specie per opera degli elementi giovani che pre­tendono rinnovamenti per una vita religiosa (essi dicono) « più autentica ». Ma ogni confessore di anime religiose conoscerà il decreto « Perfectae caritatis » del Vaticano I I , il quale avverte che il rinnovamento dev'essere inteso come un « continuo ritorno alle fonti d'ogni vita cristiana ed allo spirito primitivo degli isti­tuti » (n. 2). Evidentemente, quando parla di fedeltà allo spirito delle origini, il Concilio si riferiva agli elementi essenziali dello spirito primitivo d'un istituto religioso. Realizzazioni concrete, modi di fare, forme sociali, gesti, consuetudini e via dicendo, tutto questo può (anzi, deve, per non esser un'astrazione) andar soggetto a mutamenti ed evoluzioni secondo la varietà dei contesti socio­culturali degli ambienti e dei tempi. In questo senso nel religioso e nella religiosa ci dev'esser una certa indifferenza (motivata da ragioni superiori ed apostoliche). Indifferenza ben diversa da certa vanità e leggerezza che tradiscono una qualche conformità allo spirito mondano. Una suora (per far un esempio banale) non si indisporrà nel cambiare momentaneamente il suo abito tradizionale col comune grembiule da lavoro, quando questo sia conveniente per servire il prossimo: però nelle sue intenzioni, gesti, comporta­mento, non dovrà mai insinuarsi la mondanità, l'esibizione della propria persona, la ricerca di meschine soddisfazioni ed ambizioni. L'essenziale dello spirito religioso, proprio di un determinato isti­tuto, deve rimanere. Una residenza di gesuiti svizzeri — è stato scritto — ed una residenza di gesuiti brasiliani potranno anche non assomigliare. A condizione tuttavia che nell'una e nell'altra un gesuita di passaggio possa dire: « mi ci ritrovo » (cfr. J.M.R. Til-lard, Per una nuova primavera, Bologna, 1974, pp. 34-35; 45).

Ad esempio, rispetto alla suora del passato, nella suora d'oggi si nota una trasformazione. È più libera e disinvolta, ha a disposi­zione un maggior margine di tempo per qualche attività di sua iniziativa, trova maggiori occasioni di contatti, anche con persone d'altro sesso. Prima, la religiosa viveva più isolata. Era guidata più dagli orari e dai superiori. Oggi si vuol abituarla a saper diri­gersi da sola, ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni ed a sentire anche la sua corresponsabilità alla vita ed alla sorte della

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comunità in cui vive. Ad esempio, nello stesso periodo di noviziato si permette (per qualche tempo e solo per la formazione perso­nale) qualche esperienza apostolica perché si possa sperimentare come sa comportarsi e reagire a difficoltà e pericoli. Tutto ciò ha dei vantaggi ma importa anche dei pericoli: perciò occorrerà una ancor più profonda vita interiore, una più solida formazione, una maggior consapevolezza e preparazione ad affrontare la realtà e le insidie del mondo. Il Vaticano II ammonisce che « ogni adatta­mento alle esigenze del nostro tempo non avrà utilità se non sarà animato da un rinnovamento spirituale » (PC, 2). È quanto gli autori d'ascetica hanno sempre insegnato: è sbagliato cedere alla « mondanità », sia pur col pretesto d'attrarre gli uomini (cfr. L. Hertling, Tb. Asc, Romae, 1944, n. 76). Si legge nello stesso decreto sul rinnovamento della vita religiosa (n. 2) che è « un bene per la Chiesa che gli istituti abbiano una loro peculiare fisio­nomia ed un loro particolare ruolo »: ciò che pure è sempre stato insegnato (cfr. Hertling, o.c, n. 84). Nel tempo stesso, nel decreto conciliare si parla d'un discreto, sano e santo rinnovamento (fermi restando i principi suaccennati). Si dice che « il tenore di vita, le forme di preghiera e d'azione s'adatteranno saggiamente alle attuali condizioni fisiche e psichiche dei religiosi ed anche — prout ab indole cuiuscumque instituto requiritur — alla necessità dell'apo­stolato, alle esigenze della cultura, alle circostanze sociali ed econo­miche... » (n. 3). Un adattamento quindi che non dovrà mai por­tare ad un rilassamento nell'aspirazione alla perfezione della vita cristiana. Un adattamento che, da una parte, non impoverisca i membri d'un istituto, ma, dall'altra parte, accresca i frutti che esso può produrre nell'ambiente e nel tempo in cui vive. In realtà tutti invocano (o almeno ammettono) un rinnovamento negli istituti religiosi, una nuova primavera. Ma devono pure ricono­scere che l'autunno si prolunga senza fine perché — tolte alcune eccezioni — si parla, si parla e ci si affaccenda ma in modo incon­cludente. Si rischia di perdere senza nulla acquistare di sicuro. Ad esempio, la constatazione che nella vita di molti religiosi la povertà reale lascia a desiderare ha provocato una reazione contro una forma di povertà concepita essenzialmente come dipendenza da un superiore nell'uso dei beni. Lo stesso Concilio Vaticano II afferma che « non basta esser soggetti ai Superiori nell'uso dei beni, ma occorre che i religiosi pratichino una povertà esterna ed interna (re et spiritu sint pauperes) » (PC, n. 13). Alcuni si son spinti fino ad augurarsi una povertà religiosa che sia effettiva insicurezza

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di vita. La pratica di questa povertà, poi, dovrebbe convertirsi in soccorso al prossimo bisognoso. Cosicché se, per ipotesi, mancas­sero i veri poveri, pare a certuni che non avrebbe quasi più senso la povertà religiosa. Ora, bisogna evitare ogni esagerazione ed esclusivismo. Anzitutto povertà non significa indigenza. Significa bensì un'effettiva — anche se relativa — rinuncia a certi beni che non sono strettamente necessari. Effettiva ma non necessariamente assoluta (alla stessa virtù eroica si richiede bensi la mortificazione interna ed esterna, ma non si esige che questo esercizio si pratichi in tutte le occasioni). La povertà, poi, è una virtù proposta alle singole persone fisiche: un Istituto religioso, in quanto persona morale, può possedere molti beni utilizzabili per opere apostoliche; e l'uso di tutto ciò che serve al miglior servizio di Dio ed alla Sua maggior gloria non può esser contrario alla povertà. Non è quindi esatto che solo una povertà che importi insicurezza di vita sia l'autentica povertà envagelica. Per lo meno bisogna ammettere che non è questa la sola forma di vera povertà evangelica. Il religioso che rinuncia alla proprietà dei suoi beni, che dipende da un supe­riore sia quando si serve dei mezzi terreni sia quando se ne priva, pratica una vera povertà perché ha il distacco dalle cose create e lo vive continuamente.

Che abbia una certa sicurezza di ritrovare tutto quanto gli è necessario, è una giusta ricompensa della rinuncia fatta, secondo la parola di Cristo stesso: « Non vi è nessuno il quale abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e del Vangelo, il quale non riceva ora, nel tempo presente, il centuplo... » (Me. 10, 29-30). Evidentemente questa ricompensa centuplicata va intesa soprattutto in senso spirituale. Ma non è da escludere il senso anche materiale purché i beni spiri­tuali abbiano la prevalenza e quelli materiali siano considerati come un sovrappiù. Ed al singolo religioso — anche se ha una certa sicurezza di vita e, forse, un'abbondanza di beni — è sempre offerta la possibilità della sua personale mortificazione libera, della rinuncia a qualcosa da convertire in elemosina (sempre però nella conformità alla Regola e nella dipendenza dai superiori). Per questo, il Concilio (PC, 13) nota che non basta la soggezione ai Superiori nell'uso dei beni ma si invitano i religiosi ad una povertà di spirito e di fatto. Giacché — per esser esatti — oltre al voto di povertà, c'è la virtù della povertà la quale ha un campo più vasto del voto: il voto si può anche, nella sua sostanza ed essenza, riporre nella dipendenza dai Superiori nell'uso dei beni, e crea

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sempre un obbligo, almeno lieve. La virtù si estende anche a ciò che è consigliato e più perfetto. Ma il Concilio ha ritenuto bene non scendere a questa distinzione e trattare della povertà nella sua pienezza — cioè come voto e come virtù — perché l'uno e l'altra rientrano nel consiglio evangelico. Però anche la più gene­rosa pratica della povertà — intesa come spontanea rinuncia con­vertita in beneficenza — quando fosse lasciata all'arbitrio del singolo e sganciata dalla dipendenza ad un Superiore — potrebbe non esser regolata dalla prudenza. La dipendenza poi tien lontano ogni pericolo d'amor proprio, esigendo umiltà, conformità alla prassi comune: c'è merito indubbio nell'adattarsi a quanto sembra meno perfetto, facendo prevalere sul proprio giudizio e sulla propria volontà il consiglio di un'altra persona, nella quale si vede il portavoce di Dio. Perciò la pratica della povertà religiosa avrebbe la sua ragion d'essere anche se non ci fossero poveri veramente indigenti. Insomma, dal momento che la pratica dei voti e l'os­servanza delle Regole quale si ha nella vita religiosa è — secondo la mente della Chiesa — la via più sicura alla perfezione, un reli­gioso dovrà esser cauto nell'escogitare altre vie di perfezione personale col rischio di non aver poi le forze d'osservare quella che è la regola comune. Certe particolarità e singolarità turbano la vita della comunità; ed è a vedere se saranno, a lungo andare, veramente utili alla vita spirituale del singolo, considerata com­plessivamente 19. Un Superiore, da parte sua, si guarderà dall'im-porre un regime di austerità e povertà tali che la maggior parte dei suoi confratelli difficilmente potrebbero praticare. Procurerà d'evitare i due eccessi opposti: da un canto, una certa avarizia fatta pesare sugli altri, dall'altro, una eccessiva indulgenza per quelle forme di « lusso, di lucro eccessivo e di accumulazione di beni » (PC, 13) che mal si conciliano — nella vita del religioso e nel giudizio degli altri — collo spirito della povertà evangelica. A parte i casi di religiosi (o religiose) infermi per i quali devono

19 « Status religiosus continet summam Consiliorum. Ideo fieri potest, ut Consilia particularia non formaliter requirantur, cum eminenter habeantur. Velut abrenuntiatione perfetta omnium honorum exteriorum fatta, religiosus iam non tenetur ad eleemosynam, quae in aliis ad perfectionem indispen-sabilis est. Ita perfetta observantia regularum, maxime circa vitam com-munem et paupertatem, eminenter continet mortificationes voluntarias ad perfectionem requisitas. De facto exacta (non qualiscumque) observantia vitae communis absque continua mortificatione, etiam exteriore, fieri non potest » (HERTLING, Tb. Asc, n. 49).

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esser riservate assidua assistenza e cure senza risparmi, instanca­bile pazienza, bontà delicatissima (come merita chi ha rinunciato a tutto ma vive in una famiglia). Comunque — prescindendo dalla fondatezza o meno di certe critiche — si ha l'impressione che certuni vogliano contestare e demolire senza poi sostituire qualcosa di positivo e di migliore: e cioè precisamente senza decidersi ad una povertà più effettiva, ordinata in modo più reale a comunicare anche ad altri l'usufrutto di quei beni che un istituto religioso pos­siede in proprietà (ed in misura talora rilevante, anche se i suoi membri nulla possiedono in proprietà). E cosf s'invoca una povertà più genuina, ma in realtà si finisce per svuotarla d'ogni significato o se ne affida l'interpretazione e la pratica concreta al capriccio del singolo. È stato scritto che ai nostri tempi è venuta la mania della povertà predicata da tutti i pulpiti ma praticata realmente da quasi nessuno dei predicatori.

I II . Primo fondamentale problema nel quale è impegnato il confessore e consigliere di religiosi e religiose: da molti e molte (dedite, per esempio, all'assistenza dei malati negli ospedali) sen­tirà continuamente accusare una certa dissipazione, la poca unione abituale con Dio, per la difficoltà di conciliare un'intensa attività esteriore con la vita interiore. La difficoltà esiste realmente. Ed il fatto stesso che un'anima se ne lamenta è segno di sensibilità e buona volontà (allo stesso modo che la sofferenza di chi pensa d'aver perso la fède dimostra che non l'ha abbandonata del tutto). Però il confessore deve illuminare religiosi e religiose ed aiutarli a superare questa difficoltà. Conflitti e fratture fra azione e con­templazione non dovrebbero esistere se colla luce della fede si vede nell'attività esteriore un esercizio della carità teologale, se i religiosi di vita attiva « anziché esser ostacolati alla santità dalle cure apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni, sanno ascendere piuttosto per mezzo di esse ad una maggiore santità » (LG, 41). D'altra parte non devono illudersi d'evitare il pericolo delle frat­ture e d'ottenere l'armonia eliminando i tempi dedicati all'esplicita contemplazione, all'orazione non solo vocale ma anche mentale: certe pratiche di pietà, stabilite dalla Regola d'ogni Istituto, de­vono esser conservate ed osservate, in linea jdi massima, inderoga­bilmente, perché sono queste che « nutrono e danno slancio » alla stessa attività esteriore (LG, 41).

IV. Altra questione, riguardante la vita religiosa, sulla quale oggi si discute: la conformità ad una Regola dev'esser ancora in-

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tesa rigidamente, od invece la Regola rappresenta solo un orien-tamentd di massima, che poi, in concreto, ognuno attua secondo quel, caasma personale che gli è dato dallo Spirito?

È da notare che in questi ultimi tempi quasi tutte le Regole sono sta|e ritoccate. Come principio generale, s'intende, più che scendere*'a determinare i dettagli della vita religiosa, d'ottenere che i mefnbri siano animati dallo spirito che vivifica le disposi­zioni materiali. Ora, da parte dei giovani (religiosi e religiose) in genere si auspica una maggior autenticità che pel passato, contro ogni forma — si dice — di falsità e d'ipocrisia. Penso che, con simili espressioni, si voglia alludere al fatto che, pel passato, anche se non si era molto convinti dell'opportunità di una dispo­sizione, ci si dimostrava però osservanti. Oggi però ci si permet­tono spinte troppo audaci col pretesto dell'autenticità.

« Questo non lo sento — dice qualcuno — perciò non lo faccio ». Il termine « sentire » è equivoco: può indicare un'in­terpretazione quanto mai personale, basata su non si sa qual sen­timento, ed il pericolo è ovvio. Ciò si riscontra presso i giovani, mentre gli anziani, in genere, amano di più conservarsi fedeli alle vecchie Regole.

Confessore, direttore spirituale, predicatore devono riaffer­mare — pei religiosi ai quali hanno occasione di parlare — la necessità di stimare ed amare la Regola del loro istituto. Ravvi­verà il proposito generale d'osservarla. Senza dubbio, la Regola non ha ragione di fine ma di mezzo (come l'obbedienza stessa). Ci sono quindi i casi particolari nei quali si può ammettere un'inter­pretazione piuttosto larga, perché allora si può presumere la li­cenza del Superiore stesso (s'intende del Superiore ragionevole, cioè che interpreta rettamente la Regola). Ma il religioso non dovrebbe prendersi l'arbitrio di derogare abitualmente a qualche punto della Regola senza prima aver chiesto il consiglio, almeno, del suo confessore e direttore spirituale. Questi poi sarà prudente nelle sue risposte. Specie quando, nell'approvare qualche libertà, si mettesse in contrasto con le disposizioni esplicite del superiore esterno. A meno che non consti che si ignora la chiara dottrina morale, ad esempio da parte di una superiora la quale affermasse che una suora ha un obbligo di coscienza che invece non esiste.

V. Secondo s. Tommaso (II-II, q. 186, a. 8) il più eccellente fra i tre voti è quello dell'obbedienza. Rappresenta infatti una totale consacrazione del religioso a Dio al quale offre « la com-

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pietà rinuncia della propria volontà, come sacrificio di se «tesso » (PC, 14). Coi voti di povertà e di castità egli dà a Dio ciò che ha; coll'obbedienza fa dono di ciò che è. Col voto stesso di povertà s'impegna anzitutto a dipendere nell'uso dei beni, quan­tunque ciò non basti alla perfezione della virtù evangelica che dev'esser interna ed esterna se vuol esser partecipazione alla povertà di Cristo che da ricco si fece povero (PC, 13).

1. Richiamo i principi. La virtù dell'obbedienza ha un campo più vasto di quello del voto perché questo induce sempre un ob­bligo, almeno leggero. La virtù, col suo ideale di perfezione evan­gelica, si estende, oltre ciò che è obbligatorio, anche al consiglio. Perché sorga un obbligo, pel religioso, in virtù del voto stesso, bisogna che il Superiore dia un comando chiaro e preciso (a norma delle Costituzioni) circa quanto riguarda specificamente lo stato del religioso in quanto tale (non in quanto comune fe­dele). Ciò consterà se il Superiore usa una formula inequivocabile (per esempio: « strettamente comando »), colla quale il riferi­mento al voto è implicito, oppure se fa espresso ricorso al voto. Occorre insomma che si abbia un precetto formale impartito (im­plicitamente od esplicitamente) in virtù dell'obbedienza. Perché poi l'obbligo del voto sia grave anche questo deve constare o dalle parole chiare del superiore o dalle formalità solenni ri­chieste per le ammonizioni canoniche (e. 2309, § 2). In pratica, raramente si presume che il superiore intenda obbligare i suoi sudditi sotto pena di peccato. E perciò i casi in cui un religioso pecca direttamente contro il voto d'obbedienza sono rari. Dico: contro il voto, non contro la virtù. E chi disobbedisce ai comandi (anche non strettamente precettivi in forza del voto) può man­care all'osservanza nei riguardi del superiore, alla carità verso la comunità, all'umiltà. E se lo fa abitualmente, il peccato può diventar grave per il danno che produce a se stesso ed alla comunità.

2. A parte le distinzioni dottrinali (su cui i teorici discutono) in pratica negli istituti religiosi l'esercizio dell'obbedienza crea, in genere, non lievi difficoltà psicologiche. Ed è naturale. Il superiore talvolta ha dei difetti che rendono poco accetta la sua presenza e la sua opera nella comunità. D'altra parte il religioso sa che deve vedere in lui non l'uomo, ma Dio.' Di qui il conflitto fra la natura umana e lo spirito di fede. Questo conflitto porta talora a sofferenze che raggiungono l'eroismo. L'obbedienza

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può diventare un martirio quotidiano. Il direttore spirituale che non l'Ha provato può mancare di comprensione: sentirà impa­zienza nell'ascoltare, ad esempio, religiose che manifestano sempre gli stesti crucci a proposito di questa virtù, approfittano per sfogarsi Ama attendono anche una parola confortante e stimolante per continuare la loro vita altri otto, quindici giorni. Qualcuna potrà anche lamentarsi dei superiori. In fondo e senza saperlo dimostrarli voler esser fedele a quanto ha promesso: l'obbedienza con tutte!le sue difficoltà. Meglio che si apra col confessore che con estramei o con altri membri della comunità (cfr. G. Adloff, Il confesfyre direttore, p. 205).

3. Ai Superiori si raccomanda di far amare l'obbedienza; e — per questo — di « esercitare l'autorità in spirito di servizio verso i fratelli », di « reggere i sudditi... con rispetto della per­sona umana facendo si che la loro soggezione sia volontaria ». E cosi « nell'assolvere i propri compiti e nell'intraprendere inizia­tive » i membri avranno la sensazione di non esser solo dipen­denti esecutori di ordini ad occhi chiusi, ma di « cooperare con un'obbedienza attiva e responsabile » (PC, 14). Occorre dunque che i Superiori esercitino prudentemente ed amabilmente il loro ufficio « pur restando ferma la loro autorità di decidere e di comandare ciò che deve farsi » (ivi). Ma se il suddito, per quanto si apra, chieda consiglio, esponga il suo parere umilmente, non trova l'altra parte disposta al colloquio amabile e fraterno, allora resteranno le freddezze, le distanze, le incomprensioni, al posto della pace, della fusione dei cuori e della collaborazione.

4. Il confessore — trattando coi penitenti su questo argo­mento — procurerà che il principio d'autorità sia sempre salvo. Ma ciò non significa che egli debba chiuder la bocca a chiunque sente discutere sull'azione dei superiori e chiede consiglio. Nelle sue risposte non è detto che debba far sempre ricadere il torto sugli inferiori quando si lamentano dei superiori. I superiori non sono infallibili. Se è evidente che qualcuno si sbaglia od ha dei difetti, il confessore lo ammetterà. Ciò su cui non si può pronun­ciare è la loro intenzione; la quale si deve sempre presumere che sia retta. Quando il confessore s'accorgesse che tutto dipende da semplici malintesi, consiglierà al penitente d'aprirsi (per quanto gli è possibile) col superiore e d'esporre le sue difficoltà per cercare un'intesa. Il confessore non mostrerà mai d'esser preve­nuto da altre informazioni. Tanto meno da quelle del superiore (se mai gli fossero giunte all'orecchio). D'altra parte ricordo come

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non sia consigliabile che il confessore tenga relazioni epistolari colle religiose all'insaputa e senza il permesso della superiora.

5. La ripugnanza non toglie nulla alla perfezione ed À merito dell'obbedienza. Quel che importa è la volontà. Pare ovvio. Ep­pure bisogna ricordarlo continuamente ai religiosi (e specialmente alle religiose) che in Confessione lamentano personali/ istintive resistenze nella pratica di questa virtù. D'altro canto, si| potrebbe fare l'ipotesi d'un religioso che eseguisse regole, disposizioni, sug­gerimenti dei superiori per semplice opportunismo, convenienza, calcolo. Siffatta conformità non avrebbe valore: occorre che il motivo sia soprannaturale perché si abbia la vera virtù. I religiosi s'accusano frequentemente di « ragionare » sull'obbedienza. Oggi, ad esempio, una suora è fornita, in genere, d'una cultura assai maggiore che pel passato. Ciò importa il problema d'armonizzare l'autonomia di giudizio con l'obbedienza. Quelle che si accusano di ragionare sull'obbedienza, suppongono di esser sempre tenute ad obbedire ciecamente? Bisognerebbe illuminarle (se non lo sono) distinguendo. Non è proibito cercar di capire il perché di ciò che è richiesto dall'autorità. Ed il dialogo col superiore — dialogo che oggi più facilmente è concesso e raccomandato — facilita l'obbe­dienza: serve al religioso ed al suo superiore a cercare insieme la volontà di Dio e, forse, a rivedere, modificare, aggiornare qualche disposizione. E se non si riesce a capire la ragione d'un ordine? Nel dubbio — secondo il noto principio — la presun­zione sta a favore del superiore. Tanto più che non sempre egli ritiene opportuno render conto di tutti i motivi che l'hanno in­dotto a prender una decisione, a dare una disposizione. Se si tien presente tutto questo, normalmente chi obbedisce deve aver co­scienza di non farlo ciecamente ma ragionevolmente. Ragionevol­mente non solo quanto alla sottomissione della volontà, ma anche a quella del giudizio. Sbaglierebbe invece chi volesse ragionare al punto tale da non obbedire finché non arriva ad afferrare ed approvare i motivi che determinano il superiore. Essenzialmente l'obbedienza è sottomissione della volontà nella conformità alla volontà del superiore secondo l'esempio di Gesù: « Padre, se vuoi, allontana da me questo calice: peraltro si faccia non la mia volontà, ma la tua » (Le. 22, 42). L'obbedienza è riconoscimento effettivo della legittima autorità, ma, non implica, per sé, la perce­zione e l'affermazione positiva della ragione stessa del comando. E quanto più è motivata dalla pura fede, tanto più è meritoria.

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Va distinta dunque la sottomissione della volontà dalla sottomis­sione del giudizio. Perciò se in un caso particolare fosse di solare evidenzalche il superiore sbaglia, Dio non chiede a nessuno di rinunciare al suo giudizio. Ciò vale in materia non solo dottri­nale ma anche disciplinare. Il confessore esorterà però il religioso a non discutere e a non criticare alla presenza d'altri e con altri gli ordini pel Superiore.

6. È Ritt'altro che contrario all'obbedienza il fare ai superiori quelle osservazioni che possono informarli ed illuminarli perché compiano ini rettamente il loro arduo officio. Anzi, cosi l'obbe­dienza acquista una nuova perfezione, si fa più autentica, cosciente e responsaftile. Diventa anche servizio e collaborazione. Al supe­riore spetterà accogliere di buon animo e far tesoro dei suggeri­menti ricevuti. Se si sapesse, se avesse fatto chiaramente sapere che non desidera consigli non richiesti e non ne tien conto, allora non varrebbe la pena di assumersi l'ingrato onere d'informarlo. Il confessore, in tali casi, libererà il religioso da inutili disagi e perditempo. Caso abbastanza frequente: qualche dipendente laico si lamenta con un religioso (col quale ha più confidenza) perché il superiore lo retribuisce in misura inadeguata. Se al religioso sembra che l'operaio abbia le sue buone ragioni, può manifestare discretamente il suo parere al superiore. Saprà però tenere un contegno ispirato dalla carità ed insieme dalla prudenza.

VI. La castità.

1. Non si dà distinzione fra materia del voto e materia della virtù. Il religioso ha promesso di osservare la castità perfetta, esterna ed interna: perciò se manca alla virtù manca anche al voto (gravemente o leggermente) e commette quindi anche un peccato contro la religione.

2. Il Vaticano II raccomanda ai religiosi di « non presumere delle loro forze, ma di praticare la mortificazione e la custodia dei sensi. Ed anche di non omettere i mezzi naturali che favoriscono la salute dello spirito e del corpo. E cosi non si lasceranno im­pressionare da false dottrine che presentano la continenza perfetta come impossibile o nociva al perfezionamento dell'uomo... Tutti inoltre ricordino, specialmente i Superiori, che la castità si potrà custodire più sicuramente se fra i religiosi, nella vita comune, vige un vero amore fraterno » {PC, 12).

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VII. L'amore fraterno: la virtù che, insieme all'obbedienza, è continuamente messa alla prova nella vita religiosa. Doyrebb'es-ser il vincolo, l'anima, il frutto, il premio della vita di domunità (o di gruppo). /

1. Ci saranno sempre antipatie alle quali bisogna e*er supe­riori. Se il confessore propone ad un penitente di fare una genti­lezza o di recitare una preghiera proprio per la persola antipa­tica, non sarà una proposta che sa d'ipocrisia (come qualcuno forse insinuerà) (cfr. Adloff, o.c, p. 216). È carità autentica, perché bisogna tener fermo il principio che l'amore essenzialmente con­siste in un atto della volontà. È sacrificio di sé al vantaggio degli altri. /

2. Se un religioso viola veramente ed esternamente la carità verso un altro, normalmente è da suggerire che ripari, od espli­citamente, chiedendo scusa, oppure virtualmente, praticando solle­citamente qualche atto particolare di benevolenza e di cortesia verso la persona offesa. A questa bisognerebbe raccomandare di superare la sua suscettibilità e di vincere il rancore (Adloff, p. 216).

3. La vita comune, perché la carità vi fiorisca senza variabi­lità, domanda ai singoli membri molto spirito di sacrificio, infinita pazienza nel sopportarsi e compatirsi a vicenda. Ciò che ad uno piace, all'altro dispiace. Ognuno ha i propri difetti. La sofferenza è spesso — fra due — causata vicendevolmente: ma l'uno tende a vedere nella sua vita solo la sofferenza, nell'altro solo le man­canze che fanno soffrire. Con un duplice pericolo: che uno si ripieghi su se stesso rodendosi fino all'esaurimento, oppure sparli dei propri crucci con tutti, appena si presenta l'occasione. A chi è in pericolo d'urtare in questi scogli, il confessore anzitutto rivol­gerà l'esortazione d'aprirsi e confidarsi con Dio, di risollevarsi e confortarsi con motivi di fede. E quando un'anima s'è aperta col confessore e direttore spirituale (e, se utile, con un'altra persona prudente della comunità che possa dare un consiglio ed un aiuto) conviene che eviti i pettegolezzi (con gli altri membri della comunità e specialmente con gli estranei).

4. La carità e la pace d'una famiglia religiosa è turbata ancora dallo spirito di critica. E le critiche talvolta si fanno freddamente, anche senza la ragione di dispiaceri personali. Ora, per la buona armonia, sarebbe meglio astenersi dall'esaminare e dal giudicare gli atti altrui (tanto più che non si conosce la particolare situa-

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zione ori singoli e l'intenzione d'ognuno si deve presumere retta). In questo senso e per queste ragioni S. Francesco di Sales poteva scriverei « La carità è tanto lontana dall'andar in cerca del male, che, an i , ha timore d'incontrarlo; e quando lo incontra volge altrove n faccia e lo dissimula; anzi, al primo rumore che ne sente, chmide gli occhi prima di vederlo, e poi con una santa sem­plicità erède che quello non fosse male, ma solamente l'ombra o qualche amtasma del male. Ma se poi non può far a meno di riconoscerlo per quello che è, subito volge altrove lo sguardo e cerca di dinenticarne l'immagine » (Filotea, P. I l i , e. 28, p. 217). Se si voleise intervenire (perché l'errore o il male è evidente) lo si farà non con le malevole critiche alle spalle altrui, ma con una benevola parola d'ammonizione (direttamente od indirettamente) a meno che non si preveda infruttuosa. Anche nella vita di comu- ' nità il fondamento e la garanzia della mutua carità sarà sempre l'umiltà. Bisogna raccomandare aperture alle vedute altrui, ai loro ;

insegnamenti e suggerimenti, idee larghe, flessibilità pronta al primo manifestarsi della luce che venga dagli altri (si tratti di dottrina o di direttive pratiche) anche a costo di sacrificare il proprio punto di vista: chi non solo lo ammette a denti stretti, ma gioiosamente vi applaude, ha la carità più pura ed eroica. Il segreto d'una felice vita comune. Ma come possono vivere in una comunità, o gruppo, certuni che, piantato un chiodo, non cedono per principio di fronte a nessuna ragione, e tendono ad imporre di forza agli altri le proprie idee, contro il parere della maggio­ranza e senza diritto o gravi motivi?

5. Al religioso — secondo il e. 611 del CJC — per sé è sempre lecito e nessuno può impedire di ricorrere ai superiori maggiori. Però è da consigliare che se ne astenga quando non ci siano ragioni serie, vera utilità, ma solo uno sfogo di perso­nale risentimento.

6. Nocive alla vita comune sono pure certe amicizie parti­colari fra religiosi. A parte il pericolo della sensibilità e della sentimentalità, potrebbero creare divisioni ed esser malviste. La vita comune offre ai singoli il dono ed il calore di tante presenze, ma domanda anche sacrifici di questo genere: un'intima amicizia — forse vantaggiosa fra persone che vivono nel mondo (sempre supposto che non crei pericoli per la purezza) — potrebbe non esser altrettanto utile e consigliabile pei religiosi che vivono in comunità (cfr. Adloff, pp. 219-220).

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Vi l i . Altro argomento di cui dovrà talora occuparsi |il con­fessore dei religiosi e delle religiose sarà costituito dai ldro rap­porti con persone estranee all'istituto ed alla comunità. Certe confidenze e certi pettegolezzi (riguardanti la comunità o chi sta fuori) sono dannosi, oltre che indiscreti. Certe relazioni sono pericolose. In qualche caso grave, nel quale è chiara l'occasione prossima di peccato abituale, pel confessore non resta ( altro da suggerire al penitente (od alla penitente) che la domande ai supe­riori d'un trasferimento perché i mezzi per render l'occasione, da prossima, remota, si sono dimostrati, alla prova dei fatti, ineffi­caci. È inammissibile, specialmente per un religioso, che continui una vita che è una catena di peccati giustificandoli come un bisogno insopprimibile.

IX. Molto bene in una comunità potrebbe fare il confes­sore consigliando saggiamente coloro che vi tengono posti di responsabilità. Non è frequente però che costoro si manifestino — in Confessione — come superiori e chiedano consiglio. Spesso il confessore ode solo le lagnanze degli inferiori. E, da parte sua, certo non mostrerà di cercare e voler scoprire chi è il superiore; e se lo riconoscerà, non gli farà capire d'aver ricevuto lamentele da parte dei membri della comunità. Eviterà ogni invadenza ed ingerenza indiscreta e controproducente. Indirettamente e quando gliene è offerta l'occasione, darà al superiore, od alla superiora, le esortazioni opportune. Riguarderanno specialmente lo spirito di bontà e di fraternità. Il quale, ad esempio, generalmente sugge­risce di non ammonire i singoli membri in pubblico, ma in privato, e sempre con bontà; di scegliere il momento opportuno, quando la persona da richiamare non è più sotto l'impulso della passione; di non rivangare i fatti incresciosi e le mancanze già passate e riparate; di non mostrare diffidenza, pur praticando la vigilanza; di mettersi volentieri alla pari degli altri, a meno che l'esercizio stesso delle sue funzioni di superiore non imponga una distinzione dagli altri membri della comunità... (cfr. Adloff, pp. 221-222).

X. Il decreto della S.C. per i Religiosi delT8.XII.70 stabi­lisce che « tutte le religiose e le novizie, affinché abbiano a godere in tale materia della dovuta libertà, possono confessarsi validamente e lecitamente presso qualsiasi sacerdote approvato nel territorio per l'ascolto delle confessioni; né per questo è ri­chiesta una speciale giurisdizione (can. 876) o designazione. Non­dimeno — aggiunge il decreto — per provvedere meglio al bene

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delle comunità, si dia ai Monasteri di vita contemplativa, alle case di formazione ed alle comunità più numerose un confessore ordi­nario; e* almeno ai predetti monasteri e alle case di formazione, anche uà confessore straordinario, ma senza alcun obbligò di pre­sentarsi là essi. Per le altre comunità, se le particolari circostanze lo consigliano, può esser nominato un confessore ordinario, a giudizio dell'Ordinario locale, con la previa richiesta o consulta­zione deljp comunità ». Le suddette prescrizioni « hanno valore anche per le comunità maschili laicali, in quanto possono essere loro applicate ».

Il sacerdote che sia confessore abituale d'una comunità di suore ha da tener sempre presenti certe norme di prudenza. Non si immischierà in questioni che riguardano la vita esterna delle religiose. Non scenderà a troppa familiarità con nessuna di esse. Neppure colla superiora (anche perché le altre suore potrebbero non vedere di buon occhio simili frequenti contatti confidenziali). Paternità con tutte, senza però sdolcinatezze. Eviti nelle confes­sioni la prolissità; osservi piuttosto la brevità, pur conservandosi disponibile e sollecito quando e quanto sarà necessario. Procuri di non servirsi mai di quanto sentito in Confessione per fare o dire qualche cosa, ad esempio colla Superiora, oppure colle stesse religiose durante la loro confessione. Il riserbo in questo campo è da usarsi non solo quando bisogna vincere la tentazione della curiosità, ma anche quando il fine fosse, per sé, buono. Anche su ciò che il confessore ha appreso fuori dal sacramento è suggeri-bile il silenzio quando il parlarne potrebbe suscitare il sospetto (facile specialmente nelle donne) che si tratti di notizie avute solo dalle Confessioni.

XI. Qualche caso difficile. Il più trepido è quello d'un reli­gioso o d'una religiosa che ha perduto il coraggio per le difficoltà e i malanni fisici, oppure per le tentazioni ed i peccati conse­guenti, e cosf arriva a dubitare della sua vocazione stessa. Un'ani­ma che si trova in questa situazione ha bisogno d'esser anzitutto sostenuta ed aiutata a togliere, per quanto possibile, direttamente gli ostacoli. Qualche volta basta un po' di riposo, di calma, di distensione. E bisogna ravvivare la fede: la Provvidenza si serve anche delle difficoltà e delle umane debolezze per maturare e fortificare una vocazione. Non è però escluso il caso che il con­fessore stesso dubiti, ad un certo momento, d'una vocazione. Ma se la persona ha già emesso i voti perpetui, non le farà capire i

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propri dubbi. Bisogna anzitutto applicare la parola di s. Alfonso: « Se non sei stato dapprima favorito dalla grazia della vocazione, cerca d'ottenerla colle tue ferventi preghiere ». (Cit. da Marsot, Petit tratte des voeux de l'état religieux, Paris, 1920, p. 185). Altrettanto ed a fortiori per chi è anche sacerdote. Certo, piut­tosto che continuare una catena di peccati che danna scandalo e disonorano lo stato religioso e sacerdotale, è meglio — dopo fatto ogni tentativo, ma senza esito positivo — chiedere la dispensa.

Quando si trattasse d'un'anima che, già entrata nello stato religioso, dovrebbe rinnovare i voti ma non perpetui, allora in qualche caso al confessore può presentarsi il problema di decidere della vocazione e della scelta dello stato. Darà il suo aiuto, esami­nerà accuratamente e senza fretta tutte le circostanze e quindi si pronuncerà. In qualche caso sarà prudente il consiglio di pro­crastinare la rinnovazione dei voti. Ed, in genere (dopo una ma­tura riflessione ed un tempo di prova) la situazione si risolverà quasi naturalmente da sé, in seguito alle prudenti indicazioni, ed alle opportune interrogazioni del confessore.

XII. Qualche difficile e delicato caso del genere può capitare anche ad un confessore « straordinario » (sia tale « de iure » o « de facto »). Anzitutto egli s'informerà se è già stato formulato un giudizio, in merito, dal confessore ordinario; e, per quanto possibile, avrà la disposizione di non esserne il censore ma l'aiuto. Non è però escluso che lo straordinario (specialmente se fornito di più matura scienza ed esperienza), in qualche caso — dopo aver ben ponderata ogni circostanza — si senta ispirato a dare una direttiva diversa da quella data dal confessore ordinario. Sarà allora deciso perché la penitente (od il penitente) ha bisogno di formarsi una coscienza certa e tranquilla. Sarà pure conveniente che soggiunga come la diversa soluzione del caso non deve mera­vigliare perché i teologi stessi non sempre sono d'accordo quando non si tratta di questioni dottrinali decisamente risolte dal magi­stero ecclesiastico.

9. Membri d'istituti secolari

Fioriti da tempo in seno alla Chiesa, gli Istituti Secolari furono riconosciuti come « stato di perfezione » nel 1947 (Pio XII, Cost. Ap. Provida Mater Ecclesia, AAS, 39, 1947, 114-224),

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a trentanni dalla promulgazione del codice di diritto canonico. Rappresentano uqa svolta nella storia della Chiesa. Sono il segno dell'adeguamento sempre più cosciente ed attuale degli istituti religiosi ^ille istanze della società moderna. Rispondono alle esi­genze di talune anime, chiamate a consacrarsi a Dio, pur rima­nendo nel mondo. Rendono possibile una perfezione professata nel secolo senza le forme tradizionali della vita religiosa: abito, convento, vita comune. La società moderna, spesso paganeggiante, ha fatto sentire, a certe anime generose, la convenienza di mimetiz­zarsi con l'ambiente per esserne il lievito. Negli Istituti Secolari si realizza lo stato teologico di perfezione perché si pratica tutto quanto è sostanziale nella completa consacrazione a Dio: i membri emettono privatamente il voto di castità perfetta, d'obbedienza ai superiori dell'Istituto secondo il regolamento, ed anche di povertà (perché, per le spese non necessarie — cioè non riguar­danti vitto, vestito e comuni mezzi di trasporto — devono dipen­dere dai superiori se tali spese superano una data cifra). Colla Costituzione Apostolica « Provida Mater Ecclesia » veniva così superata la concezione secondo la quale allo « stato di perfezione » si richiederebbe che i voti fossero « pubblici ».

Dunque, primo impegno essenziale di chi si iscrive ad un isti­tuto secolare: la professione dei consigli evangelici. (Perciò sono aperti anche ai sacerdoti, ai quali vien offerta la possibilità di pra­ticare in modo più perfetto anche le virtù dell'obbedienza e della povertà).

Non sono ammessi segni distintivi. Non si richiede, per sé, nessun mutamento della condizione sociale. Tuttavia non è esclusa la vita comune. E difatti alcuni istituti secolari l'hanno adottata anche se con un tono caratteristico proprio, diverso dalla vita comune cosiddetta « canonica », qual è prescritta dal CJC per le Congregazioni Religiose.

L'apostolato è personale; non è necessaria l'organizzazione di opere comuni.

Gli aderenti fanno vero voto di castità, ma in genere annuale; e mai « pubblico », com'è quello dei « religiosi ». Per l'obbe­dienza e la povertà spesso non si ha neppure vero voto, ma sem­plice « promessa »: praticamente quindi non capita che si dia il caso di trasgressioni gravi. Però anche le semplici promesse si devono stimare sommamente perché conferiscono alle opere buone il valore di atti di religione, d'omaggio e d'ossequio speciale a Dio. Per la castità, chi non è sposato vi è tenuto anche indipen-

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dentemente dal voto: se vien meno al voto commette una man­canza anche contro la religione, ma non un vero sacrilegio (come, invece, i sacerdoti della Chiesa Latina ed i religiosi) dato che il voto non è « pubblico »: il sacrilegio suppone che la Chiesa stessa consacri a Dio una persona.

Le singole regole, per sé, non obbligano sotto pena di peccato (come, del resto, neppur quelle dei « religiosi »).

Ogni confessore deve avere almeno una conoscenza generica circa la natura, la funzione, la finalità degli Istituti Secolari per poter consigliare — all'occasione — sia chi è già iscritto, sia chi intende iscriversi ad uno di questi Istituti. Potrà allora considerare questa vocazione specifica in relazione ad una determinata per­sona, alla sua indole, alle sue inclinazioni. Potrà ancor meglio esercitare il suo ufficio se prende informazione anche delle Costi­tuzioni del singolo Istituto al quale una persona è iscritta o vuol iscriversi. Perché il suo compito è importante: molti membri di questi Istituti hanno poche occasioni di ricevere altri aiuti e con­sigli; si può dire che solo nel direttore spirituale trovano l'alleato umano per la vittoria sulle tentazioni, la perseveranza nel fervore, l'ascesa verso la perfezione. I pericoli ed i problemi per chi vuol convertire in apostolato la sua vita secolare sono infatti maggiori di quelli che incontra chi vive in una comunità religiosa.

1. Il confessore anzitutto saprà indirizzare a questo stato chi ne ha l'attitudine. Dalle inclinazioni e doti d'una persona, dalle circostanze nelle quali è stata posta dalla Provvidenza a vivere la sua vita, si deve poter riconoscere se ha o no questa vocazione. È una vocazione speciale. Ben distinta sia dalla vocazione alla vita contemplativa nel chiostro, sia dalla vocazione di coloro che ab­bracciano lo stato religioso in un istituto di vita comune « cano­nica ». A parte gli istituti di vita unicamente contemplativa, gli altri hanno una regola che cerca un contemperamento equilibrato fra preghiera ed opere d'apostolato. Ma gli Istituti Secolari hanno di specifico la consacrazione all'apostolato. Apostolato da eserci­tarsi non solo nel mondo, ma usando i mezzi offerti dal mondo, ogni specie d'attività ed ogni professione civile che sono proprie della vita secolare. Il termine « apostolato » va inteso in senso quanto mai largo; tanto più che nel consigliare l'aperta azione apostolica — intesa espressamente e direttamente alla conversione d'altri alla fede ed alla vita cristiana — « è necessario che siamo moderati e prudenti. Poiché per l'esercizio dell'apostolato si ri-

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chiedono doti peculiari ed intime d'animo, oltre ad una data con­dizione di vita, di cui non tutti godono... » (Pio XII, Discorsi e Radiomessaggi, XVIII, -p. 491). L'esercizio stesso della profes­sione — lavoro sia intellettuale sia manuale — compiuto in spirito di fede e rettitudine morale è un apostolato. Ed in pratica sarà sufficiente. Almeno in sostanza. Un insegnante, un preside di scuola, un'ispettrice di colonie estive, un giornalista, un ministro dello Stato, non hanno che da vivere ed attuare nella loro vita la sublime preghiera liturgica: « dirigere et santificare, regere et gubernare dignare, Domine Deus... hodie corda et corpora nostra, sensus, sermones et actus nostros in lege tua, et in operibus man-datorum tuorum... ». Si tratta d'impiegare nella professione tutte le energie, ma purificate e moltiplicate dall'intima e sempre rinnovata unione con Dio.

In concreto, nella loro attività i membri degli istituti secolari terranno conto dell'ambiente: se questo fosse ostile, un apostolato diretto ed esplicito potrebbe esser sconsigliabile. Ma, in realtà, anche allora l'inefficacia dell'azione apostolica sarebbe solo appa­rente perché l'influsso benefico nell'ambiente si produce anzitutto con la testimonianza silenziosa della vita (in questo senso l'apo­stolato di chi vive nel secolo è spesso simile a quello del contem­plativo recluso).

Cambiando le circostanze della vita, un professionista dovrà, forse, ad un dato momento, lasciare il suo lavoro. Però egli potrà sempre corrispondere pienamente alla sua vocazione di membro d'Istituto Secolare, anche se non farà più della sua atti­vità secolare un apostolato. Per lui c'è allora la possibilità di darsi ad una vita di maggior contemplazione (pel bene proprio e di tutta la Chiesa), o — se la situazione lo suggerirà — d'un esplicito apostolato diretto. Siccome nella Chiesa ci sarà sempre bisogno della testimonianza e dell'annuncio cristiano, si può 'dire che i membri degli Istituti Secolari corrispondono esemplarmente a questa esigenza perché la possono realizzare nella maniera più semplice, più duttile e più snella « come cooperatori nelle varie forme e modi dell'unico apostolato della Chiesa che deve conti­nuamente adattarsi alle nuove necessità dei tempi » (AA, 33).

Da quanto detto, occorre un minimo di doti e di requisiti particolari in chi vuol abbracciare prudentemente questa voca­zione. È l'istituto stesso che prende informazione e si accerta dell'idoneità d'un aspirante: della sua età, professione, capacità di svolgere un certo apostolato, condotta esterna incensurata e

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fondamentalmente equilibrata. Per certe doti però, solo aprendosi intimamente col proprio direttore spirituale il soggetto si sentirà assicurato in questa scelta. Forse solo il confessore conosce che la pietà del soggetto è davvero solida e provata (superiore ai senti­mentalismi evanescenti); ch'egli ha l'abitudine all'autocontrollo, una certa fermezza nelle decisioni prese dopo ragionevole rifles­sione; che non ha una sensibilità eccessiva e tale da indurre un'abi­tuale incostanza di carattere; che il temperamento non è segnato da quelle angolosità ed intransigenze che, anche nel bene, impe-cjiscono la pacifica collaborazione ed il rispetto per le idee e la personalità degli altri...

2. Assistenza spirituale. Il confessore ricordi che i membri di istituti secolari ne hanno bisogno per esser solidamente formati e preparati alla loro missione. Più bisogno, si direbbe, degli stessi religiosi che vivono in comune, perché chi vive nel mondo e fa di tutta la sua vita un apostolato trova più pericoli e più problemi. Nella guida degli iscritti agli Istituti Secolari — come di tutte le anime che aspirano alla perfezione — il direttore spirituale cer­cherà soprattutto di far sentire il bisogno di una sempre più intima comunione con Dio, ravviverà l'abituale disposizione ad usare ogni cosa e ad orientare ogni attività alla maggior gloria di Dio (non è affatto contrario alla povertà il possesso di grandi mezzi economici quando lo spirito sia distaccato e l'uso del denaro sia destinato al bene del prossimo).

3. Il direttore spirituale incoraggerà queste persone anche a segnalarsi — se hanno delle doti — per il loro ingegno oltre che per operosità. Non trascurino la loro professione (neppur per darsi ad opere di apostolato): se in essa si faranno stimare, se acquisteranno un certo prestigio, e specialmente se saranno emi­nenti, tanto più efficacemente potranno esercitare mediante la stessa attività secolare, un apostolato, anche se non appariscente. Stia quindi attento il direttore spirituale a non spingere senza discrezione i soggetti generosi ad assumersi impegni che possono esser dispersivi, oppure oppressivi, pur essendo, in sé, lodevolis-simi. Un uomo non può far bene che un solo mestiere. Se di questo mestiere vuol fare un apostolato, avrà poco tempo per altre attività. I membri di questi Istituti sono elementi da usarsi con coraggio ma con una certa economia. Sono preziosissimi: bisogna evitare che incarichi e lavoro eccessivi provochino o dispersione od esaurimento.

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4. G sono virtù — piccole o grandi — che sembrano spe­cificamente proprie di chi ha scelto questo stato. Vanno pertanto continuamente richiamate e suggerite. I membri di Istituti Seco­lari, concentrando tutti i loro affetti in Dio e nel prossimo, amato in spirito di servizio, si doneranno con grande semplicità e natu­ralezza. Bando ad ogni presunzione di porsi come esempio e mo­dello agli altri. Vivranno immersi e confusi nella massa, senza la minima ricerca di richiamare su di sé l'attenzione altrui. Anzi, si mostreranno lieti e pronti ad apprendere quegli insegnamenti che gli altri potranno offrire col loro pensiero o colla loro vita.

5. Il direttore spirituale dev'esser preparato a trovare, anche in queste anime elette, momenti di crisi. I quali possono provo­care dubbi, incertezze sulla perseveranza negli impegni e nella consacrazione di questa vocazione. Il confessore sia cauto prima di pronunciarsi. È vero che i vincoli spirituali (che i membri contraggono coi voti e le promesse) sono giuridicamente tempo­ranei. Però, spiritualmente, l'intento iniziale era d'una perpetua donazione a questo ideale. Rinunciarvi sembrerà, forse, pel mo­mento, una liberazione. Ma bisogna prevedere la possibilità che poi subentri un vuoto, uno stato di depressione come dopo una sconfitta. Perciò anzitutto bisogna usare tutti i mezzi per superare la crisi, tenendo presente che ogni stato (anche quello matrimo­niale) ha le sue difficoltà ed i suoi problemi spinosi e può riser­vare delusioni.

6. Quando invece qualcuno, già appartenente ad un Istituto Secolare, sentisse la vocazione ad uno stato più perfetto — sacer­dozio, vita religiosa — e chiedesse consiglio al direttore spiri­tuale, bisogna che questi esamini spassionatamente se la grazia chiama. Quando ciò constasse, non resta che favorire la voca­zione: ostacolarla per motivi umani o per il bene particolare di un istituto o d'una comunità (quale la parrocchia) non sarebbe certo consigliabile. Il passaggio poi da un Istituto Secolare ad un altro Istituto Secolare sarà da approvarsi solo se ci sono ragioni ben precise e ben certe d'apostolato, circostanze obiettive che lo rendono ovvio; non piccoli motivi, dipendenti, in fondo, dalla debolezza e variabilità umane.

