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Dagli Orientamenti ai curricoli Mario Maviglia, Ispettore Tecnico Ministero P.I. I curricoli nello scenario della riforma Una delle principali ragioni che ha spinto la classe politica italiana ad intraprendere la strada di una riforma così vasta e complessiva (che vede nel riordino dei cicli e nell’autonomia scolastica i punti di maggiore rilevanza politico-istituzionale) risiede nella necessità di innalzare globalmente l’offerta formativa delle istituzioni scolastiche e il livello generale culturale del Paese. In altre parole, era fortemente sentita l’esigenza di adeguare la dimensione dell’insegnare e dell’apprendere alle mutate condizioni socio-economico- culturali del Paese, di fornire ai giovani i necessari strumenti per interpretare criticamente la complessa realtà odierna e di inserirsi attivamente nella vita del proprio tempo, e, infine, di rendere per quanto possibile stabilizzati i risultati raggiunti dall’insegnamento anche dopo la conclusione degli studi scolastici. Nello stesso tempo, vi era l’estrema necessità di ridefinire l’identità culturale e il ruolo educativo svolto dalle istituzioni scolastiche in un’epoca in cui la scuola non appare più la sola agenzia in grado di promuove la conoscenza e l’apprendimento. Occorreva dunque ripuntualizzare (e riqualificare) lo specifico ruolo svolto dalla scuola sul piano dell’apprendimento ed aggiornare le strategie metodologiche e formative da mettere in campo per far conseguire a tutti gli allievi il pieno successo formativo. Naturalmente, il problema della ricalibratura del ruolo e delle strategie della scuola è una questione non solo italiana, ma investe tutti i Paesi industrializzati in quanto: vi è stata in questi ultimi anni (ed è un fenomeno sempre più caratterizzante la nostra e la futura epoca) una crescita esponenziale dell’insieme delle conoscenze e la scuola è stata sempre più “oberata” di attese e richieste che hanno finito con l’ampliare a dismisura i curricoli scolastici; – è in atto un processo di globalizzazione che investe non solo il mondo economico- produttivo ma anche quello culturale e dell’informazione; i fenomeni di mobilità di intere popolazioni dai Paesi di origine verso condizioni migliori di vita determinano “contaminazioni” di tipo culturale e sociale che si ripercuotono necessariamente sui processi di acculturazione per tutte le persone che condividono un medesimo territorio; – l’espansione dei linguaggi mass-mediali e, più in generale, l’inarrestabile sviluppo tecnologico, che caratterizza sempre più fortemente l’epoca della modernità, si ripercuote non solo sulla vita quotidiana di ogni persona ma anche sulle stesse forme dell’apprendimento e dell’organizzazione e fruizione delle conoscenze. Più specificamente, il sistema scolastico italiano ha conosciuto nel corso di questi ultimi decenni una profonda trasformazione che lo ha portato ad abbandonare la tradizionale e storicamente superata dimensione elitaria per approdare a sponde caratterizzate dalla democratizzazione degli studi e dall’espansione dei tassi di frequenza in tutti i gradi scolastici. Ma questa trasformazione – non adeguatamente governata nella sua globalità e soprattutto non accompagnata da riforme organiche e complessive di revisione dell’intero percorso educativo e di istruzione – ha determinato una forte discontinuità tra i diversi livelli di istruzione, con l’inevitabile conseguenza che i settori scolastici fanno fatica a dialogare tra di loro e inoltre si sono create nel tempo forti divaricazioni tra indirizzi a

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Dagli Orientamenti ai curricoli

Mario Maviglia, Ispettore Tecnico Ministero P.I. I curricoli nello scenario della riforma

Una delle principali ragioni che ha spinto la classe politica italiana ad intraprendere la

strada di una riforma così vasta e complessiva (che vede nel riordino dei cicli e nell’autonomia scolastica i punti di maggiore rilevanza politico-istituzionale) risiede nella necessità di innalzare globalmente l’offerta formativa delle istituzioni scolastiche e il livello generale culturale del Paese. In altre parole, era fortemente sentita l’esigenza di adeguare la dimensione dell’insegnare e dell’apprendere alle mutate condizioni socio-economico-culturali del Paese, di fornire ai giovani i necessari strumenti per interpretare criticamente la complessa realtà odierna e di inserirsi attivamente nella vita del proprio tempo, e, infine, di rendere per quanto possibile stabilizzati i risultati raggiunti dall’insegnamento anche dopo la conclusione degli studi scolastici.

Nello stesso tempo, vi era l’estrema necessità di ridefinire l’identità culturale e il ruolo educativo svolto dalle istituzioni scolastiche in un’epoca in cui la scuola non appare più la sola agenzia in grado di promuove la conoscenza e l’apprendimento. Occorreva dunque ripuntualizzare (e riqualificare) lo specifico ruolo svolto dalla scuola sul piano dell’apprendimento ed aggiornare le strategie metodologiche e formative da mettere in campo per far conseguire a tutti gli allievi il pieno successo formativo.

Naturalmente, il problema della ricalibratura del ruolo e delle strategie della scuola è una questione non solo italiana, ma investe tutti i Paesi industrializzati in quanto: – vi è stata in questi ultimi anni (ed è un fenomeno sempre più caratterizzante la nostra e la

futura epoca) una crescita esponenziale dell’insieme delle conoscenze e la scuola è stata sempre più “oberata” di attese e richieste che hanno finito con l’ampliare a dismisura i curricoli scolastici;

– è in atto un processo di globalizzazione che investe non solo il mondo economico-produttivo ma anche quello culturale e dell’informazione;

– i fenomeni di mobilità di intere popolazioni dai Paesi di origine verso condizioni migliori di vita determinano “contaminazioni” di tipo culturale e sociale che si ripercuotono necessariamente sui processi di acculturazione per tutte le persone che condividono un medesimo territorio;

– l’espansione dei linguaggi mass-mediali e, più in generale, l’inarrestabile sviluppo tecnologico, che caratterizza sempre più fortemente l’epoca della modernità, si ripercuote non solo sulla vita quotidiana di ogni persona ma anche sulle stesse forme dell’apprendimento e dell’organizzazione e fruizione delle conoscenze.

Più specificamente, il sistema scolastico italiano ha conosciuto nel corso di questi ultimi

decenni una profonda trasformazione che lo ha portato ad abbandonare la tradizionale e storicamente superata dimensione elitaria per approdare a sponde caratterizzate dalla democratizzazione degli studi e dall’espansione dei tassi di frequenza in tutti i gradi scolastici. Ma questa trasformazione – non adeguatamente governata nella sua globalità e soprattutto non accompagnata da riforme organiche e complessive di revisione dell’intero percorso educativo e di istruzione – ha determinato una forte discontinuità tra i diversi livelli di istruzione, con l’inevitabile conseguenza che i settori scolastici fanno fatica a dialogare tra di loro e inoltre si sono create nel tempo forti divaricazioni tra indirizzi a

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vocazione “professionalizzante” e indirizzi a vocazione “formativa”, tra percorsi scolastici e percorsi professional-lavorativi.

A questi elementi di problematicità si è cercato – nel corso di questi ultimi tre decenni – di porre un qualche rimedio, attraverso però interventi settoriali che hanno ancor più accentuato, in molti casi, gli elementi di discontinuità. È facile ricordare, ad esempio, come i programmi scolastici per la scuola media, elementare e dell’infanzia siano nati in epoche diverse e con impostazioni molto differenti sul piano curricolare ed educativo. A questi motivi di problematicità vanno aggiunti i ritardi che il sistema scolastico italiano ha registrato – rispetto agli altri Paesi europei – sul piano dell’estensione dell’obbligo scolastico, dell’ammodernamento delle strutture, del rinnovamento tecnologico, della formazione iniziale e continua dei docenti. Occorre inoltre ricordare che la gestione centralistica e burocratica della scuola non ha consentito di rispondere in maniera adeguata alle diverse ed articolate esigenze formative e istruzionali delle varie zone geografiche del Paese. Naturalmente questi fenomeni problematici hanno interessato non solo il sistema scolastico ma anche altri settori della vita pubblica e sociale italiana, ma certo in campo formativo hanno determinato un evidente gap culturale e formativo rispetto agli altri partners europei. (Non dimentichiamo che l’Italia è stato l’ultimo Paese dell’Unione Europea ad innalzare l’obbligo scolastico a nove anni di durata).

Tale ritardo lo si può apprezzare in tutta la sua gravità se si analizzano i tassi di ripetenza e di abbandono che ancora oggi caratterizzano la vita delle nostre istituzioni scolastiche (soprattutto della scuola secondaria superiore), e le percentuali di diplomati e laureati che il sistema scolastico italiano “sforna” ogni anno rispetto agli altri Paesi industrializzati in relazione al numero complessivo dei giovani che intraprendono tali livelli di istruzione ma che non riescono a conseguire il titolo finale di studio.

Per tutte queste ragioni, vi era l’esigenza di operare una robusta e profonda revisione dell’intero sistema scolastico italiano, sia nelle sue articolazioni terminali che in quelle intermedie e iniziali. Il valore e la portata delle riforme intraprese dal Ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer, risiede proprio nell’aver adottato una prospettiva riformatrice complessiva e non settoriale, e dunque scegliendo una strada diversa da quella intrapresa finora dalla politica scolastica italiana, centrata su riforme di settore (per quanto importanti e di grande interesse) piuttosto che sull’intero sistema di istruzione e formazione.

Le riforme avviate È all’interno dello scenario delineato sopra che vanno collocate le riforme già attuate e

che sono destinate a cambiare radicalmente il volto delle nostre istituzioni scolastiche. Ci riferiamo, in modo particolare, al Regolamento dell’Autonomia scolastica (D.P.R. 275 dell’8/03/99), alla Legge di riordino dei cicli scolastici (L. 30 del 10/02/00), alla cosiddetta legge sulla parità scolastica (L. 62 del 10/03/00) e alla legge sull’obbligo formativo (L. 144 del 17/05/99).

L’insieme di questi interventi normativi persegue molteplici obiettivi: a) garantire alle giovani generazioni un’istruzione più estesa e diffusa, e nello stesso tempo

un più alto profilo culturale degli studi; b) responsabilizzare l’azione delle scuole in ordine alle scelte organizzative e curricolari,

anche per meglio rispondere alle esigenze formative del contesto ambientale; c) ampliare la qualità e la partecipazione all’interno della scuola e le interazioni delle

istituzioni scolastiche con l’ambiente circostante.

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Sono in particolare il DPR 275/99 e la L. 30/00 che dovrebbero consentire il perseguimento di tali obiettivi. L’autonomia scolastica rappresenta la dimensione entro la quale le istituzioni scolastiche si troveranno ad operare; il Regolamento dell’autonomia prevede ancora un quadro di riferimento curricolare unitario per tutto il Paese, ma nello stesso tempo consente alle scuole di definire il proprio curricolo obbligatorio attraverso scelte da concordare e negoziare a livello locale. Va inoltre sottolineato che i vari ambiti dell’autonomia previsti dal Regolamento (autonomia didattica, organizzativa e di ricerca), le varie forme di flessibilità e l’elaborazione progettuale consentono alle scuole una più efficace azione formativa e un’azione più in sintonia con le esigenze del territorio. Il nuovo assetto scolastico delineato dalla legge di riforma presuppone inoltre il superamento delle discontinuità e frammentazioni dell’iter formativo, prevedendo una stretta continuità tra cicli scolastici, una forte integrazione tra i diversi indirizzi e un più coerente rapporto tra formazione professionale e mondo del lavoro.

Come afferma il Gruppo di lavoro che ha formulato proposte in ordine a questo tema all’interno della Commissione ministeriale di riordino dei cicli, “il riordino dei cicli è uno snodo fondamentale della più generale riforma del sistema di istruzione e formazione italiano. La proposta di riforma, così come è esplicitato nell’art. 1 della L. 30/00, non è rivolta soltanto alla modernizzazione delle strutture, dei modelli organizzativi e dell’aggiornamento dei programmi scolastici, ma assume invece come protagonista il ‘sistema educativo di istruzione e di formazione’, finalizzandolo alla crescita e alla valorizzazione della persona umana in tutte le sue dimensioni – come sancito anche dalle Dichiarazioni internazionali – e alla formazione del cittadino nel quadro delle finalità e delle garanzie previste dalla Costituzione italiana. È necessario operare per assicurare la possibilità che ciascuno – una volta opportunamente orientato – possa, nel campo dell’istruzione e della formazione, scegliere ed ottenere il meglio per sé contribuendo al benessere di tutti. Ciò significa un’azione mirata che, partendo dai bisogni di istruzione, consenta alla scuola di promuovere un impegno formativo diffuso e il coinvolgimento dei diversi ambiti educativi”.

Uno dei focus del progetto riformatore è costituito dunque dalla centralità dei soggetti che apprendono, nel senso che va attivata la loro partecipazione consapevole alle varie esperienze formative. Il Programma quinquennale di attuazione della riforma sottolinea l’esigenza che venga affermata “a ogni livello scolastico la centralità delle persone che apprendono” e venga riconosciuta e tenuta in conto in ogni momento della vita scolastica “come le persone siano diverse per genere, età, ritmi e modalità di sviluppo, classi sociali, religioni, culture, Paesi d’origine ed esperienze di vita. L’apprendimento è un processo dinamico e relazionale in cui – anche per consentire il ritrovamento di un significato personale nel comune progetto educativo – va favorita la partecipazione consapevole alle varie esperienze formative e l’atteggiamento di ricerca attiva nella acquisizione della conoscenza”.

