Da Bagnara a Gioia Tauroxx...Il sig. Caratozzolo, erede delle due famiglie protagoniste di questo...

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Edizione A.S.F.B. ARCHIVIO STORICO FOTOGRAFICO BAGNARESE DA BAGNARA A GIOIA TAURO Storia della famiglia del capitano Carresi Di Franco Caratozzolo " La storia vista dall'altra parte della strada, quella che subisce la gente più debole e nulla può fare per cambiarla. Concentrata nelle due famiglie Carresi e Caratozzolo, native di Bagnara, che per effetto dei grandi drammi che periodicamente si abbattono su questa ter- ra(terremoti ed emigrazione) scelgono strade diverse. Poi in maniera strana si rincontrano a Gioia Tauro ed affrontano la vita sorretti da (la ricchezza) conqui- stata con la vera sofferenza: la fede." P.2009

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Edizione A.S.F.B.

ARCHIVIO STORICO FOTOGRAFICO BAGNARESE

DA BAGNARA A GIOIA TAURO

Storia della famiglia del capitano Carresi

Di

Franco Caratozzolo

" La storia vista dall'altra parte della strada, quella che subisce la gente più debole e nulla può fare per cambiarla.

Concentrata nelle due famiglie Carresi e Caratozzolo, native di Bagnara, che per effetto dei grandi drammi che periodicamente si abbattono su questa ter-

ra(terremoti ed emigrazione) scelgono strade diverse. Poi in maniera strana si rincontrano a Gioia Tauro ed affrontano la vita sorretti da (la ricchezza) conqui-

stata con la vera sofferenza: la fede."

P.2009

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Il sig. Caratozzolo, erede delle due famiglie protagoniste di questo racconto, ha trascritto la vera storia che ha caratterizzato  la vita dei suoi discendenti per circa mezzo secolo. Egli cronologicamente ci narra delle vicissitudini, a tratti molto drammatiche, che ha visto protagonisti gli uomini e le donne della sua stirpe, dal terremoto del 1908 e fino alla conclusione della seconda guerra mondiale. 

La storia viene  raccontata da chi osserva dall’altra parte della strada ed annota senza pregiudizio alcuno quanto  accade,  verità  sopra  verità.  Atti  di  crudeltà, momenti  di  tensione,  caparbietà  di  padri  buoni  e coscienti che comprendono la varie situazioni. Delusioni tristezze e sconfitte si rimarginano con il ritrovarsi in  comunione  tra  le  famiglie  stesse dopo un percorso durissimo di  sofferenze  soprusi e prepotenze  che portano alla conquista della “fede”. 

Gianni Saffioti 

 

 

 

 

 

Questo  racconto  è  inserito  nel  contesto  del  progetto  di  diffusione  della  storia  cittadina  e  del  popolo bagnarese raccontata dagli stessi protagonisti, che l’archivio storico fotografico bagnarese da anni oramai propone senza alcuno scopo di lucro ma con il solo intento di valorizzare la cultura popolarecittadina. 

La grossa difficoltà di diffondere tali piccole ma importanti opere sta tutta nella paura di proporre, da parte chi dovrebbe promuovere la cultura popolare, argomenti e temi lontani dai soliti motivi preconfezionati fatti di  feste  e  sagre  paesane  con  le  quali,  secondo  la mentalità  odierna,  si  dovrebbe  far  lievitare  la  cultura. Lontano da questo modo altamente restrittivo di vedere le cose, credo che quello di proporre questi lavori e portare alla conoscenza di tutti scritti sconosciuti di storie di vita come questa, sia  fondamentale per uno sviluppo  sano  e  civico  delle  nuove  generazioni.  Certamente  almeno  lo  scritto  resta  ed  inciderà  sulla coscienza di quanti avranno la bontà di leggerlo, forse potrà anche essere utile a chi saprà apprezzarlo. 

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collana “marineria gioiese”

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Dedica

“Al mio amatissimo,inimitabile, mitico figlio Peppe, che ha reso felice la vita dei suoi genitori sulla terra

e continua a farlo ancora dal Paradiso; ai miei adorati genitori e gli indimenticabili nonni conosciuti e non. A tutti i miei zii e zie, esempi mirabili di dedizione familiare, cristiana e forza d’animo.

Franco

Gioia Tauro gennaio 2006

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Prologo

Se avessi intitolato questo lavoro, da Palmi a Gioia, da Amalfi o Napoli o Genova, Sicilia o Puglia a Gioia, non ci sarebbe stato nulla di offensivo o scandaloso. Gioia Tauro era sorta per sua fortuna e per quella di tanta gente, in una posizione geografica invidiabile, posta com’era(ed è) a capo di una fertile area agricola pianeggiante, conosciuta fin dai tempi più antichi. La sua vocazione commerciale di prodotti agricoli, legnami idonei alla costruzione di naviglio, vini per la presenza di estesi vigneti, granaglie varie, carbone, s’incrementò col passare del tempo, per la nascita di una serie di infrastrutture e impianti ed enormi magazzini di stoccaggio ove era conservato l’olio lampante o il vino o il grano. Prodotti che, in una fase successiva, erano rilavorate e smerciate in tutti i porti del Mediterraneo da una numerosa ed efficiente flotta di bastimenti, che facevano capo sulla spiaggia gioiese. Quivi esistevano due ampi magazzini costruiti durante il periodo borbonico che servivano a conservare la merce quando il mare non consentiva il carico o lo scarico della stessa. In ultima analisi Gioia fu per tanti anni il punto di riferimento economico della provincia reggina se non dell’intera Calabria Ma, la vocazione di un paese dipende non solo dalla sua felice posizione geografica o dalla presenza di infrastrutture tali da permettergli di operare con minori difficoltà rispetto ad altri lidi, di fronte ad una regione montagnosa e difficile, con pochi sbocchi marini. A mio parere a ciò bisogna aggiungere, anche, coloro che ne hanno intuito e sfruttato tale posizione in maniera profittevole. L’assunto finale è che il capitalismo moderno, a mio modo di vedere, è nato proprio qui, a Gioia Tauro. E’ sbarcato con i forestieri. Il detto: “Sant’Ippolito protettore dei forestieri.”, luogo comune per ogni paese in Calabria(non è chiaro perché il protettore della propria cittadina, debba proteggere sempre i forestieri!), a Gioia ha trovato una felice conferma, più che altrove. La fortuna economica di questa cittadina è dovuta ai forestieri che ebbero il coraggio di utilizzare le opportunità che gli si pararono davanti(il 1807, si dice,fu l’anno dell’arrivo del primo campano a Gioia). Nella proposizione precedente, ho parlato di coraggio e questa parola la si deve intendere non come “il coraggio di fare impresa”, ma, come coraggio di vivere in una zona altamente infetta dalla malaria, spauracchio di chi vi doveva passare la notte. Se si pensa che i lavoratori giornalieri dei paesi vicini rientrassero nelle loro case a fine turno di lavoro, indica la grave insalubrità dell’aria che si respirava, d’estate, nei paraggi. Nonostante tutto questo i forestieri, con audacia, trasformarono Gioia nel fulcro di ogni operazione commerciale della provincia. Questo racconto è la cronistoria delle famiglie da cui sono nato, che per uno strano gioco del destino e degli eventi, terribili per ciò che hanno prodotto, siano essi eventi sismici o l’endemica emigrazione, si rincontrarono in questa municipalità.

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Parallelamente, potrebbe essere la cronistoria di altre centinaia di famiglie che si sono trovate in simili situazioni, che hanno subito medesima sorte malvagia: chiamateli Macrì, Caruso, Romeo, non cambia nulla nella sostanza. E’ anche la storia vista dall’altro lato della strada: quella dei deboli, delle vittime innocenti, prese nella tenaglia di chi ha fatto la storia con la “S”maiuscola, che gioca con la gente come fossero birilli. Ai quali ultimi non rimaneva che il riparo sicuro di una fede diamantina e come arma l’ottimismo della Speranza. Ma, è anche la storia di altri numerosi paesi che seguono le vicende umane con finto distacco: i paesi non sono solo le case, è anche l’anima di chi ci vive e subisce gli accadimenti terreni.

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introduzione Nelle buie sere d’inverno, quando il violento e cupo rumoreggiare del mare in tempesta, rintronava nelle nostre orecchie; il vento di maestrale infilandosi tra le fessure di porte e finestre sibilava paurosamente; i bagliori dei lampi perforando l’oscurità della notte illuminavano le deserte strade della marina accompagnate dal brontolio dei tuoni; il nonno con il basco blu in testa ed uno spesso giaccone di pelle sulle spalle con il gomito appoggiato sullo stipite della finestra seguiva, da vecchio lupo di mare, gli effetti del vento sul nostro albero di fichi che oscillava ad ogni folata come un albero di maestra dei vecchi velieri,fumava la pipa mandando volute di fumo, che lentamente salivano in alto; noi ragazzini seduti attorno al calduccio del braciere, ascoltavamo la nonna che ci raccontava le favole di mitiche fate dei boschi, dei folletti e del terribile “sarancuni” che rapiva i bambini monelli. Noi ragazzi, sull’onda della fantasia, dell’immaginazione, seguivamo quei lontani angoli del mondo dove, alla fine, l’eroico cavaliere azzurro vinceva sempre salvando i deboli o le innamorate e punendo i cattivi. Poi, finita la favola, candidamente, chiedevamo alla nonna perché da Bagnara fossero venuti a vivere a Gioia. La nonna ricominciava a raccontare la loro avventura di emigranti. E la nostra immaginazione seguiva parola per parola, il nuovo racconto. Di quei tempi ormai lontani ed altrettanto mitici.

L’autore Franco Caratozzolo

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Romanzo

“Da Bagnara a Gioia Tauro”

Fu così che il capitano Carresi,  perse la casa, quella fredda mattina del 28 dicembre del 1908 a causa di un terremoto seguito da maremoto, che sconquassò la Sicilia e la Calabria provocando la morte di oltre centomila persone.  Si  stava  preparando  a  partire,  per  imbarcarsi  al  comando  del  veliero  da  50  tonnellate  Nuova Antonietta, in rada a Gioia Tauro. Mentre sorbiva un caffè assieme alla moglie Felicia in cucina, udì un boato, cupo, grave, seguito da un sussulto. Anche la fioca luce del lume a petrolio sembrò spegnersi.  ‐“Terremoto”‐, rifletté tra sé il capitano, e, senza parlare, lentamente, per non impaurire la moglie Felicia aprì la porta. E’ noto che gli animali sentano con anticipo l’arrivo dei terremoti, ma stranamente, nell’occasione, il capitano non udì il solito latrare dei cani o il chiocciare delle galline o altri rumori amici. Vi era un silenzio  irreale,  come  se  tutta  la natura  si  fosse  fermata, presagio  che qualche  cosa  stesse per accadere. Di  li  a  poco,  sentì  un  violento  e  secco movimento  ondulatorio  che  lo  fece  rientrare rapidamente, svegliò i figli ed urlò  “Fuori, fuori"! "Prendete le coperte e scappate!”    Il terremoto ebbe una durata di circa trentotto secondi. Mezzi addormentati i figli più grandicelli uscirono  correndo,  mentre  i  genitori  portavano  in  salvo  i  più  piccini,  tentando  di  tenersi  in equilibrio  con  il pavimento della  loro  casa  che oscillava e  sussultava  come un uomo  in  agonia. Felicia, con  la  figlia più piccola  in braccio, Antonietta, guadagnò  l’uscita, urlando. E  i suoi gridi si confondevano con quelli degli altri scampati formando un tragico coro greco.    D’improvviso la parete sud della casa, sotto l’effetto dello stimolo potente scatenatasi dal ventre della terra crollò come un fuscello sradicato durante una bufera di vento. La caduta della parete si portò appresso le travi di legno che reggevano il soffitto e le tegole e il rumore del crollo della casa del capitano si confuse con quello delle altre abitazioni che venivano giù,   amplificati dal silenzio mattutino. Come periodicamente accadeva  la morte bussava ancora una volta  in quelle contrade povere e sventurate. In quel  lembo dell’Italia meridionale, martirizzato dall’infausto evento, Bagnara contò novantasei morti e 720 feriti, e l’80% di case distrutte o danneggiate.   Accorato di fronte al caos, al terrore della moglie e dei figli, alla polvere che si alzava verso la volta del cielo, il capitano Carresi si chiedeva, perché ? Perché una terra tanto più è bella e povera, tanto più deve subire gli oltraggi di una sorte avversa ?   E’  come  se  la  natura  stessa,  gelosa  della  propria  bellezza,  abbia  voluto  punirsi,  per controbilanciare nascondendo nel suo seno  un mostro che, di tanto in tanto fa uscire a sfregiare ciò  che ha  creato  violentando  crudamente  lo  splendore delle  sue  creature: un mare  stupendo, dove  il cielo vi si specchia col suo più vezzoso azzurro per trasformarsi  in grigio quando  il cielo è nuvoloso. Completava  tanta   bellezza,  l’affascinante visione delle  isole Eolie e della Sicilia, ancor più  splendide  da  ammirare  durante  la  stagione  fredda,  quando  l’aria  tersa  schiarisce  i  profili  e l’immaginazione, fino a farti scoprire i personaggi mitici che ispirarono grandi poeti e alimentarono tante leggende: Scilla,  Cariddi, Eolo il dio dei venti e re delle isole Eolie, Ulisse.    Bagnara, è racchiusa in una affascinante insenatura, protetta da montagne alte e selvagge che si caricano di variegati colori   a seconda del tipo di macchia arborea abbarbicata   sui suoi fianchi  le cui forre,  d’improvviso, si addolciscono, degradando  in terrazze coltivate a vigneto e che produce l’uva zibibbo famosa già  dai tempi più antichi. 

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   Un’economia  debole  faceva  da  contrappunto  a  tanto mitico  incanto:  la  pesca,  l’agricoltura, l’industria boschiva e un cantiere navale, erano le attività economiche principali di Bagnara.     Qui nacque una genia di armatori e di abili navigatori che fecero parte della storia della marineria italiana.  L’esempio  più  fulgido  e  qualificante  fu  l’impresa del  capitano Vincenzo  Fondacaro  che attraversò  l’Atlantico  partendo  da  Rio  de  la  Plata  e  approdò  in  Europa  dopo  96  giorni  di navigazione con un battello di 9 metri a vela chiamato “Leone di Caprera”  in onore di Giuseppe Garibaldi. ott. 1880‐genn. 1881    Da allora, chi compie oggi, una traversata del genere è sempre una dimostrazione di coraggio, ma, con  le moderne tecnologie,  i rischi sono calcolati al massimo ma, niente a che vedere   con  il coraggio  e  l’ardimento  dell’equipaggio  del  “Leone  di  Caprera”.  Il  capitano  Fondacaro  volle dimostrare al mondo intero il valore e l’inventiva del marinaio italiano. Aveva  ideato,  infatti,  un’ancora  “galleggiante per  spargere  l’olio  e  placare  le  onde  del mare  in burrasca” come da lui sostenuto e dagli altri marinai  non ritenuto vero.  Il coraggio e  l’inventiva di quei marinai non ebbero  in  Italia  il giusto  riconoscimento  (la storia si ripete sempre!).    Nel 1895 tentò un’altra impresa eccezionale: raggiungere Chicago da Rio de la Plata; attraversare cioè  l’Oceano  Atlantico  da  sud  a  nord  fino  alla  città  nordamericana: ma  l’impresa  fallì  per  il naufragio del battello “Cesare Cantù” e la morte di tutto l’equipaggio, fra cui il fratello del capitano Carresi. Poi  la buona  razza degli  armatori. Bagnara diede  i natali  a uno dei più  grossi  armatori calabresi che operarono tra l’ottocento e il novecento: Francesco Patamia.  I suoi velieri trasportarono merci  in tutti  i porti del Mediterraneo con al comando tutti  i suoi figli maschi.    L’armatore  Patamia  s’imbarcò  come mozzo  a  sedici  anni  a Gioia. Qui  si  fece  le  ossa. Diventò armatore,  utilizzando  questo  scalo  come  punto  logistico,  l’emporio  della  piana,  che  offriva  ai velieri, molte più occasioni di lavoro. A  Bagnara  e  nel  suo mare,  Carresi  si  fece  le  ossa.  Dopo  aver  frequentato  la  scuola,  acquisì  il libretto di navigazione, navigando sui “buzzetti”. Poi s’imbarcò sui velieri.  Il suo primo viaggio  lo fece sulla tartana “Corriere di Bagnara”, il veliero postale ufficiale, nel 1876, da mozzo.    Fin  da  allora  Francesco  si  era  dimostrato  un  ragazzo  sveglio,  curioso  e  la  curiosità  è  segno d’intelligenza,  diceva  un  antico  adagio.  Apprendeva  tutto  con  l’osservazione,  ficcando  il  naso dentro le cose, ma principalmente chiedendo, chiedendo e chiedendo. Quando  la notte  ,  in navigazione,  il nostromo mezzo  intronato dal sonno, se  lo vedeva spuntare vicino al timone,  invece di dormire, gli chiedeva: “Stasera cosa vuoi sapere?”, Carresi, sorridendo  rispondeva.  “Nostromo di  giorno è  facile navigare   perché  ci muoviamo  sottocosta. Ma, quando è buio, o, siamo  lontani  dalla  terra,  come  fa  un marinaio  ad  orientarsi?”.  Allora  il  nostromo  osservava  il firmamento stellato e con l’indice gli indicava una serie di stelle:  “Guarda Francesco quel disegno in alto: quello è il “carru maistru” e quella stella più lucente delle altre è la stella polare, essa indica il nord; è la guida del marinaio durante la notte. Un marinaio, se la segue, non sbaglia mai”. E Francesco ricominciava:  “E  quelle  altre  stelle,  pure  quelle  fanno  strani  volteggi  in  cielo”.  E  il  nostromo  pazientemente spiegava:  “Quello invece è u “carru grandi”, mentre quell’altro ammasso di stelle che vedi laggiù in fondo, è la “strata  i santu  iapicu” o  la “strata di tempi”, queste stelle stanno ad  indicare, a seconda della posizione  che  assumono,  il  vento  che  verrà  e  la  sua  direzione.”  affermava molto  convinto  il nostromo. 

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   Naturalmente  la  formazione  dei  venti  e  la  loro  direzione  dipendevano  da  altri  fattori  che  il nostromo,  poverino,  non  poteva  sapere,  perché,  allora,  i marinai  navigavano  in  conformità  a tradizioni orali tramandate di padre in figlio, miste a credenze religiose. La conoscenza tecnica era appannaggio della Reale Marina o della marina mercantile che pilotavano navi a vapore di grossa stazza. Lo strumento della marina mercantile principe era sempre la bussola usata da tutto il tipo di naviglio che allora percorrevano  i mari. Per  i viaggi più  lunghi, quindi velieri di grossa stazza,  i marinai  usavano  anche  il  “teodolite”  con  la  quale  si misuravano  gli  angoli  sia  azimutali    che zenitali. E’ noto che  fino al 1874  i marinai calcolavano solo  la  latitudine, misurando  l’altezza del sole sull’orizzonte di giorno, o della stella polare di notte. La longitudine fu introdotta solo qualche anno dopo, utilizzando il meridiano di Greenwich (Londra) indicante  0°.     Ritornando ai nostri vecchi marinai, si tramandava che  la “strata di santu  iapicu” normalmente avesse  la  direzione  (rosa  dei  venti)  da maestrale  a  scirocco.  Quando  si  poneva  da  ponente  a levante,  soffiavano  i  venti da nord, e  secondo  loro,  veniva  la bufera;  se  si poneva da grecale a ostro, soffiava  lo scirocco o  il  libeccio, che  i vecchi pescatori   chiamavano “u  tempu chi veni du canali”.    Anche  la  luna  entrava  a  pieno  titolo  nelle  credenze marinare,  non  perché  “intenerisse  i  loro cuori” ma perché poteva essere segno che il tempo cambiasse, e sentenziavano: “Luna a barchetta marinari all’erta !” che secondo gli antichi indicava un natante nel mare in tempesta; il detto “luna diritta marinari in cuccetta !” indicava buon tempo. Per tutto il tempo che Francesco navigava, era un continuo chiedere, approfondire entro i limiti delle conoscenze dei nostri esperti marinai:  “perché la luna, a volte, ha quella nebbiolina attorno ?”‐‐ “indica che domani ci sarà vento”, ‐ “nostromo perché il vento di terra è chiamato così ?”  “perché viene da terra, come dice la parola stessa !”    Erano risposte senza alcun fondamento tecnico o almeno ne avevano poco considerato che così ci si spostava da una parte all’altra in quegli anni.    Carresi  le  cognizioni  tecniche  razionali  e  utili  le  avrebbe  apprese  durante  il  servizio militare prestato nella Regia Marina.  Studiò  in maniera  approfondita,  con  scienza  e  coscienza,  sui  testi  che  riusciva  ad  acquistare  a Napoli o su quelli che gli davano in prestito gli ufficiali delle navi militari. Così capì che il vento di terra,  come  tutti  i  venti,  era  uno  scambio  di  calore  tra  il mare  e  la  terra  collegato  al  tasso  di umidità, nuvolosità, alle differenze di pressione tra una parte e  l’altra delle aree geografiche del globo…; che non sempre la luna in quella posizione  significava bufera o bonaccia. Ma,  che  la  luna  influenzasse  i mari  e  gli  oceani  con  la    forza  di  gravità,  e  che  il  suo  effetto raddoppiava quando  il sole e  la  luna stavano  lungo  lo stesso asse della terra, assieme all’utilizzo del  barometro  o  il  sestante,  divennero  conoscenze  normali  per  il  Carresi,  tanto  da  affrontare l’esame  d’idoneità    per  ottenere  il  titolo  di  Padrone marittimo  e  superarlo  brillantemente.  Il patentino lo abilitava al comando dei velieri.  

    Il Carresi era un uomo alto di colorito bruno, con due  labbra carnose che gli davano un' aria di serietà,  d’imponenza  per  i  due  baffoni  a manubrio  che  gli  trapassavano  il  labbro  da  una  parte all’altra; occhi scuri e sopracciglia ad arco che evidenziavano due zigomi alti ma non pronunciati; una  dentatura  perfetta,  ovale  lungo,    un  naso  regolare  ed  una  fronte  ampia  e  spaziosa:  un bell’uomo. Aveva un' eleganza naturale, uno stile inconfondibile, vestiva con cura ma sobriamente. Rispettava  tutti  e  tutti  ricambiavano.  Francesco  da  qualche  tempo  corteggiava  una  ragazza  di nome Felicia,  figlia di   commercianti di  tessuti del posto soprannominati “i calarchi”   per via del cognome  della madre,  appunto  Calarco  .  Era  una  ragazza  esile  d’altezza media,  capelli  neri  e ondulati;  attraeva  più  per  la  simpatia  che  suscitava  quando  parlava,  che  per  la  bellezza  dei 

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lineamenti. Era magra ma soda, due occhi piccoli e semicoperti, con uno sguardo sempre spaurito, come quello  che hanno  gli uccellini  indifesi, e questo  faceva  tenerezza  al  capitano. Era un  tipo stravagante nel vestire. Si sarebbe detto un tipetto in altri tempi.   Felicia nonostante le stravaganze, era una donna istruita. Sapeva leggere e scrivere e conosceva le  erbe medicinali:  consigliava  parenti  e  amici  come  alleviare  un mal  di  denti,  e  le  sue mani  massaggiavano    delicatamente  ogni  tipo  di  stiramento  muscolare.  Suonava  la  chitarra egregiamente, spesso intratteneva  parenti e amici con canzonette in voga allora.. Era sveltissima nelle faccende di casa. Come  il Capitano era sollecito nella partecipazione alla vita della Chiesa e delle sue manifestazioni, altrettanto non  lo era Felicia. Non che   fosse non credente, ma era più fredda.  Però, seguiva alla lettera i dettami della Chiesa in fatto di costumi, di comportamenti, di etica.    Una  bella mattina  Vincenzo  Carresi,  padre  di  Francesco, mandò  l’imbasciata  alla  famiglia  dei calarchi,  per  combinare  il  matrimonio.  Dopo  ampia  esposizione  delle    qualità  dei  rispettivi congiunti,  s’imboccò  la strada più difficile, che era quella della dote. Ma,  tra   persone di buona volontà, i problemi si superano sempre. Così l’accordo fu stipulato tra le famiglie.    In quegli anni  il matrimonio era  celebrato prima  civilmente, per  vincolare  la  ragazza all’uomo davanti alla società civile, poi con il rito cattolico, per vincolarli davanti a Dio. Solo dopo il secondo ufficio,  il matrimonio  poteva  essere  consumato.  Francesco  vincolò  Felicia  civilmente  il  4  aprile 1885,  poi  espatriò  in  Argentina;  l’idea  sua  era  quella  di  farsi  un  gruzzoletto,  rientrare    ed acquistare casa a Bagnara. Quelli  furono  gli  anni  d’oro  delle migrazioni  verso  l’Argentina  da  parte  delle  plebi meridionali. Sotto  l’incalzare  della  povertà  naturale  di  queste  aree  del  paese  e  la  crisi  agraria  di  fine diciannovesimo secolo, milioni di persone oltrepassarono l’Oceano.    Francesco Carresi rimase quattro anni  in quei posti, guadagnò  il suo gruzzolo e rientrò  in  Italia. Acquistò una casetta  lungo  la salita che portava alla   chiesetta del Rosario. Coronò  il suo sogno d’amore sposando Felicia  in Chiesa, e, nel dicembre 1890 nacque un maschietto che fu chiamato Vincenzo come il nonno. Vincenzo fu battezzato nel gennaio del 1891.       In  quella  casa  vi  nacquero  altri  sei  figli,  anzi,  sei  figlie  una  dietro  l’altra, mentre  il  capitano percorreva  i  mari  al  comando  di    velieri  che  facevano  spola  fra  Gioia  Tauro  e  i    porti  del Mediterraneo. Era costume allora fare partecipe il vicinato, sia nei lieti eventi sia in quelli luttuosi, e quando le figlie più grandicelle avvisavano i vicini del lieto evento,cioè della nascita di una nuova femmina, questi non facevano loro neanche gli auguri! perché vi era un detto antico: “i figli maschi come il miele, le figlie femmine come il fiele"!  Infatti, tante figlie femmine voleva dire tante doti da mettere assieme. Ma, Carresi non era tipo da scoraggiarsi:  “la  Provvidenza  divina  ci  aiuterà,  perché  non  abbandona mai  i  buoni  cristiani  !”. Questa giaculatoria  fu  il manto  con  il quale  il Capitano  si  riparava quando  le vicende umane  lo colpivano.  E  su  questo  sentiero  aveva  educato  tutti  i  suoi  figli.  Scuole  per  tutti;  poi  gli  uomini indirizzati al mestiere del padre; alle femmine il tradizionale ruolo casalingo: cucito, ricamo, lavare, stirare, delle perfette donne di casa; poi garbo, cortesia verso tutti, senza distinzione di classe, nel rispetto dell’amore di Dio e del prossimo.   Così crebbe  la  famiglia Carresi  fino a quel momento. Così avrebbe continuato a vivere, nella buona e nella cattiva sorte.     Ora  il povero capo famiglia era  lì, ancora stravolto dall’avvenimento, mentre teneva stretti a sé tutti i suoi figli, tra la polvere, il caos, le grida e i pianti delle persone salve e il  lamento dei feriti, osservando  dolorosamente  la moglie  che  da  quel momento  in  poi  rimase  col  sistema  nervoso scosso per sempre(sindrome da terremoto). Anni  ed  anni  di  sacrifici,  sogni,  illusioni,  distrutti  in  meno  di  un  minuto.  Nell’incoraggiare  la famiglia,  il suo pensiero andava al figlio Vincenzo,  in quel momento  in navigazione con  la tartana 

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“Morgantina”, che collegava Bagnara con Messina, carica di merce. Il capitano non sapeva ancora del cataclisma umano e geografico che aveva sconvolto la Calabria e la Sicilia, ringraziava Dio che a suo  figlio gli era  stata  risparmiata  l’inumana vicenda. Non avrebbe mai e poi mai  immaginato  il rischio  corso dall’equipaggio della  tartana.  In  fase di aggancio degli ormeggi del veliero anche  i marinai avevano udito quel pauroso e cupo rombo e, di colpo, una serie d’incendi  scoppiò in vari punti di Messina; a questo si era aggiunto una grande quantità di vapore acqueo provenire dalle profondità del mare, molto strane  in verità. Fu un’intuizione del Capitano della tartana quella di serrare la vela e prender più vento per allontanarsi. Poi si sentirono sollevare come un fuscello da un' ondata enorme, da una seconda e da una  terza, che andavano a schiantarsi con  fragore sui moli del porto di Messina completando  l’opera distruttiva  iniziata dal  terremoto e dagli  incendi, uccidendo coloro che si erano rifugiati verso il mare pensando di salvarsi.   Gli aiuti arrivarono con molto ritardo  (la storia si ripete sempre). A Bagnara  i senza tetto  furono migliaia,  trovarono  riparo  dal  freddo  pungente  di  quei  giorni,  sui  vagoni  ferroviari  bloccati opportunamente dentro le stazioni o utilizzando le poche case intatte. La solidarietà nazionale e internazionale fu straordinaria. Navi cariche di rifornimenti e medicinali raggiunsero  le  zone  terremotate,  dove,  intanto,  la  flotta  russa,  aveva  dato  i  primi  soccorsi trovandosi in esercitazione, sul mar Tirreno in quei terribili frangenti.  Il capitano Carresi considerava di cominciare daccapo,   ricostruendo la casa. Ma, fece i conti senza l’oste. Felicia,   alterata dall’evento, della sua casa crollata da rifare non ne volle saper nulla. E a nulla valsero le preghiere dei figli o i quarantotto anni suonati del marito.  Costretto  dal  sistema  nervoso  ormai  epilettico  della  moglie,  il  capitano  decise  di  trasferirsi, ricominciare una nuova vita a Gioia Tauro marina.    Gioia Tauro, per sua fortuna e dei suoi abitanti, fu risparmiata da questo spaventoso cataclisma: qualche edificio danneggiato, nessuna vittima. La cittadina, divenne  il punto nodale di stoccaggio di legname per le baracche o di generi alimentari, da distribuire ai terremotati. Il Carresi  acquistò,  con  l’aiuto dei  tanti  amici  che  aveva  a Gioia,  il  terreno dal demanio  con un finanziamento garantito da una legge dello Stato, ottenne legname Americano, e, da un falegname del luogo fece montare la baracca, voluta fortemente da Felicia in legno, che divenne la sua nuova abitazione.  Così  nell’estate  del  1909  la  famiglia  Carresi  lasciò  Bagnara  tra  le  lacrime  assieme  a tante altre famiglie colpite da identico destino.   