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10. Professionisti in genere

1. Lavoro professionale: impegno ad un'attività determinata e continuata. Per molti è obbligatorio. Per tutti coloro che sono in grado di farlo è pili perfetto che ,1'occuparsi in disparati lavori occasionali. Per due ragioni: prima: Dio ci ha affidato il mondo con l'incarico di provvedere al suo miglioramento e progresso. Senza il lavoro dell'uomo la terra avrebbe l'aspetto, più o meno caotico, d'una creazione incompiuta. L'uomo è chiamato a ren­derla più abitabile col suo lavoro intellettuale e manuale. Per questo è necessario che gli uomini si aiutino vicendevolmente: ma, per questo, ci dev'esser un ordine nelle loro diverse occupazioni e quindi una stabile divisione del lavoro. E colla divisione del lavoro si hanno le varie professioni. È quindi volontà di Dio che ci sia l'agricoltore che lavora la campagna perché produca i suoi frutti, che ci siano i muratori perché si abbiano le case. Ogni professio­nista serve ed aiuta gli altri ed è, a sua volta, servito ed aiutato. Il sacerdote ha bisogno dell'operaio, l'operaio del sacerdote. Ogni professione è degna e rispettabile. Perciò il lavoratore del braccio non ha ragione per vergognarsi del suo lavoro (per quanto umile) ma neppure per disprezzare — quasi esistenze non utili e non produttive — coloro che, come il monaco o lo studioso, lavorano coltivando la vita dello spirito. Tutte le professioni oneste rien­trano quindi nella volontà di Dio; ma ognuno cercherà di scegliere quella che, in concreto, sembra corrispondere alla volontà di Dio su di lui.

Oltre a questa ragione d'ordine per cosf dire sociale — rea­lizzare il disegno di Dio per la vita del mondo — è per motivo della sua personale santificazione che l'uomo è chiamato ad uno specifico lavoro professionale. Difatti nella pratica dei doveri professionali si dà una continua occasione per esercitare le più altre virtù morali: laboriosità, spirito di sacrificio, generosità, lealtà, pazienza, dolcezza, concordia (per quanto possibile) con tutti. Ad ogni momento, inoltre, della giornata è chiaro pel pro­fessionista quale sia il suo preciso dovere che corrisponde alla volontà di Dio. Tutta la sua giornata è regolata da un orario. Si comincia col risveglio e la necessità d'una pronta levata; c'è l'invito alla preghiera (che rientra pure fra i doveri professio­nali); e poi l'inizio del lavoro manuale od intellettuale, che si protrae fino al ritorno in famiglia; e questa offre momenti di riposo e di ricreazione ma anche impegni e cure quotidiane (che

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rientrano anch'esse fra i doveri professionali). Doveri che appar­tengono alla vocazione d'un uomo considerata concretamente e globalmente. Doveri che, se compiuti per amore di Dio, santifi­cano, momento per momento, un'esistenza.

2. In ogni professione onesta — compiendo lavori e servizi quanto si voglia modesti — si può santificarsi. È un gravissimo errore — latente in molti spiriti — il credere che una professione profana sia praticamente un ostacolo alla perfezione cristiana e che questa sia quasi riservata a chi si ritira dal mondo per consa­crarsi solo alla preghiera in un chiostro, nell'obbedienza ad una Regola. Certo per un professionista che ha un margine di libertà, non mancano pericoli e tentazioni: per esempio, di schivare i lavori pesanti, difficili e noiosi e scegliere solo i più facili e graditi, mentre la sua attività dev'esser soprattutto guidata dal senso del dovere e del meglio. Un insegnante dovrà preparare le sue lezioni con cura e correggere i compiti con diligenza quando avrebbe la voglia di occupare il suo tempo in letture piacevoli non attinenti alla immediata necessità della scuola. Un impiegato non occuperà troppo tempo a discutere sulle iniziative dell'azienda che non spettano a lui trascurando il poco simpatico, ma urgente, lavoro di contabilità. La ragione di tante vocazioni mancate: non ci si adatta a far bene ciò che è preciso dovere professionale del mo­mento e si occupa il tempo in attività estranee più attraenti. Una giovane che intende sposarsi e perde tutto il suo tempo in diverti­menti inutili, vien meno al preciso dovere di prepararsi alla sua professione di sposa e di madre. Chi è previdente e diligente nel rendersi atto ai suoi doveri professionali e fedele nell'eseguirli troverà continuamente l'occasione per fare qualche sacrificio e santificarsi. I sacrifici più meritori non sono quelli che cerchiamo noi stessi ma quelli che Dio pone sul nostro cammino: in questi non c'è nessuna volontà nostra né amor proprio. Dover dipendere da un capo che ha un brutto carattere e che forse abusa della sua autorità; vivere accanto a colleghi e compagni coi quali non c'è affinità spirituale; saper sopportare con pazienza — senza voler il male e la vendetta — qualche ingiustizia, ostilità, invidia, o qualcuno che si fa avanti dando agli altri lo sgambetto. Sono tutti incidenti e sofferenze della vita quotidiana disposti dalla Provvidenza per la santificazione del professionista. Non è contro tale Provvidenza il fare quanto possibile e quanto serve per riven­dicare il proprio diritto; ma il professionista cristiano non ripara il male a colpi di violenza che non fanno che aggravarlo e, per

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quanto possibile, cerca di salvare la fraternità umana. Anche quan­do si fa valere un diritto v'è sempre occasione per esercitare l'umiltà e la carità e per offrire a Dio qualche sacrificio.

3. La scelta della professione è molto importante perché decisiva per tutta la vita e perché è Dio stesso che, volendo l'or­dine nella vita sociale, assegna ad ognuno una professione. Natu­ralmente Egli si serve delle cause seconde per manifestare la sua volontà: occorre dunque un giudizio di prudenza con la luce della grazia (la quale però non è percepita come tale e non costituisce quindi un criterio per una scelta). Ci si augura che un ragazzo abbia fin dai primi anni seguito la voce di Dio che lo invitava a compiere i suoi doveri di scolaro e di studente: doveri che sono una preparazione alla futura professione. Non avrà, in genere, dif­ficoltà a scoprire, man mano che cresce, ciò a cui è destinato. Terrà conto delle sue doti intellettuali e fisiche, delle sue inclinazioni e dei suoi desideri (rettamente intesi e ragionevoli), delle circostanze ambientali, delle condizioni familiari, dell'eventuale esigenza di guadagnarsi presto il pane, delle particolari prospettive di suc­cesso. Comunque, non si dovrà prendere come criterio di scelta solo il maggior guadagno. Alle volte ci sono condizioni indipen­denti dalla volontà del soggetto — come la situazione della fa­miglia o le relazioni che la famiglia gode — che aprono al giovane una strada invece di un'altra. Talora uno si trova nell'occasione di abbracciare una professione senza averla scelta e dovrà fare di necessità virtù se il lasciare il certo significasse avventurarsi nel­l'incerto senza alcuna garanzia ài successo. Oltre al lume della prudenza, si ricorrerà a qualche saggio consigliere per conoscere la volontà di Dio. Ma se, ad esempio, una giovane che sognava di fondare una famiglia, non ha potuto farlo per circostanze indipendenti dalla sua volontà, non dovrà prendere un atteggia­mento di rivolta contro la vita, ma cercherà di riempire la sua esistenza di opere buone e, soprattutto, d'avanzare rapidamente nel cammino della vita spirituale. Purtroppo spesso avviene che * noi perdiamo il nostro tempo sognando altre condizioni di vita e di lavoro, lamentando d'esser le vittime di qualche sbaglio, nostro o di altri; e pensiamo che saremmo capaci d'ogni sorta di buone azioni se la nostra vita fosse diversa da quella che è. Ma si sogna l'impossibile. Il che significa non cpnformarsi alla volontà di Dio e, cosi, non risolvere il problema della vita.

4. In ogni professione è possibile santificarsi se si lavora per conformarsi alla volontà di Dio. Non tutte le professioni però

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sono ugualmente meritorie e non tutte rendono ugualmente facile il conseguimento della perfezione. Una professione è tanto più meritoria quanto più glorifica Dio. Le professioni che hanno per oggetto il servizio diretto di Dio — sacerdozio, vita religiosa — sono più meritorie di quelle profane; quelle che direttamente sono ordinate ad aiutare il prossimo — per esempio la profes­sione del medico, dell'insegnante — sono più meritorie di quelle che direttamente sono ordinate al sostentamento del lavoratore stesso; per esempio la professione del rurale. Perciò chi ha a cuore la propria vita spirituale terrà conto (nei limiti delle possi­bilità) quando sceglie la sua professione, delia maggiore o minore facilità offerta per conseguire la perfezione cristiana. Non c'è dubbio che la vita religiosa — la quale importa l'osservanza dei consigli evangelici — è più meritoria della vita matrimoniale e rende particolarmente facile — e quindi più probabile — la san­tificazione. A chi osservasse che non tutti vi sono chiamati e quindi ci sarebbe un'ingiusta preferenza da parte di Dio verso pochi eletti, si risponde che Dio dà a tutti la possibilità di sal­varsi e di santificarsi. Quanto alla concessione di grazie più o meno abbondanti alle singole anime, Egli ha presente la loro corrispondenza o meno alle grazie precedenti: la generosa corri­spondenza attira altre grazie. Comunque, Dio non è tenuto a dare a tutti grazie particolarmente abbondanti e speciali aiuti. E bisogna ammettere che c'è un mistero di predilezione divina nella distribuzione delle grazie. Ed a chi obbiettasse che se la santi­ficazione in uno stato è più difficile che in un altro, deve, per ciò, ritenersi anche più meritoria, si deve rispondere che ciò non è, per sé, vero. Lo sarebbe se, a parità di condizioni, suscitasse (per le difficoltà da superare) un più intenso amore di Dio. Dico: a parità di condizioni, perché le professioni — considerate obbietti­vamente — non glorificano tutte egualmente Dio. E pel fatto che uno è portato per una sua inclinazione (naturale o soprannaturale) alla vita religiosa, non è tolto il merito di questa scelta, se corri­sponde alla volontà di Dio.

5. Per rendere quanto più è possibile meritorio e perfetto l'esercizio d'ogni professione si cercherà di vederla non solo come un mezzo di lucro, ma anzitutto come un servizio. Servizio mutuo che gli uomini si scambiano. Quello spirito di vicendevole aiuto generoso che regna nell'ambito della piccola società familiare, do­vrebbe similmente regnare nel campo più vasto delle varie profes-

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sioni. Se ci fosse, la vita sociale sarebbe automaticamente e pro­fondamente trasformata. Invece, in alto come in basso, da parte di imprenditori e di lavoratori, si vede il lavoro anzitutto come una fonte di guadagno. Invece, salve le proporzioni, ogni profes­sionista, nelle soggettive finalità che animano il suo ufficio, do­vrebbe essere simile al sacerdote. Questi sarebbe giudicato molto severamente se celebrasse, predicasse, amministrasse i sacramenti per guadagnare. Eppure ha diritto, perché lavora, ad avere i mezzi pel suo sostentamento: ed il problema si risolverà da sé; i mezzi verranno, e supereranno anche lo stretto necessario, ma non devono esser in cima alle preoccupazioni. Anzitutto la preoc­cupazione di servire bene Dio ed il prossimo: se ci fosse questa finalità anche nelle professioni profane, ci sarebbe più unione e più fraternità fra gli uomini. Il pensiero che tutto quanto abbiamo — dal patrimonio intellettuale al mobilio di casa, dall'educazione morale al nutrimento — ci è venuto e ci viene per uno scambio di uffici professionali, dovrebbe aprire il nostro cuore' a tutti gli uomini per sentirci legati da amore e gratitudine e stimolati alla corrispondenza (cfr. J. Viollet, Les devoirs d'état, AMG, Paris, pp. 48-50; 59-60). Ognuno deve dunque sentirsi unito agli uomini d'altre professioni perché il lavoro, tutti i lavori, sono mezzi ed occasioni offerti perché la carità si traduca in atti positivi. Ma, in particolare, un legame immediato e diretto dovrebbe unire coloro che esercitano la stessa professione. Carità verso tutti, nono­stante i loro difetti. Anzi, carità particolare verso coloro che si sono sviati dal retto sentiero o sono più lontani dalla fede cristiana. Un professionista non può vivere come se fosse solo nell'esercizio del suo lavoro. Egli favorirà quindi e praticherà quelle forme associative che hanno per scopo l'unione ed il mutuo aiuto degli appartenenti alla stessa professione. Non bisognerebbe però che il singolo entrasse a far parte di un'associazione o d'un sindacato solo per motivi egoistici, ma per richiedere — se è giusto e possibile — migliori condizioni di vita per tutti i membri di una professione, per far trionfare la -verità, la giustizia, la pace, sostenere i più deboli, avendo sempre riguardo anche agli altri raggruppamenti ed alla società presa nel suo insieme: « la pace sociale non sarà possibile altro che il giorno in cui i sindacati, pur difendendo gli interessi d'ogni corporazione, saranno preoccu­pati degli interessi delle altre corporazioni e della collettività tutt'intera » (J. Viollet, o.c, p. 87).

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11. Chi comanda e chi ubbidisce

Dio ha voluto che ci sia un ordine nel mondo. Perciò ha implicitamente disposto che ci sia chi comanda e chi ubbidisce. Praticamente, ognuno, nella vita, ha da esercitare tanto l'obbe­dienza come l'autorità, a seconda delle circostanze, dei tempi, dei luoghi. A parte l'obbedienza nello stato religioso, sulla terra il tipo più perfetto del rapporto fra autorità ed obbedienza si ha nella famiglia perché in questa c'è il mutuo affetto naturale che facilita, eleva, perfeziona, supplisce l'esercizio dell'autorità e del­l'obbedienza. Esercizio che, nella famiglia, incontra anche le prime difficoltà. Come avviene per l'esercizio della carità. Un figlio trova fratelli e sorelle coi loro difetti; la sua buona volontà è ancora fragile, deve abituarsi a rapportare, ad adattarsi. Difficoltà troverà nel superare le prime reazioni e rivolte della natura di fronte ad una correzione o ad un divieto che vengono dai genitori. E dovrà prepararsi a rispettarli, amarli, ascoltarli docilmente anche quando riscontrerà in essi qualche difetto.

Perciò dalla vita familiare deve prender l'esempio ogni altro esercizio dell'autorità e dell'ubbidienza (cfr. J. Viollet, Les devoirs d'état, Paris, pp. 13-29; 56-57).

I. Chi comanda

1) deve interrogarsi se esercita l'autorità cercando di confor­marsi alla volontà di Dio, di rappresentarlo (per quanto indegna­mente), e se esercita l'autorità

2) come un servizio reso al prossimo: per dare un aiuto ai dipendenti affinché possano vivere meglio e compiere meglio il loro lavoro.

ò\ Chi comanda dev'esser anzitutto d'esempio. Quale influsso e quale pretesa di farsi ascoltare può avere chi richiede ad altri qualità che egli non possiede? Quale rispetto e fiducia può aspettarsi?

4) L'autorità non è una superiorità ma una funzione. Chi è a capo di altri deve tenerlo sempre presente e star attento che non s'insinui l'orgoglio e l'ambizione, quale può manifestarsi, ad esempio, nella pretesa d'aver sempre ragione invece di cercare quello che è il bene e quella che è la verità. Ma non ci sarà possi­bilità d'inorgoglirsi per chi saprà riflettere sugli obblighi e sulle responsabilità che l'autorità importa: ci sarà piuttosto da sentirsi impauriti ed umiliati e da riconoscere di non possedere tutte le

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qualità desiderate dall'incarico e di non fare tutto quello che sareb­be richiesto. L'esercizio d'una autorità è una prova impegnativa, non un onore di cui vantarsi.

5) Chi comanda dovrà interrogarsi se tien conto degli inte­ressi legittimi dei dipendenti o si comporta in maniera ingiusta ed opprimente, mosso dai propri capricci.

6) Può esser anche tentato di fare del proprio posto di coman­do un gradino per dar la scalata ad altri posti più elevati guardando solo e tutto coordinando a se stesso ed alle proprie mire.

7) Non è proibito, anzi, di sviluppare al massimo le proprie possibilità e di far rendere i propri talenti. Però il movente non dovrebbe esser solo il successo personale ma il maggior bene possi­bile da realizzare, a gloria di Dio e pel vantaggio del prossimo, perfezionando il proprio lavoro professionale: per tal fine una madre si specializzerà sempre più nell'educazione dei figli, un medico nella cura dei suoi malati.

8) Da deprecarsi l'arrivismo: la smania di arrivare ad un posto dì comando o di onore a qualunque costo, usando tutti i mezzi possibili, leciti o meno.

9) C'è il pericolo, per chi esercita l'autorità, d'aver delle ingiu­stificate preferenze. Preferenze che provocherebbero inevitabil­mente ribellioni, gelosie, discordie e divisioni fra dipendenti e su­periori e nei dipendenti tra loro.

10) Il tipo più perfetto di autorità ed ubbidienza si ha, dicevo, nelle relazioni fra genitori e figli. Perché fra questi il comando e la sottomissione sono elevati, favoriti e facilitati dal­l'affetto naturale. Su questo esempio, l'esercizio d'ogni autorità dovrebbe esser mosso anche dalla carità cristiana. Chi è a capo, non dovrebbe esser solo preoccupato che l'operaio eseguisca debi­tamente il suo lavoro; e l'operaio non dovrebbe esser solo interes­sato all'esecuzione materiale del lavoro necessario. Fra superiore ed inferiore dovrebbe intercorrere un sincero affetto: senza questo l'operaio sarà considerato come una macchina e stimato solo per quanto rende. Ma se il rapporto autorità-obbedienza è vivifi­cato dal soffio della carità, allora si considererà l'operaio come una creatura di Dio e si rispetterà la sua dignità di uomo (con tutte le sue capacità e limiti): non gli si imporrà un lavoro forse eccessivo o non corrispondente alle sue qualità. Chi dirige lo sosterrà con l'incoraggiamento, lo apprezzerà, metterà a sua disposizione la propria intelligenza ed esperienza, procurerà di facilitargli l'adem­pimento del pesante dovere, di sostenerlo nelle crisi naturali a cui

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ognuno può andar incontro, di risvegliare o rispettare (come de­vono fare i genitori) il sentimento della personale responsabilità e non considerarlo come uno schiavo; cercherà di esercitare l'auto­rità non pel gusto d'imporre la sua volontà o per partito preso o per impazienza, ma solo per una esigenza del lavoro da eseguire, cioè perché la verità ed il bene lo richiedono.

11) Ma vi può esser anche chi omette d'esercitare la debita autorità per pigrizia, per indifferenza, per motivi umani che non giustificano il lasciar correre con danno evidente dei singoli e della comunità. Per esempio, i genitori non possono accontentare in tutto i loro figli. Certo, nel modo di comandare, si cercherà d'usare le maniere più accette e meno pesanti, ma chi è alla guida deve saper dimostrare anche la fermezza, quando è necessario.

Concludendo: l'esercizio dell'autorità esige qualità e virtù, impone responsabilità tali da diventare un efficacissimo mezzo di perfezione per chi procura d'esercitarla sull'esempio di Dio stesso per aiutare e rendere migliori gli altri.

II . Chi ubbidisce

1. L'ubbidienza per eccellenza è quella del « religioso » : fa­cendo il voto di praticare questa virtù egli rinuncia alla propria volontà, la rimette nelle mani d'un superiore che rappresenta per lui Dio stesso. È la massima rinuncia: rinuncia non solo a qual­che cosa ma a quello che costituisce la parte più preziosa della persona: la volontà. Ma — sia pur in modo e grado diversi — praticamente tutti devono ubbidire. E ci sono autorità ben deter­minate (da quella dei genitori sui figli, a quella dell'impresario sui suoi operai, dell'insegnante sugli alunni, della padrona di casa sul personale di servizio). E ci sono autorità che s'impongono per una ragione non strettamente di diritto ma, per cosi dire, morale: tale può essere il prestigio d'un operaio anziano che per capacità ed esperienza va tenuto in considerazione dai giovani apprendisti: i suoi consigli ed esempi meritano rispetto ed attenzione.

2. Nella vita professionale ritorna dunque ogni giorno questo dovere. Tutt'altro che facile. Il laico professionista non ha scelto, come il religioso, una vita d'ubbidienza: è l'esercizio stesso della professione che gli impone d'ubbidire a qualcuna. S'aggiunga che il superiore religioso ha gli stessi ideali dei suoi confratelli, anche se ci può esser qualche disaccordo nel giudizio su una singola questione: nella vita professionale chi comanda ha talora menta-

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lità e convinzioni completamente contrastanti con quelle dei suoi dipendenti. S'aggiungono difetti personali di carattere, evidenti odiose preferenze che rendono in genere più penosa l'ubbidienza nella vita professionale che nella vita religiosa.

3. Perciò chi aspira alla perfezione deve, nelle sofferenze che l'obbedienza gli procura, non mostrarsi insofferente e ribellarsi, ma cogliere l'occasione che Dio gli offre per santificarsi nell'eser­cizio della sua professione. I difetti di chi comanda rendono diffi­cile l'obbedienza ma non possono dispensare i dipendenti dal conformarsi alle disposizioni superiori: altrimenti verrebbe meno ogni ordine ed ogni regola nella vita professionale e sociale. Bisogna dominare i sentimenti di malcontento e di rivolta pensando che allora i meriti saranno molto maggiori di quelli che si avreb­bero nell'aderire agli ordini di chi fosse fornito d'ogni virtù e s'imponesse per la sua santità affascinante.

12. Operai, rurali, impiegati

I. Operai dell'industria. Fra i lavoratori sono i più difficili ad esser avvicinati dal sacerdote. Hanno maggiori problemi, diffi­coltà, pericoli. Vivono in un ambiente nel quale possono, oltre che dissiparsi, perder facilmente la fede. Fatto incontestabile: la città favorisce l'allontanamento del lavoratore dalla religione, sia per l'immoralità che vi regna, sia per le false ideologie che dirigenti, intellettuali — in gran parte miscredenti — vi diffondono. E, nella città, ambiente pessimo è la fabbrica. Testimonianza d'un cappella­no dell'ONARMO: « In mezzo alla nostre giovani lavoratrici si ha la strage più grande... Basta una macchina per un ritorno a casa o l'incontro con un uomo simpatico, per prostituirsi... Le giovani lavoratrici sono insidiate continuamente e in tutti i modi, dentro e fuori la fabbrica o l'ufficio, anche da parte di uomini sposati e in posti di responsabilità, e molte, per non dire quasi tutte, presto o tardi cedono... » (cit. da A. Toldo, L'evangelizzazione nel mondo del lavoro, Roma, 1966, p. 24). Si direbbe una conferma di quanto drasticamente asseriva Charles Péguy: « Nessun luogo di perdi­zione è cosi ben fatto, bene ordinato e bene attrezzato quanto la fabbrica dei nostri tempi, e nessun strumento di perdizione è più adatto e più efficace di essa » (o.c, p. 22).

Non meraviglia quindi la scarsa frequenza degli operai alle pratiche del culto religioso. A Bologna, ad esempio, da inchieste

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condotte alcuni anni fa, risultava che degli operai delle aziende industriali private solo il 7,1 per cento partecipava alla Messa festiva (tenendo conto che, in questa percentuale, il 10,9 per cento erano operaie, mentre gli uomini erano solo il 5,25 per cento) (Toldo, o.c, p. 11). A Marsiglia solo il 3,3 per cento degli operai industriali faceva Pasqua (ibid., p. 29).

Il primo problema dunque — che richiederebbe però un di­scorso troppo lungo — riguarda i mezzi più efficaci per evangeliz­zare gli operai, ed anzitutto per avvicinarli individualmente (perché la più fruttuosa influenza benefica è quella che si può esercitare mediante i contatti personali). Per mezzo dei cappellani di fab­brica? Anche a questi manca spesso il tempo e l'occasione d'intrat­tenersi cogli operai (fuori dell'orario e del luogo della mensa). Con iniziative promosse fuori della fabbrica, nelle parrocchie? È tutt'altro che facile raccoglierli sia per lo scarso entusiasmo con cui ricevono questi inviti, sia per la lontananza e dispersione delle loro abitazioni. Per mezzo dei preti-operai? Oppure (come oggi da taluni si propone ed in qualche luogo si sta tentando) per mezzo di operai-preti, i quali hanno prima fatto l'esperienza del lavoro come tutti gli altri e poi, senza interromperlo, sentono la chiamata ed intraprendono la preparazione al sacerdozio, con corsi di studi serali, allo scopo di poter, sacerdoti, congiungere le due attività, lavoro ed apostolato in fabbrica? Questioni che sono in fase di studio e di sperimentazione. Questo è certo: i pastori d'anime sono molto preoccupati dello stato spirituale degli operai industriali perché constatano che il loro allontanamento dalla Chiesa è progressivo.

Ci soffermiamo piuttosto sul modo di trattare con questa cate­goria di lavoratori, quando s'offrirà l'occasione d'un incontro o d'un colloquio (sacramentale od extra-sacramentale).

1. L'operaio che entra in fabbrica dovrebbe avere saldissimi principi religiosi per non subire l'influsso negativo dei compagni, cioè della massa, che, a sua volta, è manovrata da capi i quali, facendo leva sulle difficili condizioni economiche dei lavoratori, lanciano promesse, sollecitano rivendicazioni, insinuando abilmen­te (cioè più o meno apertamente) una ideologia antireligiosa come indispensabile garanzia del progresso sociale e civile. E cosf molti sprovveduti perdon la fede, sia perché non sono in grado di difenderla contro gli attacchi di persone più istruite, sia perché è più comodo liberarsi dei legami morali d'una religione sulla cui verità (dicono) non c'è, per lo meno, comune consenso, cioè la

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certezza. S'aggiunge il forte rispetto umano che non sanno vincere perseverando nella pratica religiosa appresa da piccoli, professan­do e difendendo, all'occasione, i principi della loro fede e della morale.

Però, dalle inchieste risulta che, anche nelle fabbriche, gli operai che sono decisamente atei sono una minoranza. E non sono molti neppure coloro che prendono una posizione nettamente av­versa alla Chiesa accusandola, ad esempio, gravemente e seriamente di parteggiare per i capitalisti. Molti però scivolano verso uno stato d'indifferenza in materia religiosa — indifferenza che è il carattere tipico dell'incredulità moderna — e, per l'influsso dei compagni e dei dirigenti di partito, si allontanano progressiva­mente dalla Chiesa. Occorrerà aver tatto (soprattutto con coloro che sono ostili alla religione). Usando il metodo amabile della persuasione e non quello dell'aspro contraddittorio, si presenterà spesso l'occasione di correggere molte idee sbagliate. Ricordiamo: comprensione e bontà con gli erranti; fortezza ed intransigenza contro l'errore. Anche in chi non nega Dio, manca spesso il vero concetto cristiano di Dio. Di un Dìo che promette il Suo aiuto, la Sua Provvidenza purché, però, non ci sforziamo di fare la Sua volontà (« Cercate prima il Regno di Dio e la Sua giustizia e tutto questo vi sarà dato di sovrappiù », Mt. 6, 33; Le. 12, 31): e la Provvidenza sarà tanto maggiore quanto più noi avremo fede nella Sua assistenza e quanto più questa fede sarà pratica ed effi­ciente. Spesso, invece, l'uomo pretende che Dio faccia la Sua parte, ma non s'impegna a fare la propria e bestemmia Dio quando Egli non è a misura dell'uomo. Manca l'esatta concezione dell'esi­stenza terrena come d'una prova per giungere ad una vita che non ha fine: in ordine a questa tutto dovrebbe esser visto e giudicato, specialmente il dolore da cui Dio intende ricavare la salvezza e la santificazione delle anime. Egli vuole che ricerchiamo anche il nostro terreno benessere, sempre però con lo sguardo al fine ultimo, alla vita eterna.

Errori da correggere circa la persona e la missione di Cristo. Si sente qualche volta dire che i cristiani e la Chiesa hanno tradito l'autentico messaggio di Cristo. Il quale sarebbe stato un rivo­luzionario, ucciso per aver contestato le ingiustizie dell'ordine costituito. Che si prenda il Cristo come modello è certo augura­bile, ma bisognerebbe ammettere la Sua divinità e la spiritualità della Sua dottrina. La Sua azione non si svolge mai direttamente sul piano sociale e politico, ma sempre su quello soprannaturale.

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Condanna si l'ingiustizia, ma come ogni altro peccato. Ciò che lo interessa e lo preoccupa direttamente è la vita e la salvezza delle anime, contro la falsa religione degli Scribi e Farisei che al popolo non portavano la liberazione ma l'oppressione. Verso la legittima autorità civile egli pratica e raccomanda l'obbedienza: « Rendete... a Cesare quel che è di Cesare: e a Dio quel che è di Dio » (Mt. 22, 21). Non mostra incuranza per quanto è neces­sario alla vita presente, ma la suprema aspirazione non dev'esser per i beni terreni ma per quelli che non periscono: « Cercate pri­ma di tutto il Regno di Dio ». La Sua missione è per un mondo migliore, ma anzitutto ed essenzialmente per il mondo dello spirito.

Errori circa la natura della Chiesa ed il uso compito. La si accusa di non aver difeso più efficacemente gli interessi dei lavo­ratori contro la classe borghese sfruttatrice dei poveri. A tal propo­sito, bisogna tener fermo e far capire qual è la missione propria e specifica che Cristo ha affidato alla sua Chiesa (intesa come Collegio Apostolico): questa missione « non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine religioso » (GS, 42). La Chiesa porta alle anime la salvezza e la vita soprannaturale. Perciò è santa perché ha tutti i mezzi per santificare le anime (nonostante i difetti dei suoi ministri che re­stano sempre uomini): ed i frutti di santità non mancano. Impe­gnarsi sul piano sociale, economico, politico per combattere le ingiustizie e per incarnare il Regno di Dio nelle realtà terrene spet­ta ai cristiani laici. Ma anche la loro azione non sempre è stata quella desiderata. Perciò se il sacerdote si pone sul piano sociale a discutere di questioni economiche sarà facilmente messo in difficoltà. Perché non si può misconoscere che, alla fine del secolo scorso ed agli inizi di questo, il socialismo abbia avuto dei meriti per il miglioramento delle masse contadine, ad esempio — in Italia — nell'Emilia e nella Romagna. A prescindere, natural­mente, dall'infausta azione antireligiosa. Mentre i cattolici hanno lavorato troppo poco per neutralizzare, coi fatti, la penetrazione e la propaganda marxista. La quale è cosi riuscita ad instillare nelle masse operaie l'idea che il comunismo sia l'unico movimento capa­ce di portare la giustizia nel mondo del lavoro, sia pur con la forza ed a costo della perdita della libertà.

Ho tentato una qualche esemplificazione sui temi e problemi religiosi che possono interessare i lavoratori.

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2. Il sacerdote che esercita un ministero fra gli operai coglierà le occasioni per un apostolato specificamente sacerdotale: far del bene spiritualmente e, se opportuno, anche materialmente, ten­tare discretamente ed intelligentemente un'evangelizzazione nel­l'intento supremo di comunicare alle anime la vita soprannaturale. Ma è bene non entri in questioni e lotte fra operai ed imprendito­ri, schierandosi per gli uni contro gli altri ^. Certo, chi è più debole e più povero ha più bisogno d'aiuto e per questa ragione, gode la precedenza e le preferenze del sacerdote. Ma il prete non può fare il mestatore. Se lo facesse la sua posizione e la sua permanenza in fabbrica sarebbe precaria perché, da una delle parti, mal tolle­rata e contrastata. Ci sono pure i preti-operai. Ma anche questi devono ripensare qual è la loro specifica missione e vocazione. Dedicarsi, ad esempio, alle turbolenti attività sindacali è cosa delicata per quanto retta e disinteressata sia l'intenzione: è una occupazione che sottrae tempo al lavoro che il sacerdote, in quanto tale, potrebbe svolgere; inoltre egli verrebbe cosi a suppli­re il laico al quale spetta dare in fabbrica la testimonianza cri­stiana e, tanto più, svolger l'azione politica e sindacale. Ai sacer­doti tocca formare cristiani adulti e non sostituirli (rimproveran­do, magari, alla Chiesa di non aver saputo formarli).

3. Nel trattare cogli operai il sacerdote — sia cappellano di fabbrica, sia prete-operaio od operaio-prete, sia nell'amministra­zione del sacramento della Penitenza, sia in occasionali colloqui — dovrà usare tutti gli accorgimenti per incontrare le simpatie di questo elemento spesso ostile o malsicuro. Bisogna anzitutto dimostrargli una stima sincera, considerando la sua condizione: uno stato di dipendenza quasi assoluta, una sistemazione priva di sicure garanzie, un lavoro non sempre adeguatamente remunerato e privo del carattere di personalità ed umanità perché ridotto quasi a quello d'una macchina. Perciò un operaio che da qualche sacerdote si vede accolto e considerato con poco riguardo o come un minorenne — mentre altri più influenti, ricchi ed altolocati sono oggetto di pronta deferenza e distinta gentilezza — questo operaio non guarderà certo di buon occhio clero e Chiesa. Non sopporterà certi atteggiamenti autoritari e paternalistici che si

20 « In extruenda vero christianorum communìtate, Presbyteri numquam alicui ideologiae vel factioni humanae inserviunt sed, ut ÉvangeUi Prae-cones et Ecclesiae Pastores, ad Corporis Christi spirituale incrementum con-sequendum operam impendunt » {PO, 6).

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notano (o si notavano) presso qualche parroco (specialmente di campagna o montagna) o presso qualche cappellano militare nei riguardi dei soldati. Atteggiamenti che l'operaio oggi non tollera perché è troppo conscio della sua dignità e nobiltà di lavoratore e dei suoi diritti d'uguaglianza e di solidarietà con tutti gli altri uomini. Bisogna anche ascoltarlo. Ed andargli incontro con spirito fraterno, comprensivo, democratico. I mezzi di conversione e santificazione sono, nella Chiesa, in mano d'uomini: è d'importan­za decisiva il modo come vengono offerti ai fedeli. Ed il popolo, che non suol fare molte distinzioni, coinvolge nelle critiche contro gli uomini anche l'istituzione e la dottrina. Per esempio, non c'è dubbio che, tanto nelle fabbriche come nelle parrocchie, la fre­quenza degli operai e del popolo alla Messa festiva dipende molto dalle qualità del sacerdote celebrante, secondo che è più o meno santo, prudente od imprudente, amabile od intrattabile, paterno o dispotico. Si apprezzerà il suo tenore di vita semplice, la povertà della sua abitazione (non — si noti bene — della Casa del Signo­re che i santi hanno sempre cercato di abbellire senza lesinare in spese). Aggiungo che oggi si vede di malocchio il sacerdote che si circonda e si fa aiutare solo da persone del mondo borghese od intellettuale.

4. L'operaio che si decide a ricevere il sacramento della Penitenza, in genere si avvicina al sacerdote (che ancora non conosce) con un po' di timore ed anche di diffidenza. Il confessore saprà rompere il ghiaccio portando con cortesia il discorso su qualche particolare della vita del suo interlocutore: « dove lavora? è molto gravato? è soddisfatto del suo mestiere? ». Attenzione però a non sollecitare confidenze in maniera diretta ed indiscreta. Verranno anche le confidenze, ma a loro tempo e spontaneamente, nel corso della Confessione stessa. Quel che più preme è ottenere che giovani, un tempo praticanti, e forse militanti nell'Azione Cat­tolica, passando dall'ambiente ristretto della famiglia a quello della fabbrica, non si lascino (dopo un primo periodo di disorienta­mento) travolgere dalla maggioranza areligiosa e dissipata. Ma il singolo, quando è isolato, si sente debole. Bisognerebbe che stringesse amicizia coi migliori: l'unione rende coraggiosi e forti. Basterebbe un gruppo d'operai cristiani dal comportamento coe­rente, per far desistere, senza bisogno di prediche, qualche com­pagno dalla bestemmia e dal turpiloquio. Allo spirito dei buoni si farà quindi brillare l'ideale della testimonianza cristiana; colla

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persuasione, senza imposizioni: non devono aver l'impressione che si chiede loro qualcosa di difficile. La testimonianza sta essen­zialmente nel buon esempio. Ma per darlo sempre, coraggiosa­mente, bisogna liberarsi dalla tirannide del rispetto umano. Il giovane cristiano dovrà quindi esser sostenuto nelle sue difficoltà psicologiche. Deve trovare nel confessore la parola che lo conforta e lo conferma nella fede e deve trovare nella frequenza ai sacra­menti la forza soprannaturale. Senza l'aiuto di questi apostoli laici l'opera del sacerdote — per quanto intelligente e zelante — sarà impari al compito, quanto mai arduo, della conversione della classe operaia: « i primi ed immediati apostoli degli operai devono esser operai, come industriali e commercianti devono esser gli apostoli degli industriali e degli uomini di commercio » (Pio XI, Quadrag. anno, n. 60). L'esperienza lo conferma: « Non c'è cap­pellano dell'ONARMO od assistente delle ACLI che non si renda conto dello scarso rendimento del suo agire finché non sia riuscito a suscitare... nell'ambiente di lavoro un nucleo di lavoratori cat­tolici » (Toldo, o.c, p. 90). Cosi la massa sarà impercettibil­mente animata e trasformata dal di dentro, più efficacemente che dal di fuori, più che dall'opera del sacerdote verso il quale si nutre, da parte di molti, una certa diffidenza istintiva fatta di pregiudizi.

Niente di meglio se, oltre alla breve esortazione che si può rivolgere in Confessione, fosse possibile organizzare, per i miglio­ri, qualche ritiro o corso d'esercizi spirituali.

5. Il sacerdote deve saper, all'occasione, dire una parola illuminante qualora qualche operaio facesse un caso di coscienza a proposito di rivendicazioni di diritti e interessi da parte della sua categoria. C'è chi personalmente non farebbe questioni perché s'accontenta della sua situazione, economica; potrà però esser solidale con altri che percepiscono un salario insufficiente. Ma, per raggiunger lo scopo, non tutti i mezzi sono leciti. Bisogna dirlo chiaro. Non si può ridurre il datore di lavoro ad esser vitti­ma d'una lotta disumana e crudele. Non si può mancargli di defe­renza. Non si può abusare di quanto è suo. Gli scassinatori oggi li troviamo ad ogni pie sospinto: dalla fabbrica all'ufficio, dalla canonica alla Chiesa. Non si può dispensarsi dal lavorare quando il principale è assente. Il venir meno ai patti ed al contratto stipu­lato non si giustifica pel fatto che s'invocano, per l'avvenire, condizioni più eque, appena siano possibili. Quanto agli scioperi,

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questi praticamente sono decisi dai sindacati. Ogni operaio però, quando ha da dare il suo nome ad un sindacato, dovrebbe scegliere quello che gli sembra tutelare meglio le istanze dell'ordine sociale e morale. Ed ognuno deve conservare la sua personalità, non può ridursi ad esser un puro strumento, rinunciando alla sua facoltà di pensare, di giudicare, d'influire sull'opinione pubblica. Quando lo sciopero fosse giusto non si può approvare il crumiraggio. Ma quando fosse apertamente motivato da ragioni politiche ed inoppor­tune (perché i danni prodotti alla comunità non sono giustificati dai vantaggi sperati da una singola classe) allora l'individuo fa­rebbe bene ad esprimere presso amici e compagni di lavoro almeno il suo interno dissenso. Non è facile, all'atto pratico, distinguere fra scioperi politici e scioperi economici: è certo però che non si può ammettere una conflittualità permanente che paralizza la conti­nuità efficiente nell'esercizio dei servizi pubblici: questo è un grave danno comune difficilmente giustificabile. E si può chiedersi se in un paese dove ci sono tanti disoccupati o sottoccupati, siano giuste quelle rivendicazioni che pretendono aumenti di salari (sala­ri — si suppone — che non siano ingiusti, come non lo sono quelli di certi impiegati statali). Oltre alla giustizia commutativa c'è da attendere anche a quella sociale, cioè al bene comune. E perciò non si può approvare che l'una o l'altra categoria di lavo­ratori, esercitino, con scioperi continui, una forma di pressione sul parlamento che è chiamato a legiferare in piena libertà nell'in­teresse comune.

6. È noto come specialmente gli operai sono sempre sospet­tosi che Chiesa e sacerdoti s'ingeriscano indebitamente nella poli­tica. Perciò conviene che il sacerdote ne parli meno che è possibile e non dia l'impressione che il clero vuol obbligare i credenti a dare il voto ad un dato partito solo perché si professa e si deno­mina cristiano. Il compito del sacerdote è essenzialmente di evan­gelizzare. Indirettamente risalteranno automaticamente le conse­guenze deleterie di false ideologie e di partiti sovversivi. E chi vuol capire, capirà. La Chiesa docente, da parte sua, sa come richiamare ai fedeli i loro doveri di coerenza anche nel campo poli­tico. Col singolo che, per esempio, crede in buona fede di conciliare i suoi principi religiosi e la sua pratica religiosa col voto dato al partito comunista, bisogna agire con prudenza; certo non si può affermare lecito ciò che è illecito; ed a chi chiede, in confessione, se si può dare il voto al partito comunista, bisogna rispondere

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chiaramente che ciò è incompatibile colla pratica dei sacramenti. Ma se qualcuno fosse in buona fede, sarebbe pure pericoloso il turbarla senza speranza di frutto.

7. Infine, salvi sempre i diritti ed i doveri di giustizia, non si può non annunciare la morale evangelica che a tutti raccomanda la discrezione e la temperanza. I più abbienti sono invitati ad evitare il lusso eccessivo (che provoca le reazioni della classe ope­raia). Ma anche ai lavoratori bisognerebbe suggerire di saper privarsi di qualcosa che non è necessario e di esser previdenti per realizzare qualche risparmio che permetterà un'esistenza futura più tranquilla e più agiata. Ma simili esortazioni — a ricchi e a non ricchi — van fatte con discrezione, e, in genere, quando ci si rivolge alla massa: rivolgerle al singolo potrebbe offenderlo e provocare amarezza o sdegno.

II . Rurali. Anni addietro esisteva il tipo del rurale coi suoi caratteri particolarissimi. Oggi va scomparendo, anche se lavora in campagna.

1. Al confessore s'avvicinerà con timidità, forse col timore d'esprimersi in modo grottesco ed incomprensibile, sapendo di non esser persona istruita. Il rurale ha inoltre un complesso d'infe­riorità di fronte agli operai industriali che, come è noto, preten­dono d'essere o di giungere alla direzione della vita economica. Il confessore deve infondergli coraggio, dimostrargli la massima stima, prender ogni sua parola in seria considerazione, assicurarlo d'aver tutto compreso, sapendo pure adattarsi al linguaggio dialet­tale del luogo.

2. In genere il rurale, almeno in certe zone, è (od era) assiduo alla pratica religiosa, piuttosto esteriore però, tradizionalista, for­malista, e non senza, talvolta, una qualche nota di superstizione. Perciò, se dalla campagna si trasferirà in città od emigrerà, è prevedibile il pericolo che subisca il cattivo influsso senza saper reagire con fortezza, e cosi smetta, un po' alla volta, ogni pratica di pietà e di culto. (Per una religione veramente consapevole, ragionata, personale, servirebbe una catechesi — con eventuale discussione —, una catechesi che non si riduca alla breve omilià della Messa).

3. E bisognerebbe abituare il rurale (e l'operaio) a spiritualiz­zare e soprannaturalizzare il suo lavoro: a non considerarlo solo come una fonte di guadagno materiale, ma anche come un mezzo

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— non difficile — d'unione con Dio e di raccoglimento. Neppur dai migliori si può pretender molte pratiche di pietà. Però ad ognuno s'offre la possibilità di cercare e vedere Dio presente dovunque: nella bellezza e nella pace della natura, nelle ore di solitudine e di silenzio trascorse nel lavoro dei campi. Senso della presenza di Dio, a cui si unisca qualche brevissimo slancio di preghiera. Tutto può richiamare pensieri di fede: una chiesetta, il suono delle campane, 1'« Angelus », un crocifisso all'angolo del sentiero... Una spiritualità, insegnata e praticata con semplicità, ma che dovrebbe essere quella "propria del lavoratore che vive in campagna o nell'officina o viaggia, giorno e notte, per le strade del mondo.

I I I . Impiegati. Ognuno di essi cercherà d'amare la propria professione, per quanto monotona, pur senza credersi un intellet­tuale o l'anima dell'impresa in cui lavora. Solo se animato dalla passione pel suo ufficio, potrà essere assiduo al lavoro, in buoni rapporti con superiori e colleghi, pronto e cordiale col pubblico.

1. Dovrà quindi esaminarsi sull'impegno che mette e l'orga­nizzazione che sa dare al proprio lavoro (essendo spesso libero dalla sorveglianza dei superiori). Ci può esser, ad esempio, la tentazione di legger il giornale, di scrivere la propria corrispon­denza, di fare altri lavori personali durante le ore d'ufficio; di non metter in ordine i documenti, ma d'accumularli (quasi per dar l'impressione, d'una attività massacrante); di tirar in lungo il lavoro (per non saper o non voler organizzarlo) in modo da far credere alla necessità di ore straordinarie (cfr. Lebret-Suavet, Ringiovanire l'esame di coscienza, Roma, 1954, pp. 48-50).

2. Rapporti con superiori e colleghi. Verso i superiori: rispet­to, equità, comprensione, benevolenza. Né adularli nella speranza di miglior trattamento e promozioni, né demolirli sistematicamente di fronte agli altri.

Verso i colleghi: stima, solidarietà, aiuto fraterno. Non metter ostacoli all'avanzamento di giovani capaci e degni; non danneg­giare per invidia la stima che godono presso i superiori.

Evitare le odiose concorrenze. È da lodare chi, accanto all'in­dolente ed al pigro, espleta sollecitamente il suo lavoro: bando però a quella certa vanità di chi vuol ostentare la sua superiorità sui colleghi. E c'è anche chi si attribuisce il merito del lavoro com­piuto da qualche subalterno.

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3. Relazioni col pubblico. L'impiegato deve considerarsi al servizio e a disposizione (per quanto possibile) del pubblico. Sarà messa alla prova la sua pazienza e gentilezza nel sobbarcarsi a qualche sacrificio per accontentare (od almeno per dare un qualche aiuto) a chi fa una richiesta (forse non del tutto pertinente). C'è l'impiegato che dà risposte sbrigative, informazioni approssima­tive, incerte (e forse false) per non darsi la pena di fare qualche ricerca (cfr. Lebret-Suavet, l.c).

13. Imprenditori

Per compiere la loro professione efficacemente — anche sul piano umano — dovranno esercitare un complesso di virtù, spe­cialmente quelle morali. Le quali, però, per esser autentiche, sup­pongono le teologali.

I. La grande tentazione dell'impresario è quella di restrin­gersi ad una visione soltanto umana, e non soprannaturale, della sua professione; di curare nel modo migliore tutto quanto è neces­sario od utile alla maggiore e migliore produzione dei beni limi­tando tutte le sue preoccupazioni al piano tecnico ed economico. Ma ciò non basta (anche se ha una motivazione disinteressata: il bene della comunità). Perché egli ha a che fare con « uomini » dai quali non si può solo ricavare esercizi e movimenti fisici sempre più ordinati e sincronizzati per una produzione sempre migliorata. Uomini i quali non chiedono solo di aver un salario e delle assicurazioni; cercano nell'ambiente di lavoro un clima d'umanità e d'amicizia cristiana. L'amicizia suppone la giustizia, ma è qualcosa di più. È fondata sulla reciproca conoscenza e con­siste in uno scambio d'affetto conscio, libero, generoso. « Ciò che avete in mira — diceva Pio XII alle Giovani Lavoratrici Cat­toliche il 1.VII.51 — è la dignità del lavoratore, soprattutto della donna e della giovane... Dio vuole che tutti nel mondo del lavoro, superiori e subordinati, imprenditori e operai, rispettino sempre e dappertutto la dignità umana ed esercitino giorno per giorno nello spirito di Cristo la giustizia e la carità » (Pio XII, Disc, e Radiomess., T. Vat. XIII, pp. 192-193). « Ad ottenere la desiderata concordia fra il lavoro e il capitale — diceva lo stesso Pontefice il 24.1.46 ad un gruppo di datori di lavoro e di lavora­tori delle Aziende Elettriche d'Italia — si è fatto ricorso all'or-

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ganizzazione professionale e al sindacato, inteso non come un'arma esclusivamente rivolta ad una guerra difensiva ed offensiva, che provoca reazioni e rappresaglie, non come una fiumana che dilaga e divide, ma come un ponte che unisce... Tuttavia... né l'organiz­zazione professionale e il sindacato, né le commissioni miste, né il contratto collettivo, né l'arbitrato, né tutte le prescrizioni della più vigile e progredita legislazione sociale varranno a dare una piena e duratura concordia e a produrre tutti i loro frutti, se una provvida e costante azione non interviene ad infondere un soffio di vita spirituale e morale nella stessa compagine dei rap­porti economici ». Perciò egli benediceva « con effusione di cuore l'opera dei Cappellani del lavoro, i quali nelle fabbriche, al di sopra di ogni partito e alieni da qualsiasi interesse materiale, portano con Dio la luce di verità e la fiamma di amore che affra­tella gli animi » (Pio XII, Disc, e Radiomess., VII, pp. 350-351).

Chi in seno alle imprese ha compiti direttivi — ricordava Pio XII ai partecipanti al I Congresso Intern. Ingegneri, il 9.X.53 — sia consapevole d'aver a dirigere delle persone intelligenti e libere: ognuna di queste, per quanto umile, si pone — con la stessa acutezza, anche se in modo meno riflesso — gli stessi pro­blemi personali che interessano i capi dell'impresa. « Voi amate — osservava il pontefice — che vi si affidino delle responsabilità, che vi si lasci la libertà di prendere delle iniziative..., voi deside­rate superare il quadro puramente professionale, per sviluppare la vostra personalità tutt'intera... È augurabile che il lavoratore più modesto vi partecipi progressivamente. Dopo averlo trattato troppo a lungo come un mezzo di produzione, sfruttabile a vo­lontà ci si è preoccupati delle condizioni materiali della sua esistenza. Si riconosce ora che sarebbe ben insufficiente fermarsi là... Non può bastare di vedere in lui un produttore di beni, ma bisogna trattarlo come un essere spirituale che il suo lavoro deve nobilitare e che attende dai suoi capi, più ancora che dai suoi eguali, la comprensione dei suoi bisogni ed una simpatia veramente fraterna » (Disc, e Radiom., XV, pp. 387-388).

II . A chi ha un compito di direzione in un'impresa (sia indu­striale, sia commerciale, sia artigiana) sono richieste particolari doti, qualità, virtù, corrispondenti ai suoi impegni ed alle sue responsabilità. Ne elenco qualcuna.

1. Prudenza. Virtù-guida la quale, in ogni opera e nella organizzazione d'ogni piano di lavoro, muove l'uomo a scegliere

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ed usare i mezzi proporzionati al fine. Si presuppone anzitutto che mezzi e fine siano leciti ed onesti. Poi molte volte sarà da chie­dersi se, di fatto, questa prudenza ispiratrice sia una prudenza veramente soprannaturale o solo umana. Ad esempio, chi ha coscienza delicata e senso di responsabilità avvertirà certi problemi ed esigenze morali che non riguardano solo i rapporti contrattuali e l'organizzazione del lavoro. Nello stabilire, disporre e distri­buire posti, funzioni, incarichi, non si preoccuperà solo che l'ope­raio abbia la maggior sicurezza ed igiene possibile, ma anche che siano evitati i pericoli morali (che vengono, ad esempio, da certe promiscuità o dall'influsso meno buono che un giovane potrebbe ricevere da un anziano a cui viene affidato).