Il dibattito sulla ridefinizione dei saperi

Il dibattito sulla ridefinizione dei saperi è stato avviato qualche anno fa, anche se ha

ricevuto un netto impulso con l’istituzione, da parte del Ministro Berlinguer nel 1997, della cosiddetta “Commissione dei Saggi”. Compito esplicito di tale Commissione era quello di individuare “le conoscenze fondamentali su cui si baserà l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni”. In altre parole, alla Commissione veniva affidato il

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compito di definire cosa insegnare alle nuove generazioni in un contesto storico-culturale caratterizzato dalle seguenti tendenze ed esigenze: “– la nuova intelaiatura istituzionale della scuola [cfr. proposta di riordino dei cicli

scolastici], e al suo interno l’esigenza di elevare la scolarizzazione unitaria, andranno misurate in rapporto allo scenario, ormai prossimo alla realizzazione, dell’autonomia scolastica;

– entro questo scenario emerge la necessità di procedere ad una riflessione sui contenuti programmatici: un ardito disegno di revisione istituzionale deve essere accompagnato da una ridefinizione dei contenuti che guardi ai trend culturali del futuro;

– è da evitare la moltiplicazione delle discipline e va invece salvaguardato l’obiettivo prioritario di puntare ad un sapere critico;

– alla base della nostra scuola, nella sua stessa storia, c’è una grossa opzione strategica, di tipo scientifico: ne è testimonianza il peso della matematica e della grammatica, intese come presupposto per una conoscenza di tipo analitico. Oggi la società è caratterizzata dalla presenza di culture dirette, come quella dell’immagine e della musica: ciascuna è dotata di una sua grammatica e di una sua filologia, ma il modo aggressivo con cui esse sono proposte rischia di impigrire le menti. Di qui l’esigenza che la scuola parta dai linguaggi;

– tradizionalmente la cultura è fuori del mondo del lavoro. Così non può più essere; – c’è da tenere presente il problema dei valori, e al suo interno di una riconquistata eticità

dell’insegnamento. Nel passato vigeva il principio di autorità. Oggi esso è molto incrinato. L’eticità va rifondata sui valori, ma deve avere anche un suo contesto sanzionatorio”. A partire da tali riflessioni preliminari, la Commissione ha redatto nel maggio 1997 una

prima relazione di sintesi dei lavori e, nel marzo 1998, ha licenziato un documento sui “contenuti essenziali per la formazione di base” che è stato divulgato in tutte le scuole di ogni ordine e grado ed è stato fatto oggetto di un’ampia consultazione fra gli operatori scolastici.

In questi due documenti vengono prefigurati i futuri scenari in ordine ai contenuti fondamentali della formazione di base e ai caratteri metodologico-didattici della scuola riformata. Gli elementi più significativi di tali cambiamenti possono essere sintetizzati nei seguenti punti: – La scuola deve caratterizzarsi come un ambiente idoneo a favorire l’apprendimento.

Perché ciò avvenga è necessario abbandonare il tradizionale paradigma che vede l’insegnamento centrato sulla triade lezione/studio individuale/interrogazione per abbracciare nuove forme metodologico-didattiche capaci di mobilitare tanto gli aspetti cognitivi quanto quelli affettivi e relazionali. Questa concezione di scuola è molto vicina a quella proposta dagli Orientamenti del 1991 per la scuola dell’infanzia; infatti in questo testo la scuola dell’infanzia viene definita “un accogliente e motivante ambiente di vita, di relazione e di apprendimenti”; nello stesso tempo, viene richiamata la concezione di “scuola come ambiente educativo di apprendimento” contenuta nei Programmi del 1985 per la scuola elementare.

– L’istruzione non può essere enciclopedica: occorre alleggerire i programmi di studio, puntando all’insegnamento di poche cose, ma fatte bene, piuttosto che molte cose fatte male e superficialmente. In questo quadro le discipline di studio vanno intese come “campi di significato che debbono fornire un orizzonte intersoggettivo”, oltre che acquistare un senso personale e tradursi in operatività. Sembra tramontata – almeno a livello di dibattito teorico – la tendenza a “riempire” oltre modo i programmi di nuovi contenuti nella impossibile impresa di raggiungere tutto lo scibile umano. In realtà la

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costruzione di un curricolo moderno esige la necessità di operare scelte e selezioni, ben sapendo che alcune opzioni ne escludono altre.

– I programmi del futuro dovranno dunque diventare sempre più essenziali e articolarsi intorno ad alcuni fondamentali traguardi irrinunciabili e ad una serie succinta di tematiche portanti. Gli Orientamenti del 1991 sembrano abbastanza in sintonia con tale prospettiva in quanto le indicazioni curricolari sono strutturate intorno ad alcuni essenziali traguardi di sviluppo, mentre i contenuti portanti assumono un carattere fortemente orientativo. Questa nuova concezione delle indicazioni curricolari comporta, come conseguenza, una forte responsabilizzazione dei docenti, chiamati a interpretare e sviluppare in sede locale gli indirizzi curricolari nazionali.

– La scuola deve porsi come un “luogo di vita e di apprendimento per docenti e studenti”. Anche in questo caso viene ripreso un aspetto già presente nel testo degli Orientamenti del 1991. Ne emerge un’idea di scuola impegnata a far nascere il gusto verso l’insegnamento e il piacere del far conoscere. Tutto ciò implica una forte valorizzazione della professione docente e la necessità di porre la scelta dell’insegnamento non come un’attività di ripiego, ma una professione fortemente gratificante.

– La scuola dovrà recuperare le dimensioni della manualità e dell’operatività, nella consapevolezza che esse costituiscono le basi per sviluppare le dimensioni più astratte e formali. Gli Orientamenti della scuola materna sembrano in linea con questo principio in quanto sottolineano più volte l’importanza del fare del bambino; d’altro canto la stessa definizione di “campi di esperienza educativa” risulta coerente con tale prospettiva. Infatti, “con questo termine si indicano i diversi ambiti del fare e dell’agire del bambino e quindi i settori specifici ed individuabili di competenza nei quali il bambino conferisce significato alle sue molteplici attività, sviluppa il suo apprendimento, acquisendo anche le strumentazioni linguistiche e procedurali, e persegue i suoi traguardi formativi nel concreto di un’esperienza che si svolge entro confini definiti e con il costante suo attivo coinvolgimento”.

– La scuola dovrà essere interessata a una pluralità di strumenti e pratiche educative (testi adeguati, lavoro di gruppo, attività di ricerca, strumenti multimediali ecc.). Anche il gioco dovrà essere fortemente valorizzato in quanto attività “seria” per il bambino. Occorre dunque creare, per quanto possibile, “contesti didattici all’interno dei quali apprendere sia esperienza piacevole e gratificante”. Non dimentichiamo che negli Orientamenti della scuola dell’infanzia il gioco viene definito una “risorsa privilegiata di apprendimento e di relazioni”. Infatti, esso ”favorisce rapporti attivi e creativi sul terreno sia cognitivo che relazionale, consente al bambino di trasformare la realtà secondo le sue esigenze interiori, di realizzare le sue potenzialità e di rivelarsi a se stesso e agli altri in una molteplicità di aspetti, di desideri e di funzioni”.

– Occorre ripensare il legame tra scuola e famiglia per rivitalizzare un rapporto che sembra molto compromesso sul piano dell’autenticità e dell’effettiva partecipazione. La scuola dell’autonomia richiederà alla scuola di confrontarsi con i bisogni espressi dalle famiglie e dalla comunità sociale. Ciò significa aprirsi alle istanze provenienti dall’esterno (ovviamente nella misura in cui queste siano coerenti con le finalità educative della scuola e con il suo itinerario progettuale), ma anche farsi meglio conoscere dalla comunità sociale.

– Infine, una maggiore attenzione dovrà essere riservata alle differenze di genere. Questo aspetto per la verità sembra molto assente nell’azione e nella didattica delle scuole. Si tratta non solo di considerare che un sempre maggior numero di ragazze prosegue gli studi (anche se questo non si traduce in una maggiore presenza femminile nelle posizioni dirigenziali o di comando), ma anche di tener conto delle differenze di genere sul piano

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cognitivo e relazionale nell’approccio al mondo dei saperi e dei rapporti sociali. In altre parole, gli interventi educativi messi in atto dalla scuola (e il materiale didattico utilizzato) non sembra tener conto di queste differenze ed anzi sembra privilegiare la posizione preminente del soggetto maschile nel materiale scolastico e nella mediazione didattica.

I caratteri generali dei curricoli Come abbiamo visto sopra, già la Commissione dei saggi aveva individuato alcuni criteri

generali su cui impostare i curricoli della scuola riformata. Sinteticamente, questi sono i criteri proposti: – la ridefinizione del panorama dei saperi della scuola; – l’esplicitazione delle connessioni trasversali tra i vari saperi; – l’essenzializzazione dei contenuti di insegnamento; – l’importanza da attribuire ai diversi linguaggi; – il contributo delle nuove tecnologie.

Come si legge in un documento tecnico predisposto da un Gruppo di lavoro ministeriale in vista dell’attuazione della L 30/2000, “tali indicazioni paiono delineare con una certa chiarezza la via da percorrere per dare risposta al cruciale problema cui ci si trova oggi davanti: fronteggiare la dilatazione non solo quantitativa delle conoscenze e, al tempo stesso, consolidare e innalzare i livelli formativi delle giovani generazioni e del Paese. A tal fine sembra ormai rivelarsi illusoria l’ambizione di un sistema dell’istruzione per così dire “onnivoro”, fondato cioè su una scuola in grado di rispondere alle esigenze sempre più complesse della “modernità” attraverso percorsi di insegnamento di taglio tendenzialmente enciclopedico e onnicomprensivo. Non a caso, sia il Regolamento dell’autonomia scolastica, sia la legge quadro di riordino sembrano prefigurare una impostazione dei curricoli ben diversa.

L’articolo 8 del Regolamento prevede che gli allievi raggiungano “obiettivi specifici di apprendimento” e consolidino, così, altrettante specifiche “competenze”. In queste indicazioni si esprime l’esigenza che le conoscenze acquisite in una disciplina siano teoricamente e praticamente padroneggiate, in modo da essere messe a frutto anche in situazioni e in tempi diversi, nel contesto scolastico come al di là e al di fuori di esso. Un’esigenza siffatta rischierebbe tuttavia di restare lettera morta qualora il progetto formativo si disperdesse nei mille rivoli di una istruzione al tempo stesso ipertrofica e parcellizzata.”

Il Programma quinquennale di progressiva attuazione della L. 30/2000, individua i seguenti fondamentali criteri per la riorganizzazione dei curricoli: a) essenzialità, storicità, problematicità b) progressività, gradualità.

I primi tre criteri rispondono all’esigenza di definire “argomenti selezionati, ma svolti in profondità, secondo il metodo della individuazione e soluzione di problemi. Ciò comporta una forte attenzione alla prospettiva critica e alla dimensione problematica dei percorsi della ricerca che hanno portato alla sistemazione attuale delle conoscenze.

I criteri di costruzione dei curricoli devono fare cioè riferimento a quelle finalità del sistema che, a partire dall’attenzione alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, si propongono di formare menti aperte e critiche, in grado di leggere e interpretare la realtà, di comprenderne i cambiamenti, di orientarsi in essa secondo ragione. Dovranno essere

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allora criteri congrui con le finalità generali del sistema, significativi nelle scelte di contenuto, eticamente connotati dalla esigenza di intrecciare sapere e valori condivisi.”

L’essenzializzazione dei curricoli nasce dalla constatazione che “sembra difficile ipotizzare che l’adeguamento dei contenuti dell’insegnamento alla continua evoluzione qualitativa e quantitativa dei saperi possa essere consentito dalla scelta – peraltro impraticabile nel concreto – di una dilatazione tendenzialmente ad infinitum dei contenuti medesimi, del numero delle discipline e dello stesso orario scolastico. Al contrario, un curricolo “essenziale” (ed essenziale non significa certo “minimale”) si basa sulla convinzione che quell’adeguamento si possa invece perseguire attraverso percorsi scolastici caratterizzati non dallo studio estensivo di molti contenuti, ma da quello intensivo e criticamente approfondito di contenuti selezionati, tesi appunto a consolidare negli allievi un patrimonio di conoscenze/competenze non solo stabile nel tempo, ma anche aperto a sempre ulteriori approfondimenti e sviluppi” (Documento tecnico predisposto da un Gruppo di lavoro ministeriale in vista dell’attuazione della L 30/2000).

I criteri di progressività e gradualità sono strettamente connessi a quelli appena illustrati e tendono a superare quanto avviene nell’attuale sistema, ossia “il ripetersi e il sovrapporsi, senza organico collegamento, degli stessi contenuti a scapito della motivazione all’apprendimento e quindi dello stesso esito formativo. La progressività e la gradualità del curricolo possono, invece, assicurare l’unitarietà della formazione dai tre ai diciotto anni, pur nelle distinzioni richieste dai ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e delle identità di ogni allieva e di ogni allievo, e possono rafforzare la valenza orientativa dell’apprendimento. Questa va infatti intesa come consolidamento della capacità di ogni soggetto di sviluppare il senso di sé e, per questa via, una propria autonoma capacità di scelta. L’attenzione al soggetto, con i suoi tempi personali e differenziati di apprendimento, con le sue diversità di storia, identità e cultura, suggerisce inoltre di costruire curricoli flessibili, che possano essere ampliati o articolati, ma anche rivisti e modificati nel tempo.”