                

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   Un turista inglese, tale Edward Lear, così descrive il suo arrivo nei pressi di Gioia Tauro nel 1847: “Tutta  la parte bassa della sua grande pianura è celebre per  la malaria, così, sebbene  lo scalo di Gioia Tauro è  il centro di questo tratto molto fertile, dopo  i primi di maggio non è abitabile, e a luglio e ad agosto dormendo lì è quasi certa la conseguenza della febbre …………………..finalmente, continuando il nostro cammino, piccole ondulate alture coperte di querce e densi boschi ci hanno dato  il  presagio  che  eravamo  nelle  vicinanze  della  strada  maestra  da  Napoli  a  Reggio,  e attraversandola eravamo ben presto all’interno di Gioia, un  semplice villaggio  che  consisteva  in qualche deposito di olio e una grande osteria che era vicina al mare, Stella maris. Gioia è,  infatti, uno  dei  più  afflitti  paesi  malarici,  perché,  sebbene  il  commercio  dell’olio  è  considerevole  e numerosi  operai  trasportano  barili  da  ogni  parte,  queste  persone  provengono  dalla  adiacente Palmi, vengono al mattino e rientrano la sera.  Nel 1847 Gioia Tauro  contava  circa 900 abitanti. Nel 1909, all’arrivo dei Carresi  il quadro  stava cambiando, anche  se  lentamente, ma  in maniera costante e continua: vi  risiedevano circa 5000 persone. Gioia Tauro era un paese medioevale, arroccato su una collinetta a 29m s.l.m. aveva una  forma romboidale,  i  cui  vertici  lunghi  indicavano  rispettivamente  il  nord  e  il  sud.  Il  lato  nord  era  a strapiombo  sul  fiume Budello,  il pestifero  fiumiciattolo, che con  i suoi miasmi ammorbava  l’aria circostante,  in  estate  in modo particolare.  Lo  stesso pericolo mortale  era  in  agguato nei pressi dell’altro fiume il Petrace, il mitico Metauros, che circondava assieme al Budello il territorio gioiese in un abbraccio malevolo. Le vie del paese, come tutti i borghi medioevali erano strettissime, tanto da far passare appena un carro con i buoi quelle più grandi, e , come  in tutti i paesi medioevali, vi era un coacervo di vicoli bui, che s’intrecciavano gli uni agli altri,  larghi per appena una persona,  che sboccavano  infine nella piazza principale o sulla via di collegamento principale, chiamata via commercio, che attraversava tutto l’abitato declinando dolcemente verso il pianoro. Si accedeva al centro del paese  tramite  ripide  scalinate. Una volta questo paesetto era  circondato da  solide e spesse mura  con  le  sue  torri  di  avvistamento  elevate  in  punti  diversi  distanti    l’una  dall’altra:  segno che  il paese veniva assalito dai pirati saraceni,  in epoche remote, molto spesso. Di giorno era un brulichio di persone e di bambini che giocavano tra i vicoli; lungo la strada principale tutti quei panni stesi ad asciugare, sui balconi o a pianoterra, assieme a vestiti,  lenzuoli, sembravano tanti fantasmi svolazzanti da fare spavento e mossi dalla  brezza che veniva dal mare. C’era anche un puzzo insopportabile che impregnava l’aria intorno all’abitato, generato da cause  diverse. Non era  l’odore putrido delle acque stagnanti del  fiume: quelle case non avevano scarichi  fognari;  le varie  famiglie  del  luogo  preparavano  il  sapone  con  i  sottoprodotti  dell’olio  provocando  rigetti acquosi puzzolenti. Le cause che portarono alla crescita della popolazione gioiese furono diverse. Primo punto: l’igiene personale  e  ambientale.  La malaria  stava  per  essere  sconfitta  sotto  l'azione  di  diverse  sinergie messe  in atto dai governi centrali e  locali  (non  trascurando quello  fatto dai Borboni) che vanno dall’inalveamento del Budello, alla piantumazione di quantità rilevanti di eucalipti o cipressi o pini, piante che avevano la caratteristica di assorbire molta acqua dal terreno in cui vegetavano, la cui azione, quindi, prosciugava gli acquitrini, sede della zanzara anofele. A seguire  l’invenzione di un nuovo  preparato  chimico:  il  chinino,  che  diede  un  colpo  fatale  alla malattia.  Buon  ultimo, ma, certo  non meno  importante,  la  creazione  di  scoli  per  le  acque  stagnanti,  l'uso  di  pozzi  neri. Migliorando le condizioni ambientali, i lavoratori da avventizi divennero stanziali.    Gioia Tauro per  la  sua posizione geografica era  l’emporio della piana. Posta  sulle  rive del Mar Tirreno  al  confine  ovest  della  stessa,  cui  diede  pure  il  nome,  si  legava,  rispetto  ad  altri  lidi,  in maniera  dolce  alle  sponde  del  suo  mare:  si  raggiungeva  direttamente  senza  ostacoli 

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insormontabili. I carri a trazione animale potevano “senza gran fatica” portare le merci utilizzando una  serie  di  infrastrutture,  pronte  nell’area  gioiese.  Il  prodotto  notevolmente  più commercializzato era l’olio lampante prodotto in gran quantità nella piana dai frantoi.  Altri prodotti commercializzati e trasportati nel Mediterraneo con i velieri erano: legnami, grano, granone,  carbone  da  legna,  agrumi,  vino.  Lo  stoccaggio  dell’olio  lampante  era  fatto  in  grandi cisterne  verticali  poste    sottoterra un  po’  dappertutto  a Gioia  Tauro:  il  paese  era  cresciuto  sul vuoto quasi  totalmente,  tanto che  la città vecchia era chiamata, per questo motivo, Piano delle Fosse ma, anche la parte più moderna era altrettanto piena di fosse.  I proprietari di queste  cisterne erano  stranieri e  avevano  in mano  il monopolio del  commercio dell’olio; essi erano : 

1. Cisterne “Maurigoffe” una società olandese che edificò la struttura nel 1783 (da cui prese nome  la  salita,  che  poi  divenne  via  Trento).  Le  sue  cinquattotto  cisterne  potevano contenere 24000 quintali di olio. 

2. Cisterne Serra‐Cardinale (palazzo Musco) edificata nel 1700 circa. 3. Cisterne Gagliardi in piazza Mercato risalenti al 1780 circa. 4. Cisterne Averni di Genova in via Trento risalenti al 1780. 5. Cisterne Cordopatri in via Rimembranze del 1830. 6. Magazzini Gargano, Zaffiro, Gambardella, Pisani, risalenti al 1845 tutti in via Lomoro. 7. Cisterne Rossi salita Giffoni del 1845. 8. Magazzini barone Musco del 1800 circa, via De Rosa. 9. Magazzini Bianchi piazza della posata del 1850 circa. 10. Cisterne Starace via Roma del 1850 circa. 11. Cisterne Castellano via Roma del 1850 circa. 12. Cisterne Aloia via Roma del 1850 circa. 13. Cisterna Gargano via piccola velocità del 1835. 14. Magazzini D’urso via Torino del 1895. 15. Magazzini di via 24 maggio. 

   I  sopraelencati  gestivano  in  proprio  il  commercio  o  erano  rappresentanti  consolari  di  paesi stranieri. L’oro verde era utilizzato dalla maggior parte delle nazioni europee per  l’illuminazione pubblica. I  vice‐consoli  ebbero  in mano  il  potere  politico  oltre  che  economico  dell’area.   Molto  spesso costoro erano in lotta fra loro per la poltrona di sindaco o per quella di consigliere provinciale, tra questi: il cav. Briglia, il cav. Giffoni, il cav. Baldari,  il cav. Tripodi. Assenti sul piano politico ma non su quello economico i latifondisti nobili.  I nobili con sede a Gioia erano i Serra‐ Cardinale maritata Musco, il barone Cordopatri.    L’attività  di  trasporto  dell’oro  verde,  tramite  velieri,  era  curata  da  un’  efficiente  dogana, localizzata alla fine di via marina, scendendo, sul lato sinistro della spiaggia. I rapporti tra dogana, capitaneria  e  rappresentanze  varie  erano  gestite  da  agenti marittimi  e  spedizionieri  doganali: Tarantino, Sofi ecc. Gioia Tauro dipendeva dall’agricoltura della piana e questa dalle infrastrutture gioiesi per  la  loro commercializzazione. A complemento di tutto, una serie d'  impianti  industriali, localizzati  in  loco, chiudeva un ciclo di  trasformazione, con un elevato grado di verticalizzazione produttiva: nulla si perdeva di queste attività.   Si  fosse  trattato di olive, agrumi, uva o boschi di conifere, grano.     “ Scendendo lungo la sterrata via marina, a metà strada, era localizzata una raffineria costruita da una  società  straniera,  poi  diventata  Benedetto  e  C.  oleificio". Quasi  al  confine  con  la  spiaggia sorgeva  la distilleria   Cannizzaro.” I proprietari erano di Palmi. Questo  impianto produceva alcool etilico dai  residui della pigiatura dell’uva  cumulati davanti alla distilleria.  I  carri  tirati dai buoi o 

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muli provenienti dai vigneti della piana, scaricavano  il materiale di  fronte; poi carriole o carretti tirati da asini  lo trasportavano all’interno dello stabile e qui calato  in vasche di  lavaggio. Dopo  il lavaggio si procedeva ad una spremitura ulteriore con grossi torchi meccanici. Il liquido ottenuto si introduceva  nel  distillatore.  Un  procedimento  fisico‐chimico  forniva  nella  parte  inferiore  del distillatore  l’alcool  etilico.  Il  quale  era  poi  immesso  nelle  botti  e  venduto.  Ci  lavoravano  una ventina di operai  stagionali.     A sud della marina, tra  le  fine del XIX° secolo e  l’inizio del XX° secolo era sorto un altro grosso impianto di distillazione ad opera di una società barese:   Mazzurano. Questo  impianto  lavorava  i residui  della  spremitura  delle  olive:  la  sansa.  Tutti  i  frantoi  pianetini  vendevano  i  residui  alla società,  i cui   grossi cumuli si notavano sia dentro sia  fuori  l’impianto. Poi con un procedimento similare  a  quello  visto  per  l’alcool  etilico,  si  otteneva  l’olio,  che  in  questa  fase  non  era commestibile. Il  prodotto  era  caricato  su  grossi  vapori  e  trasportato  in  Sicilia  o  Liguria. Qui  subendo  ulteriori trattamenti, tagli e filtrature, l’olio diventava commestibile e venduto in Europa: il valore aggiunto per il commerciante si otteneva in questa fase. L’impianto occupava una quarantina di persone a pieno regime, poi diminuiva fino ad arrivare al massimo a dieci operai. Successivamente l’impianto fu acquistato dalla Gaslini S.A. di Genova, come l’ impianto similare sorto a ridosso della F.S.  Lato nord nei pressi del fiume Budello, accostato al boschetto di eucalipti, piantati dai “cuatti” al tempo dei  Borboni,  il  commerciante  campano  Andrea  Gambardella  aveva  montato  un  impianto  di sfarinamento  già  nell’ultimo  ventennio  del  XX°  secolo.  Produceva  farine  di  vario  tipo  che commercializzava lui stesso nella piana e oltre. Altra attività vigorosa era il cantiere navale che tra l’otto e  il novecento produsse parecchio naviglio di media grandezza e piccole  imbarcazioni.    Il cantiere era di dimensioni minori che non quello di Bagnara o di Messina, ma molto attivo. L’agricoltura  della  piana  alimentava  i  processi  produttivi  di  cui  sopra  ,  e  questi  generavano  un indotto  corposo  e  vario  di  attività  artigianali:  falegnamerie  per  botti,  segherie,  vetture  da trasporto, maniscalchi, fabbri, fiscolifici, maestri d’ascia, ramaioli, cordai, calafatari.                       

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   Il collegamento fra la marina e Gioia centro era composto da una lunga strada sterrata, che nel periodo  delle  piogge  diventava  impraticabile  anche  per  i  carri  o  i  traini,  creando  danni  alla principale attività economica della piana intera. Tanto che da diversi anni, gli imprenditori privati, commercianti, artigiani, armatori ecc. avevano espressamente chiesto al sindaco la sistemazione di quell’unico collegamento viario. “Nel 1905  il consiglio comunale deliberò di contrarre un mutuo con  la C.D.P. di ottantamila  lire “ ……………. e con il supporto fattivo e congruo della prefettura di R.C. …… ed il 25 novembre 1905 il prefetto visita  la via marina ……….. coadiuvando  il comune onde facilitare  il perfezionamento del mutuo”.    Come  sempre  l’ente pubblico  sopperiva  le necessità dei privati. Una vecchia  teoria economica affermava che il vero capitalista nasceva dal commercio, cioè, non era il proprietario dei mezzi di produzione, il proprietario terriero o l’artigiano, ma colui che acquistava il prodotto e lo rivendeva nei mercati più remunerativi.    Le  imprese  commerciali  private  pur  traendone  le  maggiori  ricchezze  non  contribuivano  al sostegno delle spese necessarie per asfaltare la strada (siamo in regime liberale). Finalmente  nel  1908  quella  vitale  arteria  di  collegamento  fu  asfaltata  con  lastroni  lavici, provenienti  dalla  Sicilia  e  trasportati  dai    velieri.  La  capitale  della  industria  olearia  e,  più  in generale, del commercio della provincia, attivava un consistente giro finanziario che costituì una delle risorse economiche della regione principali.        Anche la pesca era importante nell’economia gioiese. Bastava recarsi sulla spiaggia lato Budello per  notare  una  variopinta  quantità  di  barche  da  pesca  di  grandezza  variabile:  rinchie,  luntre, buzzetti, paranze, iole. Ognuna  di queste barche apparteneva, in genere, ad un gruppo familiare. Le paranze avevano un equipaggio con al comando un padrone marittimo.   Le prime,  le piccole, erano barche a remi, le altre a vela. I pescatori, a forza di braccia andavano a pescare al massimo entro due miglia; in luoghi più distanti ci arrivavano con le vele. La barca era  il  loro sostentamento, assieme agli usuali strumenti per  la pesca:  le reti, a paranza, ragno, strascico, giacchio, lampara, tramaglio, conso, “rizzilli” ecc. , ed essa veniva badata, curata come  persona  di  famiglia. Nei  giorni  di  ferma  il  pescatore,  che  era  il medico,  la    visitava    per riscontrare eventuali malattie: controllava il fasciame battendo con una mazzetta per ascoltarne la risposta.  Un  eco  del  legno  diverso  poteva  significare  una  qualche  lesione.  Toglievano  con  un raschietto quella barbetta dovuta all’acqua di mare o pitturavano  la poppa o  la prua. Mentre un membro della famiglia svolgeva questo compito, un altro apriva la rete sulla spiaggia e riparava la lacerazione provocata durante qualche  calata  in mare. Alcuni di essi avevano un abbigliamento particolare  che  si  tramandava  da  secoli:  cappellino  formato  basco  di  cotone  spesso,  ed  un maglione intrecciato in modo particolare dalle loro donne con i ferretti, pantaloni alla zuava, però stretti  ai  ginocchi  e  non  usavano  scarpe:  chi  li  osservava  avrebbe  potuto  supporre  che  non usassero calzature perché sempre con i piedi in acqua: non era un accorgimento tecnico, ma una questione  di  povertà.  Allora  le  disuguaglianze  di  classe  erano  visibili  ad  occhio  nudo,  chiare, distinte:  il loro aspetto esteriore; i poveri svestiti, scalzi, sporchi con il cappello in mano; la piccola e media borghesia curata e vestita discretamente;  la nobiltà terriera o  i ricchi borghesi, eleganti con bastoncino, cappello, scarpe in suola o stivaloni, giacche di lana pettinata, carrozze ecc.      I pescatori, come i contadini, seguivano il ritmo delle stagioni per la loro attività: il periodo delle alici, della neonata, dei tonnetti, delle seppie,  per questo usavano varie reti o lenze o arpioni o la lampada a cherosene o petrolio per le aguglie. 

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Con il mare, la spiaggia, le barche, i pescatori, formavano una cosa unica: ci vivevano, ci facevano igiene (quando la facevano), i loro bisogni. “La marina conosce i miei passi” diceva padron ‘Ntoni ne i “Malavoglia” di Verga; la spiaggia gioiese conosceva ogni parte corporale dei pescatori .    Cresciuti  in un ambiente che  sembrava non cambiare mai, non  istruiti perché  troppo poveri e troppo attenti a sopravvivere, vendevano il frutto del loro lavoro o lo conservavano sottosale.   Quando  la  pesca  era  buona  le  donne  dei  pescatori,  femmine  dalla  forza  fisica  eccezionale, sistemavano  la  cesta  di  vimini,  ed  urlando  come  ossesse  attiravano  i  potenziali  compratori  o portavano il pescato alla vendita in piazza municipio, a piedi e con le caratteristiche saie.  Molto spesso, specie  in  inverno,  il maestrale  impediva  loro  l’attività  lavorativa.  I pescatori, con  i volti  induriti dal  sale,   osservavano,  lungo  la  spiaggia dove  la  sera prima avevano  tirato  in  su  le barche  presagendo  l’arrivo  della  burrasca;  i  cavalloni  che man mano  si  avvicinavano  alla  riva crescevano  sempre  più,  e  sbattendo  sul  bagnasciuga,  sollevavano  spruzzi  e  schizzi  bianchi  che trasportati dal vento colpivano  i  loro visi; poi, mentre  l’acqua schiumante si ritirava, ecco che un altro cavallone gli si sovrapponeva in un continuo e crescente rincorrersi come fosse un gioco. Per un’antica  tradizione,  conosciuta  molto  bene  anche  a  Bagnara,  quando  il  mare  impediva  ai pescatori di esercire  la  loro attività, essi, muniti di chitarre cantavano canzonette di “sdegno” o “d’amore” lungo le vie della marina, addolcendo la giornata di lavoro perduta .     Qualche sciocco ignorante sosteneva che gli uomini fossero vagabondi, mentre le loro femmine lavoravano: il classico luogo comune. Esse si davano da fare perché,  per il tipo di lavoro gli uomini erano sempre assenti dalle loro case, per cui le donne erano obbligate a fare tutto: figli, cucinare, vendere  e,  se  necessario,  menavano  certi  schiaffoni  da  abbattere  un  toro.  Ma  era  gente poverissima, abitavano in baracche di legno nei pressi della spiaggia. Avevano famiglie numerose, ma con un alto tasso di mortalità. I loro piccoli erano sporchi e laceri con dei pantaloncini corti e forniti di un taglio centrale nel posteriore per facilitare i loro bisogni. Infatti non usavano mutande. Quando  il  mare,  per  troppo  tempo,  non  permetteva  ai  pescatori  di  procurarsi  del  cibo,  si rivolgevano  agli  enti  parrocchiali,  allora molto  numerosi  per  la  gran  quantità  di  affamati,  o  a qualche  famiglia generosa.  La  casa del  capitano Carresi e dei Gambardella, divenne un  incrocio obbligato  quasi,  per  questa  gente  così  povera.  E  con  quello  spirito  che  distingue  il  cristiano, l’amore verso  il prossimo,  la generosa  famiglia Carresi  li aiutava, donando cibo, vestiti dismessi, consigli  igienici (tanto che donna Felicia ai  loro neonati toglieva  la  ianca);  in caso di malessere  la stessa Felicia era il loro medico personale nell’attesa che arrivasse il vero medico.     La  marina  lato  Petrace  era  abitata  dai  “parmisani”,  gli  originari  di  Palmi,  che  ,  dopo  i miglioramenti  igienici, si stabilirono definitivamente  in  loco. Era una classe sociale appartenente alla media  piccola  borghesia  armatoriale  e  artigianale. Questa  zona  della  spiaggia  era  piena  di velieri  in secca per  lavori di manutenzione, posti uno di  fianco all’altro con  i grossi ganci  laterali che bloccavano il veliero al “palo”. Si notavano a distanza con  i  loro altissimi alberi ed  i pennoni con  le vele  in campana raccolte ed agganciate  alle  corde;  si  distinguevano  diversi  tipi  di  naviglio,  differenti  per  velocità,  stazza,  distinguibili dalla vela o dal numero di alberi: golette, brigantini, tartane, cutter,  feluche. Davanti allo specchio di mare antistante i magazzini di stoccaggio borbonici, sostava il naviglio attraccato a boe d’ormeggio e pronti a caricare, ripartire ovvero scaricare merce varia. Più  lontano si notava qualche piroscafo, di  stazza molto più grande, con  il  fumo che uscendo dal  fumaiolo  si perdeva nell’aria.         Operavano,  allora,  tanti  armatori  locali,  in  gran  parte  bagnaresi,  palmesi,  siciliani, genovesi.  