2. Spirito d'umiltà e carità. Un capo d'impresa considererà il proprio incarico come un servizio, non come un privilegio. Non crederà d'esser capace di veder chiaro e decider da solo senza bisogno del parere d'altri. Ma procurerà, per quanto possibile, nelle sue decisioni — riguardanti l'ordinamento e l'organizzazione del lavoro — di accettare di buon animo la partecipazione attiva alla vita dell'impresa di tutti i suoi collaboratori e dipendenti. Non c'è dubbio, autorità ed unità di direzione devono esser salve; ma gli operai non possono neppure esser ridotti a semplici muti esecutori di ordini, da ricevere in modo assolutamente passivo senza la minima possibilità di esporre i propri punti di vista e di fare qualche personale esperienza (cfr. Giov. XXIII, Mater et Mag.y n. 98). Considero la questione sotto il profilo piuttosto umano, morale ed ascetico. Non entro a discutere sulla questione della partecipazione degli operai alla gestione ed agli utili dell'im­presa. Nella « Gaudium et Spes », n. 68, si legge che « nelle imprese economiche... — sempre con riguardo ai compiti di cia­scuno, sia dei proprietari, sia degli imprenditori, sia dei dirigenti, sia dei lavoratori, e salva la necessaria unità di direzione dell'im­presa — si promuova (in modo da determinarsi secondo le con­venienze) l'attiva partecipazione di tutti nella "curatio" dell'im­presa ». Volutamente si è usato il termine « curatio » desumen­dolo dal testo latino .della « Quadrigesimo anno » (n. 30) (dove è espresso l'augurio che gli operai diventino cointeressati o nella proprietà o nella « curatio » dell'impresa o partecipi in qualche misura dei guadagni percepiti). Pertanto nella traduzione italiana non è esatto usare la parola « gestione » che ha un significato specifico che va oltre quello di « curatio ». Si dovrà usare una espressione che abbia un significato più generico, come, ad esem-

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pio, « partecipazione alla vita dell'impresa ». Difatti non è com­pito della Chiesa formulare (salve le esigenze della giustizia e della carità) precise indicazioni circa rinnovamenti tecnici o giu­ridici dell'impresa. Bensì — secondo lo spirito del messaggio evangelico — d'esortare che l'impresa diventi sempre più una vera comunità di persone. Comunità nella quale regni fraternità umana e cristiana. Ma ciò suppone che ognuno — qualunque sia il suo posto e la sua funzione — pratichi costantemente le virtù della carità e dell'umiltà (oltre che della giustizia sociale). Per esempio, a proposito della partecipazione di tutti gli operai agli utili dell'impresa, è evidente che se in una società industriale a regime azionario, soltanto pochi (che sono alla direzione) acca­parreranno tutte le « azioni » (con conseguenti guadagni enormi) questi dirigenti non si mostrano certo preoccupati del bene co­mune e delle istanze della giustizia « sociale ». Ed in definitiva opereranno contro il bene dell'impresa stessa. Perché, non favo­rendo, anzi impedendo, ciò che potrebbe in qualche modo miglio­rare le condizioni degli operai, questi naturalmente saranno tentati d'invocare l'intervento dello Stato e d'auspicare un regime collet­tivista (senza pensare che, in tale soluzione, rinuncerebbero alla propria libertà e si fiderebbero d'un potere dittatoriale che sarebbe inevitabilmente nelle mani di pochi).

3. E per chi ha posti direttivi in un'impresa, tante occasioni si presenteranno di metter in pratica la giustizia « distributiva ». La quale non interessava solo i monarchi del passato, ma chiunque, in una comunità, deve distribuire ed assegnare incarichi ed im­pegni, oneri ed onori, uffici e vantaggi. E ci può esser la tenta­zione di lasciarsi guidare da motivi solo personali o d'interesse.

4. Chi ha un compito di vigilanza s'interrogherà se mai tenda a cadere in uno dei due opposti difetti: da una parte quello di lasciar correre e trascurare il giusto controllo; dall'altra parte quello d'esser troppo esigente, pignolo, diffidente.

5. Chi è alla direzione d'un'impresa è ordinariamente assor­bito in modo eccessivo dal lavoro: occupazioni, preoccupazioni, contrattempi, impegni, casi e difficoltà da risolvere, pratiche da sbrigare: tutte cose che non sono sempre fissate e preventivate (come può esser il lavoro del semplice operaio). Pertanto dovrà aver l'avvertenza e la forza di volontà di metter una certa regola ed un ordine nella sua attività, per quanto possibile. Bisogna riservare il tempo necessario al riposo fisico e mentale, alla vita

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di famiglia; ed anche alle relazioni sociali; nonché alla propria vita spirituale e religiosa.

6. Mentre lavorano la materia e la trasfigurano nobilitandola, gli operai — sia che abbiano compiti piuttosto esecutivi, sia diret­tivi — corrono il rischio di subire una perdita nella loro perso­nalità perché obbligati ad un ritmo febbrile, ad una fretta logo­rante, ad un'abituale tensione che mal permette la serena rifles­sione. Corrono il rischio di restringere sempre più l'orizzonte della loro vita spirituale; talora sono costretti ad una quasi asso­luta solitudine. Nessuna meraviglia se, presto o tardi, insorge­ranno anche le nevrosi e le malattie professionali.

7. Specialmente chi ha un ufficio di direzione dovrà colti­varsi anzitutto in quella scienza e cultura tecnica che è specifica della sua professione, cercando, ad esempio, di conoscere quelle imprese, industrie, officine ove vi sono introdotti nuovi sistemi, metodi più progrediti, un'organizzazione più perfetta. Metterà, nell'impresa, a disposizione degli altri le sue conoscenze cercando d'istruirli, prepararli, incoraggiarli, imprimendo al loro lavoro un ritmo d'entusiasmo e di fervore.

8. Mirerà a realizzare cosi il progresso tecnico della propria impresa, industria, officina, colla prudenza però di non azzardare spese pericolose che possono compromettere la vita e la stabilità economica dell'azienda.

9. D'altra parte (come ho già accennato) per chi ha una professione di carattere commerciale od industriale c'è il pericolo — come, del resto, per tante altre — di non interessarsi di nulla all'infuori di ciò che riguarda la propria professione. Il pericolo di perder ogni amore per la cultura generale e di restringere il suo cerchio d'interessi intellettuali al proprio lavoro tecnico e materiale, colla conseguenza non solo di andar incontro all'iso­lamento, ma anche di subire uno spegnimento d'ideali e d'affetti umani. Come evasione da un'attività obbligatoria rinchiusa e mo­notona, molti si rifugiano in un hobby. È un espediente per ossi­genare, più o meno profondamente, la vita ordinaria. Soprattutto però bisognerebbe vedere la funzione spirituale del lavoro umano che non è fine a se stesso. La grande pena del lavoro manuale — notava Simone Weil — consiste nel fatto che si è costretti allo sforzo e alla fatica per tante e lunghe ore, solo per esistere. Il lavoratore che non si propone alcun bene fuorché la nuda esi­stenza, scende al livello vegetativo. I lavoratori hanno bisogno

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di poesia più che di pane. Altrimenti « il lavoro è d'una mono­tonia che condurrebbe facilmente all'abbrutimento, alla dispera­zione o alla ricerca delle soddisfazioni più grossolane; poiché la mancanza di finalità che è il guaio d'ogni condizione umana, vi si mostra troppo visibilmente. L'uomo s'esaurisce nel lavoro per mangiare, mangia per aver la forza di lavorare, e dopo un anno di pena tutto è esattamente come al punto di partenza. Egli lavora in circolo. La monotonia non è sopportabile all'uomo che mediante un'illuminazione divina » (S. Weil, Pensées sans orare concernant l'amour de Dieu, Paris, Gallimard, 1962, pp. 19-20).

10. Il capo d'impresa cercherà di promuovere nell'ambiente di lavoro un clima di famiglia e di fraternità fra tutte le mae­stranze e gli operai. Il che suppone che si desideri (come è stato detto) una ragionevole partecipazione dei singoli alle responsa­bilità ed all'organizzazione dell'impresa, ma la fraternità è qual­cosa di più. È un frutto squisito dello spirito cristiano e della fede. Ed è la risultante d'un concorde sforzo di tutti, non solo di chi ha posti di comando, ma anche di chi non li ha. Nessuno deve pretender di ricever questo dono senza impegnarsi e darlo agli altri. È sempre valido ed attuale quanto scriveva Leone XIII nella « Rerum Novarum ». Chi è a capo non deve tenere gli operai « mancipiorum loco »: né come macchine, né come strumenti che hanno solo la funzione d'eseguire i comandi (qualunque siano); devono invece rispettare in loro la dignità della persona umana e cristiana: « vereri in eis... dignitatem personae, utique nobilita­taci ab eo, character christianus qui dicitur ». Per questo sincero rispetto, il capo sarà attento e sensibile a tutto quanto può esser superiore alle forze d'un dipendente o non corrispondente alla sua età o sesso, e sarà preoccupato che l'operaio non sia (a causa del lavoro) troppo sottratto alila vita familiare od impedito nel­l'esercizio e sviluppo della sua vita spirituale e religiosa (alla quale ha diritto perché non è né una bestia né una macchina). D'altra parte gli operai concorreranno a creare una convivenza familiare nell'impresa. Perciò — diceva Leone XIII — manter­ranno fedelmente gli impegni ed eseguiranno integralmente il loro lavoro. Eviteranno ciò che nuoce all'impresa od è mancanza di rispetto verso chi la dirige. Si asterranno dalla violenza e da tutte quelle forme di protesta e rivendicazione che, alla fine, nuociono all'impresa ed agli operai stessi, ma sono purtroppo suggerite da chi vuol indurre il disordine e la lotta di classe: da quelli (secondo l'espressione di Leone XIII) « hominibus flagi-

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tiosis immodicas spes et promissa ingentia artificiose iactantibus, quod fere habet poenitentiam inutilem et fortunarum ruinas consequentes » (Rerum Nov., n. 10).

14. Padroni e domestici

I. « Padroni ». So che il termine oggi non piace perché lo si considera medievale ed anche poco evangelico. Vero padrone, si dice, è solo Dio. Fra gli uomini si preferisce rilevare la frater­nità anche là dove non si può negare il rapporto di dipendenza. D'altra parte, se nel caso d'un'impresa si potrà invece di padroni, parlare d'imprenditori, quando si tratta della famiglia non saprei con quale altra parola indicare coloro che hanno in casa qualche persona estranea impegnata a sbrigare le faccende ed a prestare i servizi domestici.

Solo alcuni cenni. Ma il discorso sarebbe lungo se volesse esser abbastanza completo. Del resto, molti punti dell'esame di co­scienza interessanti gli operai ed i loro dirigenti sono validi anche per queste categorie di penitenti.

1. Dopo che verso i familiari in senso stretto — cioè verso i parenti — i padroni dovrebbero sentir carità ed affetto per i domestici perché sono i più vicini, vivono sotto lo stesso tetto, mangiano Io stesso pane, meritano riconoscenza per il servizio che prestano. Purtroppo ci sono alcuni che si mostrano molto gentili verso gli estranei e sono invece duri, aspri, e come lon­tani, con coloro che sono vicini (persino coi parenti). I padroni dovrebbero quindi proporsi di creare, anche nei riguardi dei dipendenti, un clima veramente familiare: di carità, <di paternità, di fraternità. Ed i domestici dovrebbero corrispondere con grati­tudine, devozione, affetto, dedizione, evitando tutto ciò che può turbare quest'atmosfera d'umanità cristiana. Ma ciò sarebbe im­possibile se l'una e l'altra parte non mettesse nessun amore in quello che dà, ma fosse solo preoccupata di raggiungere e far valere i propri interessi e si limitasse ad esser in regola colle di­sposizioni della legge riguardante il rapporto contrattuale fra padroni e domestici.

2. Come nei riguardi dei figli, i padroni dovrebbero preoccu­parsi della salute dei domestici non imponendo (e neppur chie­dendo) lavori troppo gravosi per una determinata persona. Una

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mamma dovrà chiedersi se sia umano l'affidare giorno e notte ad una ragazza di quindici, sedici anni, bambini che non le permet­tono neppure di dormire la notte. Anche nella migliore villeggia­tura una domestica (specie se giovane) ha bisogno delle sue ore di riposo e di sonno e di non esser messa a dormire in luogo occupato (o disturbato) fino ad ore piccole per poi, al mattino, doversi alzare presto (a differenza degli altri). Anche per queste persone di servizio, come per gli operai, vale quanto scriveva' Leone XIII: « tantum esse... tribuendum otii (che significa: ri­poso, distensione, tempo libero) quantum cum viribus compen-setur labore consumptis; quia detritas usu vires debet cessatio restituere » (Rerum Nov., p. I l i , n. 26). Qualunque sia il con­tratto e la retribuzione, ci sono condizioni alle quali non si può venir meno; condizioni che, se non sono espresse, sono tacite; e se anche non fossero rivendicate, sarebbe inumano ed immorale il non ritenerle ed il non osservarle: « neque enim honestum esset convenire secus, quia nec postulare cuiquam fas est, nec spondere neglectum officiorum, quae vel Deo vel sibimetipsi hominem obstringunt » (n. 26). Il che significa che prima e al di sopra dei doveri verso i padroni ed inerenti al lavoro ci sono i doveri di carità verso Dio e verso sé stessi.

3. Ai domestici colpiti da non lunga infermità i padroni pre­steranno le necessarie cure (a casa o all'ospedale) senza nulla de­trarre dallo stipendio. Questo, almeno per carità e pietà, se la legge non lo prescrive. Nel caso poi di chi per tanti anni avesse servito fedelmente, la riconoscenza suggerirà d'esser generosi anche nel caso di lunga malattia.

4. I padroni devono far di tutto per dare ai domestici il tempo e la possibilità di adempiere i propri doveri religiosi (il che molti praticamente non concedono o rendono troppo difficile). E, soprattutto, non li metteranno, a causa del servizio, nell'occa­sione prossima di peccato grave.

5. Se avessero al proprio servizio un minorenne, dovrebbero preoccuparsi anche della sua educazione umana, morale e religiosa perché, nei suoi riguardi si troverebbero a supplire i genitori.

6. Nel trattamento non useranno quelle odiose ristrettezze le quali danno ai dipendenti l'impressione di trovarsi tutt'altro che « in famiglia ». Ci sono padrone che chiudono a chiave ogni cibo, misurano, ad ogni pasto, il companatico e persino il pane

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ai domestici. Ciò indispone i dipendenti e finisce per non giovare, per nessun conto, neppure ai padroni.

IL I domestici, da parte loro, dovranno (come i padroni) osservare i doveri — leggi e consuetudini — che il contratto di lavoro importa. Ma, oltre allo stretto dovere, cercheranno di pre­stare il loro servizio con cura, fedeltà, amore. E procureranno d'evitare tutto ciò che può turbare la tanto desiderata atmosfera d'umanità cristiana.

1. Devono anzitutto osservare la giustizia. Non permettersi neppur la minima appropriazione indebita. Chi è infedele nel poco, un po' alla volta lo sarà nel molto. Ci son domestici che arroton­dano a proprio vantaggio il conto della spesa (e persino arrivano a falsificare conti e fatture). Ci son autisti che si accordano col meccanico per far pagare al padrone della macchina spese per guasti inesistenti. Ci son castaidi che vendono qualche pianta tagliata o generi alimentari, intascando il ricavato, o subaffittano abusivamente un pezzo di terreno.

Giustizia vuole che si abbia cura della roba dei padroni, non la si deteriori senza riguardo, non la si butti senza cercar di ripa-rafia colla scusa che è roba d'altri e roba di gente ricca. Così per i cibi: un domestico dovrebbe usare l'abituale economia che usa colla roba propria: non getterà nelle immondizie avanzi che possono o esser dati ai poveri od esser utilizzati.

Per esser perfetto nella giustizia un domestico occupi bene il suo tempo. Distribuisca il lavoro per ogni ora della giornata. Osservi anzitutto l'ordine (quanto tempo perso per cercar oggetti non collocati al loro posto). Non perda tempo con le lunghe chiacchiere inutili, non stia inattivo appena vien meno la sorve­glianza dei padroni. Il tempo è mal impiegato anche quando le faccende sono sbrigate senza diligenza e senza esattezza. Il dome­stico conscio dei doveri del suo stato (nel cui adempimento sta la santità) cerca di perfezionarsi nell'eseguire i suoi servizi (ricor­rendo ai consigli dei padroni o di persone più anziane ed esperte): cosi fa opera gradita a Dio e si merita la stima degli uomini.

2. Obbedienza. La perfezione suggerisce che se si discute su qualche disposizione od ordine dei superiori, lo si faccia in modo rispettoso ed amabile. Dette le proprie ragioni, bisogna allegra­mente conformarsi alla volontà di chi in casa sua ha diritto di comandare (purché non vada contro la legge di Dio). Certo l'ob­bedienza pronta e sorridente ad estranei, il saper indovinare i loro

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desideri, non è facile e frequente. Domanda solida formazione e virtù. Difatti spesso si obbedisce perché costretti, ma con noia, malumore e mormorazione (dimostrando anche non poca superbia e presunzione).

Noto che specialmente i domestici minorenni devono obbe­dire ai loro padroni quando, supplendo i genitori, compiono retta­mente il loro ufficio d'educatori.

3. Pazienza. Una delle virtù che maggiormente è messa alla prova per chi serve e deve stare sempre sottomesso. Pazienza nel sopportare caratteri difficili, persone incontentabili. Pazienza di fronte ad ordini talvolta contraddittori. Pazienza coi bambini spesso capricciosi ed esigenti: bisogna correggerli, ma senza col­lera e non con maniere violente. Pazienza cogli altri domestici della casa, forse invidiosi ed intenti a metter in cattiva luce qualche collega presso i padroni.

Insomma, per aver pazienza occorre amore alle persone ed alla famiglia con cui si vive.

4. Amore. È il segreto e l'ideale per un servizio esemplare. Considerare come sua la casa dei padroni. Custodirne il buon nome. Voler bene ai bambini. Non sparlare dei padroni e, se gli altri domestici lo fanno, cercar di metter pace. Ma per avere questa carità bisogna compatire, per compatire bisogna pensare che tutti — padroni e domestici — hanno i loro difetti, e quindi hanno bisogno d'indulgenza.

La pratica della carità, in una famiglia, è continuamente ri­chiesta ed ha un campo vastissimo. Chi, ad esempio, in un momento di malumore o di rancore (sia pur causato da qualche ragione obiettiva) riferisce fuori casa e dà in pascolo al pubblico fatti della famiglia, manca, quanto meno, alla delicatezza della carità. Carità verso compagni e compagne di lavoro: scusare i difetti, non riportare chiacchiere, pettegolezzi, mancanze ai pa­droni. Non esser invidiosi, non pretendere d'esser sempre i primi nella considerazione e nella stima dei padroni. Se qualche collega sbaglia, consigliarlo con bontà e, se incapace o malato, aiutarlo, invece di rilevarne le deficienze.

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15. Insegnanti ed alunni

I. Insegnanti. È stato detto che il problema della scuola è un problema religioso, quasi di sacerdozio. Ed al sacerdozio non si va per mire di profitto economico ma per un ideale di dedi­zione al bene degli altri. Insegnare — cioè educare giovani intelli­genze — è una missione la quale suppone una vocazione ed im­porta una certa consacrazione: l'impegno e lo sforzo incessante di cercare e trovare tutti i mezzi per comprendere i giovani e per aiutarli. Ma per poter curare la formazione degli altri, l'insegnante deve, prima, provvedere alla propria formazione. Formazione in­tegrale: umana, intellettuale, morale, religiosa. È stato lanciato lo slogan: « sii uomo e sarai maestro ». Ed uno scrittore francese affermò: non si insegna ciò che si sa e si vuole ma ciò che si è. Il che significa che non basta la cultura né la volontà d'insegnare: bisogna avvalorare coll'esempio della vita l'azione educativa. Si richiede una personalità completa. E siccome, propriamente, la personalità non è mai completa, occorre uno sforzo continuo di perfezionamento e di superamento: non si può mai ritenersi piena­mente soddisfatti ed arrivati. Però, quando l'insegnante avrà fatto del suo meglio perché il proprio lavoro porti frutto, dovrà aver fede: né credere troppo alle apparenze e ritenersi ormai sicuro vin­citore appena constata qualche felice corrispondenza, né scorag­giarsi se non appaiono sensibili risultati. Non sempre chi semina raccoglie. L'anima umana è un mistero. E chi fa germogliare il seme gettato negli spiriti, è Dio.

Occorre una preparazione remota ed una preparazione pros­sima, da parte dell'insegnante, alla scuola.

1. Preparazione remota. Per non fossilizzarsi, bisogna studiare continuamente, con lena, con gioia, con passione. Attingere da letture specifiche le esperienze didattiche d'altri. Riflettere e me­ditare sul modo più efficace per far penetrare nell'anima e nella mente degli alunni la parola che deve formarli intellettualmente e moralmente. Occorre, dunque, rendere il proprio insegnamento sempre più profondo e, nel tempo stesso, sempre più adeguato agli alunni. Renderlo vivo ed aderente ai bisogni spirituali, sociali, nazionali del proprio tempo.

2. Preparazione prossima. Gli studenti attendono con ansia e curiosità di far la conoscenza con l'insegnante nuovo e di sco­prirne qualità e difetti. Perciò egli terrà presente che hanno molta

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importanza le prime impressioni ed i primi giudizi degli alunni sul modo com'egli tiene lezione, sulla sua capacità, o meno, di mantener desta ed attenta la scolaresca, d'ottenere la disciplina. Pel fatto stesso di non esser ancora conosciuto, l'insegnante incute alla classe un certo timore ed un istintivo rispetto verso di lui. Avrà l'arte di saper conservare e sfruttare abilmente questo stato d'animo. Conserverà un atteggiamento serio e dignitoso, mo­strando però benevolenza verso tutti (cfr. AA.VV., Vita ed espe­rienza didattica, Roma, 1939, Studium, pp. 63-64).

Se gli alunni sono tenuti a star attenti alle lezioni ed a fare i compiti con amore e diligenza, il professore ha il dovere di preparare le sue lezioni perché riescano attraenti e feconde e d'assegnare compiti proporzionati alle condizioni e capacità degli alunni. Non può fidarsi della sua cultura e parlare a braccio, senza una linea ed un ordine, improvvisando esemplificazioni e diva­gando secondo l'estro del momento. Non serve ed è, anzi, contro­producente lo sfiatarsi con un fiume di parole: si stanca chi parla e si stanca, e finisce per non seguire il discorso, chi ascolta. Bisogna apprender l'arte della parola calma, misurata, forte e martellante quand'è necessario.

Non si può esser semplici ripetitori d'un testo: occorre una personale interpretazione da parte dell'insegnante se si vuol che la lezione sia gustata anche da coloro che hanno poca attitudine per quella determinata materia. La lezione migliore non è neppure la conferenza preparatissima perché i giovani difficilmente la potrebbero seguire: bisogna conversare guardando negli occhi tutti gli alunni per vedere se afferrano, per intraprendere, magari, un breve dialogo con qualcuno. Bisogna preparare la forma d'espo­sizione adatta all'uditorio, ma, poi, nel corso della lezione, occorre sensibilità per intuire ciò che va sottolineato, ripetuto, distinto, ripreso, tralasciato (almeno per il momento). Tutti gli alunni (pel fatto stesso che sono stati ammessi ad una determinata classe) devono aver la capacità di seguire una lezione che vi si tiene. Se alcuni non hanno capito, bisogna ripetere sott'altra forma gli stessi concetti. La ripetizione, poi, fatta dagli alunni darà modo di controllare i frutti dell'insegnamento e, nel tempo stesso, di completare e chiarire quanto già è stato esposto. L'alunno, nella esposizione di quanto ha appreso, si fermerà forse ad un parti­colare perché è ciò che meglio ricorda. L'insegnante non lo stron­chi e non si stizzisca pretendendo di trovare o imporre la propria

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mentalità: cerchi, invece, dolcemente e gradatamente, di condurre il giovane dai particolari alla visione d'insieme, dall'accessorio al principale. Insomma, bisogna, per quanto possibile, procurare che l'apprendimento avvenga in classe. Non si può rimandare allo studio personale degli alunni quello che in classe non hanno compreso. E nella mente di chi non è riuscito a camminare col professore possono formarsi delle lacune incolmabili che provo­cano uno stato spirituale di scoraggiamento. L'insegnante promuo­verà fra gli studenti anche le forme di collaborazione e d'aiuto reciproco: talvolta un alunno riesce, meglio d'un insegnante estra­neo, a metter in carreggiata un compagno disorientato.

3. Il primo obbiettivo dell'insegnamento è la formazione in­tellettuale dello studente: bisogna ricorrere a tutti i mezzi idonei per far amare la verità e stimolare il desiderio di conoscerla. Ma, insieme alla formazione intellettuale, bisogna dare al giovane l'educazione morale: suscitare la buona volontà contro ogni indi­sciplina e pigrizia. Mezzo potentissimo: l'entusiasmo. E l'inse­gnante che è appassionato cultore e docente della sua materia accende irresistibile negli allievi l'entusiasmo, qualunque sia la materia. Non basta coltivare l'intelligenza ed infondere chiare e profonde persuasioni; non basta educare la volontà e predicare il senso del dovere. Bisogna far leva sul sentimento. Occorre che il giovane s'appassioni per i problemi e senta il bisogno di cercarne la soluzione. E per appassionarsi deve percepire l'interesse vitale e le conseguenze pratiche delle questioni. Se non ama la filosofia è perché non ha ancora sentito intimamente e personalmente che il problema della vita è il problema decisivo il quale dev'esser risolto indeclinabilmente perché lo spirito è inquieto e vuole la luce, va mendicando una parola di certezza sul suo supremo de­stino. Il giovane non s'entusiasma per schemi e sistemi che non hanno relazione colla sua vita. Nell'insegnante non cerca solo l'erudito ma l'uomo del suo tempo. Più che sistemi vuole ideali ed esempi affascinanti da imitare (anche se, poi, di fatto, non potrà che lontanamente ricopiarli). Gli ideali che sente di più sono quelli della libertà, dell'amore, della fraternità, dell'ugua­glianza. Il giovane, in genere, tende ad essere un rivoluzionario. Ed è bene coltivare in lui il rivoluzionario: ma quello sano e santo. Bisogna fargli capire che la più grande e vera rivoluzione è il cristianesimo: rivoluzione del diritto contro la violenza, della povertà contro la ricchezza, della debolezza contro la potenza e

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la prepotenza, della verità contro la menzogna la quale riempie libri e giornali, vola sulle onde dell'etere e penetra dovunque (AA.W., Responsabilità della cattedra, Roma, 1944, Studium, pp. 86-87). Il sentimento, da solo, è cieco. È l'intelligenza che deve guidarlo e tutto illuminare. Possono sopraggiungere crisi di dubbio e di scetticismo (specialmente in materia di fede) che si supereranno solo da chi ha maturato solide convinzioni. Bisogna che l'insegnante mostri d'avere, ed infonda negli allievi, il culto della verità. Nulla si deve affrettatamente affermare (per vanità o leggerezza o faziosità impulsiva) se non si è certi che è vero. Se necessario, si rettificherà umilmente quanto detto. Ed anche nel far appello al sentimento bisogna esser sobri e discreti. Son poche le cose che lo meritano sul serio. Se si sciupa in ciò che non lo merita ci si scredita o si rischia di far prediche noiose (AA.W., Vita ed esperienza didattica, pp. 9-11).

4. La disciplina. Bisogna usare il metodo di prevenire ed im­pedire il disordine prima che sia necessario intervenire per repri­merlo. Nella scuola deve regnare il principio dell'amore, non del timore. Raramente dovrebb'esser necessario il richiamo, l'ammo­nizione (e sempre fatta con dignità e compostezza). Le misure dure e forti non sono da escludersi assolutamente ma da riservarsi ai casi veramente eccezionali. Talora non è necessario il rimpro­vero esplicito. Basta far capire d'aver udito e visto, è sufficiente uno sguardo od un attimo di silenzio. Né bisogna esagerare nel pretendere una serietà ed un silenzio superiori alla capacità degli alunni. I giovani han bisogno d'allegria. Non conviene reagire con un duro e pungente rimprovero ad ogni spontanea ilarità: meglio, qualche volta, prendervi parte, con discrezione.

5. Soprattutto l'esempio. Anche in quei giorni nei quali ci si sente mal disposti — fisicamente o spiritualmente — bisogne­rebbe, quando si entra in scuola, dimenticare sé stessi. Ed evitare i contrastanti cambiamenti d'umore: il passare dall'allegria smo­data (di cui molti approfitteranno per concedersi una libertà sfrenata) alla repressione severa mediante una sfuriata scompo­sta e, forse, ingiusta. L'insegnante che si comporta in questo modo, può, in fondo, sbagliare per ingenua bontà, ma disorienta, quanto meno, la scolaresca. E, se vuol esser rispettato, dimostri agli stessi alunni rispetto, riguardo, stima: li tratti con una certa signorilità evitando ogni parola umiliante. Tenga conto che i di­scepoli sono già in una condizione di subordinazione e di debo-

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lezza: vanno quindi rispettati e (fino ad un certo punto) compa­titi. I giovani sono esigenti e, talora, suscettibili: una parola inopportuna che offenda qualcuno, può alienare per sempre il suo animo (AA.VV., Responsab. della cattedra, p. 65).

6. Giustizia, imparzialità, misericordia. Al di sopra d'ogni simpatia od antipatia, d'ogni speranza di tornaconto, di favori, d'appoggi, contro ogni sentimento di rancore, d'ira, di vendetta, bisogna trattare tutti con un giudizio obbiettivo e spassionato. E bisogna dare senza attendere gratitudine, dare senza ostentazione e senza amari lamenti, senz'atteggiarsi a vittime od a persone incomprese, dare allegramente e disinteressatamente, come se si trattasse della cosa più naturale.

Giustizia e misericordia: si integrano, non si distruggono a vicenda. La misericordia è espressione d'un giudizio più maturo che tien conto non solo del rigore della legge ma anche dell'uma­na debolezza.

In modo particolare dovrà l'insegnante interrogarsi sul modo come esamina i candidati. Gli esami sono una tribolazione, ma conservano la loro importanza. Segnano le tappe ed il termine della carriera scolastica d'uno studente. Possono esser decisivi per tutta la sua vita avvenire. Bisogna distinguer bene il colloquio d'esame dalle ordinarie interrogazioni che si tengono lungo l'anno. Queste possono esser fatte con una certa severità e minuziosità. Hanno lo scopo d'accertare se gli alunni studiano, se la lezione è riuscita efficace, ed offrono l'occasione per chiarire qualche punto che può esser rimasto oscuro. Nell'esame bisogna tener presente che l'alunno non ricorda molte nozioni che pur ha appreso; che può avere qualche momentanea amnesia; che, in genere, si trova in uno stato d'eccitazione anormale. Perciò bisogna anzitutto che l'esaminatore lo accolga con un aspetto benevolo ed incoraggiante e con un tratto cortese. Lo incoraggi, special­mente se lo vede ansioso e timoroso. Non mostri di dar troppa importanza — e, tanto meno, d'indignarsi — se, ad una prima domanda, per quanto elementare, l'alunno appare incerto. La situazione potrebbe precipitare, l'esaminando bloccarsi e disorien­tarsi completamente. L'insegnante, più che scoprire quello che il candidato non sa, procuri di trarre alla luce quello che sa, con abilità e metodo socratico. Più che giudice, si senta artista degli spiriti. Certo non si può pretendere che la buona volontà del­l'esaminatore supplisca al vuoto dell'esaminando.

Infine l'esame orale dovrebbe restare sempre uri colloquio

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vivo. Perciò l'esaminatore cercherà, per quanto possibile, di non lasciarsi mai prendere dalla stanchezza fisica e morale e di non ridursi a ripetere meccanicamente le stesse domande (cfr. AA.W., Vita ed esperienza didattica, pp. 69-74).

7. Famiglia e scuola devono formare l'uomo completo: quindi è non solo utile, ma necessaria una mutua informazione ed una espressa collaborazione. Ma molti genitori non si curano d'aver rapporti con i singoli professori. E ci son professori che rifuggono dal fastidio di trattare coi genitori degli alunni: dovrebbero inve­ce invitarli. E poi trattarli tutti colla stessa stima, rispetto, defe­renza, senza far distinzione fra persone d'alto rango (alle quali si può chiedere qualche favore) ed umile gente del popolo. Questi incontri non saranno tempo perduto per l'insegnante che, rag­guagliato a dovere, dovrà forse modificare qualche suo giudizio. Alle volte risulterà che lo scarso rendimento del ragazzo non dipende solo da mancanza di buona volontà ma da altre cause: talora emergerà la necessità di curare la salute fisica. Gli alunni, alle volte, più che coi genitori, si aprono con qualche insegnante che ispira loro confidenza e fiducia. Questi avrà cosi modo di dare ai genitori qualche discreto suggerimento sulle attitudini e la vocazione del loro figliuolo. In qualche caso in cui sono in ritardo o deficienti le capacità intellettuali del ragazzo, l'insegnante dovrà assumersi l'ingrato compito di avvisare con delicatezza i genitori che è opportuno pel soggetto ripetere una classe, oppure dire chiaramente che egli non è fatto per proseguire gli studi ma potrà riuscire molto bene in un altro lavoro professionale (cf. AA.W., Responsab. della cattedra, pp. 45-51).

8. Una questione particolare o particolarmente delicata che interessa anche la scuola. « All'insegnante s'impone la massima cautela nell'accennare ad argomenti sessuali: egli deve parlare con semplicità e franchezza di ogni fatto della vita, proporzionata­mente all'età e alla preparazione morale degli alunni, ma deve evitare qualsiasi istruzione sessuale specialmente di fronte alla collettività degli alunni. Anche di fronte al singolo alunno l'inse­gnante soddisfacendo con sobrietà alle sue domande, farà bene a indirizzarlo a chi per natura è più adatto a tale educazione: ai genitori o al confessore » (F. Montanari, in: AA.W., Responsa­bilità della cattedra, pp. 8-9). Perché la Chiesa non potrà approva­re un'educazione sessuale — fisico-anatòmica — fatta pubblica­mente; e tanto meno che ai fanciulli delle scuole elementari si illustri con disegni sulla lavagna gli organi sessuali ed il rapporto

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sessuale (non son casi ipotetici). L'istruzione sessuale dev'esser data al singolo che ne ha bisogno e secondo il suo bisogno. Ed, anzitutto e soprattutto deve avere come finalità l'educazione alla castità (cf. Pio XI, De Christiana iuventae educatione, 31.XII.1929, AAS, 22, 1930, 71; S. Off. Decret. de «educatione sexuali », 21.111.1931, AAS, 23, 1931, 118-119).

II. Gli alunni. Dovrebbero vedere negli insegnanti laboriosi, retti, buoni (anche se giustamente severi) i rappresentanti dei geni­tori e di Dio, e, come tali, riverirli ed obbedirli.

1. Molti giovani sono cresciuti colla mentalità secondo la quale, nell'esame di coscienza, si debba solo interrogarsi sulle ora­zioni quotidiane, la Messa festiva, gli atti impuri: una religione ed una morale che non investono tutta la vita. Ma — come, per l'adulto, gli impegni della professione — cosi pel ragazzo uno dei principali doveri è lo studio, in scuola e fuori di scuola. Deve prenderne coscienza e non considerarsi del tutto libero ed indipen­dente di fronte ai suoi educatori. Non sia solo l'interesse che tiene in cattedra il maestro e. non sia solo la forza d'una disciplina esterna che tiene fermo al banco lo scolaro. Pensino, certi stu­denti, che dovranno pentirsi — ma troppo tardi — d'aver passato tante ore di scuola in ozio od in letture estranee senza star attenti alle lezioni dei professori (o di taluni professori). È pacifico che la scuola pubblica rende poco, sia perché le classi sono troppo nume­rose, sia perché gli alunni non sanno approfittarne. È stato osser­vato che dopo otto anni di latino un giovane esce dal liceo senza saper la lingua, cioè senza esser in grado di leggerla e di capirla. Mentre con tre ore settimanali di lezioni private in una lingua moderna, dopo un anno si arrangia già a parlarla. Risultato che non si ottiene dopo quattro anni di scuola pubblica. Ciò significa che gran numero delle ore di scuola va perduto. Di dieci ore di lezione, il singolo alunno ne assimilerà, al massimo, due (cfr. AA.VV., Vita ed esperienza didattica, p. 51). Vuol dire che nelle altre ore non s'impegna: e cosi, o si distrae senza pensarci o si distrae volendo distrarsi per non far niente o per far altre letture; pensa che, quando il professore spiega, non occorre appli­carsi a seguirlo perché c'è il testo, e quando un compagno vien interrogato, oiò interessa lui solo. Insomma, tante ore passate in scuola, ma senza lavorare.

2. Oggi, nell'educazione, si preferisce il metodo basato piut­tosto sulla comprensione, l'affetto, la persuasione, il colloquio franco ed aperto dei genitori con i figli e dei maestri con gli

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alunni. È una reazione a metodi del passato caratteristicamente autoritari. E, di fatto, se molti giovani respingono i loro educa­tori, è perché sono stati, in precedenza, o respinti (cioè trascu­rati) o maltrattati o male educati. Però non dovrebbero varcar i limiti, compromettere il principio d'autorità, spingersi fino alle mancanze di riguardo. Non è frequente il caso d'uno studente che, a tu per tu con un professore, gli manchi di rispetto e l'offenda. Capita, invece, spesso che, uniti in massa, gli studenti — ragazzi, adolescenti, giovani — diventino addirittura crudeli verso un loro insegnante, e verso lo stesso capo dell'istituto, entrando in vio­lente discussioni fino all'apostrofe ed all'insulto. Non sarà pro­prio per cattivo animo, mancherà la riflessione e la piena deli­berazione. Ma l'esame di coscienza deve servire appunto a pren­der coscienza che certi comportamenti sono sconvenienti, ingiusti, ridicoli. Gli studenti devono pure riflettere su certi giudizi spietati che frequentemente (anche quelli che passano per i migliori sotto ogni punto di vista) si permettono sui difetti e sulle deficienze di qualche insegnante; giudizi espressi fra di loro od a terze persone; giudizi formulati con maggior o minor serietà, si sa bene, ma che, pronunciati con assoluta decisione e sicurezza, testimonie-rebbero piuttosto l'ignoranza (oltre la presunzione) di chi li proferisce.

3. Bisogna riconoscere che oggi la scuola attraversa un mo­mento difficile e non è la pacifica palestra dello spirito. Molti studenti intelligenti e volenterosi, per esempio fra gli universitari, sono sconcertati. Vedono i compagni — di sinistra o di destra — che ricorrono alla violenza per far valere contestazioini e rivendi­cazioni. Chi vorrebbe lavorare e non perder del tempo prezioso guarda dalla finestra quel che succede. Avrebbe bisogno di so­stegno, di una direttiva chiara, d'un consiglio prudente.

16. Infermieri ed infermiere

Una professione che è in via d'evoluzione e di sempre maggior qualificazione. Una professione delicata che è degna della massi­ma stima, impone impegni e responsabilità non comuni, richiede generosità a tutta prova: la vita del malato « dipende — spesso totalmente — dal sapere, dalla abilità, dalla delicatezza e dalla pazienza altrui, cioè del medico e dell'infermiere, anzi, sotto un certo rispetto, dell'infermiere anche più che del medico ». Cosf

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Pio XII agli Infermieri ed alle Infermiere degli Ospedali e Cliniche di Roma, il 21.V.1952 (cfr. Pio XII, Discorsi ai medici, Roma, 1959, p. 188). Gli infermieri costituiscono il personale paramedico. Necessario negli ospedali; necessario per l'assistenza domiciliare; necessario come aiuto a medici e clinici nei loro esperimenti e ricer­che per il progresso della scienza. Ci sono infermieri « generici » e ci sono infermieri « professionali ». Specialmente questi ultimi sono ricercati per i titoli di studio che devono avere e quindi per le garanzie che offrono nelle loro prestazioni assistenziali. Ma si lamenta che, ad esempio, in Italia gli infermieri professionali scarseggiano (e tale carenza è una delle cause della crisi degli ospedali): ne sarebbero necessari almeno 70.000, mentre non ce n'è neppure la metà (a parte gli infermieri « generici »). In Italia, una legge, entrata in vigore nel 1971, ha abolito per l'infermiere « professionale » l'obbligo dell'internato. Ha esteso tale profes­sione anche agli uomini. Ha richiesto la frequenza scolastica di almeno due anni dopo la scuola media d'obbligo (titolo che basta per l'infermiere « generico »). Ora, succede che molti non si sen­tono di andar oltre la scuola media; e quelli che vanno oltre non si fermano, mirano più in alto (col rischio di non trovare poi un posto corrispondente al diploma od alla laurea conseguita). Mentre sarebbe necessario che molti apprezzassero di più quest'attività che è, fra l'altro, ben più remunerativa che pel passato e lo sarà sempre di più.

1. Pertanto ci sono fra i giovani e le giovani alcuni che an­drebbero incoraggiati perché abbraccino questa carriera. Però nessuno e nessuna dovrebbe assumersi questa professione mosso soltanto dal fatto che non ne ha trovato una più redditizia. Si tratta d'una specie di missione. Richiede particolari doti di cuore: sensibilità di fronte alla sofferenza, quella comprensione che viene da una sufficiente conoscenza della psicologia umana. Solo a chi ne è fornito è possibile quella delicatezza nei modi, quello spirito di pronta dedizione, quella pazienza, quell'amabilità che dovreb­bero esser le qualità caratteristiche d'ogni persona che si è data al servizio dei malati. E se è una professione che richiede doti spirituali singolari, suppone una certa vocazione: non tutti vi sono idonei; e non basta essere tecnicamente abili, ricchi d'energie intellettuali e fisiche. Una delle vocazioni più belle, ma non una delle più facili e delle più ordinarie. La scelta di questa profes­sione, dev'esser quindi ponderata e maturata: solo chi ha le doti

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richieste vi si sentirà al suo posto (cfr. L. Génin, Per te, sorella infermiera, e per la tua formazione morale, Torino, 1936, p. 21). Di queste doti la natura ha arricchito più la donna che l'uomo (perciò le infermiere sono più numerose degli infermieri). Pio XII, nel citato discorso, dopo aver detto che questa professione « sup­pone qualità non ordinarie », accennava alle seguenti: « una solida formazione specifica, vale a dire cognizioni tecniche seria­mente acquistate e costantemente tenute a giorno, una agilità d'intelligenza capace di acquisire incessantemente nuove reazioni, di applicare nuovi metodi, di utilizzare nuovi strumenti e medi­cinali »; « un temperamento calmo, ordinato, attento, coscien­zioso. L'infermiere deve essere padrone di se stesso; a un gesto brusco, ecco un nuovo dolore per il malato; il medico non potreb­be più essere tranquillo; il malato avrebbe paura di lui. Egli deve mantenere la sua calma dinanzi ai lamenti o alle domande irra­gionevoli del malato, di fronte a crisi impreviste »; diligenza: « deve, prevedere e preparare a tempo tutto il necessario, talvolta cosi complicato, per la cura dell'infermo; non deve nulla dimen­ticare, deve osservare tutte le precauzioni dell'igiene e della prudenza. Deve essere fedele all'orario prescritto, esatto nelle dosi da somministrare; osservatore vigile, per segnalare al medico le reazioni del malato e i sintomi che la sua esperienza gli permette di rilevare; attento agli ordini ricevuti e pronto a eseguirli »; « un tatto discreto e modesto, sensibile e fino, che sappia intuire le sofferenze e i desideri del malato, ciò che si deve e ciò che non si deve dire. Pieno di tatto anche verso il medico, di cui deve rispettare l'autorità; verso i suoi colleghi, infermieri e infermiere, particolarmente verso i più giovani, che non deve mai mettere nell'imbarazzo o nella confusione, ma essere al contrario sempre pronto ad aiutare »; « una dedizione completa al malato, sia ricco o sia povero, sia simpatico o sia sgradevole. L'infermiere non è come un impiegato di un ufficio, che può andarsene senza inquie­tudini all'ora fissata. Vi sono casi urgenti, giornate sovraccariche di lavoro, durante le quali non è possibile interruzione o riposo »; pazienza: « alcuni sono capaci di un grande sforzo straordinario di tempo in tempo, ma si stancano e si irritano dinanzi ai piccoli fastidi che quotidianamente si ripetono »; riservatezza: l'infer­miere « deve strettamente osservare il segreto professionale. Mai non possono essere da lui rivelate le cose dette dal malato in confidenza o nel delirio, nulla che possa nuocere alla sua reputa­zione o arrecar danno alla sua famiglia. Ma vi sono anche virtù

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più elevate...: il rispetto verso il malato, la veracità e la fermezza morale. Rispetto verso colui, che talvolta viene a perdere molto di ciò che rende l'uomo rispettabile, il coraggio, la serenità, la lucidità... Veracità nei riguardi dei medici, dei malati e delle loro famiglie, i quali debbono poter fidarsi della parola dell'infermiere. Ne va talvolta non solo della salute del corpo, ma anche dell'ani­ma » se è ritardata con reticenze la preparazione dell'infermo al passaggio per l'eternità... « Infine fermezza morale, specialmente quando si tratta della legge divina » (Pio XII, Discorsi ai medici, pp. 189-190).

Alle suore ospedaliere, in particolare, in occasione del loro I Convegno Nazionale, Pio XII, il 25.IV.1957, raccomandava di aver (oltre alle indispensabili nozioni tecniche relative ai nuovi metodi di cura, strumenti, medicinali) « tenerezza materna davan­ti alle mille sofferenze, che... chiedono conforto ed aiuto; ...dolce fermezza di fronte a intemperanze o indiscrete richieste dei ma­lati; ...un ritmo dinamico di vita, e, al tempo stesso, una costante calma che... fa dominare gli avvenimenti. Vi è bisogno — diceva — di una prontezza che non vi trovi mai impreparate, anche nei casi più imprevisti e più improvvisi; vi occorre pazienza serena, gioiosa, un saper prevedere e provvedere, che nulla dimentica e nulla trascura » (Pio XII, Discorsi ai medici, p. 585).

Specialmente l'assistenza ai malati nervosi e mentali esige un'opera generosa e delicatissima ma altrettanto preziosissima. In questo campo la scienza terapeutica ha compiuto progressi sor­prendenti. Per questa ragione e per un sempre maggior rispetto per la persona umana si tende sempre più a creare per l'amma­lato un ambiente in cui goda di tutti i suoi diritti e (nei limiti delle possibilità e della sicurezza) anche della sua libertà. Interessa ora, oltre alla cura specificamente medica, l'assistenza spirituale di cui questi malati hanno, più di altri, bisogno. Non sono soltanto « i farmaci esterni che li guariscono » ma anche « l'accostamento di spiriti sani ed armoniosi, che valgano a restituire ad essi una vi­sione serena ed amichevole del mondo e della vita » (Pio XII alle Infermiere e Assistenti Sanitarie il 1.X.1953, in: Pio XII, Discorsi ai medici, p. 282). All'infermiere è chiesto dì « creare intorno al malato un'aura serena e di amichevole fiducia. Ma chi può ottenere ciò, se non chi vive già per sé in serenità e nella armonia delle proprie facoltà?... Solo l'esercizio esimio delle virtù cristiane produce l'interiore serenità e quel temperato ottimismo, che spontaneamente si riverberano negli altri e sono il miglior

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aiuto che possa esser offerto ad un malato di mente. Essi gli fanno dimenticare facilmente le infauste circostanze di vita, che hanno concorso a determinare l'infermità... » {l.c. pp. 283-284).

2. Come in tutte le vocazioni, la scelta di questa professione (anche se prudente e munita di garanzie) non è che l'inizio d'un lavorio e d'un esercizio di virtù che non terminerà mai. E solo un'autentica religiosità interiore ed il motivo dell'amore di Dio assicurerà che non s'intiepidisca il primitivo fervore di spontaneo umanitarismo. Per l'abitudine a trattare coi malati, l'infermiere può perder la delicatezza e la prontezza della sua sensibilità spi­rituale; la pazienza, messa continuamente alla prova, può, a lungo andare, venir meno; al missionario succederà forse il mestierante che nel prossimo sofferente vede piuttosto delle cose che delle persone (nelle quali è sempre presente Gesù).

L'infermiera verrà inoltre continuamente a contatto con un mondo triviale nei modi e nelle parole. Col suo contegno superiore dovrà esser di edificazione e di ammonimento. Con le persone antipatiche ci sarà la naturale tendenza alla trascuratezza ed alla sgarbatezza; con quelle simpatiche c'è il pericolo della leggerezza e della troppa familiarità. Occorrerà un continuo sforzo per praticare l'imparzialità, la quale può esser compromessa da ragioni di affettività e di venalità (sia pur leggera). Ci sono poi i giorni brutti, d'inesplicabile malumore (spesso dipende da indisposizio­ne fisica) nei quali è richiesto uno sforzo di volontà ed un eserci­zio di virtù ancor maggiori. « È certo — diceva Pio XII nel discor­so agli Infermieri ed alle Infermiere, il 21.V.1952 — che voi non sarete in grado di rimanere pari al vostro ufficio e ai vostri obblighi, se non potrete disporre di energie morali derivanti e nutrite da una fede viva e profonda. Se voi concepite e praticate il vostro lavoro unicamente come un impiego, onorevole si, ma puramente umano, senza attingere alle fonti specialmente eucari­stiche la fortezza cristiana, voi non varrete, a lungo andare, a mantenervi fedeli ai vostri doveri. Voi avete infatti nella vostra vita tanti sacrifici da compiere, tanti pericoli da superare, che vi sarebbe impossibile, senza l'aiuto soprannaturale, di trionfare costantemente della debolezza umana » (Pio XII, Discorsi ai medi­ci, p. 190). Ed ai Sanitari ed al personale degli Ospedali di Napoli l'I 1.XI.55, ricordava: « Senza dubbio la partecipazione alle altrui pene, la commiserazione che si mostra all'afflitto, esigono un grande oblio di sé; obbligano a desistere da ogni indifferenza e da una certa insensibilità, che affievolisce a poco a poco la viva-

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cita delle reazioni dinanzi a uno spettacolo doloroso, ma sempre simile » (Pio XII, Discorsi ai medici, p. 415).

3. Nonostante la carica interiore continuamente rinnovata per aver sempre la prontezza, la premura e la gentilezza, per vedere in tutti l'immagine del Cristo, l'infermiere deve pure prepararsi a non trovare sempre nel malato riconoscenza, bensì, alle volte, lagnanze e parole ingiuste; mancanza non solo di pazienza nel sop­portare il suo male, ma anche di bontà e di dolcezza verso chi lo assiste. L'infermiere penserà che chi soffre ha un certo diritto di lamentarsi e di essere scontento; chi sta bene è invitato dalla carità a sopportarlo, a sostenerlo, ad incoraggiarlo e confortarlo nei suoi dolori, a delicatamente elevarlo.