Ma ragionare a livello teorico sulla necessità di curricoli progressivi sollecita a tener conto di un dato che non è stato adeguatamente considerato nella scuola italiana. “Si tratta cioè di considerare se i diversi aspetti (oggetto, linguaggio, metodologia di ricerca) da cui viene caratterizzato lo statuto di una disciplina non debbano già essere tutti presenti nelle varie fasi del percorso formativo. Pare difficile pensare infatti che lo statuto di una disciplina possa cambiare perché mutano, con l’età degli allievi, tappe e scansioni del processo di apprendimento: lo statuto della matematica o della storia non resta forse pur sempre il medesimo sia che - ad esempio - si sviluppino i primi approcci al concetto di misura o alle categorie di spazio/tempo in una scuola dell’infanzia o se ne affrontino le implicazioni più complesse e sofisticate nella fase conclusiva di un “triennio” superiore?

Quello che invece muta - via via che si procede nel percorso formativo - è il modo di insegnare e di imparare. Da qui discende la funzione decisiva che sempre di più sono chiamati a esercitare i docenti; da qui il peso crescente della loro professionalità: una professionalità in cui l’indispensabile preparazione disciplinare sarà sempre di più componente senza dubbio necessaria, ma da sola non più sufficiente.

Proprio da qui scaturisce allora il ruolo cruciale – e in qualche modo nuovo – che spetterà alla didattica. Essa sarà sollecitata sempre di più di dispiegare lo “specifico” delle discipline e le loro reciproche interrelazioni. Questo anzi, come è sin troppo ovvio, rimane un compito irrinunciabile. E tuttavia, alla didattica sarà sempre di più affidato il compito di valorizzare anche – secondo le opportune calibrature relative all’età – “le ragioni di senso” dei contenuti simbolici (‘perché sto imparando questo?’) e il loro rapporto con il “vissuto” degli allievi (‘ha a che fare con me, cosa mi dice questo che imparo’?).

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In altre parole, lo statuto disciplinare resta fermo, ma cambia – strada facendo – la “distanza” del soggetto che impara dall’oggetto da imparare: da un legame forte con la contestualità della esperienza diretta degli allievi si passerà via via a forme più pronunciate di decontestualizzazione e di astrazione. E tuttavia – ovviamente con modalità diverse e “dosaggi” adeguati, – contestualità e astrazione rimangono esigenze da rispettare durante tutto il percorso di istruzione: se la prima sarà fortemente accentuata all’inizio e sempre più criticamente mediata col trascorrere degli anni, anche la seconda (in senso ovviamente inverso) costituirà una dimensione permanente e irrinunciabile dell’intero processo di apprendimento.” (Documento tecnico, op. cit.)

Il dibattito sulle competenze Proprio in relazione a quanto previsto dall’art. 8 del Regolamento dell’Autonomia, ossia

la definizione degli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni, si è avviato un ampio dibattito sul concetto di competenza e sul significato che assume all’interno del processo di insegnamento/apprendimento. Crediamo sia importante sondare il significato attribuito a questo concetto, che rappresenta ormai un elemento fondamentale nell’elaborazione dei curricoli, e i risvolti educativo-didattici che ciò presuppone, soprattutto per quel che riguarda lo specifico settore della scuola dell’infanzia.

Una prima definizione è di carattere linguistico: il dizionario Zingarelli definisce competente colui “che ha la capacità di compiere una data attività, svolgere un dato compito”. Come si vede in questa definizione ciò che balza all’occhio è la sottolineatura del sapere pratico che viene manifestato attraverso la competenza. E in effetti per lungo tempo la competenza è stata correlata essenzialmente ad un saper fare, tanto da essere associata al mondo della prassi e delle professioni.

Se si consulta un dizionario di pedagogia troviamo la seguente definizione di competenza: “Sta per: capacità, abilità, perizia. In ambito psicopedagogico il termine viene sempre più spesso utilizzato come una delle principali finalità della scuola. In particolare nei Nuovi Orientamenti pedagogici per la scuola materna, lo sviluppo della competenza – inteso come consolidamento delle abilità sensoriali, percettive, motorie, linguistiche, sociali e come capacità di pervenire a prime forme di riorganizzazione dell’esperienza, di esplorazione e di ricostruzione della realtà – una delle tre fondamentali finalità generali di quella scuola. Non a caso, qualcuno ha anche parlato di bambino competente per riferirsi appunto ad una prospettiva pedagogica per la quale al bambino, non più considerato come un soggetto tutto sentimento e spontaneità, viene stimolato ed aiutato ad acquisire una serie di capacità fisiche, sensoriali, sociali ed intellettuali. Il termine ha anche un’accezione di tipo professionale (competenza medica, matematica, giuridica, ecc.) che recentemente ha interessato la pedagogia: la competenza pedagogica infatti viene considerata come l’insieme delle capacità e delle abilità educative che emergono da un orientamento scientifico appunto della pedagogia” (Bertolini).

Dal canto suo, il Gruppo di lavoro ministeriale in vista dell’attuazione della L. 30/2000 affronta in questi termini il problema della competenza: “Il curricolo articolato per obiettivi formativi e competenze degli allievi, previsto dall’articolo 8 del Regolamento dell’autonomia, lungi dall’essere un astratto marchingegno pedagogico, appare allora proprio quello in grado di fondare una formazione non solo consapevole, ma anche duratura nel tempo.

A tal fine, è indispensabile che le conoscenze trasmesse dalla scuola siano compiutamente e criticamente assimilate, si risolvano cioè in una loro acquisizione e in un

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loro uso criticamente strutturati, nonché in una duttile disponibilità a trasferirle in ambiti, tempi e contesti diversi. Il concetto di competenza sembra appunto poter riassumere in se stesso tutte queste istanze.

In quanto tali, le competenze vengono a configurarsi come strutture mentali in grado di trasferire la loro valenza in diversi campi: saper risolvere un problema di matematica, tradurre un passo dal greco, utilizzare una tecnica informatica si configurano, ad esempio, come una padronanza di specifiche conoscenze disciplinari che determina tuttavia anche una attitudine e una capacità di segno per così dire ‘trasversale’.

Sul tema delle competenze è aperto da tempo, e in varie sedi, un ampio dibattito. Al di là delle molte definizioni date, è comunque possibile registrare un’ampia convergenza sull’opportunità di costruire il percorso di apprendimento attraverso tappe e traguardi condivisi. Le competenze, intese come l’utilizzazione e il padroneggiamento teorico e pratico delle conoscenze, altro non sono allora se non le tappe e i traguardi di un trasparente (e perciò certificabile) itinerario di istruzione che abbia quale propria finalità istituzionale il successo formativo di ciascun allievo.

Così intese, le competenze potrebbero svolgere un ruolo importante nell’accompagnare e sviluppare le metodologie innovative già da tempo operanti in non poche delle nostre scuole (studio critico, compresenza dei docenti, attività laboratoriale ecc.). Più precisamente, una didattica fondata su obiettivi formativi e competenze degli allievi appare in grado di favorire: – un processo di insegnamento/apprendimento motivato, consapevole e caratterizzato dalla

reciproca responsabilità di chi insegna e di chi impara; – una valutazione fondata su un equilibrato rapporto tra le articolate dinamiche del

processo formativo e la certificazione puntuale dei suoi esiti; – il superamento sia della tradizionale dicotomia tra gli studi orientati al ‘sapere’ e quelli

orientati al ‘saper fare’, sia del pregiudizio che di competenza si possa parlare solo a proposito di una dimensione strettamente operativa e/o professionale;

– il decollo del cosiddetto ‘sistema formativo integrato’.” Come si può notare, in questa definizione viene creata una stretta correlazione tra

conoscenza e competenza e si punta verso un deciso superamento della tradizionale contrapposizione tra sapere e saper fare.

Considerazioni analoghe esprime S. Meghnagi il quale sottolinea che il concetto di competenza “consente di superare l’alternativa, falsa in ambito educativo, tra valore della teoria e valore della pratica, poiché ogni acquisizione teorica ha implicazioni pratiche e ogni abilità pratica muove da una teoria”.

Per la verità il documento ministeriale va anche oltre in quanto afferma che le competenze “si configurano altresì come strutture mentali capaci di trasferire la loro valenza in campi diversi, generando così dinamicamente anche una spirale di altre conoscenze e competenze. Una specifica competenza disciplinare comporta infatti anche l’acquisizione di una forma mentis (ad esempio “saper risolvere un problema”) utilizzabile nelle più diverse situazioni. In quanto tali, le competenze favoriscono la connessione in termini dialetticamente calibrati della propria duplice dimensione disciplinare e trasversale”.

L’intenso dibattito che si è sviluppato nel corso di questi ultimi anni in campo educativo e scolastico intorno al tema delle competenze si può sintetizzare – senza alcuna pretesa di esaustività – nei seguenti elementi essenziali:

a) Le competenze non possono essere considerate astrattamente ma vanno sempre correlate

ad un determinato background socio-culturale. In altre parole, le competenze costituiscono una sorta di costrutti sociali, in quanto assumono significato e rilevanza

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sociale, oltre che formativa ed educativa, solo nell’ambito di una determinata cultura ed in relazione al riconoscimento sociale che viene loro attribuito. S. Meghnagi esprime molto bene questa dimensione quando dice che “la competenza ha caratteristiche sociali, si lega alla conoscenza nella sua accezione più ampia e si realizza nell’ambito di una data cultura”.

Per la verità, questo dato – che possiamo considerare di carattere socio-antropologico – non è nuovo in quanto è noto che ogni cultura assegna valore ed importanza all’acquisizione di determinate competenze piuttosto che di altre, e ciò ha delle dirette ripercussioni sugli obiettivi formativi che si vogliono conseguire attraverso l’azione educativa.

Un ragionamento molto simile – sebbene riferito allo sviluppo dell’intelligenza – viene condotto anche da Gardner, il padre della teoria delle intelligenze multiple, il quale definisce l’intelligenza come “la capacità di risolvere problemi, o di creare prodotti, che sono apprezzati all’interno di uno o più contesti culturali”. Le intelligenze – e le competenze, che in qualche modo ne sono il risultato più evidente - sono dunque delle potenzialità che vengono realizzate a seconda del contesto culturale nel quale si sviluppano. Gardner cita, a questo proposito, l’esempio del campione di scacchi, Bobby Fisher: “In un certo senso, Bobby Fisher avrebbe potuto benissimo avere il potenziale per essere un grande giocatore di scacchi, ma se fosse nato in una cultura dove questo gioco fosse stato sconosciuto, quel potenziale non avrebbe potuto manifestarsi e men che meno realizzarsi. Forse egli avrebbe potuto usare la sua intelligenza logica o spaziale per diventare uno scienziato o un navigatore, ma è altrettanto probabile che non si sarebbe distinto in alcun modo. L’intelligenza, o le intelligenze, sono sempre il risultato di un’interazione fra inclinazione biologiche da una parte, e le opportunità di apprendimento esistenti in una cultura dall’altra”.

b) Una competenza non può essere concepita come un contenitore vuoto ma presuppone

sempre una conoscenza, ossia un sapere. Esiste però un rapporto dinamico tra teoria e pratica della conoscenza stessa, nel senso che la competenza può essere concepita come una sorta di punto di incontro della dimensione teorica e di quella pratica della conoscenza. La competenza si caratterizza dunque per questo senso di dinamicità tra aspetti applicativi e aspetti teorici della conoscenza, in un mutuo e reciproco processo di alimentazione e sostegno. In questo senso “le competenze si esplicano come utilizzazione e padroneggiamento delle conoscenze”.

In campo educativo questa concezione stenta ancora a farsi strada in quanto il sapere ed il saper fare vengono spesso considerati come due dimensioni contrapposte invece che due facce della stessa medaglia. Non si tiene adeguatamente presente che anche il fare più “pragmatico” si regge su concezioni, modelli e costrutti culturali, ossia un sapere storicamente determinato e contestualizzato.

c) Un altro aspetto da tenere presente concerne il carattere di flessibilità delle competenze, cioè la possibilità di essere trasferite da un campo all’altro del sapere. Evidentemente questo aspetto è strettamente correlato alla loro propensione più declinata in senso “disciplinare” oppure in senso “trasversale”, e dunque al fatto di essere fortemente (anche se mai esclusivamente) riferibili ad un particolare campo di conoscenza, o, viceversa, alla possibilità di essere utilizzate in campi e situazioni diversi. In realtà – come afferma E. Bertonelli – possiamo considerare le competenze disciplinari come il necessario presupposto e, nel contempo, la naturale verifica delle competenze trasversali. Infatti, “non si abbattono i rigidi steccati oggi presenti nella scuola rinunziando al

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possesso degli statuti, dei linguaggi formalizzati e dei contenuti delle attuali discipline, che in ogni caso – non si può certo dimenticarlo – costituiscono il patrimonio dato della nostra storia e della nostra identità culturale”. Il problema, semmai, è quello di “favorire una acquisizione dei contenuti in termini così strutturali da permettere la permeazione, la reciproca interrelazione, la valenza operativa delle discipline”. La questione può essere però considerata sotto una luce non così contrappositiva, ma

anzi correlativa, nel senso di tener conto tanto della dimensione disciplinare quanto di quella trasversale delle competenze. Morin sembra riferirsi a questa necessità quando afferma che “l’organizzazione delle conoscenze (…) comporta operazioni di interconnessione (congiunzione, inclusione, implicazione) e di separazione (differenziazione, opposizione, selezione, esclusione). Il processo è circolare, passa dalla separazione al collegamento, dal collegamento alla separazione, e poi, dall’analisi alla sintesi, dalla sintesi all’analisi. In altri termini, la conoscenza comporta nello stesso tempo separazione e interconnessione, analisi e sintesi”. Ciò significa che disciplinarità e trasversalità sono tra loro strettamente dipendenti e necessarie in quanto consentono, nel loro intreccio dinamico, di restituire una visione sistemica e complessa della realtà, e non settoriale o “banale” (nel senso di semplice). Lo stesso Morin – citando Pascal – afferma che “la conoscenza delle parti dipende dalla conoscenza del tutto come la conoscenza del tutto dipende dalla conoscenza delle parti”.