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La  famiglia Patamia di Bagnara; Gentile; Albonico; Purrone; Alessio Pasquale; Alessio Antonino; Auteri; Longo; La Capria, Costa e lo stesso capitano Carresi Francesco socio per vari carati.    L’infrastruttura marinara era utilizzata soprattutto per esportare botti di olio. A seguire legname, granaglie, carbone, botti di vino ecc. o per  importare merci per  i grossi commercianti campani o pugliesi  o  siciliani: Achille Normanno,  S.re  Proto, Matteo Anastasio, Aloia,  Corvo, Gambardella, Gargano, Pisani, Vissicchio, che rivendevano a tutta la piana.     Tra la fine del XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale, su stime fatte dai giornali del tempo (Il tartarin) si fermavano, per carico o scarico, nella rada,  oltre 500 velieri all’anno, senza contare i piroscafi ed  i  legni  locali di piccola stazza. Un movimento ben più  importante che Reggio o Vibo (allora Monteleone):  “Ci fosse stato un semplice pontile d’approdo, l’attività si sarebbe raddoppiata”. Questo pensava il capitano Carresi quando dal suo veliero osservava quel movimento di navi e genti. Fosse vissuto qualche anno ancora  il suo  sogno  l’avrebbe visto  realizzato nel 1950, quando non serviva più a nessuno. Esiste a questo proposito un nutrito carteggio fra la camera di commercio di Reggio Calabria ed il ministero dei lavori pubblici fin dal 1874, dove si “pietiva” la costruzione di un pontile d’approdo e, se i costi fossero troppo alti, almeno due boe d’ormeggio.     Ma i politici reggini riuscirono a far costruire il porto  a Reggio Calabria e non un misero pontile d’approdo  a Gioia  Tauro,  centro  di  grandi  attività  economiche  al  servizio  dell’intera  provincia. Ancora  una  volta  si  era  persa  l’occasione  buona  per  decollare. A  dimostrazione  della  notevole attività  economica  dell’area  si  annotava  presso  la  camera  di  commercio  di  Reggio  che  le falegnamerie gioiesi riuscivano a sfornare 18 mila  botti   all’anno di media.          Quell’anno  l’armatore La Capria  riarmò  il veliero “Nuova Antonietta” affidandone  il comando al Carresi. Nel  settore marinaro,  allora, non esistevano  contratti di  lavoro:  il  rapporto  si  stipulava personalmente  (per  la  verità  era  così  in  tutti  i  settori  economici):  si  faceva  la  proposta, l’accettazione, una stretta di mano e  il contratto era  fatto, salvo  il passaggio presso  l’unico ente pubblico che c’entrava al momento, la capitaneria di porto per il timbro sul libretto di navigazione. Carresi effettuava viaggi da Gioia Tauro a Salerno o ad Amalfi. E da uomo attivo e forte qual’era, al ritorno, si concedeva alle gioie dell’amore. La coppia pensò che fosse sicura dai rischi di una nuova gravidanza. Ma, come è il detto “tanto tuonò che piovve!” un bel giorno Felicia telegrafò al marito  annunziandogli la nuova      gravidanza.     “Perdinci!” ‐ esclamò il capitano stupito ‐ “Signore ti ringrazio per questo, ma … spero che non si tratti di un'altra femmina! In ogni caso dove mangiano sei mangeranno sette.” Come se il buon Dio avesse  sentito  la  sua  preghiera,  Felicia  partorì  un maschietto.  Il  parto  fu  felice, ma  il  piccolo nacque  gracile  ed  era  sempre malaticcio  e  prima  che  fosse  battezzato  fu  colpito  da  paralisi  al braccio  sinistro:  rischiò  di morire.  Il  capitano  informato  continuamente  dalla  figlia  Carmela  si struggeva  da morirne.. Nei momenti  più  bui,  quando  il mondo  sembrava  gli  crollasse  addosso, Carresi alzava gli occhi al cielo e si affidava alle misericordiose braccia di Gesù. Si  recava  in una qualunque chiesa e pregava. Quel giorno mentre vagava a Napoli in preda allo sconforto, entrò in una chiesa, bagnò le dita nell’acquasantiera e girando gli occhi si trovò davanti alla statua di S.Ciro. S’inginocchiò e pregò:  “S.Ciro,  tu  che  stai  al  cospetto del  creatore,  ti prego  intercedi  tu per  il mio piccino,  che possa salvarsi. Ascolta questo misero peccatore avvilito ……..  io  ti prometto:  se  la  tua  intercessione  lo salverà  lo battezzerò  chiamandolo  in  tuo onore Ciro!”  Il bambino  si  salvò. Dopo  la  conferma di Carmela, il capitano telegrafò ordinando di chiamarlo Ciro.       Durante il periodo estivo, ad ogni viaggio che il capitano compiva verso la Campania o la Sicilia, portava con se a turno, una delle figlie. Le ragazze a bordo osservavano con curiosità e meraviglia 

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le operazioni di carico del veliero: notavano che i velieri più grossi venivano raggiunti da una serie di barche con al  traino  le botti di olio da caricare. Due marinai del veliero, quando  la barca era sotto bordo, agganciavano le botti con funi e tramite un paranco manuale sollevavano la merce in coperta e la sistemavano in modo opportuno. I velieri più piccoli, invece, si avvicinavano alla riva e tramite  una  passerella  in  legno,  gli  operai  caricavano  le merci,  che  poi  l’equipaggio  sistemava sottocoperta.  Una  volta  effettuate  le  operazioni  di  carico,  si  aspettava  la  sera  per  partire.  Ci potremmo dilungare molto nel discorso sull’attività portuale del  tempo di cui  raccontiamo se  lo paragoniamo ipoteticamente all’attuale: i containers o contenitori, forse, non sono una invenzione moderna, ma abbastanza antica, basta tener conto del fatto che spesso nelle botti s’introduceva non solo olio o vino o alcool etilico ma pure grano o farina. Le ragazze, molto curiose, chiedevano al loro papà perché si dovesse attendere la sera. Il capitano spiegava loro che si “alzava” il vento di terra, il quale permetteva al veliero di muoversi. Infatti ad una  certa ora della  sera,  il  “segnavento”  si  tendeva ed  il  capitano dava  gli ordini necessari alla partenza: il nostromo al timone, i marinai addetti alle vele le scioglievano, dopo che il veliero era stato sganciato dalla boa d’ormeggio; uno dei marinai accendeva due  lumi a petrolio a prora e a poppa, si suonava  il campanone  in segno di saluto. Poi sotto  la forza del vento di terra  le vele si gonfiavano ed il veliero acquistava velocità.  “Prua  a  Capo  Vaticano,  nostromo  !  Rotta    nord  !”.  Capo  Vaticano  aveva  un  faro  illuminato  a petrolio. Le  ragazze al  rientro,  raccontavano alle amiche o ai vicini, ancora con gli occhi pieni di meraviglia mista ad orgoglio, quello che avevano visto nelle grandi città. Le automobili in strada o i tramvai che circolavano su piccoli binari come quelli del treno, trasportando numerose persone; le vetrine dei  grandi negozi  illuminati del  centro;  le  tante   persone eleganti  che passeggiavano  in strada o seduti ai tavolini dei bar.  

                         

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   D’inverno le ragazze conducevano la vita semplice di un piccolo paese del sud. Si davano da fare in casa, specie ora con il nuovo arrivato che aveva bisogno di tanta attenzione e cura. La domenica e le feste comandate, tutte insieme si recavano alla S.Messa, che si celebrava a Gioia nella chiesa madre al “Piano delle fosse”, il centro storico.  La  chiesa  era  posta  di  fronte  al  grande  magazzino  di  Don  Achille  Normanno,  commerciante campano,  ottimo  amico  del  capitano  Carresi.  Prima  di  avviarsi  donna    Felicia,  faceva  le  solite raccomandazioni alle figlie: come un maresciallo: “Tenete gli occhi bassi, salutate educatamente, poi  testa giù!”             Ella era  talmente  insistente, pervicace, esagerata con queste raccomandazioni, che  le  figlie più grandicelle scimmiottavano  la loro mamma, divertendosi per le risate.  “Perché pure guardando si fa peccato … e allora  lo dovete confessare !” diceva categoricamente Felicia.    Ma  lei    aveva,    un motivo  valido  per  ripetere  sempre  quelle  cose:  non  era  solo  un  aspetto culturale, ma aveva notato che Fortunata, la primogenita, quando passava davanti la falegnameria di mastro Peppe Orlando o sulla piazzetta di  fronte alla distilleria Cannizzaro, era solita girare  la testa a 180° per guardare  insistentemente   un bel  ragazzo biondo    con gli occhi  chiari di nome Francesco.  Era  costui  figlio  di  Maria  Minutolo,  rimasta  vedova  in  giovane  età  e  Francesco Caratozzolo  deceduto  in Argentina.  Felicia  di  cognome  andava  Patamia  e  il  Patamia,Francesco, erano primi cugini.   

    I  coniugi  Caratozzolo  erano  emigrati  in  Argentina,  dopo  essersi  sposati  prima  civilmente nell’anno 1885 e, subito dopo, col rito di Santa Romana Chiesa. Poi, da Messina, assieme a tanti emigrati,  lasciarono  l’Italia. Il padre di Francesco, Tommaso,  il viso rigato di  lacrime, alla richiesta di Francesco: “Beneditemi padre!” rispose, come di consueto: “Ti benedico figlio!” e fece il segno della  croce  sulla  sua  fronte.  Non  era  sicuro  che  lo  avrebbe  rivisto; ma  Tommaso  pensava,  da vecchio, alla propria morte, non a quella del figlio Francesco. E non lo rivide più veramente.     Francesco, quando decise di emigrare, era avanti negli anni  (32). Fino ad allora aveva  lavorato per  la famiglia; nel sud si ha  l’obbligo culturale e morale di far sposar prima  le sorelle, solo dopo  gli uomini si potevano ritenere  liberi. Se poi  le sorelle erano bruttine, si correva  il rischio che gli uomini  invecchiassero,  e  rimanessero  “zitelli”. Comunque  fosse,  la  paga  bassa,  la  vita  dura  del mare,  le  notizie  provenienti  dall’Argentina  sulle  ricchezze  da  sfruttare,  lo  spinsero  a  lasciare Bagnara per un futuro migliore. Ma voleva trovare una moglie nel suo paese d’origine, per seguire il  detto:  “Moglie  e  buoi  dei  paesi  tuoi”. A  parte  l’età  Francesco  Caratozzolo  era  un  bell’uomo: capelli  castano  chiari,  divisi  a metà,  occhi  azzurri  e  baffi  alla  siciliana. Abile marinaio,  deciso  e coraggioso,  era  una  soddisfazione  vederlo  guidare  la  barca,  alla  barra  del  timone.  Il  padre Tommaso  gli  indicò  una  ragazza  di  circa  vent’anni: Maria Minutolo.  Originaria  di  Siderno,  era orfana di entrambi  i genitori. Una zia materna residente a Bagnara si era  incaricata di accudirla. Era il tipo adatto a lui, pur senza dote:  era un’ottima sarta, e ciò bastò a Francesco per chiedere la sua mano. Malgrado  la differenza d’età, Maria  accettò di buon  grado  il matrimonio:  avere una famiglia, un  futuro  sicuro  sia pure  lontano da Bagnara  era per  lei, povera orfana,  l’inizio di un sogno;   sposarsi avere dei figli. Questo pensava Maria, mentre  la nave a vapore si staccava dalla banchina del porto e si allontanava fino a diventare un punticino nell’azzurro  del mare. Il vapore li stava conducendo, con un biglietto di  terza classe, verso  la  lontana Argentina. A Buenos Aires  i coniugi tramite  il Consolato  italiano e, con  l’aiuto di parenti e amici, trovarono casa  in un grosso rione  della  città:  Palagonissa. Nel  giugno  del  1888  nacque  la  primogenita Giuseppina.  Intanto, 

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Francesco forte della sua esperienza di marinaio, si era inserito bene nell’ambiente della pesca, in quell’insenatura dove l’acqua dolce incontra l’acqua salata: Il Rio de la Plata e l’oceano Atlantico. Dopo l’impresa del capitano Fondacaro e del suo equipaggio la reputazione dei marinai italiani era cresciuta notevolmente.  In seguito a Francesco  fu affidato  il comando di un peschereccio. Era  il 1891. Alla nascita del secondogenito il 26 marzo avvenuta nel quartiere Barrio di Buenos Aires, la sventura si abbatte’ sulla famiglia Caratozzolo: durante un fortunale,  il peschereccio affondò con tutto  l’equipaggio. Francesco aveva seguito  lo stesso amaro destino del fratello Rosario perito  in mare in un simile incidente.    Maria Minutolo, dopo essere rimasta da ragazza, orfana dei genitori, si trovò ancora sola, con a carico due  figli piccolissimi. Rientrò  in  Italia per  il  tramite della Società di Patronato e Rimpatrio per gli  immigrati  in Argentina:  la stessa organizzazione che  li aveva portati  lì,  li riportava  in Italia, senza un avvenire certo. L’ultimo nato fu battezzato e chiamato come suo padre Francesco e non come  il  nonno  Tommaso.  I  lucciconi  nei  suoi  occhi  addolorati,  delusi,  si  vedevano  da  lontano mentre la nave si avvicinava al porto di Messina: quando partì pianse di gioia e di speranza per un futuro migliore, questa volta per  il marito annegato,   un futuro  incerto e due piccolissimi figli da  far  crescere.  Fu accolta con affetto dai parenti di Bagnara.    In  quegli  anni  la  sorella  di  Francesco, Anna  ,  aveva  sposato  Francesco  Patamia  l’armatore  ed abitava già a Gioia. Anna prese con se Maria e  i suoi due  figli e  li portò a vivere con sé, dove  la flottiglia del marito faceva capo. La famiglia Patamia risiedeva in una casa lungo via marina. Vicino a codesta casa vi era il forno della signora Ventre sposata Scarcella, un uomo di Palmi stabilitosi a Gioia.     Maria  aiutava  la  cognata  Anna  nelle  faccende  domestiche  e  nello  stesso  tempo,  da  sarta provetta lavorava per gli altri. Gran parte del suo lavoro di sarta consisteva in vestiti da rivoltare. Spesso  le  veniva molto  difficile  farlo  perché  erano  vestiti  già  rivoltati  varie  volte. Guadagnava qualcosa ma riuscì a mandare i figli a scuola, Francesco il secondogenito imparò pure a suonare il mandolino.   I tempi erano difficili veramente. Il basso ceto ne soffriva di più.  I giornalieri agricoli, al mattino presto, si fermavano in piazza della Posata, si mettevano in fila con gli  stracci che avevano addosso ed un  fazzoletto con dentro un pezzo di pane  raffermo  (quarta classe ) ed al massimo un pezzetto di formaggio. Poi, subito dopo, arrivava il nobile o il suo fattore (meglio  caporale)  e  passando  in  rassegna  quei  poveracci  come  fossero militari,  sceglievano  la gente  da  assumere  per  quella  giornata  di  lavoro  nei  campi.  I  più  forti  venivano  caricati  su  un carretto ed avviati,  i più deboli e macilenti venivano scartati. Maria percorreva  la strada che da casa Patamia portava  a piazza municipio  (o  tre  canali) per  acquistare  verdura  e  frutta.  Spesso, mentre  si  trovava  in mezzo  a  quel  via  vai  di  gente  e  di  sporte  piene  di  roba  ed  il  vociare  dei venditori  che  si  sommava  al  raglio  degli  asini  legati  a  dei  grossi  anelli  al muro  di  fronte  alla piazzetta (la pescheria), ecco che spuntava il banditore. Questi con voce stentorea dava notizie di qualche avvenimento nazionale o notizie riguardanti il comune stesso: apertura di scuole, tasse, o altro. Così si avvisava  la gente, a quei tempi, non essendoci giornali di uso comune, e per il tasso elevato di analfabetismo. Quella mattina il banditore avvisò che i reali carabinieri avevano sparato sui  socialisti  “sovversivi”  che  avevano  scioperato  e  che  volevano  assaltare  la  prefettura, uccidendone parecchi: “Che è successo?” chiedeva Maria spaventata a Natalina “faccia di gallina”. Questa rispondeva:  “Dice che i carabinieri sono stati ammazzati dai socialisti mentre stavano in prefettura assieme!” ‐ “No!” riprendeva Rocco “panzazza”:  “I carabinieri hanno sparato ai rivoluzionari!”. 

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 “Gesù mio!”‐ esclamava  la  “ciciarara”‐ E  ci  sono  stati morti?”.  “Non ho  sentito bene!”  ribadiva Concetta.  Così  tra  un  vociare  confuso  di    spavento  e  i  gridolini  delle  donne,  il  cavalier Giffoni gridava dal predellino della sua carrozza:  “Così si trattano i sovversivi socialisti … bisogna prenderli a fucilate ! Che cosa vogliono? Che uno si spogli della propria roba, sudata, e la divida con gli altri? Tutto in comune? Pure la moglie? Questi senza Dio, così bisogna trattarli!”  E mentre arringava, osservava la gente intorno, per notare se approvassero o meno la sua sfuriata, naturalmente c’era  l’unanimità. E riprendeva a parlare mandando fendenti con  il suo bastoncino nell’aria del mattino. E mentre il cavaliere ripartiva con il suo bel calesse la gente cercava di capire le parole del banditore e del cavaliere. “Ma che vogliono questi socialisti?” domandava “faccia di gallina”. Teresa “la narda” rispondeva:  “Mio marito mi raccontava che se uno ha due galline, una la deve dare a chi non ce l’ ha ! e se ha due baracche una la deve dare sempre a chi non ne ha”. Rosa “mussuni” toccata nel vivo con la storia delle galline strabuzzava gli occhi e ribadiva :  “che nessuno si avvicini a casa mia ! Le galline sono mie e me le tengo !” Maria, ironicamente, ribatteva:  “Si, commare Rosa, però bisogna dividere pure la fame a mio parere!”  Poi con la borsa di paglia piena rientrava a casa.     Lungo  via  marina,  all’angolo,  nei  pressi  della  distilleria  Cannizzaro,  vi  era  la  bottegha  del falegname mastro Peppe Orlando, ereditata dal padre Paolo e originario di Palmi  che all’epoca aveva ventuno anni. Costui, ogni giorno, al passaggio di Maria Minutolo si faceva trovare sull’uscio della  bottega  e,  con  modi  gentili,  la  salutava  .  E  lei  rispondeva  tranquillamente  al  saluto, abbassando con pudore gli occhi. Tutti i giorni.     Mastro  Peppe,  con  astuzia  volpina,  aveva messo  due  specchi  sulle  ante  della  finestra  della bottega,  che  s’apriva  verso  l’esterno.  In  quella  posizione  strategica  osservava  la  gente  che  vi passava. Quando adocchiava l’arrivo di Maria, si toglieva il cappello e la giacca piena di segatura e si  fermava  sull’uscio della  sua porta,  sciogliendosi  in brodo di giuggiole. Dapprima Maria non  ci fece caso, pensava:  “E’ un vicino e mi saluta educatamente; nei paesi, si sa, ci conosciamo tutti ….”. Cominciò a sospettare quando Mico “pane di granu” e sua moglie Ciccia,  intrattenendola con  la scusa di un vestito da far aggiustare, tiravano fuori discorsi tipo:  “Donna Maria la vita si fa dura: è difficile vivere da soli con quello che si vede e si sente in giro: tra socialisti, delinquenti. Io avrei paura a vivere sola”. Maria li guardava divertita e dava loro corda: “Ma  io  non  sono  sola,  ho  due  figli  a  cui  badare … Ma  ditemi  una  cosa  comare  Ciccia,  avete qualcosa da dirmi? Dove volete arrivare?” Questa volta Mico “pane di grano” s’intromise  dicendo:  “Avete ragione comare Maria, mia moglie parte sempre dalla creazione del mondo per dire una cosa:  il  fatto  è  che mastro  Peppe Orlando,  il  falegname,  ottima  persona,  seria,  onesta,  e  gran lavoratore essendo  solo e voi  siete  sola … “ e  fece un gesto  inequivocabile, come dire: unite  le solitudini…… “Basta così compare Mico. Io ho già due figli a cui badare, loro sono la mia passione e il mio futuro, il  mio  unico  amore  !”.  Chiudeva  così,  garbatamente,  la  discussione  e  le  parole  non  dette sottostanti. Ma non poteva fare a meno di pensare a quanto le avevano proposto, i vicini.  “D'altronde sono ancora giovane.” A chiusura del discorso comare Ciccia ripeteva:  “Comunque, donna Maria se avete bisogno di qualcosa, siamo qui: che “è meglio una mala matina che una mala vicina!”.  

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Ciò che impediva a Maria di considerare realistica la faccenda, era l’età di mastro Peppe: lei aveva 2  figli e  trentanni  suonati,  lui una ventina di anni. Allora questa differenza d’età  tra  i potenziali sposi era ritenuta scandalosa, specie se vi erano di mezzo due figli  di un altro.     In  tutti  i paesini del  sud  come Gioia, negli anni di  cui  si parla,  si andava molto presto a  letto. Maria coricava  i figli, e, dietro  le  loro  insistenze recitava una preghiera di devozione a Maria, che essa aveva imparato da bambina:  “Eu mi curcu ‘nta stu lettu cu’ Maria ‘nta lu me pettu, eu dormu e idda vigghia, se ‘ndaiu bisognu mi risvigghia; mi cumbogghia cu so’ mantu, patri, figghiu, spiritu santu. E va curcati e riposa, non pensari a nudda cosa. A li cosi di la chiesa, comunioni, confessioni, ogghiu santu, patri, figghiu, spiritu santu ! Bona sira santa cruci, chi di rosi siti ornata E Gesù fu misu in cruci, bona sira santa cruci. Bona sira, mia madonna, di lu cielu siti colonna, di lu cielo siti regginan e vi dassu la bona sira e vi dassu la santa notti,  saluti ai vivi e rifriscu a morti. E comu ’ndi benedicistivu a santa iornata, se possibili, benedicitindi a santa nottata.” 

    Addormentatisi  i  figli, Maria  completava  qualche  lavoretto.  Poi  stanca  spegneva  il  lume  e  si apprestava a dormire. Da quella notte, dopo  il dialogo con  i vicini, e per tutte  le notti, Maria era svegliata da una serenata che un  innamorato cantava alla sua bella. “Ohi Marì, ohi Marì, quanto suonno ca perdo pe te … “  Una mattina mentre, assente la cognata e i suoi figli, mastro Peppe piombò a casa di Maria. Lei si vide un uomo con il cappello in mano che emanava un forte odore di legno:  “Buongiorno Donna Maria. Se mi date  licenza di parlare, sarò breve … perché sono un uomo di fatti e non di parole. Perché di parole per dirvi ciò che provo per voi, ce ne vogliono poche. Ciò che provo per voi lo testimoniano le mie serenate o il cuore che mi batte come un tamburo quando vi vedo passare. Vi prego ascoltatemi fino alla fine. Non posso aspettare più. Sono un uomo semplice e non chiedo molto alla vita, se non una donna da amare e avere dei figli … se  i figli arrivano va bene … se no due li abbiamo già e bastano.” Maria rimase stupita dalla repentina e decisa dichiarazione di mastro Peppe. Ma si riprese subito:  “Mastro Peppe ma io sono più vecchia di voi … potete trovare una donna più giovane … “ “Questo vi fa capire quanto vi ami … mi metterò contro tutti e tutto per la mia e la vostra felicità !” E così fu, dopo una lunga lotta con i suoi genitori mastro Peppe la spuntò e convolarono a giuste nozze. Da  questo matrimonio  nacquero  altri  cinque  figli:  Paolo,  Carmela, Antonino,   Giovanna, Giuseppe. Il primogenito di Maria,  Francesco  figlio di  F.sco Caratozzolo,  suo primo marito, dopo  le  scuole elementari, si dedicò alla stessa attività dello “zio” Peppe Orlando e diventò ben presto un bravo ebanista.  Ma  era  un  tipo  particolare:  libertario,  odiava  le  camicie  di  forza,  superbo,  gran bestemmiatore, irascibile, affabile, con una voglia di ciliegio sulla mano destra. Da giovanotto, l’età 

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in  cui  il mondo  sembra  si  possa  prendere  con  una mano  e  infilarlo  in  tasca,  per  una  sorta  di reazione psicologica alle  ingiustizie e disuguaglianze allora esistenti, manifestava    idee socialiste . Ma non si rendeva conto che più che socialisteggiante   era  libertario(anche perché  i suoi parenti Patamia erano di verso opposto).   Era, anche, un giovane  ricco d’iniziativa. S’inventava disegni ornativi da  stampigliare a  fuoco  sui mobili; generoso ed altruista,  geloso, come la cultura del tempo “pretendeva”: ognuno al proprio posto,  l’uomo al  lavoro,  la donna  in casa. Quando  le  sei  sorelle Carresi più  il maresciallo Felicia passavano  davanti  alla  falegnameria,  inevitabilmente  gli  sguardi  tra  Fortunata  e  Francesco s’incontravano.  E  pur  conoscendosi  bene  le  due  famiglie,  per  via  della  parentela,  tra  essi  non correva buon sangue, ma si salutavano rispettosamente. Francesco, quando la vedeva arrivare, si metteva  sull’uscio  e  con  fare  gentile  le  salutava.  Il  maresciallo  Felicia  rispondeva  per  tutti: “Buongiorno!”, e via di corsa. Nonostante  la  severità  di  Felicia,  Fortunata  era  attratta  irresistibilmente  da  quel  ragazzo  che sembrava un vichingo, alto, magro, sempre   elegante, con  il baffetto alla siciliana e  l’aria  ironica, da guascone.  Ogni  sera  puntualmente,  la  famiglia  Carresi  si  recava  alle  funzioni  in  chiesa  per  il  rosario  e  la benedizione  .  Così  faceva  Francesco  altrettanto  puntualmente.  In  un  piccolo  paese,  il corteggiamento  di  una  ragazza  di  buona  famiglia  non  potava  passare  inosservato,  tanto  che l’amplificatore umano trasmetteva la notizia e la ingigantiva a dismisura .  Quando la voce arrivò a Maria, madre di Francesco,  ella  proibì al figlio di corteggiarla.  “Ti proibisco di andare appresso alla figlia di Carresi!  “E per quale motivo?” rispondeva lui risentito. “Sono sei femmine da sistemare, non otterrai una lira di dote. E poi, ricordati che hai una sorella nubile da sposare! “A me  interessa  la ragazza e non  la sua dote  !” e se ne andava piccato: per quella sera avrebbe dormito in falegnameria. Le  vie  della marina,  allora  un  piccolissimo  borgo,  erano  illuminate  da  qualche  raro  lampione  a cherosene posto qua e la. Ma tutto sommato scarsamente illuminato. Ogni sera assieme a mastro Peppe  “u  burdinu”  ed  altri  amici,  armati  di  chitarra  e  mandolino,  offrivano  una  serenata  a Fortunata. Gli strati sociali della media borghesia cantavano o canzoni napoletane o romanze. Francesco per la sua innamorata aveva scelto “ideale” di F. Tosti: “Io ti seguì come iride di pace lungo le vie del cielo, io ti seguì come un amica  face, nella notte del velo … e ti sentii nella luce e nell’aria  nel profumo dei fior e fu piena la stanza solitaria di te e dei tuoi splendori. Torna caro ideale, torna un istante a sorridere ancora …    Piano  piano,  nel  sentire  quella  dolce  voce  e  quelle  parole  che  le  attraversavano  l’anima, Fortunata,  con  la  complicità  di  qualche  sorella,  apriva  piano,  piano  l’imposta  per  vedere  il  suo cavaliere azzurro che la omaggiava con tanto amore. E così ogni sera.    L’indomani Felicia, affidato l’ultimo nato ad una delle figlie, si avviava per far la spesa in piazza, accompagnata dalla secondogenita. In quel tratto di strada s’incrociava c on tanta gente . “Cata  a  tignusa!”,  una  vecchia  pettegola  con  pochi  capelli  persi  per  una malattia, ma  la  gente sosteneva che  li avesse persi a causa dei suoi pettegolezzi,  incontrando Felicia  le diceva: “Donna 