4. La disposizione costante al compatimento degli altri sup­pone una grande forza d'animo e di volontà. L'infermiere deve sapere che per rinforzare tale sua volontà, mezzo efficacissimo è non solo la viva fede personale ma anche una ragionevole cura della propria salute. Quando l'organismo è debilitato difficilmente segue i comanda dello spirito. Noi tutti ammiriamo gli uomini dalla volontà energica; ma, se andiamo a fondo, troviamo che, in genere, hanno a loro servizio un corpo sano e vigoroso. Questo in via ordinaria e senza voler tutto ridurre al piano naturale, senza negare i miracoli della grazia che opera meraviglie in corpi fragili: anche allora però — tolti i casi eccezionali — almeno il sistema nervoso è fornito d'una sanità e d'una energia normale.

5. Anche gli infermieri sono tenuti al « segreto professionale », la cui rivelazione (fatta senza giusta causa, o per proprio od altrui profitto, con danno di altri) costituisce, secondo il codice penale italiano (a. 622), un delitto punibile. E per un infermiere il segre­to professionale ha per oggetto la causa e la natura della malattia e dell'operazione, le cure fatte, le cause della morte. È al medico che spetta la denuncia delle malattie infettive. Ad ognuno che gli volesse strappare qualche notizia indiscreta, l'infermiere risponde­rà evasivamente: « sono infermiere e non posso parlare ». Il se­greto dev'esser osservato con tutti. Anche col malato. Ci sono poi confidenze, o notizie comunque riservate, che l'infermiere può aver ricevuto dal malato, dai suoi familiari o dal medico, e sulle quali deve saper osservare il segreto. Specialmente per chi è per natura incline alla curiosità od alla loquacità, ci sarà, nel contatto coi numerosi malati, una continua occasione di mortificarsi. Biso­gnerà trovare il giusto mezzo: né un poco umano silenzio né un eccessivo discorrere.

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6. Dote necessaria per l'infermiere: organizzare il proprio lavoro ed osservare l'ordine. Essere attento e premuroso ma non sofistico ed eccessivamente meticoloso; fedele ma non inquieto.

7. Perché tutto funzioni a dovere occorre obbedienza, disci­plina, osservanza del regolamento. È naturale che per eseguire con più entusiasmo gli ordini, l'infermiere abbia interesse a capir­ne (per quanto è possibile) la motivazione. Tentazioni frequenti, specie negli infermieri e nelle infemiere più navigati ed abili: la presunzione, la saccenteria, lo spirito critico. Di fronte agli errori (tutti possono sbagliare) dei superiori — in particolare dei medi­ci — occorre delicatezza: far finta di non aver visto, e, se neces­sario, aiutare la memoria del superiore, ma con delicatezza cosic­ché possibilmente non s'accorga del sommesso suggerimento. Per un infermiere capace e zelante sarà facile la tentazione di man­care (nei contatti coi medici o i colleghi) alla prudenza e discre­zione. « In genere — diceva Pio XII nel suo Radiomessaggio alla Conferenza mondiale cattolica della Sanità il 27 .VII .58 — è dif­ficile accogliere il punto di vista degli altri...; neppure è agevole ammettere che una persona più giovane, nonostante la sua minore esperienza, possa avere idee più feconde. Inoltre le abitudini di lavoro e le consuetudini rendono penoso ogni tentativo di cam­biamento, ogni revisione di metodo... Per esempio, un'infermiera sarà tentata a fare difficoltà, quando vede applicare in un ospedale una cura diversa da quella che ha visto praticare nel corso dei suoi studi da un tale grande specialista... ». In questa situazione cercherà di fare quanto sta in lei per ottenere che si usino i metodi ed i mezzi più idonei alla terapia ed all'igiene, ma evitando « suscettibilità, impazienza, desiderio di prevalere, intolleranza della disciplina » (Pio XII, Discorsi ai medici, p. 668).

8. « Fermezza morale, specialmente quando si tratta della legge divina » (Pio XII, Disc, ai med., p. 190). Quando, ad un infermiere capitasse il caso d'esser chiamato ad aiutare un medico che compie su di un malato un'operazione illecita, bisognerà — per un giudizio prudenziale sulla liceità o meno della cooperazione — esaminare se sì verificano le condizioni del principio del duplice effetto. Compiere direttamente (dietro ordine del medico od insie­me al medico) un'azione che ha una intrinseca finalità immorale — ad esempio, praticare un'iniezione mortifera — non è lecito. Se la cooperazione non è immediata ma mediata (più o meno pros­sima, più o meno remota) bisognerà prudentemente considerare

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tutte le circostanze per giudicare se c'è una causa proporzionata giustificante.

9. In modo particolare l'assistenza agli ammalati domanda il continuo esercizio di quelle che si chiamano piccole virtù (ma suppongono le grandi): discrezione, delicatezza, fine educazione, buon umore, saper tacere, e non ribattere aspramente, ad una parola che sembra ingiusta. Anche colle compagne di lavoro un'infermiera può aver frequente occasione di scontrarsi. Bisogna far di tutto per vivere in pace, in buona armonia ed amicizia con tutte. Senza intimità, ma in pacifici rapporti di cortesia. E verso le ultime arrivate o le inferiori non deve manifestarsi alcun spirito d'alterigia.

10. Con l'ammalato bisogna avere molti accorgimenti perché osserva tutti i particolari ed è sensibilissimo: si sente in uno stato d'inferiorità e d'impotenza; può aver sempre l'impressione d'esser di peso a chi lo cura. Non bisogna minimamente mostrare disistima, mancanza di riguardo, disinteresse per lui, né ribrezzo o preoccu­pazione per la sua malattia. Si dovrebbe far in modo che egli si trovasse meglio che a casa propria. Fargli capire che il suo stato è per lui una dignità altissima e per chi lo assiste un onore ed una gioia. E perché non abbia la sensazione dell'isolamento, l'infer­miere gli darà l'impressione d'attendere a lui solo; altrettanto farà con tutti gii altri cosicché nessuno si senta trascurato e pensi che qualche altro è oggetto di particolari, ingiustificate, attenzioni. Si stenta a veder possibile una continua assistenza agli ammalati per chi non ha abitualmente la dote del buon umore e dell'allegria. È stato scritto che ci sono nel mondo uomini che hanno il dono di tro­vare dappertutto la gioia e di lasciarla sempre dappertutto. La se­minano tutt'intorno, senza pensarci. È quanto si desidera nelle pro­fessioni più difficili e pesanti, come quella d'infermiere. Perché l'ammalato entra nell'ospedale o nella clinica con una grande ma­linconia nell'anima. Le prime impressioni sono decisive. I risultati sanitari di certe cliniche (in particolare di quelle attrezzate per chi ha bisogno di riposo e di cura per esaurimenti) dipende in gran parte dal clima spirituale sereno, dalle doti morali dei medici, dalle qualità e dalle virtù del personale — suore, infermieri, in­fermiere. Purtroppo spesso avviene che in qualche casa di cura, dopo il periodo iniziale (per così dire, eroico) subentra un anda­mento piuttosto fiacco: ci si accontenta di fare il necessario ma si trascurano quelle piccole attenzioni e prestazioni che, insieme alle

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cure radicali, registravano successi mirabili, guarigioni felicissime, lasciavano nei malati le migliori impressioni e ricordi.

11. Un'infermiera che esercita la sua missione con spirito veramente cristiano, che frequenta i sacramenti, che sa unirsi a Dìo colla preghiera frequente — anche se semplicissima — du­rante il suo stesso lavoro, questa infermiera esercita un benefico influsso (sia pur inavvertito) anche sull'anima dei malati. Rispette­rà la libertà di tutti (e per questo, non sarà mai abbastanza cauta), rifuggirà ogni forma di proselitismo (come sarebbe il condi­zionare una più cordiale assistenza alla conversione ed alla pratica religiosa del malato). Ma se irradierà la sua vita interiore, se dirà prudentemente la parola buona quando l'occasione lo richiede o permette, allora può ben credere che molti ammalati, venuti al­l'ospedale per cercare la guarigione fisica, troveranno anche quella morale (cfr. Génin, o.c, p. 109).

12. Chi vuol esercitare con diligenza, prontezza e letizia questa impegnativa professione deve curare anche la sua salute ed esser regolato in tutto particolarmente nel sonno e nei pasti. Di fronte alla offerta di incarichi che sono superiori alle sue forze e capa­cità, dovrà avere l'umiltà e la prudenza di non accettarli.

13. Un'infermiera dev'esser preparata a trovare anche nei luo­ghi di sofferenza l'insidia del Nemico. Qualche assistente o stu­dente di medicina, porterà la nota allegra della sua esuberante giovinezza. Ma si può arrivare alle familiarità. L'infermiera deve conservare il suo contegno disinvolto ma dignitoso e riservato che le assicuri il rispetto da parte di tutti.

17. Ostetriche

Valgono anche per le ostetriche molti principi morali e sug­gerimenti pratici accennati sopra trattando delle infermiere.

1. Fermo il principio che « non vi è nessun uomo, nessuna autorità umana, nessuna scienza, nessuna indicazione, medica, eugenica, sociale, economica, morale, che possa esibire o dare un valido titolo giuridico per una diretta deliberata disposizione sopra una umana vita innocente, vale a dire una disposizione che miri alla sua distruzione, sia come a scopo, sia come a mezzo per un altro scopo per sé forse in nessun modo illecito », l'ostetrica

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rifiuterà anzitutto « ogni cooperazione immotale ». Con chi farà ricorso a lei per impedire la procreazione e la conservazione d'una nuova vita senza alcun riguardo ai precetti dell'ordine morale, si « esige un calmo, ma categorico "no" ». (Pio XII alle Congressi­ste dell'U.C.I. Ostetriche, il 29X51, in: Pio XII, Discorsi ai medici, pp. 157-158; 161-162). Perciò quando si tratti di aborto diretto terapeutico, un'ostetrica non può dare la sua cooperazione al medico, quando questa cooperazione sia immediata nell'inter­vento chirurgico. Quando la cooperazione fosse remota, vale la regola ricordata per infermieri ed infermiere: bisogna conside­rare prudentemente tutte le circostanze, secondo il principio del duplice effetto (o, meglio, della cooperazione). A parte la que­stione soggettiva della buona fede, obbiettivamente per giustifi­care la cooperazione — anche solo mediata — all'aborto terapeu­tico, ci dovrebbero essere ragioni tanto più gravi quanto meno le condizioni fisiche della madre lo richiedono come unica soluzione per la sua salvezza. Ora, a proposito dei rarissimi casi tragici nei quali la continuazione della gravidanza metterebbe in pericolo gravissimo la vita della madre, oggi si deve dire che, su questo punto, scienza e morale si sono cosi avvicinate da concordare: anche nei casi più gravi sono offerti mezzi clinici che permettono di portare la gestazione fino al limite minimo di vitalità del bam­bino, cosicché la soluzione si potrà avere con un parto « pre­maturo » (ma non « immaturo » che significherebbe la morte del bimbo). Purtroppo potrà darsi ancora il caso del medico che ricor­re al sistema più sbrigativo e più semplice (per provvedere alla salute della madre) o per scarsa competenza o per carenza imme­diata di adeguati mezzi terapeutici moderni. Quanto più ingiusti­ficati e deteriori fossero i motivi degli interventi abortivi, quanto maggiore fosse la diffusione e la facilità con cui si praticano, tanto più s'imporrebbe, ripeto, un'energica opposizione da parte dei cattolici, medici, ostetriche, infermiere. Allora costoro sono chia­mati — a costo di qualche svantaggio economico.— ad un'aperta e coraggiosa testimonianza dei propri (e per tutti validi) principi morali, ad una resistenza efficace, rifiutando di prestare qualsiasi cooperazione, sia pur mediata, sia pur remota; ed anche d'assi­stere alle pratiche abortive. Perciò in seguito alla decisione della Suprema Corte degli Stati Uniti d'America del 22.1.1973 (che ha liberalizzato le leggi del Texas e della Georgia sull'aborto) il Co­mitato Episcopale degli U.S.A., Pll.IV.1973, ha dato alcune diret­tive e per gli ospedali cattolici (che non potranno neppure mettere

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a disposizione, per questi interventi, le proprie attrezzature ed il proprio personale) e per il personale sanitario cattolico che, in linea di massima, non può neppur assistere a queste pratiche e, nei casi speciali, dovrebbe sottoporre i problemi della propria coscienza al confessore.

2. L'ostetrica dovrà rispettare i limiti imposti dalla legge stessa alle sue prestazioni (cfr. Decr. del Ministero dell'Interno, 26.V.1940, n. 1364). Non invaderà quindi il campo riservato ai medici, sia per correttezza personale sia per non rischiare tenta­tivi pericolosi. La legge civile stabilisce che l'ostetrica richieda l'intervento del medico quando avverte che il parto non procede in modo del tutto normale (D.M. 11.X.1940, a. 10).

3. Ha anch'essa l'obbligo naturale del segreto professionale, sia riguardo alle confidenze ricevute, sia riguardo a quanto vien a conoscere nell'esercizio ed a ragione della sua professione. La legge (D.M. 26.V.1940, n. 1364, art. 10) stabilisce che l'oste­trica annoti subito nei rispettivi registri ogni parto ed aborto al quale abbia assistito. Però il contenuto dei registri deve rimanere segreto. Appunto perché tenuta al segreto professionale, non è lecito, in caso d'illegittima gravidanza, avvisare i parenti della gestante (od il parroco) neppure a scopo di bene. Può farlo se si tratta d'una minorenne o se la ragazza chiede essa stessa che l'ostetrica faccia da mediatrice per ottenerle, presso altri, com­prensione, soccorso, sistemazione. Ugualmente, quando, nel caso di fidanzati, venisse a conoscere che uno dei due è affetto da malattie che sconsigliano il matrimonio, non può permettersi d'avvisare l'altra parte. Ricorderà invece alla persona malata che ha il dovere, prima, di curarsi, o di rinunciare al matrimonio o, almeno, d'avvisare l'altra parte, se questa non è al corrente di tale malattia grave. Per esser esatti, bisogna distinguere ciò che l'ostetrica viene a conoscere per ragione della sua professione e ciò che viene a conoscere in occasione dell'esercizio della sua professione. Questo, per sé, strettamente non rientra nell'oggetto del segreto professionale. In pratica però, è buona norma osser­vare, per quanto possibile, il silenzio e la riservatezza; a meno che la carità stessa non suggerisca d'informare una persona su una notizia che essa ha necessità di sapere, cioè non può ignorare senza suo danno: informarla, ma con cautela, di modo che il se­greto non sia rivelato più di quanto lo richiede il motivo urgente.

4. L'ostetrica può esercitare un vero, continuo, preziosissimo apostolato.

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a) Comunicherà « anche ad altri — come diceva Pio XII nel citato discorso del 29.X.51 — la conoscenza, la stima e il rispetto della vita umana... »; ne prenderà, « al bisogno, arditamente la difesa » e proteggerà, quando è necessario ed in suo potere, « la indifesa, ancora nascosta vita del bambino » (Discorsi ai medici, p. 158).

b) L'apostolato dell'ostetrica si dirigerà « però soprattutto alla madre ». « Meno con le parole » che con tutta la sua « ma­niera di essere e di agire » saprà « far gustare alla giovane madre-la grandezza, la bellezza, la nobiltà di quella vita, che si desta, si forma e vive nel suo seno, che da lei nasce, che ella porta nelle sue braccia e nutrisce al suo petto » (p. 59).

e) Rivolgerà poi le sue « cure delicate a dissipare i precon­cetti, le varie apprensioni o i pretesti pusillanimi, ad allonta­nare, per quanto... è possibile, gli ostacoli anche esteriori, che possono rendere penosa l'accettazione della maternità » (Pio XII, Disc, ai med., p. 162). Avrà occasione di dissuadere, in partico­lare, qualche ragazza dall'interruzione della gravidanza. Farà ca­pire con dolcezza persuasiva che la creatura è un dono di Dio, anche se conseguenza d'un fallo giovanile. Ma questo fallo può esser redento quando si accoglie il dono di Dio e si supera il primo abbattimento: la grazia di Dio ricompenserà donando il suo conforto e facendo seguire al dolore la gioia della vita.

5. L'ostetrica di fermi principi religiosi e morali e di delicata coscienza, sentirà spesso il bisogno di chiedere consiglio al sacer­dote (senza però venir meno al segreto professionale). Diventerà anche sua collaboratrice specialmente nell'amministrazione dei battesimi. Avrà coscienza della « grande importanza di provvedere al battesimo di un bambino, privo di qualsiasi uso di ragione e che si trova in grave pericolo o dinanzi a morte sicura. Senza dubbio questo dovere lega in primo luogo i genitori; ma in casi di urgenza, quando non vi è tempo da perdere o non è possibile di chiamare un sacerdote » spetta all'ostetrica questo sublime e caritatevole officio che rientra nell'apostolato attivo della sua pro­fessione (Pio XII, Disc, ai med., pp. 160-161). Deve quindi cono­scere chiaramente quali sono le condizioni richieste per ammini­strare validamente e lecitamente il battesimo. L'adulto deve aver espressa la seria volontà di riceverlo; però, se, nell'imminenza della morte avesse già perso i sensi e fosse, almeno probabilmente, ancor vivo, si può amministrarglielo sotto condizione, anche se non

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lo ha chiesto. Ai bambini non si può amministrare il battesimo se entrambi i genitori sono contrari, a meno che il piccolo non « versi in tale pericolo di vita cosicché prudentemente si prevede che morrà prima di raggiungere l'uso di ragione » (CJC, e. 750): ed anche in tal caso è evidentemente necessaria la riservatezza e la prudenza perché siano evitate eventuali reazioni ed odiosità. Dei battesimi l'ostetrica avvertirà poi il parroco. Meglio sarebbe se quando conferisce il sacramento, ci fossero due testimoni, od al­meno uno, cosicché si possa provare con certezza il fatto. L'am­ministrazione privata del battesimo è semplicissima ma bisogna conoscerla, a scanso di perplessità o dubbi conseguenti. Si versa l'acqua sul capo pronunciando le parole: Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Abluzione e pro­nuncia delle parole siano contemporanee (almeno nel senso che non si termini l'una senza aver cominciata l'altra) perché un inter­vallo fra le due azioni metterebbe in dubbio la validità del sacra­mento, per mancanza d'unità fra materia e forma.

Nel caso di parto laborioso che induce pericolo di vita pel bimbo, se questi emette il capo si battezzi sul capo: il sacramento è senz'altro valido, e quindi se poi verrà alla luce vivo non sarà da ribattezzarsi; se emette un membro si battezzerà sotto condi­zione: e l'amministrazione del sacramento sarà poi da ripetersi sotto condizione {CJC, e. 746).

6. Ogni essere umano nato anzitempo — se probabilmente è vivo — dev'esser battezzato, per quanto recente sia la conce­zione (anche se è un embrione che non presenta ancora la forma d'uomo) (e. 747). Dunque solo nel caso che con certezza sia morto si ometterà il battesimo. Questa disposizione della Chiesa è valida qualunque sia il momento in cui di fatto Dio infonde l'anima spirituale. Comunque il CJC sembra supporre l'anima­zione immediata, dottrina verso la quale oggi propende la mag­gioranza degli autori cattolici (animazione immediata, s'intende, del seme destinato a maturare, svilupparsi e formare l'essere umano, non di tutti i germi che possono essersi incontrati con gli ovuli ma si disperderanno). Mancano di solido fondamento (S. Off. 18.11.1958, AAS, 50, 1958, 114) le teorie di alcuni moderni che negano l'esistenza del Limbo, assicurano la visione beatifi­cante anche ai bimbi morti senza battesimo ed ammettono una opzione finale concessa a tutti anche dopo la morte.

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7. Ai nati anzitempo il battesimo evidentemente non è da conferire sopra le membrane. Però il romperle a contatto dell'aria sarebbe pericoloso. Bisogna quindi immergere il feto nell'acqua tiepida, lasciar uscire il liquido amniotico, rompere delicatamente con le dita le membrane. Nell'acqua che cosi è entrata e l'ha avvolto, lo si muoverà un po' ed intanto si pronuncerà la for­mula; dopo di che lo si estrarrà dall'acqua.

8. Se c'è pericolo che il bimbo muoia prima di nascere, può esser praticato il battesimo intrauterino (e. 746). Regolarmente potrà farlo il medico o la levatrice esperta. Siccome in tale batte­simo viene a mancare la certezza della validità, bisogna ribattez­zare il bimbo che dovesse nascere.

9. Anche i parti deformi devono esser sempre battezzati (e. 748). A meno che non sia certo che son privi di vita.

18. Medici

È una professione che si distingue fra tutte le altre secondo una convinzione trasmessa attraverso i secoli: « Onora il medico come si merita — si legge nella Scrittura — a motivo del tuo bisogno, perché è l'Altissimo che l'ha creato » (Eccl. 38, 1). Pro­fessione simile a quella del sacerdote la quale eleva un uomo ad una speciale funzione di strumentalità nelle mani di Dio. I medici sono « veri collaboratori di Dio nella difesa e nello sviluppo della sua creazione » (Pio XII, 26.IV.52, in Pio XII, Discorsi ai medici, 1959, p. 186). Ma non è una materia inerte quella che maneg­giano: è una creatura che ha « un appuntamento con l'eternità »; e, per di più, è ridotta ad una « sofferente, contratta, pallida forma » (Pio XII, il 30.1.45, o.c, p. 60). La sofferenza umana: realtà colla quale quotidianamente, continuamente sono a con­tatto. La sofferenza: il suo effetto sullo spirito umano è ambi­valente: purificazione, redenzione, elevazione, oppure depressione, rivolta, disperazione. In ogni caso Dio non vuole il dolore per il dolore: entrano nella Sua Provvidenza i mezzi per evitare o sopprimere il dolore. Nei casi in cui non sia concesso al medico di ridonare al malato la guarigione, gli è sempre possibile portare agli afflitti alleviamento e conforto (Pio XII, o.c, p. 55). Questo conforto « dopo il sacerdote, nessuno può darlo meglio del me-

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lieo... Egli guadagna la fiducia del malato e della famiglia..., acquista su di loro e sulla popolazione del luogo un influsso pro­fèndo e volentieri accettato » (Pio XII ai partecipanti al Con­gresso dei Medici Condotti, il 18.IX.50, o.c, p. 142). I cosiddetti « medici di famiglia », poi, « conoscono non solo le vicende pato­logiche degli individui appartenenti a generazioni successive, ma anche gli aspetti spirituali, ideologici e, per cosi dire, "carattero­logici'' di ciascuna casata »: essi sono « in grado di valutare l'uomo nella sua propria natura di anima e di corpo coesistenti nel composto umano e soggetti a reciproca influenza » (Pio XII, I Corsi Aggiorn. Med. Condotti, 4.X.53, o.c, pp. 286-287). Ma è il medico profondamente cristiano che in modo tutto partico­lare potrà portare « alla camera del malato, al tavolo operatorio qualche cosa della carità di Dio, dell'amore e della tenerezza di Cristo, grande Medico dell'anima e del corpo» (Pio XII ai Chi­rurgi, 13.11.45, o.c, p. 63): egli vedrà nel malato «il Cristo del Calvario » mentre il malato troverà nel medico « il Cristo com­passionevole » (Pio XII, o.c, p. 281).

Il medico che ha la viva e continua coscienza d'essersi consa­crato ad un ideale cosi eccelso non avrà neppure il tempo per abbassarsi a meschine preoccupazioni, per esempio a denigrare (come purtroppo avviene) i propri colleghi, per sopraffarli e farsi strada.

Professione, dunque, degnissima, delicata ed altrettanto impe­gnativa. Domanda bontà di cuore, diligenza e prudenza, continuo aggiornamento, fermo possesso di chiari principi morali, serietà e rettitudine nel comportamento e nei contatti, saggio dispendio delle energie fisiche, igienico tenore di vita. Su tutte queste qualità s'interrogherà il medico che voglia esercitare santamente la sua professione.

I. Bontà di cuore. Cominciamo da questa che è la prima virtù da esercitarsi (prima e durante la cura): il segreto di felici risul­tati e della guarigione stessa del malato.

1. Diventar medici significa abbracciare una missione a ser­vizio dei sofferenti e degli infelici, fratelli in Cristo. Chi non ha un cuore sensibile che sa amare e compatire, è inconcepibile che la scelga: La bontà e la tenerezza crescono cogli anni, a contatto della sofferenza, ma in genere non si acquistano, non si creano, se mancano germinalmente.

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2. Bontà perché ogni malato ha bisogno d'esser sostenuto non solo fisicamente, ma soprattutto moralmente. E questo è piti difficile della cura medica (la quale può esser procurata solo materialmente). Nessuno, ad esempio, dovrebb'esser umiliato come un malato immaginario. Il medico dovrebbe sempre tener presente che « l'influenza personale » ch'egli « è capace di eserci­tare sul malato non ha minore importanza od utilità » delle cono­scenze ed esperienze acquisite. Ma questa influenza del medico è proporzionata alla confidenza ed alla stima che il malato ripone in lui: egli « vuol essere compreso dal suo medico; ha bisogno di avere grande fiducia in lui, per ritrarre dalle sue cure un profitto fisico e psichico » e di trovare « presso di lui tutto quello che cerca spontaneamente o coscientemente: comprensione, conforto, sensazione di sicurezza » (Pio XII, IV Congr. U. Med. Latina, 7.IV.55, o.c, p. 384).

3. Il medico ha un campo immenso anche per un vero apo­stolato. Ha la possibilità di dare qualche privato consiglio, discreto ma efficacissimo, autorevolissimo, tanto più efficace quanto mag­giore è la stima e la fiducia che riscuote per la sua scienza e retti­tudine: consiglio per preservare o distogliere il malato dal vizio (alcool, sesso, droga, fumo). Consta che qualche volta — se manca l'esplicito richiamo alla legge morale — le parole del medico pos­sono esser anche fraintese: molto spesso, ad esempio, le donne quando sentono da un medico religioso la raccomandazione di usare un certo « riguardo » circa nuove gravidanze, la intendono ben volentieri come un comprensivo suggerimento a ricorrere al­l'onanismo od alle pratiche anticoncezionali. C'è tanta ignoranza e materialità anche nei buoni.

Bontà del medico anche quando non può approvare o conce­dere ciò che la sua coscienza di cristiano giudica illecito. Per esempio di fronte alla richiesta d'aborto diretto non defletterà dai suoi principi morali, però il suo comportamento sarà umano: mostrerà d'esser sensibile a certi stati d'animo ed a certe situa­zioni. Non si accontenterà di richiamare la norma etica con freddezza, severità e distacco. Nel dialogo, colla madre e col padre del nascituro tenterà d'esercitare una benefica persuasione e, diciamo pure, una sana suggestione (tanto più valida quanto maggiore è il suo personale prestigio). Specialmente quando si troverà di fronte al caso d'una ragazza che, in seguito ad illeciti rapporti, è destinata ad esser madre, ma teme di perder la sua buona fama, di non poter più sposarsi. In questi casi la parola

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pel medico può esser più efficace di quella d'un sacerdote. Egli terrà presente e farà presente alla giovane, tentata d'abortire, <bme per evitare un certo trauma psicologico, può andar incontro ap un altro trauma psicologico: perché uccide il suo senso di rqaternità; il rimorso dell'aborto procuratosi può gettarla nella dìfcperazione. (In Giappone e Svezia — i primi paesi nei quali è stato legalizzato l'aborto — c'è il più alto numero di suicidi)21. Certe ragazze hanno quindi bisogno d'una parola che rischiari il loro orizzonte ed infonda coraggio: se riceveranno dalle mani di Dio il frutto del peccato, se saranno generose, Dio perdonerà loro e le aiuterà aprendo strade insperate e dando l'occasione d'acqui­stare meriti immensi, nonostante lo sbaglio commesso. Comun­que, è sempre meglio esser con Lui nelle difficoltà che ricercare la via più facile allontanandosi da Lui.

I I . Diligenza e prudenza. Di fronte al caso d'un malato — specialmente se grave ed in pericolo di vita — si domandano al medico un complesso di doti e di virtù. Egli deve anzitutto ren­dersi conto dello stato obbiettivo del paziente (in modo da poter conoscere fin da principio la natura del male, e, d'altra parte, non esagerarne la gravità ed il grado d'incurabilità). Una volta scoperto con certezza il male (ad esempio la presenza d'un cancro) egli deve procedere con prontezza e decisione. Ma prima di appli­care i mezzi terapeutici più efficaci, per tentare la guarigione, oc­corre che il medico curante con intelligenza e prudenza (non solo cliniche) « consideri l'uomo nella sua integrità, nell'unità della sua persona, vale a dire non solamente il suo stato fisico, ma anche la sua psicologia, il suo ideale morale e spirituale e il posto che egli occupa nel suo ambiente sociale. Quali saranno le conse­guenze pratiche degli interventi che egli si propone? In quale misura gli è permesso di rischiare una grave operazione perico-

21 II prof. C. Trabucchi, in un recente articolo, riferisce le sue espe­rienze dopo quaranta anni di esercizio di psichiatria, circa la « psicosi da aborto » e circa i danni psichici della mentalità abortiva della donna. Si noti che i quadri della psicosi compaiono, di solito, a distanza dall'evento abortivo. Nello stesso articolo si afferma decisamente, in base all'esperien­za, che per le malate mentali la gravidanza normalmente protratta ed il parto possono avere qualche effetto, sia di peggioramento, sia di migliora­mento, ma comunque di scarsa entità. Nessuna poi delle cure di cui di­spone la moderna psichiatria trova reale impedimento nella gravidanza (C. TRABUCCHI, Aspetti psicologici della interruzione volontaria della gra­vidanza, «Riflessi», Milano, 28, 1976, n. 4, pp. 159-165).

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Iosa e che comporta importanti sacrifici? Quale beneficio ne ricai vera il malato? Invece di imporgli infermità gravi e permanente che lo ridurranno ad una inattività quasi totale, non sarebbe meglio che egli continuasse a lavorare fin tanto che il male glielo permetta? Qualche volta, al contrario, il desiderio di alleviare il dolore, di prolungare un po' la vita, di apportare un indispensa­bile conforto, autorizzerà trattamenti onerosi, il cui esito non lascia molte speranze. In ogni caso s'impone al medico un'appro-fondita riflessione, una vera meditazione, in cui i fattori d'ordine umano entreranno nel totale più degli altri » (Pio XII, Ai rap­presentanti dell'Unione Internazionale contro il Cancro, 19.Vili. 56, o.c, pp. 497-499).

I II . Studio

1. La cura, per quanto generosa ed assorbente dei malati, non dovrebbe portare il medico a tralasciare del tutto lo studio: egli ha continuamente bisogno d'aggiornarsi sui progressi della sua scienza, le ricerche, le scoperte ed i farmaci nuovi. Con la laurea non è diventato medico ma ha cominciato ad esserlo: avrà continuamente da perfezionare il suo sapere, come la sua vita di cristiano. Mezzi: « la lettura di opere e di riviste scientifiche, la partecipazione a congressi e corsi accademici, le conversazioni coi colleghi e le consultazioni presso i professori delle Facoltà di medicina. Questo costante studio di perfezionamento obbliga il medico esercente, in quanto gli è praticamente possibile e viene richiesto dal bene dei malati e della comunità » (Pio XII, al-PU.I.M.B. di «San Luca», 12.XI.44, o.c, p. 54). Ad esempio, ogni medico dovrebbe sapere ed esser convinto che oggi, in caso di pericolosa gravidanza, la salvezza della madre si può procurare con cure efficaci senza bisogno di ricorrere al cosiddetto aborto terapeutico, il quale può esser, anzi, nocivo alla madre, alla sua futura gravidanza (oltre che alla sanità pubblica). Mancando le indicazioni di ordine fisiologico, si cerca ora di giustificare l'aborto come una necessità per evitare qualche trauma d'ordine psicologico. Per un medico, poi, che non conosce — o non si impegna a pra­ticare — le cure razionali alla madre gravida ammalata, sarà più sbrigativo ricorrere all'aborto terapeutico col salvacondotto del­l'autorizzazione legale. Ma dal punto di vista della legge morale e del diritto naturale resta sempre illecito l'aborto diretto, sia terapeutico (inteso a proteggere la vita della madre) sia eugenetico (motivato dalla volontà di non metter al mondo un bimbo tarato).

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E non è tolta l'illiceità di questa soppressione della vita pel fatto 4he la legge (come quella approvata dal Consiglio Nazionale Au­striaco, in vigore dal 1. gennaio 1975) ammettesse l'aborto (ese­guito da un medico e previa consultazione medica) solo entro i pLmi tre mesi dall'inizio della gestazione n.

\ 2. Quella scienza generale — nella quale il medico cerca con­tinuamente di coltivarsi — dovrà esser applicata alle singole situazioni. Ed allora, quando si tratterà di prender una determi­nazione, egli sentirà la responsabilità anzitutto di studiare atten­tamente il caso. Il chirurgo, prima dell'intervento, si domanderà: « l'operazione apparisce necessaria? quali pericoli essa presenta, ma, d'altra parte, a quali disavventure esporrebbe l'astensione? E ancora: il momento è opportuno? conviene differire, o invece bisogna affrettarsi e agire rapidamente? correre i rischi dell'ur­genza, ovvero quelli dell'indugio? Quale contegno tenere nel consulto coi medici curanti? Ognuno, infatti, ha la sua parola da dire; soprattutto in casi di problemi complessi, i pareri possono essere discordi; e allora ciascuno, pur sostenendo la propria opinio­ne, può rendersi conto della fondatezza delle ragioni degli altri. Quando però ha tutto ben considerato (compreso il carattere morale dell'atto), il chirurgo non deve più esitare, ma, anche dopo aver formato coscienziosamente e debitamente il suo giudi­zio, gli rimane ancora un ufficio assai delicato da compiere. Senza dubbio è suo obbligo di far conoscere l'utilità o la necessità del­l'operazione, come anche di indicare le incertezze che spesso per­mangono; ma fino a qual punto deve egli semplicemente sugge­rire ovvero consigliare o insistere, presso il malato e la sua fami­glia? Come illuminarli lealmente, pur usando i dovuti riguardi e rispettando la loro libertà? » (Pio XII, Ai partecipanti al Congr. Internai, di Chirurgia, 20.V.48, o.c, p. 96). Delicatezza, pru­denza, umanità, autocontrollo: virtù caratteristiche del chirurgo ideale. Aggiungeva Pio XII: « Durante l'intervento... voi vi met­tete all'opera con tutto il vostro cuore, ma in guisa che questo vi sia veramente di aiuto; ora esso non vi sarà di sostegno che se, pur essendo profondamente sensibile, saprà al tempo stesso mante­nervi in una imperturbabile calma. Se vi mancasse la sensibilità,

« 22 Un medico convinto dell'immoralità dell'aborto ha perciò il dovere

ed il diritto di non praticarlo, neppur quello terapeutico autorizzato dal­lo Stato. Il quale deve rispettare l'obbiezione di coscienza in questa ma­teria. Né esiste un diritto della collettività in quanto tale che possa ob­bligare il medico ad agire contro la sua coscienza.

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voi non fareste che esercitare un mestiere; se vi mancasse la calma/ il vostro turbamento, rendendo meno ferma la vostra mano, rischie/ rebbe di compromettere l'esito dell'operazione, e forse anche ]k vita del paziente. Questo dramma intimo, nel fondo dell'anima vostra, si rinnova ogni giorno, talora più volte al giorno, ccjn maggiore o minor intensità... Dramma che, a lungo andare, logora un uomo di coscienza e di cuore, ma che dà alla vostra professione il suo carattere sacro » (p. 97). Terminata l'operazione, diceva Pio XII ai chirurgi, non tutto è finito. Ci sono alee, pericoli, incon­venienti « alcuni di breve durata, altri gravi e talvolta mortali, che conseguono ogni atto operativo cruento. Perciò voi vigilate il corso della febbre, l'acceleramento o il rallentamento dei battiti del polso. Rimosso il pericolo di complicazioni, voi seguite atten­tamente il progresso della guarigione... » (pp. 97-98). Compiuta la sua opera, cosa dovrà aspettarsi il chirurgo? Gratitudine o cri­tiche e rimproveri? Dipende dal risultato dell'operazione il quale può esser felice o meno soddisfacente, indipendentemente dall'abi­lità, dalla prudenza, dalle cure del medico (perché talora il male è troppo grave o già troppo avanzato). Perciò egli dovrà esser preparato a trovare sia la riconoscenza cordiale sia l'ingratitudine. Ma se la sua responsabilità è al coperto dinanzi a Dio ed alla coscienza, il chirurgo non dovrà lasciarsi turbare o inasprire per la ingratitudine degli uomini (pur non potendo esser insensibile) (ivi, p. 98).

3. Conoscenza della filosofia morale e della teologia morale. Una qualche istruzione ed aggiornamento anche in queste mate­rie è prerichiesto al medico se si vuole ch'egli si conformi poi con fedeltà e coerenza pratica ai principi della morale. « La persona del medico con tutta la sua attività — diceva Pio XII agli scien­ziati dell'U.LM.B. « S. Luca », il 12.XI.44 — si muovono co­stantemente nell'ambito dell'ordine morale e sotto l'impero delle sue leggi. In nessuna dichiarazione, in nessun consiglio, in nes­sun provvedimento, in nessun intervento, il medico può trovarsi al di fuori del terreno della morale, svincolato e indipendente dai principi fondamentali dell'etica e della religione » (Pio XII, Di­scorsi ai medici, p. 49). « Il medico serio e competente, spesso, con una specie d'intuizione spontanea vedrà la liceità morale del­l'azione che si accinge a compiere e agirà secondo la propria coscienza. Ma possono presentarsi azioni in cui egli non ha questa sicurezza, in cui può darsi veda o creda di vedere con certezza

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i contrario; in cuixdubita ed esita tra il sì e il no » (Pio XII, Ai partecipanti al t Congr. d'Istopat. del sist. nerv., 14.IX.52, or., p. 193). A proposito d'interventi, pratiche, cure mediche cHe possono esser in conflitto con qualche legge, Pio XII distin­gueva (parlando ai partecipanti al XIII Congr. I. di Psicologia applicata, il 10.IV.58): azioni che violano solo le norme d'una legge positiva (ad esempio, civile) ma, in sé, non sono contro la legge morale naturale; azioni immorali in sé stesse (come quando l'uomo sottomette le sue facoltà razionali agli istinti in­feriori): « quando l'applicazione dei tests o della psicanalisi o di qualsiasi altro metodo arriva a questo punto, diviene immorale e deve essere rifiutata senza discussione ». Naturalmente spetta alla coscienza dello psicologo « determinare, nei casi particolari, quali comportamenti sono in tal modo da rigettarsi »; poi ci sono le azioni immorali « per difetto di diritto in chi le pone »: ad esem­pio l'uso della narcoanalisi (interrogatorio d'un soggetto che è sotto l'azione d'una sostanza ipnotica — « siero della verità » — iniettatagli allo scopo che riveli notizie che altrimenti non rivele­rebbe) oppure l'uso di strumenti registranti le manifestazioni somatiche che accompagnano certe attitudini emotive di chi, ad esempio, proferisce menzogne coscienti (delle quali si può così avere un'indicazione indiretta); infine ci sono azioni che possono esser « immorali a causa del pericolo al quale espongono senza motivo proporzionato »: « pericolo morale per l'individuo o la comunità, sia circa i beni personali del corpo, della vita, della reputazione, dei costumi, sia circa i beni materiali ». Bisogna tener presente il principio morale: il rischio è permesso « a con­dizione che sia giustificato da un motivo proporzionato all'im­portanza dei beni minacciati e all'imminenza del pericolo che incombe su di essi » (Pio XII, Disc, ai med., pp. 640-642).

4. Il medico dovrebbe non solo conoscere le discussioni e le relative soluzioni della teologia morale — sulle importanti que­stioni mediche, ma anche saper render conto (a sé ed agli altri) delle rette soluzioni morali; e non appellarsi soltanto all'autorità: « così dice la Chiesa ». Se si tratta di legge morale naturale, questa esiste prima ancora della Chiesa e del suo magistero. Ad esempio, è a tutti noto che l'accelerazione del parto è lecita nel caso di diffi­cile gravidanza. Ma perché ed a quali condizioni? Bisogna applicare il principio del duplice effetto (che dev'esser conosciuto bene). Per­ché l'azione che provoca il parto anticipato non abbia di per sé una finalità intrinseca immorale, bisogna che sia almeno probabile

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la vita del bambino fuori della madre (altrimenti si ha l'espul/ sione del feto « immaturo », cioè l'aborto); poi — siccome a crea un pericolo reale per la vita del bimbo — occorre ci sija una causa proporzionatamente grave da parte o del bimbo o della madre; e bisogna usare tutti i mezzi perché sia evitato, più epe possibile, il pericolo della morte del neonato: bisognerebbe fosse messo subito nell'interno dell'incubatrice, soprattutto per evitare che il corpo si raffreddi (e qui c'è un problema pratico: occorre autoambulanza con apparecchiature speciali e con a bordo un medico).

Purtroppo si nota, anche in medici religiosi, una debole forma­zione in materia morale, e specialmente filosofica, ed una menta­lità caratteristicamente empirica. Giudicano la moralità o immo­ralità del loro comportamento solo in base all'intenzione, alla coscienza, oppure agli effetti (a seconda, ad esempio, che il male conseguente un intervento chirurgico è maggiore o minore); non considerano la finalità intrinseca dell'azione, la legge obbiettiva: ragionano, per esempio, così: « procurando l'aborto non si intende uccidere il bimbo, ma salvare la madre »; « se morissero entrambi sarebbe un male maggiore ». Invece, secondo la legge morale, la vita dell'uomo « è intangibile, ed è quindi illecito ogni atto ten­dente direttamente a distruggerla, sia che tale distruzione venga intesa come fine o soltanto come un mezzo al fine, sia che si tratti di vita embrionale, o nel suo pieno sviluppo, ovvero giunta ormai al suo termine » (Pio XII all'U.I.M.B. di « S. Luca », 12.XI.44, o.c.y p. 51). «Ci sono indicazioni mediche nelle quali la legge civile autorizza l'aborto; dunque sarebbe una responsabilità non servirsi di tale diritto esponendo a pericolo mortale la madre ». È un'altra giustificazione che si adduce. Però se la legge autorizza, non obbliga. Il medico non è tenuto, può rifiutarsi a ciò che la legge di Dio non gli permette. Ed in coscienza può stare tranquillo in fatto di responsabilità di fronte agli uomini, checché ne dicano. Si domanda dunque una coscienza lucida ed una retta applicazione dei principi morali. Specialmente del principio del duplice effetto e della cooperazione: « Se — precisava Pio XII alle « Assoc. Famiglie numerose », il 26.XI.51 — la salvezza della vita della futura madre, indipendentemente dal suo stato di gravidanza, richiedesse urgentemente un atto chirurgico, o altra applicazione terapeutica, che avrebbe come conseguenza accessoria, in nessun modo voluta né intesa, ma inevitabile, la morte del feto, un tale atto non potrebbe più dirsi un diretto attentato alla vita

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Innocente. In queste condizioni l'operazione può essere lecita, come altri simili interventi medici, sempre che si tratti di un bene di aj[to valore, qual è la vita, e non sia possibile di rimandarla dopo la nascita del bambino, né di ricorrere ad altro efficace rimedio » (oic., p. 179). Altro esempio: ci sono medici che stentano a capire che è diverso il caso d'una sposa che per curare una malattia prende la pillola che/ sospende l'ovulazione, ed il caso d'una che la prende quando (sia pur su indicazione medica) non è deside­rabile un altro concepimento troppo vicino al precedente. In questo secondo caso l'uso della pillola è direttamente ordinata ad impedire il concepimento e solo indirettamente ad evitare possi­bili disagi per la salute della madre. Pio XII, parlando ai parte­cipanti al VII Congr. Intern. di Ematologia il 12.IX.58, aveva fatto una chiara distinzione circa l'uso, da parte d'una donna maritata, di pillole che impediscono l'ovulazione (e quindi la fe­condazione): « se la donna prende questo medicamento, non in vista d'impedire il concepimento, ma unicamente su consiglio del medico, come un rimedio necessario per una malattia dell'utero

: o dell'organismo, essa provoca una sterilizzazione indiretta, che è | permessa secondo il principio generale delle azioni a duplice effetto.

Ma si provoca una sterilizzazione diretta, e perciò illecita, quando ' si arresta l'ovulazione per preservare l'utero, e l'organismo dalle ;• conseguenze d'una gravidanza ch'esso non può sopportare. Alcuni | moralisti pretendono che sia permesso prendere medicamenti in !? questo caso, ma a torto. Bisogna respingere egualmente l'opinione | di molti medici e moralisti, che ne permettono l'uso, quando una I indicazione medica rende indesiderabile un concepimento troppo | vicino, o in altri casi simili...; in questi l'impiego di medicamenti f ha come scopo d'impedire il concepimento impedendo l'ovula-| zione; si tratta dunque di sterilizzazione diretta ». Considerava poi I il caso di chi usasse di preservativi per arrestare la trasmissione di li un'ereditarietà difettosa. E diceva che alcuni vorrebbero giustifi-I cario considerandolo come un male minore della procreazione di | bambini tarati. Ma rispondeva che « il cristianesimo ha seguito e I continua a seguire una tradizione diversa » secondo il principio I morale esposto in modo solenne da Pio XI nella sua enciclica 1 « Casti Connubii » AAS, 22, 1930, 559-560). Non vale dunque, p diceva Pio XII, appellarsi al principio: licet corrigere defectus W naturae, perché bisogna vedere in qual modo si corregge il difetto I naturale e guardarsi dal violare altri principi di moralità (Disc. w. ai med.t pp. 706-708). Al motivo d'impedire un male maggiore

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(altrimenti umanamente inevitabile) sarà lecito appellarsi per giu­stificare un'azione non intrinsecamente cattiva la quale può as­sumere una moralità diversa cambiando le circostanze. Per esem­pio, l'uso degli stupefacenti a solo scopo di piacere è illecito per il pericolo dell'assuefazione e dei gravi danni conseguenti. Ma l'uso di piccole dosi da parte di chi avesse già contratto l'abitudine e si sente nell'impossibilità di troncarla da un momento all'altro, va giudicato con comprensione. Potrebbe, anzi, esser dannoso il sottrarre ad un morfinomane all'improvviso e del tutto lo stupe­facente. Il medico quindi esaminerà prudentemente la dose che è opportuno somministrargli procurando, tutto considerato, il minor male del paziente.

Ma per il principio morale secondo il quale un fine onesto non giustifica un atto disonesto, ad un medico non è lecito sugge­rire, a chi dubita della propria capacità generativa, di ottenere mediante masturbazione lo sperma da esaminare (come già dichia­rò il S. Officio il 2.VIII.1929, AAS, 21, 1929, 490) perché la masturbazione è un atto contro natura, cioè intrinsecamente cat­tivo. « Altra cosa è — diceva Pio XII ai partecipanti al Congres­so della S.I. di Urologia 8.X.53, o.c, p. 296) — se il medico preleva lo sperma dall'organismo in un'altra maniera lecita, nel caso che ciò fosse realmente possibile, o se, senza intervenire, egli riceve dall'interessato la materia da esaminare. Egli non è re­sponsabile degli atti altrui, mentre l'esame e l'utilizzazione dei suoi dati non sono moralmente reprensibili ».

I farmacisti dovranno particolarmente tener presenti i principi morali sulla cooperazione. Non è loro lecito vendere strumenti o farmaci che servono solo ad impedire la concezione (detti anche preservativi o profilattici) o a procurare l'aborto, neppur se chi li chiede è in buona fede, perché, in pratica non c'è causa propor­zionata giustificante (anche se la vendita è una cooperazione solo mediata al male e non un'azione intrinsecamente cattiva). « Qual­che volta — diceva Pio XII ai partecipanti al Convegno Intern. dei Farmacisti Catt. il 2.XI.50 — voi dovete lottare contro le richieste, le pressioni e le esigenze di certi clienti che ricorrono a voi per farvi complici dei loro delittuosi disegni. Ma voi sapete che, quando un prodotto per sua natura e nell'intenzione del cliente è indubbiamente destinato a un fine colpevole, non importa sotto qual pretesto o quale sollecitazione, non potete accettare di partecipare a questi attentati contro la vita o l'integrità dell'indi­viduo, contro la propagazione o la sanità corporale e mentale del-

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l'umanità » (Disc, ai mei., p. 140). (In Italia, di fatto, molti farmacisti vendono, anzi mettono a disposizione del pubblico, gli strumenti anticoncezionali, essendo stata, entro certi limiti, abro­gata la legge di Pubblica Sicurezza, art. 112, che vietava il com­mercio dei mezzi rivolti ad impedire la procreazione. Ma, al di sopra della legge civile c'è la legge morale naturale). Quando si tratta di farmaci che possono avere anche un uso lecito (per esem­pio di pillole sterilizzanti) un farmacista coscienzioso li venderà solo dietro ricetta del medico (il quale, a sua volta, starà alla morale: precetterà il farmaco se c'è una malattia per la cui cura è indicato).

In base ai suddetti principi si risponde alla questione se sia lecito somministrare al paziente farmaci antidolorifici, in forti dosi, che possono provocare una qualche accelerazione della morte. Pio XII accennò al problema rispondendo, in un discorso ai medi­ci il 24.11.57, a tre quesiti propostigli sull'analgesia. Distinse (quando il narcotico accorciasse la vita) « l'eutanasia diretta » (cioè la somministrazione d'una sostanza indicata a provocare od affrettare la morte) e l'abbreviamento della vita che non ha con la narcosi un nesso causale diretto ma ne è effetto indiretto perché la narcosi è usata « unicamente » per « evitare al paziente dolori insopportabili, per esempio nel caso di cancri inoperabili o di malattie inguaribili ». In tal caso l'abbreviamento della vita può esser giustificato da ragione proporzionata se lo stato attuale della scienza — diceva il Pontefice — non permette di ottenere lo stesso risultato con l'uso di altri mezzi (che non hanno l'effetto d'abbreviare la vita) e se nell'uso del narcotico non si superano i limiti di quello che è praticamente necessario {Disc, ai medici, pp. 579-580).

Al medico può esser chiesto di eseguire quanto una persona ha detto o scritto fra le sue ultime volontà, intendo dire di prati­cargli una puntura o qualche altra operazione che assicuri la morte prima della sepoltura. I parenti di chi ha lasciato questa disposi­zione possono esser turbati ed incerti, oppure chiedere essi stessi questo atto. È lecito? Finché è probabile che la morte sia solo apparente non è permessa tale azione perché tenderebbe a soppri­mere una probabile vita. Ma se il medico è del tutto certo che la morte è avvenuta, non si vede perché sia illecito che il medico pratichi una puntura letale per soddisfare la volontà d'un defunto o per tranquillizzare i suoi parenti.