Insomma, il concetto di competenza stimola una serie di riflessioni sul piano educativo e si ripercuote sulla stessa gestione della didattica; ad esempio, un elemento di grande interesse deriva dal fatto che operare in una prospettiva di acquisizione di competenze può contribuire a formare quella intelligenza duttile che si esplica nella capacità di imparare ad imparare, un obiettivo questo di grande significato civile e democratico per le società moderne.

Per quanto riguarda specificatamente la realtà della scuola dell’infanzia, occorre sottolineare che le competenze in questo grado scolastico - e nei primi anni di scuola di base - non si acquisiscono nell’ambito di specifiche discipline rigidamente intese, ma all’interno di più generali “attività didattiche” o aree pre-disciplinari. Inoltre, bisogna tenere presente che un discorso sulle competenze rischia di risultare astratto se non si considerano le condizioni che agevolano la genesi e lo sviluppo delle competenze nella fascia di età considerata. In altre parole, occorre considerare il problema dell’acquisizione delle competenze non astrattamente, cioè senza tener conto delle condizioni formative che favoriscono o ostacolano questo processo, ma in riferimento alle condizioni che caratterizzano il setting educativo.

Tra questi fattori possiamo considerare come ineludibili i seguenti:

a) Un primo fattore riguarda le condizioni dell’educare, ossia quell’insieme di riti, regole, abitudini, consuetudini, forme organizzative che definiscono la pedagogia più autentica di una scuola, spesso in contraddizione con la pedagogia formalizzata esibita nella programmazione educativo-didattica. Ci riferiamo al concetto di “curricolo implicito”, così come proposto dagli Orientamenti del 1991. In effetti, le condizioni (organizzative, relazionali e sociali) nelle quali si svolge l’atto educativo non appaiono secondari nella definizione dei processi di insegnamento/apprendimento, soprattutto quando si ha a che fare con allievi così giovani.

Questi elementi di contesto punteggiano dunque la pedagogia e la didattica di una scuola e, ben lungi dal costituire elementi accessori o di contorno, condizionano pesantemente l’affermazione e lo sviluppo delle competenze nell’età che stiamo considerando. La “riorganizzazione dei percorsi didattici secondo modalità fondate su obiettivi formativi e

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competenze” (art. 13 Regolamento dell’autonomia), per essere efficace, non può relegare in una dimensione di casualità ed improvvisazione tali elementi, ma assumerli a tutti gli effetti come parte integrante del curricolo e conferire loro intenzionalità educativa.

b) Un secondo fattore, strettamente correlato a quanto appena detto, riguarda la dimensione relazionale dell’insegnamento o, più in generale, l’influenza esercitata dagli aspetti affettivo-relazionali nel processo di apprendimento del bambino. Quest’affermazione – ampiamente condivisa in campo psicopedagogico – assume un’importanza ancora più forte proprio nella scuola dell’infanzia, in considerazione dello stretto intreccio esistente tra le varie dimensioni di sviluppo del bambino. Al di là di ogni sterile contrapposizione tra cognitivisti e relazionalisti, va dunque rimarcato il ruolo che riveste la dimensione dell’accoglienza e del benessere psicofisico dei bambini, tanto che essa può pregiudicare lo stesso processo di apprendimento se non adeguatamente considerata e curata.

c) Infine, il terzo fattore, che possiamo considerare una sottospecificazione del precedente,

riguarda l’interazione tra pari, ossia la possibilità che i bambini hanno di apprendere tra loro in un contesto educativo e sociale quale è quello scolastico. Forse, sotto questo profilo, non vi è ancora, nel pensare e fare magistrale, piena consapevolezza del ruolo svolto dagli scambi interattivi tra pari e dell’influenza che tali scambi esercitano, ad esempio sul piano dello sviluppo cognitivo, sociale e morale del bambino. Tutto ciò implica una forte attenzione alle diverse forme aggregative dei bambini (gruppo-classe, gruppi di interesse, gruppi di età ecc.) e ai diversi scopi che si vogliono perseguire, oltre che una affinata capacità di isolare elementi di osservazione e di farne oggetto di riflessione e di progettualità.

Al di là degli elementi individuati e proposti, ciò che si vuole sottolineare è l’esigenza di

considerare il più generale quadro di riferimento entro cui collocare la discussione sulle competenze, con particolare riguardo alle condizioni educative e didattiche sottese. Riteniamo che questo approccio assuma un’importanza particolare proprio in riferimento all’età considerata, in quanto consente di tenere presente la dinamica che si stabilisce tra le risposte del bambino e l’offerta della scuola.

Dagli Orientamenti ai curricoli Anche la nozione di curricolo è stata ampiamente indagata nel corso di questi anni. Una

definizione di carattere generale la possiamo trarre da Pontecorvo e Fusè secondo le quali il curricolo, nel suo significato generale, “include ciò che normalmente si intende come programma – cioè un elenco più o meno articolato di argomenti di studio relativi a un ambito disciplinare – ma contiene anche molti altri elementi che ne fanno un insieme irrelato e complesso: l’individuazione degli obiettivi educativi e didattici; l’articolazione dei metodi e delle procedure di insegnamento; la selezione dei materiali, dei testi, dei sussidi più adeguati; i dati sulle condizioni di partenza degli allievi relativamente a conoscenze atteggiamenti, interessi; l’organizzazione didattica generale e la dimensione psicosociale dell’istituzione formativa; norme, valori e attese degli insegnanti rispetto all’insegnamento, alla valutazione, all’innovazione, ecc.; modalità – interne ed esterne – di verifica dei risultati conseguiti e dei possibili meccanismi di feedback. Su tutto ciò agisce, anche se in forme non sempre esplicite, il contesto socio-culturale esterno, che esprime una valutazione sociale del ruolo della scuola in generale o di quel tipo e livello di scuola e che determina il rapporto

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con altri livelli di scolarità precedenti o successivi, come pure gli sbocchi professionali (più o meno a lunga scadenza) degli allievi e conseguentemente la loro destinazione sociale.”

Da sottolineare che – sempre secondo queste autrici – “questi elementi non costituiscono una sequenza ordinata in modo lineare piuttosto è possibile rilevare tra di essi una trama di relazioni e di interazioni complesse. Un curricolo non è un “tracciato”, ma non è nemmeno una successione di momenti, bensì un insieme dinamico di rapporti tra diversi elementi.”.

Non molto diversa è la definizione che ne dà U. Galimberti: “Nel suo significato più ampio (…) il termine indica l’itinerario di una persona attraverso le sue esperienze di vita, di studio e di attività professionali, descritte tenendo presenti le tappe raggiunte, le motivazioni e i criteri ispiratori. Nel suo significato specifico si riferisce all’organizzazione delle conoscenze all’interno dei singoli gradi scolastici. I principi che lo determinano sono la sequenzialità che prevede la costruzione del curricolo in sequenze logicamente coordinate, e la ciclicità per cui ogni fase della sequenza curricolare è suscettibile di revisione e miglioramento nel corso della realizzazione. Rispetto alla programmazione didattica generale, la programmazione curricolare è più individualizzata perché parte dalla situazione concreta e specifica che prevede: a) l’analisi del contesto educativo attraverso lo studio dei bisogni e della realtà socio-culturale in cui è inserita la scuola; b) la formulazione degli obiettivi in base alle teorie dell’apprendimento e alle strategie dell’istruzione; c) l’individuazione dei contenuti di insegnamento e la loro distribuzione disciplinare; d) la scelta dei metodi tenendo conto delle possibili attività interdisciplinari; e) la verifica dei risultati in base alle varie tecniche di valutazione. La programmazione curricolare deve inoltre tener conto delle strutture cognitive essenziali che vuol fornire, dei comportamenti che intende attivare, delle unità didattiche previste allo scopo, e delle possibili espansioni disciplinari che si rendono necessarie.”

Nel documento tecnico ministeriale più volte citato si specifica che “il termine curricolo

ha un triplice significato, poiché se ne può parlare nel senso di: – curricolo disciplinare (a es. ‘il curricolo di filosofia’); – curricolo di ciclo e/o di indirizzo (a es. ‘il curricolo della scuola di base’, ‘il curricolo di

un indirizzo dell’area classico-umanistica’); – curricolo scolastico obbligatorio, comprensivo della quota nazionale e di quella locale.”

Ma in riferimento alla specifica realtà della scuola dell’infanzia come vanno interpretate queste definizioni? Più in generale: quale concetto di curricolo può essere ipotizzato per una scuola che vuole proporsi come fondativa dell’intero sistema formativo?

Occorre fare, a questo proposito, due ordini di ragionamenti: uno istituzionale e l’altro pedagogico.

Sul piano istituzionale, possiamo comprendere il senso dei cambiamenti in atto riportando quanto afferma la C.M. 98 del 12/04/99 riguardante le linee di sviluppo della scuola dell’infanzia: “L’autonomia determina un rapporto nuovo tra Ministero e istituzioni scolastiche, anche in tema di elaborazione dei programmi didattici. Le indicazioni nazionali, infatti, nel quadro del processo di essenzializzazione dei curricoli, si articoleranno intorno ad alcuni fondamentali traguardi di sviluppo. Sarà compito delle singole istituzioni scolastiche interpretare e sviluppare tali indicazioni non solo in relazione alle opportunità offerte dal territorio ma anche nella prospettiva della costruzione di curricoli verticali. A tal fine un interessante banco di prova è rappresentato dall’esperienza, in fase di espansione, degli istituti comprensivi. Gli Orientamenti del ’91 propongono un impianto curricolare spiccatamente orientativo e costituiscono, pertanto, un punto di riferimento e di confronto ancora valido. Le strutture portanti degli Orientamenti vanno rilette alla luce delle coordinate dell’autonomia e del recente documento sui ‘saperi’. Ciò richiede l’attivazione di

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processi di ricerca e riflessione che vedano il coinvolgimento diretto delle istituzioni scolastiche, delle Università e degli enti di ricerca allo scopo di fare emergere le esperienze della scuola ‘reale’, le ‘buone pratiche’, i problemi incontrati.”

Inoltre, come afferma la C.M. 112 del 23/04/99 relativa al progetto ALICE, “la definizione della scuola nel quadro dell’autonomia implica, da parte delle singole istituzioni scolastiche, la capacità di interpretare, contestualizzare e sviluppare degli indirizzi curricolari definiti a livello nazionale. A tal fine ogni scuola è tenuta ad elaborare un proprio piano dell’offerta formativa che rappresenta il documento costitutivo dell’identità culturale e progettuale della scuola. Si richiede agli insegnanti di utilizzare i nuovi spazi di autonomia curricolare, di ricerca e di sviluppo nella prospettiva di una coerente interpretazione degli Orientamenti. Il tema del curricolo consente, infine, di cogliere le relazioni tra l’impianto culturale e curricolare degli Orientamenti e la ricerca in corso sui ‘saperi’ fondamentali”.

Sul piano pedagogico, occorre, innanzi tutto, effettuare una revisione del concetto stesso di curricolo se riferito alla scuola dell’infanzia, nel senso che tradizionalmente si è abituati a considerare questa nozione in termini forse troppo formalistici e - soprattutto - troppo declinati in senso “istruzionale”. C’è la tendenza – nelle elaborazioni e nelle pratiche didattiche dei docenti – a confinare questa nozione in ambiti ben definiti (le aree disciplinari, o i campi di esperienza nella scuola dell’infanzia), trascurando quelle dimensioni relazionali, organizzative e psicosociali che influiscono fortemente sui processi di insegnamento/apprendimento.