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Felicia, è vero che avete fatto “zita” vostra figlia Fortunata con  il figlio di Maria  l’argentina   quel vagabondo donnaiolo ?”  Ognuno ci metteva la sua. Felicia risentita, sgranando gli occhi e puntando i pugni sui fianchi, rispondeva piccata, suscettibile com’era:  “Questi sono cazzi che non vi riguardano ! Ma guardate che gentaglia, mettono il naso negli affari degli altri !” Qualche faccia tosta di vicina, ancora più maliziosa, non si allontanava, dopo la sfuriata di Felicia, e pervicacemente insisteva:  “Donna Felicia, guardate sull’onore dei nostri figli, che a me lo hanno raccontato; voi sapete che io mi faccio  i fatti miei … anzi vi posso dire nome e cognome di chi mi ha riferito queste cose … “ e ripeteva  il nome di una parente di  Felicia. Apriti  cielo! Pare  che  le  cose dette da estranei, non provochino la stessa reazione che provoca una cosa detta da un parente … E Felicia andava su di giri:  “Che  badi  ai  fattazzi  propri  per  non  dire  una parolaccia,  si  è  dimenticata  che  sua  figlia  è  stata lasciata dal fidanzato?”  E la vicina seguitava: “Ma vedrai,diceva quella vostra parente,  che questo bel tomo la lascerà … e non la sposerà! A dire la verità Donna Felicia mi sono seccata pure io, e le ho risposto: “ Vi sbagliate questa è cattiveria. E’ gente per bene e  timorata di Dio, sono casa e chiesa.” E sapete cosa mi ha risposto  la vostra parente  ?:  “Ma quale  casa e  chiesa, quelle  svergognate  che  vanno a ballare dai Gambardella,  i napoletani !”. Felicia diventava un’ira di Dio e vomitava parole di fuoco:  “Gentaglia da quattro tornesi, qui vi abitano bandiere di persone sane e timorate di Dio veramente … e poi le mie figlie ballano tra loro ! Ed avranno tutte la loro dote, perché ci sono uomini con due coglioni grossi così !” Finita l’omelia Felicia, come suo solito, esagerata, apriva la cassapanca dove era conservata la dote o roba delle figlie e la sciorinava davanti alla vicina, soddisfacendo così la curiosità della maliziosa.    Quella stessa battaglia, intrisa di spiate e controspiate, creata ad uso e consumo dei buoni vicini, si svolgeva anche in casa Caratozzolo.  Ma a Francesco  i pettegolezzi non  l’interessavano più di  tanto. Voleva Fortunata e  tutto  il  resto non esisteva. In effetti, Fortunata era la più bella delle figlie del capitano. Piccolina, magra, con un viso sottile, il naso  pronunciato  e  l’espressione  melanconica,  con  due  zigomi  alti  e  la  bocca  carnosa  e pronunciata. Capelli nerissimi ed arricciati che erano l’invidia delle sorelle e delle amiche. Di poche parole,  riservata ma  rispondeva a  tono nelle discussioni, a volte  con  sprudenza,  specie a difesa delle  sue opinioni.   Non era molto espansiva per  carattere, non  lo dava, perlomeno,  a  vedere. Come  tutte  le  sorelle  era  di  una  fede  diamantina.  Sapeva  suonare  la  chitarra  e  accordarla.  La domenica  tutte  insieme  cantavano,  in  Chiesa  stonando  terribilmente.  Ma  questa  storia  di Fortunata e Francesco aveva creato qualche malumore in casa, più per i pettegolezzi che per altro. In fin dei conti, sul legittimo e naturale desiderio di una coppia di giovani che si volevano bene, si amavano, si desideravano,  la gente ci ricamava talmente tanto che un sarto ci faceva una brutta figura al confronto. Ognuno  immaginando  le situazioni, deformava  la realtà, per proprio conto, e poi,  tiravano  le  somme. Già  la  vedevano  incinta  o  in  qualche  angolo  buio  a  baciarsi.  Insomma ognuno  ci metteva  la  sua e qualcosa di più.  In effetti, né  i  genitori di  lui né quelli di  lei erano d’accordo  su  questo  fidanzamento.  I  genitori  di  lei  non  vedevano  di  buon  occhio  quel  ragazzo spocchioso e donnaiolo,  chiacchierone e  libertario,  che  la corteggiava.   Non per  la  famiglia, per carità, era brava gente. Ma per  lui … quell’atteggiamento di mangia mondo,  che non accettava pareri  e  tanto  meno  consigli  o  quel    modo  di  vestirsi,  da  sprecone,    non  gli  stava  bene  la 

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frequentazione di circoli a giocare a carte con gli amici. L’unico spasso per  i giovani,  la domenica era  fare  qualche  partita  a  carte,  oppure  a  padrone  sotto  con  il  vino  tanto  per  stare  assieme. Quest’ultimo era un gioco molto in uso nei paesi del meridione. Era il passatempo preferito dagli strati  più  popolari  nelle    cantine.  Il  gioco  del  “padrone  e  sotto”  per  sua  cultura  aveva molte sfaccettature,  ed  acquistava  significati  a  volte  densi  di messaggi  crittografati.  L’ambiente  della delinquenza  ne  era  pieno.  Qui  si metteva  alla  prova  il  “giovane  d’onore”,  la  sua  capacità  di offendere e difendere, di rispettare capi riconosciuti nella tavolata. Il padrone era colui che nella fase  iniziale  del  gioco  aveva  vinto:  era,  cioè,  il  dispensatore  del  vino. Ma  solo  il  dispensatore. Poteva solo berlo, da “padrone”. Se avesse voluto distribuirlo agli altri della tavolata doveva avere il  permesso  del  “sotto”.  E  qui  veniva  fuori  la  capacità  di  condurre  il  dialogo  innanzi  tutto,  di convincere l’altro della bontà della propria proposta. La bravura del padrone era quella di far bere le persone che più gli aggradavano, specie se vi era  il “ramo principale”. Ogni giocatore per farsi bello  offriva  sempre  da  bere  al  ramo  principale,  il  sotto  doveva,  ecco  i  segnali  ambientali, dimostrare la stessa bravura del padrone. Nel senso che avrebbe dovuto tirare per i suoi o per se stesso. Se, per esempio, tra  i suoi vi era  il “ramo principale” non vi erano problemi; ma, spesso, alcune teste calde non ci pensavano due volte a far scoppiare la lite. Si finiva spesso con il coltello in mano, prigionieri dei  fumi dell’alcool e della  cultura dello  “sgarro”. Nella media borghesia  la partita a carte era un modo per stare  in compagnia e passare  il tempo, chiacchierando del più e del meno nei  circoli. Una  vola  accadde  che nella  cantina di  “sangunazzo” entrò  Santo  Scidone, noto delinquente di Palmi e  riconosciuto  “tronco” della malandrineria  locale. Nella discussione, che in quel momento era accesa, tra i due contendenti e vertente se una persona dovesse avere o meno il suo vino, entrando “Don Santo” disse:  “E se lo bevo io, questo bicchiere di vino, c’è qualcuno in questa bella compagnia, che ha qualcosa da dire?”. Tutti salutarono devotamente ed il padrone rispose per tutti: “Per voi e per il vostro seguito, tutta la cantina Don Santo !” “Siete  gente  di  rispetto  quà  e  fuori  di  qua  !”  rispose  don  Santo  Scidone.   Quello  era  l’atto  di sottomissione di quella tavola al capo riconosciuto. Di questi gaglioffi Gioia Tauro ne era piena e venivano combattuti dai carabinieri  in un ambiente difficile se non ostico. Furono i ricchi borghesi o i nobili che condizionarono la vita di Gioia, proprio utilizzando  la cosiddetta “gente di panza” per evitare  i tanti furti che avvenivano nei  loro poderi, per via della gran fame allora regnante.     E proprio gli affamati, i poveri erano quelli che meno si davano da fare per aiutare la legge; per un falso senso dell’onore, che non perdevano se rubavano ai ricchi lo perdevano se relazionavano ai reali carabinieri; nel primo caso era “valenzia”, nel secondo “indegnità” . “L’uomo che è uomo non fa queste cose … e i fatti propri se li aggiusta da solo … !”. Questo era il modo di pensare dei bassi ceti del tempo. La piccola e media borghesia artigianale e professionista, pur rifiutando quelle presenze arroganti ed indisponenti, era anch’essa impregnata di quella  cultura.  Forse, più per un  fatto di  convenienza, opportunità,  si  tenevano  alla  larga da certe azioni, e non vedevano mai nulla. 

        

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Nell’estate  1910,  il  capitano  Carresi,  di  ritorno  da  Salerno  al  comando  della  Tartana  “Nuova Antonietta”,  che  trasportava  paste  alimentari  e  formaggi  per  conto  della  ditta  Scaramella,fu avvisato dalla moglie di quanto  capitava  tra Fortunata e quel bellimbusto: Felicia  come  tutte  le donne  fedeli  e  rispettose  dei mariti,  gli  riferiva  ogni  cosa  al  ritorno  dal    viaggio.  Così,  assieme decisero di  far  fare a Fortunata un viaggio  fino a Salerno: così  la gente non parlerà per un pò di questa  vicenda  da  romanzo  d’appendice.  Fortunata,  riluttante,  non  voleva,  ma  il  capitano garbatamente ma con fermezza la convinceva. Naturalmente il giovane Francesco, non vedendola passare assieme alle sorelle, domandava con lo sguardo perché Fortunata non fosse con loro e quasi impazziva per la rabbia. Una delle sorelle, con la quale  si era  creata una  certa  complicità,  lo avvertì della  sua partenza,  consegnando a Paolo, fratello di Francesco, un biglietto di Fortunata.  Intanto, mentre  il veliero navigava verso Salerno, sotto  la spinta di un maestralino che era una delizia sentirlo sulla pelle, Fortunata se ne stava  in disparte imbronciata. Carresi a prua si godeva la frescura della brezza marina, o, gli spruzzi che la prua provocava quando tagliava l’onda a tre quarti. Cercava, inutilmente, di convincere Fortunata che  Francesco  non  fosse  il  tipo  adatto  a  lei,  che  poteva  aspirare  a  partiti migliori.  Era  troppo spaccone, stravagante, donnaiolo. Niente da fare. Muta partì e muta rimase. Intanto Felicia, libera dalle  tensioni  causate dalla  presenza  di  Fortunata  con  la  sua  storia  d’amore,  insieme  alle  altre figlie, s’interessavano solo ed esclusivamente di badare al piccolo Ciro. La spesa  in piazza  la  faceva o  l’una o  l’altra delle sorelle più grandi. L’incontro con  le  ficcanaso, naturalmente, era quasi  impossibile evitarlo. Ma  le signorine sapevano come e cosa  rispondere; con garbo e decisione rispondevano: “Sarà quel che Dio vorrà !” e bloccavano qualunque discorso. C’era una immagine, che rimase stampata per sempre nel loro cuore e nelle loro menti, quando si trovavano in piazza: la gran quantità di poveri che stazionavano attorno alla fontana o sui gradini che portavano alla casa comunale.  Ognuno di loro si lamentava o faceva vedere le loro storpiature per sensibilizzare la gente. Esse si accoravano ogni volta che vedevano quei figli di Dio così  lacrimosi … e davano qualcosina. Poi si infilavano in mezzo alle bancarelle, dove le voci dei vari venditori formavano un coro disarmonico, confuso  con gli asini  che  ragliavano o  con  il nitrito dei  cavalli. Giravano  tutto e  tanto, prima di allontanarsi, perché godevano a stare li in mezzo a sentir le liti fra chi acquistava e vendeva; bere l’acqua  fresca del  “tre canali”,  il  tutto  sotto  lo  sguardo attento di due  reali carabinieri che, con cipiglio,  le loro divise scure con le strisce rosse ed un cappellone di traverso, seguivano quel via vai con i loro baffoni a manubrio. Prima di tirare verso la marina, le signorine s’indirizzavano verso la chiesa. Vi entravano con il velo in testa, recitavano le loro preghiere e tornavano a casa. Intanto la loro mamma, era alle prese con il marmocchio. Lo stava cambiando: gli toglieva quel rotolo di tela che  serviva  a  tenere  diritto  il  busto  del  bambino,  altrimenti,  dicevano  gli  antichi,  potevano diventare gobbi. Timidamente, Filomena “occhi di gatta” (per via del colore) bussava e chiamava:  “Donna Felicia ! Donna Felicia … mi leggete questa lettera?” e lei rispondeva:  “Entra, entra Filomena … siedi, cambio il piccolino e sono da te.”  Poi  cominciava  l’operazione.  Filomena  non  poteva  fare  a  meno  di  osservare  e  meravigliarsi dell’abilità con cui Donna Felicia svolgeva con  leggerezza il rotolo di stoffa bianca e un po’ rigida, con cui si avvolgevano i bambini. Dopo il rotolo, in pelle vi era un altro giro di cotone più leggero e soffice.  Lo  srotolamento  era  fatto  dalla mamma  con  delicatezza  alzando  quel  batuffolino  per  i piedi  delicatamente,  tanto  che  il  bambino,  non  si  lamentava.  Una  volta  nudo,  gli  faceva  il bagnetto, lo incipriava e poi lo rivestiva.  

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Donna  Felicia  era  considerata  “strana”  dalla  gente,  ma  non  superba  ,  specie  tra  i  pescatori, considerati,  nella  scala  sociale,  lo  strato  più  basso. Dato  che  il  figlioletto  a Carmela,  si  sedeva, inforcava gli occhiali e  leggeva, non prima di aver  rilevato che  la  lettera  fosse di suo  figlio Saro. “Dice che sta bene dove l’hanno mandato a fare il militare, e che, forse, con la nave, partirà verso la  Libia …  saluti e baci  Saro.”  La  lettera, ovviamente, era  scritta da un'altra persona,  in quanto Saro, come i suoi parenti, era analfabeta. Poi, prima che Filomena “occhi di gatta” parlasse, Felicita prendeva  l’inchiostro e  la penna, mentre Filomena  tirava dal  tascone del “faddale”,  (grembiule) una busta e un foglio per la risposta. Filomena dettava e Felicia scriveva:  “Caro Saro,  speriamo  che  stai bene, noi pure  stiamo bene e anche  se non vogliamo dobbiamo stare bene per  forza.  L’annata delle alici non è andata  tanto bene; perché alici non  ce n’erano manco di passaggio. “Il papà con il pappù e i tuoi sette fratelli stanno riparando la barca e la rete, ti raccomando mettiti la maglia di  lana per non prendere freddo, perché mi hanno detto che  lì  il freddo  lo ammaccate con le mani. Saluti e baci da (seguiva elenco di tutti i fratelli e sorelle) oltre che dalla mamma e dal padre la nanna e il pappù.” Il  foglio  infilato  dentro  la  busta,  con  la  lingua  umettava  il  bordo  della  stessa,  poi  Filomena, dimenando  l’ampia  saia, usciva. Lungo  la giornata,  spesso,  si avvicinava  tanta gente,  la maggior parte  delle  volte  sempre  bagnarote,  che  accusavano  qualche malessere.  Il medico  era  troppo lontano. Così, ci si  rivolgeva a persone di grande esperienza: Donna Felicia,come a Bagnara, era una di queste. Conosceva  le erbe medicinali. Prima che  la chimica prendesse piede, ci si curava, una volta, con ciò che offriva  la natura. Ma  la bontà di un erba non era proporzionale ad alcuna certezza. Molto  spesso,  la  valenza  di  questa  la  si  doveva  al  caso;  se  qualcuno,  per  esempio, soffrendo di un certo malore,  avesse assaggiato un certo tipo di foglia,  e spariva il malore si aveva la prova provata che quella foglia era buona. Da qui l’uso di quell’erba e la trasmissione orale agli altri.  In  alcune  parti  del  meridione,  l’uso  delle  erbe  era  accompagnato  da  atti  o  parole  che sapevano di magia. Per esempio, chi aveva avuto la disavventura di toccare le ortiche, il fastidioso bruciore era eliminato (sic!) strofinandosi con foglie di sambuco e gridando: “Nesci ardica e trasi sambucu !” Donna  Felicia  sapeva,  invece,  che  il  taglio  che procurava emorragia era bloccato  con  i dischetti presi all’interno della canna verde; con la bocca infiammata ti consigliava di masticare le foglie di basilico; per il “nervoso” la camomilla; il cavolo per le ulcere varicose, mentre l’aglio per le punture d’insetti; la lattuga per le infiammazioni della pelle; il limone per la digestione lenta; le noci contro la stitichezza. Tutte queste conoscenze Felicia le metteva a disposizione degli altri.     Nelle lunghe sere d’inverno, quando il cielo annuvolato e nero prometteva pioggia, si preparava il  braciere  per  riscaldare  la  stanza.  Lo  si  lasciava  fuori  dopo  aver messo  sotto  legna  secca  e  in mezzo il carbone, della carta che si accendeva con un fiammifero. Se c’era il vento, ci pensava lui a mantenere  la  fiamma e  infocare  la  legna e  carbone  altrimenti  il  ventaglio  a  listelle era più  che buono per  lo stesso fine. Le sorelle si mettevano a giocare con  le scintille, che si sollevavano dal braciere per il vento e sparivano in alto. Le sorelle si lasciavano avvolgere da esse fino a quando la madre non le richiamava: “Attente agli occhi … poi ricordatevi che le scintille sono le animelle dei bambini morti che girano nell’aria !”  Così rientravano tutte, impaurite.  C’era un orario particolare della sera, che era caratterizzato dal passaggio, su quella via, di varia umanità. Come se si fossero dati appuntamento. Alla marina non vi abitava solo gente di mare, vi erano anche contadini. Venivano dalle campagne, bonificate, in parte, della Ciambra. Così, da una parte arrivavano, in fila, i contadini con tutta la famiglia: in testa il padre, poi a seguire la madre e i figli. Sempre identico, sempre uguale quel passaggio; il padre aveva la roncola o l’accetta, la madre 

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portava in testa un cesto con verdure varie; i figli portavano la legna per il braciere o per la cucina. Qualcuno  più  fortunato  aveva  un  ciuco,  che  manco  a  dirlo,  abitava  nella  stessa  casa.  Si incontravano allo stesso orario con i pescatori, che rientravano alle loro case, con le rete in testa, accompagnati dalle donne e dai  figli, che portavano remi o altre attrezzature della barca. Orario uguale per stagione uguale. La vita del mare assomigliava tanto a quella dei contadini. Era molto duro il mestiere del mare; era molto duro il mestiere del contadino. D’estate il pescatore si alzava molto  presto  per  armare  la  barca  e  andare  a  pescare;  quando  il  caldo  non  ti  faceva  respirare dormiva sotto di essa, sulla spiaggia; poi, salpavano. La pesca poteva andare bene o male.  Il  contadino d’estate, anche  lui,  si alzava molto presto per  seminare o  zappare; perché  col  sole forte poi diventava difficile lavorarci. Raccoglieva quello che offriva l’estate; anche in questo caso, l’attività  poteva  andare  bene  o  male.  Il  contadino  poteva,  volendo,  rimanere  a  dormire  nel pagliaio.  I pescatori, però, a volte mancavano due giorni di  fila,  rimanendo  in mezzo al mare;  il contadino, volendo, poteva  rientrare quando voleva. Questi ultimi, si  rassomigliavano  tutti nella postura; nel camminare flettevano tutti  in avanti  il busto, per via della posizione che assumeva  il corpo  per  utilizzare  la  zappa  o  la  falce  o  la  roncola.  Le  loro  dita  erano  annerite  e  le  nocche ingrossate, perché artrosiche, a furia di raccogliere erba o toccare acqua. Questo appariva davanti agli occhi delle sorelle. Poi, con il buio che arrivava rapidamente, si mettevano attorno al braciere e pregavano per il loro papà e il fratello Enzo che navigavano:  “Domine,  labia mea  aperies,  et  os meum  annuntiabit  laudem  tuam, Deus meus,  in  auditorium nostrum Deum  intende …” diceva Carmela. Le altre rispondevano: “Domine ad audiuvandem me festina”.   “Nel primo mistero gaudioso … “ Ogni sera recitavano il Rosario, cenavano e, cominciava l’ora dei giochi,  dopo  i  servizi  domestici.  “Giochiamo  ?”  diceva  una  delle  sorelle.  “A  cosa  ?”  rispondeva l’altra. “A nasconderella ?” “No … a gallinella zoppa” “Si, si”. Si  sedevano attorno al braciere. Ognuna di  loro metteva  sulla gamba  il dito  indice, poi un’altra cominciava  la  litania “Gallinella zoppa, zoppa, quante piume porti  ‘n groppa;  io ne porto 24, uno due  tre e quattro  !” chi contava, al quattro si  fermava sul “reo” corrispondente e costei doveva pagare pegno. E il gioco riprendeva di nuovo, con altre vittime. Altre volte, l’intrattenimento serale era  la  favola. Felicia aveva una particolare attitudine a  raccontare  le  favole. Utilizzava  le parole adatte  e  le  accompagnava    con  tutta  la  sua  arte  espressiva;  la mimica  di  consumata  attrice  le permetteva  di  trasformare  il  suo  viso  in  un  aspetto  truce,  accompagnato  da  una  voce  bassa  e lugubre. Ed era talmente reale che le sorelle toccavano quasi con mano il “sarancuni” di turno o il “tagliacore” ovvero raccontava di qualche miracolo mariano, accaduto tanti anni fa. E cominciava con maestria a parlare: “O bona genti statimi a sentiri nu miraculu vi vogghio cuntari . ‘Ncera ‘nu povaru cristianu c’avia e dari o patroni di ‘na ricca mercanzia e non  potiva lu debitu pagari e sempri carceratu u teniva. Vinni Pasca e vinni Natali,  la mugghieri lu iu a visitari, pe’ dari ‘cchiu turmentu a ‘sta fimmina, u picciriddu ‘nci catti a mari. Povara fimmana chi a chiesa iva, ed era la chiesa di la nostra Maria. ‘Na monachedda ‘nci cumpariu a latu “Pecchì ciangi devota mia ?” 

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“Bella ‘gnura aiu lu sposu carceratu,  ma pe’ ‘cchiù pena lu figghiu ‘nnegatu !” Nci dissi la Signora:  “Vatindi figghia mia e non dubitari,  e ‘pe setti mercolì pe’ Maria hai e digiunari.” Li marinai ettàru li riti ‘nta chiddu mari e cù ‘na fedi grandi. Iddi stessi restaru stupiti quando Tirare ‘nu picciriddu ciangenti. Li marinari restaru stupiti dicendu: “Figghiu, cu ti sarbau ?” “Fu la Madonnedda chi a fiancu di la me mamma ‘nc’appariu !”  “Questo fu uno dei miracoli compiuti dalla Madonna del Carmine tanto tempo fa. Salvò il bambino e  fece  uscire  il marito  dal  carcere!”  concluse  la mamma.  Le  figlie  erano  rimaste  con  gli  occhi incantati, durante il racconto del miracolo. Poi una di esse chiese:  “Mamma ci raccontate un miracolo della Madonna del Rosario? – “No, no ‐ rispondeva l’altra ‐ raccontateci un miracolo della Madonna dei poveri !” Alla fine Felicia le spediva tutte a letto seccata. La  sveglia mattutina  era  anch’essa  un  rituale  scandito  dai  soliti  rumori,  che  tutta  la  famiglia conosceva bene.  I primi a passare erano  i  contadini,  che  si  recavano verso gli orti,  incrociando, contemporaneamente,  le  capre  di  massaro  ‘Ntoni  che,  belando  si  fermavano,  per  abitudine, davanti alla porta dei clienti, come se una voce  li obbligasse a farlo. Felicia o una delle due figlie più grandi,  porgeva il “botto” (contenitore metallico) per il latte e, come al solito, rimproveravano il capraio:  “Non fate tanta schiuma!” lo pagava e rientrava in casa.  L’igiene, nella famiglia Carresi, era fondamentale. Ogni mattina tutte le signorine, comprese le più piccine, facevano toeletta. Scioglievano i capelli e li lavavano, dandosi il cambio l’una con l’altra o facevano  il bagno dentro una vasca mobile di  legno. Usavano saponi profumati che  il Capitano o Enzo portavano dalle città  lontane. Semmai ci  fu proverbio più azzeccato per  le sorelle, è stato: “Tutte per una, una per tutte !”. Le loro discussioni, non erano mai esagerate.  

               

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Una classe politica più lungimirante, come pure imprenditori illuminati, avrebbero dovuto, davanti a una  tale  rilevante attività economica, ammodernarsi e ammodernare  le varie  infrastrutture  ivi presenti, seguendo la modernità che già camminava velocemente.  Abbiamo già parlato della costruzione di un pontile d’approdo che  il governo avrebbe dovuto e potuto  costruire.  Se  ne  parlò  tanti  anni  prima  .  Questi  era  stato  previsto  già,  nella  L.  del 20/11/1859, nr. D’ordine 27, ove s’indicava; “Gioia‐costruzione di un porto cabotaggio categoria 3^‐1’’. La vicenda si evolve negli anni successivi con “Nota del 20/3/1886 del Genio Civile di Reggio Calabria alla prefettura di Reggio Calabria”. Si specificava che  il porto o approdo di Gioia Tauro è classificato di 2^ categoria, 2^ classe, 2^ serie; che gli enti interessati al porto sono  la provincia, i 34 comuni della piana e qualcuno della provincia di Catanzaro.  Secondo  il T.U. erano porti di 2^ categoria  i porti e gli approdi che servivano precipuamente alle attività commerciali; 2^ classe erano i porti che servivano una o più province e quelli dove le merci movimentate  non  dovevano  essere  inferiori  a  25.000  tons,  in  ognuno  degli  anni  dell’ultimo triennio. In data successiva si parla di boe d’ormeggio (1867‐1887) cioè,  la pratica cominciata nel 1868,  solo nel 1886  il Genio Civile di Reggio Calabria parla della  “intenzione” del Ministero dei LL.PP. di far “costruire un ponte sbarcatoio ed una boa d’ormeggio nello scalo di Gioia Tauro”. Con verbale successivo, 11‐3‐1889,  la spiaggia di Gioia Tauro fu consegnata allo stato  in conseguenza del D.L. del 3‐6.1888 che annoverò la spiaggia medesima fra i porti di 2^ categoria, 2^ classe ecc. A fronte di questo “A Gioia funzionava un Ufficio di Porto munito di regolare sigillo di ferro (R.D. 24‐7‐1885 n°3271);  il D.L. conteneva una norma che affermava che  i Comuni  interessati, nonché  la Provincia, avrebbero dovuto aiutare a sostenere il costo dell’opera (1894‐95). Naturalmente (sic !) i Comuni della Piana non aderirono al progetto … perché si sosteneva da più parti (Polistena nel 1897) “che nessun utile ne sarebbe venuto a questo paese, perché non sono né marinai né altro, ma solo contadini …”     Un’ottica, come si vede, molto corta. Ma, a parziale giustificazione della posizione sopradetta, c’è da dire:  Sicuramente gli imprenditori ed i politici del tempo intuendo che la ferrovia, che in tutta Italia dava nuova  linfa  vitale  alla  pur  arretrata  economia  italiana;  che  le macchine mosse  dal motore  a scoppio  avrebbero  ben  presto  messo  all’angolo  l’uso  del  veliero  come  infrastruttura  utile  di trasporto merci; il minor tempo, minor rischio, costi minori pensarono che non sarebbe più stato utile costruire un pontile d’approdo.  Questi argomenti erano, spesso oggetto di discussione tra il Carresi con l’amico Achille Normanno che andava a salutare appena uscito dalla Chiesa Madre, mentre  i suoi figli, ascoltavano assieme ad altra gente, un cantastorie che con dei quadretti disegnati ed appoggiati  tutti assieme su un cavalletto di legno, raccontava le gesta del brigante Peppe Musolino, con tale partecipazione che incantava  il pubblico presente. Finita  la recita,  la moglie del cantastorie passava con un piattino, raccogliendo ciò che la gente poteva dare.  “Penso di fare gli ultimi imbarchi con la reale marina di Taranto alla guida di un rimorchiatore.” “Allora non farai più di questi viaggi ?” rispondeva il buon Achille Normanno. “Non conviene più … sono più le volte che si viaggia scarichi … il prezzo dei noli cala sempre più e non si coprono neanche le spese! Tu lo sai bene, visto che la merce, in parte, ti arriva col treno!” ripeteva sornione il Capitano,  ridendo con allegria.  “Guagliò!” rispondeva Don Achille con il suo accento campano: “Costa meno il viaggio in treno !”. 