Altro principio che il chirurgo applica continuamente e deve

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saper applicare debitamente è il cosiddetto « principio della tota­lità », « in virtù del quale ogni organo particolare è subordinato all'insieme del corpo e deve ad esso sottomettersi in caso di con­flitto ». Ad esempio « è certamente possibile che un organo sano, con la sua funzionalità normale, eserciti su di un organo malato un'azione nociva tale da aggravare il male con le sue ripercussioni su tutto il corpo. Può darsi pure che l'asportazione di un organo sano e l'arresto della sua normale funzionalità tolga al male, al cancro per esempio, il suo terreno di accrescimento, o, in ogni caso, alteri essenzialmente le sue condizioni d'esistenza. Se non si dispo­ne di alcun altro mezzo, l'intervento chirurgico sull'organo sano è permesso ih ambedue i casi ». Cosi Pio XII ai partecipanti al XXVI Congr. della S. Ital. di Urologia, 8.X.53 (o.c, pp. 289-290). Il Pontefice considerava poi il caso in cui, per complicazioni gine­cologiche, si estirpassero alla donna gli ovidotti sani o si rendes­sero incapaci di funzionare per prevenire una nuova gravidanza e i gravi pericoli che potrebbero forse derivare per la salute o per la vita stessa della madre, pericoli causati da altri organi — come i reni, il cuore, i polmoni — ma che si aggravano in caso di gravidanza. Ma qui ci si richiamerebbe erratamente al principio della totalità perché il pericolo non proviene dagli ovidotti ma, in definitiva, dalla libera attività sessuale. Pertanto « le condizioni che permettono di disporre d'una parte in favore del tutto, in virtù del principio di totalità, mancano » (o.c, pp. 290-291). Questi casi (nei quali una nuova gravidanza si presenta pericolosa ma non son permessi né questo né altri mezzi ordinati ad impedire la fecondazione) sono certamente pietosi perché — specialmente per sposi giovani — possono importare sacrifici anche eroici (d'una continenza « periodica » o completa). Solo la grazia di Dio può dar la forza d'una perseverante fedeltà alla legge morale.

Secondo Pio XII il trapianto d'un organo da uomo (vivo) ad uomo non sarebbe mai lecito perché l'uomo non è proprietario indipendente del suo corpo ma solo usufruttuario e deve farne l'uso conforme ai fini della natura. Solo quando fosse necessaria al bene totale del proprio organismo, sarebbe lecita ad una perso­na la mutilazione d'un suo organo. Il movente della carità non giustificherebbe quindi la donazione d'un organo perché il dona­tore disporrebbe d'un bene non personale senz'averne il diritto. Si potrebbe addurre la ragione che (similmente alle membra rispetto all'organismo) gli individui possono considerarsi parti e membra di quest'organismo che è l'umanità: ma questa ragione

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Secondo il Pontefice non vale perché fra membra ed organismo d'un individuo c'è un'unione fisica e le membra sono talmente assorbite dal tutto da non avere alcuna indipendenza, non esisto­no che per l'organismo e non hanno altro fine che il suo. Gli uomini invece hanno una unione solo morale fra di loro: c'è dun­que una differenza essenziale fra questi due tipi d'organismi. Né, secondo Pio XII, questa essenziale differenza è tolta pel fatto che nella comunità cristiana ogni individuo è membro del Corpo Mistico: pur in questa interiore soprannaturale comunione e con­giunzione, ogni individuo conserva la propria sussistenza e perso­nalità, ciò che non godono le membra d'un corpo fisico che sono unicamente destinate al bene di tutto l'organismo (cfr. Disc, ai partecip. all'VIII Assemblea dell'Ass. Med. Mond. 30.IX.54, o.c, pp. 359-360; Disc. all 'Ai. Donatori della Cornea, 14.V.56, o.c, pp. 460-462). Ciononostante possiamo ritenere che la Chiesa non si sia ancora ufficialmente pronunciata sulla questione. E l'opinione dei teologi che ammettono la liceità del trapianto resta (almeno per la loro autorità) probabile (cfr. A. Van Kol, Tb. Mor., Herder, 1968, I, pp. 686-688, con gli scritti, ivi citati, « prò » e « contro »). Giacché — si noti bene — nessun moralista ritiene permesso un trapianto che sacrifichi l'integrità sostanziale del donatore sopprimendo totalmente un organo od una funzione, ma alcuni non riprovano l'asportazione di un organo gemellare — rene, occhio, ovaia — appunto perché il donatore rimane anco­ra con uno e non perde una funzione organica. In pratica, dunque, non si devono inquietare coloro che spontaneamente offrono un organo per salvare altre persone. Anzi, una volta ammessa la licei­tà del trapianto, bisogna logicamente affermare che chi si sacrifica cosi per il prossimo compie un atto eroico di carità. Naturalmente, all'atto pratico, per giudicare la moralità e convenienza concreta d'un trapianto bisogna attendere a tutte le circostanze: per esempio se lo stesso effetto non si possa ottenere prelevando la cornea, da un morto subito dopo il suo decesso; c'è da conside­rare il danno che il donatore può subire nella sua vita, attività, doveri verso altre persone, il risultato prevedibile dell'operazione e lo stato del donatario. Su ciò il medico illuminerà le due persone interessate di modo che prendano la decisione, sotto ogni aspetto, più consigliabile.

5. Il medico che conosce sufficientemente la teologia morale, saprà ben distinguere il consiglio dal precetto. L'uso d'un diritto,

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oppure di certi medicinali, alle volte può esser sconsigliabile: il che non significa però assolutamente illecito dal punto di vista morale. Occorre pertanto discrezione; e per esser discreti, biso­gna sapere qual è l'esatta soluzione dei vari problemi. Ad esempio, a fidanzati può essere sconsigliato un determinato matrimonio (si veda quanto fu detto sopra trattando di questa categoria di peni­tenti); a certi coniugati può esser sconsigliato l'uso del matrimonio qualora fossero affetti da gravi malattie contagiose od ereditarie. Però — precisava Pio XII ai partecipanti al I Simposio Intern. di Genetica Med. il 7.IX.53 — « sconsigliare non è interdire. Ci possono essere altri motivi, soprattutto morali e di ordine perso­nale che s'impongono fino a tal punto da autorizzare a contrarre e a usare del matrimonio anche nelle circostanze indicate », cioè anche chi è sicuramente affetto da gravi mah' ereditari. (Disc, ai med., pp. 269-270). Ed in uno dei suoi ultimi discorsi ai medici — il 12.IX.58 — ritornava sull'argomento e spiegava: « Il matri­monio è uno dei diritti fondamentali e intangibili della persona umana. Se si stenta talvolta a capire il punto di vista generoso della Chiesa, è perché si perde troppo facilmente d'occhio il pre­supposto che Pio XI esponeva nell'enciclica Casti Connubii sul matrimonio: gli uomini sono generati non anzitutto e soprattutto per questa terra e per la vita temporale, ma per il cielo e l'eternità. Questo principio essenziale sembra estraneo alle preoccupazioni dell'eugenetica. Tuttavia è giusto; ed è anche il solo pienamente valido. Pio XI affermava ancora, nella stessa enciclica, che non si ha il diritto d'impedire ad alcuno di sposarsi o di usare d'un matrimonio legittimamente contratto, anche quando, a dispetto di tutti i tentativi, la coppia è incapace d'avere bambini sani... » (AAS, 22, 1930, 564-565). Ed al quesito propostogli: « se dopo il matrimonio si constata la presenza del male mediterraneo nei due sposi, è lecito sconsigliare la prole? », Pio XII rispondeva: « Si può loro sconsigliare di avere la prole, ma non si può loro proibire ». Ed accennava alla posizione della Chiesa ed ai mezzi leciti che essa può suggerire (quando si sconsigli la prole): conti­nenza perfetta, metodo Ogino-Knaus, adozione d'un bambino {Disc, ai med., pp. 711-712). Difatti (come dicevo) sconsigliare la prole non può significare l'approvazione ed il suggerimento di mezzi che obbiettivamente violano l'ordine della natura.

Un altro campo nel quale bisogna chiaramente distinguere ciò che è lecito e ciò che sarebbe, in certi casi, il meglio consigliabile, è quello dei farmaci antidolorifici (usati o somministrati). Non

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c'è dubbio, è più perfetto sopportare generosamente il dolore, ma non è illecito il lenirlo e, se ci sono motivi (per esempio, di lavoro) può essere necessario e consigliabile. Per chi è in fin di vita è, per sé, più perfetto prolungare il tempo utile all'acquisto dei meriti senza ricorrere a sedativi che indirettamente provochino una qual­che accelerazione della morte. Però ciò non è illecito. E (se c'è causa proporzionata) non è proibito usare sostanze che comporti­no la perdita momentanea dell'uso della ragione (come comune­mente avviene per le operazioni chirurgiche dolorose). Discutono se ciò sia lecito nel caso d'un moribondo che si prevede non ricupererà più l'uso della ragione. Ora, se la sua anima è unita a Dio, non consta che gli sia assolutamente proibito lenire il dolore con la perdita forse definitiva della coscienza. Difatti non siamo

|: tenuti ad acquistare il massimo possibile di meriti. Tanto più che i dolori atroci possono diventare anche una prova pericolosa ed

\ una tentazione. Il Signore destinandoci ai dolori di questa vita | non ha affatto inteso di proibirci l'uso dei mezzi atti a lenirli. f- Ad Eva disse che avrebbe partorito nel dolore (Gen. 3, 16), ad

Adamo che con il sudore della sua faccia avrebbe mangiato pane l: (Gen. 3, 19): preannunciò quindi la sofferenza come un destino | della natura umana decaduta; ma Dio non intendeva, con questo, I proibire i mezzi per ridurre la fatica ed alleviare il dolore. Il I medico, da parte sua, se è veramente cristiano, oltre che coscien-I zioso, penserà (prima di somministrare una narcosi che può impe-1 dire al malato di riprender conoscenza prima della morte) ad I invitarlo « egli stesso o meglio ancora per mezzo di altri, a com-I piere prima i suoi doveri ». Comunque, se il malato persiste nel l chiedere la narcosi per cui esistano seri motivi, il medico può I consentirvi perché non si tratta di azione intrinsecamente cattiva, | che tenda direttamente ad abbreviare la vita (cfr. Pio XII ai I partecipanti al Simposio di anestesiologia, 24.11.57, Disc, ai Med.,

pp. 578-79). Il medico saprà dunque dire la sua parola di consi-l gHo, secondo i singoli casi, mostrandosi però consapevole che il

consiglio riguardante ciò che è meglio, non è, per sé, obbligatorio; , talora — ma non sempre — è preferibile a ciò che strettamente è i lecito. Perciò userà sempre discrezione e delicatezza tenendo pre­

sente — cosa ovvia in astratto ma non sempre ricordata di fatto — » che non tutti i pazienti hanno la stessa forza d'animo, lo stesso

coraggio, le stesse energie psichiche. Ad esempio, nel parto ordi-. nario sarebbe meglio che la madre rinunciasse ad ogni anestesia, É anche locale: meglio dal punto di vista sia igienico, sia ascetico.

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In tal senso una benevola parola di incoraggiamento sarà sempre utile perché nella donna partoriente, talora, più che il dolore, c'è la paura: e la paura ingrandisce il dolore. Ci sono però soggetti molto sensibili, emotivi, nervosi, eccessivamente impressionabili, donne che hanno la fobia del parto: in tali casi, concretamente, può esser meglio l'uso della narcosi (purché ci sia il controllo del medico). Dal punto di vista tecnico ed igienico si preferisce riservare l'anestesia generale (con perdita della coscienza) solo ai parti operativi. Ma dal punto di vista morale pare che i teologi siano larghi: una forte maggioranza la ritiene lecita anche nel parto normale purché il medico sia favorevole e vigili su ogni eventuale effetto dannoso. Dico lecita; non dico consigliabile.

Anche circa l'uso di certi mezzi che possono essere utili alla guarigione di un malato, bisogna distinguere quello che è obbligatorio e quello che è consigliabile. Sta il principio morale che — sia per noi sia nei riguardi degli altri ai quali carità ci lega — siamo obbligati ad usare solo i mezzi ordinari per la guarigione, non quelli straordinari (fra i quali rientrano, in genere, gli interventi chirurgici). Il medico non dimenticherà questo principio quando indicherà cure, operazioni, medicinali. Eviterà ogni indiscrezione: altro è proporre e suggerire, altro imporre e farne un obbligo di coscienza. C'è poi qualcuno che ha sempre lo scrupolo di non aver fatto abbastanza per tentare la salvezza d'un familiare ammalato. Bisogna tranquillizzarlo e liberarlo da questo irrazionale senso di obbligo e di colpa.

IV. La religione nella professione del medico cattolico 1. Quando un malato è in pericolo di morte il medico

cattolico saprà darne avviso discreto a qualcuno (o al malato stesso o, se prudenza vuole, a qualche altro che possa inte­ressarsi e provvedere con tatto) in modo che non sia privato dei sacramenti chi potrebbe riceverli. In certi casi difficili — anzi, abitualmente — quando il malato è in pericolo, il medico preoc­cupato della salute delle anime oltre che dei corpi, sentirà na­turalmente il bisogno di consultarsi e collaborare col sacerdote.

2. Lui stesso può esser chiamato ad amministrare il sacra­mento che fa cristiani ed apre alle anime le porte dell'eterna beatitudine: il battesimo. Deve saper non solo far battezzare ma, se necessario, prestarsi anche come ministro, al pari d'ogni altro cristiano (anzi, d'ogni altro uomo perché ognuno ammini­stra validamente il battesimo purché intenda fare ciò che fa la

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Chiesa, versi l'acqua sul capo o sulla fronte e pronunci le parole della formula: « io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo »). L'opera del medico, come ministro del sacramento, può esser richiesta, specialmente in certi casi diffi­cili. Ad esempio, quando, per grande difficoltà del parto, ci fosse grave pericolo che il bimbo muoia per asfissia, il medico può e dev'esser esperto a praticare il battesimo intrauterino (battesimo che, se il bimbo dovesse nascere vivo, sarebbe d# ripetere sotto condizione) (CJC, e. 746, § 5).

V. Rettitudine e serietà

1. Il medico eviterà ogni preferenza, ogni cedimento — per motivi di guadagno o di simpatia — di fronte all'illecito. A tutti le stesse cure e lo stesso servizio, la stessa cordialità e disponi­bilità: né sgarbate asprezze né pericolose debolezze. Si trova perciò nella necessità continua di controllare i suoi affetti ed istinti. L'esercizio della sua professione può offrirgli continue oc­casioni di peccato se manca l'amore soprannaturale del prossimo e la preoccupazione di ridonargli generosamente salute e felicità.

2. Esperienza insegna che anche nel personale di servizio — in ospedale od in ambulatorio privato — è frequentissimo, per non dire fatale, che il medico trovi tentazioni, non sempre facil­mente superabili. Alle volte si cede e Io scandalo diventa pub­blico. Altre volte una relazione si conclude col matrimonio (non sempre felice se i due sono di condizione, cultura, educazione com­pletamente diversa).

3. Dovere del segreto professionale (sia per i medici che per i farmacisti). Purtroppo alcuni, pur ottimi e religiosi, si permet­tono (per semplice loquacità e senza nessuna ragione giustificante) allusioni ai propri malati od alle loro malattie (cosa che il cliente non intenderebbe affatto permettere, sia che il medico manifesti reali e serie malattie, sia che, scherzando, le giudichi malattie immaginarie). Si noti, osservava Pio XII parlando all'U.I. Med. Biol. « S. Luca », il 12.IX.44, che il segreto professionale « deve servire e serve non solo all'interesse privato, ma più ancora al comune vantaggio. Anche in questo campo possono sorgere con­flitti fra il bene privato ed il pubblico, ovvero fra i diversi ele­menti e aspetti dello stesso bene pubblico; conflitti nei quali può riuscire talora estremamente difficile di misurare e pesare giusta­mente il prò e il contro fra le ragioni di parlare e di tacere ».

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Le norme etiche in proposito « affermano nettamente, soprattutto all'interesse del bene comune, l'obbligo del medico di mantenere il segreto professionale, non riconoscono però ad esso un valore assoluto; non sarebbe infatti confacente allo stesso bene comune, se quel segreto dovesse essere posto al servizio del delitto o della frode » (Disc, ai med., p. 53).

4. Al malato, il medico dovrà dire la verità sul suo male, se è interrogato? Per esser esatti ed anche positivi, penso che non debba farsi scrupolo pel fatto che le sue parole, prese alla lettera, nascondono quel che pensa o addirittura significano il contrario. Tutti sanno che simili risposte, considerate situazio­nalmente (cioè proferite da un medico) possono esser prese come restrizioni mentali. Si può chiedersi piuttosto se il malato abbia diritto di conoscere la verità (e tutti i moralisti dicono che se una persona ha diritto di conoscere la verità non si può fargli credere il contrario). Ora, astrattamente si: il malato, ricorrendo al medico, anzitutto lo fa per sapere il suo male; questo è dunque implicito in quella specie di contratto che si stipula fra professionista e cliente. Però, in concreto, il dovere di soddi­sfare un diritto suppone sempre che la domanda sia ragionevole: quindi se la conoscenza della verità fosse dannosa all'interessato, non ci sarebbe dovere di manifestargliela. Anzi, ci sono dei casi, diceva Pio XII nel discorso citato, nei quali il medico « non può manifestare crudamente tutta la verità, specialmente quando sa che il malato non avrebbe la fòrza di sopportarla » (Disc, ai med., p. 53). Però il medico cristiano pensa anche al bene spirituale del malato. Se questi fosse cullato in una sicurezza illusoria, quando non c'è più speranza, potrebbe rimandare (fino ad omettere) la sua doverosa preparazione alla morte (o.c, p. 53).

5. Problema particolarmente delicato: la concordata asten­sione dei sanitari dal lavoro, come protesta per le disagiate con­dizioni materiali ed il turbamento psicologico a cui la classe medica — specie le giovani leve — si trova esposta. Da una parte la Costituzione italiana concede ai professionisti il diritto di ricor­rere allo sciopero come a strumento per sostenere le proprie giuste rivendicazioni, dall'altra parte la Costituzione medesima riconosce ad ogni cittadino il diritto alla salute garantendogli ogni mezzo idoneo alla sua salvaguardia. Non c'è dubbio che l'astensione dal lavoro da parte del medico comporta sfavorevoli impressioni e ripercussioni nel malato, sul piano fisico e psicolo-

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gico: il medico ha una missione la quale deve ispirare senza riserve la sua attività e collocarla ad un livello non paragona­bile a quello d'un qualsiasi prestatore d'opera. D'altro canto, se c'è una carenza legislativa ed un'inefficienza da parte di chi è responsabile in sede governativa, anche questo va lamentato e denunziato. Ma bisognerebbe prevenire — mediante altri stru­menti offerti dalla legge — il ricorso ai mezzi estremi di lotta che sono dannosi all'ordine ed al benessere della comunità.

VI. Razionale tenore di vita

1. Alcuni medici sono talmente presi dalla loro attività pro­fessionale da non trovar più il tempo per la vita di famiglia. Bi­sognerebbe conciliare l'una con l'altra. Il lavoro non deve ecce­dere fino a dover sacrificare i pasti ed il riposo necessari. Altri­menti, un po' alla volta, verrebbe minacciato anche il buon umore, la serenità del professionista nell'esercizio della sua attività; con danno proprio e degli altri.

2. Per esser sempre disponibile e per dare l'esempio di quanto raccomanda agli altri, il medico eviterà ogni altro eccesso, per esempio nel mangiare e nel bere. Purtroppo anche fra i sani­tari si trova qualche padre Zappata che predica bene e razzola male. Ciò sembrerebbe impossibile se non sapessimo anche che, in certi casi, sono tanto complesse le situazioni e molteplici le scusanti.

19. Giuristi

Anche l'etica professionale del giurista presenta una tema­tica abbondante e sempre ricorrente. Possono sorgere questioni e casi sui quali il confessore sia chiamato a dire una parola, se non altro di orientamento. Mi limiterò a qualche cenno richia­mando i principi e la prudenza necessari ad un'applicazione dei principi che tenga conto di tutte le circostanze.

1. Sulla necessità dello studio continuo e della diligenza ri­chiesta sarebbe, press'a poco, da ripetere quanto è stato detto per il sacerdote che voglia esercitare fruttuosamente il ministero della Confessione, come giudice, maestro, padre, medico, amico, consigliere.

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2. Per l'avvocato — civilista o penalista — c'è il pericolo di sovraccaricarsi di pratiche (per una certa naturale tendenza all'ar­rivismo ed alla concorrenza). Ciò costituisce un'insidia alla dili­genza nel lavoro, può compromettere l'esito delle pratiche stesse (oltre che la salute fisica del legale). Egli deve mettersi nella di­sposizione di attendere ad ogni pratica come se fosse l'unica e l'ul­tima, in modo da concentrarvi con calma tutte le sue energie intel­lettuali e fisiche. Appena s'insinua l'ansia e la tensione perché sente d'esser impari agli impegni assunti, bisogna porvi rimedio: indirizzare i clienti ad altri colleghi o chiedere la loro collabo­razione.

3. Cerchi di prestarsi, per tutti coloro che a lui si rivolgono, con eguale premura, cortesia, giustizia, equità.

4. Sia pur per una certa leggerezza, e non per malizia, si danno professionisti che mancano al segreto d'ufficio. Nessun ob­bligo c'è invece se da parte del cliente che si confida è evidente la frode e l'intento di danneggiare o tradire un terzo innocente.

5. Non sempre il legale è tenuto a dire tutta la verità, né può farlo. Penso che la situazione stessa e la sua professione d'av­vocato fanno rientrare certe sue risposte e dichiarazioni fra le lecite restrizioni mentali (press'a poco come può negare di sapere una notizia chi l'ha ricevuta sotto forma di segreto: non la sa — si sottintende — di scienza comunicabile). Il confessore può sempre suggerire la regola generale: comportarsi come fanno gli altri onesti professionisti.

6. Inutile dire che il reo può sempre, per diritto naturale, negare d'aver commesso il delitto (anche in tal caso si ha una restrizione mentale giustificata dalla sua stessa condizione di imputato). Ed altrettanto può fare l'avvocato che parla in nome dell'imputato e lo difende in un processo penale. Ciò sarebbe lecito anche se venisse cosi accusato un terzo innocente. Purché però il suo danno sia solo indiretto ed accidentalmente occasio­nato. Non possono il reo (ed il suo avvocato) accusare diretta­mente un incolpevole per salvare il colpevole. L'avvocato civi­lista poi, se ha il culto della giustizia, rifiuterà una causa aperta­mente ingiusta, il patrocinio d'una rivendicazione evidentemente infondata. E quando si tratti di liti nelle quali ci sono ragioni a favore d'una parte e ragioni a favore dell'altra, dirà sincera­mente al cliente il suo parere sull'esito della controversia. Di massima, suggerirà (e darà il suo aiuto per ottenere) una equa

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composizione piuttosto che una causa di dubbio risultato. I pro­cedimenti legali possono esser dannosi ad entrambe le parti con­tendenti. A parte gli strascichi sul piano spirituale: rotture, odi, contrasti infiniti. In questo senso è saggio il proverbio: « meglio una magra composizione che una grassa sentenza ».

7. L'avvocato deve vivere la sua professione con un certo senso di ottimismo (altrimenti la vita diventerebbe impossibile, \ come, del resto, per tante altre professioni delicate). Da una parte \ non può essere uno spregiudicato che usa cinicamente tutti i mezzi pur di arrivare al fine, come purtroppo talora ci si permette: dietro lauto compenso si possono ottenere perizie false e testimo­nianze false e cosi procurare la sentenza desiderata. Un legale co­scienzioso non può, neppure appellandosi ad un'eventuale legge civile, patrocinare una causa che sa essere, per diritto naturale, apertamente ingiusta o disonesta. D'altra parte non deve imma­ginare e temere che per esercitare con successo la sua professione sia necessario rinunciare alla propria onestà. La sua professione non è intrinsecamente disonesta e non lo obbliga ad agire disone­stamente. Egli deve saper superare i dannosi conflitti psicologici: conservare la disposizione fondamentale alla probità ed alla lealtà ed, insieme, usare tutti gli accorgimenti, ed anche le sottigliezze, utili agli interessi del proprio cliente; egli saprà pure lucidamente distinguere ciò che è giudicato normale e lecito nella sua profes­sione (ad esempio certe convenzionali risposte con cui ha diritto di nascondere la verità) da ciò che non è giustificato dalla pro­fessione stessa, ma oggetto di una sua libera scelta (per esempio il patrocinare la causa d'un divorzista). E se una risposta (per nascondere la verità) può essere ritenuta una lecita restrizione mentale, si potrà pure — se siamo logici e coerenti — confer­marla col giuramento, qualora questo fosse richiesto. Si applica il principio del duplice effetto. La rettitudine, dunque, è raccoman­data all'avvocato. Ma egli deve anche disprezzare lo scrupolo e la perplessità, vincendo la tendenza all'indecisione. Deve esser pre­parato a constatare anche qualche suo sbaglio (che capita ad ogni professionista) senza cadere nella sfiducia e nella depressione. Un passo sbagliato, deve invece trasformarsi in motivo d'umiltà ed in fonte d'esperienza per l'avvenire e (se è il caso) in propositi di maggior ponderazione e diligenza. Bisogna vincere quel senso di pessimismo che può subentrare quando, dopo tanta fatica di ri­cerche, si vede le proprie conclusioni smentite dai fatti (infelice­mente ignorati o sottovalutati). Ogni avvocato si terrà preparato

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ad accettare la propria vita professionale come un'alternativa di vittorie e di sconfitte. Di fronte alla sentenza definitiva del magi­strato che proclama la verità (per quanto dolorosa) all'avvocato non resta che accettarla a farla accettare dal suo cliente: soprat­tutto egli è l'uomo della verità (anche se, nel processo penale, gli è sempre concesso difendere l'imputato).

8. A risolvere certe situazioni, tranquillizzare la sua coscienza e certificare le sue decisioni e prestazioni, il legale dovrà appli­care spesso il principio del duplice effetto. L'azione, per sua in­trinseca finalità, non deve esser direttamente ordinata al male (né come a fine né come a mezzo); l'intenzione del soggetto dev'esser retta e ci deve esser una causa proporzionata per permetter l'ef­fetto cattivo. Questo principio, ben conosciuto e rettamente ap­plicato, conforterà certe coscienze sensibili e delicate di profes­sionisti. È impossibile che dall'attività, anche onesta e giustifica-tissima, sia sempre esclusa la conseguenza indiretta di qualche ef­fetto spiacevole ed indesiderato. E questo principio sembra par­ticolarmente interessante la professione del giurista nel suo mol­teplice esercizio: accettazione di certe cause (con il pericolo e la conseguenza che qualche innocente venga danneggiato se l'avvo­cato riesce a difendere efficacemente l'imputato), atti e dichiara­zioni notarili, sentenze giudiziali... All'atto pratico, solo la pru­denza del professionista unita alla sua rettitudine, giudicherà se esiste o no la ragione proporzionata per porre un'azione che ha anche un effetto cattivo; e la delicatezza di coscienza suggerirà pure (a parte ciò che è strettamente lecito od illecito) anche quello che è il meglio secondo l'ideale della perfezione cristiana.

9. Nei consigli e nell'aiuto che dà ai suoi clienti in materia di giustizia, il legale distinguerà bene la stretta giustizia commu­tativa (la quale regola i rapporti fra persona e persona) e la giu­stizia legale o sociale. Quindi allorché si tratterà di sfuggire (senza usare mezzi illeciti) ad una pena per un reato, o ad una multa, di cercare, nelle notifiche, una riduzione d'oneri fiscali e di tasse (spesso enormi) egli potrà cooperare col suo cliente usando le solite astuzie e restrizioni mentali. Se è alle prime armi, un legale potrà, quando è incerto, ricorrere al criterio pratico di confor­marsi alla prassi di colleghi più anziani, esperti, onesti, religiosi. Lo potrà tranquillizzare anche il pensiero che lo Stato ha i mezzi di ottenere, in un modo o nell'altro, dai cittadini le prestazioni richieste od equamente dovute.

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10. Ma un legale trova pure nella sua professione l'occasione per confermare o suggerire in modo positivo (anche se delicato) — a chi si confida o chiede consiglio — certi valori morali forse dimenticati. Si pensi a certi atti come i testamenti ed i contratti (che rientrano nelle specifiche mansioni del notariato). \

11. Gli uomini della magistratura e della polizia giudiziaria, quanto più saranno retti e sensibili, tanto più avranno a soffrire perché saranno come lacerati da un inevitabile conflitto: da una. parte devono conformarsi alla legge e giudicare in base alle prove, dall'altra non possono ignorare quanto misteriosa sia la respon­sabilità del singolo: solo Dio la conosce. Certo la necessità di colpire con qualche punizione i trasgressori dell'ordine, se non altro in vista del bene comune, è compatibile colla disposizione a vedere in ogni giudicabile un fratello infelice che, forse per igno­ranza e debolezza, si è lasciato travolgere dalla passione o trasci­nare al male, ed ha bisogno di comprensione, compassione ed aiuto per risollevarsi e redimersi. Bisogna evitare sia quella seve­rità di giudizio interiore che si esprime nell'implacabile condanna e non vede che la colpa senza attenuanti, sia quel fatalismo morale che discolpa ogni reo come un tarato, o, quanto meno, un essere che è determinato nel suo volere dalla sua stessa struttura fi­siologica.

12. È necessario che l'uomo di legge tenga sempre vivo l'ideale che lo ha spinto a scegliere questa professione. Qualora il motivo della sua attività diventasse solo l'interesse personale, egli degra­derebbe la professione e non vi troverebbe più le pure soddisfa­zioni dello spirito. Deve vederla come una missione a servizio dell'umanità sofferente. Tante persone battono alla porta del suo studio pallide, perplesse, tremanti. Per tutte egli può trovare la parola che ridona la fiducia. Implicitamente egli promuoverà il bene comune, il trionfo della giustizia; però è indiscussa, sotto un certo aspetto, la priorità di rispetto per la persona singola. Ciò vale pel giurista come pel sacerdote al quale il giurista viene imme­diatamente dopo (cfr. G. Pasquariello, Principi di etica nelle pro­fessioni giuridiche, Roma, 1943, p. 71).

13. Nonostante l'apparenza, fra gli uomini di legge c'è meno rivalità e più simpatici rapporti che fra i colleghi di qualche altra professione, come quella medica. Il giovane legale deve formare in sé una disposizione psicologica piuttosto particolare nei con­fronti dei suoi colleghi: a scontri vivaci, ad arringhe dal tono ag-

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gressivo devono subentrare, con naturalezza abituale, gli incontri sul piano dell'amicizia umana improntati ad una superiore cor­dialità. Si può esser insieme e contraddittori ed amici e collabo­ratori (Pasquariello, o.c, p. 74).

14. Per quanto riguarda in particolare il giudice esiste la classica questione se egli debba sempre agire « secundum acta et probata » oppure, in qualche caso, secondo il suo personale con­vincimento. Bisogna distinguere tra cause civili e cause penali. Nelle cause civili, quando si tratta di dimostrare dei fatti (sui quali fondare un diritto) questi esigono delle prove. E la legge può stabilire che qualche prova, anche se valida, come la testi­monianza di parenti dell'interessato, non serva (affinché, in or­dine al bene comune, sia esclusa ogni possibile parzialità). Quando il dubbio riguardasse il diritto, in un determinato caso, ed en­trambe le parti avessero press'a poco uguale probabilità a loro favore, è consigliabile che il giudice le inviti a venire ad una pacifica composizione: ci sarà minor responsabilità per lui e più vantaggio per entrambe le parti, sotto ogni riguardo. Se però non accettassero l'intesa amichevole ma preferissero la sentenza che dirima la controversia, allora il giudice la può proferire se­condo la libertà concessagli dal diritto naturale e da quello civile. Si pronuncerà naturalmente a favore della parte che ha titoli più probabili di diritto. Cosi pure in una controversia circa il diritto di proprietà su una cosa, applicherà il principio « la presunzione sta per chi la possiede di fatto », a meno che l'altro non presenti ragioni notevolmente più forti, perché allora la soluzione del caso non è del tutto chiara.

In una causa penale è evidente che il giudice non può con­dannare chi solo per scienza privata sa esser reo ma non perché è risultato tale per dimostrazione basata sulle prove richieste. E se per scienza privata sapesse esser innocente chi stesse per esser condannato in base a fatti che sembrano costituire un complesso di indizi evidenti e sono invece dovuti a pura combinazione casuale, ed in base a testimonianze reali ma non vere, non sin­cere? In tale caso si avrebbero delle prove che figurano valide ma in realtà non lo sono per un qualche errore o insincerità sempre possibile fra gli uomini. Ora, sul comportamento doveroso del giudice si discute fra i teorici del diritto. C'è chi, in linea di massima, propende per la sentenza giudiziale corrispondente alle prove (perché sia scongiurato ogni pericolo d'illusioni a cui è esposto il libero convincimento). Ad altri la condanna d'un inno-

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cente pare assolutamente contraria al diritto della persona e quindi intrinsecamente cattiva. Data la discussione, al giudice è lasciata una zona di libertà. È evidente però che egli userà tutti i mezzi per salvare l'innocente quando il suo convincimento è fondato, sicuro, deciso. Non sempre però può agire liberamente (quando, ad esempio, il giudizio spettasse anche ai giurati); se il giudizio fosse collegiale cercherà il mezzo più efficace per ottenere aie l'innocente sia salvo. Se non gli è data la possibilità di salvarlo procurerà almeno che gli sia inflitta la minor pena.

15. Fondamentale dovere del giudice è l'imparzialità e l'in­dipendenza da ogni influsso politico poiché egli è « soggetto sol­tanto alla legge» (Costituzione Ital., art. 101). Non sono man­cati i magistrati capaci di barattare la loro indipendenza con un tornaconto personale; come, del resto, non son mancati quelli che non si sono piegati di fronte a nessuna intimidazione ed hanno difeso fino in fondo la loro libertà di giudizio (cfr. M. D'Addio, Politica e Magistratura, Milano, 1966, doc. n. 24).

20. Commercianti

Se con questo termine s'intende tutti coloro che hanno parte in qualche contratto — cioè tutto il mondo degli affari — la materia è vastissima e le applicazioni (coi relativi casi morali) senza numero. Oltre al commerciante si dovrà poi trattare del commercialista che è il dottore in materia commerciale, il quale presta la sua consulenza e la sua opera per aiutare i clienti a risolvere difficoltà o far valere diritti, stipulare contratti nel modo più vantaggioso (ma anzitutto con onestà).

In questo immenso campo di problematica morale e di casi­stica bisognerà limitarsi a qualche cenno sui doveri circa i quali il professionista in materia di commercio dovrà interrogarsi. Ma, se vorrà riflettere con serenità e sincerità sulle sue azioni, in genere — tolto qualche caso difficile o dubbio — avrà chiaro il senso del lecito e dell'illecito.

I teologi medioevali davano un giudizio piuttosto negativo sull'attività commerciale sotto il profilo morale (cfr. s. Tommaso, II-II, q. 77, a. 4). Oggi tutti la ritengono utile e necessaria. Come l'attività dei produttori, cosi quella dei rivenditori e dei commer­cianti, rientrano nella divisione delle professioni disposte dalla

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Provvidenza e servono a render più ordinata, spedita e sicura la prassi delle contrattazioni e degli scambi, contro i rischi o le immobilizzazioni a cui kT smercio dei prodotti potrebbe andar incontro. Quindi la professione dei commercianti è una profes­sione « d'alto valore morale » diceva Pio XII il 5.IX.53 ai parte­cipanti al XXVII Corso economico della Società Internazionale per l'insegnamento commerciale (Disc, e Radiom., Ed. Vat., XV, p. 275); una professione che « rende un vero servizio >• ai clienti. Una professione pertanto onorevole, degna di rispetto e sopran­naturalmente meritoria se si sa vederla nella sua alta finalità di servizio sociale e non solo come un mezzo di lucro. Certo non sarà facile per il commerciante che non abbia una profonda vita inte­riore, avere questa visione superiore della propria professione poiché il mondo del commercio è quanto mai dissipante, tutto dominato dalla pubblicità e dall'esteriorità che non favoriscono certo le calme riflessioni ed elevazioni dello spirito. S'aggiunga (più che in qualche altra professione) l'occasione (talora facile) di forti guadagni, e quindi il miraggio, la brama, la tensione per rea­lizzarli. Sarà necessario uscire, ogni tanto, dal frastuono e dal vortice del mondo degli affari, sospendere la giostra dei numeri, delle macchine e delle calcolatrici per ricuperare o ravvivare il senso d'altre realtà che corrono il rischio d'esser dimenticate per sempre. Ma, oltre ad esser dissipante per lo spirito, di fatto la professione del commerciante si presta quanto mai, sul piano della giustizia, alle frodi, di brogli, agli inganni, alle irregolarità. E su questa realtà pratica diamo atto ai moralisti medioevali. Ma questi sono disordini che provengono dal cattivo esercizio che gli uomini fanno del commercio e non da un'intrinseca immoralità della stessa attività commerciale. Perciò il commerciante deve formarsi una coscienza sicura in modo da distinguere nettamente il lecito dall'il­lecito. Senza ignorare che certi comportamenti possono non costi­tuire un reato per violazione della stretta giustizia commutativa o della legge ma non esser conformi alla carità ed ai postulati della giustizia sociale (perché, oltre al rapporto giuridico privato che intercorre fra persona e persona c'è anche il bene comune da considerare). Formarsi una coscienza sicura e non avere (come certuni dicono) la persuasione (forse subconscia) che, per eserci­tare efficacemente il commercio, bisogna liberarsi dagli scrupoli morali. No. Bisogna avere l'esatta percezione di ciò che è certa­mente immorale e di ciò che può esserlo solo apparentemente. Certe dichiarazioni e risposte (con cui, per esempio, si nascondono

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i difetti della merce) vanno giudicate situazionalmente. Proferite fra commercianti, sensali, mercanti, possono aver l'apparenza della frode, però è un linguaggio reciprocamente capito e non creduto; proferite di fronte ad un semplice, ingenuo, ignorante, ad un ragazzo — cioè a chi non è del mestiere e ripone nel commerciante tutta la sua fiducia — possono essere un vero inganno. Lo terrà presente anche chi, ad esempio un banchiere o un finanziere, con­siglia una persona che desidera e chiede di fare un buon investi­mento di danaro. Altro esempio: un commerciante, in base ai principi etici, saprà giudicare che altra è la valutazione morale sull'operato di un editore che lancia sul mercato stampa nociva, ed altra quella d'un semplice operaio di tipografia. I principi da applicarsi sono quelli della cooperazione e del duplice effetto.

I. Dopo quanto ho premesso circa la moralità della profes­sione del commerciante, richiamo alcune norme orientative gene­rali, sia pel penitente sia pel confessore che dovesse consigliarlo in questa materia.

1. Bisogna attendere non solo alle esigenze del diritto morale naturale, ma anche alla legge civile. La quale, quando, in materia di giustizia commutativa, conferma od applica in modo determi­nato ed al caso concreto lo stesso diritto naturale, allora obbliga sostanzialmente in coscienza, anche prima della sentenza del giu­dice. Se invece la legge civile restringesse il diritto naturale (ad esempio ritenendo invalido, per mancanza d'una pura formalità, un contratto che, per sé, è certamente valido secondo il diritto naturale), allora l'obbligo (giustificato da un motivo di bene co­mune e d'ordine pubblico) ci sarebbe solo dopo la sentenza del giudice. E se la parte che ha il favore della legge intendesse « agi­re » per far valere il suo diritto, è ovvia la convenienza che l'altra parte eviti un procedimento giudiziario il cui esito è scontato.

2. Il confessore cercherà d'avere una sufficiente conoscenza del diritto civile, quale — un tempo — era fornita dalla scuola di teologia morale. Oggi l'importante trattato sui contratti da parte di molti docenti disinvoltamente si ignora e si omette. Ma qualche conoscenza del codice civile servirà al confessore se non altro perché dubiti sulla soluzione di qualche caso difficile che gli è presentato e non dia risposte affrettate ed errate per ignoranza e con leggerezza. Non si arrogherà tuttavia il compito di consu­lente legale. Se la soluzione del caso non è chiarissima e sempli-

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rissima, è sempre bene, per la parte giuridica, consigliare l'inte­ressato a rivolgersi ad un perito in diritto o commercio.

3. Per la parte morale, in certi casi, bisogna pure andar adagio a pronunciarsi, sia perché qualche volta la situazione è complessa (e non si può, li per li, esaminare e pesare tutti gli aspetti e le circostanze) sia perché bisognerebbe sentire anche l'altra cam­pana. Perciò il confessore, se non si sentisse di dare, sul momento, una risposta sicura, può intanto assolvere il penitente che è di­sposto a fare quanto, in base alla legge, il confessore gli dichia­rerà doveroso.

4. In genere — e specialmente nei casi intricati o dubbi — conviene che, sia il confessore, sia il legale, sia il consulente com­mercialista, cerchino di persuadere l'amichevole composizione fra le due parti in contesa. Per tante ragioni. Cosi, quando si tratta di risolvere certi dissesti finanziari e fallimenti, si tenterà la via conciliativa.

5. Con chi vanta certi diritti non ovvi, il confessore sia cauto nell'affermare stretti obblighi di giustizia dell'altra parte, e tanto meno nel permettere occulte compensazioni. Ad esempio, a pro­posito di donazioni, bisogna distinguer bene il proposito dalla promessa. Il proposito (anche se espresso) non vincola la libertà, non induce nessun obbligo e si può sempre mutare. La semplice promessa, in sé, astrattamente considerata, induce solo un obbligo in virtù della fedeltà, un obbligo leggero. Potrebbe indurre un obbligo di giustizia (e nell'altra parte un diritto ed allora indur­rebbe un vero contratto unilaterale) ma ciò non si presume pel solo fatto che uno promette qualcosa: occorrono particolari circo­stanze che accertino l'intenzione del promettente d'obbligarsi per giustizia, come sarebbe una dichiarazione fatta con speciale solen­nità per iscritto od alla presenza di testimoni. Potrebbe obbligare per giustizia una promessa rimuneratoria fatta ad una persona, ad esempio, per lavori straordinari non sufficientemente retribuiti. Ma anche in tali casi il confessore consigli che chi vanta diritti (perché crede di non esser stato sufficientemente compensato) avanzi le sue richieste con garbo e pacificamente. Le occulte com­pensazioni, poi, sono sempre pericolose.

II. Obblighi particolari riguardanti la professione del com­merciante.

1. S. Alfonso {Pratica del Conf., n. 55) propone come primo punto su cui il « negoziante » dovrà interrogarsi la questione: « se

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ha imbrogliato nel peso e nella misura ». Difatti questo sarebbe i un grave abuso, una prassi che i compratori mai presumono, che ripugna, che rende odioso il venditore. /

2. Nel contratto di compra-vendita c'è poi la questione spi­nosa dei difetti, o vizi, della merce. Se sono sostanziali — come quando la materia fosse completamente diversa da quella richiesta, oppure nociva od inutile all'uso a cui è destinata od al fine mani­festato dal compratore — allora il contratto sarebbe per diritto naturale nullo e per diritto civile (CCI, aa. 1490-1495) rescindi­bile. Può essere che i difetti, anche se non proprio sostanziali, siano tali da diminuire notevolmente il valore — e quindi il giusto prezzo — della cosa: il venditore ha allora il dovere di manifestarli, almeno se è interrogato e se sono occulti e non facilmente riconoscibili, pena il diritto del compratore alla re­scissione del contratto (secondo il diritto naturale e secondo il diritto civile italiano). Questo in linea di stretto diritto rivendi­cabile dal compratore. Ma un venditore onesto cerca di comporre in modo equo, gli interessi propri e quelli del compratore, specie quando questi fosse un ingenuo, un ignorante in materia di con­tratti, un ragazzo mandato dai genitori o dal padrone, un com­pratore che dichiara di affidarsi alla lealtà del venditore.

3. Altra questione interessante venditori e rivenditori è quella del prezzo giusto. S. Alfonso la poneva come secondo punto su cui un negoziante deve interrogarsi: « se ha venduto più del prezzo supremo, specialmente nel dar la roba a credenza (ad creditum), quando le persone erano sicure e non v'era suo danno » (Pratica del Conf., 55). Oggi però si ritiene lecito il vendere a maggior prezzo la merce quando si concorda di dilazionare il pagamento, perché questa dilazione è un mutuo (implicito) dal quale è lecito ottenere un lucro moderato che non può quindi esser qualificato come usura propriamente detta, cioè illecita.

Il discorso sul giusto prezzo sarebbe lungo ed altrettanto at­tuale. È da premettere che, anche se la legge civile (CCI, a. 1474) permette nelle contrattazioni la libertà di prezzo (salva la facoltà di rescissione da parte di chi è vittima di violenza o dolo, aa. 1434; 1439), non per questo si deve ritenersi liberi dalle esigenze della, legge morale naturale. Per certi generi o determinate prestazioni (dai medici ai tassisti) od in particolari tempi d'emergenza, c'è, in qualche paese, il prezzo « legale ». Dal momento che il legislatore si decide a non lasciare la determinazione del prezzo all'arbitrio

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dei privati, si deve presumere che abbia esaminato bene la situa­zione. Senonché « calmiere » e « tariffe » sono sempre osservate come dovrebbero essere? A parte qualche caso eccezionale: ad esempio, in tempo di guerra non si poteva condannare qualche contadino che nel vendere qualche prodotto della sua campagna chiedeva un po' di più del prezzo di calmiere per poter compe­rare qualche altro genere necessario (un po' di cuoio per le scarpe) che non si trovava sul mercato. Ma non si poteva non riprovare chi, pur possedendo mezzi economici in grand'abbondanza, faceva il mercato nero, vendeva a prezzi elevati prendendo pel collo i bisognosi.

Quando non è determinato il prezzo legale bisogna attenersi a quello « di mercato », detto anche « comune » (perché comune­mente vien stimato come giusto). Ha però un notevole aggio per­ché per la stessa merce e nello stesso luogo e tempo, ci può esser un prezzo « massimo », « medio » e « minimo ». Difatti una determinazione matematica non è possibile, tanto più se la merce non è proprio la stessa, anche se sembra la stessa. Evidentemente negli alimenti comuni e nelle cose necessarie è ammissibile una minore oscillazione fra prezzo massimo e prezzo minimo. Se il venditore eccedesse notevolmente il prezzo massimo e mettesse il compratore nella pratica necessità di fare simile contratto (o, viceversa, i compratori mettessero il venditore nella necessità di scendere notevolmente sotto il prezzo minimo) allora il contratto sarebbe ingiusto e la parte lesa avrebbe diritto ad essere reinte­grata. Se, ad esempio, al mercato, i compratori, d'accordo coi sen­sali, facessero credere al venditore che una bestia è finita e da macello ed il proprietario la cedesse ad un prezzo notevolmente inferiore al minimo, allora il contratto sarebbe nullo per diritto naturale; sarebbe rescindibile secondo il diritto civile se si di­mostra che l'errore del venditore è stato causato dolosamente dal compratore.

Nel caso dei rivenditori, se è giusto che essi smercino la roba ad un prezzo superiore a quello secondo il quale l'hanno acqui­stata dal produttore (o dal venditore all'ingrosso) quello che in definitiva si richiede è la discrezione. La quale non sempre è osservata. Ci sono rivenditori di frutta che la comperano in cam­pagna (ove qualche anno c'è sovrabbondanza) ad un prezzo irri­sorio e poi la vendono in città ad un prezzo altissimo a gente che è nella pratica necessità di comperarla.

Il prezzo può esser alzato oltre il limite quando il venditore

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non alienerebbe il mobile o l'immobile, perché ha per esso spe­ciale affezione ed il prezzo maggiorato è consapevolmente e pacificamente concordato tra i due contraenti. La vendita spon­tanea, invece, svaluta la merce (in caso di morte, fallimenti, tra­slochi, liquidazioni, aste). Carità però può suggerire di osservare anche in tali situazioni da parte dei compratori, una certa discre­zione: di non sfruttare, ad esempio, con proprio vantaggio ecces­sivo, lo stato di necessità di chi è caduto nella povertà, in seguito ad un infortunio finanziario.

Come la dilazione del pagamento cosi l'anticipo possono inci­dere sul prezzo della merce.

Quando non esiste né il prezzo legale né quello comune per­ché si tratta di roba usata od estremamente rara o molto preziosa, allora è lecito il prezzo « convenzionale ». Nel quale c'è più li­bertà. Ma la libertà, anche in tal caso, ha un limite imposto dalla ragionevolezza. Soprattutto non è lecito abusare dell'igno­ranza dei semplici carpendo, a prezzo apertamente inadeguato, qualche loro oggetto di valore od antico, od opere d'arte che cer­tamente potranno esser rivendute ad intenditori secondo un prez­zo di gran lunga superiore.

Alle volte, anche per oggetti che hanno un prezzo comune, capita che il rivenditore approfitta della buona fede del com­pratore (specie di turisti stranieri) per alzare il prezzo e realiz­zare cosi qualche guadagno straordinario. Si giustificano dicendo che altrimenti non si vive, bisogna chiuder bottega perché si vende poco. Siccome il rivenditore non è vero rappresentante della Casa produttrice (dal quale ha comperato gli articoli) perciò, tutto considerato, se ci sono motivi seri per effettuare questo rialzo di prezzi, non si potrà condannarlo. Neppure approveremo, però, positivamente siffatti sistemi per non indurre il pericolo che taluni superino, senza più scrupoli, i limiti della discrezione.

I rivenditori devono esaminarsi sul ritardo eventuale (ed alle volte sistematico) nel pagare i fornitori.

4. S. Alfonso (Prat. del Conf., n. 57) fa il caso d'un « sen­sale » e d'una « venditrice », cioè di coloro che ricevono dai pa­droni qualcosa da vendere (servi, castaidi, commissionari agenti) e si domanda se possano tenere per sé quanto, nell'affare che sono riusciti a realizzare, supera il prezzo-base che il mandante ha fissato come accettabile. E risponde che non è lecito (eviden­temente, a meno che il padrone non l'abbia espressamente con­cesso): non è lecito, secondo il santo, neppure se il padrone

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aveva determinato il prezzo che desiderava, perché con questa determinazione dichiarava di non accettare che la merce fosse venduta ad un prezzo inferiore e non già che l'avanzo eventuale poteva tenerselo il sensale. Si può eccettuare il caso in cui il man­datario abbia usato diligenza e fatica straordinaria, recandosi in un luogo più lontano, con relative spese speciali: allora secondo s. Alfonso potrà trattenersi non tutto l'avanzo ma ciò che cor­risponde alla sua fatica e spese straordinarie. Comunque queste occulte compensazioni, anche se possono considerarsi come una equa retribuzione, non sono esenti da qualche pericolo: se il padrone venisse a conoscere l'operato del suo mandatario potreb­be giudicarlo non di buon occhio perché non limpido ed aperto.

Chi è incaricato da un'impresa di fare acquisti di una merce può preferire quella ditta dalla quale riceve una mancia. Ma è assolutamente immorale concordare col fornitore ed usare il si­stema della doppia « fattura » che permette all'agente dell'im­presa d'intascare sistematicamente uno sconto e di nasconderlo al suo principale. Tanto più che una ditta che si presta a questi espedienti, lo fa spesso per smerciare prodotti più scarti di quelli forniti da altre ditte. Ma imbrogli di questo genere se ne fan molti nel commercio. C'è qualche autista che arriva ad accordarsi col meccanico per far credere al suo padrone che la macchina aveva dei guasti gravi, di fatto inesistenti.