Ed invece, “una delle specificità di questo livello di istruzione consiste proprio nell’essere riuscito a coniugare armoniosamente i due aspetti prevalenti dell’edu-care, termine che, se letto in inglese, fonda l’azione dell’ educere (ossia sviluppare le potenzialità e le abilità di ciascuno) con quella del prendersene cura (to care), prestando la dovuta attenzione alle componenti sia cognitive che affettive e relazionali. Va dunque recuperata la valenza educativa e formativa della cura dei bambini di 3-6 anni nel contesto scolastico, chiarendone il significato che ciò assume nel fare scuola quotidiano (…) Affermare e ribadire il carattere di ‘scuola’ piuttosto che di ‘servizio’, significa dunque riconoscere la ‘fondatività’ della scuola dell’infanzia in ordine non solo all’acquisizione delle varie competenze ma anche in riferimento allo sviluppo delle diverse potenzialità dei bambini e delle bambine. Infatti, è all’interno di questo grado scolastico che vengono potenziati i processi di simbolizzazione, viene favorita la progressiva conquista dell’autonomia, viene avviata la rielaborazione concettuale delle esperienze e dei vissuti, viene costruito l’incontro con la conoscenza e i saperi formalizzati.

Tenendo conto di tutto ciò, è riduttivo pensare che questo incontro cominci solo a sei anni (…). In realtà, l’approccio del bambino al mondo dei saperi comincia molto prima e la scuola dell’infanzia svolge a tale proposito un ruolo fondamentale in quanto al centro del progetto educativo di questa scuola ci sono gli alfabeti del vivere, del pensare, del comunicare e del riflettere insieme, dell’esprimersi e del rappresentare tramite diversi linguaggi (C.M. 99/99). Ogni proposta di revisione dei curricoli deve dunque tenere conto del carattere fondativo della scuola dell’infanzia poiché è a partire da questo segmento scolastico che vengono utilizzati i diversi saperi per conferire significato alle molteplici attività ed esperienze che caratterizzano la vita quotidiana della scuola.”

La dimensione curricolare più vicina alla realtà della scuola dell’infanzia è quella che riesce a tenere dinamicamente insieme tutti questi diversi fattori. I caratteri peculiari di questa concezione curricolare ad ampio raggio sono almeno quattro:

La flessibilità. Il principio della flessibilità è ampiamente ribadito dagli stessi Orientamenti del 1991, in modo particolare quando suggeriscono l’adozione di modalità programmatorie “aperte e flessibili, da costruirsi in progressione e lontane da schematismi

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... coerenti con la plasticità ed il dinamismo dello sviluppo infantile”. Ciò implica la capacità di operare in una dimensione in cui non tutto può essere predefinito a priori ma - sulla base di linee d’azione generali - il percorso didattico viene costruito in itinere anche in relazione alle risposte e alle sollecitazioni dei bambini. “Si tratta ( ... ) di un “curriculum script”, cioè di una sorta di copione che diventerà poi la sceneggiatura vera e propria ( ... ), nell’attività didattica vera e propria”. Il principio di flessibilità vuole segnare la distanza rispetto ad una concezione di programmazione troppo connotata in senso meccanicistico; in tale dimensione “una definizione aprioristica di obiettivi sarebbe incoerente e contraddittoria. È più opportuno parlare di ricerca degli obiettivi o, meglio di elaborazione di ipotesi sulle situazioni che via via vengono a determinarsi”.

L’attenzione riservata al contesto. Nel corso di questi ultimi anni è stata attribuita una sempre più grande attenzione all’analisi del ruolo esercitato dal contesto nei processi di apprendimento e di socializzazione del bambino. E il contesto, in questa accezione, viene concepito non solo come luogo fisico ma anche psicologico. “L’individuo vive nello spazio non solo perché ha a disposizione dei materiali, delle possibilità, delle dimensioni ( ... ) ma anche perché è in grado di utilizzare questo spazio e di muoversi in esso secondo un progetto. Si costruisce in esso atteggiamenti di autonomia, impara che cosa può o non può fare; sa che può farlo da solo o con altri bambini; sa che può muoversi e impara a muoversi secondo una sua autonomia personale”.

La conseguenza più immediata di queste considerazioni è stata la nascita di una più forte consapevolezza in ordine al ruolo giocato dal contesto nella crescita del bambino e un più puntuale allestimento dello stesso non solo nei suoi elementi più prettamente organizzativi (articolazione del tempo, organizzazione dello spazio, scelta dei materiali, ecc.) ma anche in quelli socio-relazionali e affettivi (organizzazione dei gruppi, modalità di gestione della sezione, ecc.). In alcune proposte metodologiche, anzi, (come nello “sfondo istituzionale”) la costruzione del contesto appare come un aspetto fondamentale del modo di concepire e fare scuola. E Loris Malaguzzi non trascurava di sottolineare l’attenzione riservata anche al senso estetico delle scuole dell’infanzia reggiane, attraverso “la cura degli ambienti, degli arredi, degli oggetti, dei luoghi di attività, degli ascolti e delle documentazioni dei processi e dei prodotti dei bambini come dei “golfi di raccoglimento” e di libertà che cerchiamo di preservare: qualcosa che va ben oltre la sola funzione. È nostro convincimento che esista anche un’estetica del conoscere, prima ancora del conoscere estetico”.

L’accoglimento delle proposte del bambino e delle sue esperienze di vita. Ogni volta che si analizza il curricolo di una scuola è interessante verificare dove viene collocato il bambino e se e come trovano posto le sue esperienze di vita. In definitiva questo è un problema relativamente recente, nel senso che in un’accezione classica di programmazione curricolare (e di scuola) è l’adulto che sceglie e predispone le occasioni e i contenuti di apprendimento dell’allievo, dando loro un’organizzazione razionale e ordinata (dal semplice al complesso, dal vicino al lontano, ecc.). L’insegnante - in questo modello - si pone come colui che agisce sul bambino per provocarne dei cambiamenti. “A questo livello, lo studente verrà visto come una specie di “scatola nera” in cui degli input particolari, provenienti dall’insegnante (stimoli), provocheranno degli output (comportamenti) in risposta (...) è l’azione dell’insegnante che causa lo sviluppo intellettuale del bambino; il bambino non può controllare l’organizzazione dei propri modi di apprendimento (il controllo è sempre esterno, sempre dalla parte dell’insegnante); deve solo imparare modalità di risposta giuste”.

In un’accezione diversa del processo educativo l’insegnante si lascia “segnare” dal bambino, ponendosi in ascolto delle sue richieste e assegnando pieno diritto di cittadinanza agli stimoli da lui provenienti. Di più: l’insegnante, attraverso l’allestimento di un contesto pregnante e significativo, offre continuamente l’occasione al bambino di esprimere le

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proprie dimensioni di sviluppo, valorizzando e dando significato alle sue risposte. Il curricolo, in questa dimensione, diventa un tentativo di incontro tra le ipotesi dell’adulto e i bisogni del bambino, attraverso un continuo confronto ed equilibramento tra queste due istanze. Considerando tali premesse si può meglio comprendere l’invito che fanno gli Orientamenti del 1991 quando parlano di progettazione “da costruirsi in progressione e lontana da schematismi”; in altre parole, il bambino viene considerato non solo destinatario delle proposte didattiche dell’insegnante ma diretto protagonista delle stesse.

L’intreccio tra i vari ambiti di esperienza. C’è stata una stagione (che per la verità sopravvive tuttora in molte realtà) in cui l’attività didattica della scuola dell’infanzia si dipanava attraverso un’articolazione molto rigida, ancorché “ordinata” e organizzata, dei vari ambiti del fare e dell’agire del bambino (le aree disciplinari). Questo modello – mutuato dalla scuola elementare – prevedeva la suddivisione del curricolo in ambiti ben definiti (area linguistico-espressiva, area logico-matematica, area psicomotoria, ecc.) e la conseguente suddivisione dei compiti all’interno del gruppo docente. Generalmente i bambini – nel corso della settimana – transitavano da un’area disciplinare all’altra entrando in contatto anticipatamente con l’organizzazione didattica tipica della scuola elementare, caratterizzata – quest’ultima – dalla suddivisione del curricolo in ambiti disciplinari e dall’assegnazione di questi ai docenti del team.

Un modello così concepito presenta indubbiamente un elevato livello di leggibilità (almeno per gli adulti) e un’organizzazione ben scandita in tappe, procedure, momenti per l’apprendimento; ma trasferito alla scuola dell’infanzia rischia di “spezzettare” il curricolo in tanti frammenti difficilmente intelligibili al bambino. E non a caso, negli ultimi anni, sono stati sperimentati approcci progettuali più integrati in cui non vi è una distinzione così artificiosa tra i vari campi di esperienza del bambino e dove, anzi, si cerca di non trascurare l’aspetto motivazionale che sta alla base dell’elaborazione e dello sviluppo di un progetto. Il progetto rappresenta il tentativo di conoscere la realtà utilizzando i linguaggi e le procedure dei vari saperi; può succedere che venga privilegiato, volta per volta, un particolare ambito, ma sempre all’interno di una visione integrata dei saperi, dove il corpo non è scisso dalla mente o la relazione dalla cognizione. Questo modo di procedere si presenta apparentemente più caotico e meno ordinato, ma in realtà restituisce tutta la complessità del conoscere e dell’apprendere.

Attualità degli Orientamenti del 1991 È stato ribadito più volte che gli Orientamenti mantengono intatta la loro validità e

attualità. D’altro canto, questo dato era già emerso in occasione della consultazione sulle linee di sviluppo della scuola dell’infanzia. Nel rapporto finale, infatti, si osserva che “si riscontra una quasi unanime adesione nei confronti degli Orientamenti ‘91, i quali sono interpretati e valorizzati come un documento che risponde pienamente ai bisogni di crescita e di sviluppo dei bambini e delle bambine e che si innesta funzionalmente nella logica dell’autonomia didattica e organizzativa delle istituzioni scolastiche.

Molte sono le ragioni che consentono di considerare attuali gli Orientamenti: – la correlazione tra i ‘campi d’esperienza’ e i ‘saperi essenziali’; – la flessibilità nella costruzione del curricolo; – il carattere orientativo del testo programmatico, fondato su traguardi riferiti a

competenze piuttosto che a contenuti o nozioni; – le modalità organizzative individuate negli Orientamenti in piena consonanza con le

linee della riforma e la loro trasferibilità anche ai successivi gradi di scuola.

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Gli insegnanti esprimono una generale condivisione circa l’idea di valutazione espressa dal documento, centrata sul concetto di valutazione formativa, interpretata come attenzione alle dimensioni qualitative dei processi di apprendimento/insegnamento e alla lettura dei contesti che possono favorire lo sviluppo del bambino.” (Rapporto finale, nota min. 532 del 31/01/00).

Lo stesso gruppo di lavoro sulla scuola dell’infanzia operante all’interno della Commissione di riordino dei cicli, ha manifestato opinioni analoghe nell’ambito del Forum telematico organizzato dal Ministero della P.I., esprimendosi nel seguente modo: “La struttura curricolare [degli Orientamenti], articolata in sei campi di esperienza educativa, è il risultato di una stretta correlazione tra finalità educative, dimensioni dello sviluppo e sistemi simbolico-culturali. In tal senso, il testo programmatico chiarisce che i campi di esperienza costituiscono ‘i diversi ambiti del fare e dell’agire del bambino e quindi i settori specifici di competenza nei quali il bambino conferisce significato alle sue molteplici attività e, acquisendo anche le strumentazioni linguistiche e procedurali, persegue i suoi traguardi formativi, nel concreto di un’esperienza che si svolge entro confini definiti e con il costante suo attivo coinvolgimento.’

In altre parole, la concezione di campo di esperienza espressa negli Orientamenti evidenzia che l’apprendimento e le conoscenze possono scaturire dall’incontro di ogni soggetto con i sistemi simbolico-culturali con i quali ogni società rappresenta se stessa e la realtà, a condizione che tale incontro sia mediato in chiave psicopedagogica e didattica, in relazione alle specifiche finalità educative della scuola e alle peculiari dimensioni dello sviluppo infantile.

Inoltre, l’impianto degli Orientamenti è in sintonia con i caratteri che i curricoli vanno ad assumere nel sistema dell’autonomia. Infatti, le indicazioni curricolari sono strutturate intorno ad alcuni fondamentali traguardi e ad una serie di competenze essenziali, mentre le tematiche ed i contenuti portanti delle attività sono proposti dal testo programmatico in maniera spiccatamente orientativa. Da tale impostazione deriva una forte responsabilizzazione dei docenti nell’articolare, progettare e contestualizzare il curricolo nell’ambito della singola istituzione scolastica.

In definitiva, l’impianto curricolare degli Orientamenti risulta coerente con l’idea di competenza condivisa nel recente dibattito sui curricoli e con i caratteri di essenzialità richiesti dal processo di autonomia.

In tal senso, per la scuola dell’infanzia, l’operazione di revisione dell’attuale curricolo può essere affrontata identificando, all’interno del testo programmatico, gli esiti formativi attesi e le competenze/abilità da acquisire nel triennio. Ciò che va evitato (ma ciò vale per tutti i cicli di istruzione) è la ripresentazione in forma aggiornata di tradizionali elenchi o griglie di contenuti, decontestualizzati e centrati su isolate abilità. Non può essere trascurata l’acquisizione di competenze trasversali, in grado di dare forza al pensiero del bambino e chiavi interpretative della realtà.”