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L’emporio di Don Achille era allocato nel centro storico della città, di fianco al municipio e di fronte alla chiesa madre. In quello stesso palazzo, che fu la residenza di uno dei sindaci di Gioia Tauro, il Cav. Baldari, vi era anche allocata la caserma dei reali carabinieri (cambiarono sede in quegli anni).  La chiesa era piccola, misurava appena 9,24 m x 18,48m ed un altezza di 6m, e per un paese che cresceva a vista d’occhio sia in estensione che in abitanti, non riusciva a contenere la quantità dei fedeli,  il  cui  sentimento  religioso,  allora,  era molto  più  sentito.  Cosicché  la  curia  vescovile  di Mileto, da  cui dipendeva Gioia,   provvide  a  far  costruire una  chiesetta nel  rione  ferrovieri,  che proprio allora, per  la presenza della  ferrovia, aveva  incrementato  il numero dei  locali. La  stessa decisione  non  fu  presa  per  il  quartiere  della Marina:  iniziata  verso  la  fine  del  XIX°  sec.,  venne interrotta per mancanza di mezzi finanziari. Fu completata verso il 1915 in legno. La  vita  civile  della  cittadina,  si  svolgeva  nella  cittadella  o  “piano  delle  fosse”.  Le  signorine chiedevano  perché  la  cittadella  si  chiamasse  in  modo  così  contraddittorio.  Il  Capitano, pazientemente, spiegava loro che la città era nata su questo cucuzzolo, come si vede dalla marina, ma era pieno di cunicoli o fosse, dove gli abitanti, al tempo dei saraceni nascondevano le ragazze o la roba da mangiare. Un  giorno mentre  la  famigliola  (di  solito  le  ragazze  da marito)  si  trovavano  in  via  commercio assieme al loro papà assistettero ad un a scena particolare: un uomo guidava un carrozzino con un cavallo  bianco;  era  grande  e  grosso  il  conduttore,  con  un  grosso  paio  di  baffoni,  pantaloni  di velluto scuri e una giacca chiara con una paglietta sulla testa. Le sorelle notavano la deferenza con cui le persone lo salutavano, qualcuno addirittura saliva sul carrozzino e gli baciava la mano come fosse il papa o il re. “Padre chi è quell’uomo ?” “Uno che è meglio non conoscere.” “Ma perché gli baciano la mano ?” “Perché la gente ha paura di lui: è un poco di buono, un delinquente, figlio del diavolo !” A quelle parole le sorelle si segnavano con il segno della croce.      Stava  intanto per finire uno dei periodi più pacifici per  l’Europa …  il primo segnale fu  la guerra italo‐turca.  Sull’onda delle  altre potenze  europee,  anche  l’Italia  cercava  il  suo posto  al  sole.  La giustificazione  gliela  fornì  la  Francia,  che  aveva  posto  il  protettorato  sul Marocco.  Così Giolitti occupò la Libia e al canto di “Tripoli bel suol d’amore …” l’annesse alla scadenza dell’ultimatum al sultano di Costantinopoli. Dopo poche scaramucce,  la Turchia sia arrese e  l’Italia occupò  le  isole del Dodecanneso, così chiamate perché erano dodici, poste al largo della Turchia. Isole montuose e brulle, un paesaggio carsico. Qui si viveva di pesca, agricoltura, allevamenti di ovini. Gli equilibri europei si stavano rompendo.  Dopo qualche giorno Carresi partì al comando di un vapore, il piroscafo “Tirreno”, invece che per Taranto. Era una nave che  faceva  spola  tra Amantea e Salerno, adibita al  trasporto  sia di merci varie, sia  passeggeri.  Dopo aver salutato gli amici più cari,  i Gambardella, Normanno ed altri commercianti, s’imbarcò sul treno e ad Amantea prese il comando del piroscafo Tirreno. Il  1912  fu  un  anno  pieno  e  denso  di  avvenimenti  per  la  famiglia  del  Capitano.  Fortunata  e Francesco  non  si  erano  dimenticati  l’uno  dell’altro.  Un  bel  giorno  Francesco  inviò  una  lettera all’amata  ragazza.  La  lettera  la  invitava  a  rompere  gli  indugi ed  a  fuggire  con  lui,  se,  ancora  lo amava.  Fortunata  accettò  senza  pensarci  due  volte.  Fuggirono  lasciando  alle  rispettive  famiglie una lettera dove spiegavano il loro gesto. Felicia quando lesse la lettera cominciò a strillare come un’ossessa: 

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 “Che vergogna  ! Che vergogna  !  In questa  casa onorata … dove mai era  successa una  cosa del genere, Dio mio, Dio mio  !” girava per  le stanze e si strappava  i capelli come avesse  il morto  in casa,  spaventando  così  il  piccolo  Ciro.  Carmela,  lo  prendeva  in  braccio  e  lo  calmava, allontanandolo  dalla  guerra.  La  reazione  di  Felicia,  come  spesso  le  accadeva,  fu  spropositata rispetto all’avvenimento. Chiuse tutte le finestre come fosse un lutto (allora così si faceva per una fuitina  ). Naturalmente  i vicini, più per  curiosità morbosa  che per  la  comprensione,  chiedevano cosa  fosse  successo. Le  signorine a questo punto dovevano  spiegare  l’accaduto. Questa volta  la tempesta, neanche il Capitano potè evitarla. Non si era reso conto che sua figlia, lungi dall’essersi dimenticato di  Francesco, era  invece  tanto decisa.  Lui,  a  cui bastava uno  sguardo per  capire  le intenzioni e  le reazioni umane. Eppure sua  figlia   aveva  ingannato  la sua sensibilità. Come aveva ragione Felicia a preoccuparsi  ! sentiva che Fortunata evitava  lo sguardo suo. Ma  i suoi genitori contavano  sul  tipo di educazione  impartita ai  figli:  rispetto, onore, morale cristiana e altruismo. Evidentemente per Fortunata il prossimo era rappresentato da Francesco. Cosicché il Capitano, si vide  un  giorno  recapitare  un  telegramma  sul  piroscafo:  “Vieni  subito  tua  figlia  Fortunata  stop scomparsa stop Felicia “.    Con  un  telegramma  così  concepito,  immaginate  la  paura  che  il  povero  Capitano  si  prese. Immediatamente  chiese  licenza  all’armatore.  Anzi  lo  stesso  armatore  si  preoccupò  di tranquillizzare Carresi  facendolo parlare  con  il  sindaco. Che  informatisi esclusero  incidenti  fisici, ma solo sentimentali.    Il Capitano rientrò a Gioia e quello fu il viaggio più tempestoso della sua vita !  “Ne  ho  passati  di mari  tempestosi, ma  come  questo mai  !”  così  diceva mentre  la  carrozza  si avvicinava a casa sua. La trovò ancora con finestre e porte sbarrate: alla messinscena mancavano solo i manifesti a lutto, e Felicia con l’oltraggio stampato sulla faccia:  “Hai visto che ha combinato quella svergognata ? E’ fuggita con quel poco di buono … è una casa disonorata !”  Questa volta Carresi non la prese bene:  “Smettila  !  Ma  ti  rendi  conto  che  telegramma  mi  hai  mandato?  Torna  subito  Fortunata scomparsa…? Cosa avrei dovuto pensare? E poi, quale onore hai perso ? Noi abbiamo sbagliato a negare l’esistenza del suo amore!  Chiuderemo la storia con il matrimonio … è tutto qui, chiaro? Ora andrò a parlare con i genitori di lui.” Bevve una tazza di caffè, si lavò viso e mani, si cambiò d’abito e si avviò verso il domicilio della famiglia Orlando, con  il suo bastoncino,  il cappello all’americana, ed un cappotto blu con martin gala.    Camminava a passo svelto e deciso verso la casa di quei signori e  stranamente a testa bassa. Lui, che assomigliava a una torre di guardia per come era  impettito, col collo dritto e  i suoi occhi che guardavano sempre avanti, si fosse trattato del mare in burrasca o di qualche poveraccio che aveva bisogno di aiuto. Ma le sue erano scottature morali.  “Se non fosse successo sarebbe stato meglio” pensava il Capitano. “Ma al cuor non si comanda. E questa  umiliazione  ce  la  siamo  cercata  col  lanternino.”  Mugugnava  mentre  scansava  le pozzanghere molto numerose esistenti sul selciato che da casa sua portava fino a casa Orlando. Si sentiva umiliato perché la figlia, con un colpo di spugna, aveva cancellato tutti i suoi insegnamenti …  come  se  anche  le  altre  sorelle  potessero,  da  allora  in  poi,  seguire  l’esempio  di  Fortunata;  e immaginava  i “mali vicini” che  in quello stesso momento sghignazzavano   contro di  lui,  li vedeva che si tenevano la pancia mentre il loro ombellico sussultava per le  risate. “Meglio non pensarci !” Era contrito perché capiva di avere sbagliato con  la  figlia,  impedendo  l’amore tra  i due. “Questo succede quando i figli non si confidano con i genitori, perché noi non li capiamo; non vedono in noi degli amici a cui far conoscere i propri problemi. Ma è un peccato, Gesù mio, quello d’amare una 

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persona fino al punto da combattere contro convenzioni e convinzioni ? E’  l’amore che muove  il mondo e lo fa vivere. Esso è nato dall’amore di Dio e per amore dell’umanità ha sacrificato il figlio. Allora qual è il peccato ? Chi fa un atto per amore, o chi quell’atto vuole impedire per egoismo ? Dammi luce tu, mio Dio, e forza per trovare la via !”. Mentre la folla di pensieri lo torturava arrivò nei pressi della bottega dello zio di Francesco, Peppe Orlando. Questi notando il capitano uscì e gli andò incontro e disse: “Capitano Carresi, io sono un uomo d’onore e ne rispondo per tutta la famiglia mia; vi darò tutte le soddisfazioni che volete ! Stabilite voi la data e tutto il resto e si riparerà la situazione”. Il Capitano, in verità, fu sorpreso dall’anticipo di mastro Peppe Orlando e dalla sua risposta perentoria.  “Ci sono rimasto male, mastro Peppe, ma chiudiamo questa storia subito discutendo di ciò che si deve discutere. Facciamo rientrare gli sposi. Se sapete dove sono !” Mastro Peppe di rimando:  “Non  lo  sappiamo manco noi dove  siano, ma  lo  sa un  suo  caro amico di  sicuro: Mastro Peppe Tomaselli ‘u burdino !”.  “Bene! ‐ disse il Capitano ‐ vi aspetto questa sera alle diciassette a casa mia!” Quel pomeriggio di gennaio del 1912, puntuale come un orologio svizzero, la famiglia Orlando si presentò in casa del Capitano. Essi discussero degli aspetti più materiali del matrimonio ed il 14 marzo 1912 Francesco e  Fortunata  si  sposarono prima  civilmente  e poi  in Chiesa,  coronando  il  loro  sogno d’amore  al grido augurale:  “Auguri e figli maschi !” (sic !) Nel settembre dello stesso anno nacque il primogenito della novella coppia,  cui fu dato il nome di Francesco  come  il  nonno  paterno,  accontentando  così    anche  quello  materno.  I  due  sposi andarono ad abitare  in una  casetta nei pressi della  falegnameria.  I mobili  furono  costruiti nella bottega di mastro Peppe, con l’aiuto di Paolo e Nino fratelli di Francesco.      IL Capitano mentre  leggeva  “Il giornale d’Italia” non poteva  fare a meno di dire amaramente, quando alla fine della guerra italo‐turca si affermava retoricamente: “Si porterà una grande civiltà, una grande economia,quella italiana in quelle contrade:  “Ma guarda che  imbroglioni, nel sud d’Italia scarseggia  tutto: strade, soldi, salute e si spendono denari per portare  la grande civiltà  italiana  in Libia: se  la grande civiltà è questa, stanno freschi  i Libici ! Non potevano utilizzarli qui quelle finanze?”.  Anche  per  una  persona  istruita  come  lui,  era  difficile  capire  quali meccanismi  si mettessero  in moto, quali  interessi giocassero quando si prendevano tali decisioni. E’ come  il famoso sassolino che  cadendo  dalla  cima  provoca  una  frana  inarrestabile.  Il  capitano  dopo  la  vicenda  familiare conclusasi felicemente, era ripartito verso Amantea. Qui riprese il comando del piroscafo “Tirreno” ed a Salerno si recò a ringraziare l’armatore. Su questo piroscafo navigò esattamente per 36 mesi e 20 giorni. Rientrò verso  la  fine del 1914, quando quel  famoso equilibrio europeo  si era  rotto: l’erede al  trono austro‐ungarico Francesco Ferdinando  fu assassinato da un croato. L’Italia nella prima  fase  della  guerra  si mantenne  neutrale. Ma  le  tensioni  sociali  erano  al  calor  bianco  tra interventisti e neutralisti.         

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Nei primi anni del secolo, uno status‐simbol era rappresentato dalla fotografia. La foto fatta in un salotto, vero o falso che fosse, distingueva la gente abbiente, rispetto al popolino. Non per la foto in  se  stessa, ma, perché  in essa  si  racchiudeva  l’unità della  famiglia,  il  suo  valore,  il  focolare,  il rifugio ultimo di ogni vita umana. La foto fatta  in un salotto costituiva  la cornice,  l’imprimatur di famiglia  moderna.  Anche  cantare  o  conoscere  le  canzoni  napoletane  o  le  romanze,  era  un elemento  di  distinzione  sociale  tra  fasce  abbienti  ed  il  popolo  basso,  che  si  sollazzava  con tarantelle. Alla modernità sociale il Capitano Carresi ci teneva molto, pur dovendo ammettere che con la moglie era una guerra perduta. Felicia non intendeva cambiare il suo piccolo mondo, fatto di cose  semplici, di abitudini e abiti che non cambiavano mai; non volle mai  indossare un abito diverso da quello ereditato.  Nel 1914 Fortunata partorì il secondogenito, a cui fu dato il nome di Vincenzo. Quando Carresi era in licenza, spesso, si recava presso l’agente marittimo Tarantino.  Avete mai visto due uomini parlare, quando s’incontrano,  di aspetti diversi del proprio lavoro ? E’ difficile. “Stiamo quasi per chiudere, caro Capitano …”diceva Tarantino. “Lo so bene, per questo ho preso  il patentino di prima … per pilotare  i piroscafi … ormai  i velieri hanno chiuso , non hanno più futuro. Solo il naviglio motorizzato e a struttura in ferro può essere concorrenziale al treno …”,  “Già”‐ rispondeva Tarantino mentre si puliva gli occhiali con un fazzoletto‐, E i soldi chi li mette per rimodernare il naviglio? Non ci sono neanche banche a Gioia che ha un simile giro economico “.     In effetti  le uniche banche presenti   avevano sportelli solo   a Palmi. La prima che mise piede a Gioia  Tauro  fu  il  Banco  di  Napoli,  fortemente  voluto    dai  Serra‐Cardinale  sposata  Musco, consigliere di questo istituto di diritto pubblico, nel 1915.  “Ci  voleva  l’intervento  dello  stato  ‐  diceva  il  Capitano.  Ora  non  è  più  possibile,  con    la nazionalizzazione della ferrovia dove prendono  i soldi?” “Questa è  la mazzata finale per  il nostro naviglio !” rispondeva il Tarantino. Uscendo  l’agente  Tarantino  raccontava  al  Capitano  Carresi  del  naufragio  del  veliero  “Nuovo Peppino” davanti la costa di Termini Imerese con 40 botti di olio. Per un forte vento di scirocco…”. “Già,  lo scirocco”‐ rispondeva  il Capitano‐ Spesso è considerato un vento da quattro soldi, ma se non si sa prendere è pericoloso tanto quanto  il maestrale !”. L’agente Tarantino mandava poi uno scrivano a sdoganare la merce arrivata col brigantino‐goletta S.Giovanni  di  158  tons  dell’armatore  Patamia  Francesco,  proprietario  per  16  carati  e  di  Costa Antonino per 8 carati. Si trattava di granaglie e legname. “Gran bel veliero il S. Giovanni ‐ affermava Tarantino.  “Veloce e solido …”. “Mi pare che sia di recente costruzione … “ rispondeva il Carresi “Si, circa tre anni e mezzo … ‐ rispondeva l’agente.. Poco discosto dalla dogana vi era in manutenzione una goletta dell’armatore Gentile di Palmi. Era un vecchio veliero, a cui il mare in burrasca , il caldo e il freddo, avevano cambiato colore; la sua carena scura sembrava  il terreno di un orto;  lo scafo era coperto di alghe sia verdi che brunite.  I suoi  alberi  dritti  e  l’ossatura  erano  state  costruite  col  miglior  legno  calabrese;  il  ponte  era consumato  dai  passi  compiuti  da  decine  di  marinai;  le  sartie  legate  agli  scalmi  metallici  sui parapetti salivano verso la cima degli alberi, poi con abile salto si incrociavano con altre corde che attraversavano  il  veliero;  due  fori,  che  sembravano  due  occhi,  uscivano  ai  lati  della  prua  con l’ancora  penzoloni  e  le  gomene  arrotolate  sui  paranchi.  Le  corde  di  canapa  scorrevano  dentro bozzelli di legno duro, castagno o noce di solito, scorrevoli su cuscinetti metallici pieni di sego. 

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I due uomini si fermavano nei pressi del veliero ne osservavano il fasciame che era stato da poco raschiato dal maestro d’ascia mastro Nino assieme al calafataro mastro Nicola.  “Questo  fasciame‐ diceva  il Capitano con competenza  ‐ E’ deformato, sarebbe da sostituire: non reggerà per molto la pressione delle onde”.  “Capitano”, rispondeva mastro Nino mentre fumava il suo trinciato, Io metto l’asino dove vuole il padrone … loro vogliono solo ritocchi ed io ritocco !” “Oh certo! ‐ rispondeva Carresi ‐ se è sufficiente per  l’armatore,  lo è anche per me!” e sorrideva allontanandosi.  Poi  qualche  vecchio  amico  lo  incontrava  e  discuteva  delle  condizioni meteorologiche, il Capitano alzava gli occhi su nel cielo, arricciava le narici e sentenziava: “Sta cambiando  la direzione del vento … Se avrà  forza ci sarà “lavatura”. Quando  faceva siffatte affermazioni era difficile contestarlo. 

    Nei  primi  anni  del  secolo,  il  veliero  aveva  raggiunto  il  massimo  della  perfezione  sul  piano strutturale.  Già  da  anni  si  usava  la  carena  in  rame.  A  seconda  del  tonnellaggio  del  veliero  si frazionava  la  velatura,  per  sfruttare  meglio  il  vento  anche  ad  altezze  elevate;  allo  scopo  di stringere meglio il vento si montavano rande leggere ma robuste. Le vele di cotone pesante o di tela venivano usate per naviglio a tre alberi; cotone  leggero per  il naviglio più piccolo.    Il  tre  alberi  era  un  veliero  che  toccava  tutti  i  porti  del  mediterraneo  e  superava  le  cento tonnellate. L’albero di maestra piantato  a centro scafo, era composto in alto da i “velacci”; a metà albero dalle vele di “gabbia”; nella parte inferiore dalla vela “maestra”.  L’albero di trinchetto composto, al massimo, da cinque vele e relativi “pennoni” stava allocato a prua;  l’albero di  “mezzana”,  il più  corto,  costituito da  vele  “belvedere”,  vele di  contromezzana, vele di mezzana.  Le  “sartie”,  fissate  allo  scafo,  sui  fianchi  fin  su  gli  alberi,  erano  composte  da  lunghe  corde  che fissavano l’albero della nave, lo irrigidivano; queste lunghe corde erano legate trasversalmente tra loro formando dei gradini, che permettevano di raggiungere la “coffa” o i pennoni superiori. Sotto l’albero di mezzana  vi era posta  la  “randa”, una  vela  “aurica”,  inferiormente  al  “boma” e nella parte  superiore  al  “picco”.  A  prua  stavano  fissati  i  “fiocchi,”  vele  di  tipo  latino  dette  anche  di “taglio”. I vecchi marinai sapevano che il veliero si muoveva con le vele degli alberi superiori solo quando il vento veniva dritto alle stesse: con vele latine (fiocco, contro fiocco) il vento poteva anche essere di taglio per far muovere il bastimento. I maestri d’ascia guidavano il montaggio dei vari elementi che componevano un veliero: questi era pronti da un pezzo in zona. Poi  il veliero veniva assemblato. Il calafataro, a sua volta, riscaldava la “pece bianca e nera” proveniente dai boschi calabri ed impermeabilizzava l’imbarcazione assieme alla “stoppa”.   Carresi  osservava  assieme  al  Tarantino  quelle  operazioni  di  montaggio  eseguiti  con  paranchi manuali, nel vocio delle tante persone che ruotavano attorno al veliero. E in tanto movimento ogni tanto  chiacchierava  con  il  padrone  marittimo  Luigi  Purrone,  commerciante  della  marina.  Il Capitano gli chiedeva informazioni del cutter “San Giuseppe” acquistato in Sicilia ma costruito nel 1892, un po’ vecchiotto.  “Vecchiotto? … il San Giuseppe?” affermava Luigi Purrone sgranando gli occhi per la meraviglia.  “Ancora non ha fatto i 50 anni di navigazione!” e il suo viso bonario si apriva in un simpatica risata che dilatava i suoi baffoni a manubrio.  “Questo veliero si fermerà quando il mare si prosciugherà!” E giu un'altra risata che si trascinava anche il serioso Capitano Carresi.  

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“E  il mio San Giuseppe avrà,  fra poco, un altro santo  in compagnia,  il San Ciro, così si va tutti  in paradiso!”. E tutti a ridere. Era un gran mattacchione Luigi Purrone.        Al suo rientro a casa, Carresi trovava  la moglie alle prese con  il piccoletto,  lo trastullava assieme alle figlie: il Capitano lo prendeva in braccia, lo baciava e lo sollevava in alto. Come d’abitudine si sedeva si toglieva scarpe e calze e si medicava quella fastidiosa unghia incarnita del piede destro.  Poi cominciava la lettura del giornale e non poteva fare a meno di scuotere la testa e di borbottare qualcosa. Felicia nel sentirlo esclamava:  “Che hai? Che dici?”. “Nulla di  tranquillizzante Felicia … che  i governi europei  fanno di  tutto per  far entrare  l’Italia  in guerra; non sono stanchi di contare morti … e oltretutto contro i cattolici austro‐ungarici !”. Felicia si faceva il segno della croce come per allontanare la tempesta che si avvicinava esclamando: “Mio Dio ! Può essere pericoloso per te !”. “No per me no … per i giovani, per i poveri !”.                                     

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   Avevamo  lasciato  i  due  sposi  nelle  loro  casa  con  due  figli  ancora  piccoli.  Spesso  Fortunata  si recava dai genitori,  in modo particolare quando uno dei figli stava male. Felicia dava  i suoi saggi consigli: toccava le parti più delicate dei bimbi, con una lieve pressione sul loro pancino sentiva se vi fosse  presenza d’aria; toccando le orecchie la presenza di un’ otite e poi il rimedio erboristico in uso.  A Francesco non andava giù che la moglie si allontanasse da casa: il suo era un amore totalizzante ed  il  solo  immaginare  lo  sguardo  lussurioso  degli  uomini,  gli  faceva  fare  solenni  litigate  con Fortunata. Ma tutto finiva, poi, in un abbraccio finale. Anima e corpo si fondevano, si sublimavano. Poi, come seguendo un programma scritto, discuteva del  futuro della sua  famiglia, dei suoi  figli che voleva professionisti o imprenditori: i sogni, normalissimi, di tutti i padri. La sociologia chiama questi desideri, valori borghesi (piccola‐media‐borghesia). In questo senso la parte  del  leone  la  facevano  le  donne.  Si  ostentava  sempre  qualcosa  che  gli  altri  non  avevano. L’incontro  fra queste  in piazza o nel  recarsi  in chiesa, era un chiacchiericcio continuo  su vestiti, figli, i loro successi, la casa … era un grande incrocio di situazioni, di giustificazioni, di parole dette e  ridette  in maniera  tale  che  la  vicina  o  la  parente  o  la  comare  sentisse  bene  quel  che  aveva poc’anzi affermato;  l’altra per contro scienza ribatteva sullo stesso argomento. Era un rincorrersi continuo e tutto finiva senza né vinti né vincitori.   Francesco da uomo  sveglio e d’iniziativa,  cercava di  convincere  lo  zio Peppe ad allargare  il giro d’affari della falegnameria. Ma mastro Peppe non era d’accordo. Francesco, bestemmiando come un turco andava via e sfogava con la moglie:   “Io  mi  separo  da  mio  zio,  lavorerò  per  conto  mio,  sangue  del  diavolo!  Non  capisce  che  la falegnameria  arranca.  Bisogna  allargare  il  giro,  variare  le  opportunità,  partecipare  alle  gare d’appalto bandite dalla ferrovia, per la riparazione delle carrozze, dei posti a sedere, non fermarsi ai mobili soltanto o alle botti.Ma mastro Peppe non si convinceva.  Il lavoro che aveva gli bastava a mantenere la famiglia ed a sposare le sue figlie femmine. Alla fine Francesco insistendo  la spuntò.  “Però, queste cose te le segui tu. Io non ne capisco molto di appalti!”‐ disse, non convinto mastro Peppe Orlando.   La moglie, come tutte le mogli, interveniva poco in certe questioni degli uomini.  Quando Francesco era alterato, ascoltava, con la consueta espressione melanconica, quello che le sembrava  uno  sfogo  del marito.  A  volte  rispondeva  sì;  a  volte,  quando  un’ombra  le  passava davanti agli occhi, si preoccupava ed esprimeva il suo parere:  “Ma zio Peppe, forse, si preoccupa che possa andare male …”  “Ma non si può stare tutta la vita ad avere paura che le cose possano andare male! E se va male pazienza!  Dobbiamo  guardare  avanti! Ma  se  lui  non  si  convince,  non  lo  posso  obbligare. Ma neanche  lui può obbligare me!   Rispondeva  irato Francesco. Ma dopo  il si dello zio Peppe, non si parlò più della nuova iniziativa. Un altro servizio di grande valenza allora, era il trasporto a trazione animale. Per passeggeri e   merci. Era  tanto  importante ed esercitato da  tanta gente da  fondare una  società di Mutuo Soccorso. Questa esisteva, in modo non ufficiale, sin dal 1884 …” nell’anno 1884, Giuseppe Bagalà, con la collaborazione di pochi altri, si rendeva promotore della fondazione del  sodalizio,  del  quale,  diveniva  primo  presidente.”  …  “Presidente  onorario  fu  nominato, all’unanimità , il Comm. Francesco Tripodi, Sindaco di Gioia a cavallo tra fine ‘800 ed il ‘900”. Ufficialmente la S.M.S vetturale si costituì nel 1890. La vettura a trazione animale, fu per tantissimi anni il solo mezzo che collegava Gioia con l’interno della Piana ed i paesi litoranei; fino a quando il treno non  sostituì, e, negli anni successivi, anche la 

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ferrovia secondaria, questo  tipo di  trasporto. Della  ferrovia a scartamento  ridotto   si parlava  fin dall’ultimo  decennio  del  19°  secolo. Ma  era  ancora  fiorente  il  trasporto  animale    negli  anni  in corso, almeno sui  tratti brevi;   per qualche urgenza, senza obbligo di aspettare gli orari  fissi dei treni.  La  grande quantità di questi mezzi  in  attività,  voleva dire una  serie di  attività  collaterali: falegnami,  conciatori di pelli,  sarti per mantici, maniscalchi per  i  cavalli …  le  vetture  sostavano davanti alla stazione ferroviaria, specie all’orario di arrivo dei pochi treni che vi passavano, oppure nei pressi della spiaggia per trasportare qualche passeggero o traini più grandi per  il trasporto di merce varia. La vita nei paesi del sud era scandita da poche cose rituali: una vita semplice, umile, che  prevedeva  tanta  fatica  nella  case  e  tanta  fatica  degli  uomini  a  lavoro.  Gli  unici  sussulti provenivano o dal banditore comunale, qualche festività o matrimonio o funerale; il massimo era qualche omicidio.     Uno spettacolo caratteristico da vedere era un matrimonio. Gli sposi, con tutti gli invitati, erano costretti a  fare una   bella sfacchinata con  il corteo per  raggiungere  la chiesa e, poi,  rientrare  in casa  per  i  festeggiamenti,  a  base  di  vino  e  di  qualche  dolce  casalingo,  Alla  fine,  fra  gli  strati popolari,  la  festa si completava con una tarantella. Anche  il funerale seguito dal  lutto       era uno “spettacolo” niente male.  Una volta Felicia, fu chiamata perché l’anziana zia Sara era morta durante la notte. Naturalmente la si doveva vestire come convenzione. Un vestito,  quello che indossava normalmente, scarpe (se le aveva), pettinatura curata. Ma non tutti erano in grado di farlo. Più che il garbo , era la paura o il dolore che impediva ai parenti di intervenire direttamente. Così Felicia, accompagnata dalla figlia Carmela  compiva  il  doloroso  compito  di  vestire  la  defunta. Mentre  i  parenti  davano  inizio  alla perfetta scenografia dell’avvenimento. Cominciavano a piangere, a strapparsi i capelli, a gridare in maniera  tale da  far paura. E questa  sceneggiatura durava  tre giorni  interi  (i parenti  si davano  il cambio).  Così  si  dimostrava  affetto  alla  defunta  di  fronte  alla  società.  Anche  se,  ed  accadeva spesso che, in vita non fosse affatto rispettata. Spesso capitava che i parenti, incapaci di esternare il  loro dolore, “assumevano” una o più donne che piangessero al  loro posto. E queste donne, da brave attrici consumate, ai bordi della bara, nella stanza addobbata per  l’occasione con  il murale ed  i  grossi  ceri  attorno  alla  bara,  tutti  gli  specchi  coperti,  le  donne  decantavano  le  doti  della defunta o del defunto. Mentre gli uomini nell’altra stanza, vestiti di nero e con  le barbe  lunghe, ricevevano le persone.  Così, l’osservatore estraneo pensava che fosse soddisfatto il Dio del cielo, la morta o il morto, e, in primo  luogo, era  soddisfatta  la  convenzione  sociale. Poi arrivava  il prete,  le  corone,  i  soci della società  con  tanto  di  bandiera  a mezz’asta  e  in  lutto.  Il  defunto  veniva  accompagnato  fino  al cimitero.  La  Società  di M.S.  a  cui  il  defunto  apparteneva  provvedeva  a  tutte  le  spese:  bara, ornamenti, carro funebre  intarsiato ed addobbato con paramenti a  lutto,  in armonia con  i cavalli alluttati pur essi. Le  occasioni  per  uscire,  nei  paesi  del  sud,  erano  “garantite”  dal  rito  religioso:  era  la    grande occasione per  le figlie  in età da marito. Le portavano  in chiesa per  la Santa Messa. Le giovinette, addestrate in precedenza, giravano gli occhietti, maliziosamente, per guardare qualche giovanotto interessante o già da tempo  in “occhiata”, che, di solito, erano tutti raccolti  in fondo alla navata, quasi  si  vergognassero  di  stare  assieme  alle  donne  con  i  veli  in  testa:  esse  erano  tutte  sedute avanti.  Alla  fine  della  Santa Messa,  gli  uomini  uscivano  per    primi,  si mettevano  con  le  loro pagliette o berretti vari, pantaloni di fustagno marrone e giacche attillate, con camicia a colletto tondo bianca e baffoni alla moda, il cravattino.  

