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da La periodizzazione della storia dell’arte italiana di Giovanni Previtali Storia dell’arte Einaudi 1

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da La periodizzazionedella storia dell’arte italiana

di Giovanni Previtali

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:in Storia dell’arte italiana, I. Materiali e problemi,1. Questioni e metodi, a cura di Giovanni Previtali,Einaudi, Torino 1979

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

1. La periodizzazione 4

2. Storia dell’arte «italiana» o dell’arte «in Italia»? 8

3. L’arte «italiana» nella realtà e nella coscienza degli italiani 10

4. Arte medievale e arte italiana 14

5. Periodizzazione storica e periodizzazione storico-artistica 17

6. Il momento iniziale della storia dell’arte italiana: il primo Trecento 22

7. Il momento iniziale della storia dell’arte italiana: lo sviluppo interrotto 27

8. 1348: la crisi di metà secolo 29

9. Tempi duri ed investimenti nella cultura 35

10. La ripresa tardo-gotica 42

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1. La periodizzazione.

La prima decisione che lo storico si trova ad affron-tare, nel momento stesso in cui sceglie il proprio argo-mento d’indagine, è quella dei punti di partenza e diarrivo della narrazione, e della sua suddivisione interna.Anzi, meglio: l’adozione di soluzioni diverse in fatto diperiodizzazione implica differenti definizioni dell’og-getto di indagine.

È chiaro, per venire al caso, che l’oggetto storicodefinito con le due parole «arte italiana» implica perio-dizzazioni diverse a seconda dei differenti significatiche si intende attribuire al sostantivo o all’aggettivo. Seper «arte» si intende una categoria eterna dello spiritoumano, il chiedersi quando ha inizio e quando ha fineuna specifica produzione artistica con caratteri nazionalirischia di apparire illegittimo, e quasi un attentato all’u-niversalità dell’arte; analogamente, se per «italiano» siintende tutto ciò che è accaduto in un’area geograficadata, denominata Italia, è chiaro che la domanda sulmomento iniziale di un’arte «italiana» coincide conquella sulla prima manifestazione che possa essere defi-nita artistica su quel territorio e, simmetricamente, iltermine di arrivo, nell’un caso come nell’altro, dato cheesiste oggi in un paese denominato Italia una produzio-ne artistica, è destinato a essere – sempre e comunque –

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il giorno d’oggi. Da quando ci sono stati e fino a quan-do ci saranno uomini sul territorio nazionale, c’è sem-pre stata e sempre ci sarà un’arte italiana.

È questa la soluzione apparentemente piú semplice eperciò spesso adottata, anche sul versante antiidealisti-co, perché fornisce l’illusione di riposare su dati fisici,obiettivi (la storia dell’arte italiana è la storia di unacerta quantità di materiali entro confini definiti), mache in realtà, nella sua apparente ovvietà, apre piú pro-blemi di quanti non ne chiuda. A ben vedere, essa fun-ziona solo a patto che ambedue i termini «arte» e «ita-liana» siano mantenuti nella condizione di contenitorivuoti, e si limita a spostare la discussione su di un terre-no diverso, quello della geografia. Anziché chiedersi, peresempio, che cosa caratterizza e rende inconfondibilenei vari tempi una particolare produzione artistica dettaitaliana, ci si limita a prendere atto di quali siano i con-fini di un’area geograficamente (o politicamente) defini-bile Italia; risolvendo magari i casi irriducibili con capi-toli sull’arte italiana fuori d’Italia (non potendo tuttavia,in tal caso, sottrarsi all’interrogativo su cosa sarebbe arendere quell’arte «italiana») o sull’arte «straniera» inItalia. In verità non si può sottrarsi all’alternativa.

Ogni contenuto che si dà all’espressione «arte ita-liana» implica differenti scelte di periodizzazione eviceversa. Lo storicismo generico può credere di eludereil problema rinviando ad infinitum verso le origini, mala storia è storia di oggetti, di insiemi definibili median-te la descrizione delle loro strutture. Solo la descrizio-ne storica dei caratteri specifici dell’arte italiana puòdarci, insieme, la sua definizione e la chiave per la solu-zione del problema della sua origine. Della sua originee, naturalmente della sua continuità. Ed infatti i primiche abbiano riflettuto sugli oggetti che costituisconol’arte che in seguito sarà detta italiana, da Dante Ali-ghieri a Giovanni Villani, da Lorenzo Ghiberti a Gior-

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gio Vasari, non si sentirono affatto obbligati a risalirealle origini dell’arte, ma solo ad un momento precisodella storia del nostro paese, quando vissero le genera-zioni di Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti, di Cima-bue, Oderisi, Giotto e Franco Bolognese, Nicola Pisa-no e Arnolfo. Certo che, prendendo due momentidistanziati dello sviluppo (che so io, Giotto e Botticel-li, o Pontormo e Pietro da Cortona, Palladio e Juvarra)è facile porre la domanda ironica e retorica su che sensoabbia definirli tutti ugualmente «italiani»; ed appenapiú difficile il giochino filologico di contrapporre sin-cronia a diacronia trovando, ad ognuna delle espressionid’arte proposte come «italiane» affinità e somiglianzecon analoghe espressioni «straniere» ad esse contem-poranee piú strette che non con altre, successive, pure«italiane». Anche Roberto Longhi si è divertito, in cir-costanze particolari, a dimostrare quanto «tedesco» siastato l’Aspertini e quanto «italiano» Hans Holbein1.Eppure soltanto un cieco potrebbe negare l’esistenza dicontinuità culturali territorialmente localizzate, tra sécollegate e che contribuiscono a determinare stati dicoscienza permanenti, comportamenti, tradizioni tec-niche, solidarietà e contrasti.

Il problema dello storico non è quello di definire deicaratteri permanenti ed immutabili, ma delle continuitàcollegate e riconoscibili. In altre parole, il riconoscereche l’arte italiana è mutata nel tempo, non può signifi-care disconoscerne l’esistenza. Certo anche gli oggettistorici, come nascono cosí possono morire. Una conti-nuità può – di solito in seguito ad eventi catastrofici –venire meno. Vedremo alla fine di questo saggio che esi-ste un problema della sopravvivenza di una storia del-l’arte italiana a quell’evento a suo modo catastrofico cheè stato, dopo la guerra 1915-18, la formazione di unmercato internazionale dell’arte d’avanguardia. Sem-brerebbe insomma ragionevole assumere, quale ipotesi

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di partenza, quanto meno che vi siano state, in passato,su un territorio solo a tratti e parzialmente coincidentecon quello della attuale repubblica italiana, varie «artiitaliane» o «forme italiane d’arte», il cui grado di omo-geneità e di continuità è ovviamente da sottoporre a con-trollo. Ma altrettanto ragionevole non escludere, alme-no in via preliminare, che una serie di passaggi abbialegato successivamente l’una all’altra queste varie formed’arte. Il che, in termini di periodizzazione, significanon limitarsi al problema delle origini (e della eventua-le fine) di un’arte italiana, ma allargarlo alla articola-zione interna, nel tempo e nello spazio, dell’oggetto sto-riografico scelto. E naturalmente, anche questo, non sitratta di affrontarlo da zero. Gli osservatori della vitaartistica italiana, cosí come da secoli avevano notato chela produzione artistica di certe popolazioni della peni-sola si distingueva da quella transalpina (come, del resto,da quella delle altre sponde del Mediterraneo), non ave-vano mancato di rilevare, di volta in volta, alcuni muta-menti notevoli nella qualità e nelle caratteristiche diquella produzione.

Per tornare ai nostri esempi, già il Villani, scrivendoall’inizio del Quattrocento, distingueva tre fasi diversenella pittura fiorentina del secolo precedente, ed è rima-sta celebre la divisione della storia dell’arte proposta ametà Cinquecento dal Vasari, «in tre parti, o vogliamolechiamare età»; ed alla fine del Settecento, in uno deimomenti di piú lucida autocoscienza della nostra iden-tità culturale, Luigi Lanzi, nella sua Storia pittorica del-l’Italia propose una compiuta geografia di «scuole pit-toriche» che, neanch’esse nascono e finiscono tutte allastessa data, e sono anch’esse divise in «epoche» al lorointerno2. Il rilevamento di iati o scarti notevoli, tali,com’egli diceva, da «fare epoca», non impedí al Lanzidi considerare ugualmente italiana (o fiorentina, o vene-ziana) sia la produzione a monte che quella a valle della

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mutazione osservata, di prendere in considerazioneanche i travasi da una scuola all’altra, gli scambi e le con-tinuità che fanno della loro una storia sí di scuole fra sédifferenti, ma tutte variamente «italiane».

Messa la questione, in questo modo, in termini dicontenuti (o di forme, il che, trattandosi di arti figura-tive, è quasi lo stesso) una prima conclusione si imponeda sé: che la suddivisione interna della narrazione sto-rica non può in alcun modo adagiarsi su griglie di scan-sione meccanica (secoli, decenni, generazioni o simili)che non corrispondono se non per caso e per eccezionea cambiamenti oggettivamente riscontrabili e che hannoil difetto, con la loro falsa oggettività, di indurre ad aval-lare cesure senza significato per la pigrizia di indivi-duarne di significative, ad accettare una distorsionecerta per il timore di introdurne una possibile. Guarda-re alla storia attraverso la griglia matematica dei secoliè come osservare un paesaggio attraverso un vetro ondu-lato. Può darsi che l’insieme non cambi molto, ma si puòstar certi che ogni singolo dettaglio è distorto.

2. Storia dell’arte «italiana» o dell’arte «in Italia»?

Ma con questo non abbiamo ancora risposto adun’altra possibile obiezione: dato che il problema prin-cipale parrebbe ridursi al constatare la continuità travarie forme d’arte sul territorio nazionale, non sareb-be allora piú giusto, e meno sospetto di nazionalismo,parlare non già di arte italiana ma, piú semplicemente,di arte «in Italia»? Il problema si è già posto e non soloagli storici dell’arte (Giuliano Procacci ha intitolato lasua brillante sintesi Storia degli italiani; dove è tuttaviada osservare che, se non si parla di «Italia» quando unoStato italiano ancora non c’era, non si parla però già di«popolazioni italiche», bensí di «italiani») ed è stato

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risolto, da una delle meno riuscite tra le tante opere col-lettive lanciate nel periodo del boom dell’editoria d’ar-te, proprio in tal senso3. A me sembra che sia, anchequesta, una soluzione che ripropone sostanzialmente,con solo una cautela formale in piú, l’ipotesi da cui ave-vamo preso le mosse («italiana» tutta l’arte prodotta inItalia dalle origini ad oggi) ed al pari di quella pecchi diastrattezza, e cioè, allo stesso tempo, di positivismo edi idealismo.