A fronte di un forte consenso verso il testo degli Orientamenti, sono state comunque messe in evidenza numerose difficoltà che ne hanno reso difficile l’effettiva attuazione in molte realtà del Paese. Alcune di queste difficoltà sono state evidenziate dal Rapporto nazionale riguardante la consultazione sulle linee di sviluppo della scuola dell’infanzia. “Le maggiori difficoltà evidenziate a livello di curricolo derivano dalla mancanza in molti casi di una reale continuità con la scuola elementare. Alla base di tale situazione vengono individuate le seguenti motivazioni: – un contrasto di principio tra il carattere aperto del curricolo della scuola dell’infanzia e le

specificazioni di contenuti, di nozioni e di procedure che contraddistinguono i Programmi della scuola elementare;

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– la difficoltà a realizzare attività congiunte tra gli insegnanti dei due distinti gradi scolastici;

– la scarsa flessibilità dell’orario dei docenti della scuola elementare rispetto a quelli della scuola dell’infanzia. In ordine alla valutazione si segnala in alcuni casi il permanere di concezioni imperniate

sulla valutazione “isolata” delle prestazioni degli alunni, la carenza di riferimenti teorici e concettuali aggiornati, le improprie e riduttive richieste che giungono dalla scuola elementare.

Tra le difficoltà segnalate per una più produttiva pratica della valutazione vi sono: – la mancanza di tempi adeguati e riconosciuti per le attività di progettazione e confronto

collegiale; – la presenza di condizioni operative che non agevolano l’osservazione e l’attenzione

personalizzata ai bisogni dei bambini (scarsa compresenza, sezioni numerose); – un rapporto con le famiglie non sempre soddisfacente, anche per la difficoltà ad

individuare forme appropriate di coinvolgimento e di comunicazione verso i genitori. Più complessa in molti casi appare la costruzione di un vero e proprio curricolo sociale

integrato, che garantisca una reale continuità orizzontale (di attenzione ai contesti di vita) e verticale (di sviluppo coerente delle potenzialità).

In molte realtà viene lamentata una certa assenza degli interlocutori sociali, specialmente delle rappresentanze istituzionali (es. Comuni): alcuni parlano di insensibilità, altri di disattenzione, altri ancora segnalano l’assenza di concertazione. L’ampia gamma di problemi individuati a tal proposito richiama le connessioni tra politiche locali e sviluppo della scuola dell’infanzia, ponendo, al contempo, rilevanti questioni in ordine alla funzione attribuita a questa scuola nel quadro delle complessive politiche di sostegno all’infanzia.”

Va anche tenuto presente che una effettiva e incisiva realizzazione delle indicazioni curricolari degli Orientamenti è strettamente correlata all’allestimento di un contesto educativo stimolante e adeguato a sostenere i processi di sviluppo dei bambini. Si rinvia a questo proposito a quanto scrive Anna Bondioli in questo stesso volume.

Ma quali sono le condizioni che consentono ai docenti di realizzare pienamente gli obiettivi formativi previsti dal curricolo della scuola dell’infanzia? A. Bondioli – all’interno del Forum più volte citato – ne elenca alcune riferite all’educazione linguistica ma che, con i dovuti adattamenti, possono essere considerati validi per tutti gli apprendimenti promossi dalla scuola dell’infanzia:

“Perché i bambini siano messi in condizione di sviluppare le capacità comunicative sono necessarie alcune condizioni la cui declinazione in termini qualitativi può essere presentata nella forma di standard minimi.

Tali standard sono i seguenti:

1. che nel POF della scuola sia chiaramente delineato il progetto relativo allo sviluppo delle abilità linguistiche;

2. che siano offerte quotidianamente nella scuola occasioni ludiche che favoriscano la comunicazione tra bambini e tra adulti e bambini e che tale comunicazione sia promossa in tutte le situazioni della quotidianità;

3. che venga allestita in maniera sistematica un’ampia gamma di situazioni comunicative che sollecitino le diverse funzioni linguistiche (ascolto di storie narrate dall’adulto, produzione di storie, conversazioni guidate su aspetti dell’esperienza infantile a casa e a scuola, lettura di libri illustrati, giochi linguistici, ecc.);

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4. che nello svolgimento di attività allestite per promuovere altre competenze si solleciti la verbalizzazione nella forma del commento e della riflessione su quanto fatto e su quanto si ha intenzione di fare;

5. che, attraverso la lettura di libri, la costruzione di testi prodotti dai bambini e trascritti dall’adulto, l’invenzione di sistemi di notazione, i bambini vengano avviati progressivamente alla comprensione del significato del linguaggio scritto e alla convenzionalità dei sistemi di segni;

6. che vengano presentati ai bambini, nel corso delle attività, in funzione dell’evoluzione delle loro capacità e dell’affinarsi dei loro interessi, modelli di produzione letteraria alla loro portata (fiabe, racconti, libri illustrati, indovinelli, poesie, filastrocche, ecc.) scelti in base al loro valore estetico;

7. che l’insegnante sappia utilizzare modalità comunicative opportune per promuovere e sostenere l’espressione linguistica infantile (riprese ad eco, riformulazioni, espansioni, domande aperte non retoriche, ecc.);

8. che le insegnanti verifichino in itinere (secondo un piano stabilito che specifichi le metodologie osservative da adottare, gli aspetti salienti da rilevare, le modalità di trascrizione e di analisi dei dati rilevati, i criteri di valutazione adottati), nel corso stesso delle attività, i progressi dei bambini per quanto riguarda la competenza linguistica attiva e passiva e che, tenendo conto di tale verifica, ricalibrino di conseguenze le offerte formative nell’ambito della promozione delle capacità linguistiche;

9. che vengano pianificate e realizzate a scansioni regolari momenti di accertamento della qualità delle offerte formative allestite (giornate di osservazione, diari di bordo, ecc.) e successivi momenti di discussione collegiale e di valutazione di quanto realizzato.

Tali condizioni, che sono passibili di accertamento, se meglio definite e articolate,

potrebbero costituire dei criteri per valutare la qualità dell’offerta formativa a favore dello sviluppo linguistico e degli stimoli per forme non impressionistiche di autoanalisi.”

I punti di forza Il discorso fin qui fatto sull’attualità degli Orientamenti del 1991, soprattutto in

riferimento al processo di riforma in atto, non può farci dimenticare gli elementi di problematicità prima evidenziati e che hanno determinato una certa difficoltà ad applicare pienamente gli Orientamenti in non poche realtà. Sul piano più squisitamente educativo e didattico riteniamo che una rivisitazione degli Orientamenti debba comunque fare i conti con alcuni concetti-chiave del patrimonio pedagogico della scuola dell’infanzia e che fanno parte della tradizione più viva e vitale di questa scuola. Ci riferiamo al concetto di esperienza educativa, a quello di campo, ai lineamenti di metodo e al valore del contesto educativo. Disconoscere questi elementi significa snaturare l’identità pedagogica e culturale della stessa scuola dell’infanzia.

a) Il concetto di esperienza educativa Per esperienza educativa intendiamo quella particolare situazione formativa che –

attraverso un percorso formalizzato o informale (comunque intenzionale) - conduce il bambino a rendersi conto di come funzionano certi fenomeni (sociali, scientifici, espressivi, linguistici ecc.), ad assumerne consapevolezza e ad acquisire competenze adeguate. Se sottolineiamo questa esigenza è per stigmatizzare un aspetto culturale e psicologico di fondamentale importanza per la pedagogia e la didattica della scuola dell’infanzia, ossia il

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fatto che il punto di partenza per la conoscenza del mondo da parte del bambino di 3-6 anni è costituito dall’esperienza.

Certo, l’esperienza proposta dalla scuola è cosa diversa dell’esperienza che il bambino potrebbe vivere da solo, ad esempio in un contesto non scolastico, e ciò per vari motivi:

a) Innanzi tutto perché l’esperienza scolastica non è un’esperienza genericamente intesa,

ma intende caratterizzarsi come “educativa”, cioè intenzionalmente finalizzata al perseguimento di determinati obiettivi meritevoli di essere conseguiti, secondo la lezione di Dewey. In altre parole, le esperienze vissute a scuola sono consapevolmente “selezionate” dagli educatori in relazione al progetto educativo della scuola.

b) In secondo luogo, proprio in riferimento a quanto appena detto, l’esperienza proposta

dalla scuola non si risolve nel suo mero vissuto, ma - attraverso uno specifico processo di rielaborazione, rappresentazione e riformulazione – intende aiutare il bambino a ricostruire e rappresentare in forma simbolica la realtà e quindi a favorire il processo di apprendimento. In altri termini, l’esperienza “calda” (ossia vissuta) del bambino, si trasforma in riorganizzazione e rappresentazione della stessa e quindi in conoscenza. Si parte quindi dall’esperienza agita per pervenire alla riorganizzazione della stessa e, in ultima analisi, alla ricostruzione della realtà.

c) In terzo luogo, le espressioni utilizzate dagli Orientamenti (“ambiti del fare e dell’agire

del bambino”, “nel concreto di una esperienza …”, “con il costante suo attivo coinvolgimento [del bambino]”), rendono inequivocabile il fatto che il campo di esperienza richiama una situazione vissuta in prima persona, nel contatto diretto con la realtà, quella condizione che già Piaget e Bruner affermavano come insostituibile per lo sviluppo dell’intelligenza e la strutturazione del pensiero.

Quando si parla di esperienza occorre però non pensare solo alla componente sensibile dell’atto conoscitivo; in realtà un grande ruolo viene esercitato anche dal vissuto psicologico del bambino, ossia la sua esperienza interna.

Una riflessione sull’acquisizione e il rafforzamento delle competenze non può dunque prescindere dal ruolo che in tale processo viene esercitato dall’esperienza educativa, nell’accezione appena proposta. Mediante queste peculiari forme di conoscenza il bambino incontra i diversi sistemi di rappresentazione che gli offrono gli strumenti ed i supporti necessari (modi di operare e di rappresentare, concetti, teorie) necessari per raggiungere più elevati livelli di sviluppo mentale. b) Il concetto di campo Il fatto che il curricolo esplicito della scuola dell’infanzia venga strutturato intorno ad

alcuni campi di esperienza educativa non può essere considerato come una mera distinzione terminologia rispetto alle più tradizionali ed accreditate aree o ambiti disciplinari. In realtà si è voluto in questo modo porre al centro dell’attenzione il bambino e la sua specifica attività all’interno di determinati campi. Ma i campi – come sottolinea Cerini – “non sono generici spazi d’azione, ma sei modalità ben definite che poggiano su uno zoccolo di riferimento dato da uno specifico sistema simbolico, da una disciplina organizzata”. Ed infatti gli Orientamenti affermano a tale proposito che “ciascun campo di esperienza presenta i suoi peculiari esiti educativi, percorsi metodologici e possibili indicatori di verifica ed implica una pluralità di sollecitazioni ed opportunità”.

In altre parole, “ogni campo viene caratterizzato da alcune regole di funzionamento, da un lessico e da una sintassi specifica (…) Ogni campo, fornendo delle regole, aiuta

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l’intelligenza [del bambino] a meglio svilupparsi, a conoscere più in dettaglio, a segmentare la realtà. I campi sono lenti che consentono ad un bambino di avere una visione sempre più differenziata e analitica della realtà”. Ecco perché gli Orientamenti propongono un curricolo centrato sul campo piuttosto che sull’area disciplinare; infatti, mentre quest’ultimo può portare ad una enfatizzazione del contenuto disciplinare e ad una eccessiva sottolineatura degli aspetti trasmessivi del sapere, il curricolo centrato sul campo “vuole rovesciare il percorso e aiutare il bambino, partendo dalle sue azioni e dalle sue esperienze, a riorganizzarle in operazioni mentali”.

D’altro canto gli stessi Orientamenti affermano che “l’organizzazione delle attività si fonda su una continua e responsabile flessibilità ed inventività operativa e didattica in relazione alla variabilità individuale dei ritmi, dei tempi e degli stili di apprendimento oltre che delle motivazioni e degli interessi dei bambini”.

Dunque, l’idea di campo appare più idonea a definire le forme di aggregazione del sapere nell’età che stiamo considerando; infatti “il concetto di campo, che richiama l’idea di un ambito definito ma non chiuso entro confini fissi, con zone di intercomunicazione e determinato dall’equilibrio di istanze diverse, indica specificità ma non “autarchica rigidità” dei “settori specifici ed individuabili di competenza nei quali il bambino conferisce significato alle sue molteplici attività”, fondate su “una continua e responsabile flessibilità ed inventività operativa e didattica”.

Va sottolineato un altro aspetto connesso al concetto di campo così come è utilizzato dagli Orientamenti; infatti, quando il testo programmatico utilizza espressioni come “sue molteplici attività”, “suoi traguardi”, “suo…coinvolgimento”, significa che vuole assicurare valore alla soggettività infantile, a quello spazio vitale che Lewin chiama appunto “campo” e che consiste nella totalità dei fatti, soggettivi ed oggettivi, reali ed ipotetici, passati, presenti e futuri, che determinano il comportamento dell’individuo. D’altro canto, come nota Petracchi, “è risaputo che al concetto di “campo” dedicò particolare attenzione Lewin che lo definì come “la totalità di fatti coesistenti che sono concepiti come mutualmente interdipendenti”. Una totalità nella quale interagiscono quei fattori psicologici che influenzano il comportamento di un individuo in un dato tempo: ad esempio, il movimento, la comunicazione, l’esigenza di simbolizzazione, ecc. Raffigurando questi concetti nelle situazioni di vita dei bambini possiamo ricavare che nella dimensione della quotidiana esistenza ciascuno di quei piccoli esprime le sue esigenze di crescita e di affermazione di sé in un ambito che si profila come un “campo di esperienza”: ambito nel quale il bambino agisce sollecitato da istanze psicologiche quali quella di agire per capire, quella di porsi in relazione”.