5. Questioni possono sorgere (da considerarsi e risolversi non solo in base alla legge civile ma anche sotto il profilo morale) in seguito alla svalutazione monetaria, la quale incide nei contratti di prestito, nelle locazioni, nei vitalizi e via dicendo. Bisognerà esaminare caso per caso con senso umano e cristiano e risolverlo alla luce dell'equità e della discrezione, di modo che né l'una né l'altra parte abbia a subire un sacrificio eccessivo ed esser la sola sacrificata. Ipotizziamo il caso d'un inquilino che è commer­ciante e nuota nell'abbondanza e si limita a pagare al proprietario (il quale forse stenta a vivere, per un complesso di circostanze sfavorevoli) un miserabile canone di affitto: di fronte alla legge sarà a posto ed al sicuro, ma equità e carità gli possono sug­gerire una discreta generosità.

6. Penso non sia inutile l'invito ad interrogarci sul ri­tardo (tanto frequente) nel saldare le « fatture » a privati com­mercianti i quali non possono valersi, come lo Stato, del diritto di tassare chi è in mora. E fra parentesi ricordo che, siccome anche il semplice prestito d'un oggetto è una specie dd contratto,

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ognuno può chiedersi se ha l'abitudine di conservare troppo a lungo ciò che ha ricevuto, fino, forse, a dimenticarsi di restituirlo.

7. Per concludere mi rifaccio a quanto ho detto all'inizio: quella del commercio è una professione che si presta ai com­promessi colle esigenze della giustizia: « ...occorre oggi una grande fermezza di principio ed energia di volontà per resistere alla diabolica tentazione del facile guadagno che specula igno­bilmente sulle necessità del prossimo, piuttosto che guadagnare la vita col sudore della fronte » (Pio XII, Disc, e Radiom., Vili, p. 305). Ebbene, al commerciante cristiano bisogna additare una vetta più alta che al semplice uomo onesto. Egli deve vedere la sua professione come esecuzione della volontà di Dio e collabo­razione all'opera della Provvidenza nel mondo. Cercherà allora non solo di non mancare in quello che è strettamente necessario; non si chiederà solo se il suo agire è una violazione della giu­stizia, se è peccato grave o leggero. Ma cercherà di curare i propri affari con diligenza, esercitando la vita soprannaturale ed i doni dello Spirito Santo, interpretando, per quanto è possibile, anche i desideri di Dio e tendendo cosi verso la santità.

21. Commercialisti

La professione del dottore commercialista (laureato in scien­ze economiche o commerciali) e del ragioniere ha assunto ai nostri giorni molta importanza. Trova un campo d'attività vastissimo. Ma richiede competenza, oltre che nel campo dell'economia, del commercio e della finanza, anche in quelli del diritto, dell'agri­coltura, dell'industria. Può essere un servizio molto benefico (ol­tre che molto redditizio) se esercitato da chi si coltiva collo stu­dio, usa diligenza e si presta con generosità ad aiutare chi ha bisogno di consiglio e d'assistenza. Ma dovrà curare il suo con­tinuo aggiornamento per esser a conoscenza delle leggi civili riguardanti, ad esempio, i salari, i licenziamenti, gli orari di la­voro, il riposo settimanale, le ferie, le assicurazioni. E poi ci sono i trattati — di indirizzo sia scientifico, sia pratico — che non si devono mai abbandonare o trascurare.

Servizio benefico, anzi una missione di bene può diventare quella del commercialista. A lui ricorrono uomini e donne ac­casciati sotto la minaccia d'un dissesto finanziario che può com-

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promettere la serenità della stessa vita spirituale. Hanno bisogno di trovare nel consulente non solo l'esperto, ma un uomo di cuore che comprende ed infonde coraggio. Con tutti mostrerà sensibilità, gentilezza, cordialità (discreta però, perché anche una certa riservatezza è da osservare).

Ogni questione che gli vien presentata saprà considerarla glo­balmente: sotto l'aspetto morale, giuridico, pratico, in modo da poter dare, alla fine, un concreto suggerimento: ciò di cui il cliente ha bisogno. Per esempio, farà noti i possibili inconve­nienti d'una omessa registrazione o di una denuncia non obbiet­tiva (lasciando poi che il cliente si regoli come crederà).

1. Il commercialista non deve partire dal presupposto che, per esercitare nel modo più efficace la sua professione sul piano umano, naturale, tecnico, sia necessario prescindere dalla morale applicando (male) il detto: « gli affari sono gli affari ». Pertanto se, ad esempio, cura gli affari d'una società, «ditta, amministra­zione, cercherà evidentemente di fare gli interessi di questo ente. Però in ogni vertenza e controversia sentirà il bisogno di con­formarsi agli imperativi morali e di rispettare la giustizia. Impar­zialmente, quando queste esigenze siano indubbie. Perciò — in modo garbato ma fermo — rifiuterà di sostenere il ricco ed il potente (neppur quando si può avere il sostegno della legge civile) qualora venga cosi lesa apertamente la giustizia o la carità verso il povero. D'altra parte, quando non si tratta di suggerire positivamente un comportamento contrario alla morale, ma di qualche obbligo di coscienza che un cliente obbiettivamente avrebbe, il consulente terrà presente la regola suggerita anche al confessore: bisogna esser cauti nel turbare la sostanziale buona fede di chi, ammonito, non si deciderebbe — lo si prevede — ad eseguire quanto dovrebbe. A meno che l'obbligo non sia cosi ovvio da escludere la buona fede.

2. Il commercialista incaricato del controllo e della revisione dei bilanci di una ditta, non può lasciar passare le irregolarità per non creare contrasti, per evitare incomodi e complicazioni, adducendo la ragione che la vera e maggiore responsabilità è d'altri. Per ufficio e giustizia egli è tenuto proprio a snidare gli errori, i trucchi, le omissioni, le registrazioni fittizie, tutte irre­golarità spesso abilmente dissimulate. È appunto questo il suo compito. Altrimenti non farebbe che confermare contro coscienza l'operato di chi ha presentato bilanci falsi e addomesticati (cf.

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G. Pasquariello, II commercialista, Roma, Studium, 1946, pp. 84-86).

3. Deve esercitare la sua professione con la giusta equilibra­ta diligenza (proporzionata all'importanza delle singole pratiche). Accettare incarichi che siano superiori alle proprie forze è dan­noso in tutti i sensi. E nessuna pratica sbrigata con precipitazione lascerà soddisfatti.

4. Come il confessore, così il consulente commercialista di­mostrerà prudenza ed umiltà (che non compromette, anzi, la sti­ma che gode) se, di fronte ad un caso della cui soluzione dubita, si prenderà tempo per riflettere e dare poi una risposta chiara e sicura. Perciò (sarebbe inutile il dirlo) non si affiderà mai solo al suo intuito personale per risolvere i casi complessi: s'infor­merà accuratamente (se non l'ha fatto) su quanto insegnano in materia i più stimati autori e (se resta qualche dubbio) chiederà cosa ne pensano altri commercialisti suoi colleghi.

5. Diligenza, ordine, esattezza: piccole virtù quanto mai apprezzate in questa professione. C'è, ad esempio, chi ha l'abitu­dine di farsi sempre aspettare, di non esser mai puntuale agli appuntamenti, di intervenir al colloquio senza aver preparato con cura la materia della discussione.

6. Il commercialista può esser tentato di tirar in lungo le pratiche assunte affettando che abbiano più importanza di quanto in realtà hanno.

7. Come tutti gli altri professionisti, si interrogherà sui rap­porti che ha coi colleghi. C'è chi ha la tendenza a giudicare sempre ingiustamente (e quindi poco onestamente) l'operato degli altri per discreditarli. Coi più giovani, con coloro che sono alle prime armi, l'anziano esperto può fare molto del bene. Cercherà d'infon­dere in loro una giusta idea della professione senza pessimismi deprimenti (propri di chi non ha goduto successi professionali ed ha perso ogni illusione); all'occasione, li aiuterà con qualche consiglio che sia carico di prudenza ed, insieme, d'entusiasmo.

8. Ha il dovere del segreto d'ufficio (come i medici, gli avvocati, i notai, le ostetriche ed i professionisti in genere). A meno che (secondo i soliti principi della morale che regolano l'osservanza del segreto) non sia necessario rivelare qualche notizia per evitare un grave danno alla comunità o ad un tèrzo oppure al proprio cliente interessato od a se stesso.

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9. Importante — sotto l'aspetto sia della morale sia della stima che è necessaria al professionista — è la questione del­l'equo compenso. Bisogna anzitutto attendere alle tariffe ed a quanto è stabilito e permesso dalla legge la quale a sua volta — mi riferisco all'Italia — dà come regola che si deve consi­derare la complessità, l'importanza, la delicatezza del lavoro pre­stato, le responsabilità che esso ha importato e l'utilità che il cliente ne ha avuto.

Ci può esser la tentazione di cumulare prestazioni su presta­zioni senza necessità o di protrarre delle pratiche quando ben poco (o nulla) è possibile fare a vantaggio del cliente. Come per i medici, gli avvocati, i notai ed ogni altro professionista, carità vuole che il povero sia aiutato gratuitamente (e non, per questo, con minore interessamento ed impegno). D'altra parte, se al povero non si può chiedere quello che sarebbe giusto, ma meno o nulla, non è neppur giusto che a chi è abbiente il pro­fessionista chieda — per rifarsi — compensi apertamente supe­riori al giusto. Del resto, qualora cedesse alla tentazione di avan­zare pretese e richieste esagerate, danneggerebbe seriamente se stesso e la sua professione: perderebbe la fiducia di cui gode.

22. Politici

1. Il primo impegno del politico è lo studio. E non si tratta d'un ideale, è una necessità: primo, per conoscere a fondo la sana dottrina morale, sociale, politica, le ideologie dominanti, i programmi dei diversi partiti; e poi per possedere un'informa­zione accurata dei bisogni della popolazione, dei mezzi per soddisfarli, delle congiunture nazionali, regionali, locali. Il poli­tico eviterà cosi i due difetti opposti: l'astrattismo dei teorici e l'empirismo di chi si fida solo del suo fiuto, del suo buon senso (più o meno equilibrato).

2. Rettitudine circa i fini ed i mezzi dell'azione politica. Ci sono obbiettivi ed ideali per i quali non si può non battersi incondizionatamente: stabilimento della pace contro la guerra preventiva; superamento del sottoproletariato; rifiuto d'ogni sfruttamento dei paesi sottosviluppati... Nel caso però di con­flitti, per esempio, fra interessi del proprio comune (o della propria regione) e del bene nazionale (o comune), oppure fra

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f interessi di partito ed interessi della comunità, occorrerà equili-i brio, prudenza, moderazione, e, forse, anche qualche sacrificio §f delle preferenze naturali e personali. 1 3. Giustizia, equità, bontà, nei rapporti con gli altri. Al po­li' sto dello spirito di servizio, può subentrare la tendenza a domi­ci nare sugli altri. In qualcuno può esserci l'inclinazione naturale ; ad un certo spirito di contraddizione: a stroncare tutto ciò che | viene dagli altri perché originato da partiti contrari. Se manca il

pieno controllo, si può, nella vivacità degli scontri, arrivare fino all'insulto. Pericolo delle parzialità, delle preferenze poco eque,

l di lasciarsi comprare (in una maniera o nell'altra) o di ricorrere ?• ai mezzi che possono servire per comprare le coscienze altrui. | Non è lecito per partigianeria favorire la promozione di chi si

è comportato disonestamente: sarebbe come il dar occasione a | nuove ingiustizie. Ma se il politico è notoriamente retto e giusto,

nessuno si rivolgerà a lui per chiedergli ciò che non è onesto. Come si disse di Catone: « O te felicem, a quo rem improbam petere nemo audet ». Anche allora non mancherà mai chi chie-

I derà al politico qualche aiuto, ma sempre ciò che non è ingiusto ed illecito, cosicché egli non sarà messo nella necessità di dover dire un no in partenza. Però in questa felice condizione potrà trovarsi solo se saprà negare anzitutto a se stesso tutto ciò che non è onesto: anche chi è preposto al governo ed all'amministra-

) zione e deve esser d'esempio, può esser tentato di approfittarsi ingiustamente. E con una certa sicurezza di non correr rischi. S. Basilio Magno scriveva: « Non est intelligendum fures esse solum bursarum incisores vel latrocinantes in balneis; sed et qui

')•- duces legionum statuti, vel qui commisso sibi regimine civitatum aut gentium hoc quidem furtim tollunt, hoc vero vi et publice exigunt ». È stato scritto che (in secoli lontani, è vero) tante volte per le strade di Roma si vide portare alla forca un uomo perché aveva rubato una pecora, e nello stesso tempo portare in trionfo un console o un dittatore perché aveva rubato una provincia (A. Vieira, Quattro prediche agli uomini di governo, Milano, 1960, p. 114).

4. Operosità, prudenza, tattica ed onesta strategia. Sono vir­tù proprie deUpolitico, contro il pericolo di barcamenarsi (invece di lavorare sul serio e a fondo), di limitarsi ad una superficiale considerazione dei problemi, di non saper organizzare i propri piani di lavoro, di non insister con tenacia per realizzare le ini-

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ziative... Al che s'unisce, naturalmente, la consuetudine (abba­stanza comune) di prometter molto (anche cose che sono impos­sibili o contraddittorie) per poi non mantenere nulla o ben poco.

Al politico è richiesta capacità d'adattamento ed insieme fer­mezza e continuità, sangue freddo nei momenti difficili e nelle situazioni gravi...

5. Comportamento in materia di religione e rapporti colla Chiesa. Il politico cristiano accetta l'intervento della Chiesa nel campo morale e spirituale che a lei spettano. È edificante il suo esempio se egli saprà riconoscere apertamente la sua fede ed invocare, in qualche occasione, pubblicamente, Dio (cosa che, da noi, pochissimi fanno). D'altra parte c'è anche il pericolo di strumentalizzare religione e Chiesa ai propri fini politici.

6. Ad un dato momento, il politico può sentire, da parte della sua coscienza, il suggerimento di ritirarsi dalla scena, al pari d'un capo di Stato, d'un pastore d'anime. Ciò può significare un sacrificio, dal punto di vista economico ed affettivo. Ma è meglio che la decisione (quand'è opportuna) parta dall'interessato. Per il bene comune. Ed anche per evitare qualche probabile umi­liazione personale (cf. Lebret-Suavet, Ringiovanire l'esame di coscienza, pp. 104-108).

23. Giornalisti

Considero tutti coloro che sono direttamente impegnati in quel campo della pubblicistica che ha per oggetto la diffusione di notizie accompagnate da interpretazioni, commenti, valuta­zioni. Ciò può esser fatto mediante il giornale od altri mezzi di co­municazione sociale, come la radio o la televisione. Per chi — o con scritti od a voce o mediante immagini — esplica un servizio d'in­formazione valgano anzitutto i principi etici generali riguardanti ogni scrittore. Ma per coloro dai quali dipende la vita, la fisio­nomia, il contenuto e la forma del giornale sorgono, specie oggi, particolari problemi ed esigenze d'ordine morale. Alle quali per­tanto dovrebbero esser sensibili, oltre ai giornalisti, anche tutti coloro che hanno la responsabilità di pubblicare un servizio d'informazione (si pensi all'autorità determinante degli editori).

Sarebbe un male se da parte d'un potere oppressivo fosse soffocata la libertà del giornalista e del giornale. È « il caso —

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lamentava Pio XII, rivolgendosi nel Febbraio del 1950 ai parte­cipanti al I I I Congresso Intern. della Stampa Cattolica — in cui l'opinione pubblica tace in un mondo donde anche la giusta libertà è bandita e dove, sola, l'opinione dei partiti al potere, l'opinione dei capi o dei dittatori è ammessa a far sentire la sua voce. Soffocare quella dei cittadini, ridurla al silenzio for­zato, è, agli occhi d'ogni cristiano, un attentato al diritto natu­rale dell'uomo, una violazione di quell'ordine del mondo che Dio ha stabilito. Chi non indovina le angosce, il disorientamento morale in cui un tale stato di cose getta la coscienza degli uo­mini della Stampa? » (Disc, e Radiom., XI, 365-366). D'altra parte è quanto mai pericoloso anche il pretendere ed invocare, in nome della libertà d'opinione e d'espressione, un'indiscriminata licenza passando sopra ad ogni postulato etico. Ne avrebbe facil­mente danno sia il singolo (persona privata od ente) — che po­trebbe esser offeso nella sua reputazione o diffamato — sia la comunità quando fosse turbata nella sua sana coscienza morale. Il decreto del Vaticano II sugli strumenti della comunicazione sociale ammonisce come anzitutto bisogna attendere che « la comunicazione, nel suo contenuto, risponda a verità e sia inte­gra »: sempre, s'intende, rispettando le superiori esigenze della « giustizia e della carità ». Ma aggiunge che « non ogni cogni­zione giova »; che una notizia dev'esser « presentata in modo one­sto e conveniente » e che « bisogna rispettare rigorosamente le leggi morali, i diritti e la dignità dell'uomo, tanto nella ricerca delle notizie quanto nella loro divulgazione » (IM, 5). Direttive generali che domandano qualche commento, applicazione, esem­plificazione.

1. Se vogliono esser maestri della verità, i giornalisti devono — come tutti gli scrittori — procurarsi anzitutto un buon de­posito di cultura. Anche religiosa. Ciò vale specialmente per coloro che sono cattolici od hanno occasione di riferire notizie di carattere religioso. Il loro « compito delicato — notava Pio XII — suppone la competenza, una cultura generale soprat­tutto filosofica e teologica » (Disc, e Radiom., X, p. 369); si esige — aveva detto Pio XI — che « doctrinam catholicam per-diligenter explorent et prò viribus calleant » (Enc. Rerum Omnium, AÀS, 15, 1923, 61). E, praticamente, sarà difficile che possa trattare rettamente, serenamente ed obbiettivamente di cose e fatti della Chiesa chi la vede solo come una società umana avente una funzione puramente temporale: non può com-

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prendere ed apprezzare la sua missione specifica. E (va detto subito) i giornalisti cattolici dovranno andar spesso contro cor­rente. Ma « si guardino dal venir meno alla verità né, sotto colore di evitar l'offesa degli avversari, la attenuino o la dissimulino » (Pio XI, ibid.y p. 61). Oggi, ad esempio, anche in campo teolo­gico e morale, certe verità sembra non siano più « di moda ». Anzi, proprio quelli che seguono un certo modernismo, pare eser­citino nella stampa una specie di dittatura. Il giornalista cattolico non deve aver rispetto umano, né deve temere di far la figura del superato. Riferisca e scriva ciò che, secondo la sua coscienza, giudica esser non solo interessante ed attraente ma utile e be­nefico ai lettori. Ciò che, dunque, gli è « indispensabile in primo luogo — ammoniva Pio XII — è il carattere. Il carattere, cioè semplicemente l'amore profondo e l'inalterabile rispetto dell'or­dine divino che abbraccia ed anima tutti i domini della vita; amore e rispetto che il giornalista cattolico non deve accontentarsi di sentire e di nutrire nel segreto del suo cuore, ma che deve coltivare in quello dei suoi lettori » (Disc, e Radiom., X, p. 369).

2. Culto dunque della verità e fermezza in materia dottri­nale. Rispetto poi per la verità nella comunicazione di notizie. « Chiunque vuol mettersi lealmente al servizio dell'opinione pubblica... deve interdirsi assolutamente ogni menzogna... ». Con questa disposizione di spirito e di volontà reagirà efficacemente contro il clima di guèrra. Ma dove la pretesa opinione pubblica è dettata ed imposta, per amore o per forza, e « cessa di funzio­nare liberamente, è là che la pace è in pericolo » (Pio XII, Disc. e Radiom., X, 371).

In un giornale trovano ospitalità articoli dottrinali (più o meno profondi), notizie, qualche illustrazione e la pubblicità (alle volte abbondantissima). L'elemento che più interessa i lettori ordinari è costituito dalle notizie. La loro comunicazione deve, nel suo contenuto, corrispondere sempre alla verità e, se lo per­mettono le superiori esigenze della giustizia e della carità, sia integra (IM, n. 5). Dunque il dovere di rispettare la verità è incondizionato; il dovere dell'integrità è condizionato. Difatti la dignità della vita cristana, i diritti della giustizia e dell'amore prevalgono su quelli alla (e della) informazione (si pensi alle notizie e commenti di certi fatti scandalosi). È essenzialmente diverso, dal punto di vista morale, il non dire tutta la verità (cioè tacere) ed il dire ciò che non è la verità (cioè alterarla af­fermando il falso). Del resto — anche prescindendo dai postulati

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morali — il dire tutta la verità è, spesso, praticamente impossibile, perché il tempo stesso non consente di avere tutte le desiderate informazioni che potrebbero servire a precisazione e conferma. S'aggiunga che, fra tutte le notizie che gli arrivano, il giornalista, praticamente, fa sempre una certa selezione: riferisce ciò che ritiene più importante. Ma l'obbiettività (in quanto esclude la comunicazione di notizie non vere), questa dev'esser osser­vata assolutamente. Si deve fare tutto il possibile per realizzare quest'ideale. Ma, ad esempio, chi diffonde voci infondate per su­scitare nei lettori la curiosità e cosi favorire la distribuzione al pubblico del giornale, deve riflettere che in materie delicate — come la religione e la morale — una notizia (anche se lanciata facendo riserve sulla sua attendibilità) può generare in chi l'apprende un certo turbamento o disagio interiore. Ad esempio, qualche anno fa, alcuni giornali diffusero la notizia che la Santa Sede avrebbe avuto in animo di modificare l'ob­bligo, pei fedeli, di confessarsi almeno una volta all'anno, ridu­cendolo ad una semplice raccomandazione. Notizia che i com­petenti uffici della S. Sede sono stati autorizzati a dichiarare priva di fondamento (OR, Precisazione, 16-17.IV.1973). In que­sto momento, nel quale, da parte di molti fedeli, il sacramento della Penitenza è trascurato, bisogna guardarsi dal portare a conoscenza di chi è dottrinalmente impreparato (e quindi psi­cologicamente influenzabile) ciò che si è solo « sentito dire » e ciò che è solo un'« ipotesi di lavoro » dei teologi d'oggi. Talora il giornalista — che ha poco tempo a sua disposi­zione per controllare il fondamento d'una notizia — si troverà in uno stato d'incertezza: se tace, manca d'arricchire (come, forse pensa, è suo compito) la cronaca del giornale; se parla, può esercitare un influsso non benefico sull'opinione pubblica, provocando in taluni la reazione, in altri la non retta compia­cenza. Nei casi perplessi nei quali ci sia un prò ed un contro tanto per il tacere come per il parlare, lo scrittore (che si sup­pone sensibile ai suggerimenti morali) dovrà decidere secondo la sua coscienza: ed il criterio per la miglior opzione non può esser solo un motivo naturale o commerciale, il successo del giornalista o del suo giornale. In ogni caso, se circa un fatto non c'è certezza il lettore dovrà esserne chiaramente avvisato. Certe notizie, poi, anche se comunicate come dubbie, non man­cano d'aver un influsso sull'opinione dei lettori. Si dirà, a que­sto proposito, che, nella società umana, i singoli hanno diritto

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all'informazione; quindi il giornalista ha il dovere ed il diritto di fornire ogni notizia purché la qualifichi per quel che vale: o come certa, o come probabile, o semplicemente come una dice­ria, una indiscrezione, un sospetto. Però, come dice il Decreto « Inter mirifica », n. 5, il diritto all'informazione è relativo: ha per oggetto « quanto, secondo le rispettive condizioni, si addice alle persone, sia singole, sia associate ». Nella GS, n. 59 è detto solo che l'uomo, « nel rispetto dell'ordine morale e della comune utilità » ha diritto di « esser informato secondo verità degli av­venimenti pubblici ». E si cita la « Pacem in terris » ove pure si legge che « ogni essere umano... ha il diritto ad essere infor­mato secondo verità degli avvenimenti pubblici » (AAS, 55, 1963, 260). Pertanto YIM, mentre riconosce il diritto alla informazione, afferma pure le debite restrizioni poiché « non ogni cognizione giova » (IM, 5) e tanto meno è necessaria (cfr. E. Baragli, L'Inter mirifica, Roma, 1969, p. 336).

Qualcuno forse osserverà che le notizie riferite dai giornalisti sono recepite dai lettóri col beneficio dell'inventario, per prin­cipio. Si possono quindi classificare fra le cosiddette « restrizioni mentali »; non vai la pena di sopprawalutare la responsabilità dei giornalisti (quando, s'intende, si limitano alla cronaca e non fanno apprezzamenti). Ma anche questa giustificazione non è del tutto valida. C'è troppa gente la quale pensa che tutto quanto ha l'onore d'esser stampato, abbia almeno un fondo di verità. Inoltre un influsso, subconscio almeno, c'è anche nei lettori più intelligenti. Infine, ammesso che certe notizie si possano valutare come restrizioni mentali — alle quali si può dare solo il valore della probabilità — bisognerebbe che avessero per oggetto una materia moralmente indifferente che non reca danno ai lettori.

Il discorso ai giornalisti offre l'occasione di dire una parola ai lettori. Anch'essi devono accogliere le notizie del giornale con un giudizio equilibratamente critico e non con assoluta pas­sività e cieca fede. Non possono pretendere che il giornale dia più di quello che può dare. Non devono credere che tutto quanto il giornale riferisce sia vero, ma neppure pensare sempre e per principio che non sia vero e non contenga del vero. Possono riflettere, controllare, confrontare, e cosi dare anche la loro col­laborazione al servizio d'informazione (E. Lucatello, Il giornale e la società, Estratto da « Promozione Sociale », 1974, nn. 7-8, p. 10).

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I 3. Il giornalista ha il dovere di rettificare le notizie inesatte I che avesse eventualmente comunicato e possono recar danno o I dispiacere a qualcuno. Se ha ricevuto notizie in via confidenziale | da persona che non vuole rivelarsi perché teme pregiudizievoli l conseguenze, il giornalista dovrà, di massima, osservare il segreto

professionale ed assumersi tutta la responsabilità dell'informazione che giudica opportuno e sicuro comunicare.

| 4. E non tutto ciò che corrisponde a verità è consigliabile sia scritto e diffuso. « Non ogni cognizione giova » (IM, 5). Il giornalista ha diritto ad attingere notizie e a comunicarle —

' e, d'altra parte, il pubblico ha diritto di conoscerle — purché però siano notizie di vero interesse. E per esser di vero inte­resse, devono portare un'utilità e non un danno al singolo od

; alla comunità. Perciò la stessa legge civile proibisce la divulga­zione di certe notizie nocive ai beni superiori della comunità. Comunque, anche qualora non si verificano gli estremi del di­vieto legale, il giornalista rifletterà da quale persona vien letto il giornale (o la rivista) e quali riflessi può avere una informazione od una postilla nella quale lo scrittore espone il suo commento e la sua personale interpretazione. Non tutto ciò che si può scrivere per un periodico riservato, ad esempio, a moralisti e medici, può esser stampato su un settimanale che vien letto da tutti, o su un giornale che vien portato quotidianamente in casa d'una famiglia e va in mano anche a ragazzi ed a tanti che sono mossi solo dalla curiosità malsana. Un medico giornalista che tiene « tribuna » con chi lo interpella mediante un giornale od un settimanale, dovrà considerare che le sue risposte non saranno lette solo dagli interroganti, ma da innumerevoli altri; e dovrà chiedersi quali impressioni susciteranno, quali interpretazioni provocheranno, quali applicazioni potranno suggerire a molti let­tori.

È naturale che il giornalista cerchi di scegliere gli argomenti e le notizie che sono più attuali ed interessanti. E, per questo, gli occorre intuizione, sensibilità, contatto col pubblico, cono­scenza delle idee, delle tendenze, delle istanze degli uomini del suo tempo. Ma ciò non può significare che egli si lasci solo tra­sportare dalle correnti: ha pure il compito di formare la men­talità dei lettori. E non sempre — se ha la coscienza della sua missione — potrà riscuotere la loro approvazione ed accontentare il loro gusto. È naturale che si senta spinto alla caccia delle no­tizie sensazionali e piccanti, delle dichiarazioni clamorose, delle

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inattese prese di posizione (ad esempio, in campo cattolico da parte di qualche teologo o moralista). Tutte notizie che servono mirabilmente per la diffusione del giornale. Bisogna però riflet­tere sugli effetti di certe informazioni ammannite al pubblico senza l'accurata contropartita della dottrina vera e delle sue ra­gioni. Ad esempio, quando a proposito di divorzio o di aborto ci si limitasse a richiamar l'attenzione su certi casi pietosi o sulla legislazione e prassi vigenti in altri paesi, i lettori che considerano le questioni morali in modo piuttosto empirico o sotto l'impulso del sentimento più che alla luce della ragione, resteranno im­pressionati. Il far della problematica senza dare una risposta ed una soluzione conclusiva chiara, può suscitare interessamento, ma esser anche un sistema insensibilmente corrosivo per la fede e la moralità dei lettori. Fa più male degli atteggiamenti d'aper­to contrasto e d'attacco diretto alla religione perché, in questo caso, lo scrittore prende una netta posizione personale e dichiara subito il suo intento; il lettore è cosi avvertito e chiamato ad una scelta immediata. Il pericolo maggiore è che chi legge abi­tualmente certe opinioni, cambi insensibilmente mentalità o s'in­cammini verso il dubbio sistematico o il relativismo generale. Si dirà che, in ossequio alla libertà d'opinione — anche in materia di religione — ogni giornalista può riferire qualsiasi notizia ed i lettori hanno sempre la facoltà di giudicarla come vogliono. Ammettiamo pure, ma, proprio per rispetto dei lettori — che non sono tutti informati sulle ragioni prò e contro una tesi — il giornalista dovrebbe portar a conoscenza di chi legge, non solo le obbiezioni che si possono muovere alla dottrina cattolica, ma anche le risposte che alle obbiezioni sono state date o si possono dare. Perciò, giova ripeterlo, il giornalista, anche se non pronun­cia il suo giudizio d'approvazione ma solo riferisce l'opinione d'altri, può suscitare nei lettori confusione e disorientamento. Ed in realtà, anche nella Chiesa, da persone non prive d'autorità e scienza, vengono talora proposte teorie (od ipotesi di lavoro, che dir si voglia) le quali si distaccano dalla dottrina sempre insegnata dal Magistero. Non si possono portar a conoscenza della gente non istruita senza dichiarare espressamente la loro devia­zione dalla linea tradizionale.

5. Il retto esercizio del diritto all'informazione richiede poi che la comunicazione « sia presentata in modo onesto e conve­niente » (IM, 5). Il modo come un fatto viene narrato ha enorme importanza! Si può riferire una notizia mostrando od una certa

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compiacenza, od, invece, netta disapprovazione. Alle volte, però, anche solo il far noto un fatto può esser dannoso (la stessa legge civile proibisce la divulgazione di notizie nocive per i beni supe­riori della comunità); e lo stesso soffermarsi sui particolari fa supporre, in certe materie delicate, una qualche compiacenza da parte dello scrittore. « Esprimere il male non è male quando torna a bene; tacerlo è dovere, quando dal solo fatto di esprimerlo ne deriva un'esaltazione » (E. Lucatello, Giornalismo, in: « Diz. di T. Mor. », 1968, p. 727). E non si dimentichi che l'emozione suscitata nei lettori dipende — più che dal fatto riferito — da quella impressionante ricostruzione e descrizione che è un'abi­lità propria del giornalista (come del narratore in genere). Si può, ad esempio, per destare interesse nel pubblico, esser tentati di romanzare anche un fatto di cronaca nera. La fantasia lo ar­ricchisce con sensazionali colpi di luce: alla mente suggestionabile di taluni — specialmente di giovani — un atto di delinquenza finisce per apparire quasi come un'avventura affascinante. A tale proposito è pericoloso descrivere i metodi e le tecniche usate dai criminali, specialmente nelle pubblicazioni destinate agli ado­lescenti. Chi poi riferisce particolari, modi, ambienti segreti del malcostume e della malavita, deve sapere che fra i lettori c'è chi desidera esser informato per fare le sue esperienze. Come ci sono donne di malaffare che desiderano d'esser intervistate per acquistare popolarità e farsi pubblicità. Nella descrizione dei misfatti occorre prudenza e discrezione anche al fine di non ali­mentare l'odio negli interessati: odio che porta spesso alla ven­detta. S'aggiunga che l'indagare su certi particolari intimi della vita d'un delinquente (che è spesso ed, in gran parte, anche un disgraziato) o dei suoi famigliari, può esser contrario al rispetto dovuto alla dignità d'ogni persona umana (cfr. E. Lucatello, Gior­nalismo a misura dell'uomo, Roma, Studium, 1974, p. 80).

6. Chiari principi ed equilibrate direttive anche riguardo alla polemica. È evidente che va evitato tutto quanto è contrario alla carità, cade nella volgarità o sa di pettegolezzo. Chi vuol metter in luce la verità discutendo con chi la ignora o la combatte, deve aver per scopo di persuadere il suo interlocutore e non di metterlo colle spalle al muro per umiliarlo pubblicamente. D'al­tra parte, oggi — in ossequio al pluralismo, alla libertà d'opinio­ne, di religione, di coscienza — c'è chi vorrebbe bandire ogni polemica ed ogni forma d'apologetica contro chi male giudica o male interpreta la dottrina autentica insegnata dall'unica e vera

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Chiesa di Cristo. Ma non si dimentichi che una sana polemica c'è sempre stata nella Chiesa ed il primo forte polemista fu Cristo stesso. Sono utili e necessari gli incontri ma anche gli scontri se si vuole che la verità sia conosciuta e difesa. Perciò i giornalisti « qualora sia il caso di contraddire qualcuno, sappiano si con­futare gli errori ed opporsi alla pravità dei malintenzionati, ma si mostrino animati da rettitudine e soprattutto mossi dalla carità » (Pio XI, Enc. Rerum Omnium, AAS, 15, 1923, 61).

24. Militari

Sia in guerra, sia in pace, il giovane, durante il servizio mili­tare, suol attraversare un periodo di crisi psicologica, morale e religiosa. Se qualche volta s'accosta al sacramento della Penitenza, il confessore occasionale si troverà facilmente di fronte ad una situazione preoccupante: lo stato spirituale della maggioranza è scoraggiante: rottura d'ogni freno morale, abbandono della pratica religiosa; addestramento alla più volgare ed incontrollata abitu­dine della bestemmia; quotidiani ritrovi, nei luoghi d'appun­tamento, colle prostitute (per contaminarsi forse irreparabil­mente), abuso di alcoolici... Tutto questo (come emerge dalla confessione stessa di molti soldati) assume il carattere d'una rea­zione — spinta fino alla più violenta, cieca, disperata rivolta — contro una legge, un servizio, una vita che dicono insopportabile. E cosi implicitamente avanzano la domanda perché siano ricono­sciute le attenuanti di certi loro riprovevoli comportamenti. E' da aggiungere che in questi disordini morali, in certe disastrose tra­sformazioni da una vita prima sostanzialmente e naturalmente ret­ta, religiosa, calma, serena, ad una vita quasi incosciente, irrespon­sabile, gioca fortemente il fattore « rispetto umano ». Cer­tuni (che non spiccano per intelligenza, carattere, formazione e virtù provata) non hanno il coraggio d'andar contro corrente. Se lo facessero, avrebbero l'impressione di mettersi in stato d'in­feriorità, d'arretratezza; o, comunque, non riescono ad affrontare impavidamente il giudizio e la derisione dei più smaliziati e spre­giudicati. Quando poi si senton travolti dalla sensualità — fino a perder quasi il controllo dei propri discorsi e dei propri atti — è evidente che non sentono più attrattive per la religione. E talvolta mettono in dubbio la fede. Non è difficile scoprire la radice di questa crisi religiosa: la dissipazione morale.

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Per salvarsi dalla marea dell'immoralità e dell'incredulità, sa­rebbe consigliabilissimo che ognuno avesse un confessore stabile, pio, esperto, conoscitore dei problemi giovanili, col quale tenere frequenti ed aperti colloqui, dal quale ricevere gli opportuni con sigli (oltre l'assoluzione sacramentale). Consigli sul comportamento conveniente da prendere (specialmente coi compagni), sui luoghi e le occasioni da evitare, le eventuali riunioni, conferenze, incontri, gruppi a cui partecipare.

L'opera del confessore dovrebbe poi esser continuata, compie tata, sviluppata dal cappellano militare. Questi, vivendo ogni giorno, a tempo pieno, insieme ai suoi soldati, può specializzarsi nella loro cura pastorale, studiando, discutendo, aiutandoli a risol­vere tutti i problemi, morali, religiosi, familiari, professionali. Altrimenti c'è il pericolo che alcuni vadano forse ad assistere alla Messa festiva, facciano Pasqua per motivo (in gran parte) d'op­portunismo o di tradizionalismo, ma poi vivano senza nessuna coscienza, dignità e serietà cristiane. Bisognerebbe ottenere un'im­postazione unitaria ed organica di tutti gli aspetti della loro vita. Per il presente ed in vista dell'avvenire (cfr. G. Benucci, Grundzùge einer Militar seelsor gè beute, Roma, 1972). « La cura spirituale dei soldati — si legge nel decreto Christus Dominus, 43 — domanda, a causa delle loro peculiari condizioni di vita, una esimia solleci­tudine ». Pertanto coloro che sono chiamati « a questo difficile ministero, vi si dedichino premurosamente ».

1. Contro il pericolo della dissipazione morale, i migliori do­vrebbero armarsi della fortezza cristiana: altrimenti saranno tra­scinati al vizio dai peggiori, dai dissoluti. Il sacerdote — in Con­fessione, nelle istruzioni, nei colloqui — suggerirà tutti i mezzi efficaci perché possano resistere alla marea travolgente dell'im­moralità. Cercherà di suscitare qualche idealità pura, anche nel campo degli affetti. Inviterà il giovane a pensare alla sua futura famiglia, alla sua compagna di domani, a conservarsi degno del­l'amore che li unirà nel matrimonio. Un'amicizia elevata con una ragazza buona, seria e morigerata potrebb'esser — per un mili­tare che non ha in sé le risorse d'una formazione spirituale pro­fonda e sicura — un sostegno ed un conforto nei momenti diffi­cili, una difesa contro la tentazione, un richiamo contro la volga­rità e l'egoismo. S'intende un'amicizia in vista del matrimonio, d'un matrimonio almeno possibile e probabile (anche se non si prevede facilmente realizzabile in un prossimo domani). Purtroppo però oggi è difficile tentare anche questo discorso e questa solu-

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zione perché i giovani, quando si trovano con la fidanzata — vi­cina o lontana — non sanno conservarsi su un piano affettivo spirituale senza giungere ai rapporti sessuali.

2. L'abbandono della pratica religiosa. Si verifica (almeno temporaneamente) per molti, che un tempo erano fedeli all'ora­zione frequente e quotidiana, alla Messa festiva, ai sacramenti (almeno a Pasqua). Ma come mai un giovane che aveva intrapreso abitudini buone, ad una svolta della sua vita — proprio quando avrebbe estremo bisogno della fede — tralascia ogni preghiera, rompe ogni contatto con Dio, vive come se il soprannaturale non esistesse? Può esser, dicevo, per lo stordimento ed il disorienta­mento prodotti da nuove, indesiderate ed irritanti condizioni di vita; può dipendere dalle suggestioni immorali da cui uno si trova come assediato. Comunque, la ragione profonda è perché non ha ricevuto una solida formazione spirituale, non ha una forte perso­nalità, quale si desidererebbe nel cristiano che si trova impegnato, un momento o l'altro, in una lotta spirituale aspra e forse decisiva. Bisognerebbe che il giovane fosse preparato a subire con coraggio, senza crollare, i frizzi e gli scherni della massa scanzonata che prende di mira chi professa qualche principio di morale e di reli­gione. Non dovrebbe aver paura e cedere se si sente dire che la religiosità è segno di debolezza spirituale (e perciò si trova più frequentemente nella donna). Dev'esser consapevole che se sarà rettilineo nelle proprie convinzioni e nella propria condotta (senza esagerazioni, indiscrezioni, isolamento altero) alla fine si conqui­sterà stima e rispetto. Il confessore animerà chi è nella prova: la soddisfazione più grande — dirà — è quella di non cadere vittima del rispetto umano, ma di avere il coraggio delle proprie idee. Certi soldati non partecipano mai alla Messa e, quando a Pasqua si confessano, si scusano adducendo la semplice ragione che sono in servizio militare. In realtà la causa è nella mancanza di buona volontà e di senso religioso. Difatti è loro offerta spesso la facile occasione della Messa e d'un sermone religioso. Ma riten­gono stranamente che il servizio militare debba, per forza di cose, interrompere una consuetudine che prima c'era. Una buona con­suetudine, ma, forse, solo una consuetudine? È lo stesso fatto e la stessa psicologia che si riscontra in certi emigranti che trascor­rono all'estero la maggior parte dell'anno, immersi in un lavoro assorbente per realizzare il maggior guadagno possibile. Bisogne­rebbe indurli a cambiar una mentalità che li porta ad un'omis-

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sione sistematica, quasi per principio, d'ogni pratica religiosa fino a che non ritornano alla loro patria ed alla loro parrocchia. E non ci si illuda che l'abbandono delle celebrazioni liturgiche sia com­pensato e supplito dalla preghiera individuale: vivono del tutto fuori di sé; non conoscono vita interiore ma solo affari e realtà materiali. Come possono dirsi cristiani?

3. La bestemmia. Chi, la sera, in qualche città (specialmente .dell'Alta Italia) s'incontra con gruppi di soldati in libera uscita li sentirà infiorare ogni discorso con bestemmie a freddo. E quando se ne confessano non possono addurre scusa alcuna. Macché sca­rica necessaria in un momento di rabbia: bestemmiano sempre. Riconoscono che quando sono a casa non lo fanno; dicono che durante il servizio militare è inevitabile perché è una vita bestiale e perché cosi fan tutti. Scuse che non son neppur da prender in considerazione. Ne sono intimamente persuasi essi stessi. Bi­sogna semplicemente e gravemente ammonirli che — oltre ad offendere Dio e privarsi delle Sue benedizioni pel presente e pel futuro — danno scandalo, mancano di civiltà e di rispetto verso il prossimo. Una vergogna. Ed « in foro externo » meriterebbero qualche buona lezione. Ma la legge penale e la disciplina militare non sono applicate con il debito rigore. Solo qualche comandante ha carattere coerente ed energico.

25. Emigranti

L'emigrazione è un fenomeno necessario. Uno sfogo per le regioni sovrappopolate, un apporto di civiltà da parte dei popoli più evoluti a quelli più in ritardo, uno scambio di culture e d'esperienze. I popoli, cosi, si fondono e si ringiovaniscono. E l'emigrazione diventa un segno di vitalità, di volontà di lavoro e di progresso; una valvola di sicurezza per molti che, altrimenti, vivrebbero, malcontenti e turbolenti, nell'ozio, nel vizio, nelle ruberie. Popoli ed uomini dei quattro continenti sono tutti degli emigranti.

Ma perché l'emigrazione sia in concreto vantaggiosa sotto ogni aspetto — materiale, morale, culturale, religioso — sono neces­sarie precauzioni e provvidenze.

1. C'è un'emigrazione temporanea. Si verifica specialmente nei paesi montani, come l'Alta Italia, il Cadore, il Friuli. Il lavo-

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ratore lascia paese, parrocchia, casa solo per alcuni mesi (o anni) e vi ritorna per un periodo di riposo. Lavoro intenso, guadagno in genere buono. È dal punto di vista spirituale e morale che si lamentano deplorevoli danni. Spesso la famiglia si divide: è solo il marito che s'allontana per parecchi mesi; e sono facilmente im­maginabili i pericoli morali a cui va incontro un uomo quando è senza la famiglia e non è neppur trattenuto dal timore delle critiche. Alle volte partono marito e moglie (lasciando in patria e affidando ad altri, in mani più o meno sicure, il figlio od i figli). Prendono in affitto un negozio pubblico. Per una scusa o l'altra, spesso abbandonano ogni pratica religiosa. Nella loro parrocchia erano trascinati in chiesa se non altro dalla tradizione e dalla consuetudine. Il loro sentimento religioso si dimostra ora piut­tosto superficiale. All'estero trovano una chiesa officiata in altra lingua, e forse di culto religioso diverso dal proprio. E poi lavo­rano anche la domenica. Cosicché molti passano mesi e mesi senza mai metter piede in chiesa e senza mai pregare. E quando tornano in patria non professano il protestantesimo o qualche altra con­fessione non cattolica, ma sono ormai privi di ogni religione e si son fatti, forse, diffusori di ideologie sovversive loro inoculate da agitatori spregiudicati. E cosi, a contatto con persone più evo­lute, si sono dirozzati, hanno acquistato una qualche cultura, sono entrati nel corso del progresso intellettuale e materiale. Ma c'è da chiedersi se ciò compensi le perdite morali e religiose (cfr. G. BonomelH, L'emigrazione, Roma, 1912, pp. 13 ss.). Chi pensa che il passaggio dei rurali alla città possa influire beneficamente nell'ambiente cittadino, testimoniando una sana e spontanea reli­giosità, resta deluso. Chi cede e vien assorbito dal mondo dissi­pato della città e dalla sua irreligiosità è proprio l'emigrante. È raro il caso di chi, per la sua formazione sicura, riesce a render più matura la sua fede, rafforzandola a contatto delle difficoltà, confermando la sua validità di fronte alle obbiezioni, sperimentan­do la sua insostituibile efficacia per risolvere il problema della vita. Si direbbe che molti riprendono la veste di cristiani quando ritor­nano in paese per le ferie.

2. Se non è possibile impedire questa emigrazione temporanea, bisognerebbe almeno ricorrere alle precauzioni ed ai rimedi. Anzi­tutto è da consigliare che emigrino solo quelli che ne hanno stretta necessità. Dovranno poi informarsi bene del luogo dove vanno, dell'alloggio che avranno, della sicurezza di trovare un posto di lavoro ed un buon stipendio; ed informarsi del genere di lavoro

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che potranno avere, perché qualcuno è retribuito bene, qualche altro male. Insomma devono aver garanzie di poter migliorare la propria condizione ma, insieme, misurare le proprie forze relati­vamente al clima, al genere di lavoro, alle fatiche che dovranno af­frontare. Se è conveniente, cercheranno j— prima della partenza — di frequentare qualche corso di qualificazione e di abilitazione ad un determinato mestiere. E si provvederanno di tutti i documenti necessari per non esporsi al pericolo di non poter stipulare un sicuro contratto di lavoro.

Se si presenterà necessario emigrare, è augurabile che gli uomini portino con sé la famiglia, od almeno la richiamino al più presto. Ed i celibi sarebbe consigliabile si sposassero, prima di partire. Se si pensa che troveranno sistemi di vita completamente diversi da quelli del paese natale ed un'immoralità senza freni, è da ritenere che solo il legame della famiglia potrà preservare remi­grante dalla rovina morale.

È poi raccomandabile che si mantengano in relazione coi loro parroci i quali cercheranno di informarsi dei parrocchiani lontani e dei loro parenti rimasti in patria: « l'azione pastorale dovrebbe seguire gli emigranti sia nel luogo in cui si sono trasferiti per ne­cessità di lavoro, sia nel luogo d'origine, dove ritornano periodi­camente per le ferie o le visite ai parenti » (C.E.I., Docum. su Evangelizz. e Sacrarti., 12.VII.1973, n. 111).

3. All'emigrazione temporanea è preferibile quella permanente se questa tiene unita la famiglia e quindi non importa tutti i pericoli, i danni morali, spirituali e religiosi dell'emigrazione tem­poranea. Chi emigra per non far più ritorno lascia una patria per crearsene un'altra (mentre gli emigranti temporanei perdono spesso l'amore all'antica patria senza procurarsene un'altra). Na­turalmente, prima d'emigrare con tutta la famiglia, per sempre, bisogna agire con molta prudenza: non nascondersi i disagi ed i possibili insuccessi, non lasciarsi prendere dal desiderio di viag­giare, di cambiare ambiente, di vedere cose nuove, non fidarsi troppo di chi largheggia in promesse, poi non sempre mantenute. Comunque, una volta presa una decisione (anche se discutibile, perché non motivata da estrema necessità), bisogna che l'emi­grante abbia fiducia nella Provvidenza ed in se stesso: se gli inizi saranno tormentati da intralci e da angustie, poi col tempo tutto si raddrizzerà ed andrà per il meglio.

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4. Nel momento d'abbandonare la patria, l'emigrante forse si fa forza e supera il dolore del distacco col miraggio d'un migliore avvenire. Ma quando si sentirà esule, lontano dalla sua terra, dalla sua casa, dai suoi parenti ed amici, allora nel suo cuore proverà forse un'irresistibile nostalgia. Specialmente in certe brutte gior­nate, in momenti di difficoltà e d'ansia per sé e per i suoi. In queste ore tristi avrebbe bisogno di sentir « vicino chi ne com­prenda a pieno le pene, ne ristori le forze, ne sollevi colla voce del sangue lo spirito abbattuto » (dalla preghiera di Pio XII alla Madonna degli emigranti).

5. Perciò è augurabile che i nostri emigranti si organizzino formando delle « Famiglie », per tenersi uniti alla patria e fra loro, per aiutarsi a vicenda, per continuar a parlare la propria lingua. Capiteranno occasioni nelle quali l'emigrante ha bisogno d'una parola decisa e sicura e d'un consiglio fraterno. Non sia ingenuo. Con coloro che non conosce a fondo sia cortese; ma non si fidi di nessuno perché c'è sempre chi approfitta della sem­plicità del nostro emigrante per truffarlo.

6. Un ministero preziosissimo svolgono i missionari cattolici degli emigranti, riunendoli per annunciar loro (nella lingua ma­terna) la Parola di Dio, per celebrare l'Eucaristia. Un missionario zelante può diventare la guida, il consigliere, il padre spirituale de­gli emigranti esercitando un influsso grandissimo. La lettera encicli­ca « Exul familia », del 1952, vuole che sia designato un sacerdote italiano in tutti i centri di lavoro dove si trova raggruppato un notevole numero d'italiani. Questi sacerdoti possono battezzare, ammettere alla prima Comunione, celebrare matrimoni.

7. A proposito di matrimoni, si tenga presente che la Chiesa tollera i matrimoni misti ma li sconsiglia (come li sconsigliano gli stessi pastori protestanti). Riferisco una particolare constatazione circa i matrimoni misti che si contraggono in Svizzera: delle tante ragazze della mia provincia veneta bellunese che hanno sposato protestanti, molte conducono vita infelice, nessuna è proprio con­tenta. Constatazione, questa, dei missionari e degli svizzeri stessi.