In senso proprio, per quel tanto cioè per cui vor-rebbe costituire oggetto storico coerente e dotato diautonomia sistematica, che possa essere studiato in sée nella sua evoluzione, in realtà tale dizione si dissolveal primo approccio. Basti pensare che «arte in Italia»significa anche le incisioni rupestri paleolitiche delColle di Tenda e le metope greche di Selinunte, laColonna Traiana e l’Arco di Costantino, i mosaicibizantini di Ravenna e l’arte araba di Sicilia; tutti sog-getti che trovano la loro unità sistematica in insiemi chesono altri, e non solo coinvolgono territori assai vastial di fuori della penisola, ma in essi trovano i loro cen-tri di propulsione e di agglomerazione. Inoltre si trattadi vicende che, sebbene abbiano prodotto parecchicapolavori, sarebbe assai difficile connettere ad unacatena, inserire in una serie, che per una strada o perl’altra, quanto si vuole tortuosa, confluisca ad un certomomento in qualcosa che possa definirsi «arte italiana».È appena il caso di aggiungere, a scanso di equivoci, chenon si fa qui un discorso di qualità, ma di sopravvivenzae di continuità. Molte specie vigorose e qualitativa-mente non inferiori a quelle sopravvissute sono percause varie scomparse. Sarebbe inesatto farne gli ante-nati di quelle che, per altre strade, e per circostanze for-tunate, sono oggi viventi. Le metope di Selinunte, imosaici di Ravenna, il romanico padano, sono episodisublimi della storia dell’umanità, ma non entrano a far

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parte della storia dell’arte italiana nel vi secolo a. C.,nel vi d. C., o nel xii, ma a partire dal xviii, quando gliitaliani della decadenza li riscoprono e li integrano nellapropria coscienza nazionale.

3. L’arte «italiana» nella realtà e nella coscienza degliitaliani.

«Coscienza nazionale», ecco due parole che adope-rate nell’attuale contesto della cultura progressista ita-liana sono destinate a destare sospetto; indiziando seria-mente chi le usi di nostalgie idealistiche o addiritturafasciste. Tuttavia qualcosa di simile a ciò che con taliparole si denota è pure esistito e ci si può anche chie-dere con qualche legittimità se il problema della coscien-za che della specificità dell’arte italiana hanno avuto gliuomini del passato non debba avere qualche rilevanzanella questione. Vero è che la cultura idealistica italia-na ha identificato il problema dell’autocoscienza dellaspecificità con quello della sua esistenza, considerandorisolutore il fatto della nascita, nell’ambito di una let-teratura italiana volgare, di un embrione di critica d’ar-te (Dante, Villani, Cennini)4, mentre occorre riconosce-re che, in linea di principio, non si può trascurare la pos-sibilità che gli italiani – anche nel campo delle arti figu-rative – abbiano potuto credere di essere ciò che inrealtà non sono mai stati; e gli stranieri essersi sbaglia-ti anch’essi (magari per influenza dei primi); che la pre-sunta autocoscienza non si riveli, insomma, a conti fatti,che autoillusione. Certo gli italiani (e gli stranieri) hanno«mistificato» la propria storia; ma basta questa osser-vazione a legittimare la conclusione che, perciò, questastoria addirittura non abbia caratteri distintivi, nondebba esistere come tale? Il florido sviluppo, per la bel-lezza di sette secoli, di tale «falsa coscienza» non sarà,

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piuttosto, un primo fatto storico «caratterizzante» daprendere in seria considerazione?

E, tanto per cominciare, quando e come nasce, e dache cosa sarebbe caratterizzata, essenzialmente, tale«falsa coscienza»? Innanzitutto dall’idea che gli italia-ni, in particolare i toscani e i fiorentini, alla fine delDuecento siano stati protagonisti di un rinnovamentoche ha portato ad un distacco irreversibile dalle «etadigrosse» del Medioevo; in secondo luogo dalla convin-zione che a questo ruolo gli italiani fossero in qualchemodo predestinati dal fatto di essere gli eredi «natura-li» degli antichi. Sono due aspetti che sebbene compre-senti in tutta la tradizione critica, vanno tenuti distintiproprio per il differente grado di «ideologizzazione»che comportano (se non altro perché il primo fa riferi-mento ad un fatto storico, e il secondo fa appello ad unconcetto antropologico)5.

Il primo tema – che dopo il rilancio del modello clas-sico dovuto agli umanisti, portava con sé come conse-guenza logica la definizione di una «età di mezzo» –dopo avere improntato di sé la coscienza «moderna» deifiorentini, e quindi di schiere sempre piú fitte di «ita-liani» del Tre e del Quattrocento, ha progressivamente(soprattutto dopo la svolta controriformistica) perdutodi rilievo. Radicalizzandosi poi, nel corso del Seicento,l’alternativa antichi / moderni (con la tendenziale iden-tificazione dell’area semantica del secondo termine conquella dell’odierno «contemporanei») il termine adquem della parentesi «medievale» venne naturalmentea spostarsi, inglobando nell’oscurità della barbarie ancheil Tre ed il Quattrocento. Su tale situazione il serio, malimitato sforzo della cultura illuministica, anche italia-na, di recuperare il senso delle distinzioni all’internodella parentesi oscura, ha finito coll’incidere nellacoscienza comune assai di meno della successiva onda-ta, in età di restaurazione, che quelle sottigliezze intel-

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lettuali ed erudite sommerse nel fiume di una generale«continuità». Fu allora che una schiera di storici, eru-diti e propagandisti cattolici (Séroux d’Agincourt,Artaud de Montor, Paillot de Montabert, Montalem-bert, Overbeck, Jean François Rio; e in Italia, dopo ilprecursore Filippo Buonarroti, Laderchi, Minardi, Mar-chese, Facciolati Sergi, Selvatico) si affrettò a gettareponti «attraverso» il Medioevo (presentato perciò comeil «conservatore» delle «piú pure» tradizioni antiche) inmodo da collegare, senza soluzioni di continuità, ilmondo antico (classico ma, soprattutto, paleocristiano)a quello moderno della restaurazione monarchica e cat-tolica. È nota la larga e continuata fortuna, fino ai nostrigiorni, di questa corrente storiografica, che cerca di con-testare il carattere «catastrofico» delle vicende connes-se alla caduta dell’Impero romano, alle invasioni barba-riche, al lungo periodo delle dominazioni longobarda,franca e bizantina, per meglio far risaltare il ruolo sem-pre luminoso e provvidenziale della Roma cristiana,erede e continuatrice di quella imperiale nel ruolo di uni-ficatrice culturale dell’Occidente; è del resto fin dall’e-poca della Controriforma che ogni segno, ogni reliquiadi testimonianza di continuità tra mondo tardo-anticoed epoca moderna viene preservato, restaurato ed ado-rato. Il papato, gli ordini monastici, le corporazioni arti-giane, sono stati di volta in volta chiamati in causa persostenere, spesso con la piú totale insensibilità alla dif-ferenza che corre tra continuità formale e istituzionalee continuità sostanziale, che quando i fiorentini dellafine del Due e degli inizi del Trecento si rallegravano(con buona pace delle nostalgie di padre Dante) dei pro-gressi fatti, in realtà non sapevano cosa si dicessero, eancor piú stravedessero gli umanisti quando ritenevanodi poter cercare modelli positivi da riconquistare nellacultura classica. Il secondo tema, quello dell’eredità clas-sica, andrà assumendo, nel corso della storia del nostro

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paese, un rilievo (retorico) sempre maggiore in contra-sto sempre piú stridente con la realtà (dai «preumanisti»della seconda metà del Trecento, agli umanisti del Quat-tro e del Cinquecento, agli antiquari seicenteschi, finoagli archeologi ed ai professori dell’Italia unita ed oltre)a detrimento, a partire da un certo momento, anche delprimo. Nel corso dell’Ottocento, infatti, di fronte allamassiccia rivalutazione del Medioevo in tutti i suoiaspetti condotta al di là delle Alpi, in primo luogo inGermania (ma anche in Francia ed in Inghilterra), la ten-denza della cultura, nazionalistica ma subalterna, degliitaliani, sarà quella di partecipare in qualche modo allaspartizione dei nuovi territori storiografici, rinunciandoalla difficile difesa di una specificità che sembrava con-sistere proprio nell’essere usciti da quei secoli già bar-bari e che apparivano, ora, cosí ricchi di materia primastoriografica.

Il mediocre compromesso tra classici e romantici checaratterizza la nostra cultura della prima metà dell’Ot-tocento (si ricordi almeno la ripulsa del Manzoni alla«proposta storiografica» del Sismondi)6 consente diagglomerare in un incoerente coacervo arte classica,arte paleocristiana, arte medievale, tutte glorie italianee ugualmente rappresentative delle virtú della stirpe.Nel corso della prima metà del Novecento, poi, la con-correnza dei nazionalismi farà il resto, spingendo ognistudioso del regno d’Italia a credere di aver fatto il pro-prio dovere patriottico ogniqualvolta avesse potutoallargare di qualche anno o di qualche metro, nonimporta in che direzione, i confini dell’arte nazionale.La storia della produzione artistica sul territorio nazio-nale è oramai vista, anche dai migliori, come un pro-cesso rettilineo che ingloba tutto ciò che incontra sullasua strada: «...il libro chiede non di essere consultatoma di essere letto. E possa dire a chi lo ignora come l’I-talia abbia sempre asceso e come ascendere sia il suo

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destino»7 suona la prefazione di uno dei migliori pro-dotti di quella storiografia.

È a questo punto che diventa piú difficile mantene-re il sangue freddo necessario per distinguere, all’inter-no della nostra stessa attuale sensibilità (o coscienza), ciòche deriva da una continuità per cosí dire legittima e ciòche invece è frutto di una appropriazione successiva allacostituzione di una «coscienza nazionale unitaria».

4. Arte medievale e arte italiana.

È anche a questo punto che un confronto con le opi-nioni degli altri diventa, per uno storico dell’arte e perdi piú italiano, estremamente necessario. Ci accorgere-mo allora che in realtà la storiografia moderna (non soloartistica e non solo italiana), sia pure attraverso pole-miche ed occasionali regressioni, tende sempre piú ariconoscere che, come è logico, il periodo di tempo chesi continua a chiamare Medioevo è tutt’altro che unita-rio sia cronologicamente che topograficamente. E perquel che a noi qui particolarmente interessa (la non con-tinuità tra arte antica, arte medievale su territorio ita-liano, ed arte italiana) sarà intanto importante rilevareche, in primo luogo: nessuno piú revoca in dubbio ilsalto qualitativo, a livello strutturale prima che cultura-le, determinatosi nel passaggio dal tardo-antico al primoMedioevo in senso proprio (in particolare per quantoriguarda l’Italia il carattere propriamente catastroficodelle guerre di riconquista bizantine nel vi secolo). Insecondo luogo: un’inversione di tendenza in senso posi-tivo è generalmente ammessa non prima di quattro seco-li dopo (l’anno Mille). In terzo luogo: si accetta – siapure da alcuni a denti stretti – la sostanziale originalità,ed irriducibilità a modelli, vuoi classici vuoi bizantini,dell’arte dell’Occidente romanzo (romanica e gotica). In

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quarto luogo: si riconosce di solito, non meno da partedegli storici dell’arte che da quelli di altri aspetti dellavita medievale, che, salvo comprensibili sovrapposizio-ni in zone di contatto, qualche enclave, e casi piú omeno ovvi di esportazione, l’Italia è divisa, all’altezzadell’Appennino, da un ben riconoscibile confine cultu-rale (coincidente con un confine linguistico tuttora rile-vabile) sicché la quasi totalità dell’Italia settentrionalepartecipa, nei secoli viii-xiii, alle vicende dell’area«romanza» mentre Venezia, Aquileia, l’Esarcato e tuttal’Italia centro-meridionale (esclusa – per il periodo delladominazione araba – la Sicilia) è sottoposta all’area diinfluenza orientale e bizantina.