    

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9     Francesco  partiva  col  suo  inseparabile  amico  Peppe  u  burdinu  e  rientrava  con  i  bandi  della ferrovia.     Quando scoppiò  la guerra e  l’Italia aveva annunciato  il suo  ingresso nella contesa  il 24 maggio 1915,  il  Capitano  Carresi  aveva  lasciato  la  rotta  Amantea‐Salerno  ed  il  comando  del  piroscafo “Tirreno”. Fece qualche viaggetto  con  compagnie  locali: prima  col piroscafo  “Pietro Micca”; poi con la Rosina Barone goletta a due alberi,per viaggi fra Messina, Palermo, Napoli.    Nel pieno della guerra fu chiamato al comando del piroscafo “Storione”; poi  il Genio Marina di Taranto gli affidò il comando del rimorchiatore “Diana”, viaggi: Crotone‐Taranto.  Ma Gioia, come affrontò l’evento della guerra? Niente di straordinario. Come tutti i paesi italiani. La gente bene era favorevole all’intervento armato, considerandola una “guerra d’indipendenza”: ma consideravano che a combatterla fossero gli altri. I poveri non avevano né potere d’ evitare che la guerra si facesse, né  il potere di evitare che  la guerra  la combattessero  loro stessi;  la piccola e media  borghesia  artigiana  locale  (la  gran maggioranza)  professionale, marinara  era  favorevole all’intervento perché pensavano che avrebbe  incrementato  l’ attività economica e  la crescita dei noli; i socialisti (che a Gioia erano pochini) erano, in campo nazionale, schierati contro l’intervento, perché a morire ci andava  la sua base elettorale;  i cattolici contro, per quella visione universale dell’amore di Dio e del prossimo. La grande borghesia agraria, industriale; i papaveri militari erano favorevoli.     Ed avendo, costoro,  il potere politico  in mano dichiararono guerra all’impero austro‐ungarico.  Mico  il  fornaio  vendeva  pane,  ed  ascoltava  il  padrone  marittimo  Gentile,  sostenitore  della liberazione del Trentino da:  “Quei senza Dio degli austriaci. Quello è territorio italiano e devono restituirlo agli italiani.”   “Come, padre Vincenzo,  i governanti si  ricordano dopo 50 anni che  il Trentino è  italiano? Prima fanno  i balli assieme, poi, si  ricordano dei  trentini e dichiarano guerra a questi senza Dio, come dite voi, e sono cattolichi come noi!”  “Ma quali balli assieme? E’  la politica questa … e noi non  la possiamo capire! A mio figlio  lo farò arruolare, se vuole, e chi ha fegato lo faccia!”.  “Padre Vincenzo,  c’è  la  leva obbligatoria!  Lo  chiamano per  forza,  come  chiameranno mio  figlio Gaetano !”    A volte la discussione si accendeva in piazza: era un caos incredibile, ognuno diceva la sua, che, poi, era la stessa cosa; ma ognuno voleva il primato di averla detta prima degli altri ! Mico  il  fornaio  s’incavolava  di  brutto  quando  si  sosteneva  da  più  parti  che  con  la  guerra    ci sarebbero stati affari per tutti.  “Testoni, possibile che a nessuno di voi viene in mente che la guerra uno la può perdere ? Allora che  cazzo  ci  guadagni? Anzi‐  tuonava Mico  ‐  fateli partire  subito  i  vostri  figli prima  che  finisca! Tanto chi ci lascia la pelle sono sempre i poveracci! Mentre i ricchi hanno tutti i mezzi per non fare il soldato oppure stanno al comando !”.  Mico si accalorava sempre, per carattere a dire la verità, ma diceva grandi verità, mentre infilava la lunga pala dentro la larga bocca del forno, per estrarne il pane caldo, caldo, sudato e con la farina sulla sua faccia che formava una colla speciale. Anche suo figlio Giuseppe, gran lavoratore, che aveva scelto il lavoro del padre e non il marinaio, cercava  di  calmarlo,  con  quella  faccia  da  bravo  ragazzo;  un  faccione  tondo  e  le  labbra  grosse, capelli biondi confusi con  il bianco della  farina, che gli davano un’ aria  seria,  fidanzato con una ragazza del luogo detta “sturni”:  

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“Non ve  la prendete papà,  tanto è  inutile … Se “quelli  lassù” hanno deciso per  la guerra, noi  la dobbiamo combattere, pur non volendo “.  Mico il fornaio aveva, di ben donde, a preoccuparsi della guerra. Gaetano il figlio  maggiore, come nocchiere a bordo di un  incrociatore della Reale Marina  Italiana. Peppino partito qualche anno dopo in fanteria verso il Trentino.  Peppino rientrò in una bara, colpito da pallottole nemiche mentre, in quelle fasi convulse e inutili, i soldati andavano alla baionetta a riprendere posizioni perdute qualche ora prima. E se  lo sentiva Peppino ch’era giunta la sua ora. Prima dell’ennesimo attacco scrisse una lettera  ai genitori.  “Cari padre e mamma, spero che state bene, anche  io sto benino, se si può dire.  In questo momento sono  in una trincea piena  d’acqua  che  trapassa  le  nostre  scarpe  e  i  vestiti  sono  ‘mbunati  (zeppi)d’umidità.  Stiamo aspettando le cibarie, che come al solito è rappresentato da brodaglia con qualche pezzo di grasso a cui è attaccata un po’ di carne e del pane stantivo. Acqua ne abbiamo tanta ! Ma io non capisco, dobbiamo continuamente correre con i fucili da una trincea all’altra. Possibile che non sanno che si deve mangiare come si deve per fare questo? Siamo troppo indeboliti. Gaetano come sta? E le mie sorelle assieme a Mico e Rocco ? Fra poco ci avviseranno che dobbiamo occupare nuovamente la stessa trincea di due giorni fa e che ci  prenderono  gli  austriaci.  A  che  serve  tutto  questo?  Tanti miei  compagni  sono morti  …  non preoccupatevi di me, io prego sempre.  Un abbraccio a tutti voi. Vostro figlio Peppino. “    I  genitori  lo piansero una  vita. Al  lutto partecipò  tutto  il paese.  Stavolta non  ci  fu bisogno di lacrime a pagamento. Sgorgavano come un fiume dal cuore di parenti e amici. I vicini si davano da fare  per  alleviare  il  dolore  della  famiglia:  parlavano  del  destino,  di  fede  in Dio  che  è  una  gran medicina in tali occasioni. Stemperare il dolore della famiglia con i guai di altri o propri come Maria Minutolo  faceva,  sia perché  ci era passata,  sia perché era abile nel parlare. E ogni  famiglia  che aveva figli in guerra pregava Dio che li riportasse a casa sani e salvi. Come faceva Ciccia. La moglie di Mico, che pregava, adesso, per il figlio Gaetano.     Francesco fu richiamato, durante quelle fasi crudelissime delle trincee e la ritirata di Caporetto. Fu mandato nei bersaglieri  in bicicletta. Durante un bombardamento  con obici  fu  ferito ad una mano.  Intanto da qualche anno erano cominciati ad apparire nei cieli gli aerei. Avevano eliche di legno e struttura metallica, potevano essere armati con mitragliatrici e con granate di poco peso, altrimenti con roba più pesante si correva il rischio che l’aereo non si sollevasse da terra.  Essendo un ottimo ebanista, Francesco fu mandato a Napoli presso l’officina militare del comando aereo della stessa città. Fortunata lo seguì con i due figli e vissero lì, fino alla fine della guerra, non prima  di  aver  sfornato  il  terzo  figlio  cui  diedero  il  nome Giuseppe.  Il  parto  fu  complicato  e,  il bambino  nacque  con  il  braccino  sinistro  storto,  ma  non  impedì  a  Giuseppe  di  muoversi regolarmente e normalmente.  Chi  aveva  sperato,  ingenuamente,  che  la  guerra  avrebbe  risollevato  l’economia  della  Piana, contando su un aumento dei prezzi delle derrate alimentari prodotte sul posto, ovvero l’utilizzo e l’incremento del prezzo dei noli dei velieri, si era  ingannato, era caduto  in una trappola, doppia. Gran parte della gente valida, particolarmente  i braccianti agricoli, gli operai e  la gioventù medio borghese  dell’area,  fu mandata  a morire  al  fronte,  in  quel macello  delle  trincee  e  degli  inutili attacchi alla baionetta, ovvero con  i  letali gas asfissianti, ultimo ritrovato tecnico per uccidere di più.  I  velieri di Gioia  rimasero  fermi, perché  gran parte dei  loro  equipaggi  furono  richiamati  in servizio nella Regia Marina Militare. Chi riusciva a salpare con un ridotto equipaggio,  lo  faceva a rischio e pericolo dell’armatore. L’impero Austro‐Ungarico aveva a Trieste una flotta di navi militari forte, compresa una delle ultime invenzioni utilizzate a fini di guerra: il sommergibile.  

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Gli armatori gioiesi, ne ebbero una prima prova  il 4 novembre del 1916. La Goletta a due alberi “Nuovo  San  Luigi”  di  45  tonnellate,  carico  di merce  varia, mentre  navigava  con  destinazione Taranto,  al  largo  di  Capo  Spartivento,  fu  affondato  dal  siluro  di  un  sommergibile  austriaco. Gli armatori di quel veliero erano  i signori Saffioti Paolo di Santo, Mesta Salvatore, Saffioti Giovanni ed Auteri  Saverio  che  lo  comandava,  residenti a Palmi ma domiciliati  a Gioia Tauro.  I primi  tre stavano discutendo con  lo spedizioniere signor Pizi Nestore, della possibilità di fare un viaggio  in Sicilia  con  botti  piene  di  vino  e  olio,  fino  a  Palermo,  quando  una  telefonata  interruppe  le  loro discussioni. Erano  i reali Carabinieri che comunicavano di aver ricevuto dalla Capitaneria di Porto di Reggio Calabria  il seguente telegramma: “La nave Goletta Nuovo San Luigi è stata affondata al largo di Capo Spartivento da un  sommergibile Austriaco, vi  sono 4 uomini  feriti, ma  salvi  tutti  ! Attendiamo o l’armatore o lo spedizioniere !‐  “Signor Pizi andateci voi ‐ disse il Saffioti.  Il capitano Mesta era incredulo; prese in mano il telefono e cominciò a parlare: “Veramente maresciallo?  Possibile che abbiano silurato  una nave a vela? “ “Certo  che  è  possibile”‐  rispondeva  il maresciallo  Pizzuto  ‐  la  guerra  è  guerra  per  tutti!  non conosce raccomandati!” e attorcigliandosi i baffoni a manubrio come fosse canapa riprendeva:  “Ora vorrei i nomi e i cognomi dell’equipaggio e il tipo di carico, così contestiamo ai nemici che il veliero  non  era  armato;  eventualmente  gli  chiederemo  i  danni!”  scherzava  il  maresciallo.  Lo spedizioniere  riprese  il  telefono e diede  l’elenco dell’equipaggio, assieme alla  tipologia di merce trasportata: 8 uomini più il comandante, legname per il cantiere navale di Taranto.  La notizia si sparse immediatamente e fece molta impressione a Gioia Tauro. Finora la guerra era passata  dalla  cittadina  con  qualche  soldato  deceduto.  Ora  gli  armatori  cominciavano  a preoccuparsi, davvero, della  sorte dei propri  velieri. Come  Felicia, ma  suo marito  conoscendola bene, con un telegramma la tranquillizzava.  La guerra  fu  lunga, difficile.  I  soldati di  leva    se  scampavano alle pallottole e ai gas nemici, non sfuggivano alla Corte marziale italiana, per via di quei rifiuti a farsi massacrare con attacchi inutili. Intanto la guerra si combatteva, come s’è visto anche in mare, nei nostri mari. Così tra Caporetto, l’intervento  Americano,  la  fine  dello  Zar  in  Russia  e  la  nascita  del  primo  paese  socialista  nel mondo, la marineria gioiese fu di nuovo sconvolta dall’affondamento del tre alberi Brigantino “San Giovanni”  di  158  tonnellate.  La  notte  del  10  dicembre  1917  gli  armatori  Patamia  Francesco  fu Rosario di Bagnara, domiciliato a Gioia Tauro  in via Tripodi, e Costa Antonino socio di minoranza  del  suocero,  in  via  Solferino,  furono  svegliati  e  invitati  in  caserma.  Spaventati  gli  armatori  vi  si recarono e furono avvisati che il loro Brigantino “San Giovanni” , aveva urtato una mina nel Golfo di sant’Eufemia Lamezia: vi furono 2 morti e 5 feriti.  Non migliore sorte toccò al brigantino  a tre alberi “Virginia Gentile” di 140 tonnellate nuovissima, avendo quattro anni di vita, appena. Identica sorte toccò al Brigantino “Sant’Antonio da Padova” di 113 tonnellate dell’armatore Gentile Giuseppe di Nicola residente a Palmi, affondato dal siluro di un sommergibile nelle acque di Capo San Vito (Taranto) con un equipaggio di 20 persone: 5 feriti e  tanta  paura.  Ennesimo  affondamento  dovuto  ad  un  sommergibile  fu  il  Brigantino‐goletta  del Capitano Gentile Vincenzo di 163 tonnellate di Palmi, carico di legname e frutta secca al largo della Tunisia. Affondò anche  la goletta “Maria S.S. delle Grazie” di 44 tonnellate dell’armatore Alessio Pasquale,  bombardata  da  una  nave militare  prussiana  nella  primavera  del  1917.  Gli  armatori Patamia Francesco e Gentile Vincenzo, negli anni della 1° guerra mondiale persero diversi legni.  L’ultimo della serie fu il Brigantino “Assunzione” del Gentile, di 155 tonnellate affondato a largo di Fiumicino.  La  guerra  lungi  dal  portare  fortuna  alle  imprese,  portò morti,  feriti  con mutilazioni  gravi,    crisi economica, tensioni sociali.  

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   Dopo la guerra le tensioni fra gli Stati si erano acuite ed allargate al loro interno.Gli Stati Uniti si presentarono al mondo come  la potenza economica e militare che “aveva salvato”  l’Europa dagli imperi  centrali; mentre  la Russia  con  la  rivoluzione dei  Soviet nel 1917, diventava per  la  gente povera, ed anche meno povera,  il punto di riferimento di una società di “uguali” da esportare  in tutto il mondo al grido:  “Aboliamo al proprietà privata !” e “Ad ognuno secondo le sue necessità !”. Il mondo era ancora in ebollizione.  Le sezioni socialiste nacquero come funghi in tutta Italia. In Calabria dappertutto meno che a Gioia Tauro. La più vicina fu fondata a Palmi. Gioia ebbe molti simpatizzanti, ma non furono  in grado di fondare una sezione. Essa, per quanto fosse  viva  nelle  attività  economiche,  era  sonnacchiosa  e  indifferente  nella  politica  attiva  o nell’associazionismo,  ovvero  le  associazioni  di M.S.  di Gioia  furono  numerose. Ma  non  ebbero rilievo politico o ideologico. Chi le capeggiava, si era sempre guardato bene dal lasciarle fare il gran salto nella politica.  Difatti,   erano  capeggiate dai notabili del paese. Quantomeno ne erano  soci onorari  coloro  che avevano in mano l’economia del paese. L’unica volta che alzarono la voce contro il rappresentante del governo, il Prefetto, fu: “il 26 giugno 1899 il consiglio della Società Vetturale Agricola e quello della Società Operaia deplorano il comportamento del Signor Prefetto di Reggio Calabria, contrario a  risolvere un problema di estrema  importanza per  il  futuro della popolazione di Gioia Tauro.  Il signor Rocco Nostro, in qualità di Presidente della Società Operaia e dell’assemblea, pronunziò un discorso molto  sentito  ed  anche  polemico  nei  confronti  del  Signor  Prefetto,  per  l’importanza storica  dell’evento  …  alla  fine  del  discorso  del  focoso  Presidente,  ne  scaturì,  solamente,  un telegramma  al Ministero  dell’epoca. Questo  il  testo:  “A  sua  Eccellenza Ministro  Interno‐Roma Società  Operaia,  Vetturale  Agricola  riuniti  note  pratiche  fatte  Amministrazione  comunale  per appalto  conduttura  acqua  potabile,  giusto  progetto Mezzatesta  dichiarato  Sovranamente  utile pubblico,  plaudendo  operato  stessa  Amministrazione  classe  lavoratrice  e  deplorando  condotta Prefettura che finora ostacolato appalto importantissimo opera reclamata dall’intero paese senza nemmeno  esservi  degnato  rispondere  ai  voti  fatti  dalle  Società  predette  contenuti  nella deliberazione 31 maggio presentato sotto Prefettura Palmi da apposita commissione, rivolgiamo preghiera  E.V.  disporre  che  diasi  termine  inqualificabili  abusi  verso  Amministrazione  e popolazione,  le quali devote verso Augusta Dinastia e  liberi  Istituzioni  reclamano  rispetto propri diritti e sollecitano inizi lavori che daranno occupazione classe operaia affamata, cui ha dato finora sufficienti prove  rispetto  legge autorità  costituita. E.V.  strenuo difensore nostre  liberi  Istituzioni voglia degnarsi risolvere subito grave problema. Conformemente istanza fatta da accurata, solerte ed onesta Amministrazione Municipale cui opera mira solo pubblico bene,  richiamando autorità prefettizia a più corretto e prudente  indirizzo nei provvedimenti arruolati. Fidante nel  suo colto senno, vivamente ringraziamo” … seguono firme Presidenti.    L’ambiente Gioiese  era  questo.  Di  fronte  alla  gravissima  situazione  per  la mancanza  d’acqua potabile,  in  una  zona  ancora malarica,  con  un progetto  datato  1863,  sindaco  Lombardo,  ancor bloccato  dopo  16  anni,  le  S.M.S.  si  erano  “ribellate”  con  un  semplice  telegramma  inviato  con “rabbia” al ministro dell’interno.         

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10     L’ormai anziano Capitano Carresi, pur essendo nato e cresciuto marinaio, non aderì alla società di M.S. lavoratori del mare. Su richiesta del suo grande amico Achille Normanno si iscrisse a S.M.S. “mista lavoratori” con sede al “piano delle fosse”.   Intanto  da  qualche  anno,  si  stava  alacremente  lavorando  alla  costruzione  della  ferrovia  a scartamento ridotto Gioia‐Seminara.  Finalmente dopo un trentennio circa di  lotte campaniliste fra  i vari paesi della piana ovvero fra  i politici di quel tempo, una parte del progetto trovò compimento nel 1917:  il primo passo di una infrastruttura che si infilava nel cuore della piana, al servizio dei vari comuni. Bisognava continuare a lavorare per collegare il versante  tirrenico con quello ionico.     Nel 1918 a guerra terminata Francesco fu congedato e rientrò con tutta  la famiglia, con grande gioia del parentado;proprio mentre vi erano  i preparativi per  il matrimonio della  secondogenita del Capitano Domenica, promessa ad un marinaio gioiese di nome Rocco Bonazza. Era costui, un bell’uomo alto e robusto, di colorito bruno che aveva una particolare predisposizione alla tecnica. Conosceva perfettamente i velieri nella loro struttura, conosceva l’apparato macchina dei piroscafi ed aveva buone cognizioni di elettricità. Suo padre    fu uno dei  fondatori della  società di mutuo soccorso “lavoratori del mare” , un padrone marittimo di origine Palmese. Fu proprio lui ad insistere per il fidanzamento tra suo figlio Rocco e la figlia del Capitano Carresi. Le famiglie per bene cercavano altre  famiglie per bene per sistemare  i  figli. Al Carresi bastavano  la serietà dei costumi,  la voglia di  lavorare,  l’onestà,  il rispetto. Al Bonazza  la serietà della famiglia, che per un mestiere come  il marinaio era un marchio di  fabbrica. Non ci si poteva avvicinare ai Carresi in cerca di ricca dote: rimaneva deluso. Ma erano ricchi di categorie dello spirito: dedizione alla famiglia, spirito di sacrificio, rispetto per i mariti, che per quei tempi era moltissimo.  Carmela,  la  terzogenita  “filava”  con  un  altro  uomo  di mare,  Gaetano,  primogenito  di Mico  il fornaio e fratello di Peppino, perito durante la prima guerra mondiale. Mentre Serafina, la quarta nata Carresi,  filava con  il cugino di Gaetano, Peppino. Serafina era bella come Fortunata, bruna, capelli lisci, zigomi alti, magrolina ma, instabile nel sistema nervoso, come la mamma; Peppino era con capelli castano chiaro, occhi azzurri, un cespuglio di capelli che terminavano con un gran ciuffo sulla  fronte. Aveva un  carattere molto  chiuso. Riuscire a  farlo parlare era un’impresa e quando rispondeva,  lo  faceva con risposte secche e decise.Una persona o parente s’intimoriva a sentirlo rispondere. Quel giorno il Capitano Carresi, con il fidanzamento tra Rocco Bonazza e Domenica, ebbe come un presentimento, mentre  si  festeggiava  il  suggello matrimoniale. Qualcosa d’indefinito, di  strano, stonava  in  quelle  felicitazioni,  ma  non  riusciva  a  capire  cosa.  Ma  scacciò  subito  il  fastidioso pensiero. Gaetano  un marinaio  alto  e  robusto,  di  colorito  castano  chiaro,  occhi  chiari  cangianti,  aveva anch’esso navigato tutti  i tipi di velieri, compresi quelli a motore. Aveva un vocione robusto, che incuteva rispetto, e il cuore molle come la panna. Gran lavoratore, instancabile. Quando i fidanzati erano  invitati  a  pranzo  dai  suoceri,  il maresciallo  Felicia  predisponeva  il  posto  che  a  ognuno toccava: naturalmente i fidanzati erano tutti a ponente e le promesse a levante, sotto il suo occhio vigile: niente occhiate da pesce  lesso. Se ne accorse  il buon Gaetano che dopo aver bevuto del vinello, offrì  il  suo bicchiere  a Carmela,  invitandola  a  fare  altrettanto,  Felicia,  reagì  togliendo  il bicchiere e disse con cipiglio:  “Queste cazze di cose non mi piacciono !”. “Vediamo ora quali novità ci portate dalle navi !”.     Carmela,  la  più  saggia,  riflessiva  delle  figlie  del  Capitano,  faceva  segno  a  Gaetano  di  non preoccuparsi, conoscendo bene  il carattere della mamma, che a volte, per evitare ciò che ai suoi occhi era un peccato, ne commetteva uno più grosso. Carmela: sarebbe  facile parlare di questa 

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donna , ma, nello stesso tempo difficile. Facile perché con un animo così disponibile e nobile verso il prossimo, si può solo dirne bene.  Difficile era  riuscire a capire  la molla che  la spingeva ad essere disponibile verso gli altri;  la sua temperanza e la sua saggezza; il garbo con cui  si poneva davanti alla gente per invitarle ad esporre i suoi problemi e con essa tentare di risolverli, ne facevano il punto di riferimento della famiglia e dei tanti amici, anche per compiti  ingrati, come vestire qualche defunto o nelle  liti. Tutto questa poteva  nascere solo da una grande fede in Dio, in Gesù, di quell’uomo che si caricò del compito di portare  la  verità  e  l’amore,  soffrendo:  “Quando  vedranno  come  agirete  capiranno  che  siete cristiani “. Era la sua fede nel prossimo e nel  Cristo che ne faceva un porto in cui rifugiarsi? O c’era altro? Il cuore semplice e nobile? Ma questi erano aspetti positivi di tutta la famiglia: la fede era il loro naturale rifugio. Ma a differenza delle altre sorelle era meno impulsiva. Gli aspetti positivi del Capitano e di Felicia si erano  fuse mirabilmente.  Nel  1919  Concetta  e  Rocco  si  sposarono,  l’anno  successivo,  nel  gennaio  del  1920  contrassero matrimonio Gaetano e Carmela. In quello stesso anno il Capitano andò in pensione al compimento del 60° anno di età. Ma neanche a terra riuscì a stare fermo. Diventò rappresentante di macchine per cucire Singer.  Nell’ottobre  del  1920  si  sposò  la  figlia  Serafina  con Giuseppe Ventre,  detto  lo  scrivano. Grazia Carresi  la quinta delle sorelle fu  la meno fortunata. Anch’essa fidanzata con un marittimo  locale, dopo circa un anno di frequentazione, l’uomo ruppe il fidanzamento perché aveva ricevuto offerte migliori  da  un'altra  famiglia.  Ritorniamo  al  Capitano  ed  al  suo  lavoro  di  rappresentante  di macchine per cucire. Le ragazze di buona famiglia, finita la scuola dell’obbligo venivano indirizzate a imparare una qualche attività, in genere: taglio e cucito o ricamo presso qualche maestra. Infine vi  erano  i  sarti  per  gli  uomini  (i  custureri).  Era  qui  che  il  Capitano  indirizzava  il  suo  lavoro  nel tentativo di piazzare il prodotto ed essendo un uomo di stile, affabulatore e competente, spiegava il prodotto cercando di convincerli all’acquisto:  “Questa è una  invenzione americana, uno strumento che a mio parere non deve mancare nelle case dei sarti. Con poche, semplici operazioni, questa cuce un vestito intero senza ditale al dito e senza schiena curva. Muovendo appena le gambe, ci si trovava il vestito già pronto senza soverchia fatica”.  Quando  restava  in  casa  teneva  la  contabilità  delle  figlie  maritate.  I  rispettivi  mariti spedivano i soldi guadagnati e il suocero li versava a loro conto alla posta.  Nell’arco di un anno e mezzo  tutte  le  figlie del Capitano partorirono. Carmela dopo un aborto, partorì  una  bambina  nel  dicembre  del  1921;  Fortunata  un  altro  maschio,  il  quarto,  Mario; Domenica una bambina, Vincenzina; Serafina un maschietto, Antonino.    Per  il mestiere  che  facevano, era  raro  che  i  cognati  si  trovassero  tutti  assieme,  compagnie di navigazione diverse, viaggi diversi.  In quegli anni che vanno dal 1920 al 1922, le tensioni sociali in Italia erano alle stelle, con scioperi continui,  occupazione  delle  fabbriche,  i  braccianti  agricoli meridionali,    partiti  in  guerra  con  la promessa della terra da parte del governo, si trovarono con un pugno di mosche  in mano perciò misero mano all’occupazione dei fondi agricoli incolti.  Nel  1922  tutti  i  cognati,  Rocco,  Gaetano,  Giuseppe  e  Vincenzo,  si  trovarono  tutti  assieme  dal suocero. Tra una chiacchiera e l’altra il Capitano spiegava loro di quando espatriò in Argentina ed al ritorno acquistò la casa di Bagnara.  Una  pulce  s’insinuò  nell’orecchio  dei  cognati  e  dopo  averne  parlato  con  le  rispettive  mogli, decisero  di  espatriare  (disertare  si  diceva  allora)  farsi  il  gruzzoletto  nel  paradiso  americano  e rientrare,  che voleva dire assentarsi per  tanti anni.  I  cognati Rocco, Gaetano,Vincenzo, Peppino nell’anno  1922, mentre  la  crisi  liberale  toccava  l’acme  cedendo  sotto  i  colpi  del  fascismo  e  la marcia su Roma con a capo Benito Mussolini, partirono dopo la benedizione del suocero. 