Si può comprendere, in relazione a quanto appena detto, la pregnanza dell’espressione “campi di esperienza educativa” utilizzata dagli Orientamenti e la distanza (concettuale e didattica) di questa espressione dalla denominazione di “aree disciplinari”. Ha ragione G. Petracchi quando afferma: “Non è dubbio allora che utilizzando la denominazione di “campi di esperienza” si sia voluto porre in evidenza la condizione dei bambini: sono soggetti sollecitati al bisogno di conoscere e capire e gestiscono il loro rapporto con la realtà coinvolgendosi nell’esperienza. Coinvolgimento da non considerare come atteggiamento di accettazione passiva degli stimoli dell’ambiente: è bensì atteggiamento motivazionale che ha la sua prima ragione nell’istanza formativa”.

Dunque nel concetto di “campo di esperienza” troviamo una dimensione squisitamente culturale, che si estrinseca in quei “settori specifici ed individuabili di competenza”, anche definibili come “contesti di esercizio rivolti allo sviluppo di una pluralità di forme di intelligenza” (come affermano gli Orientamenti), ed una dimensione psicologico-relazionale, che trova la sua espressione nel “fare e nell’agire del bambino”, ossia nel suo

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diretto coinvolgimento e nel pieno valore educativo del suo vissuto esperienziale. Ancora Petracchi nota che “con la enucleazione dei campi di esperienza si è voluto segnalare che fondamento della iniziativa educativa della scuola materna non può essere che quel tessuto esperienziale con il quale i bambini, anche senza la mediazione degli adulti, interagiscono per acquisire competenza. Apprendimento della lingua materna, “matematica parlata”, capacità di convivere nel gruppo, ecc., sono palesi manifestazioni di quella condizione dei bambini i quali percepiscono, apprendono provocando cambiamenti nella loro personalità”.

Ci sono ulteriori aspetti che vanno sottolineati in quanto ci consentono di recuperare altri riferimenti teorici presenti nel testo programmatico.

I sistemi simbolico-culturali, dai quali i campi di esperienza traggono i loro peculiari modi di organizzare la realtà, offrono al bambino gli strumenti ed i supporti necessari per sviluppare visioni e rappresentazioni plurime della realtà stessa e, in ultima istanza, per entrare in quella pluralità di forme di intelligenza di cui parla Gardner. La teoria delle intelligenze multiple, come afferma lo stesso Gardner, si basa su “una concezione pluralistica della mente, che riconosce molti aspetti diversi e discreti della cognizione, nella consapevolezza che individui diversi hanno capacità cognitive differenti e stili cognitivi contrastanti”. Proprio a tale concezione fanno riferimento gli Orientamenti quando sottolineano le “forti variabilità individuali” esistenti tra i bambini.

Il riferimento alla “pluralità di sollecitazioni ed opportunità” evidenzia la diversità dei linguaggi, dei codici, dei sistemi simbolici e culturali presenti nei campi di esperienza e richiama i diversi medium culturali di cui parla Olson. Inoltre, la preoccupazione di far conseguire ai bambini “avvertibili traguardi di sviluppo in ordine alla identità, alla autonomia ed alla competenza”, identificando i processi da promuovere, sostenere e rafforzare, richiama alla mente la teoria della “zona prossimale di sviluppo” formulata da Vygotskij. Lo psicologo russo afferma: “Un insegnamento orientato verso uno stadio di sviluppo già compiuto è inefficace dal punto di vista dello sviluppo generale del bambino, non è in grado di indirizzare il processo di sviluppo ma gli tiene dietro. La teoria dell’area di sviluppo potenziale dà luogo ad una formula che esattamente contraddice l’indirizzo tradizionale: l’unico buon insegnamento è quello che precorre lo sviluppo … il tratto essenziale dell’apprendimento è che esso dà luogo all’area di sviluppo potenziale, cioè fa nascere, stimola e attiva nel bambino un gruppo di processi interni di sviluppo nel quadro delle interrelazioni con gli altri, che in seguito vengono assorbite nel corso interno di sviluppo e diventano acquisizioni interne del bambino”.

In conclusione, affrontare un campo di esperienza significa muoversi in un territorio complesso, sostenuto da plurime scuole psico-pedagogiche che colgono prospettive epistemologiche differenziate; significa addentrarsi in dimensioni psichiche dai confini indefiniti ed incontenibili ed entrare nel merito di codici e sistemi simbolici distinguibili e specifici.

c) I lineamenti di metodo Abbiamo detto più volte che un elemento che contraddistingue la scuola dell’infanzia, e

che ne connota la sua specificità sul piano pedagogico e culturale, è rappresentato dall’insieme delle forme di mediazione didattica che, nel loro intreccio dinamico, aiutano il bambino ad incontrare il mondo dei saperi e a decodificare il mondo sociale. In questo senso, la scuola dell’infanzia è interessata non solo a cosa si insegna (ossia ai linguaggi e ai contenuti culturali che propone), ma anche al come avviene il processo di insegnamento/apprendimento. L’enfasi posta sull’allestimento del contesto (di cui si dirà tra poco) va interpretata in questo senso. La Commissione dei cosiddetti Saggi, nel documento del 16/03/98 afferma che “la scuola deve diventare un luogo di vita e di apprendimento per

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docenti e studenti: per far questo ci vogliono spazi e tempi adeguati e vivibili”. Considerazioni, queste, che appaiono in perfetta sintonia con l’impostazione educativa e didattica della scuola dell’infanzia; non dimentichiamo che la locuzione di scuola come “ambiente di vita, di relazioni e di apprendimenti” è stata varata proprio dagli Orientamenti del 1991; il fatto che venga pensata in riferimento a tutto il sistema scolastico non può che essere un elemento di “orgoglio” per la scuola dell’infanzia, la quale può proporsi come paradigma educativo-didattico per gli altri cicli scolastici sotto questo profilo.

Per questo motivo, vanno accolte con grande attenzione ed interesse le osservazioni che fa il Gruppo di lavoro che all’interno della Commissione ministeriale di riordino dei cicli ha affrontato il problema della centralità del soggetto che apprende; osservazioni che – come si noterà – sono soprattutto rivolte alla scuola di base e a quella superiore, ma che riprendono elaborazioni culturali ed educative che fanno ormai parte del patrimonio pedagogico della scuola dell’infanzia: “Nella ‘nuova scuola’ i soggetti che apprendono hanno posizione di centralità, nel senso che vanno favoriti e stimolati la loro partecipazione consapevole – in forme sia individuali che collaborative – alle varie esperienze formative, l’atteggiamento di ricerca attiva nell’acquisizione della conoscenza, e l’esigenza di trovare un significato personale nel progetto comune di apprendimento.

L’apprendimento scolastico è un processo dinamico e relazionale di costruzione di significati attraverso esperienze e conoscenze. Esso è finalizzato a progetti di crescita globale (cognitiva, affettiva, sociale, ecc.) di persone libere e responsabili, capaci di elaborare un’identità soggettiva e di partecipare in modo critico e attivo alla vita associata. Nelle situazioni di apprendimento i soggetti sono diversi per generi, età, ritmi e modalità di sviluppo, classi sociali, religioni, culture, paesi d’origine, esperienze di vita e socializzazione. Tali differenze, conosciute e rispettate, diventano una risorsa e offrono un contributo significativo alla crescita di tutta la comunità educativa.

In una comunità di apprendimento, articolata in classe o altro gruppo di riferimento, insegnanti e allievi/allieve, nella diversità di ruoli, competenze e modalità di partecipazione, collaborano sia alla costruzione della conoscenza sia all’esplicitazione del senso delle esperienze vissute. In questa interazione l’insegnante ha una funzione prioritaria di organizzazione di ambienti educativi di apprendimento adeguati ai livelli di scuola e specifici per aree disciplinari, di guida e sostegno continuo alla partecipazione consapevole, e di stimolazione e potenziamento della motivazione ad apprendere.

La motivazione ad apprendere è l’atteggiamento dell’allievo/allieva nei confronti della vita scolastica. Tale atteggiamento, che non è omogeneo né immutabile in una stessa persona, individuo, è la risultante di fattori individuali, familiari, scolastici, sociali e culturali. Per quanto riguarda la scuola, esso è positivamente o negativamente influenzato dalle condizioni in cui si svolge l’insegnamento/apprendimento.

Compito della scuola, e particolarmente del gruppo docente, è non solo di predisporre, quando possibile, situazioni di apprendimento in grado di stimolare l’interesse e il coinvolgimento degli allievi e allieve, ma anche di garantire condizioni ottimali per l’apprendimento: aiutando allievi/allieve a dare un significato vitale a ciò che imparano, proponendo attività a un giusto livello di difficoltà in modo che essi/e possano sentirsi valorizzati e in grado di affrontare l’impegno scolastico, sollecitando la capacità di capire e ragionare, creando un clima cooperativo che faciliti e renda più significative le attività in relazione agli obiettivi e ai progetti della scuola. Queste condizioni contribuiscono a formare in allievi ed allieve la consapevolezza che apprendere è anche un’assunzione di responsabilità.

L’insegnante può svolgere queste funzioni se, da un lato, sviluppa la disponibilità ad apprendere, a sua volta, dall’interazione con gli allievi/allieve, dall’altro se trova

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condivisione e sostegno nella comunità scolastica di appartenenza. È importante che i docenti a tutti i livelli di scolarità conoscano l’intero progetto educativo, ne assumano la visione di vita e gli obiettivi e se ne rendano personalmente responsabili - esercitando con professionalità il proprio ruolo di educatori - per stimolare gli allievi e le allieve all’esercizio dell’intelligenza sollecitando il dinamismo della scoperta intellettuale ed esplicitando il significato delle esperienze vissute.

Costruzione della conoscenza e curricolo. (..) la specificità educativa della scuola è data

dal fatto di essere un luogo protetto e finalizzato all’acquisizione e alla condivisione delle esperienze e delle conoscenze, dove anche l’errore, il conflitto, il dubbio acquistano valenze formative.

Una specificità che si traduce nell’esigenza di far esercitare bambine e bambini, ragazze e ragazzi, ad analizzare e problematizzare la realtà che li circonda, a segmentarla in rapporto a prospettive di lettura diverse, all’interno delle quali quella disciplinare ha una funzione organizzatrice, ad articolarla in adeguate esemplificazioni emblematiche, capaci di generare nuove conoscenze, far maturare strumenti metodologici e far imparare a imparare. (…)

Metodologie didattiche. La metodologia ha funzione di mediazione tra contenuti

disciplinari (che devono essere adeguati alle competenze dei ragazzi e delle ragazze) e situazioni di apprendimento (che devono essere motivanti per le caratteristiche della classe o del gruppo o dell’ambiente), i cui punti di equilibrio si modificano nel tempo in relazione all’età e alla partecipazione delle studentesse e degli studenti.

È importante quindi individuare metodologie di interazione e partecipazione dinamiche ed operative, differenziando progressivamente quelle più adatte alle bambine e ai bambini della scuola di base da quelle che consentono più elevati processi di astrazione nel ciclo secondario, e in questo ambito riflettere sulla funzione delle tecnologie nei processi di apprendimento.

Tutto questo significa uscire da un insegnamento centrato unicamente sulle discipline per orientarsi verso un insegnamento centrato sulle persone che apprendono.

È sempre possibile, infatti, trasferire nell’attività didattica vere e proprie metodologie di ricerca: ad esempio partire da elementi di conoscenza presenti nella classe, enucleati con momenti di discussione e di ascolto reciproco, e svilupparne il significato disciplinare, dando particolare rilievo alla capacità di promuovere apprendimenti generativi (capaci di produrre nuovi apprendimenti) e fondanti (rivolti a riconoscere nell’esperienza i nuclei delle conoscenze di base), utili per gli ulteriori sviluppi del sapere.

Scuola e realtà, discipline e problemi, esperienze personali e di gruppo, non possono rimanere distanti e separati nella consapevolezza di studentesse e studenti: si deve costruire allora la possibilità di “uscire” dalla scuola, di fare esperienze di realtà, per ritornare poi alla scuola, come luogo specifico per la strutturazione organica degli apprendimenti.

La competenza degli insegnanti si esplicita quindi nella flessibilità e nella articolazione dei percorsi didattici, nel raccordo tra occasioni di esperienza e rielaborazione teorica, nell’uso di diverse tecnologie e modalità operative, nella proposta di percorsi disciplinari integrati e “sistemici”, nello sviluppo della capacità di studentesse e studenti di riflettere sul processo di apprendimento attivato.

Di conseguenza, diventa importante sia l’attenzione alla capacità delle studentesse e degli studenti di gestire anche percorsi culturali individuali sia la valorizzazione della capacità di partecipare a percorsi culturali collettivi che esplicitino gli aspetti problematici e conflittuali della costruzione della conoscenza.

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In conclusione, sembra metodologicamente essenziale riuscire ad “emozionare cognitivamente” le ragazze ed i ragazzi, in modo che il loro stesso piacere di capire, e la riflessione su come ciò sia avvenuto, possano spingerli ad ulteriori elaborazioni delle loro conoscenze, sulle quali si possano innestare naturalmente competenze progressivamente adeguate ai compiti di realtà che essi saranno chiamati a svolgere dentro e fuori la scuola.