Sono queste, molto schematicamente, le constata-zioni che costituiscono il fondamento tuttora validodella tesi tradizionale (dantesca e vasariana) secondocui, rispetto a tutte le vicende sopra accennate, ciò cheavviene in Toscana con Margarito, Nicola, Arnolfo eGiotto (in parallelo ai fatti letterari: Guittone, Caval-canti e Dante) costituisce una sintesi diversa ed origi-nale, costruita con elementi tratti da momenti diversidella tradizione (antichi, paleocristiani e romanico-goti-ci) e da ambedue le aree culturali (romanza e bizantina),e che questo, quindi, e non altro è da considerare, decen-nio piú decennio meno, il momento d’inizio della storiadell’arte «italiana». Che è poi la soluzione ancor oggiadottata dal piú autorevole dei manuali non italiani distoria dell’arte, quello diretto, per i «Pelicans», da Niko-laus Pevsner, che riconosce un’autonomia di trattazio-ne all’arte italiana solo a partire dal volume dedicato allaArt and Architecture in Italy: 1250-1400 (J. White) efino a quello su Art and Architecture in Italy: 1600-1750(R. Wittkower).

C’è infatti un secondo, meno grezzo, e piú sottilmen-te penetrante elemento «ideologico» derivante dalla nostracoscienza di italiani «moderni» che è necessario identifi-

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care ed isolare, se non vogliamo che, inconsciamente, fini-sca col deformare la obiettiva ricostruzione dei fatti.

Il processo che, a partire dal tardo Settecento, ha por-tato alla formazione, nelle classi dirigenti italiane, di unacoscienza unitaria, e quindi alla costituzione di un unicoStato, se, da un lato, fondendo le unità territoriali loca-li ha portato per la prima volta alla fioritura di corren-ti di pensiero veramente nazionali (vuoi nazionalisti-che), ha dall’altro, recuperando in parte il ritardo accu-mulato durante la lunga crisi sei-settecentesca, reso gliitaliani culturalmente piú «europei» e quindi, in uncerto senso, meno «italiani». A noi non interessa quiaccennare, nemmeno per sommi capi, alle cause ed alletappe di questa storia recente, se non per ricordare comein essa la componente nordica, padana, delle classi diri-genti italiane (coloro che si sentivano, in qualche modo,gli «eredi diretti» delle prospere popolazioni non anco-ra italianizzate del Duecento) abbia assunto un pesoeconomico preminente ed una funzione politicamente edideologicamente egemone.

L’assunzione alla guida del paese (di tutto il paese) dipiemontesi, lombardi ed emiliani, non poteva non inci-dere profondamente nella coscienza collettiva anche perquel limitato settore che riguarda il proprio passato arti-stico. Chi era cresciuto all’ombra delle cattedrali e deibroletti romanici poteva infatti difficilmente accettareche essi facessero parte di un’«altra» storia. Anche se inrealtà ad essi non era legato come ad elementi di una tra-dizione culturale, ma affezionato come a fatti naturali,elementi, al pari delle montagne e dei laghi, del paesag-gio. Che questo dato di fondo abbia poi trovato sfogofino ad anni recenti in una tendenza critica osannantead una metastorica (o prestorica) «padanità» può ancheessere considerato episodio attardato e «provinciale»,ma non resta per questo meno sintomatico di un equi-voco radicato nel profondo di un processo storico reale8.

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Secondo questa nuova e piú aggiornata tendenza«revisionistica» della periodizzazione tradizionale, nonè piú la Roma universale e mediatrice a costituirsi ele-mento centrale, ma la partecipazione a pari grado, emagari in posizione già egemone (o, che è quasi lo stes-so, «ingiustamente» non egemone) della «padanía» allevicende della civiltà occidentale. A tal fine, anche dandoper scontata la cesura tra mondo antico e mondo moder-no, e prendendo perciò le distanze dal «romanismo» cat-tolico e nazionalistico, la componente piú moderna dellacultura italiana postunitaria, può rifarsi alla mitica cesu-ra dell’anno Mille («il risorgimento d’Italia negli studi,nelle arti, e ne’ costumi» «dopo il Mille» del gesuita set-tecentesco Saverio Bettinelli)9 per inglobare il romani-co padano in un piú moderno e aggiornato «risorgi-mento». Ed a sostegno di questo rilancio viene buonoanche scoprire che la storia dell’economia proprio intor-no all’anno Mille fa risalire i primi segni di ripresa del-l’agricoltura. In questo modo l’arretramento della datadi origine della storia dell’arte italiana, al vantaggio dinon escludere le glorie prerinascimentali della zonapadana, aggiungerebbe quello non secondario di megliosincronizzare le vicende storico-artistiche con quelledella vita civile, politica e, soprattutto, economica.

5. Periodizzazione storica e periodizzazione storico-artistica.

Quest’ultima considerazione ci costringe, prima diproseguire, a soffermarci un momento su di un punto dimetodo il cui chiarimento ci sarà utile per il seguito deldiscorso.

Da quando i grandi formalisti del primo Novecento(i Berenson ed i Sirén, i Roger Fry ed i Clive Bell, iFocillon ed i Longhi) hanno, con le loro brillanti cam-

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pagne, sbaragliato le schiere degli eruditi e degli esteti,ed Heinrich Wölfflin nei suoi Kunstgeschichtliche Grund-begriffe (1915) ha codificato il principio che «il fatto chel’arte abbia avuto, nel tempo, contenuti diversi non èsufficiente a spiegare le variazioni dei modi di rappre-sentarli» insistendo che «è la lingua stessa che si è tra-sformata nella grammatica e nella sintassi. E ciò non soloperché fu parlata in modo differente in luoghi diversi[ ... ] ma perché si è evoluta nel suo insieme in un modoche gli appartiene in proprio, cui i talenti personali piúvigorosi non hanno potuto aggiungere, a un’epoca data,che una certa forma di espressione incapace di superarese non di poco le possibilità generali»10, il fatto che leragioni della periodizzazione storico-artistica andasseroricercate esclusivamente all’interno ed attraverso «fattidi stile» (considerati, con una certa forzatura, equiva-lenti a fatti «di lingua») e le cesure dovessero corri-spondere alle «svolte stilistiche» e che, tendenzialmen-te, periodi e «stili storici» dovessero coincidere, è pas-sato ingiudicato, e rimane sottofondo indiscusso anchedelle piú recenti teorizzazioni sull’argomento11. In que-sto senso bisogna riconoscere che è rimasta senza con-seguenza, o quasi, sia la polemica iconologica dei Panof-sky e dei Meiss che quella sociologica degli Antal e degliHauser. Studiosi cui bisogna invece riconoscere il meri-to non secondario di aver tentato di dare risposta ad unaesigenza reale del pensiero storico alle cui soglie i for-malisti avevano preferito arrestarsi: quella di un piústretto legame delle diverse serie storiche fra di loro econ lo sviluppo generale della società umana.

Il lettore avrà modo di osservare che nel corso dellatrattazione che segue, cercando le ragioni di una perio-dizzazione dell’arte italiana a partire dalla descrizionedella produzione artistica, ci avverrà spesso di portarein campo valutazioni, di adottare categorie descrittivee di giudizio che non si riferiscono solamente alle cosid-

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dette opere d’arte figurativa, e nemmeno, a ben vede-re, alla sola arte nella sua accezione piú lata.

I concetti che abbiamo dovuto adoperare, tradizione,continuità, mutamento, iato, rottura, differenziazione,dinamismo, ristagno, ecc. sono concetti comuni allescienze storiche, sia che si occupino di arte, che di sto-ria politica, istituzionale o economica. Siamo infatticonvinti che, se vogliamo delimitare un terreno comu-ne di discussione con i cultori delle altre discipline,tenendo presenti le possibili connessioni tra lo sviluppodelle arti e quello delle altre serie storiche, è proprio aquesto tipo di concetti che dobbiamo attenerci; senzaper questo essere disposti ad ammettere, come qualcu-no vorrebbe, che si possa fare a meno senza conseguen-ze di quella dimensione particolare della produttivitàartistica che siamo soliti riassumere nel concetto di«stile»12.

Se infatti è vero che i concetti stilistici sono ambiguie polifunzionali e si prestano male ad essere interpreta-ti come segni piú generali della dinamica sociale (lo stilein quanto tale – osservò il giovane Gombrich in unarecensione giustamente famosa – non «esprime» nientedi preciso)13 essi non perdono per questo di validitàcome strumenti ermeneutici dei fenomeni artistici, equali tramite indispensabile alla identificazione a livel-lo specifico delle connessioni effettivamente esistenti trai vari prodotti sia in senso topografico (scambi) che cro-nologico (riprese e derivazioni).

In altre parole, l’aver scelto, coscientemente, di regre-dire dalla specificazione dei modi e delle forme artisti-che e delle opere d’arte in ciò che hanno di non con-frontabile a ciò che invece le accomuna a tutti gli altriprodotti del lavoro, in modo da trovare un terrenocomune di confronto (e, in particolare, punti di riferi-mento comuni per la periodizzazione) non vuol signifi-care rinuncia a recuperare, in seconda istanza, il livello

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specifico della cosiddetta figuratività per ricontrollare alsuo interno le ripercussioni della piú generale dinamicadel divenire storico-sociale. La rinuncia temporanea emetodologicamente giustificata ad avvalersi di unadistinzione non deve tradursi in obliterazione delladistinzione stessa, in appiattimento dei livelli, nel tra-sferimento meccanico delle cesure constatate a livellostrutturale su tutti gli altri.