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Ma prima di partire Carresi chiamò  in disparte Gaetano e gli chiese di stare attento a Rocco che ultimamente si comportava stranamente. Gaetano fece strada espatriando regolarmente, gli altri abusivamente.     Il fascismo si presentò alla gran massa come il “nuovo”, come gli “aggiustatorti” capace di metter le briglie ai sindacati rossi,  metter all’angolo gli imbelli liberali ormai marciti nel loro stesso brodo ed i cattolici piagnoni.    Anche Gioia Tauro  rispose alla chiamata di quello che sembrava  il “nuovo”.  Il  fascio a Gioia  fu costituito  tra  il 1919 e  il 1920.  Il  fondatore  fu  Filippo  Surace  che  trovò  soci e  sostenitori  in un gruppo di ex combattenti, di studenti, artigiani: Vincenzo Chiappalone, Rocco Magazzù, Giuseppe Agresta,  Carmelo  Genovese,  Antonino  Caprì,  Gaetano  Tomaselli,  Giuseppe  Ardissone,  Saverio Bagalà, Francesco Fedele, Salvatore Cavallaro, Gaetano Capri.Cui s’aggiunsero, qualche anno dopo, il Padrone Marittimo Giuseppe Vinci, Giuseppe Arlacchi, Domenico  Labate.  Il  Surace  fu  il primo segretario  politico  del  fascio  gioiese  ed  una  squadra  d’azione  formata  dai  primi  aderenti,  che, partecipò alla grande adunata di Napoli del 1922.  I fascisti gioiesi ebbero modo di farsi notare  in azione,  quando manganellavano  i  “disfattisti  socialisti”  o  i  decadenti  “liberali”  o  i  “dormienti cattolici” o chiunque fosse loro contrario. Se non omicidi, come riportò la cronaca allora. In quegli anni  le classi più abbienti, passavano  le domeniche e  le  feste comandate, presso  i circoli privati. Qui  si  incontravano  amici,  conoscenti,  pensionati,  giovani,  a  fare  qualche  partita  a  carte  o  a sorseggiare qualche bibita fra una battuta e  l’altra o a osservare  le carrozze passare o a “tagliare cappotti” su misura. Non scampava nessuno. Uno di questi circoli era chiamato “Stesicoro”. Il 13 dicembre 1924 ad un angolo del salone  interno stavano giocando a briscola quattro amici: Vittorio  La  Capria,  Rocco  Zappia, Vincenzo Agresta  e  Totò  Lo  Presti. Questi  giovani  avevano  in comune  l’età,  la  voglia  di  vivere  ed  erano  socialisti.  Stavano  ridendo  e  scherzando  mentre giocavano. Ad  un  certo  punto  arrivarono  alcuni  fascisti,  tra  cui  il  noto Vincenzo Chiappalone.  I quattro amici appena  li videro  si  scambiarono un’occhiata d’intesa.  Lo  stesso  fecero  i  fascisti.  Il Chiappalone fanatico e provocatore, anche nella vita normale, apostrofò il gestore:  “Ora pure  i disfattisti trovano asilo  in questo  locale ! Allora vuol dire che non dobbiamo entrare noi, è vero Pietro ?” naturalmente il gestore del circolo, rispose timidamente:  “No, è un locale per soci … e loro sono dei soci, come lo siete voi …!” e i fascisti:  “Se ci sono vermi qui, non ci saremo noi !” e il La Capria abboccò:  “E noi non stiamo con i topi di fogna, andate ad armare cricche, magari in dieci assalire uno solo !” Apriti  cielo  !  Tra  gridate  di  topi  di  fogna,  vermi,  si  presero  a  botte.  Fu  qui  che  il  fanatico Chiappalone, avendo la peggio, estrasse una pistola, sparò ed uccise il La Capria, lo Zappia e ferito Agresta.  Un’altra  volta  fecero  allontanare  dal  podio  l’oratore  socialista  On.Cefalì  che  doveva tenere un comizio per  le elezioni.  Il  loro motto era   questo: violenza su violenza  in nome di una intolleranza becera ed un nazionalismo da quattro soldi. Il Capitano ancora  lucido, capiva quanto stava accadendo, in maniera tragica, in tutta Italia, ed alzando gli occhi al cielo pregava: “Signore indica  tu  la  strada migliore per  tutti  !”. Poi andava alla  ricerca di nuovi  clienti a  cui  vendere  le singer. Il piccolo Ciro intanto prendeva lezioni di musica presso un maestro al piano delle fosse.  Da qualche tempo il Capitano, presso il suo amico Normanno, aveva conosciuto il generale Adolfo Musco, consigliere del Banco di Napoli, sposato con  la nobile Serra‐Cardinale. Questa famiglia di grandi latifondisti, aveva lungo la strada Salerno‐Reggio, nell’area di Vallamena, un mulino. Qui vi aveva costruito una centrale elettrica, da cui partivano le linee aree che alimentavano la pubblica illuminazione. La turbina era mossa dall’acqua del fiume Budello. Alla turbina vi era coassialmente collegata una dinamo,  che  forniva energia elettrica a C.C, necessaria alla  illuminazione di uffici, piazze o qualche via  importante.  Il comune pagava al Musco 2.000  lit. annue per  lampade da 16 candele, o, se si preferiva pagamento a contatore. La distribuzione, pali, cavi,  fu data  in appalto 

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all’impresa  ing.  Leonardo  Albonico  e  c.  Naturalmente  non  tutti  i  gioiesi,  allora,  si  potevano permettere la luce elettrica: tanti ancora usavano la lucerna a olio.  Uno dei primi dipendenti fu il signor Napoli, fine elettricista, che gestiva l’impianto. Dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Il debole Re affidò la formazione del nuovo governo al Cavalier Mussolini Benito.      Durante  gli  incontri  familiari,  il  Capitano  Carresi  discuteva  spesso  delle  vicende  italiane  e  si chiedevano cosa, ancora, dovesse succedere in questa martoriata Italia.  “Non è bastata  la guerra? Come  l’umanità  si dimentica presto dei  loro morti  ! Ancora vogliono altre vittime … Dio ci punirà per questo !” diceva accorato il Capitano.  “Ma no”‐ rispondeva ironico Francesco ‐ ormai è arrivato l’aggiustatorti, tra manganellate e olio di ricino, i fascisti secondo il Re, metteranno le cose a posto. E così la pensa mio cognato Peppino che è un loro estimatore. Basta solo che ad essi si uniscano i deputati cattolici, basta solo che il Papa dia il via, ed il cerchio si chiuderà”‐ disse il genero. “Vedrai che il Papa non darà l’autorizzazione ai cattolici a sostenere il governo fascista, ed il Papa non si sbaglia mai … non si può stare dalla parte dei violenti, come non si può stare dalla parte dei rivoluzionari.”  Anche questa volta il Capitano si sbagliò. I cattolici sostennero il primo governo Mussolini. I fascisti nelle sedi istituzionali predicavano pace e fratellanza,  in “periferia” praticavano la violenza, a Gioia qualche anno dopo successe questo episodio: Una domenica  mentre la gente era attenta alle funzioni religiose, un manipolo di fanatici fascisti, guidati da Peppino Vinci detto “u salito”, arrogantemente, con protervia, fece smettere le funzioni religiose,  obbligando  la  gente  ad  uscire.  Era  solo  uno  dei  tanti  episodi  della  violenza  eletta  a sistema.      Mentre  suocero  e  genero  chiacchieravano  delle  vicende umane,  le  sorelle Carresi,  in  un’altra stanza e con una gran quantità di figlioli che facevano un pandemonio, tra pianti,  litigi, rincorse, discutevano dei  loro problemi casalinghi o dei mariti  lontani o di qualche vicina poco simpatica. Ma qualunque scusa era buona per stare tutte assieme.  Poi congedatosi dal suocero, passava a salutare  la sorella Peppina, che si era maritata,  in quegli anni,  con  un  artigiano Giuseppe  Arlacchi,  il  cui  padre  era  stato  uno  dei  fondatori  della  S.M.S. Operaia, originario di Palmi ma da tempo stabilitosi a Gioia, al Piano delle fosse. La sorella Peppina era mamma di un  figlio  chiamato Antonino.  Il  lavoro  in quegli  anni  stentava per  tutti. Arlacchi aveva una segheria per botti nella zona dei “cuatti”, diventata poi via S.Martino. Si  lavorava per qualche botte, per qualche mobile o si vendeva legna o segatura per le fornaci o forni. Francesco era  ancora  assieme  allo  Zio  Peppe  e  i  due  fratelli  Paolo  e Antonino.Tra molti  sforzi  tiravano  a campare con l’economia italiana in recessione che nel Meridione si sentiva ancor di più. Diminuendo  il  lavoro,  diminuiva  la  circolazione  monetaria  e  non  si  potevano  pagare  debiti, cambiali, lavoratori, i magazzini non vendevano. Anche Francesco e suo zio non potevano pagare i debiti,  come  i  debitori  loro  non  pagavano    i  lavori    eseguiti,  ed  erano  continue  alterazioni  del sistema  nervoso.  Sia  Francesco  che mastro  Peppe  evitavano  di  fare  discorsi  di  tale  natura  in presenza di Antonino, che era un tipetto niente male: “Una mosca davanti al naso non se la faceva passare !”. Questo era il gergo, segno di rispetto. Ma Antonino pur non essendo da malavita, una mosca dal naso non se  la  faceva passare veramente. Un giorno venne a sapere che un  tale non aveva ancora pagato un mobile  costruito da  loro. E andò a  ricordaglielo. Quest’uomo,  lungi dal ricordarsi del debito, con atteggiamento da duro, mafiosetto, cominciò a provocarlo, pensando di impressionarlo. Antonino, calmo, calmo, rispose che era venuto solo per avere  i soldi del mobile. L’altro, come giocasse con una tavola irta di chiodi, rispondeva sempre picche. Fino a che Antonino perse la pazienza e rispose:  

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“Fai il prepotente perché sei a casa tua: se hai fegato vieni e fammi vedere quanto vali, dove vuoi tu, mano a mano!” doveva essere una scazzottata. Finì in tragedia. L’uomo fece finta di accettare la  sfida mano a mano, ma  ci andò armato di  coltello. Antonino era minorenne, ma  fisicamente piazzato e svelto come un gatto.  Durante la lotta, l’avversario capendo di aver sottovalutato il ragazzo, estrasse un lungo coltello a serramanico. Alla presenza di tante persone che assistevano alla scena, Antonino afferrò i braccio di quell’uomo, e ruotando il suo braccio, lo colpì mortalmente. Antonino fu arrestato e poi, con i testimoni a suo favore, fu assolto per legittima difesa. Con  l’attività  che  arrancava,  Francesco  s’inventava  nuove  soluzioni  tecniche:  ornamenti  più moderni, mobili  nuovi,  qualche macchina  nuova,  partecipazione  a  gare  d’appalto,  cassette  per agrumi. “Ci vorrebbe un po’ di  fortuna“  ripeteva Fortunata “e sarebbe ora che questo debito  la fortuna lo pagasse !”. “Coraggio Fortunata, la provvidenza Divina ci verrà in aiuto !”‐ diceva Francesco.  I  cognati  “americani”  puntualmente  scrivevano  alle  loro  famiglie  per  raccontare  la  loro  vita  di “disertori”, di lavoratori portuali a Nuova York,  come fosse la loro casa americana di“broccolino”. Solo  Rocco  scriveva  molto  raramente  alla  sua  famiglia.  Ma  Domenica  non  sospettava  nulla, pensava  che  suo marito  non  avesse  avuto  il  tempo  di  scrivere.  Il  buon  Capitano,  invece,  era informato da Gaetano di quanto stesse accadendo in America: Rocco aveva deciso di restare li per sempre. A questo punto Gaetano mise all’opera la sua capacità di convinzione, e spinse il cognato riottoso a rientrare in Italia.  “Ora  il  gruzzoletto  ce  lo  siamo  fatti,  possiamo  rientrare  in  Italia.  Ci  reimbarchiamo  qui  e sbarchiamo a Genova”.    “E che devo fare in Italia ? Qui si sta bene … si è liberi … c’è lavoro‐ diceva Rocco. Ma Gaetano insisteva: “Rocco, goditi la figlia, che ancora non conosci, come non conosco io la mia, è per i figli che abbiamo fatto questi sacrifici!” e Rocco si convinse. Dopo più di quattro anni dallo loro partenza per Nuova York i cognati rientrarono. Ed acquistarono dal demanio  il terreno su cui costruire  la  loro casa: alla fine  la scelta cadde sul terreno di fronte alla casa del Capitano o poco lontano.   Intanto  il  fascismo aveva completato  il suo colpo di stato  tollerato.  I moderati cristiani si  resero conto nel gennaio del 1925, dopo l’omicidio Matteotti, delle “qualità politiche” del fascismo e del suo  “conductor”    che  annunciava  di  fatto  la  fine  delle  libertà  sia  individuali  che  collettive.  Fu abolita  la  libertà di  stampa,  sciolte  le organizzazioni  sindacali,  i partiti politici, e,  i  loro deputati decaduti,  fu  abolito  il  diritto  di  sciopero.  Molti  intellettuali  e  semplici  oppositori  fuggirono all’estero o si zittirono. Da oggi ogni provincia, ogni comune, ogni villaggio aveva  il suo ducetto.  Ogni  fascista dettava  legge.  In ogni  località, per  il solo  fatto di avere una camicia nera e  il  fez  in testa, ogni fascista si sentiva padrone.  Nelle strade, nelle piazze, nelle adunate o nei circoli si gridava: “Viva il Re !”‐ “Viva Mussolini !”. “Verrà un giorno che quel grido si muterà in abbasso. Verrà un giorno in cui parleranno quelli che oggi tacciono!”  Così  si  esprimeva  Pietro  Nenni  in  quei  giorni.  E  coloro  che  amavano  le  libertà  democratiche tacquero per ventanni.   Anche a Reggio e provincia  fu stroncata ogni  tipo di opposizione. Da quel momento  in poi, ogni parola  poteva  costare  cara;  anche  la  semplice  chiacchierata  in  una  cantina  o  dal  barbiere,  era preceduta dal timore di essere ascoltati dal delatore di turno, che, per dispetto o per  farsi bello 

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davanti al rappresentante del potere  , accusava  la gente di antifascismo  (lo stesso  timore che si aveva per la delinquenza). Se  non  si  fosse  stati  più  che  sicuri  dei  presenti  nessuno  fiatava. Nemmeno  il Capitano Carresi, quando si recava da mastro Luigi il barbiere per un’aggiustatina ai capelli, fiatava. Poi, sottovoce, mastro Luigi diceva: “Capitano, come  la pensate voi ? Pensate che questi risolveranno  i problemi che abbiamo ? Lavoro che manca, strade sterrate, la delinquenza … ?” “Mah !” rispondeva con rassegnazione il Capitano “c’è troppa violenza in giro … e con la violenza non si risolvono i problemi: la violenza chiama violenza !” “E ditemi un'altra cosa Capitano, le nostre vite, insomma, saranno migliori? domandò ancora Luigi. “Mi auguro di si per tutti questi giovani come mio figlio. “ A questo punto entrava nella discussione  il terzo convenuto, noto come socialista ed oppositore  del  fascismo: Carlo Castellano. Che  con  rabbia  sosteneva:  “Questo  ci porterà  alla  rovina diritto diritto … altro che stare meglio !”. E’ noto che  il modo migliore di  far  fare una cosa a un altro è quello   di proibirglielo: così mastro Luigi quando vedeva  la piega che prendeva  la discussione  si preoccupava, e agitando il rasoio o la forbice:  “Carlo per piacere, non alzare la voce, se no questi mi incendiano il locale!”   Carlo  ribadiva ancora più forte: “Ma  vi  rendete  conto  che  siamo  guidati  da  quattro  straccioni? Da  chi  in  vita  loro  non  ha mai contato? Che erano ladri di galline? Che non sanno né leggere né scrivere e comandano?”  Mastro Luigi ancora più preoccupato:  “Carlo non alzare la voce, tu mi rovini!”  Poi interveniva il Capitano a calmare le acque autorevolmente:  “Questi  sono  i  saltafossi, caro Don Carlo! Sono quelli che  s’imbarcano  sul carro dei vincitori, di ogni vincitore …  i principi,  le  idee vengono messe da parte … ora vediamo cosa sanno  fare, può darsi che col tempo … ! “Capitano, credetemi,  l’unica  loro  logica è  la violenza;  i  loro principi,  i  loro valori sono  riposti  in quel manganello o nell’olio di ricino! Questi cantano il Te Deum in chiesa, poi, nelle strade cantano l’ufficio delle tenebre! Questi sono servi dei padroni più reazionari: sono forti con i deboli e deboli con i forti! Sapete, Capitano, quello che è successo l’altra sera?”  “No” – rispose incuriosito il capitano Carresi. Carlo Castellano raccontò il seguente episodio:  “La camicia nera Mico Labate stava chiacchierando con alcune persone, con indosso la sua camicia nera,  il fez,  il manganello  in mano e gli stivaloni  impolverati; un pecoraio, passando di  la,  lo urtò senza  volerlo. Mico per  tutta  risposta,  lo pestò di botte. Costui era uno dei pecorai di  Filoreto Fondacaro. Quando  il Fondacaro si  ritrovò  il pecoraio pestato a sangue, che sembrava un Cristo  in croce, si mise la palandrana ed un nervo di bue in mano, e  andò a chiedere spiegazioni a Mico Labate.                 Filoreto  Fondacaro  era  un  uomo molto  rispettato,  se  non  temuto,  sia  a Gioia  Tauro  che  nei dintorni. Da poco tempo era uscito dal carcere, dove aveva scontato diversi anni per omicidio. Era un duro. Generoso ma duro. Rispettoso se lo rispettavano. Malandrino con gli irrispettosi Filoreto andò a trovare Mico Labate a casa. Lo chiamò, facendolo uscire. “Mico!  ‐ disse con  il ghigno da duro Filoreto Fondacaro  ‐   mi hai pestato a sangue  il pecoraio … perché ? … Lo hai combinato maluccio sai ?” e mentre parlava si avvicinava ‐“pure le mie pecore si sono risentite. Ora chi mando con loro?:”  e via con un gran colpo in faccia.  “Ahi!” esclamava Mico, mentre bianco in volto arretrava. “Ma, ma, Don … Don … Filoreto io non sapevo! Non pensavo”  e il Fondacaro giù un altro colpo. E colpiva  parti diverse del corpo enorme della camicia nera Labate, per fare più male. Avete capito Capitano? I colpi se  li è tenuti e con  la coda  in mezzo alle gambe è rientrato di corsa  in casa. La gente di rispetto non si deve toccare. E così è trattata la criminalità organizzata ! “ 

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    In  effetti,  come  affermava,  con  lungimiranza  e  saggezza  il  Capitano:  saltare  sul  carro  dei vincitori, era una abitudine umana difficile da smontare. Tuttavia, nonostante la conoscenza della presenza della criminalità organizzata, un regime politico autoritario come il fascismo, in  possesso di   molti  strumenti  di  repressione,  avrebbe  potuto  combatterla  in maniera  decisa. Questo  non avvenne, perché saltafossi lo erano un po’ tutti compresa la classe dirigente di allora.  Ricordiamo il Comm. Francesco Starace Tripodi già sindaco negli anni del liberalismo, ora passato nelle  file  fasciste,  che  a  guardia  dei  propri  possedimenti  e magazzini  di  olio,  aveva messo  un “uomo di rispetto” come Alfredo Barbaro, riconosciuto  capo di un’associazione malavitosa e che ora si portava appresso. E come il Tripodi avevano agito gli altri ricchi borghesi della zona.    Quando vi era questo genere di  rapporto, meglio alleanza perché  si  trattava di questo,    tra  la ricca  borghesia  e  la  criminalità  organizzata  il  territorio  si  poteva  considerare  completamente soggiogato.  Ed  il passaggio da un  regime  all’altro, da un  sistema  all’altro,  gattopardescamente, significava continuare a spadroneggiare. Il Tripodi da liberale venne eletto sindaco; poi passò sotto le  insegne del  fascismo diventando podestà e  la  stessa  cosa  fecero  i malavitosi.  Il potere  cerca sempre il potere. Fino a quando è possibile si deve tentare di trovare l’accordo.   Intanto  Vincenzo,  il  primogenito  del  Capitano,  si  era  sposato  con  una  ragazza  di  Bagnara  da qualche anno ed aveva avuto un maschietto a cui fu dato il nome del nonno: Francesco. Navigava con  la società “Neptunia” e, come  tantissimi  lavoratori del mare, era un antifascista della prima ora. Non sopportava  le malversazioni e  le guasconate di tanti “camiciotti”, come  li chiamava  lui, che s’arrogavano  il diritto di sostituirsi alla  libera determinazione delle OO.SS. o alla democrazia con la violenza.  “Ti raccomando Vincenzo di essere prudente con questa gente ! Ormai hanno il potere in mano … hanno  tutte  le  leve  dello  stato  che  muovono  a  loro  piacimento  !‐  gli  ripeteva  il  capitano continuamente.     Intanto  il  “cantiere  familiare”  di  Francesco  e  Fortunata  lavorava  a  tutta  forza.  In  quegli  anni ebbero altri due  figli, Dante e Renato.  In  compenso  l’attività della  falegnameria  stentava; alti e bassi si succedevano come le montagne russe tanto che Francesco si lamentava in casa:  “Questo  governo  qualcosa  dovrà  pur  fare  per  sollevare  l’economia  nazionale,  ci  vogliono investimenti  pubblici,  completare  la  ferrovia  a  S.R.  Gioia‐Cittanova  e    commesse  ferroviarie; bastimenti  sono  anni  che  non  si  costruiscono  più …  “.  Però  le  banche  crescevano:  è  del  1926 l’apertura degli  sportelli della Banca Commerciale  Italiana:  lo  stesso  anno della dipartita di  sua madre  Maria,  moglie  di  mastro  Peppe  Orlando,  all’età  di  62  anni.  Mastro  Peppe  si  sarebbe risposato più  tardi a Reggio Calabria dove  trasferì  la  sua attività e con  sé  tutti    i  suoi  figli.  Il 21 aprile 1927, a Gioia Tauro, vi fu una grande festa per  l’arrivo del primo podestà,  il commendator Francesco Starace Tripodi, che fu accolto dalla cittadinanza  in divisa, fra cui  i figli del Capitano, e con la santa benedizione del parroco don Pasquale De Lorenzo.  Francesco non ci andò volutamente. Né ascoltava le parole di suo cognato Peppino che lo invitava a presenziare per non inimicarsi il fascismo.  “Sentimi  Francesco  ‐ diceva Peppino  con  le mani dietro  la  schiena  ‐ non parlar male di questa gente, perché sono vendicativi … se tu sfoghi così  alla fine … “ Francesco lo interrompeva stizzito:  “Io non  capisco  che  ci  trovi di appassionante  in questa  teppaglia,  ti metti  sullo  stesso piano di questa massa di ignoranti e violenti …!”. “Vedrai che l’Italia diventerà grande con Mussolini e la sua mano dura… !”.  “Intanto anche tu stenti con il lavoro … finora solo questo è arrivato: il costo della vita in aumento !”.     Effettivamente  le cose non andavano bene. “Considerato 100  il costo della vita nel 1913 … nel 1926 era arrivato a quota 657 … !” 