8. L'emigrante dovrebbe esser preparato ed istruito sugli in­numerevoli pericoli che incontrerà per le vie del mondo. Spe­cialmente alle giovani è necessario usare ogni prudenza e stare sempre all'erta e sulla difensiva. I pericoli cominciano col viaggio d'andata. Non dovrebbero intrecciare conversazione con persone compagne di viaggio, se sconosciute, e specie se uomini. Non in-

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formare nessuno sulla loro destinazione e non cambiare direzione, itinerario, ora di partenza per nessun motivo. Nelle stazioni in cui scendono — se non sono attese ed accolte da qualche persona parente o conosciuta e se hanno bisogno d'informazioni — osser­vino se è a disposizione un'incaricata dell'Opera « La protezione della Giovane ». La riconosceranno da una fascia bianco-gialla che porta al braccio sinistro. Da essa avranno ogni consiglio ed indi­cazione sicura, anche per poter, eventualmente, passare la notte e consumare i pasti.

Molte giovani si allontanano da casa quasi sospirando di poter prendersi un po' di libertà e di conoscere il mondo. Portano tesori — prestanza fisica, semplicità, purezza — che vanno difesi con estrema vigilanza. Con la semplicità delle colombe e la pru­denza dei serpenti. Perché i nemici ed i ladri — specialmente oggi — sono sempre in agguato. È tutta una rete d'impreviste tentazioni che le avvolgerà per imprigionarle. Sentiranno elogiare la loro bellezza: dapprima arrossiranno, poi si compiaceranno. Nei negozi da parte dei fornitori, negli uffici da parte degli impiegati, in casa da parte degli operai coi quali vengono in contatto, si vedranno adocchiate, sentiranno frasi a doppio senso. Dapprima soffriranno di fronte a questi fatti. Poi, senz'accorgersi, si lasce­ranno prendere dalla vanità e da tante altre insidie e, cosi, saranno travolte dalla corrente, mentre, contemporaneamente, si raffred­deranno nella pratica religiosa. Le famiglie nelle quali lavorano non vedono in esse un'anima ed un cuore, ma solo uno strumento di lavoro da sfruttare. Avrebbero bisogno di qualcuno — un prudente sacerdote — che, nel momento del pericolo morale e spirituale, dia loro un aiuto, un consiglio saggio, una mano amorosa che le sostenga.

9. C'è anche il fenomeno — diciamo pure il dramma — dei rientri forzati, in seguito a fallimento, crisi economiche generali, interventi dell'autorità statale che restituisce l'emigrante al suo paese d'origine. Se l'emigrazione è un fatto sempre negativo, pieno di rischi e di pericoli, immaginiamoci cosa provano coloro che (magari dopo 20-30 anni di vita all'estero) sono costretti a fare il viaggio del ritorno. Tornano al proprio paese, ma trovano spesso freddezza, indifferenza, se non ostilità. Trovano difficoltà d'inserimento, nella ricerca d'un posto di lavoro e d'una abita­zione. I giovani, nati in altri paesi — e quindi con mentalità ed usanze diverse dalle nostre — vanno incontro a sofferenze nello

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sforzo di adattamento nelle scuole e nella società. Ebbene, tutti coloro che hanno possibilità ed occasione di farlo, devono sentire il bisogno di dare una mano a questi emigranti che ritornano, d'aiutarli in tutti i modi, e soprattutto d'aprire loro il cuore con un sorriso di carità e di fraternità cristiana.

26. Sacristi

Categoria di penitenti che non frequenta molto il sacramento della Penitenza (per un complesso di ragioni) pur avendone forse non poche occasioni. Eppure avrebbero tanto bisogno del confes­sore, delle sue cure, e di cure particolari perché esercitano una professione delicatissima. Sono materialmente i più vicini a Dio, perché servono continuamente all'altare del Dio Incarnato ed Im­molato, ma per molti c'è pericolo che questa vicinanza sia sempre meno sentita. « Assueta vilescunt » se non c'è sforzo personale per coltivare la vita interiore. Mi consta che qualcuno, lasciato per anzianità l'ufficio, non ha più frequentato la Messa: segno che il suo servizio non era che esteriore, non implicava nessuna convin­zione soprannaturale, non aveva un'anima. È tristissimo.

1. Negligenza, trascuratezza, pigrizia, omissioni nel proprio lavoro, sono mancanze contro i doveri di questa professione, come d'ogni altra. Quel che più importa è andare alla radice di questi difetti.

2. Mancanza di fede viva, d'un profondo spirito religioso. Certe genuflessioni appena abbozzate, magari correndo, il parlare a voce alta abitualmente (appena cessano le liturgie), il non sostare mai mai mai, un istante, soli, in preghiera e adorazione, dinanzi al tabernacolo, sono alcuni sintomi di deficiente pietà e di vuoto interiore. Si direbbe poi che il sacrestano, proprio perché è sacrestano, si trova nella condizione (o tentazione che dir si voglia) d'attendere più agli altri che alla propria vita spirituale. Quando è in chiesa non riesce mai a star quieto ed a raccogliersi perché pensa sempre all'andamento delle funzioni. E quando le funzioni sono finite ci sono le faccende ch'egli cerca naturalmente di sbrigare con una certa sveltezza per prendersi poi un po' di riposo e di libertà.

Omelie ne ascolta ben poche e le ascolta male; qualcuno,

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forse, non ne ascolta mai: per ima ragione o l'altra approfitta della predica per assentarsi e ritornare — orologio alla mano e orecchie agli altoparlanti — appena è finita. La Messa spesso l'ascolta a pezzi e quasi sempre in stato di tensione e distrazione: deve star attento a chi celebra e a chi partecipa alla celebrazione perché tutto si svolga ordinatamente e tempestivamente; deve raccogliere le elemosine... I sacramenti li frequenta poco perché dal parroco o dagli altri sacerdoti coi quali tratta ogni giorno preferisce non confessarsi (ed è giusto). Ma il male è che quando si comincia a rimandare Confessione e Comunione e si perde l'abitudine di riceverle periodicamente è facile cadere in una certa indolenza e non decidersi mai, neppure quando capiterebbe l'occa­sione buona di qualche sacerdote estraneo, di qualche missionario o predicatore. Avviene per l'anima come pel corpo: se si lascia lo stomaco troppo a digiuno, se non si osserva un certo orario nei pasti, si perde la vitalità, si perde anche l'appetito del cibo; se si rinuncia al sonno all'ora normale si stenterà a prenderlo anche se la stanchezza cresce, anche se il bisogno di riposo diventa estremo.

3. La mancanza di fede e di pratica religiosa spiega tanti comportamenti disgustanti. Viso scuro, risposte aspre; rifiuto a chi chiede la Comunione in ora o momento scomodi. Mancanza di pazienza e di autocontrollo. Poco compatimento (con l'aggiunta, forse, di qualche scapaccione) nel trattare coi fanciulli che ven­gono per servire all'altare e talvolta si comportan con vivacità e spensieratezza (come tutti ci siamo comportati a quell'età): vivacità, segno di sanità fisica e spirituale. Ma certi sacrestani e certe perpetue — per non aver fastidi — possono creare il deserto intorno al parroco. Non hanno una fede che fa loro scorgere la preziosità delle anime; mentre soprattutto importa che queste non si allontanino e non si perdano.

Noto fra parentesi che non è solo fra i laici secolari, ma anche fra i religiosi che si trovano sacristi i quali lasciano a desiderare. Scontrosi, lunatici, senza rispetto per i sacerdoti: si saluta e non rispondono, si rivolge loro la parola, si chiede qualcosa e rispon­dono seccati voltando la schiena... In sacrestia bisognerebbe tro­vare persone che abbiano un po' di educazione, ancor prima che di pietà.

« Problema difficile. Si stenta già — sento dirmi dai par­roci — a trovarlo un sacrestano. Ci vuol altro a pretendere che abbia le doti del sacrestano ideale! ». Sì, però bisognerebbe anzi-

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tutto aver la cura di individuare qualcuno che « potrebbe » esser idoneo; poi — prima di nominarlo — cercar d'istruirlo e di for­marlo avvisandolo che, per intanto, si prova per vedere come si troverà. E, quando fosse sufficientemente formato, allora nomi­narlo. Ed anche dopo nominato, non tralasciare, per quanto possi­bile, il lavoro di assistenza spirituale per un perfezionamento con­tinuo della persona e delle sue prestazioni.

4. C'è anche il sacrestano che, quando si decide ad aprire la sua anima ad un confessore di passaggio, gli dà del filo da torcere. L'occasione fa l'uomo ladro. Non è improbabile che qualcuno ceda alla tentazione di sottrarre nascostamente elemosine o qualche altro oggetto che vien usato o consumato in chiesa. Quando se ne confessa addurrà forse le sue ragioni scusanti. Se realmente la paga fosse inadeguata si potrebbe pensare anche ad una tollera­bile compensazione occulta. Ma ci sono parecchi « ma ». Intanto, non si può ammettere che uno si dichiari contento del salario che riceve, e che poi si arrangi sotto banco. Se si trovasse nella neces­sità, anzitutto dovrebbe manifestare il suo stato e caso a chi può provvedere. Se non ottiene ricorra più in alto: c'è un vescovo al quale deve premere che le istanze della giustizia sian soddisfatte anzitutto nell'ambito della sua Chiesa locale e, soprattutto, nell'in­terno del tempio di Dio.

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Parte terza

PENITENZA E CONVERSIONE CONTINUA

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1. La confessione frequente

Il tema della Confessione frequente è connesso con quello della Confessione privata perché nessuno (tanto meno fra i teo­logi) farebbe questione se si trattasse solo di confessione generica e di assoluzione comunitaria. Ma discutono sulla frequenza alla Confessione specifica auricolare (meno facile, meno comoda, più impegnativa). Qui si tratta dell'uso del sacramento della Peni­tenza non necessario. Il consiglio e la raccomandazione, non solo di tutti gli autori ascetici ma della Chiesa stessa, è sempre stato (anche per chi non ha peccati gravi e si comunica frequentemente e forse quotidianamente) di ricevere anche il sacramento della Confessione con una certa periodica frequenza, relativamente ai bisogni, condizioni, stato, possibilità del singolo.

1. Anzitutto la dogmatica ci fornisce alcuni principi a sostegno della Confessione frequente. In questo sacramento la stessa causa può esser sottoposta più volte al giudizio e può esser data una nuova assoluzione che giova sempre al penitente (debitamente disposto) perché ottiene ogni volta un'infusione di grazia (la quale di per sé avrebbe l'efficacia di cancellare il peccato; di fatto non lo cancella perché è già stato cancellato). Perciò, quand'anche il penitente accusi peccati veniali già direttamente rimessi, il sacra­mento produce sempre i suoi effetti ed utilità: aumenta la grazia « santificante », conferisce la grazia « sacramentale » (che aiuta ad evitare i peccati per l'avvenire), rimette le pene temporali, dovute alle colpe, o del tutto o parzialmente (secondo la dispo­sizione del penitente), tenuto conto anche delle concessioni che la Chiesa può ed intende fare mediante le indulgenze. Certamente i peccati veniali « multis aliis remediis expiari possunt » (C. Trid., sess. XIV, e. 5, D.S. 1680): ricevendo un altro sacramento (come l'Eucaristia, l'Unzione degli infermi) o compiendo una qualsiasi

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opera buona, atta a suscitare il fervore della carità o a produrre l'infusione della grazia: si ha allora un atto virtuale di penitenza (circa i veniali) — dice s. Tommaso (III , q. 87, a. 1): « puta cum aliquis hoc modo fertur secundum affectum in Deum et res divinas, ut quidquid sibi occurreret quod eum ab hoc motu retar-daret, displiceret ei, et doleret se commisisse, etiamsi actu de ilio non cogitaret ».

2. Le conclusioni pratiche ed ascetiche dovrebbero esser ovvie e, per tutti, indiscutibili. Eppure capita di sentire qualche peni­tente il quale riferisce d'aver avuto dal confessore il consiglio di non confessarsi tanto frequentemente. Questo consiglio non è con­forme alle costanti direttive e raccomandazioni del Magistero.

Nel Catechismo Romano c'è al proposito una pagina lumino­sissima e profondissima. Si legge che la Confessione è « il modo più facile con cui il Signore clementissimo ha provveduto alla comune salvezza degli uomini »; che nella Confessione i penitenti aprono il loro animo « ad un amico prudente e fedele che può aiutarli con la sua opera e col suo consiglio »; un uomo che è « Vicario di Cristo Signore », che è « obbligato da una legge seve­rissima ad osservare il segreto ». Il penitente ha un salvacondotto che gli facilita la Confessione di qualsiasi peccato, presso qualsiasi confessore. Nella Confessione — continua il Catechismo — il penitente trova « le medicine preparate che hanno una forza so­prannaturale non solo per guarire la malattia presente ma altresì per premunire l'anima contro le facili ricadute nello stesso genere di malattia o di vizio ». (Si allude qui alla grazia « sacramentale » propria del Sacramento). Per tali ragioni il Catechismo conclude decisamente: « nient'altro sperimentiamo tanto vantaggioso alla riforma della vita come la confessione frequente » (Padova, 1930, p. 235).

Pio XII nella « Mystici Corporis » accenna ad « alcuni » i quali « asseriscono che non è da dar tanta importanza alla Con­fessione frequente delle mancanze veniali perché (dicono) meglio converrebbe alla remissione di queste colpe quella confessione generale che ogni giorno la Sposa di Cristo — coi suoi figli a sé congiunti nel Signore — fa per mezzo dei sacerdoti che stanno per ascendere all'altare di Dio ». Che ci siano « bensì molte e som­mamente lodevoli maniere » per espiare questi peccati, è pacifico. Però — afferma l'enciclica — l'uso della Confessione frequente anche per i veniali è stato « indotto dalla Chiesa non senza l'ispi-

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razione dello Spirito Santo ». Ed aggiunge: « Riflettano dunque quelli che fra le file del giovane clero attenuano od estinguono la stima per la confessione frequente. Sappiano che intraprendono un'opera aliena allo spirito di Cristo e funestissima al Corpo Mi­stico del nostro Salvatore » (AAS, 35, 1943, 235). Stanno a pro­varlo con inconfutabile evidenza i frutti dell'ascetica dei nuovi maestri.

Il Vaticano II nel decreto sul ministero e la vita sacerdotale afferma che « i ministri della grazia sacramentale s'uniscono inti­mamente a Cristo Salvatore e Pastore ricevendo fruttuosamente i sacramenti: specialmente con l'atto frequente della Penitenza sacramentale: quest'azione — preparata dal quotidiano esame di coscienza — quanto mai favorisce la necessaria conversione del cuore all'amore verso il Padre delle misericordie » (PO, 18).

Il « Direttorio liturgico-pastorale », edito dalla CEI nel 1967, ritorna a raccomandare la frequenza alla Confessione specialmente nei tempi liturgici penitenziali. Se è opportuno (sia per la comu­nità che per i ministri) che ci sia anche un orario perché i fedeli sappiano quando possono trovare il confessore in chiesa, però parroco e coadiutori dovranno essere sempre disponibili.

Nelle recenti disposizioni della S.C. dei Religiosi (8.XII. 1970) sull'uso e l'amministrazione della Penitenza, si raccomanda che i religiosi, « solleciti della propria unione con Dio, si sforzino d'ac­costarsi al sacramento della Penitenza frequentemente, cioè due volte al mese. A loro volta i Superiori curino di promuoverne la frequenza e provvedano perché i membri possano confessarsi almeno ogni due settimane, ed anche più spesso, se lo deside­rano ». Nel CJC (e. 595) si leggeva che i Superiori devono curare che tutti i religiosi s'accostino al sacramento della Penitenza al­meno una volta alla settimana. Apparentemente c'è quindi una riduzione e quanto alla forza di questa disposizione e quanto alla materia, cioè alla frequenza della Confessione. Prima si riteneva una regola d'obbligo (e per questo il superiore poteva vigilare ed intervenire perché fosse osservata). Però (come tutte le regole in quanto tali) non era, per sé, obbligatoria sotto pena di peccato. Ora è regola di consiglio: quindi affidata alla responsabilità del singolo. Comunque sostanzialmente non c'è differenza: resta sempre il consiglio della Confessione frequente; niente di meglio se anche più frequente che due volte al mese.

In un documento pastorale in data 11 marzo 1972 la CEI ritorna sull'argomento della Confessione frequente. « Sempre in

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ordine alla conversione, la misericordia del Padre ha affidato alla Chiesa un particolare strumento di riconciliazione, di grazia e di vigore spirituale: il sacramento della Penitenza. Vivace e per molti aspetti positiva è la problematica esistente in Italia intorno alla Penitenza. Nella ricerca teologico-pastorale relativa a questo sacramento, pur tra non poche incertezze, vanno emergendo orien­tamenti validi: l'accento più vivo sulla dimensione comunitaria del peccato e della riconcializione sacramentale, sulla conversione interiore quale traguardo primario della penitenza, sulle celebra­zioni penitenziali come efficace preparazione alla confessione e all'assoluzione. Si deve tuttavia rilevare che l'accesso alla confes­sione sacramentale, soprattutto da parte dei giovani e degli adole­scenti, si va facendo più raro. E maggiormente addolora che la gravità di questo fenomeno sembra non avvertita anche da educa­tori cristiani, sacerdoti compresi » (OR, 25.111.1974, p. 4).

La S.C. per la Dottrina della Fede nelle « Norme circa l'asso­luzione sacramentale in forma collettiva » (AAS, 64, 1972, 510-514) ammonisce i sacerdoti che « non si permettano di dissuadere i fedeli dalla pratica della Confessione frequente o di "devozione". Al contrario mettano in luce i suoi abbondanti frutti per la vita cristiana ». E si cita il monito di Pio XII nell'Enciclica Mystici Corporis. Si raccomanda quindi ai presbiteri « di mostrarsi sempre disposti ad ascoltare le confessioni, tutte le volte che i fedeli ragionevolmente lo domanderanno ». Ed aggiunge due motivi, uno interiore, l'altro esteriore: « bisogna assolutamente evitare che la Confessione individuale sia riservata ai solo peccati gravi: ciò priverebbe i fedeli del frutto ottimo della Confessione; e poi nuo­cerebbe alla fama di coloro che si accostano singolarmente al sacra­mento » (n. XII).

Nel Docum. Past. della C.E.I. del 12.VII.1974 si ritorna su questo problema « bisognoso di chiarificazione »: la frequenza al sacramento. Si nota che « specialmente fra i giovani si va diffon­dendo l'uso di stare per lungo tempo lontani dalla Confessione, accostandosi ugualmente all'Eucaristia; altre persone invece non fanno la Comunione senza essersi ogni volta prima confessate. Le disuguaglianze in merito, nel pensiero e nella prassi dei fedeli, anche impegnati, trovano quasi sempre la loro origine nella diversità di opinioni su un punto di tanta importanza » (n. 28). In questa analisi del comportamento religioso circa la Confessione, e sulle cause, il Documento aggiunge che « stanno inoltre diffon­dendosi esperienze di revisione di vita comunitaria, che sembrano

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sostituire la celebrazione del sacramento o sminuirne l'importanza e il valore » (n. 29). Si esortano quindi in particolare <c Vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e anime comunque consacrate al ser­vizio di Dio e dei fratelli » a ravvivare di continuo lo spirito di penitenza « nella pratica frequente del sacramento » (n. 109). E se nei fedeli si lamenta la poca frequenza, d'altra parte il citato Documento rileva che « dall'inchiesta socio-religiosa promossa dalla C.E.I. risulta piuttosto frequente la difficoltà di trovare sacerdoti, che pur essendo liberi da altri impegni pastorali, si prestino per le confessioni. È stata inoltre segnalata la grande difficoltà di un dialogo tranquillo e sereno fra sacerdote e peni­tente. Per questo e per altri motivi, derivanti da discutibili impo­stazioni teologiche, si nota in alcuni sacerdoti stanchezza e sfi­ducia nell'esercizio di questo ministero loro proprio della ricon­ciliazione » (n. 25). E infine alcuni suggerimenti di pedagogia pastorale: « un orario opportunamente prefissato, in base alle pos­sibilità concrete dei fedeli: un orario nel quale i fedeli troveranno certamente il sacerdote disponibile » (n. 93); il luogo della cele­brazione sia dignitoso e funzionale (n. 94): insomma si cercherà di curare — nella normativa del tempo, del luogo e del modo della celebrazione — tutto quanto può facilitare l'accesso dei fedeli al sacramento (possibilmente fuori della celebrazione della Messa), tutto quanto può far apprezzare l'importanza insostituibile, nella vita spirituale, di questo mezzo, far sentire ai penitenti la verità e la dignità di questa celebrazione: « tutto, dall'abito liturgico del confessore all'atteggiamento in genere di sacerdoti e fedeli, deve essere rispettoso dell'azione sacramentale » (n. 94).

E « poiché rimane per tutti obbligatorio il ricorso almeno annuale al sacramento della Penitenza, che viene a coincidere abi­tualmente con la Comunione pasquale, ne deve essere particolar­mente curata la celebrazione; se preparata con impegno, scaglio­nata nel tempo ed eventualmente distinta per categorie o gruppi di fedeli, la Confessione annuale potrà svolgersi con dignità e calma... Le celebrazioni comunitarie della Penitenza, fissate in qualche feria quaresimale o in prossimità del Triduo pasquale, sembrano la forma pastoralmente più valida per meglio distribuire nel tempo e più adeguatamente celebrare con frutto le Confes­sioni annuali » (n. 110). Queste celebrazioni si potranno tenere molto opportunamente anche « in occasione delle grandi feste sia della Chiesa universale che di quella locale » (n. 111). E perché i singoli fedeli abbiano sempre la possibilità di confessarsi quando

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10 desiderano « è auspicabile che almeno nelle città più ricche di luoghi sacri e più dotate di clero, venga designata una chiesa in cui i fedeli trovino abitualmente comodità di celebrazioni e di sa­cerdoti » (n. 113).

Nella lettera (firmata dal Card. Villot) che Paolo VI ha fatto pervenire alla XXVI Settim. Lit. Naz. (OR, 27.VIII.1975, p. 1) si legge: « C'è purtroppo chi tiene in poco conto la Con­fessione frequente: ma non è questo il pensiero della Chiesa. An­che il nuovo rito raccomanda la Confessione frequente, presen­tandola come rinnovato impegno di accrescere la grazia del Bat­tesimo, e come occasione e stimolo per conformarsi più in­timamente a Cristo, e per rendersi sempre più docili alla voce dello Spirito; anzi, come il Sommo Pontefice ha sottolineato nella sua Esortazione Apostolica sulla gioia cristiana, la Confessione frequente resta una sorgente privilegiata di santità, di pace e di gioia (AAS, 67, 1975, p. 312) ».

Ma naturalmente i sacerdoti non potranno esser con entu­siasmo disponibili alle Confessioni dei fedeli se non praticano per primi, con sincera convinzione, la frequenza al sacramento. Nella dichiarazione finale del gruppo di lingua francese, al III Sinodo dei Vescovi — ottobre 1971 — c'era, fra l'altro, questa forte affermazione: « Senza essere un monaco, il sacerdote deve sforzarsi di vìvere in una adesione senza riserve al Signore. L'intimità con il Cristo è a prezzo d'un costante controllo del cuore e dei sensi. L'esame di coscienza si rivela dunque indispen­sabile, come una regolare frequenza del sacramento della pe­nitenza ».

3. Ma a queste ed a tante altre ufficiali ed indiscutibili dichiarazioni del Magistero, alcuni sembrano attendere ben poco. 11 fatto più grave è che oggi la minor frequenza alla Confes­sione non è solo dovuta a soggettivi timori, superficialità, tra­scuratezza, ignoranza, dei penitenti singoli, ma è difesa da scrittori che si distaccano da tutta la tradizione della Chiesa. I quali credono di aver argomento di ordine teologico, morale, ascetico, pratico, per affermare che « la frequenza alle confessioni può opportunamente diminuire » (AA.VV., La penitenza..., o.c, p. 118). A questa conclusione può giungere chi pensa che, in morale, non è tanto da considerare i singoli atti peccaminosi, ma la opzione fondamentale, o disposizione abituale che dir si voglia. Come in un film non son tanto le singole immagini che han valore, quanto il senso del film intero. Ad una morale

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degli atti si sostituirebbe cosi una morale della disposizione: ed è soprattutto il regresso nella disposizione morale abituale, dicono, che va esaminato. Però è difficile giudicare quale influsso abbiano i singoli atti cattivi nelle disposizioni fondamentali. Per vedere se si regredisce realmente occorrerà una considerazione a distanza, di quando in quando. Quindi, si conclude, non è il caso di confessarsi tanto spesso dei singoli atti (cfr. Orientamenti per un rinnovamento della pratica penitenziale, a cura della Comm. Dottr. della Confer. Ep. e Past. Làturg. del Belgio, trad. it. LDC, 1974, pp. 14 ss.).

Ma questo ragionamento è sbagliato e nelle premesse e nella conclusione. Come è per gli atti buoni che cresce la gra­zia santificante, cosi è per gii atti cattivi che essa si spegne od almeno diminuisce la vita dello spirito. È poi dalla ripetizione degli atti che si formano le abitudini. Pertanto è pienamente giustificato l'esaminarsi, il pentirsi, il proporre, il fare la Con­fessione di atti che, altrimenti, ripetuti, porterebbero agli stati ed alle disposizioni cattive.

Motivi psicologici e pratici che possono influire nella rarefa­zione delle confessioni. E umiliante raccontare ad un altro uo­mo le proprie intime miserie. Per questo al posto della Con­fessione individuale, si preferirebbe quella comunitaria generica. Certamente la Confessione costituisce un atto d'umiltà, ma è anche una liberazione se il confessore, oltre ad esercitare la funzione di giudice è consapevole di rappresentare il Padre che accoglie il figliol prodigo e di rappresentare il Cristo che salva l'adultera dalla pena della lapidazione e la indirizza sulla via della redenzione. Del resto, a chi ritenesse che l'uomo moderno non sopporti più una mediazione sacerdotale nei suoi rapporti con Dio e vorrebbe una Penitenza ridotta all'interiorità, si deve rispondere che l'uomo non è solo spirito e quindi, se veramente pentito, sente il bisogno — per un desiderio della natura — di manifestare il suo stesso sentimento a qualcuno dal quale attende una rassicurante parola di conferma e di conforto: « sta tranquillo, sei perdonato, il peccato è distrutto ». Perciò non bisogna ridurre la Confessione ad una pratica esteriore, buro­cratica, ma neppure soddisfarebbe l'uomo una Penitenza ridot­ta solo ad un atto del cuore. Dio, istituendo il sacramento, è venuto incontro alla natura dell'uomo ed ha facilitato la remis­sione dei peccati. Ma — si obbietta ancora — se non umiliante, è monotono raccontare sempre le stesse mancanze al confessore,

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A questo proposito bisogna dire che chi credesse di voler tro­vare sempre qualcosa di nuovo per evitare la monotonia, non avrebbe capito che la vita morale cristiana domanda praticamente all'uomo proprio il coraggio di ripetere sempre gli stessi propo­siti, instancabilmente.

Ma — si ribatte — non bastano i propositi. E l'esperienza attesta la carenza di quei frutti che si dovrebbero sperare dalla Confessione frequente. E la ragione -*- si dice — è che questi penitenti, sapendo di aver a disposizione un facile mezzo per otte­nere il perdono, s'impegnano meno nella lotta contro il peccato. Meglio sarebbe quindi (concludono) insistere sull'importanza della penitenza come virtù, anziché sulla pratica del sacramento. Ma anzitutto è da respingere l'accusa che coloro i quali hanno l'abi­tudine alla Confessione frequente sono come tutti gli altri. Sia pur gradatamente, sono in via di miglioramento; se non altro, evitano di diventare peggiori; se non altro, conservano il senso del peccato (ed è già molto, specialmente oggi). Rica­dono nel peccato? Ebbene: ciò avviene semplicemente perché fragile è la natura umana e libera è la volontà. Nel momento in cui si confessa, il penitente propone di non peccare. Il suo proposito (si presume) è sincero. Quando pecca sa che è incoe­rente e si procura il suo male: mistero della debolezza e della libertà umana. Ma nella Confessione l'inesauribile bontà di Dio ci aiuta a risollevarci: mistero del peccato umano e della risur­rezione soprannaturale. Ma per risorgere è necessaria la grazia: la grazia preveniente invita il peccatore a risorgere e, mediante di Sacramento, opera l'effettiva risurrezione nel modo piti sicuro e più facile. Da inchieste condotte recentemente sull'argomento risulta che specialmente i giovani riconoscono sinceramente l'effi­cacia insostituibile della Confessione privata e della direzione spirituale; e son d'accordo che se quest'efficacia vien meno è solo perché ricorrono al sacramento troppo irregolarmente, cam­biando ogni volta confessore. Parlo di giovani che han fatto una qualche esperienza personale della vita cristiana, dei pericoli che la minacciano; e di quei giovani che spontaneamente parlano di quanto pensano, senza le prevenzioni inoculate da qualche mo­ralista odierno.

La Penitenza poi, come virtù — se implica fede, speranza, amore di Dio — toglie il peccato, senza dubbio. Nulla di meglio se ancor prima dell'assoluzione si producono queste abituali disposizioni. Ma sarà facile questa conversione intima senza il

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sacramento? Avverrà quanto prima? Avverrà immediatamente dopo il peccato? Il sacramento resta il mezzo più facile per la trasformazione interiore. Più facile e più efficace perché ristabi­lisce tutto l'apparato soprannaturale appena c'è il minimo di do­lore richiesto ad ottenere il frutto. Si sentirà indotto ad una vita di penitenza chi non ha l'aiuto della Confessione e della Co­munione?

« Ma son sempre le stesse quattro vecchie — dice qualcuno; hanno altri mezzi per ottenere la remissione dei peccati veniali; abituiamole a non disturbare il confessore, a disporsi meglio all'Eucaristia... ». Per farla corta e non ripetere tutte le ragioni già addotte, a coloro che portano siffatte giustificazioni si deve rispondere semplicemente: ognuno che chiede ragionevolmente di confessarsi ne ha il diritto; ed il confessore deve prestarsi perché i penitenti ricavino il frutto proprio di questo sacramento (e non rimandarlo ad un altro sacramento). Si obbietta ancora: « sono per lo più fanciulle e fanciulli i quali, o vengono a con­fessarsi come vanno a giocare, oppure trovano nella Confessione l'occasione per sviluppare in sé un'ansia morbosa del peccato ». Ma non è giusto generalizzare sulla mancanza di consapevolezza dei fanciulli nella loro pratica sacramentale. Anche se non lo di­mostrano, essi sono permeabili dalla parola di Dio. La fobia della colpa e lo scrupolo, poi, sono una eccezione. Ed il con­fessore saprà curare questi stati e trattare debitamente qualche soggetto ipersensibile. Non offre anche questo rimedio la pra­tica sacramentale se il confessore è intelligente ed esperto? I fanciulli devono piuttosto esser accuratamente istruiti, ma non privati della Confessione. Devono aver in merito idee giuste: conservino il santo timore del peccato cosicché né ritengano su­perflua la Confessione né siano ghermiti da incubi irragionevoli, ad esempio circa la sufficienza dell'accusa, la gravità di ciò che grave non è, i peccati veniali dimenticati... « Ma — s'insiste — che vantaggio psicologico può dare l'amministrazione d'un sacra­mento ridotta (come il più delle volte) ad una formula sbrigati­va? ». Sarebbe da chiedersi: e chi l'ha ridotta ad una formula sbrigativa? I penitenti, la Chiesa, oppure certi confessori? Sta il fatto che i penitenti si lamentano proprio di questi confessori sbrigativi. Quando trovano un confessore che s'interessa della loro vita spirituale non lo lasciano più.

Si può concludere mestamente che se continuerà (od aumen­terà) questa rarefazione delle Confessioni, anche le Comunioni

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diminuiranno. Ed anche la santificazione del giorno festivo sarà meno sentita e praticata. Perché — osservava Jungmann — Do­menica ed Eucaristia appartengono l'una all'altra. La Messa è in prima linea fatta per la Domenica, e la Domenica trova il suo pieno senso nella Messa. Nere previsioni fantastiche? Ci sono fatti e indizi concreti. Qualche anno fa giunse da Bonn la notizia che l'Ufficio Centrale della Pastorale per i giovani aveva domandato alla Conferenza Episcopale Germanica di prendere posizione in merito alla Messa domenicale per i giovani e di permettere di sostituirla con una celebrazione ecumenica della Parola. Pensavano di poter soddisfare cosi all'obbligo della Messa e della santificazione della festa. Il card. Doepfner, quale pre­sidente della Conferenza episcopale, rispose che non si possono diminuire gli obblighi e le esigenze della fede, sacrificandoli alle tendenze del nostro tempo. Vi sono buone speranze nella gioventù cattolica, ma la fede viene minacciata dal pericolo di riduzione a traguardi esclusivamente terreni. La Messa dome­nicale non è soltanto un obbligo ma una necessità per nutrire la vita della fede. Tanto meno le eventuali celebrazioni ecume­niche della Parola in riunioni di fine settimana possono sostituire la celebrazione eucaristica domenicale (OR, 26-27.XI.1973, p. 2). Si è facili a criticare il passato, in particolare la prassi della Confessione prima della Comunione in giorno di festa, da parte di chi non aveva forse peccati gravi certi. Ora, può darsi — è stato osservato — che i nostri padri non avessero idee teologiche profonde e quei grandi motivi della santificazione della Domenica (richiamati dall'ultimo Concilio). Però « la Do­menica e le altri feste rimanevano i punti salienti della vita spi­rituale della stessa comunità; i sacramenti erano maggiormente frequentati, l'istruzione catechetica era impartita con vero amore » (P. Felici, Questo è il giorno che ha fatto il Signore, OR, 1-2.X.1973).

2. Confessione e direzione spirituale

Confessione frequente e direzione spirituale: i due argomenti sono in pratica connessi. Il confessore non è solo giudice: è anche medico e consigliere spirituale. Ed il primo consiglio spirituale non può esser che quello della frequenza alla Confessione. Confessione che, insieme alla Comunione, è efficacissima medicina. Anzi, in

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molti casi, si deve dire che è mezzo necessario per vincere il peccato grave, perché altri mezzi altrettanto efficaci ed altrettanto facili non si danno. Specie per i giovani: perché si liberino da certe catene del vizio e, anzitutto, perché sappiano resistere alle passioni e non ne diventino schiavi. Confessione e direzione spi­rituale sono, poi, connesse perché nessuno come il confessore abituale può conoscere i bisogni spirituali di un'anima che vuol esser guidata.

Tutti i maestri d'ascetica consigliano che (tolti i casi di neces­sità o d'evidente utilità) la direzione spirituale sia fatta a voce e non per iscritto; e che, in genere, il sacerdote — se deve scri­vere — si limiti a dare alle sue lettere il carattere d'una risposta, per quanto possibile breve, completa (senza riferimenti ad altre sue lettere). Nella corrispondenza tra Vincenzo de' Paoli e Luisa de Marillac abbiamo l'esempio di riscontri scritti al margine o alla fine della stessa lettera che il santo aveva ricevuta. Sant'Igna­zio, nel dicembre del 1542 — dopo aver, come al solito, ben ponderato vantaggi e pericoli — dava ai membri del suo Or­dine precise direttive in materia di corrispondenza. Faceva notare che è cosa delicatissima. Quanto raccomandava lo metteva per primo in pratica. La sua corrispondenza con donne è molto scarsa M

(a differenza di quella di s. Francesco di Sales con la Chantal). Usava la massima diligenza curando non già lo stile ma la so­stanza: l'esattezza e la chiarezza del pensiero. Dunque, di norma, direzione spirituale a voce. E per le donne è senz'altro meglio — per molteplici ragioni — che, di massima, sia data brevemente in confessionale in occasione della loro Confessione. È sufficiente ed efficacissima. Purché, evidentemente, abbia una certa perio­dicità. Ma non solo le donne, anche gli uomini devono vedere e trovare nel confessore, oltre al ministro della grazia, anche il consigliere per una vita più fervorosa, « l'amico prudente e fedele » (come si esprime il Catechismo Romano, p. 235). Al­lora faranno con frequenza la loro Confessione sacramentale. Certo la direzione spirituale non è il motivo primario per il quale è consigliata la Confessione frequente. Ma non si può neppure ammettere incondizionatamente quanto è stato scritto: che i vantaggi della direzione spirituale « possono essere per-

23 Delle quasi 7.000 lettere che scrisse, 89 sono indirizzate a donne (cfr. H. Rahner, Ignazio di Loyola e le donne del suo tempo, Milano, 1968, p. 743).

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seguiti con maggior efficacia fuori del confessionale » (AA. W . , La penitenza..., o. e, p. 120).

La direzione spirituale oggi è messa sotto accusa insieme alla Confessione. Nel modo come sono state praticate finora — si dice — avevano assunto un'indebita importanza. Si finiva per nascondere ciò che costituisce la parte preminente del rito sa­cramentale: l'azione del Cristo riconciliatore. E si dimenticava (e si faceva dimenticare) l'interiore istinto dello Spirito: la prima guida delle anime. Queste critiche però sono esattamente con­trarie a quelle che lamentano la poca importanza che si sarebbe data all'opus operantis per tutto attendere dall'opus operatum. Simili contraddizioni fanno pensare quanto validi siano i fon­damenti dell'odierna contestazione in questa materia. È da dire invece che ogni sacramento vuole una collaborazione dell'uomo colla grazia: tutto ciò che aiuta la corrispondenza umana va apprezzato; fra questi mezzi c'è la direzione spirituale, pruden­temente praticata: con attenzione all'inizio ispiratrice della grazia e con rispetto della personalità umana. Ciò importa un trattamen­to diverso da anima ad anima. Non si può, come il vasaio, dare una formazione a stampo. Il lavoro del direttore spirituale deve svolgersi in spirito di collaborazione e senso di corresponsabilità.

Non entriamo ad analizzare a fondo questioni accademiche: se la direzione spirituale sia o no necessaria alla perfezione; se si debba o no obbedienza al direttore spirituale. Vi accenniamo soltanto.

I. La necessità assoluta non consta: non mancano altri mezzi specialmente quando la direzione spirituale venisse a mancare per ragioni indipendenti dalla volontà umana: « Come si son santificati innumerevoli solitari nelle grotte e nei deserti, senz'al-tri direttori che gli uccelli e le piante?... Quando il direttore manca, non manca Dio... Egli non può rifiutarsi a chi lo cerca con tutto il cuore » (Sant'Alfonso, Lettere, I, Lilla, 1888-98, p. 188). Ma è pure certa l'estrema utilità della direzione spirituale per un'anima che può avere a sua disposizione un consigliere pio, dotto, equilibrato, sperimentato. Ed è sbagliato il pensare che ne abbiano bisogno specialmente i caratteri deboli, timidi, incerti. Forse ne avrebbero più bisogno i forti, i coraggiosi, i decisi. Appunto perché sono coloro che si fidano troppo di sé. Cosi pure coloro che sono chiamati a comandare (o sono fatti, come si dice, per comandare) dovrebbero spesso ricorrere ad un illuminato e sereno consigliere. San Bonaventura in un punto

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dell'opuscolo « De sex alis Seraphim » ha cercato di enumerare tutte le virtù che sarebbero necessarie perché uno possa ritenere di non aver bisogno d'un maestro (virtù quali una scienza tale da non errare in ciò che è necessario sapere, un empito di fervente devozione, un amore per il bene che faccia quasi naturalmente aborrire da ogni male, l'umiltà in tutto, la stabilità). Ma con­clude: « siccome è difficile trovare simili anime, perciò a pochi conviene vivere senza il giogo dell'obbedienza. Perciò è neces­sario che anche coloro che sono al governo di altri, siano essi pure — per poter agire meglio, più cautamente — guidati da qualcuno, fino al sommo Pontefice di tutti che — vicario di Cristo — è capo di tutta la Chiesa militante » (Opera omnia, Vi l i , Quaracchi, 1898, p. 132). Scriveva Pio XII nell'Esorta­zione Apostolica « Menti nostrae » del 23.IX.1950, ai sacerdoti: « E qui... riteniamo opportuno rivolgervi un'esortazione: entrando e progredendo nel cammino della vita spirituale non vi fidate troppo di voi stessi, ma con animo umile e docile, ricevete con­siglio e domandate aiuto da chi con saggia direzione può guidare l'anima vostra, può preavvisarvi degli imminenti pericoli, sug­gerirvi gli idonei rimedi ed in tutte le difficoltà insorgenti dal­l'interno e dall'esterno, può condurvi rettamente ed avviarvi a perfezione ogni giorno maggiore... Senza queste prudenti guide dello spirito, in via ordinaria (plerumque) è difficilissimo asse­condare in modo retto gli impulsi superiori dello Spirito Santo e della grazia divina » (AAS, 42, 1950, 674). Ci sono poi circo­stanze speciali nelle quali un uomo umile e di buon senso sponta­neamente ricorre al consiglio d'una persona assennata. Quando attraversa momenti di prova e di sofferenza acuta (anche per disgrazie naturali): non è secondo l'economia della Provvidenza che si attenda solo il suo diretto intervento e si trascurino i mezzi umani. Quando si tratta di scegliere uno stato di perfezione (come potrebbe esser per un sacerdote la vita religiosa); quando, nella vigna del Signore, un operaio intraprende un'opera difficile a cui gli pare di sentirsi chiamato; quando un sacerdote avesse in animo di concorrere ad un ufficio, avere una carica che può riservargli sorprese e rischi; per un pastore d'anime, prima di prender una decisione che può esser utile ma anche disgustare ed allontanare molti parrocchiani; prima di reagire rispondendo pubblicamente ad una critica: atto che può esser tanto vantaggioso come svantaggioso.

Nel decreto del Vaticano II sul sacerdozio si afferma esser

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estremamente utile una diligente e prudente direzione spirituale per il discernimento e la preparazione di coloro che sono chia­mati al sacerdozio {PO, 11).

Anche negli ordini religiosi (dove pur ci sono altre guide e tanti aiuti) l'opera del direttore spirituale non potrà mai essere pie­namente sostituita. Il CJC (e. 891) proibisce espressamente al sa­cerdote il quale sia maestro dei novizi, di ricevere la loro sacra­mentale Confessione (eccetto casi particolari per gravi ed urgenti ragioni). D'altro canto novizi e novizie non sono tenuti a manife­stare lo stato intimo della loro coscienza (peccati, passioni, cat­tive inclinazioni) al maestro o alla maestra di noviziato: e que­sti non possono indurli né direttamente né indirettamente a tale rivelazione. Perciò il direttore spirituale conserva il suo ruolo importante e decisivo, nell'istituto, con un ministero che altri non possono sempre efficacemente e liberamente praticare. Con que­sta funzione egli collabora coi superiori esterni alla preparazione e formazione dei religiosi.

Da una direzione spirituale illuminata riceveranno immensa utilità tanto gli indotti come gli intellettuali, tanto chi è agli inizi come chi è avanti nella via della perfezione, tanto gli anziani (pur maturi d'esperienza) come i giovani (i quali hanno ancora da ricevere una sana formazione spirituale ed, insieme, stanno per fare scelte impegnative e decisive).

II . Circa il dovere, o meno, di seguire le direttive del diret­tore spirituale, non si vede quale titolo egli possa avere per esigere una vera obbedienza. S'intende, in quanto è solo diret­tore spirituale: in quanto confessore può e deve esigere che il penitente non rifiuti di compiere ciò che è richiesto ed implicito nella stessa volontà sincera di conversione. Però, il confessore, anche come direttore spirituale, va tenuto in particolare stima qualora abbia doti di dottrina e saggezza: i suoi consigli meritano una particolare considerazione. Ma circa un singolo determinato consiglio, il dovere di seguirlo non viene direttamente dall'autorità del direttore spirituale, ma dalla intrinseca saggezza del consiglio stesso. Se una data azione s'impone, quest'obbligo ci sarebbe anche senza la parola del direttore spirituale. Questa non è sta­ta che un mezzo, offerto dall'ordinaria Provvidenza, per cono­scere il meglio. Per il restante, ognuno deve conservare sempre la sua libertà. Quindi, se non ha ragioni per metter in discussione il consiglio ricevuto, l'anima di buona volontà lo seguirà, come segue la luce ogni sincero cercatore della verità. Nel dubbio, può

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ben presumere che il direttore, se è dotto, ben informato del caso e spassionato, abbia percezione e giudizio più di lei. Ma ci possono anche esser certe circostanze che al consigliere sfug­gono e certi fatti intimi che egli (per la sua mentalità e le sue ristrette esperienze) stenta a capire e solo l'anima interessata conosce e sperimenta. Il suo consiglio potrebbe allora non essere attuabile, o non il più giusto. Chiedere un'obbedienza cieca sarebbe pretendere un dovere e un legame che non esistono. E potrebbe significare anche una comoda dispensa da ogni giudizio perso­nale responsabile. In effetti, l'ultima decisione è riservata al soggetto (dopo serena riflessione sui consigli ricevuti e sulle pro­prie possibilità). Ci sono dei casi nei quali (si dice) una obbe­dienza cieca è la via migliore, perché l'anima si trova in parti­colari difficoltà psicologiche, quale uno stato di ansia e perples­sità che non le permette una chiara e calma apprensione della realtà. È il caso degli scrupolosi. Ma sono misure d'eccezione. E da usarsi in materia limitata.

I II . Oggetto della direzione spirituale saranno tutte le scelte che interessano un'anima, dal punto di vista religioso, morale, ascetico. Ma non sono escluse le scelte di ordine temporale per­ché possono essere una liberazione ed un aiuto alla vita dello spirito.

1. La più importante è quella dello stato di vita; ed anche quella della professione « quia professio est id, quo maxime tota hominis vita regitur et quo ideo maxime manifestatur Voluntas divina circa hunc determinatum hominem ("sors" huius hominis) » (L. Hertling, Th. Ascet., Roma, 1944, p. 153). Fine ed obbiettivo ultimo e generalissimo degli « Esercizi spirituali » di s. Ignazio è « lodare, riverire, servire Dio » {Ex. Esp., 23). Ma fine più particolare ed immediato è la soluzione di qualche problema concreto che in modo speciale interessa un'anima: « cercare e trovare la volontà di Dio nella disposizione della propria vita » {Ex. Esp., 1). L'oggetto totale della «electio» ignaziana non si restringe alla scelta dello stato ma è questa la prima scelta pra­tica, per chi non l'avesse ancor fatta. Si può dire che s. Ignazio considera gli Esercizi Spirituali come destinati in modo parti­colare alla elezione dello stato. La quale dev'esser fatta secondo l'ispirazione dello Spirito Santo, perché c'è per ognuno una chia­mata interiore. Bisogna mettersi nella condizione di conoscere qual è realmente questa chiamata; e poi seguirla fedelmente e

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prontamente. Per chi ha già fatto la scelta dello stato, gli Eser­cizi servono a dare una direzione, un orientamento ed un ordine migliore allo stato già abbracciato, per sempre più conformarsi alla volontà di Dio. In questa volontà di Dio rientra anche la scelta della professione. Abbracciare un lavoro professionale è, per molti, doveroso; per tutti coloro che ne hanno le risorse, è certamente un mezzo di perfezione. La scelta va fatta in seguito ad un esame e ad un giudizio prudenziale, attendendo a tutte le circostanze dalle quali può emergere la volontà divina. Special­mente i giovani, dunque, avrebbero bisogno d'un consigliere; prima nelle loro scelte, decisive, alcune, per tutta la vita — scelta dello stato, della professione, della fidanzata o del fidanzato — e poi nei primi incerti passi della loro carriera professionale.

2. Nel campo più direttamente religioso ed ascetico, l'opera del direttore spirituale mirerà ad insegnare l'arte della preghiera ed a formare anime oranti. Orazione personale: non solo quindi pubblica, liturgica, biblica, ma anche privata; non solo orale, ma anche mentale (sia dettata dal cuore, sia suggerita da un libro o dalla parola viva di un predicatore). L'orazione mentale pre­para la via a quella liturgica per poi fondersi con questa, gu­starla, ricavarne i migliori frutti. Il confessore fervente ed intel­ligente sa, con una brevissima direzione spirituale, insegnare a certi penitenti ben disposti l'arte di meditare. Gradatamente e dolcemente, senza che se ne accorgano. Potrà dapprima suscitare il bisogno d'attingere qualche stimolante pensiero ad un libro adatto (ma oggi è facile indicarlo e trovarlo?) e suggerire di leg­gerlo lentamente, per alcuni minuti, soffermandosi su ciò che fa più impressione, su ciò che più interessa la vita del soggetto. Questo è un avvio ed un modo di meditare. Ce ne sono altri. S. Ignazio nella quarta settimana degli « Esercizi Spirituali » (nn. 238-260) suggerisce tre metodi d'orazione mentale. Il primo si può chiamare meditazione — esame (o esame meditato) ed ha per oggetto la propria vita coi suoi doveri e le sue mancanze. Metodo facile, adatto sia a coloro che sono principianti, sia a coloro che sono molto esercitati nella vita spirituale. Il secondo metodo consiste nel considerare il significato d'ogni parola d'una preghiera — come il « Pater noster », 1'« Anima Christi », il « Suscipe Domine » — ed arrestarsi in questa considerazione fin­ché vi si trovano significati, applicazioni, gusto e consolazione spi­rituali. Il terzo metodo d'orazione mentale consiste semplice­mente nella recita lenta d'una preghiera riflettendo « fra un respiro

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e l'altro, soprattutto al significato di tale parola, od alla persona a cui è rivolta o alla meschinità di se stesso od alla differenza fra tanta altezza e tanta bassezza propria » (Ex. Esp., n. 258). A tutti poi, anche se non sono capaci di applicare l'intelletto e fare ragionamenti, si può suggerire la pratica del semplice e brevissimo sguardo a Dio. « Non vi chiedo già — scriveva santa Teresa d'Avila, rivolgendosi alle sue consorelle religiose — di concentrarvi tutte su di Lui, di formare alti e magnifici concetti ed applicare la mente a profonde e sublimi considerazioni. Vi chiedo solo che Lo guardiate. E chi vi può impedire di volgere su di Lui gli occhi della vostra anima sia pure per un istante se non potete di più? » (Camino de la perfección, e. XXVI, 3). Ed altrove: « Voglio dire — secondo la mia debole capacità — in che consista la sostanza dell'orazione perfetta. Mi sono incon­trata con alcune anime che credevano consistesse tutta nell'eser­cizio dell'intelletto... Non voglio dire... che non sia una grande grazia di Dio poter meditare continuamente sulle sue opere... ». Ma aggiungeva che non tutte le anime « sono atte di loro natura ad applicarvisi, mentre tutte le anime sono capaci di amare/; L'anima non è il pensiero e la volontà non è governata dall'im­maginazione — il che per essa sarebbe grave sventura... Il pro­fitto dell'anima non consiste nel molto pensare ma nel molto amare » (Fundaciones, e. V, 2). Questi consigli hanno una par­ticolare attualità perché oggi affiora il pericolo non già che si abbiano idee sbagliate sull'orazione mentale ma che addirittura non la si conosca e non la si pratichi più. Mentre è offerta a tutti coloro che tendono alla perfezione. Oggi c'è il pericolo non che ci si rinchiuda nella meditazione intellettualistica, ma che la preghiera vocale, comunitaria, liturgica e le letture bibliche (fatte in modo piuttosto superficiale) non lascino posto sufficiente alla calma riflessione personale, al pensiero ed al senso della presenza di Dio che i santi cercano di avere quanto più fre­quente e prolungato è possibile. Ed anche oggi possiamo e dob­biamo suggerire ai fedeli questo senso della presenza di Dio. Non solo quando tutt'intorno è silenzio, ma anche quando si è immersi nel frastuono della città e pigiati fra sconosciuti. Pro­prio allora si può sentire il bisogno di Dio perché — osservava uno scrittore francese — nel silenzio siamo ancora spesso con noi stessi e con le nostre fantasticherie, mentre nel rumore è impossibile ritrovarsi.