Studiando le origini dell’arte italiana, non si trattaquindi, per noi, in prima istanza, di vedere se e quan-do nasca sul territorio italiano uno stile, poniamo «clas-sicistico» (o «gotico» o «protoprospettico» o che altrosi voglia) e di dedurne, una volta posta l’equazione traquesto nuovo stile e il concetto di arte italiana, che èlí, dove esso appare per la prima volta, il punto di rot-tura con il Medioevo, passando poi a controllare se,nelle altre serie storiche (letteratura, musica, filosofia,storia agraria, commerciale, politica ecc.), a quel puntodi rinnovamento corrispondano analoghi segnali. Ilfatto che a noi interessa rilevare è, per ora, piú ele-mentare: e cioè non tanto la natura ed il significatodella particolare mutazione «stilistica», ma la sua sem-plice esistenza, ed il fatto che non stia isolata, ma siaccompagni a tutta una fenomenologia di cambiamen-ti, spesso di segno diverso, ma tutti ugualmente indi-cativi del manifestarsi di una nuova dinamica sociale.In tal senso non è solo il classicismo di Nicola Pisano edi Arnolfo ad essere significativo di quanto sta succe-dendo nella società italiana dell’ultimo trentennio delDuecento, ma il neoellenismo del «Maestro di San Mar-tino» e di Cimabue, il gotico «francese» di GiovanniPisano e la tridimensionalità giottesca, e perfino la dif-fusione senza precedenti della produzione corrente dibotteghe di secondo piano, del genere di quella lucchesedei Berlinghieri o di quella fiorentina del «Maestrodella Maddalena». Sul versante storico artistico, quali

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segni di questa crisi di crescenza possiamo già conside-rare l’incremento di produzione variamente bizanti-neggiante che si osserva una o due generazioni prima diquella dei canonici «padri dell’arte italiana», e cioèl’attività di artisti come Margarito, Coppo di Marco-valdo, il «Maestro della santa Chiara», Giunta Pisano,ecc., senza che sia necessario, in questa fase, trovare uncarattere unificante di tutti questi fenomeni che nonsia, appunto, quello di essere tutti in qualche modo«nuovi» rispetto al passato. È, crediamo, tenendosi aquesto livello, che uno storico della lingua e della let-teratura, può, come noi, osservare che dopo «una faseaurorale singolarmente lunga», è «subitamente, nelcorso del secolo xiii» che si ha «una crisi risolutiva diestrema violenza»14, senza per questo che si debbanosupporre rapporti diretti particolarmente stretti, di dareo di avere, fra produzione letteraria e produzione figu-rativa. E se ci limitiamo ad assumere architetture esculture, affreschi ed oreficerie, come prodotti, a darnecioè una valutazione in termini essenzialmente econo-mici, non avremo difficoltà ad accogliere anche noi,come gli storici dell’economia, a data simbolica d’ini-zio per l’Italia centrale quella della coniazione del fio-rino d’oro da parte del Comune di Firenze (1252) ed arisalire, per quella settentrionale (alla ricerca di unainversione di tendenza rispetto alla crisi del primoMedioevo) ancora piú indietro nel tempo, fino ad unadata che permetta il recupero anche dei grandi sculto-ri del secolo precedente, Wiligelmo e l’Antelami. Alivello dell’incremento quantitativo ed anche dell’au-mento del tasso di innovazione, lo iato tra momento didecollo della ripresa economica (posto solitamenteintorno al Mille) e del rinnovamento artistico può esse-re di molto ridotto, anche se non del tutto annullato.La regressione a concetti puramente dinamici e quan-titativi si mostra cioè indispensabile a condurre il con-

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fronto, attraverso il controllo sulle direzioni di svilup-po generale della società, con le altre serie storiche. Saracosí possibile leggere come dello stesso segno la con-temporanea ripresa di vigore sia della letteratura in lin-gua romanza che di quella latina e volgare; sia il diffon-dersi del protoumanesimo dei dictatores che quello del-l’aristotelismo dei medici15. Ma legittima quanto dettol’adozione del termine di riduzione comune delle varieserie storiche (in questo caso il «decollo» dell’annoMille) a cesura valida per tutte? Quando ci si chiedequale possa essere il miglior termine «a quo» per unastoria dell’arte italiana non si può non tornare ad unlivello «linguistico» specifico. Altra cosa è la rimessa inmoto di una dinamica della produzione e del consumo,anche di oggetti d’arte, sul territorio italiano, che è per-fettamente parallela e confrontabile, anzi meglio, inte-grabile, nella dinamica economica, altra cosa gli effetticumulativi di questa dinamica a livello qualitativo, talida indurre all’abbandono di una tradizione figurativasecolare ed all’adozione di soluzioni nuove e non con-frontabili, a livello linguistico specifico, con le prece-denti. Altra cosa è importare prodotti d’arte, o ancheprodurre oggetti simili a quelli di importazione, altraprodurne in proprio di originali. Altra cosa, insomma,riconoscere che le opere d’arte, in quanto prodotti dellavoro umano, sono «prodotti come tutti gli altri», nelsenso che obbediscono, come tutti gli altri, alle leggi dimercato, altro credere che esse siano prodotti «uguali»a tutti gli altri.

6. Il momento iniziale della storia dell’arte italiana:il primo Trecento.

Tornando ora al punto da cui avevamo preso le mosseper questa nostra digressione, e cioè alla questione della

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assunzione o meno dell’arte romanica della valle pada-na a momento iniziale dello sviluppo dell’arte italiana,possiamo dire quanto segue.

Nel corso dei secoli xii e xiii si assiste sul territorioitaliano al confronto tra due mondi, due concezioni arti-stiche che pur derivando in parte da comuni origini,sono in realtà profondamente contrapposte, quella del-l’arte romanza di Occidente, e quella della tradizioneorientale bizantina. La valle padana per tutta la suaparte occidentale e centrale (corrispondente, grossomodo, a Piemonte, Lombardia ed Emilia) partecipa inogni momento agli sviluppi del mondo romanzo. Certoessa, rispetto all’area bizantina, è, verso il Veneto e laRomagna, terra di frontiera: ma agli scambi partecipanon come mediatrice, ma come parte in causa, dallaparte della Francia e della Germania.

L’arte italiana nasce invece in un’altra zona di con-fine, la Toscana e nasce al momento della sintesi, comesoluzione nuova, e solo allora, tra continuitàclassico-bizantina ed innovazione barbarico-gotica. Lasoluzione razionalistica fiorentina (che è neoclassica egotica insieme e trova la sua sintesi nella tridimensio-nalità e spazialità giottesche) è la formula che dà inizioad una tradizione nuova, già in qualche modo «italiana».

Per poter propriamente parlare di un’arte italianabisogna insomma attendere le soluzioni proposte daGiotto e dagli artisti della sua generazione, cosí comeper poter propriamente parlare di una lingua letterariaitaliana occorre attendere, senza per questo mettere indiscussione la vitalità delle parlate romanze dell’Italiasettentrionale, quella di Dante e della sua Sintesi ori-ginale di tradizioni diverse che caratterizza, in questistessi anni, anche, cambiando arte, la nascita dell’ar-chitettura «gotica» dell’Italia centrale o, spostandosi suterreno ancora diverso, la nascita dell’ars nova musica-le. «Come lo stil novo dantesco si contrappone, anche

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sotto l’aspetto musicale, alla lirica provenzale, dallaquale pure deriva, come qualcosa di assolutamentenuovo e autonomo, ed è fondamentalmente diversoanche dal Minnesang tedesco, cosí anche le cattedralitoscane di Siena, Orvieto e Firenze, si contrappongo-no alle cattedrali gotiche tedesche e francesi. Sono chie-se gotiche, ma di un gotico sui generis, lontanissimodallo spirito francese» ha scritto un grande storico che,per essere bilingue, poteva fare bene il confronto16.Quello che insomma ci dice la storia della cultura, equella dell’arte in particolare, non contraddette in que-sto dalla storia economica, è che il momento rivoluzio-nario di massima vitalità, espansione, dinamismo è daporre negli anni 1290-1320. È stato quello un trenten-nio fortunato per la storia non solo artistica del nostropaese in cui alcune zone dell’Italia centrale, e Firenzein primo luogo, si trovarono a svolgere una funzione chefu di avanguardia in senso assoluto e nei confronti del-l’intero mondo occidentale. E non deve importare poimolto se in questo campo la corrente storiografica con-servatrice di cui si parlava poco sopra crede di averidentificato il terreno favorevole per le proprie ultimeprove in difesa del primato romano. Non sono piú glianni del primo Medioevo, in cui la scarsezza stessa deidati a disposizione facilita in un certo senso il lancio diardimentosi ponti storiografici (a puntellare i quali puòbastare, a volte, lo spostamento di data di una singolaopera)17; qui i dati storici, storico-economici,storico-artistici non mancano, e sono tutti dati che con-vergono a dimostrare in modo non confutabile che ilruolo di centro delle innovazioni, di grande metropolicommerciale, bancaria, manufatturiera, fu allora rico-perto da Firenze e non da Roma dove il papato si limitòa mettere a frutto per i propri fini politico-religiosi iprodotti della città toscana. Cimabue prima, poiArnolfo e Giotto sono stati chiamati a servizio dei papi

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perché gli artisti locali non erano in grado di soddisfa-re da soli alle loro esigenze. Jacopo Torriti, Cavallini,Conxolus, Giovanni di Cosma, sono lí a dimostrarenon già che dalla tradizione medievale romana è rinatal’arte italiana, ma – fatto non certo privo di interesse– che Roma fu subito conquistata dal nuovo linguaggiofigurativo elaborato dai fiorentini18.

La misura e la qualità del fenomeno, sebbene sianoda tempo chiari nelle grandi linee agli storici dell’eco-nomia (è appena il caso di richiamare i dati della demo-grafia, della produzione manifatturiera, degli investi-menti bancari, dell’edilizia) stentano ad essere recepitiin tutta la loro enormità dagli storici dell’arte, ancoralargamente condizionati, quelli conservatori dal mitodella perfezione rinascimentale, e quelli «progressisti»dalla spinta mercantile che, esaurite le miniere dei «pri-mitivi», orienta le ricerche e le preferenze attuali versosecoli piú tardi (dal Sei all’Ottocento) che sono piú lar-ghi fornitori di merci in libera circolazione19. Sebbenegià Roberto Longhi (che pure di Seicento se ne inten-deva) amasse definire il Trecento «il piú gran secolo del-l’arte italiana», è solo negli ultimi tempi che le ricerchestanno evidenziando nei dettagli questa realtà e met-tendo contemporaneamente in luce lo squilibrio fortis-simo tra la situazione nei primi anni del secolo e quelladi tutto il periodo successivo.

La storiografia di ispirazione positivistica, vittimainconscia di una concezione meccanicistica del tempostorico, aveva cercato di distribuire omogeneamente leopere sopravvissute su tutta l’estensione cronologicadisponibile. Essa partiva dalla premessa non dimostra-ta e nemmeno enunciata che la densità della produzio-ne artistica tenda naturalmente a disporsi in modouniforme. Ma la ricerca storica sistematica ed analiticacondotta negli ultimi tempi su settori sempre piú ampidella produzione artistica trecentesca pervenutaci, dimo-

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stra l’infondatezza di quella sistemazione cronologica edocumenta invece come essa sia inegualmente distri-buita sia cronologicamente che topograficamente. Perlimitarsi, in prima istanza, a considerazioni puramentequantitative, se l’affievolirsi, nel corso del secolo, dellaproduzione di alcuni importanti centri (Genova, Pisa,Roma) e la sparizione di quella di altri (Rimini) eranostate da tempo osservate, è solo ora, riconosciuta l’au-tonomia produttiva, all’inizio del periodo in esame,anche di centri «minori» come Lucca, Arezzo e Pistoia,Volterra, Orvieto, Assisi, Spoleto, Gubbio e L’Aquila,ecc., che possiamo misurare appieno il significato diimpoverimento che rappresentò, col passare degli anni,il concentrarsi della produzione nei futuri «capoluoghi»(Firenze, Siena, Perugia). Incominciamo insomma adintravedere un passaggio da una fase di produzioneestremamente ricca, variata e diffusa, ad una piú ristret-ta e piú concentrata20.

Ma per venire anche al livello specifico, qualitativo.È un fatto che la massima parte dei «capolavori» del-l’arte trecentesca (ricordiamo i cicli di affreschi di Giot-to, Simone Martini, Pietro Lorenzetti nella Basilica diAssisi, quello di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa,quello del «Barna» a San Gimignano) stanno subendoretrodatazioni impressionanti, e la stessa sorte sembradover toccare ad interi blocchi di opere, costituenti ilcatalogo di personalità di primo piano quali i fiorentini«Maestro del Codice di san Giorgio» e «Maestro dad-desco», o i bolognesi «Dalmasio» e «Pseudo Jacopino»sulla scia di quanto era già successo al «Maestro di Figli-ne» passato da «orcagnesco» a «giottesco» con un balzocronologico all’indietro di circa mezzo secolo. Il che staad indicare che la maggior parte delle piú clamorose«invenzioni» di stile, propriamente artistiche, trecen-tesche, vanno fatte risalire agli anni a cavallo dei duesecoli ed immediatamente successivi.