Organizzazione della didattica. L’organizzazione della didattica dovrebbe contribuire in

modo essenziale alla formazione dei soggetti considerati nel loro concreto contesto. Essa rappresenta infatti la traduzione operativa di metodi di insegnamento che permettano collaborazione, scambio, manualità, partecipazione attiva e consapevole delle studentesse e degli studenti alla costruzione delle loro conoscenze, della propria individualità, della propria socialità.

Per questi scopi essa richiede la cura (in alcuni casi la modificazione o la realizzazione ex-novo) degli ambienti di apprendimento (che non consistono solo nelle aule, nei laboratori, ma si allargano a tutto il territorio circostante) e l’attenzione alle relazioni dei soggetti che vi interagiscono.

Percorsi didattici flessibili e articolati, rispettosi delle differenze e dei ritmi diversi dei soggetti, richiedono strutture organizzative coerenti, altrettanto articolate e flessibili, adattabili e modificabili senza difficoltà alla soluzione dei problemi nuovi che si possono presentare.

L’anno scolastico e i curricoli disciplinari si potranno sviluppare secondo scansioni e ritmi non uniformi; i gruppi di studentesse e di studenti durante l’anno scolastico potranno scomporsi e ricomporsi (naturalmente in relazione all’età e al ciclo) in gruppi diversi secondo diverse logiche, sia in senso orizzontale (nella stessa fascia di età) che verticale (mescolando cioè livelli di età differenti).

La possibilità di superare la staticità del gruppo classe apre così la prospettiva di integrare all’esperienza positiva e rassicurante della continuità il potenziale formativo della discontinuità.

La flessibilità organizzativa, in quanto dispositivo concreto in cui si realizza la flessibilità didattica, può dar luogo a una organizzazione per moduli (che non dovrebbero essere intesi come modelli rigidi ed univoci) e ad una scelta da parte delle studentesse e degli studenti di opzioni di approfondimento, che possono caratterizzare, individualizzandolo, il loro percorso formativo e sviluppare intanto valenza di orientamento.

Nessuna organizzazione didattica, infine, può prescindere da una attenta riflessione sull’uso del tempo che si fa a scuola , tempo che non sopporta accelerazioni immotivate o dettate da criteri esterni all’apprendimento, ma deve sempre essere commisurato alle scelte didattiche, alle esigenze psicologiche e ai ritmi di apprendimento delle studentesse e degli studenti”.

d) L’allestimento del contesto Gli Orientamenti del 1991 nel definire la scuola dell’infanzia parlano di “ambiente

funzionale all’apprendimento”: la strutturazione e l’organizzazione dell’ambiente scolastico incidono infatti notevolmente sulle modalità e sui contenuti del lavoro con i bambini.

Il modo in cui vengono suddivisi gli spazi, la disposizione degli arredi, la collocazione dei giochi e dei materiali costituiscono una delle componenti primarie dell’apprendimento.

Ad esempio, una disposizione dei materiali che non consenta ai bambini di utilizzarli liberamente non potrà facilitare l’organizzazione spontanea ed autonoma di giochi ed attività. Allo stesso modo, una strutturazione degli arredi poco flessibile, che non consenta di modificarne la disposizione per una certa attività o per lavorare in piccoli gruppi, tenderà

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ad offrire ai bambini contesti di apprendimento limitati e ripetitivi. Diventa difficile infatti immaginare che in un’aula predisposta in modo tradizionale e cioè con tavolini, cattedra, pochi giochi fortemente strutturati spesso chiusi negli armadi, possano nascere esperienze ricche e significative.

La progettazione dell’ambiente è quindi un aspetto fondamentale dell’azione educativa dell’insegnante e deriva direttamente dalle scelte pedagogiche e dalle ipotesi epistemologiche che egli fa per favorire l’approccio del bambino all’ambiente. Se riconosciamo infatti che tale approccio è quello della ricerca/esplorazione/scoperta, presupponiamo che il bambino abbia bisogno di cose da guardare, toccare, muovere, di spazi per osservazioni individuali e collettive, di strumenti semplici e complessi per agire sulle cose, di tempi di azione, di materiali per ricordare, documentare, comunicare la conoscenza.

Un ambiente, quindi, ricco di oggetti da esplorare e di molteplici relazioni, ma con tempi e ritmi che permettono di ricostruire, comunicare e socializzare le esperienze.

Per concretizzare i principi metodologici ora esposti, l’ambiente scolastico dovrebbe rispondere ai seguenti criteri: – predisporre spazi che permettano ai bambini aggregazioni diversificate, sia a seconda dei

loro interessi, sia a seconda delle esigenze delle diverse attività (individuali, di piccolo gruppo, di grande gruppo);

– allestire situazioni che stimolino attività e linguaggi diversi (angoli o spazi laboratorio per attività espressive, per osservazioni scientifiche, per giochi motori, per la lettura e la scrittura, ecc.);

– offrire ai bambini sia materiali vari, poco strutturati, “molto aperti”, potenzialmente capaci di dare origine a molteplici esperienze (ad es. materiali di recupero, costruzioni e incastri, carta, cartoni, scatole, pezzi di legno, di metallo, tubi, corde, stoffe, fogli di plastica, fogli trasparenti, ecc.), sia materiali finalizzati e strutturati, capaci di stimolare l’autonoma individuazione di problemi, ed utilizzabili comunque liberamente dai bambini a seconda delle domande che essi si stanno ponendo in quel momento (ad es. libri e materiale scritto di vario genere, bambole e giochi tipo “casetta”, bilancia, orologio, metro ed altri strumenti di misura, domino, tombole e giochi da tavolo, ecc.);

– definire con i bambini uno spazio per accogliere le diverse modalità di informazione, comunicazione e codificazione della vita scolastica e delle esperienze del gruppo di bambini (ad es. calendario delle presenze, giornale delle attività, manifesti, avvisi, disegni, messaggi, ecc.). L’organizzazione dello spazio scolastico dovrebbe quindi prevedere l’abbinamento di

situazioni stabili, riconoscibili e ripetute nel tempo e situazioni variabili di riorganizzazione e trasformazione degli spazi, degli angoli, dei laboratori, e di aggregazioni nuove o di cambiamenti dei materiali. Si tratta di offrire ai bambini occasioni molteplici di adattamento e padronanza dell’ambiente che comprendono sia momenti di identificazione e rassicurazione nella consuetudine, sia momenti di competenza ed autonomia nella novità e nel cambiamento.

Il riferimento costante che gli Orientamenti fanno all’importanza del contesto (peraltro non solo in riferimento allo sviluppo delle abilità sociali ma anche in ordine all’acquisizione di competenze cognitive ed espressive), e la sottolineatura della funzione di “regia educativa” svolta dall’insegnante, richiamano alla memoria gli studi di Bateson e di Bronfenbrenner. Afferma Bateson che “il “contesto” è legato ad un’altra nozione non definita che si chiama “significato”. Prive di contesto, le parole e le azioni non hanno alcun significato. Ciò vale non solo per la comunicazione verbale umana ma per qualunque comunicazione, per tutti i processi mentali, per tutta la mente … ogni comunicazione ha

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bisogno di un contesto … senza contesto non c’è significato”. Non è un caso che gli Orientamenti avvertano che “nell’osservazione sistematica del bambino è quindi opportuno non assumere rigidi criteri di tipo quantitativo, ma preferire sempre la contestualizzazione dei comportamenti rispetto alle notazioni classificatorie”.

D’altro canto, l’adozione di una prospettiva ecologica dello sviluppo, che costituisce la trama culturale degli Orientamenti, fondata sulla “concezione globale delle esperienze infantili e la valorizzazione delle interconnessioni esistenti tra i vari contesti educativi ed i loro effetti reciproci”, richiede un docente capace di intervenire nell’ombra per raccordare tutti gli elementi del contesto didattico, quindi spazi, tempi, materiali, singoli soggetti, adulti e bambini, gruppi, proprio come fa il regista teatrale che coniuga e valorizza l’azione del tecnico delle luci, con quella del costumista, del musicista che si occupa della colonna sonora, dello scenografo, con le prestazioni dei singoli attori e della coralità del gruppo di recitazione, senza apparire o sostituirsi ai protagonisti.

Infine, non può non essere richiamata l’importanza della dimensione organizzativa anche in relazione agli scenari aperti dall’autonomia e dalle riforme in atto. A questo proposito la più volte citata C.M. 98/99 dice cose molto pregnanti: “La dimensione organizzativa è delineata negli Orientamenti del 1991 come un vero e proprio curricolo progettato in funzione della piena valorizzazione del contesto entro cui avviene la relazione educativo-didattica. Pertanto, essa costituisce un fattore essenziale della qualità educativa e professionale della scuola dell’infanzia.

Spazi, tempi, orari, forme e tipi di aggregazione, mediazione didattica, arredi, sussidi, articolazione della giornata e della settimana ecc., rappresentano - nel loro interagire funzionale e programmato - quel contesto ecologico di sviluppo che identifica inequivocabilmente la scuola dell’infanzia e ne può fare un significativo “ambiente di vita, di relazione e di apprendimento” (…) Una simile interpretazione della dimensione organizzativa potrà aiutare le scuole a prendere le distanze da una lettura efficientistica o ingegneristica dell’autonomia. Anche gli interventi quali cambiamenti di calendario, variazioni di orario, scomposizione di gruppi, attività di arricchimento del curricolo dovranno essere ricondotti ad una progettualità intenzionalmente finalizzata al miglioramento dell’offerta formativa.

In definitiva, la realizzazione dell’autonomia didattica e organizzativa è legata allo sviluppo di una progettualità che, attraverso la costruzione di un ambiente didattico di qualità, ponga le basi per il pieno successo formativo di ogni bambino.”

Conclusioni

Quale identità curricolare esprime la scuola dell’infanzia in questa stagione di riforme? Possiamo individuare questi elementi principali:

a) Pur non essendo obbligatoria, questa scuola è un’istituzione educativa ormai fortemente radicata e diffusa nel Paese. Un primo problema di grande significato civile e politico è dunque quello di garantire la più ampia frequenza a tutti i bambini, di tutte le fasce di età e di tutte le realtà geografiche del Paese. Si tratta, in altre parole, di conseguire quell’obiettivo di generalizzazione esplicitamente previsto dalla legge 30/2000.

b) Nel corso di questi ultimi trent’anni, la scuola dell’infanzia si è affermata come una

realtà educativa a tutti gli effetti, anche se non sempre definita nella sua identità istituzionale e pedagogica. Con la legge 30/2000 e il conseguente processo di revisione

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dei curricoli essa è stata inserita a pieno titolo nel sistema formativo e di istruzione, tanto da caratterizzarsi come ciclo fondativo nel quadro della formazione di base.

c) Riconoscere il carattere di “vera scuola” non significa però sottovalutare o non

considerare alcune specificità tipiche della scuola del bambino di 3-6 anni. Ci riferiamo alla dimensione dell’accoglienza, dell’accudimento e della relazionalità, che costituiscono fattori educativi costitutivi di questo grado scolastico. In particolare, crediamo che vada sottolineata la valenza educativa e formativa dell’accudimento e della cura dei bambini di 3-6 anni, se con questi termini intendiamo il considerare sotto il segno della intenzionalità e della valenza educativa i diversi bisogni dei bambini e il tradurli in un progetto educativo.

d) La scuola dell’infanzia “riformata” è fortemente impegnata ad introdurre i bambini nel

mondo dei saperi codificati e della relazione sociale tenendo strettamente intrecciati aspetti cognitivi e aspetti relazionali, mente e corpo, intenzionalità educativa e dimensione soggettiva della personalità, mente e affetti.

e) La scuola dell’infanzia può effettivamente “porre le basi della simbolizzazione,

perseguire l’acquisizione di competenze interpretative e creative e di capacità di tipo procedurale, favorire la progressiva conquista dell’autonomia, nel quadro di uno sviluppo di tutte le dimensioni della personalità” (come recita la C.M. 98/1999), se vengono rispettate quelle imprescindibili condizioni di marca pedagogica che hanno contrassegnato la storia più nobile dei questa scuola e che sono state sommariamente riportate sopra.

f) I saperi che la scuola dell’infanzia può promuovere e sviluppare sono quelli che

consentono al bambino di crescere secondo i suoi ritmi e che gli permettono di sviluppare gli “alfabeti del vivere, del pensare, del comunicare, del riflettere insieme, dell’esprimersi e del rappresentare tramite diversi linguaggi” (C.M. 98/1999), senza “forzare la mano” con interventi formalistici e precocistici.

g) Gli aspetti organizzativi costituiscono elementi non secondari dell’azione educativa della

scuola. Le condizioni dell’educare assumono un’importanza fondamentale nel processo di sviluppo delle varie dimensioni della personalità del bambino. Un modello organizzativo coerente con tale visione di scuola è quello che punta alla creazione di “un ambiente didattico e relazionale di qualità che, armonizzando i diversi elementi dell’organizzazione scolastica, assicuri ad ogni bambino il benessere psico-fisico e lo sviluppo di tutte le sue potenzialità, ponendo così le basi per il successo formativo” (C.M. 98/1999).