L'orazione mentale, quando sia prolungata e distribuita (con

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un certo orario) nell'arco d'una o più giornate diventerà il co­siddetto « Ritiro » o i cosiddetti « Esercizi Spirituali ». Nessuno (neppur oggi) può negare la loro utilità. Però, ai nostri giorni, si tende a vederli non tanto come un incontro nella solitudine e nel silenzio — dell'anima sola con Dio solo — quanto piut­tosto come una sosta in un osservatorio per captare più distin­tamente le voci degli uomini e del mondo, per prepararsi a com­prenderli ed aiutarli. Perché questo — è stato scritto — è « il modo con cui Dio si manifesta comunemente oggi agli uomini: attraverso gli uomini ed il mondo... Crediamo che la solitudine ed il deserto continuino ad esser un luogo privilegiato per l'in­contro con Dio, ma non possiamo dimenticare il significato del deserto per gli uomini della nostra generazione: non è fuga dal mondo, ma una prospettiva nuova del mondo. Non è castigo, ma un privilegio. Non è un fine ma un "passaggio" » (L. Gon-zales, Attualità di S. Ignazio, OR, 8.VII.1970, p. 6). Non credo che questa sia l'interpretazione obbiettiva ed autentica che per­metta di entrare nel vero spirito degli Esercizi ignaziani; e non credo sia « questa la strada per poter giudicare della sua attua­lità ». Il primo fine degli Esercizi Spirituali è la ricerca di Dio e della sua gloria. Non già, direttamente, la preparazione all'in­contro e al dialogo con gli uomini, bensì « lodare, riverire, servire Dio » e cosi « salvare la propria anima »; « tutte le altre cose » « sono create per l'uomo e per aiutarlo al conseguimento del fine pel quale è creato » (Ex. Esp., 23). Specialmente oggi troppi hanno bisogno d'apprender di nuovo il silenzio, il raccoglimento, l'ascolto della Parola. Bisogna far rinascere il grande desiderio della preghiera.

3. Formare anime oranti ed insegnar loro la via dell'ascesi mediante l'esercizio della penitenza praticata secondo le circostan­ze, le possibilità, i desideri di Dio riguardo ad una determinata persona. Ma, per questo, è necessario avere il sano ed obbiettivo senso del peccato. Il che suppone il senso vivo del Dio vero. Altrimenti si eluderà il faticoso esercizio della riforma personale e della purificazione interiore; ed, invece di parlare anche della Croce, si parlerà solo di Risurrezione, spezzando cosi l'unità del Mistero pasquale.

Ci sono anche le anime generose. E queste, oltre alle puri­ficazioni « attive » (scelte liberamente) dovranno sopportare an­che prove e purificazioni « passive » (che Dio dispone con la Sua Provvidenza o agendo direttamente o permettendole). Il

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confessore avvicina necessariamente qualche anima che si eleva ad un grado non comune di perfezione. Per queste qualche prova non mancherà: « omnino concedendum vide tur nullam animam ad gradum perfectionis paulo altiorem, etiam extra viam proprie contemplativam, ascendere quin aliqua huiusmodi interna pro-batione a Deo passive purificetur hoc vel ilio modo » (J. De Guibert, Th. Spir. Asc. et Myst., Roma, 1939, p. 376). In tali circostanze il bisogno d'una direzione spirituale sarà particolar­mente sentito. E proprio allora si desidera un consigliere spiri­tuale che sia un uomo di Dio e conosca ed intuisca l'azione di Dio nelle anime.

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CONCLUSIONI

1. Mentre la Chiesa raccomanda la stima del sacramento della Penitenza ed invita a riceverlo con frequenza, ci sono invece scrittori che con speciose argomentazioni praticamente favoriscono una rarefazione delle confessioni. È vero che costoro dichiarano di voler direttamente combattere un uso della Confessione con­siderata come un lasciapassare per l'Eucaristia, della Confessione ridotta ad un atto affrettato e meccanico: insomma intendono correggere la mentalità che si nota — dicono — in tanti adulti (dai quali viene inculcata ai fanciulli) per cui si va a confessarsi per comunicarsi e non per convertirsi: bisogna ridare al sacra­mento della Penitenza tutta la sua autonomia, dignità, personalità. Auspicano che la Chiesa non insista più oltre nell'obbligo di accostarsi con purezza di cuore e con l'assoluzione da ogni pec­cato grave alla mensa del Signore.

Chi fa in pubblico simili osservazioni e proposte pare non si renda conto dei formidabili problemi teologici, e specialmente pratici, che solleva. Si è o non si è d'accordo che per ricever la Comunione bisogna prima aver purificato l'anima dalle colpe gravi? O si ritiene che la Comunione stessa perdoni il peccato mortale senza che il peccatore ricorra al sacramento della Peni­tenza? Chi lo afferma segue una teoria che « non è conciliabile con l'insegnamento della Chiesa » (Doc. Past. C.E.I. 12.VII.74, n. 58). Se invece si ammette che non è lecito comunicarsi con la coscienza di peccato grave ma si tiene sufficiente che il pec­catore riacquisti lo stato di grazia da solo, senza bisogno della Confessione — contro la legge ecclesiastica, CJC, e. 856 — anche allora bisognerebbe riflettere sulle difficoltà e sugli abu­si che potrebbero sorgere se questa proposta diventasse una prassi. Innumeri penitenti sentono (o, comunque, hanno) bi­sogno d'una parola d'orientamento e di direzione spirituale per disporsi con tranquilla e serena coscienza alla Comunio­ne. Da chi, in pratica, potranno averla se non dal confes-

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sore? Perché il singolo vuole la parola che fa per lui e non gli può esser detta da chi propone un comunitario esame di coscienza. E non sarà più facile la conversione con l'aiuto del sacramento della Penitenza che senza? Dobbiamo esser pratici e positivi. Non si può chiuder gli occhi di fronte ad un triplice pericolo: o che ci si accosti all'Eucaristia senza il dovuto rispet­to, o che la si frequenti meno, o che, comunque, si trascuri la Confessione, confidando che l'Eucaristia stessa perdoni i pec­cati. Ora, la Chiesa ha ripetutamente dichiarato, per mezzo di autorevoli voci, il suo pensiero: « tutta la comunità cristiana è... chiamata a ritornare con gioia e con impegnata frequenza a questa fonte sacramentale dell'uomo nuovo in Cristo Risorto » (Doc. Past. C.E.I. 12.VII.74, n. 117).

2. Pare poi che non sia da dar troppa importanza alle cri­tiche mosse al fatto di Confessioni sbrigate come un lasciapas­sare per la Comunione. In fin dei conti non son tutti i sacra­menti ordinati all'Eucaristia? Si risponde, da certuni, che basta lo siano « in voto ». Si, ma tanto più augurabile se lo sono anche « in re ». Tutto sta che la Confessione — fatta prima della Comunione — non si riduca ad un atto affrettato, mate­riale e meccanico. Ma affinché non sia cosi, perché non si potrà far affidamento sulla catechesi alla massa e sulla direzione spi­rituale dei singoli?

3. « Il sacramento della Riconciliazione è... il dono pasquale dello Spirito Santo, alitato dal Signore sugli Apostoli per la remissione dei peccati » (Doc. Past. C.E.I. 12.VII.74, n. 117). È Lui che per primo muove l'anima a pentirsi e convertirsi. E la Sua azione è generatrice di gioia e di pace. Di quella pace che il Risorto ha augurato agli Apostoli quando ha istituito il sacramento della Confessione (Gv. 20, 23). Dio desidera che questo sia un divino strumento di liberazione e di con­solazione per le anime. È quanto Jiirgen Moltmann, nel suo libro: La Chiesa nella forza dello Spirito, Brescia, Queriniana, 1976, mostra di non aver capito perché — come protestante — non l'ha sperimentato. Egli afferma che è assurdo esigere che questo sacramento — che spesso tortura le anime — sia ricevuto prima dell'Eucaristia che è una celebrazione gioiosa. Scrive: « Nella cena del Signore non si pratica una disciplina ecclesiastica ma si celebra, innanzitutto e soprattutto, la pre­senza liberatrice del Signore crocifisso. In molte chiese, invece,

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l'ammissione alla comunione viene praticamente congiunta con la scomunica degli altri, fino al punto in cui non si può accedere all'eucaristia se non è stata prima accertata la propria dignità o indegnità. Il problema dell'ammissione alla cena diventa spesso angoscioso. Prima della celebrazione ci si confessa, dunque, e si ottiene l'assoluzione; in tal modo si riesce a conciliare l'aperto, preveniente invito di Cristo con le disposizioni giuridiche e condizioni morali per l'ammissione al sacramento. Quel convivio di Cristo che nei primi tempi si celebrava con tanta gioia ora si tramuta, purtroppo, in un convito di penitenza, cui si parte­cipa con cuore contrito e compunto. Nessuna meraviglia, allora, se tante persone si scomunicano da sé stesse e se anche dei cristiani seri provano vergogna nelPaccostarsi al banchetto. La legalità moralistica distorce il genuino carattere evangelico del sacramento... » (pp. 322-323). Certo, chi sa di aver il cuore macchiato di qualche colpa grave deve, per disciplina ecclesiastica, premettere la Confessione alla Comunione perché al convito eu­caristico bisogna accedere con l'anima purificata: « chiunque mangerà e berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore » (1 Cor. 11, 27). Difatti non si tratta solo di un rito commemorativo: il pane ed il vino diventano il Corpo ed il Sangue di Cristo. La Sua presenza non è solo simbolica e mistica, ma reale e sacrificale. Però la Con­fessione — cancellando il peccato nel modo più facile e più sicuro e conferendo la grazia santificante e sacramentale — porta proprio la pace che permette una gioiosa partecipazione al banchetto ed una unione felice con l'Agnello Immacolato. Lo confermano tutti coloro che praticano questo sacramento peni­tenziale. Lo confermano con espressioni singolarmente significa­tive i convertiti al cattolicismo. R. H. Benson nella narrazione del suo viaggio spirituale raccontava che — quand'era ancora anglicano — alla vigilia di ricevere gli Ordini, si decise a fare la sua confessione presso un prete anglicano. « La gioia che segui — scrive — fu semplicemente indescrivibile. Io andai in una specie di estasi» (Confessions of a convert,.London, 1920, p. 38). G. K. Chesterton, convertito dall'Anglo-cattolicismo, così scriveva a proposito del sacramento della Penitenza: « Quando la gente vuol sapere da me (o da qualsiasi altro, veramente): "perché vi siete unito alla Chiesa di Roma?", la prima essenziale risposta anche se in parte incompleta, è: "per liberarmi dai miei

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peccati". Perché nessun altro sistema religioso esiste il quale pre­tenda davvero di portare agli uomini la liberazione dai peccati... Quando un cattolico ritorna dalla confessione, entra ancora, ve­ramente, per definizione, nell'alba della sua vita iniziale e guarda con occhi nuovi... In quell'angolo oscuro ed in quel breve rito Dio lo ha veramente rifatto a Sua immagine » (Autobiography, London, 1937, p. 329). La « confessione è la fine della pura solitudine e della segretezza» (ivi, p. 341). « I l Sacramento della Penitenza dà una nuova vita e riconcilia un uomo con ogni vivente » (ivi, p. 303). Spesso si nota come prima del passo decisivo (che, il più delle volte, s'esprime e si concretizza appunto nella Confessione) i convertiti sono agitati dal timore di non aver la forza di praticare gli impegni della fede cattolica. E perciò molti rimandano la decisione. Così fu per Agostino. Ma, subito dopo la Confessione l'anima è invasa da una gioia (difficil­mente riducibile ad un fenomeno puramente naturale) e sente, con suo stupore, l'inclinazione e la forza di fare una qualche rinuncia che le sembrava impossibile. Scriveva una anonima con­vertita — dopo aver narrato il suo passato di « peccatrice »: « ... dovevo rompere una relazione che mi legava da alcuni anni. Una volontà che non era la mia mi dava forza ed una certezza assoluta che ciò era necessario... Volevo riconciliarmi con Dio; questa idea sola mi avvinceva. Non mi illudevo sulle difficoltà di questa confessione. Giacché ho condotto per venticinque anni una vita libera da ogni pregiudizio mondano e sociale, se non morale. Ma a quel momento la speranza di questa riconciliazione era troppo grande per farmi indietreggiare... Preparai con cura la mia confessione. Non potevo dubitare che la gioia conosciuta in quella notte (gioia nel pianto della contrizione e gioia della comunione che seguì) era l'introduzione ad una esistenza così del tutto nuova... Come esprimere la ricchezza inesauribile dei Sacramenti e della Comunione? Bisogna esser al di dentro della grazia per comprendere la serenità e la luce ch'essa procura » (J'ai rencontré le Dieu vivant, Paris, 1952, pp. 297-298). Maria Meyer-Sevenich, germanica, 9Ì converti, durante l'ultima guer­ra mondiale, dal comunismo alla fede cattolica che aveva ab­bandonato circa vent'anni prima. Così descrisse gli effetti pro­dotti nel suo spirito dalla Confessione generale e dalla Comu­nione: « Sei mesi dopo feci la confessione generale ed il sabato di Passione ricevetti dopo tanti anni il Corpo del Signore...

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Mi sentii colmare da una pace indescrivibile, quella stessa pace che avevo pregustato per anni ogni volta che mettevo piede in una chiesa cattolica » (B. Schafer, Hanno sentito la voce, Mi­lano, 1950, p. 75).

Bisogna però notare che se la Confessione deve per sé por­tare all'anima il dono della pace, questa pace è quella profonda; non necessariamente quella sensibile. Anzi, alle volte, per cause accidentali — contrattempi irritanti, indisposizioni fisiche o psi­chiche — ci può esser qualche turbamento contemporaneamente al dono della grazia. Ma, superati questi disturbi, la gioia e la tranquillità non si faranno attendere perché sono il frutto na­turale della Confessione. 4. Confessore e penitente debbono collaborare con Dio.

Confessori disponibili e, per santità di vita, credibili, mossi dallo Spirito; confessori dei quali i penitenti possano dire: « Ge­sù... anche noi l'abbiamo qualche volta riconosciuto... Nei suoi sacerdoti, molto spesso... Al cristiano che ha l'abitudine... di inginocchiarsi a caso nei confessionali, è accaduto più volte d'udi­re la parola inaspettata, folgorante; di ricevere all'improvviso da uno sconosciuto dolce ed umile di cuore... il dono d'una tenerezza divina, una consolazione che non era dell'uomo » (F. Mauriac, Vie de Jesus, Paris, Mammarion, 1936, p. 278).

Da parte dei fedeli si domanda una grande stima di questo sa­cramento, la preghiera costante allo Spirito che guidi, illumini, purifichi; si domanda un intelligente e discreto, serio e sereno esame di coscienza sui doveri comuni a tutti i cristiani e su quelli specifici del proprio stato. Coll'aiuto di Dio e del confes­sore il singolo conoscerà « la via da seguire per rispondere ge­nerosamente all'appello del Signore » (C.E.I., o. e, n. 115).

Nell'udienza del 23 marzo 1977 Paolo VI anzitutto richia­mava che, almeno una volta all'anno, il ricever il sacramento della Penitenza « è una legge grave della Chiesa tuttora vigente; una legge difficile, ma quanto mai salutare, sapiente e libera­trice»: «...il sacramento della Penitenza... si definisce subito il sacramento della risurrezione delle anime morte, il sacramento delle anime redivive, il sacramento della vita, della pace, della gioia ». Mentre, senza questo mezzo soprannaturale, « un'onesta e obbiettiva indagine sopra le radici interiori dell'umano operare conclude ad uno sconsolato e perfino disperato pessimismo circa l'inettitudine dell'uomo alla virtù autentica e stabile ». Purtroppo,

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aggiungeva il Pontefice, « dobbiamo... notare una certa pro­gressiva inosservanza di questa prassi sacramentale, con molte­plici e notevoli recessioni nella fedeltà e nella vivacità della vita cristiana e della consapevolezza della vita ecclesiale. E ciò con gravi apprensioni in chiunque, ministro o semplice fedele che sia, ami la realtà mistico-sociologica del mistero della nostra inserzione in Cristo, il mistero della grazia, il mistero della nostra salvezza ». Perciò rivolgeva un'esortazione ai ministri del sacra­mento ed un'esortazione ai fedeli tutti. Ai ministri del sacra­mento perché diano « all'esercizio pastorale ch'esso autorizza e conforta, l'importanza ch'esso reclama, la stima, il culto, lo spi­rito di sapienza e di sacrificio ch'esso si merita: è la Confessione il sacramento terapeutico per eccellenza, il sacramento pedagogico per la formazione cristiana a tutti i livelli » (cfr. « Seminarium ». n. 3, 1973). Ai Fedeli il Papa raccomandava di « sgombrare il proprio animo da ogni diffidenza che la vigente disciplina sa­cramentale può suscitare per il suo pratico esercizio. Se oggi la Chiesa autorizza, in certi casi particolari, l'assoluzione collettiva, ricordino che questa autorizzazione ha carattere eccezionale, non dispensa dalla confessione personale, e non li vuole privare del­l'esperienza, dei vantaggi, del merito di essa: scuola di sapienza morale, la confessione educa la mente a discernere il bene dal male; palestra di energia spirituale, essa allena la volontà alla coerenza, alla virtù positiva, al dovere difficile; dialogo sulla perfezione cristiana, essa aiuta a scoprire le vocazioni proprie delle singole anime e a corroborarne i propositi per la fe­deltà e per il progresso verso la santificazione, propria ed altrui » (OR, 24.111.1977).

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INDICE ALFABETICO DELLE PRINCIPALI MATERIE

Abitudinari Significato del termine,

220-221 L'assoluzione degli —, 221 Problemi per gli —, 221-

222 Abusi e sanzioni, 144-146 Accusa dei peccati

Esame di coscienza, 77-79 Eventuali interrogazioni da

parte del confessore, 75-77

Con gli impreparati e gli ignoranti, 80-82

Adolescenti e giovani Psicologia degli —, 167-

170 Caratteri propri dei due ses­

si, 170-171 I problemi degli —: la fe­

de, 171-175 I problemi della giustizia e

della solidarietà, 175-176 Obbiezioni contro il magi­

stero e l'azione della Chiesa circa il problema sociale, 176-182

II problema del rapporto fra autorità e libertà,

182-183 La purezza virtù cardine e

risultante, 184-185; mez­zi, 185-187

Indole del giovane e della giovane: problemi relati­vi, 187-189

La scelta dello stato, 189-193

La scelta della professione, 193

Adulti Uomo e donna si distinguo­

no anche nel modo di confessarsi, 194-196

I vecchi, 196 Comportamento del confes­

sore, 196-197 Come guidare i penitenti

sulla via della perfezione, 198

Alunni Studio; attenzione e lavoro

in scuola, 412 Rispetto agli insegnanti,

412-413 Disorientamento odierno

nella scuola, 413 Ammalati e morenti

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I sacramenti a chi ha perdu­to i sensi, 260 Intenzione e requisiti per

ricevere i vari sacramen­ti, 260-261

Soggetto dell'Unzione, 262-263

Amministrazione della Cre­sima: facoltà, 263-264

Infermi di mente, 264-265 Nuove formule, 265-266 Digiuno eucaristico, 266-

267 Benedizione Apostolica, 267 Catechesi sulla malattia,

268-269 Assistenza pastorale ai ma­

lati, 269-271 La Confessione dei malati,

271-272 Malati difficili, 272-273 Sulla morte apparente, 273-

274 Sul buon uso della malattia,

274-275 Amore di Dio, 86-87 Amore del prossimo (e di sé

stessi), 87-88 « Amplexus reservatus », 116 Anomalie sessuali, 110-112 Assoluzione

Quale giudizio sulle dispo­sizioni del penitente si richiede nel confessore per concedere 1'—, 129-130

Penitenti disposti, non di­sposti, dubbiamente di­sposti (oggi), 130-131

Assoluzione e sacramenti in

caso di divorziati, 131-134

Attrizione Unita al sacramento ottiene

immediatamente la gra­zia, 134-137

Autorità Qualità e virtù in chi la

esercita, 383-385 Azione con duplice effetto,

64-65

Bestemmia, 86-87

Carcerati Influsso dell'ambiente car­

cerario sul detenuto, 222-223

Struttura psicologica dei —, 223

La pratica religiosa dei —, 223-224

Carità 7 opere di misericordia, 105

Circostanze dell'atto morale, 61-62

Commercialisti Servizio e missione di bene:

qualità richieste, 459-460 La giustizia e la buona fede,

460 Diligenza e prudenza, 461 Rapporti coi colleghi, 461 Segreto professionale, 461 Equo compenso, 462

Commercianti Moralità e pericoli di que­

sta professione, 451-453 Generali norme orientative

in materia, 453-454 Casi particolari di morale

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nel commercio, 454-459 Il commerciante onesto e

cristiano, 459 Confessionali, 31-32 Confessione

Necessità, 33-38, 504-505 — specifica, 75 — « generale » (prudenza

del confessore), 79-80 Rarefazione delle confessio­

ni: cause, 19-23, 509 Apportatrice di pace, 505-508 Confessore

Doti: scienza, 54-55; pru­denza, 55-56; cuore (compassione, compren­sione, amore), 56-59; ze­lo, 59-60

Il — maestro, 72-73 Coniugati

Su cosa devono interrogarsi, 288-289

Castità e santità di questo stato, 289-290

Castità richiesta, 291 Amore spirituale, sensibile,

sensuale, 291-292 Per una vita felice, 292-294 Diversità di natura fra l'uo­

mo e la donna in materia di sessualità e in altri campi, 294-296

Comprensione e riguardi mutui, 296-298

Prudenza in caso d'infedel­tà, 298-299

La gelosia, 299-300 Il problema dei figli, 300 Il sistema dell'adozione,

300-301 L'educazione dei figli, 301;

la scelta dello stato, 302; le amicizie, 302; oppor­tuna educazione sessuale, 302; infondere l'amore pel lavoro, 303-304; inte­ressarsi del lavoro dei fi­gli fuori casa, 304

Il lavoro extradomestico della donna, 304-305

Continenza periodica (Metodi vari), 116

Cooperazione al male Mediata od immediata (ona­

nismo, divorzio) : lecita od illecita, 65-68

Coscienza Da correggersi o meno, 68-

70

Direzione spirituale Oggi, sotto accusa, 494-496 È necessaria?, 496-498 C'è obbligo d'obbedire al

direttore spirituale?, 498-499

Oggetto della —: la scelta dello stato e della pro­fessione, 499-500; inse­gnare l'arte della preghie­ra, 500-502; guidare nel­la pratica della penitenza, 502-503

Divorziati Assoluzione e sacramenti Cfr. Assoluzione

Dolore e proposito Disposizioni del penitente,

esortazioni del confesso­re, 120-121

Senza fretta, 122 Il confessore rettifica idee

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inesatte sul dolore ed il proposito, 123-124

Cosa implica il proposito ri­chiesto, 124

Proposito e promessa, 124-127

L'autentico dolore dei pec­cati, 125-126

Proporre motivi di penti­mento adatti al singolo penitente, 127-129

Domestici Cfr. Padroni

Emigranti — temporaneamente, 475 Danni spirituali, 475-476 Precauzioni e rimedi, 476-

477 — permanentemente, 477 Prudenza, 477 Difficoltà, 478 La formazione di « Fami­

glie », 478 Il missionario degli emi­

granti, 478 I matrimoni misti, 478 Pericoli specie per le gio­

vani, 478-479 I rientri forzati, 479-480

Esame di coscienza Traccia secondo il metodo

migliore, 82-83 Eucaristia

— e remissione dei peccati, 36-38

Fanciulli Instabilità e ricadute nel

peccato, 150

Un aiuto ed un amico, 150-151

La Prima Confessione ben preparata, 152-153

Senso del peccato e peccato grave nel fanciullo, oggi, 153-155; 158

L'età della discrezione e 1' obbligo di confessarsi e comunicarsi, 154-155

La Prima Confessione non si rimandi a dopo la Pri­ma Comunione, 155-156

Celebrazione non sacramen­tale e sacramentale della Confessione, 158-159

L'età più opportuna per la Prima Comunione, 159

Catechesi dei — prima della Confessione (amore verso Dio ed il prossimo, pre­ghiera, peccato...), 159-164

Accorgimenti nell'atto della Confessione, 164

Esortazioni dopo l'accusa, 156-166

Farmacisti Casi di cooperazione (p. es.

nella vendita di strumen­ti antifecondativi), 436-437

Cfr. Medici Fede

Crisi e sue cause, 82-83 Difficoltà, tentazioni e dub­

bi di —, 84-85 Apparente disperazione, 85 Surrogati della fede e della

speranza (droga), 86

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Fidanzati Amicizie prima del fidanza­

mento, 276-277 Requisiti alla scelta pruden­

te: amore pienamente umano (spirituale e sen­sibile), 277-278; doti spi­rituali (principi religiosi e morali), 278-281; sani­tà fisica, 281-282; risor­se economiche ed abilità personali, 282-283

Età consigliata pel matrimo­nio, 283

Durata del fidanzamento, 284

Finalità del fidanzamento; condotta dei —, 284-286

Relazioni prematrimoniali, 286-287

Corsi di preparazione al ma­trimonio, 287

Fine dell'atto morale Non giustifica un mezzo di­

sonesto, 63 Fortezza, 106-107 Frequenza della (Confessione)

Principi teologici, 485-486 Documenti del magistero,

486-490 Obbiezioni contro la —,

490-494 Furto

Materia grave e leggera, 98-99

Giornalisti Libertà di stampa e postu­

lati etici, 464-465 Necessità d'una cultura reli­

giosa nei —, 465

Culto della verità e non del­la moda, 465-466

Notizie vere ed integre (se giustizia e carità permet­tono), 466

Prudenza nell'annuncio di notizie dubbie, 467-468

Rettifica di notizie inesatte, 469

Non tutto ciò che è vero giova, 469

Pericoli nel riferir ipotesi in materia religiosa, 470

Presentare i fatti in modo conveniente, 470-471

Una sana polemica, 471-472 Giuristi

Studio assiduo, 445 Discrezione nell'assumere

pratiche, 446 Il segreto d'ufficio, 446 I — devono dire la verità?,

446-447 Vittorie e sconfitte: ottimi­

smo, 447 Uso del principio del du­

plice effetto, 448 Problemi riguardanti magi­

stratura e polizia, 449 A servizio dell'umanità sof­

ferente, 449 II giudice. Prove e convin­

cimento personale, 450-451

Giurisdizione (pel confessore), 46-49

Giustizia La — nell'accusa peniten­

ziale, 94-96 Grazia sacramentale (della

Confessione), 38

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Impiegati Impegno nel lavoro, 395 Rapporti con superiori e

colleghi, 395 Relazioni col pubblico, 396

Imprenditori Non devono preoccuparsi

solo della questione tec­nica ed economica, 396-397

Non devono ridurre ogni ideale al lavoro materia­le, 400

Doti e virtù richieste nei dirigenti, 397-400

Nell'impresa si desidera un clima di fraternità e di famiglia, 401-402

Imputabilità dell'atto umano Prudenza del confessore nel

giudicare la responsabili­tà di un'azione disonesta, 70-71

Industriali (operai) Pericoli della fabbrica, 386 Carenza di pratica religiosa

degli —, 386-387 Come avvicinarli, 387 Influsso dei compagni non religiosi, 387 Gli atei (una minoranza),

388 Indifferenza religiosa, 388 Errori circa la persona di

Cristo, 388-389 Errori circa la Chiesa, 389 L'apostolato del sacerdote,

390 Come incontrare la simpa­

tia dell'operaio, 390-391

Come formare dei testimo­ni cristiani, 391-392

Cosa suggerire in caso di contestazioni, rivendica­zioni, scioperi, 392-393

Come comportarsi in mate­ria politica, 393-394

Infermieri ed infermiere C'è bisogno di —, 413-414 Ma devono possedere par­

ticolari doti, 414-418 Il segreto professionale,

418 Obbedienza, disciplina,

umiltà, 419 In caso di cooperazione ad

operazioni illecite, 419-420

Buon umore, attenzioni, 420-421

Possono esercitare un bene­fico influsso sulla vita interiore del malato, 421

Pericoli morali, 421 Insegnanti

Una specie di sacerdozio, 406

Preparazione remota e pros­sima, 406-407

Formazione intellettuale de­gli alunni, 407-408

Interrogazioni e colloqui, 407-408

Educazione della volontà e del sentimento, 408-409

La disciplina, 409 L'esempio, 409 Giustizia, imparzialità, mi­

sericordia (esami), 410-411

Rapporti coi genitori, 411

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In materia sessuale, 411-412

Intemperanza Semplici mancanze di gola

ed uso d'alcoolici, stupe­facenti, droghe, 107

Istituti secolari Natura, finalità, 372-374 Il confessore sappia indiriz­

zarvi chi vi è chiamato, 374

Consacrazione all'apostola­to, doti, requisiti, 374-376

Assistenza spirituale agli iscritti, 376

Non suggerire troppe attivi­tà ai membri degli —, 376

Virtù specificamente pro­prie dei membri degli —, 377

Momenti di crisi, 377 Il passaggio ad uno stato

più perfetto, 377

Legge naturale Immutabilità, 62

Medici Dignità di questa professio­

ne, 426-427 Doti richieste, 427-428 Occasioni d'apostolato, 428-

429 Fermezza nei principi ed

umanità colle persone, 428-429

Prudenza nelle decisioni, 429-430

Studio (della scienza gene­

rale e del caso concreto), 430-432

Conoscenza ed applicazione dei principi della morale, 432-442

Azioni proibite dalla legge civile, azioni in sé im­morali, azioni illecite per difetto di diritto in chi le pone, 432-433

Parto prematuro e parto immaturo, 433-434

Aborto diretto e aborto in­diretto, 434-435

Uso di preparati inibitori dell'ovulazione, 435

Esame dello sperma, 436 Somministrazione di farma­

ci antidolorifici con acce­lerazione della morte, 437

Puntura letale secondo la volontà del defunto, 437

Asportazione d'un organo per la sanità dell'organi­smo, 438

Trapianto di organo da un vivente, 438-439

Precetto e consiglio (p.e. a non contrarre matrimo­nio), 439-442

Mezzi obbligatori e mezzi consigliati alla guarigio­ne, 442

La religione nella professio­ne del medico, 442-443

Serietà nel comportamento, 443

Il segreto professionale, 443

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I — devono dire la verità al malato?, 444

Astensione dei sanitari dal lavoro, 444-445

Razionale tenore di vita dei —, 445

Militari Periodo di crisi religiosa e

morale, 472 Aiuti spirituali, cappellano

militare, confessore stabi­le, 473

Contro la dissipazione mo­rale, 473-474

La pratica religiosa; il ri­spetto umano, 474-475

La bestemmia, 475 Moralità: ordine obbiettivo

61-68

Nubili Motivi per cui alcune resta­

no in tale stato, 305-309 Come santificare questo sta­

to, 309-310 Difetti e pericoli propri

delle —, 310-311

Obbedienza (chi comanda e chi obbedisce) Esempio: la famiglia, 383 Chi comanda, 383-385 Chi ubbidisce, 385 Mezzo di santificazione,

386 Occasionari

Casi scabrosi: prudenza e zelo del confessore, 207-209

Nozioni e principi: occasio­ne prossima, libera o ne­

cessaria, continua o non continua, 209-211

Applicazione dei principi; aiuto del confessore, 211-213

Assoluzione degli occasiona­ri, 213

Difficoltà con certi occasio­nari, 214-216

Occulta compensazione, 103 Oggetto dell'atto morale, 61 Omosessualità, 111-112 Orazione (quotidiana)

Oggetto dell'esame di co­scienza, 91

Ordine oggettivo ed O. sog­gettivo della moralità Confusioni da evitarsi, 60-

61; 71-73 Ostetriche

Principi morali nella coo­perazione ad operazioni illecite, 421-423

Non devono invadere il campo del medico, 423

Il segreto professionale, 423

Apostolato per la protezio­ne della vita, 423-424

Amministrazione del batte­simo, 424-426

Pastorale pratica della Confes­sione Sua necessità, 17-18

Padroni (e domestici) Per un clima veramente fa­

miliare, 402 Doveri ed attenzioni dei pa­

droni, 402-404 Virtù richieste ai domestici:

518

Page 519: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

giustizia, obbedienza, pa­zienza, amore, 404-405

Peccato Mortale, grave, veniale?,

34-36 — ed opzione fondamenta­

le, 34 — ed intenzione d'offender

Dio, 35-36 Peccatori in via di conver­

sione Per la perseveranza della

conversione, 205-206 Pericoli: scoraggiamento e

scrupoli, 206-207 Penitenza (o soddisfazione)

Necessità, 137 Qualità, 137-140

Perfezione (aspiranti alla) Critiche odierne all'ascesi fi­

nora praticata, 245-246 Principi teologici, 246-248 Guidare le anime alla —,

248-250 Pericoli nella via della —,

250-252 — e mezzi di —, 252 La preghiera (vocale e men­

tale), 252-255 La penitenza, 255-257 I voti, 257-259

Politici Dovere dello studio, 462 Rettitudine nell'azione po­

litica, 462-463 Giustizia, equità, bontà, 463 Operosità, onesta strategia,

463-464 Rapporti colla Chiesa e

comportamento in mate­ria di religione, 464

Professionisti in genere Motivi per cui è consiglia­

bile impegnarsi in una professione, 378-379

Ogni professione offre il modo di santificarsi, 379-380

La scelta della professione, 380

Professioni più o meno me­ritorie e santificanti, 380-381

La professione vista anzitut­to come un servizio, 381-382

Prostitute In Italia, oggi, 224-225 Caratteri tipici, 227-228 Infelici vicende e misere si­

tuazioni, 225-226 Difficoltà di redenzione,

226-227 Di fronte alla religione ed

al sacerdote, 228 Come aiutarle a risorgere,

229 Prudenza, 92-94

Recidivi Significato del termine, 216 Segni di dolore richiesti nei

—, 216-217 Prudente condotta del con­

fessore, oggi, 217-218 Direzione spirituale dei —,

219-220 Religione

Legalismo nelle accuse dei penitenti, 88

Precetto festivo non osser­vato, 88-91

519

Page 520: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

Religiosi e religiose Stato di perfezione: scelta

da favorire, 356-357 Virtù, voti, regole, 357 Rinnovamento della vita re­

ligiosa, 358-359 Esempio attuale del rinno­

vamento: la pratica della povertà, 359-362

Vita attiva ed unione con Dio, 362

Cosa rappresentano le Re­gole?, 362

L'obbedienza: principi e difficoltà pratiche, 363-365

Il confessore coi penitenti che s'accusano sull'obbe­dienza, 365-367

Collaborazione dei religiosi coi loro superiori, 367

La castità, 367 L'amore fraterno (fonda­

mento, applicazioni, de­viazioni), 368-369

Relazioni dei religiosi con persone estranee, 370

Confessori delle religiose (facoltà attuali), 370-371

In caso di dubbio sulla vo­cazione, 371-372

Restituzione Radici, 96 Cause scusanti, 97 Ammonizione (fruttuosa od

infruttuosa), 97; 101-102 In seguito a cooperazione

ingiusta, 98 Modo di far la restituzione,

102-103

In materia non grave, 103-105

Riparazione Quando c'è il dovere della

— per un danno provo­cato, 100-101

— di danni spirituali (di­vorzio), 105-106

Riservati (casi), 49-54 Rito nuovo della Penitenza,

27-33 Rurali

Come trattare con questi penitenti, 394

Religiosità piuttosto esterio­re, 394

Per una spiritualità propria dei —, 394-395

Sacerdoti Ferventi, mediocri, dissipa­

ti, 329 Personalità ed obbedienza,

330-332 Azione e contemplazione,

332 Orazione liturgica e menta­

le, 332-335 Umanesimo e mortificazio­

ne, 335-340 Il problema del celibato,

341-348 Sacerdozio (aspiranti al)

Il problema delle vocazioni, oggi, 321

Giudizio sulla vocazione: direttore spirituale e su­periori del seminario, 322

I segni della vocazione, 323 Grazia, corrispondenza, di-

520

Page 521: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

rezione spirituale, 323-325

Castità: prova necessaria, 325-328

Sacramento della Penitenza ed atti del penitente Efficacia, 27-28

Sacristi Vicini all'altare, non sem­

pre uniti a Dio, 480 Mancanza d'una vera pra­

tica religiosa, 480-481 Conseguenti difetti di com­

portamento, 481 Bisogno di formazione spiri­

tuale, 481 Casi scabrosi, 482

Scrupolosi Scrupolo e coscienza delica­

ta, 232-233 Sintomi, 233-234 Cause, 234 Psicologia dello scrupolo,

235-237 La guarigione: cura fisica

e psicoterapia, 237-238 Suggestione ed autosugge­

stione, 242, 245 Norme generali d'azione,

239-243 Privilegi degli —, 243-244 Guarigione graduale, 244-

245 Sesto comandamento

Consigli al confessore no­vello, 17-18

Senso retto e senso morbo­so della colpa nei peni­tenti, 23, 109

Difficoltà dei penitenti ad accusarsi sul —, 109

Le specie morali dei pecca­ti impuri, 110

Anomalie sessuali, 110-111 Come interrogare i vari pe­

nitenti sul —, 109-110; 112-113

Coi coniugati onanisti, 113-116

Istruzioni e consigli alle va­rie classi di penitenti, 117-119

Norme morali e culture di­verse, 119-120.

Sigillo sacramentale Violazione propriamente

detta (diretta o indiret­ta) ed « uso di notizie » (avute in Confessione) con gravame o senza gra­vame del penitente, 140-142

Sanzioni per proteggere il segreto sacramentale e la dignità del sacramento, 143-144

Tiepidezza Nozione esatta, 229-230 Anime alle quali interessa

tale questione, 230-231 Segni della —, 231 Conseguenze della —, 232 Rimedi contro la —, 232

Timidi e reticenti Penitenti reticenti, oggi,

199-200 Specialmente nei peccati

contro il VI, il V, il VII comandamento, 200

Specialmente tra le persone

521

Page 522: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

rozze, le donne, i fanciul­li, 200-201

Come incoraggiare questi penitenti (indirettamente o direttamente), 201-203

Prudenti interventi del con­fessore per completare od aiutare l'accusa, 203-205

Urgenza (per assolvere dai ca­si riservati), 50-51

Vedove Una grande sventura, 311-

312 Il primo periodo di desola­

zione, 312-313 Motivi di conforto, 313-314 Consigli per superare peri­

coli e prove, 314-317 Vedovanza o seconde noz­

ze?, 317 Seconde nozze: prudenza

nella decisione, 320 Il nuovo matrimonio, 320-

321

Vescovi Una croce pesante, 348 Solitudine spirituale, 349 Sacrificio della libertà, 349 Rapporti coi sacerdoti, 349-

350 Servizio e governo, 349-

350; 353-354 Prudente e deciso uso del­

l'autorità magisteriale, 351-352

Facoltà d'assolvere dai ca­si riservati, 51-52

Visite pastorali, 352 Lettere pastorali, 352-353 La predicazione, 353 La presenza, 353 Vigilanza sulla stampa pe­

ricolosa, 354 Di fronte a critiche e con­

testazioni, 354 Nel caso di defezioni di sa­

cerdoti, 355 Ministero spirituale ed ope­

re materiali, 356 Il momento di lasciare il

governo, 356

522

Page 523: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

INDICE ALFABETICO DEGLI AUTORI CITATI

AA.W., La penitenza, ricon­ciliazione con Dio e con la Chiesa, 27, 37-39, 246, 490, 496

AA.W., Responsabilità della cattedra, 184, 409-411

AA.W., Vita ed esperienza didattica, 407, 409, 411, 412

Adloff, 14, 206, 249, 251, 254, 257, 365, 368-370

Aertnys-Damen, 132 Alessi, 288 Alfonso (S.), 9, 11, 62, 64,

69, 81, 93, 102, 122, 129, 132, 208, 214, 217, 249, 271, 326, 372, 454, 455, 457, 496

Alszeghy, 34, 134 Agostino (S.), 104 Arbelet, 168 Aristotele, 73

Babina, 226 Ballerini, 150 Baragli, 468 Barra, 194 Basilio M. (S.), 463 Bayon, 12

Bellenzier, 153 Benedetto XIV, 145, 327, 338 Benson, 506 Benucci, 473 Berardi, 14, 242, 243 Bernanos, 58, 151 Bernardo (S.), 337 Billuart, 99 Blanchard, 109 Bonaventura (S.), 38, 106,

496 Bonomelli, 476 Brouillard, 11 Bucceroni, 238, 240 Bugnini, 334, 340

Camele, 15, 17, 143, 199, 201, 239, 240, 243, 244

Cappello, 13 Caprile, 72 Carlo (S.), 7, 81, 213, 217 Catechismo dei fanciulli: « Io

sono con voi », 150, 151, 159, 162, 163

Chanson, 16, 195, 197, 224, 288

Chesterton, 506 Clauser, 64 Commiss. Dott. Lit. Belg.:

523

Page 524: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

Orientamenti per un rinno­vamento della pratica pe­nitenziale, 20, 21, 23, 28, 491

Coudreau, 167 Courtois, 338

D'Addio, 451 Dal Covolo M., 316, 320, 321 Da Kempen (De Imit. Ch.),

248 Damiani (S.P.), 354 Davanzo, 273 De Barros Camara, 268 De Guibert, 190, 248, 503 Didier, 262

Elchinger, 255

Felici P., 494 Francesco di Sales (S.), 314,

319, 369, 495 Frassinetti, 13, 60, 110, 142,

150, 165, 202, 231 Frumento 159 Fulton J. Sheen, 182

Galot, 157 Garbelli, 225 Génin, 415, 421 Giordanini, 11, 17, 56, 184 Giovanni XXIII, 23, 180, 398 Godinez, 239 Gonzales, 502 Grazioli, 15, 149 Green J., 108 Gregorio Papa (S.), 206 Grimaud, 306 Guitton, 192, 303 Guzzetti, 196

Hamel, 72 Hansemann, 157 Hàring B., 71 Hertling, 247, 251, 252, 256,

359, 361, 499

Ignazio di Loyola (S.), 244, 254, 495, 500, 502

Jedin, 351 Jungmann, 494

Ketteler, 178

Lacordaire, 337 Lagrange, 126 Lahitton, 323 Lallemant, 254 Lebret-Suavet, 15, 395, 396,

464 Leclercq J., 284 Lefort, 168 Leonardo da P. Maurizio (S.),

9, 81, 82, 214 Leone XIII, 178, 401, 403 Lessius, 73 Lombroso G., 312 Lucatello, 468, 471 *Luzi G., 16

Marsot, 372 Marx, 178, 182 Mauriac, 508 Mazzoleni, 350 Mercier, 150, 183 Merkelbach, 7, 15 Meyer-Sevenich, 507 Moltmann, 505 Montalbetti, 45

524

Page 525: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

Navarrus, 126 Rossiello, 15

O.K. (Ogino-Knaus), 280, 281, 291, 440

Oriani, 344

Paolo (S.), 156 Paolo VI, 30, 31, 32, 105,

106, 146, 155, 169, 252, 262, 265, 266, 321, 333, 335, 341, 342, 344, 351, 490

Papini, 151, 166 Pascoli G., 162 Pasquariello, 449, 450, 461 Pellegrino M., 191 Pier Damiani (S.), 354 Pio V (S.), 81 Pio X (S.), 155 Pio XI, 392, 412, 435, 440,

465, 466, 472 Pio XII, 35, 108, 109, 190,

266, 300, 328, 339, 375, 396, 397, 414, 416, 417-419, 422, 424-428, 430-441, 443, 444, 452, 459, 465, 466, 478, 486, 488, 497

Pistoni, 12 Pratique progressive de la

Confession et de la direc­tion, 230

Rahner H., 495 Reuter, 11 Rodriguez A., 80 Rossi V.C., 341

Salvaneschi, 292 Savio, 10 Schafer, 508 Schneider, 13 Segneri, 10, 80, 122, 209, 213 Siri, 323 Sofia, 9 Stocchiero, 13 Suarez, 132 Suenens, 89

Teresa d'Avila (S.), 501 Ter Haar, 15 Tillard, 358 Tillmann K., 16, 58 Toldo, 386-387 Tommaso (S.), 36, 63, 93-94,

97, 105, 107, 132, 155, 164, 217, 234, 246, 248, 257, 324, 332, 335, 363, 486

Trabucchi C, 429 Trese, 46

Van Agt, 288 Van Kol, 439 Vermeersch, 65, 68, 77, 101,

132, 326 Vieira, 463 Villot G., 158 Vincenzo de' Paoli (S.), 495 Viollet, 382, 383

Weil S., 401

525

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SOMMARIO

ABBREVIAZIONI E SIGLE pag. 5

PREFAZIONE » 7

INTRODUZIONE » 19

Parte prima

EFFICACIA DEL SACRAMENTO. COOPERAZIONE DEL PE­NITENTE E DEL CONFESSORE » 2 5

1. Il nuovo rito. Significati teologici e suggeri­menti pastorali-ascetici » 27

2. Necessità della Confessione e concetto vero d i peccato mortale » 3 3

3. Confessione privata e celebrazione comuni­taria della Penitenza » 38

4. Occorre ancora un potere di giurisdizione nel ministro del sacramento? . . . . » 4 6

5. Il confessore s'interroga sulle sue doti spi­rituali » 54

6. Maestro e psicologo » 60

7. L'accusa. Deve il ministro interrogare od il penitente interrogarsi? . . . . » 7 3

8. Orientamenti per un esame « generale » di coscienza » 82

Page 528: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

9. Dolore e proposito. L'arte divina di con­vertire i paccatori pag. 120

10. L'assoluzione. Pedagogia e finalità del proces­so penitenziale » 129

11. Trasformazione immediata o progressiva del penitente? » 134

12. Il confessore deve ancora assegnare peniten­ze per i peccati? » 137

13. « Amico prudente e fedele ». . . . » 140 14. La santità del sacramento da proteggere con­

tro ogni abuso » 144

Parte seconda

CATEGORIE DI PENITENTI » 147

A. Secondo l'età ed il sesso: 1. Fanciulli » 149 2. Adolescenti e giovani » 1 6 6 3. Adulti. Uomini e donne » 194

B. Secondo lo stato spirituale e le condizioni psico-fisiche: 1. Timidi e reticenti » 199 2. Gran peccatori in via di conversione . . >• 205 3. Occasionari » 207 4. Recidivi >• 216 5. Abitudinari » 220 6. Carcerati >• 222 7. Prostitute >• 224 8. Tiepidi » 2 2 9 9. Scrupolosi » 232

10. Chi aspira alla perfezione . . . » 245 11. Ammalati e morenti » 259

C. Secondo lo stato di vita e le professioni: 1. Prefidanzati e fidanzati » 276 2. Coniugati » 288 3. Nubili » 305

528

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4. Vedove pag. 311 5. Aspiranti al sacerdozio » 321 6. Sacerdoti » 328 7. Vescovi » 348 8. Religiosi e religiose » 356 9 . Membri d'Istituti Secolari . . . . » 372

10. Professionisti in genere » 378 11. Chi comanda e chi ubbidisce . . . 3 383 12. Operai, rurali, impiegati . . . . » 386 13. Imprenditori » 396 14. Padroni e domestici » 402 15. Insegnanti ed alunni » 406 16. Infermieri e infermiere » 413 17. Ostetriche » 421 18. Medici » 426 19. Giuristi » 445 20. Commercianti » 451 21. Commercialisti » 459 22. Politici » 462 23. Giornalisti » 464 24. Militari » 472 25. Emigranti » 475 26. Sacristi » 480

Parte terza

PENITENZA E CONVERSIONE CONTINUA . . . . » 483

1. La Confessione frequente » 485 2 . Confessione e direzione spirituale . . . » 494

CONCLUSIONI » 504

INDICE ALFABETICO DELLE PRINCIPALI MATERIE . . » 5 1 1

INDICE ALFABETICO DEGLI AUTORI CITATI . . . » 523

529

Page 530: Dal Covolo a, La Confessione Oggi, Roma 1979 (Txt)

9276 - TIPOGRAFIA CITTÀ NUOVA DELLA PAMOM - W - g J l g g 00165 ROMA - LARGO CRISTINA DI SVEZIA, 17 - TEL. 5813475/82

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Nella metà del frivolo settecento, un uomo d'eccezionale santità e cultura, Alfonso de' Liguori, pubblicava a Napoli, fra le tante sue opere teologiche ed ascetiche, un piccolo libro destinato particolar­mente ai novelli confessori. L'autore guardò sempre con predi lezione a questo frutto del suo ingegno e della sua esperienza e volle fosse aggiunto a tutte le edizioni della sua «Teologia Morale» dal 1755 in poi. Egli intendeva richiamare ai confessori le doti che devono posse­dere, in specie la prudenza pratica per applicare intelligentemente i principi morali ai singoli casi, rifuggendo sia dall'astrattismo e dalla problematica sterile, sia dalla casistica senza respiro e senza ade­renza alla vita. Esaminava quindi alcune categorie di penitenti per mostrare, a titolo d'esemplificazione, quale dev'esser la condotta del confessore di fronte allo stato ed alle esigenze infinitamente varie delle anime. Ed infine aggiungeva preziosi consigli per guidare anche le persone «spirituali» sulle vie dell'ascetica e della mistica. L'Autore del presente volume segue questa traccia rivedendo, aggior­nando, sviluppando le singole questioni in conformità ai progressi della Teologia Morale e delle scienze affini, quali la psicologia, l'antro­pologia, la sociologia, e secondo le più recenti direttive del magistero ecclesiastico. In modo particolare sono considerate numerose cate­gorie di penitenti perché, nella preparazione al sacramento della Ricon­ciliazione, ognuno sia invitato a riflettere non solo sui doveri comuni ad ogni cristiano, ma anche su quelli specifici del proprio stato. Il libro è dunque destinato tanto ai confessori quanto ai penitenti.

Antonio Dal Covolo è nato a Feltre (Belluno) nel 1912. Ha compiuto gli studi filosofici e teologici presso la P. Università Gregoriana di Roma e l'Università di Padova, È stato per 7 anni Direttore Spiri­tuale del Seminario Interdiocesano di Feltre-Belluno. Ha poi insegnato per 20 anni filosofia e teologia morale ed ascetica nel Seminario Gregoriano Interdiocesano in Belluno. Da oltre 10 anni è docente nel P. Istituto Pastorale e nella Facoltà Teologica della P. Università Lateranense. Ha pubblicato, fra l'altro, uno studio su La psicologia dell'incredulo alla luce del IV Evangelo, Milano, Vita e Pensiero, 1945, ed un saggio intitolato: Tramonto delle conversioni alla fede cattolica?, Roma, Città Nuova, 1974.