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La controprova la possiamo vedere, se si vuole, nellarivalutazione recente di datazioni precoci apparse finoa qualche tempo fa, sorprendenti, se non proprio inac-cettabili, per la «incredibile» modernità dei tratti stili-stici. Possiamo ricordare il ritratto di Bruno Beccuti inSanta Maria Maggiore di Firenze, considerato, a causadel suo forte realismo opera quattrocentesca, e che èinvece stato eseguito, con ogni probabilità negli anni1317-23, da Tino di Camaino21; o la tomba di san Simeo-ne di Marco Romano a Venezia, eseguita verso il 1317,e giudicata in passato, a causa della maturità degli esitidel suo naturalismo gotico, dei tempi di Matteo Raver-ti, mentre invece lega benissimo con altre opere anch’es-se straordinariamente «quattrocentesche» ma degli inizidel Trecento, per esempio il celebre ritratto in piedi,cosiddetto Ranieri del Porrina, del Duomo di Casoled’Elsa. E della difficoltà della critica a collocare tra Duee Trecento il plasticismo risentito (quasi già alla Pierodella Francesca, Giovanni di Francesco, «Maestro diPratovecchio»), del Maestro di Figline abbiamo detto.Tutte «anticipazioni» (al pari della «prospettiva» o degli«scorci» giotteschi) di sviluppi di là da venire e sul cuipiú vero significato sarà bene intendersi.

7. Il momento iniziale della storia dell’arte italiana:lo sviluppo interrotto.

Si osserva infatti, di solito, fra gli storici dell’arte, eproprio per la non chiara coscienza dei due diversi pianisu cui deve essere tenuta l’analisi, una curiosa distor-sione ottica per cui, proprio a livello «qualitativo», l’im-portanza di un artista viene considerata tanto maggiorequanto piú a lungo sopravvive lo stile cui la sua operaha dato origine (in tali casi si parla di «largo seguito»,«esperienza determinante per piú decenni» e simili; in

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caso contrario di «esperienze abortite», «senza seguito»,e cosí via) quando, a rigor di termini, sulla faccenda del«seguito», l’artista ha comunque, dopo morto, poca onessuna responsabilità. La lunga sopravvivenza di unostile, infatti, lungi dal poter essere attribuita a merito delfondatore, può solo indicare scarsa voglia o capacità dirinnovamento da parte dei seguaci, ed è quindi proba-bile che sia, anziché segno di una sorta di prepotenzapostuma di una grande personalità, sintomo di un affie-volirsi della dinamica sociale, di crisi di ristagno, depres-siva. La cultura è viva, e si rinnova rapidamente, quan-do la società è dinamica; ed in tali circostanze cambia-no rapidamente anche gli artisti, adottando successiva-mente «stili» diversi: cosí hanno fatto, negli anni che ciinteressano, Nicola Pisano e Giotto, cosí faranno, inepoche successive, Bellini e Tiziano, o Caravaggio. Se ildinamismo economico-sociale continua a mantenersivivace dopo la morte del maestro, egli, per grande chesia, viene «superato» (è il caso della sequenza Belli-ni-Giorgione-Tiziano); il prolungarsi del dominio di unostile avrà quindi ogni probabilità di significare, al con-trario, ristagno. È quanto vedremo subito per il pro-lungarsi del «giottismo» a Firenze fino alle soglie delQuattrocento, e piú tardi, a Venezia, per il prolungarsidel pittoricismo tizianesco, o a Bologna dell’idealismoreniano per quasi tutto il Seicento.

In quest’ottica quelle che, nell’arte del primo Tre-cento ci appaiono «anticipazioni» sono forse soltantoaltri sintomi di «sviluppo interrotto». Come se solo nelQuattrocento si riuscisse a riprendere, a Firenze, undiscorso lasciato a mezzo quasi un secolo prima.

Una volta riaffermata, infatti, come si deve, l’asso-luta originalità del rinnovamento delle forme di rappre-sentazione che ha luogo a Firenze e in Toscana fra Duee Trecento, e ricordata la eccezionale vigoria e rapiditàdella prima travolgente espansione delle nuove conce-

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zioni artistiche, per cui Arnolfo a Roma, Firenze eOrvieto; Giovanni Pisano a Pisa, Genova, Pistoia, Peru-gia e Siena; Giotto ad Assisi, Roma, Rimini, Padova,Napoli, Bologna e Milano; e poi i loro primi seguacisenesi, Memmo di Filippuccio a Pisa e San Gimignano,Tino di Camaino a Pisa, Firenze, Siena e Napoli, Pie-tro e Ambrogio di Lorenzo e Simone di Martino, oltreche a Siena, ad Assisi, Orvieto, Napoli; e poi ancora Pie-tro Cavallini a Roma e Napoli, Buffalmacco a Pisa,Arezzo e Bologna, e gli umbri, i riminesi e gli altri set-tentrionali, bolognesi e lombardi; conquistano di slan-cio alla nuova lingua, nel lasso di non piú di trent’anni,quasi tutta la penisola, esclusi solo il Piemonte, alcuneparti della Lombardia, Venezia città e l’estremo Mez-zogiorno; una volta ricordato tutto questo bisogna peròsubito aggiungere che tale conquista si rivelò ben pre-sto incompleta, e non tanto per non aver raggiunto i«confini naturali» d’Italia, ma come compattezza e comespessore. L’assimilazione risultò faticosa e ricca di ritor-ni al passato. Anche nei massimi centri di diffusionedelle nuove dottrine artistiche, Firenze e Siena, non èdifficile veder riaffiorare in molti artisti il sostrato due-centesco. Soprattutto l’irrazionalismo, l’impressionismofantastico, il naturalismo frammentario del linguaggiogotico francese continueranno a lungo ad apparire anchein Italia, ed a Firenze stessa, una alternativa possibilerispetto alla rigorosa costruzione dei corpi e dello spa-zio, alla razionale logica narrativa proposte dai grandidella generazione eroica.

8. 1348: la crisi di metà secolo.

Sono forse soprattutto questi i sintomi che ci per-mettono di riconoscere anche a livello della produzioneartistica i segni premonitori della rovinosa crisi di metà

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secolo che ebbe a suo apice e macabro coronamento lapeste nera del 1348, e che si era chiaramente rivelata,prima come crisi di produttività, poi come crisi politicae finanziaria già a partire dagli anni ’3022.

Può il 1348 essere assunto come termine di perio-dizzazione anche per la storia artistica, e se sí, in chesenso? Qui il problema della correlazione tra periodiz-zazione storico-artistica e periodizzazione storica gene-rale che si era posto a proposito delle origini si ripresentain un certo senso invertito di segno. Lí ad una ben con-solidata tradizione in ambito specifico che indicava unsalto qualitativo alla fine del Duecento e in Toscana,sembrava contraddire, almeno parzialmente, la tenden-za di alcuni storici dell’economia a risalire nel tempoaddirittura fino ai primi sintomi di ripresa dell’agricol-tura, verso l’anno Mille. Qui, al contrario una cesuracatastrofica a livello strutturale non sembra cosí imme-diatamente riconoscibile in ambito specifico, doveabbiamo da constatare, anzi, una sostanziale continuitàdi discorso per tutta la durata del secolo. E c’è da direche anche i tentativi degli storici eccellenti dell’arte fio-rentina (dallo Antal al Meiss al Boskovits) che si sonoaffannati a descrivere in positivo i cambiamenti di stiledi metà secolo non riescono a convincere del tutto,vistosamente influenzati in partenza, come sono, da cióche appunto si sa (da fonti non specifiche) sulla societàfiorentina ai tempi della morte nera23. In realtà il prin-cipale cambiamento che possiamo registrare nella pro-duzione artistica toscana verso la metà del secolo consi-ste, e non è un paradosso, nel fatto che cambia benpoco; o per essere piú precisi, nella vistosa diminuzionedel tasso di cambiamento. La cultura che era stata laprincipale promotrice di innovazioni a getto continuo aduso di tutta Italia, anzi dell’intera Europa, sembra rin-chiudersi su se stessa e nella contemplazione della pro-pria recente gloriosa tradizione. I cinquant’anni appena

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trascorsi cominciano ad assumere i colori mitologici del-l’età dell’oro. Le modifiche che si possono rilevare alivello dello stile sono quelle tipiche di chi vuol mante-nere una tradizione; irrigidimento delle formule figura-tive, meccanizzazione dei processi esecutivi, ripetizioneiconografica o di «tòpoi» figurativi congelati, replichepressoché invariate di opere dell’epoca d’oro. È questoil caso delle botteghe di Taddeo Gaddi e dell’Orcagna,di Andrea Bonaiuti e Niccolò Gerini a Firenze, di quel-le di Segna di Bonaventura, di «Bartolomeo Bulgarini»,Andrea Vanni, Giacomo di Mino del Pellicciaio, Barto-lo di Fredi a Siena.

Che sia stato proprio il confronto con la dinamicagenerale dei fatti sociali (e non il puro esame delle formeartistiche) a suggerire il 1348 come snodo cronologico misembra del resto la ragione che meglio rende conto dierrori come quello di datare Il Trionfo della Morte delCamposanto pisano nella seconda meta del secolo (per-ché di soggetto «pestilenziale») quando è stato convin-centemente dimostrato che appartiene invece agli anni’3024; o di interpretare in senso mistico neomedievale ladiffusione di un soggetto nuovo come la Madonna del-l’Umiltà25: quasi che lo scendere dal trono per sedersi perterra, su un praticello fiorito o su di un cuscino, nonpossa significare invece, per la madre di Dio, un avvi-cinamento, in senso «affabile» e cordiale, al mondodegli uomini, su una linea, nonché teologica e neomi-stica, piuttosto laica e profana, anche se, certo, non«popolare». Inserendosi cioè perfettamente, come ulte-riore logico sviluppo, nella corrente di realismo profanoinaugurata da Giotto e proseguita, in questo caso,soprattutto da Simone Martini, corrente che, comevedremo subito, trovò le strade per svilupparsi assaibene anche oltre il crinale della «peste nera», e nontanto per le difese precocemente accademiche degli arti-sti surricordati, quanto per l’apporto decisivo, a Firen-

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ze stessa, di un artista provenuto da fuori, Giovanni daMilano. È lui, infatti, che influenzando pittori comePuccio di Simone e lo stesso nipote di Giotto, Giotti-no, dà il massimo contributo a mantenere viva, e nonimbalsamata, la nuova linea di tendenza inaugurata all’i-nizio del secolo26.

Né l’origine non locale dell’innovazione, e la sua pro-venienza dalla Lombardia, può essere considerato fattodi poco conto. Essa sta a dimostrarci che, in coinciden-za con la cesura di metà secolo (che in questo soprattuttoè, quindi, anche per la storia dell’arte segno di svolta) èavvenuto uno scambio delle parti; per cui l’area pada-na, convertita da meno di mezzo secolo, ma con entu-siasmo (è un letterato, il Dionisotti, a ricordarci che latoscanizzazione figurativa della padania precede quellalinguistica)27 alla nuova arte toscana, è passata nel ruolodi protagonista. E sarà allora il caso di ricordare, piut-tosto che il calo della produzione a Firenze, o le sue crisisociali, il fatto che «la valle padana non fu colpita dallagenerale crisi secolare che colpí le campagne europee apartire dal primo decennio del secolo xiv», riuscendoanzi a dimostrare una singolare capacità «di resistere allalunga crisi del secolo xiv e di prolungare quindi la suaeccezionale espansione demografica ed economica finoalla fine del Quattrocento»28. Il che equivale a dire chel’autocritica con cui la storiografia italiana ha, a partiredal libro del Toesca del 191229, ma soprattutto negliultimi trent’anni, integrato, ridimensionato e corretto ilpunto di vista toscanocentrico del Vasari (non seguita,in questo, dalla ben piú tradizionalista storiografia di lin-gua tedesca, e, soprattutto, inglese) rende possibile, tral’altro, una migliore sincronizzazione con quanto ci ènoto (peste nera a parte) delle vicende economiche esociali delle varie parti della penisola. Una constatazio-ne che, a sua volta, rafforza la nostra convinzione chela «italianizzazione» della valle padana nei secoli dal Tre

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al Cinquecento rappresenti in senso assoluto la princi-pale vicenda della storia dell’arte italiana cui gli artistidel Nord partecipano da questo momento a pieno tito-lo. Il passato naturalistico-espressionistico continueràancora a riaffiorare piú volte, come sostrato, ma oramaisempre e comunque inserito nelle nuove strutture lin-guistiche. I grandi protagonisti della cultura «lombarda»non saranno coloro che si rifiuteranno a questa nuovaintegrazione, continuando a parlare dialetto, ma, appun-to, i Giovanni da Milano e i Tommaso da Modena, e poii Foppa e i Bramantino, i Correggio e i Parmigianino, iLorenzo Lotto e i Savoldo, fino ad Annibale Carracci(per non parlare, per ora, dei veneziani), che tutti diver-si fra loro (malgrado le viscere e il sangue che qualcunovorrebbe comuni) portarono volta a volta il loro varia-to contributo a una vicenda unitaria e sempre diversa,quella della storia dell’arte italiana.

I diagrammi di sviluppo della produzione artistica inItalia centrale ed in Italia settentrionale risultano, cosí,differenziati; il primo presentandosi con una impenna-ta seguita da un rallentamento dopo gli anni ’30, chediviene quasi un arresto subito dopo il ’48 (è curioso chesi possa ancor oggi affermare che nella «terribile epide-mia» «nessun architetto, pittore o scultore famoso persela vita»30 – a meno che dai «famosi» si intenda esclude-re Andrea da Pontedera, Pietro e Ambrogio Lorenzet-ti, Bernardo Daddi, Maso di Banco, Francesco Traini,artisti tutti la cui documentazione, al pari di quella ditanti altri, si arresta significativamente al 1348; o ameno che si attenda di ritrovare i certificati del medicolegale!), e da una ripresa prima lenta e poi sempre piúaccentuata a partire dagli anni ’70; il secondo come unavigorosa e continua ascesa che prosegue senza notevoliscosse, al di là del crinale del rammodernamento stili-stico, lo sviluppo duecentesco. Le due linee verranno aconfluire nell’ultimo trentennio del secolo quando parrà

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per un lungo momento che la nuova variante del lin-guaggio moderno, alla cui formazione la valle padana hacontribuito in modo determinante, il cosiddetto «goti-co cortese» o «internazionale» stia per conquistare, conl’Europa intera, anche la Toscana (attività fiorentina diStarnina, primo periodo del Ghiberti, Lorenzo Mona-co, Gentile da Fabriano, Masolino).

Nel sostanziale parallelismo dell’andamento di que-sti due diagrammi con quelli delle aree economiche cor-rispondenti, anche le «eccezioni» rilevabili si configu-rano appunto come tali, richiedendo, ad intenderle, spie-gazioni particolari.

Notevole soprattutto, nell’Italia settentrionale, ilcaso eccentrico di Venezia, che già nel corso del Due-cento aveva raggiunto il massimo della potenza, e l’a-veva raggiunto proiettandosi totalmente verso l’Imperod’Oriente, la quale assume, nel momento in cui l’onda-ta di innovazioni di provenienza toscana investe l’Italiasettentrionale, una posizione conservatrice, stentando astaccarsi da quella cultura bizantina di cui, oramai da piúdi un secolo, piú che comprimaria è protagonista. Né ilfatto che la piú vicina rivale sulla terraferma, la rigo-gliosissima Padova, diventi, a partire dalla Cappelladegli Scrovegni, la vessillifera delle novità, deve avercontribuito a fargliele accogliere con simpatia. Cosí, frale due varianti del nuovo linguaggio, giottesca e gotica,sembra avvicinarsi cautamente alla seconda, assorben-dola lentamente attraverso la sua variante emiliana(Paolo Veneziano, Lorenzo Veneziano).

Il processo pare tuttavia abbastanza rettilineo e,durante il secolo, in continuo consolidamento, finendocon il configurare un andamento dello sviluppo che, aparte la lentezza dell’avvio, non è poi molto diverso daquello delle altre città dell’Italia settentrionale; con lequali Venezia viene a porsi in sintonia nello scorcio disecolo quando riesce anch’essa a partecipare con una

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voce originale al grande corale del «gotico internazio-nale» (Niccolò di Pietro, Jacobello del Fiore)31.

In Italia centrale, coinvolta anche nei centri maggio-ri (non solo Firenze e Siena, ma Pisa, Perugia, Roma)nella crisi recessiva, la piú notevole eccezione è quelladi Orvieto, che pare superare senza danni la metà seco-lo, e la cui scuola pittorica sembra anzi proprio a parti-re dagli anni ’60 acquisire una forza di espansione cheprima le era mancata (Ugolino di Prete Ilario, Piero diPuccio, Cola Petruccioli). Un fatto la cui spiegazionesarà forse da cercare nella decisione del cardinal Albor-noz, legato addetto alla «riconquista» dello Stato pon-tificio, di stabilirvi la propria corte dandole cosí tem-poraneamente (1354-67) una importanza politica e, diconseguenza, economica e culturale, quale non avevamai avuta. In questo senso Orvieto si presta anzi adessere additata come un primo esempio di un fenome-no che, nella storia dell’arte italiana, ricorre altre volte.Quello per cui, in una situazione di generale riflusso, icentri che riescono a mantenere una prosperità relativaacquistano, per contrasto, uno spicco positivo assai mag-giore e, di conseguenza, una funzione di attrazione pergli artisti ed anche, in misura variabile secondo l’entitàdel fenomeno, di esempio e guida culturale.

9. Tempi duri ed investimenti nella cultura.

Con quanto finora osservato siamo anche venuti difatto a prendere posizione, dal nostro punto di vista distorici dell’arte, nella famosa disputa sulla periodizza-zione del «Rinascimento» che ha agitato le acque deglistudi soprattutto negli ultimi venticinque anni1, soste-nendo – in contrasto con un punto di vista largamen-te diffuso – che la retrodatazione proposta da certi sto-rici dell’economia del momento di piú impetuoso incre-

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mento ed allo stesso tempo di piú chiara rottura con ilpassato dall’inizio del Quattrocento alla fine del Due-cento non è affatto incompatibile con lo stato attualedelle nostre conoscenze sulle condizioni della produ-zione artistica in Italia centrale in quegli anni. Sempre,naturalmente, che si tengano presenti le differenzefondamentali di comportamento delle due differentiserie storiche: e cioè essenzialmente il differente rilie-vo dei tempi brevi e medi (nell’ambito di lunghezzadelle generazioni umane) per la prima, e dei tempi lun-ghi (soprattutto per la sua base produttiva fondamen-tale: l’agricoltura) per la seconda: il che si traduce nelledifferenti rilevazioni del punto di inversione di ten-denza, o di decollo; senza che questo voglia dire, nelmodo piú assoluto, rinuncia a vedere la solidarietàsostanziale dei fenomeni, o ricorso a quell’estremarisorsa del determinismo che è l’«esausta teoria deiritardi culturali»2.

Rimane da discutere il significato da dare al cosid-detto «primo Rinascimento», e cioè alla fase di rinno-vamento stilistico che ha origine a Firenze nel primotrentennio del Quattrocento, e si diffonde quindi pertutta Italia; ripetendo in questo, in un certo senso, eribadendo, il tracciato della precedente ondata toscanaprimo-trecentesca.

Se la nostra impostazione è corretta, sarà possibile,ragionando sulla stessa linea, cercar di dar risposta anchea quello che, dal nome dello storico dell’economia cheha avuto il merito di rendere esplicita, per quanto si rife-risce al Rinascimento, la contraddizione tra le due diver-se tradizioni storiografiche (storico-culturale e stori-co-economica), potremmo chiamare il «paradosso diLopez».

La linea di ragionamento del Lopez è nota, e puòessere cosí riassunta: al periodo di massima espansioneeconomica (la «rivoluzione commerciale» del Medioevo)

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corrisponde un grande periodo di fioritura artistica (ilromanico e il gotico), invece il Rinascimento, massimosviluppo della civiltà artistica occidentale, coincide conun periodo di depressione economica. Dobbiamo perciòammettere: 1) che le due serie di fenomeni, anche sutempi lunghi, non si sviluppano necessariamente inparallelo; e 2) che il rapporto economia-cultura può assu-mere forme diverse e contraddittorie fino al punto limi-te di una cultura in espansione in una società stagnanteo addirittura in crisi recessiva. In particolare il Lopezsuggerisce per spiegare la superiorità della produzioneartistica «rinascimentale» (quattro e cinquecentesca)che in questo periodo una società piú povera abbia inve-stito proporzionalmente di piú nella cultura e nell’arte.

A noi pare che anche senza entrare nel merito delleobiezioni che alla teoria della depressione rinascimentalesono venute da parte di storici dell’economia (Cipolla,Romano), il ragionamento del Lopez sia in parte vizia-to dall’accettazione, quali presupposti indiscutibili, diun paio di pregiudizi che per il fatto di provenire pro-prio dal campo a lui meno familiare della storiografiaartistica esigono viceversa il nostro intervento3. Il primoè quello (risalente all’apologetica vasariana) dell’esi-stenza di una linea di progresso artistico rettilineo che,per gradini successivi, porti da Giotto a Masaccio e aMichelangelo; progresso in cui ogni gradino è superiorein assoluto, qualitativamente, a quello precedente. Con-cezione che era servita perfettamente al Vasari in prodella sua tesi, che era quella di dimostrare la superioritàdella produzione artistica contemporanea (cui egli eradirettamente interessato) su quella di tutte le epocheprecedenti, ma che si è trovata in seguito rinsaldatasoprattutto dall’altro pregiudizio, di carattere naturali-stico, secondo cui – come abbiamo già accennato – glistili (fatti uguali alle specie) sono considerati tantomigliori, piú vigorosi, quanto piú a lungo sopravvivono.

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Cosicché, anche in questo caso la relativa stasi (lungasopravvivenza del «manierismo» in pittura e scultura, e,soprattutto, dello «stile classico» in architettura) è stataconsiderata come indice positivo di vitalità, anziché,come sarebbe stato giusto, come segno di mancato rin-novamento della produzione, quindi di ristagno.

Una volta cioè respinta la pretesa di giudicare i risul-tati artistici di un’epoca con l’ottica dei posteri anzichécon quella che le è propria, ed imparato a leggere nelsenso giusto il significato «economico» dei fatti artisti-ci, non sembrano sussistere ragioni di principio per nonconsiderare la produzione artistica, poniamo, del Cin-quecento, complessivamente «inferiore» (poniamo perun momento che lo sia) a quella del Due e del Trecen-to, o viceversa. Non è cioè metodologicamente corret-to escludere «a priori» che alla «depressione» economi-ca (relativa) del Quattro e del Cinquecento corrispondauna parallela (relativa) «depressione» artistica fra i cuirisultati siano da annoverare appunto, insieme a tutto ilresto, Masaccio e Giovanni Bellini, Michelangelo eTiziano. Senza per questo essere costretti ad immaginareun sistema di investimenti nella cultura che «capovolga»il segno del rapporto tra i due livelli, per cui ad una eco-nomia «meno» sviluppata corrisponda, quasi per com-pensazione (o consolazione) un’arte «piú» sviluppata.

A prima impressione sembrerebbe sempre valida,anche per noi, la equilibrata conclusione del vecchioLuzzatto, quando avvertiva che «se si può parlare – peril Quattrocento italiano – di decadenza nel senso di per-dita di una posizione di monopolio e di minor forza diespansione e di conquista, si cadrebbe invece in errorese il termine di decadenza si volesse usare in senso asso-luto, di una vera diminuzione nel volume e nel valoredella produzione e degli scambi»4, conclusione rafforzatapiú recentemente dagli interventi di Ruggiero Romanoil quale opportunamente ricorda il peso minimo che i set-

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tori di avanguardia (manifattura, commercio interna-zionale) cui si riferiscono di preferenza gli storici, ave-vano nell’insieme dell’economia del tempo; sebbene siaopportuno ricordare, per quanto piú direttamente ciriguarda, che anche la produzione artistica, almeno perquel tanto che si configura come voluttuaria e di lusso,proprio a quei settori d’avanguardia appare piú stretta-mente connessa.

Questi ultimi accenni alla discussione in corso tra glistorici dell’economia serve a farci capire che quandodal discorso di metodo (che può anche essere utilmentetenuto su di un piano paradossale) cerchiamo di passa-re a quello di merito, dobbiamo semplicemente ricono-scere che le nostre conoscenze attuali non ci permetto-no di fornire risposte attendibili. Mancano soprattuttoanalisi del significato, in termini economici, della pro-duzione artistica. Anche i dati quantitativi che puresarebbero a nostra disposizione (quantità delle operepervenute, costi delle medesime e di quelle non perve-nute quali risultano dai contratti, dimensioni degli edi-fici, estensione delle città) sono stati fino ad oggi valu-tati in modo del tutto impressionistico, senza alcunaforma di elaborazione scientifica seria. Difficile, in que-ste condizioni, sostenere che nel corso del Quattrocen-to si sia investito, in cifre assolute ed in percentuale dipiú in opere d’arte che non durante il Trecento, diffi-cile anche sostenere il contrario. Ciò che non è dubbioè che si sia, in molti se non in tutti i casi, investito inmodo diverso.

Lo vediamo, se non altro, dalla differente colloca-zione geografica delle chiese di maggior mole (Duomodi Milano, Certosa di Pavia; a Firenze l’impegno mag-giore consiste nel cercare di portare a termine il Duomo,impostato alla fine del Duecento), dal rallentamentodello sviluppo edilizio di tanti centri abitati (Volterra,San Gimignano, Orvieto, Spoleto, Gubbio, ecc.) che

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non per nulla hanno mantenuto fino ad oggi un aspettosostanzialmente «medievale» o, meglio, «trecentesco»,cui si accompagna l’imponente rinnovamento dell’edili-zia abitativa (soprattutto di quella dei ceti dirigenti) inaltre città (Firenze, Siena, Venezia, Ferrara). In altrocampo, è stato piú volte osservato il significato di«tesaurizzazione» che ebbe, verso la fine del secolo, ildiffondersi della moda delle gemme incise e, in genera-le, dei piccoli oggetti da collezione privata. Tuttavia èdifficile dire se Palazzo Strozzi sia costato in terminireali di piú di Palazzo Vecchio, Palazzo Medici abbiacostituito uno sforzo finanziario maggiore delle case deiPeruzzi, o se Lorenzo de’ Medici e i suoi simili abbianoinvestito in gemme e in gioielli di piú o di meno diquanto in oreficerie sacre ed in miniature avessero speso– direttamente o per il tramite degli ordini religiosi – imercanti fiorentini o bolognesi del primo Trecento.Dobbiamo, credo, limitarci per ora al ragionamentoopposto: la differente distribuzione geografica ed i carat-teri diversi (per esempio la piú volte constatata maggio-re «profanità») della produzione artistica quattrocente-sca postulano un diverso modo di distribuire gli inve-stimenti nel settore, e richiedono una serie di ricercheper accertarne i meccanismi. Quanto poi a stabilire sela massa degli investimenti sia stata non in assoluto maproporzionalmente maggiore, questo è un quesito squi-sitamente storico-economico, che implica un’analisi glo-bale e comparativa di tutti i settori dell’economia e delleloro reciproche relazioni, la cui conclusione temo siaancora piú lontana. Ma anche dopo che lo studioapprofondito dei bilanci pubblici e privati nel corso delperiodo in questione avrà dato tutti i risultati che potràdare, è difficile credere che, in ogni caso, essi possanoassumere la rilevanza teorica che sembra voler loro attri-buire il Lopez. Il quale, del resto, non rifugge dal por-tare in campo, accanto ai dati economici, argomenti di

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carattere «soprastrutturale». Insistendo, per esempio,sul carattere chiuso ed essenzialmente aristocratico dellasocietà rinascimentale, sottolinea la mancanza di otti-mismo della ideologia dominante, cercandovi una con-ferma indiretta alla sua tesi «depressiva»: «Gli atteg-giamenti del Rinascimento sono tanti e cosí variati dasembrar quasi eludere ogni definizione. Ed è proprio perquesto che il Rinascimento sembra a noi cosí moderno,perché fu altrettanto ricco e diversificato che la scenacontemporanea. Un aspetto moderno tuttavia gli mancò.La maggior parte dei suoi rappresentanti mostraronopoco interesse e scarsa fiducia nel progresso dell’interogenere umano. Ed invero pare che questa idea sia sorel-la della espansione economica. L’ideale religioso del pro-gresso dell’umanità dalla Città dell’Uomo verso la Cittàdi Dio praticamente non sopravvisse alla fine della rivo-luzione commerciale ed al fallimento delle rivolte socia-li del Trecento. Nel periodo successivo anche gli uomi-ni piú devoti tendevano ad escludere definitivamentedalla Città di Dio gli infedeli, gli eretici, e spesso tuttiquanti eccettuato un pugno di asceti cattolici o di mili-tanti protestanti predestinati alla salvezza. L’idea laicadel progresso dell’umanità attraverso la diffusione dellaciviltà e del sapere fu raramente accentuata prima deltardo Cinquecento, quando la stagnazione economicacominciò finalmente a rompersi. In mezzo ci sono circaduecento anni – il nucleo del Rinascimento – in cuiqualsiasi speranza di progresso fu generalmente riserva-ta non alle masse del volgo ma a singoli membri di unapiccola élite, non agli irredemibili barbari ma ai miglio-ri rappresentanti di gente scelta»5.

Non la si prenda per scetticismo sulle capacità degli«intellettuali» (scrittori e, a partire proprio da quest’e-poca, anche certi artisti) di farsi carico delle aspirazionie dei sentimenti dell’intiera società (piuttosto, nel giu-sto senso, come cautela nei confronti di concezioni

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monolitiche, anche per quanto riguarda le società delpassato) ma la mia impressione è che, se veramente gliinvestimenti nella cultura fossero stati, in questo perio-do, in termini assoluti, o anche solamente relativi, mag-giori che nel passato, anche le ideologie veicolate dagliscritti e dalle opere d’arte avrebbero mostrato maggio-ri tracce di ottimismo «progressista».

10. La ripresa tardo-gotica.

Tutto questo per dire che alla fin fine l’articolazionedel processo storico proposta dagli storici dell’economia(Sapori, Lopez, Miskimin) si presta anche meglio diquanto essi stessi non osino credere, ad essere trasferi-ta, con le avvertenze di cui abbiamo detto, al livellodella storia dell’arte. Anche qui, infatti, come per ilperiodo che comprende la seconda metà del Duecento esbocca nel rinnovamento trecentesco, il salto qualitati-vo a livello specifico dello stile è preceduto da circa untrentennio (1380-1410) di generale ripresa della dina-mica delle innovazioni.

Se infatti abbiamo proposto di leggere la cessazionedi produzione di alcuni centri alla metà del Trecento, lariduzione di quella di altri, il conservatorismo dell’artefiorentina degli anni 1348-70, come segni di recessione,non possiamo non leggere in senso opposto, come segnodi relativa ripresa, ciò che avviene in Toscana nel tren-tennio successivo.

La nuova fioritura di attività artistica in centri rela-tivamente minori che tornano ad esprimere personalitàdi notevole talento: Arezzo con il suo Spinello, che conla sua fresca narrativa ed i modi della sua carriera inter-cittadina (Pisa, Firenze, Siena) sembra precorrere ilnuovo tipo di artista «internazionale»; Orvieto a suavolta esporta i Piero di Puccio (Pisa, Cetona, Perugia) e

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i Cola Petruccioli (Perugia); Volterra ha il suo France-sco Neri; Lucca Giuliano di Simone e il Puccinelli;Pistoia Giovanni di Bartolomeo Cristiani, e perfinoMontepulciano il suo Pietro di Domenico6. L’«esporta-zione» di talenti e di opere d’arte dai centri minori aimaggiori implica una piú larga disponibilità di questiultimi a fornire lavoro ai forestieri, indicazione che sem-bra confermata dall’attività toscana di artisti non italianicome Pietro di Giovanni Tedesco o il portoghese Alva-ro Pirez.

Il rilancio, nelle città maggiori, di grandi progettipubblici, da Orsanmichele alla Loggia dei Lanzi fino alleporte del Battistero ed alla cupola a Firenze, dalla Log-gia di Piazza alla Fonte Gaia a Siena, sembra anche unsegno di maggiori disponibilità finanziarie per le opered’arte. D’altra parte, anche a livello di produzione«popolare» sembra di poter osservare un incrementoquantitativo e qualitativo della produzione di artistiminori, spesso anonimi, ma a volte dotati anche di unacerta personalità (si pensi a Cenni di Francesco, Loren-zo di Bicci, Michele da Firenze, Giovanni di Marco).

È da osservare che, anche in questo caso come per laproduzione bizantineggiante del Duecento, il rinnova-mento si manifesta anzitutto come ripresa di vitalitàdelle correnti stilistiche tradizionali. Sono i vecchi arti-sti che si avvantaggiano per primi del nuovo flusso diinvestimenti. A Firenze Alberto Arnoldi nella Loggia delBigallo, Giovanni Fetti a Orsanmichele, Jacopo di PieroGuidi e Giovanni d’Ambrogio nella Loggia dei Lanzi,lavorano con impegno, ma su canoni del tutto tradizio-nali7; lo stesso si può dire, a Siena, per i collaboratori allaLoggia di Piazza, Bartolomeo di Tommé e Mariano d’A-gnolo Romanelli che risalgono, idealmente, a NicolaPisano8. Né, passando dalla scultura alla pittura le cosecambiano sostanzialmente. A Firenze giotteschi, siapure in modo diverso, vollero essere sia Nardo di Cione

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che Agnolo Gaddi o Niccolò di Pietro Gerini; cosí comemartiniani si possono considerare, almeno nelle inten-zioni, i senesi Taddeo di Bartolo, Gregorio di Cecco,Benedetto di Bindo.

Nella piú giovane generazione, si fanno sempre piúfrequenti i casi di artisti che guardano al di là dellemura cittadine (si pensi ai senesi Martino di Bartolomeo,Lorenzo Monaco e Domenico di Niccolò dei Cori; maanche a Jacopo della Quercia, Gherardo Starnina,Lorenzo Ghiberti). Per alcuni di questi si può, anzi, par-lare di veri e propri viaggi di «aggiornamento cultura-le» fuori sede: di per sé un segno significativo del ritar-do accumulato da Firenze e dalla Toscana nel trenten-nio precedente.

È solo a questo punto che la ripresa economica si tra-duce anche in innovazioni stilistiche autoctone, origi-nali in senso proprio. È questo il momento in cui la ten-denza si inverte di nuovo, e Firenze da importatrice diidee artistiche ridiviene (con Filippo Brunelleschi,Nanni di Banco, Masaccio, Donatello, Michelozzo,Luca Della Robbia) esportatrice. È questa una vicenda,di nuovo, esclusivamente fiorentina, che di nuovo comeall’inizio del Trecento diversifica radicalmente, peralmeno vent’anni, le vicende di Firenze e della Tosca-na da quelle dell’Italia settentrionale, dove continuavigorosa la fioritura del gotico internazionale, in Lom-bardia (da Michelino da Besozzo a Jacopino da Trada-te agli Zavattari), nel Veneto (da Jacobello del Fiore alGiambono a Jacopo Bellini ed Antonio Vivarini) o inEmilia (da Giovanni da Modena a Michele di Matteo),ma anche nelle Marche (dove fioriscono i Sanseverino),nell’Umbria, dove lo stile cortese e raffinato dei lom-bardi è stravolto da Bartolomeo di Tommaso ad espri-mere una violenta religiosità neomedievale, e nell’Ita-lia meridionale9.

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1 r. longhi, Arte italiana e arte tedesca, in «Romanità e Germane-simo», Firenze 1941, pp. 209-39.

2 f. villani, De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus(c. 1400), in k. frey, Il libro di A. Billi, Berlin 1892, pp. 73-75; g. vasa-ri, Le Vite de’ piú eccellenti Architetti, Pittori e Scultori italiani da Cima-bue insino a’ tempi nostri descritte in lingua Toscana da Giorgio Vasari pit-tore Aretino, con una sua utile e necessaria introduzione a le arti loro,Firenze 1550; l. lanzi, Storia pittorica della Italia. Dal risorgimentodelle Belle Arti fin presso al fine del XVIII Secolo, Bassano 1795-96.

3 g. procacci, Storia degli italiani, Bari 1968; c. l. ragghianti e col-laboratori, L’arte in Italia, Roma 1969.

4 j. von schlosser, Die Kunstliteratur, Wien 1924; l. venturi, Sto-ria della critica d’arte, Firenze 1948.

5 Cfr. g. c. argan, voce Arte, in Enciclopedia del Novecento, vol. I,Roma 1976, pp. 255-80 (268-70).

6 g. bollati, L’italiano, in Storia d’Italia Einaudi, vol. I, Torino1972, p. 991.

7 a. della seta, Italia antica, dalla caverna preistorica al palazzoimperiale, Bergamo 1921, Prefazione, 2a ed. 1928.

8 f. arcangeli, Natura ed espressione nell’arte emiliana, catalogodella mostra, Bologna 1970.

9 s. bettinelli, Risorgimento d’Italia, negli studî, nelle arti, e ne’costumi dopo il Mille, Bassano 1786.

10 h. wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, München 1915;6a ed. München 1923, p. 241.

11 h. w. janson, Criteria of Periodization in the History of EuropeanArt, in «New Literary History: A Journal of Theory and Interpreta-tion» published by the University of Virginia, vol. I, 1970, n. 2, pp.115-22; cfr. anche Sixteen Studies, New York 1971, pp. 331-36.

12 g. kubler, The Shape of Time. Remarks on the History of Things,New Haven 1962 [trad. it. La forma del tempo. Considerazioni sulla sto-ria delle cose, Torino 1976].

13 e. gombrich, Wertprobleme und mittelalterliche Kunst, in «Kriti-sche Berichte zur Kunstgeschichtlichen Literatur», vi, 1937, pp. 3-4[trad. it. in A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell’arte, Tori-no 1971, pp. 107-18 (115-16)]; cfr. g. previtali, Ernst H. Gombrich,conservatore viennese, in «Paragone», luglio 1968, n. 41, pp. 22-40(28-29). a. hauser, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, München1951 [trad. it. Storia sociale dell’arte, 10a ed. Torino 1977]; e. gombri-ch, recensione all’ed. ingl., «The Art Bulletin», marzo 1953 [trad. it.in A cavallo di un manico di scopa cit., pp. 131-43]. Ma tieni presenteche nelle successive opere dello Hauser (Philosophie der Kunstgeschich-te, München 1958 [trad. it. Le teorie dell’arte, 3a ed. Torino 1974]; DerManierismus. Die Krise der Renaissance und der Ursprung der modernen

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Kunst, München 1964 [trad. it. Il Manierismo. La crisi del Rinascimen-to e l’origine dell’arte moderna, 2a ed. Torino 1967]; Soziologie derKunst, München 1974 [trad. it. Sociologia dell’arte, Torino 1977]) sitrova risposta indiretta, per lo piú soddisfacente, a molte delle osser-vazioni di principio del Gombrich.

14 c. dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino1967, p. 77.

15 p. o. kristeller, Renaissance Thought, The Classic, Scholastic, andHumanistic Strains, A revised and enlarged edition of «The Classics andRenaissance Thought» (1955), New York 1961; id., Renaissance Thou-ght, II: Papers on Humanism and the Arts, New York 1965.

16 j. von schlosser, Die Kunst des Mittelalters, Berlin 1923 [trad.it. L’arte del Medioevo, Torino 1961, p. 77].

17 Vedi lo spostamento all’viii secolo della tavola di Santa Maria inTrastevere (c. bertelli, La Madonna di Santa Maria in Trastevere, Roma1961); la datazione al vi secolo, già proposta da C. Brandi, è ora ricon-fermata da m. andaloro, La datazione della tavola di Santa Maria in Tra-stevere, in «Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia del-l’Arte», n. s., xix-xx, 1972-73, Roma 1975, pp. 139-215.

18 f. zeri, Un frammento su tavola di Pietro Cavallini, in Diari di lavo-ro 2, Torino 1976, p. 6, giunge a parlare, per la corrente storiograficache sostiene il ruolo innovatore della cultura fiorentina anche rispettoa Roma, di «tristissimo episodio di teppismo culturale».

19 r. davidsohn, Geschichte von Florenz, Berlin 1896-1927 [trad. it.Storia di Firenze, Firenze 1956-68]; f. antal, Florentine Painting and itsSocial Background. The Bourgeois Republic before Cosimo de’ Medici’sAdvent to Power: xiv and Early xv Centuries, London 1947 [trad. it. Lapittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quat-trocento, Torino 1960]; h. a. miskimin, The Economy of Early Renais-sance Europe, 1300-1460, Englewood Cliffs (N.J.) 1969.

20 Non è qui possibile ricordare i singoli contributi a questa correntedi studi, li si possono trovare in massima parte citati in l. bellosi,Moda e cronologia, I: Gli affreschi della Basilica inferiore di Assisi, e II:Per la pittura di primo Trecento, in «Prospettiva», rispettivamente,luglio 1977, n. 10, pp. 21-31 e ottobre 1977, n. 11, pp. 12-26.

21 g. previtali, Un’arca del 1272 ed il sepolcro di Bruno Beccuti inS. Maria Maggiore di Firenze, opera di Tino di Camaino, in Studi di Sto-ria dell’Arte in onore di Valerio Mariani, Napoli 1972, pp. 81-89.

22 e. fiumi, Fioritura e decadenza dell’economia fiorentina, in «Archi-vio Storico Italiano», cxv, 1957, disp. IV, pp. 385-439 e cxvii, 1959,disp. IV, pp. 427-502; r. romano, La storia economica. Dal secolo XIV

al Settecento, in Storia d’Italia Einaudi, vol. II, 2, pp. 1813-1931. Inu-tile insistere sul valore comunque simbolico che ha l’assunzione di untermine «ad annum». Vi furono previsioni «scientifiche» della peste

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nera, ed alcuni artisti particolarmente sensibili mostrano evidenti segnidella «crisi» anche prima del 1348 (Ambrogio Lorenzetti).

23 antal, Florentine Painting cit.; m. meiss, Painting in Florence andSiena after the Black Death. The Arts, Religion and Society in theMid-Fourteenth Century, Princeton 1951, 2a ed. 1964; m. boskovits,Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento, 1370-1400, Firenze 1975.

24 l. bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974.25 meiss, Painting cit., cap. vi.26 r. longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, in «La critica d’arte»,

xxv-xxvi, luglio-dicembre 1940, pp. 180-81 [anche in Opere complete,VIII, 1, Firenze 1975, pp. 46-47].

27 dionisotti, Geografia cit., pp. 91-92.28 r. zangheri, I rapporti storici tra progresso agricolo e sviluppo eco-

nomico in Italia, in Agrarian Change and Economic Development, a curadi E. L. Jones e S. J. Woolf, 1969 [trad. it. Agricoltura e sviluppo eco-nomico. Gli aspetti storici, Torino 1973, pp. 43 e 45-46].

29 p. toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia. Dai piú anti-chi monumenti alla metà del Quattrocento, 1912, ed. a cura di E. Castel-nuovo, Torino 1966.

30 p. renucci, La cultura, in Storia d’Italia Einaudi, vol. II, 2, Tori-no 1974, p. 1143.

31 r. pallucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma1964; w. wolters, La scultura veneziana gotica (1300-1460), Venezia1976; non mi pare, quindi, si possa affermare che Venezia sia stata«fino all’ultimo Trecento un’appendice culturale dell’Impero romanodi Oriente» come ha fatto, ancora recentemente, f. zeri, La percezio-ne visiva dell’Italia e degli italiani nella storta della pittura, in Storia d’I-talia Einaudi, vol. VI, Torino 1976, p. 65.

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