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“L’Italia  era  tormentata  dal  suo  malessere  cronico:  lo  squilibrio  della  bilancia  commerciale. Importava  tante materie  prime  di  cui  era  povera:  petrolio,  grano.  Il  primo  atto  della  politica economica  del  fascismo  fu:  la  battaglia  del  grano.  Aumentava  il  dazio  d’importazione progressivamente  con  l’obiettivo  dichiarato  di  incrementare  la  produzione  interna  di  cereali, bonificando terreni acquitrinosi.  “Altre  iniziative  furono  la  riduzione dei  consumi di petrolio,  carta e  la  riduzione dei dipendenti pubblici. Mussolini  e  il  fascismo  avevano  promesso  rinascita  e  gloria,  finora  erano  arrivati  solo sacrifici. Ci si stava avviando verso l’autarchia, lentamente.  Questo bastava a stizzire Francesco:  “Lo sapevo, ora il legno d’importazione ci costerà più caro !” e giù una bestemmia. “Queste sono tutte le promesse che ha fatto nei suoi comizi o scritto sulla stampa!” Ma si stava preparando all’orizzonte del mondo una nuova catastrofe economica e finanziaria: era il 1929.    Carmela e Gaetano ebbero  il sospirato  figlio maschio dopo tanti anni a cui  fu dato  il nome del nonno: Domenico. L’ultima figlia del Capitano Carresi, Antonietta sposò un altro marinaio di nome Giuseppe Romeo, nel 1928 e partorì nello stesso anno un altro maschietto a cui fu imposto il nome di Francesco, e, tanto per cambiare, come quello di suo nonno.  Mentre  la  tempesta di Wall Street si avvicinava, Francesco discutendo con  i  figli più grandicelli  , Francesco e Vincenzo aveva espresso  la volontà di spostare  la segheria dalla marina (l’attuale via Trimacria), presso il quadrivio Sbaglia di Gioia, nei pressi della ferrovia dello stato e della ferrovia a scartamento ridotto.  Quella era diventata una  zona di  grande espansione  commerciale, dopo  la  costante e  continua caduta dell’uso della infrastruttura navale.  In  quella  zona  del  quadrivio  Sbaglia,  dove  s’incrociavano  la  S.S.111,  la  cosiddetta  zona  dei “caconghi”,  piena  di  cisterne,  depositi  di  granaglie,  cereali,  paste  alimentari,  fabbriche  che trattavano gli agrumi, vetrerie, altre segherie, Francesco e i figli montarono, dopo aver affittato il terreno, i macchinari necessari all’attività. Un  principio  economico  liberale ma  ancora  valido  affermava  che,  in  un mercato,  il  prezzo  più concorrenziale è destinato ad emergere, tenendo conto della qualità del prodotto.  Ma in un paese che si nutriva di falsi miti e di un  individualismo esagerato, non era ammessa  la capacità tecnica superiore  di  uno  rispetto  all’altro,  e,  invece,  di  tentare  di  superarlo,  con  la  propria  bravura,  si calunniava  il  concorrente  o  si  ricorreva  ad  atti  di  viltà.  Mentre  le  cose  si  aggiustavano  per Francesco piano, piano, una notte del 1929, dopo la nascita dell’ultimo maschio, Renzo, un tale De Stefano diede fuoco alla segheria di Francesco. I danni  subiti  furono gravissimi.  La malasorte  sotto  l’aspetto del De  Stefano aveva  calato  il  suo asso. Tutta la materia prima prese fuoco facilmente; si salvarono solo le grandi seghe a nastro e a disco.  I motori elettrici andarono persi, come pure  l’impianto elettrico del capannone. Francesco era avvilito, distrutto, avrebbe voluto urlare al mondo  intero  la sua rabbia che addolorava  il suo corpo oltre che l’anima. Lo stesso sentimento dei figli e della moglie. Ora era un problema molto serio.  Il  buon  Capitano  Carresi  cercava  di  trovare  i  modi  giusti  per  rincuorare  la  famiglia  di Fortunata. “Benedetta  famiglia  ‐ diceva tra se  ‐ mi  faranno morire prima del tempo. Ma Signore mio  soccorri  chi  ha  bisogno  con  la  tua  misericordia”.  Carmela  e  le  altre  sorelle,  anch’esse, cercavano  di  attutire  quel  brutto  colpo.  Francesco    immaginava  che  fosse  tutta  opera  del  De Stefano, come lo immaginava il figlio Francesco Jr e Vincenzo.  “Ma  se  non  abbiamo  prove  per  denunciarlo,  ci  prenderemo  la  controdenuncia  per  calunnia, rimanendo cornuti e bastonati!”‐ ripeteva avvilito Francesco. “Gliela faccio pagare io a questo bastardo!” tuonava Francesco figlio.  Ed altrettanto ferocemente rispondeva Vincenzo, un tipo che era tutto un programma.  

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L’umiliazione, il rancore sordo, l’impossibilità di sfogare mise a dura prova Francesco e il suo fisico, e pur non perdendosi d’animo,  invitava  i figli a darsi da fare per recuperare  i macchinari, mentre lui  si  recava  dai  carabinieri  per  avere  notizie  o  per  essere  ascoltato  dal maresciallo  dei  reali carabinieri: Ciccio  il massaro. Così chiamato per via dei metodi poco urbani che adoperava su chi infrangeva  la  legge.  Questo  maresciallo  era,  oltretutto,  un  buon  amico  di  famiglia  spesso  si prestava  la moto da Francesco Jr per andare a caccia di  latitanti. Nonostante gli avvertimenti del padre a non compiere atti inconsulti, il primogenito armato di una vecchia pistola a tamburo, tra le ombre della notte, aspettò il passaggio del De Stefano e scaricò tutti i colpi del caricatore, senza, per fortuna colpirlo. L’uomo si mise a correre gridando aiuto. Francesco guadagnò  la via di fuga, nascosto  dalla  notte.  Il  De  Stefano,  dopo  la  paura,  denunciò  il  tentativo  d’omicidio  nei  suoi confronti, contro  ignoti  (anche se  lui  immaginava  l’autore). L’indomani “massaro Ciccio”  invitò  il capofamiglia a recarsi presso la caserma al Piano delle Fosse. Questo locale sembrava una fortezza ed  aveva  un  che  di  sinistro,  anche  se  nell’altra metà  dello  stesso  stabile  vi  abitava  l’amico  del Capitano Achille Normanno da cui si  recava spesso, quasi ogni giorno  , per via del suo  lavoro di esattore della  luce assieme al  figlio Ciro, per conto del Barone Musco. Era sinistro quello stabile solo per i delinquenti incalliti. I reali carabinieri non avevano riguardi per questa gente: colpevoli o innocenti  che  fossero quando uno di questi  arrivava  là, erano botte da orbi. E quando era  reo confesso, massaro Ciccio lo incaprettava e lo portava in giro per il paese urlando:  “Guardate che fine fanno i malandrini, guardate e pensateci bene prima d’infrangere la legge !”.  In caserma il maresciallo spiegò l’accaduto a Francesco: tentativo d’omicidio contro il De Stefano.  “So che avete avuto delle questioni con lui … “. Disse il maresciallo. “Ah … maresciallo ero convinto che eravate riusciti a scoprire chi ha messo fuoco alla mia segheria … ma io e i miei figli, lo sapete bene, di queste cose non ne facciamo. E poi siamo rimasti sempre a casa, abbiamo chi può confermare il nostro alibi”.  Intanto era arrivato il resto della parentela: il Capitano ed i cognati. Le indagini, comunque sia, non portarono  a  risultati  concreti.  La  notte  successiva  Francesco  cedette.  Il  suo  fisico  provato  dal continuo  stress,  fu  colpito  da  emiparesi  sul  lato  destro  del  corpo:  il  viso  storto,  non  riusciva  a muovere il braccio  e la gamba destra. Fu ricoverato all’ospedale di Taurianova. “Dio mio, perché altre sofferenze ? Ma sia fatta la tua volontà !” pregava così il Capitano mentre assieme  a  Carmela  si  recava  dalla  figlia  Fortunata.  La  sua  vita  fu  salva, ma  il  suo  fisico  restò menomato per sempre: neanche le scosse elettriche riuscirono a migliorare le sue menomazioni.     Il  regime  fascista  aveva  plagiato  ormai  la  società  civile  italiana:  non  aveva  solo  eliminato  le libertà  democratiche, ma  l’aveva militarizzata  creando  organizzazioni  che  avevano  lo  scopo  di rendere visibile in ogni attività umana il fascismo ed i suo creatore Mussolini. Furono quelli gli anni della cosiddetta “fascistizzazione” dello stato: dalla cultura, creando “l’Accademia d’Italia”, la legge sulla  “bonifica  integrale”,  per  coltivatori  diretti,  braccianti  che migliorò  le  condizioni  di  alcune regioni;  si ammodernarono  le  reti di  trasporto;  fu  completata  la  ferrovia a  scartamento  ridotto Gioia‐Cinquefrondi;  leggi  a  favore  dei  lavoratori,  inquadramento  di  tutta  la  gioventù  tramite l’O.M.B.; camere di commercio. Ind. Agr. Art. , furono ristrutturate e guidate da fascisti; tutto era pervaso  dallo  “spirito  fascista”.  Ogni  aspetto  della  vita  doveva  contenere  il  fascismo:  più volgarmente, veniva chiamata “tessera del pane”. Opporsi significava l’esilio.   Il tassello mancante il fascismo lo inserì l’11 febbraio del 1929 con i Patti Lateranensi, che avrebbe portato  la  chiesa  nell’orbita  della  dittatura  definendo  i  rapporti  fra  stato  e  chiesa,  i  confini,  il cattolicesimo religione ufficiale dello stato ecc. Fu un colpo da maestro. Mussolini da Pio XI fu proclamato “L’uomo della provvidenza !”.  In ogni omelia,  in tutte  le chiese si gridava “Viva  l’uomo della provvidenza!” Così esultava Don Pasquale De Lorenzo.  Il  fascismo, tra  l’altro, diede  inizio alla costruzione di nuove chiese.  In quell’anno  fu 

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iniziata  la costruzione del Duomo di Gioia Tauro su un  terreno, donato al vescovado dal Barone Cordopatri, vicino alla ferrovia. (il posto attuale)      I Patti lateranensi,sotto l’ottica politica, furono    firmati contro la volontà dei politici cristiani. De Gasperi  scriveva  nel  1929  a  Don  Simone  Weber:  “Il  vero  pericolo  piuttosto  è  nella  politica concordataria. Ne verrà una compromissione della chiesa con un regime antidemocratico … “. La stessa  amarezza  traspariva  dalle  lettere  di Don  Sturzo,  fondatore  del  Partito  popolare  italiano, movimento cattolico. Il  1929,  come  già  preannunciato,  fu  un  anno  ricco  di  avvenimenti,  non  solo  per  la  famiglia Caratozzolo, Carresi, per l’Italia, ma per il mondo intero: calava la notte della crisi economica che avrebbe trascinato intere Nazioni del mondo a contare i disoccupati e gli affamati. “Nella  piana  e  nella  provincia  di Reggio Calabria  gli  effetti  della  crisi non  potevano  non  essere visibili sul mercato dei prodotti agricoli e dell’olio in particolare “.  A questo stato di crisi economica  internazionale si aggiungeva  la politica economica dello stesso fascismo  tendente  a  racimolare  risorse  finanziarie  per  l’esercito  al  fine  di  rafforzarlo  per  le conquiste  imperiali.  A  Gioia  la  crisi  dell’olio  significava,  in  sequenza,  il  fermo  di  tante  attività indotte  e  salari  in  circolazione  ridotti.  Francesco  dopo  l’incendio  e  la malattia  era  fiaccato  nel corpo ma non nello  spirito.  La  voglia di  ricominciare gli era  riapparsa:  “Tu  sei  stato  colpito alla gamba ed al braccio non al  cervello”‐ gli diceva  sua moglie Fortunata mentre gli accarezzava  la testa  bionda. Ma  c’era  stata  anche  la  solidarietà,  la  vicinanza,  l’affetto  dei  parenti  tutti,  che facevano a gara per infondere coraggio a Francesco. Spesso una grande famiglia, non nel senso del numero dei componenti, ma nei valori che  rappresentano sono un  toccasana per  lo spirito, che spinge a combattere contro le avversità della vita. Il Capitano Carresi poteva essere soddisfatto di questo, di quanto insegnato ai propri figli. Le sorelle di Fortunata facevano a gara per starle vicino in quei momenti terribili. Carmela e Gaetano si offrirono con generosità. Già da tempo Vincenzo dormiva  a  casa  loro. Anche  i  fratelli  arrivarono  in  soccorso  di  Francesco. Dopo  l’incendio  della segheria,  l’operatività della stessa, fu spostata  in via Asmara  in un terreno vicino alla stazione di proprietà di un tale Savastano Nicola. Ed ognuno si dava da fare  lavorando, come poteva,   dovunque. Peppino  il terzogenito, chiamato dagli amici e dai parenti Pineo perché piccolo come la mamma. Francesco,il suo papà, che fumava come un  turco, provvedeva   a  rifornirlo di  sigarette,  trasformando  le  foglie della vite,  seccate e polverizzate, poi acquistava  le cartine e ne faceva delle sigarette.     Vincenzo partiva con lo zio Gaetano e lo zio Rocco che avevano un appalto presso il porto di Villa S. Giovanni.  Vincenzo era un tipo molto chiuso di carattere, un temperamento indipendente e libero, nervoso quanto bastava, per zittire tutti;  ma gran lavoratore e con una forza fisica eccezionale. Riusciva a spingere una barca in mare con la forza delle braccia. Ma poteva portare guai a non finire.  “Assomiglia alla madre ‐ dicevano le sorelle ‐ per il carattere”.  Un giorno poco prima di rientrare a Gioia in treno, mentre era con gli zii, un uomo che lavorava lì vicino  l’apostrofò  ironicamente:“A  te  pianoto,  vieni  qua  !” Vincenzo  lo  guardò  di  brutto  e  non rispose.  ”Sto parlando con te, sei pure sordo ? Vieni qua”‐ continuava quello e rideva. Vincenzo  lo guatò corrucciato e gli rispose: “Sono per caso tuo fratello di sangue? Alla larga e lasciami in pace !”.  Un vecchio proverbio declamava: “Tanto va la gatta a lardo che ci lascia lo zampino !” e ce lo lasciò veramente  lo zampino  il “cercatore” di guai. Ad una nuova provocazione, minaccioso Vincenzo si avvicinò all’uomo, quello capì di aver esagerato e prese un bastone, ma Vincenzo svelto come un gatto  gli  zompò  addosso  e  lo  colpì  con  un  coltellino  col  quale  tagliava  il  pane  per  il  pranzo. 

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Gaetano lo fece nascondere invitandolo a scappare. L’uomo fu ferito in maniera leggera. Il medico gli disinfettò le ferite:  “In  una  settimana  guarirà  “.  L’uomo  non  sporse  denuncia,  perché  aveva  torto,  come  da testimonianze  presenti.  Corrente  l’anno  1930,  nel mese  di  luglio,  un  grave  sisma  colpì  alcune regioni meridionali. Si contarono morti e feriti, tanti paesi furono distrutti completamente. Una di queste  regioni,  la    più  colpita  delle  altre,  fu  la  Lucania.  Ad  un  avviso  pubblico  del ministero interessato, Francesco montò le macchine e sbarcò a Melfi, con i figli maggiori.  Era uno di quei paesi di montagna, ai piedi del monte Vulture, con le strade strette e sterrate, le case vecchie addossate una sull’altra con  tegole grigie e  muri spessi fatti con grosse pietre poste l’una  sull’altra,    cespugli d’erba   uscivano dalle  fessure dei muri  crepati già per  la vecchiaia. Gli abitanti erano contadini o pastori e, di giorno, le sue viuzze erano attraversate da greggi di capre o pecore e da asinelli con due sporte ai  lati pendenti sulla loro schiena. Francesco la stessa iniziativa di costruire baracche, la prese anche sul territorio di Sulmona, devastato dallo stesso terremoto.    Il primo contatto con la cittadinanza semidistrutta fu per i figli di Francesco traumatico. Ovunque case  crollate,  cumuli di  calcinacci e pietre,  le  traversine di  legno dei  tetti  sul pavimento,  le  già difficili stradette diventarono  impraticabili. I morti furono centinaia. A quella vista  il  loro cuore si fece piccolo piccolo. La famiglia osservava quella tragedia umana dal vivo, da vicino, in diretta. Francesco allo sgomento dei figli, rispose con la parola: “Coraggio!” e  raccontava  loro che nel 1908, quando  lui era giovanotto.  Il  terremoto di Reggio e Messina era stato ancora più tremendo.  “I morti furono migliaia e migliaia e lo stesso nonno Francesco, a Bagnara perse la casa e si salvò a stento con tutta la famiglia: il maremoto completò l’opera di distruzione. Il fratello della mamma, zio Vincenzo,  si  salvò dal maremoto  assieme  al  veliero perché  ancora non erano  attraccati  alla banchina “.  Questo dialogare e spiegare ridiede vigore ai ragazzi. Poi guardando  in alto notarono un castello con  le  sue  alte mura,  le  torri merlate  e  grandi  finestre  con  le  inferriate,  ancora  integro;  e  si chiedevano  come  avesse  potuto  resistere  a  tale  furia  devastatrice.  Francesco  spiegava, affermando:  “Perché,  in quel  tempo,  il medievo,  le abitazioni  si  costruivano  con  criteri diversi ma  solo per  i signori,  senza  risparmio di materiali e manodopera. Quei nobili erano padroni della vita e della morte dei loro vassalli. Come fanno ora i fascisti. Con la differenza che i nobili sapevano leggere e scrivere, i vassalli no. Ora i fascisti spadroneggiano, pur essendo ignoranti, con il manganello … “ “Certo ‐ annuiva Vincenzo ‐ ma solo con i deboli … con i forti ci pensano due volte !” “E’ gente da quattro soldi e noi dobbiamo stare al gioco perché comandano  loro. Se non avessi preso la tessera, non avremmo potuto lavorare !. Perciò ora diamoci da fare, facciamo scaricare la roba, sul posto che ci avranno assegnato … e coraggio, prima o poi, toccherà anche a loro subire … guardiamo avanti, lasciamo questi momenti brutti che abbiamo passato “‐ disse Francesco padre. “Papà, diteci voi cosa dobbiamo fare ora … vado al comune a chiedere dove mettere le macchine? – chiese Francesco figlio.  “No, vado io. Chiederò notizie al municipio se è ancora in piedi … o direttamente al podestà della cittadina – rispose il padre. Cominciò così,  l’avventura  lucana di una parte della  famiglia mentre  l’altra era rimasta  in buona compagnia a Gioia Tauro.  Il Capitano continuava a  fare  l’esattore con  il  figlio Ciro per conto del barone;  le  sorelle  erano  sempre  dalla  loro mamma  a  farsi  compagnia  l’un  l’altra..  La  loro  vita scorreva  tranquilla:  mare  in  bonaccia  avrebbe  detto  il  Capitano.  Qualche  novità  derivava esclusivamente  dalle  intemperanze  dei  fascisti  o  dall’arrivo  di  qualche  esiliato.  Le  scuole elementari dove le sorelle accompagnavano i figli, erano poste in un locale baraccato, all’incrocio tra lo stradone e via Solferino.  

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Obbligatoriamente  in divisa, poi  li accompagnavano alle organizzazioni  fasciste per altre attività, chi aveva  i mezzi mandava  i  figli a  scuola di musica. Anche  i più poveri  furono  inquadrati nelle organizzazioni    fasciste. Ma  il  fascismo  con  tutta  la  sua  “etica”,  non  riuscì  ad  alfabetizzare  “i bagnaroti”  che  rimasero, nella  scala  sociale,  sempre  ai margini. A  scuola di musica  fu mandato anche  il quinto figlio di Fortunata e Francesco, Dante, che  in seguito (1931) avrebbe suonato nel complesso bandistico di Gioia Tauro assieme allo zio Ciro.                 Quella mattina  il buon Dio, assopito un po’ di più, non vide quel che stava accadendo a Gioia. Mentre  il Capitano  e  suo  figlio  erano  intenti  al  loro  lavoro,  si  presentarono  dal  barone Musco alcune camicie nere che gli chiesero di prestare giuramento al fascismo. I Serra‐Cardinale  maritata Musco,  pur  appartenendo  alla  ricca  nobiltà  terriera  latifondista,  che  in  altre  parti  d’Italia sostennero  le  idee  fasciste  con mezzi  finanziari,  erano  rimasti  “freddi”  nei  confronti  di  questo movimento  che poi diventò di massa. Non perché  fossero  contrari, ma erano  rimasti borbonici dentro  l’anima.  E  il  bello  era  che  lo  stesso  barone,  nonostante  annoverasse  un  fratello,  alto ufficiale  di  cavalleria  fascista, manifestava  la  sua  freddezza  nei  confronti  dei  fascisti  locali. Alla richiesta di questi di adesione al  fascio  locale,  il barone che  li aveva  fatti accomodare,  li guardò uno per uno in faccia con un’espressione seria, ma di disgusto. Poi disse: “Vedete signori, si dice, che normalmente gli uomini accettino le catastrofi, ma non le seccature … ora nella mia vita di catastrofi ne ho viste e subite tante, sia io che la mia grande famiglia, i Serra‐Cardinale e i Musco, ed anche la catastrofe del fascismo sono disposto a subirla, senza sentimento, ma la seccatura no … questo no ! E voi siete per me una seccatura !” e si alzò dalla poltrona: “Perciò  uscite  immediatamente  da  questa  casa  onorata  !”.  I  fascisti  rimasero  sorpresi, ma  si ripresero subito:  “Caro Musco, non vi chiamiamo neanche barone‐ disse  l’ufficiale della milizia  ‐ come c’insegna  il nostro Duce “me ne frego !” anche noi siamo gente dura e a noi  i contrasti non ci piacciono … e quando non ci piace una cosa la serviamo a dovere: per ora ci accontentiamo di darvi una curetta” e mise sul tavolo una bottiglia di olio di ricino “che vi ricorderà che siamo i padroni d’Italia !”.  “Errato, cari camerati ‐ rispose subito il barone ‐ voi fate pure … ma vi assicuro che i padroni sono sempre coloro che hanno i soldi ! Chi ha i soldi trova sempre da comprare”!  Il  barone  si  bevve  il  suo  olio  di  ricino,  ma  quelle  camicie  nere  furono  più  purgate  di  lui  ! L’imbarazzo  fu grande  in città, perché  il barone era un benefattore: non era affatto uno di quei nobili attempati, sguardo severo, accigliato, riservato o molto distaccato. Anzi. E tutti tifavano per lui.  Intanto a Melfi Francesco con  i  figli continuavano a costruire baracche per  i senzatetto.  Il  lavoro c’era, ma veniva pagato tardi. I giovanotti lavoravano tanto, mentre Pineo preparava  da mangiare o sbrigava qualche servizio o aiutava i fratelli. Francesco, quasi settimanalmente, rientrava a Gioia a rivedere l’altro pezzo della famiglia, risiedente in via Risorgimento, una stradina nei pressi della chiesa di Portosalvo. Qualche volta, rientravano tutti assieme. Spesso a Melfi andavano a bussar al municipio a quattrini;  il bando di gara era chiaro:  il  comune avrebbe provveduto a pagare ogni baracca richiesta. Qualche lavoro privato c’era pure: ed erano soldi in più che entravano. Ma gran parte  dell’introito  proveniva  dall’ente  pubblico.  E  quando  l’introito  non  arrivava  Francesco  si recava  a  chiederne  ragione  al  podestà  Ferretti,  un  uomo  piccolo  e macilento,  con  un  paio  di baffetti da sorcio e da sorcio erano pure i due dentini che gli uscivano dalla bocca: uno, vedendolo fuori sede, gli avrebbe suscitato pietà e gli avrebbe regalato qualche tornese.    Sempre dubitare delle prime  impressioni che poteva dare un vecchio vestito! Ferretti aveva un paio  di  fessure  come  orbite  e  due  occhietti  che  appena,  appena  si  vedevano,  poggiati  su  due zigomi alti e puntuti, che gli davano un’espressione da duro. E  lo era anche nel tono della voce, molto autorevole e ferma.  

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Alla domanda di  Francesco,  sui motivi del  ritardo nei pagamenti,  Ferretti  gli puntò  gli occhietti addosso come volesse trapassarlo e scrutargli  l’anima, e rispose così, mentre con  il dito pollice e indice si lisciava il baffo destro: “Egregio camerata, perché lei è sicuramente un camerata e non un sovversivo, il fascismo non manca mai di parola. Voi avrete i soldi del lavoro fatto.” Francesco, nel frattempo, aveva tirato dal portafoglio  la tessera del fascio, e pensava tra se e se: “E’ inutile con questa gente  la musica è sempre  la stessa, cambi piazza o via o paese,  i fanatici sono tutti uguali …” e rispose:  “Camerata podestà ecco la mia tessera d’iscrizione alla Camera di Commercio di Reggio Calabria: avete  la  fotocopia  in mezzo  ai  documenti  da me  presentati …  non  ho mai messo  in  dubbio  la serietà del fascismo e del nostro Duce, ma volevo solo ricordarvi che sono padre di otto figli. E se i miei numerosi figli non mangiano, non potranno servire a dovere il Duce “.  Il podestà Ferretti, mentre Francesco esponeva le sue ragioni, aveva preso in mano la sua tessera d’iscrizione, poi rispose:  “Bene, bene … ma ho avuto  l’impressione che entrando non abbiate usato  il  saluto  romano …” Francesco si rese conto di avere trascurato quest’aspetto che sembrava marginale, ma non lo era. A  Francesco  non  andava  giù  quel  tipo  di  saluto, ma  per  il  fascista  fanatico  era  importante.  Si riprese subito: “Camerata podestà, spero che mi abbiate ben osservato: non posso alzare il braccio destro, e trascino la gamba …” e lui di rimando: “Si avvicini, caro Camerata, venga, venga …” mentre si avvicinava al podestà, sgranando gli occhi azzurri,  Francesco  si  chiedeva  cosa  volesse  il  topo.  Appena  fu  vicino  alla  scrivania,  di  colpo,  il podestà aprì un cassetto e chiese:  “Vedete soldi qui?”  “No !” rispondeva Francesco sempre più stupito. Poi tirava a se l’altro cassetto:  “Vi sono soldi qua?”  “No!” ripeteva Francesco. “Come vede,  caro camerata, ora  soldi non ne abbiamo. Appena arriveranno,  sarete pagato.  “ e Francesco ritornava deluso dai figli. Vincenzo furibondo con la sua voce afona e alterata, diceva:  “Lasciate che vada io a parlar con il topo e vedrete che i soldi spunteranno !” “Tu stai fermo dove sei … “ lo rimproverava Francesco aspramente “finora la galera l’abbiamo evitata tutti a Gioia, qui non sappiamo come può andare !”. Ma era dura da mandare giù. Non bastava il sacrificio di stare lontani da casa, ma, perdinci, non avere quello che ci tocca è il colmo ! Pensava Francesco.  “Allora vuol dire che ci fermeremo fin quando non ci avranno pagati !” confermava il primogenito. “Questo è sicuro”‐ diceva Francesco  ‐ noi siamo venuti qua perché  il  lavoro a Gioia era pochino, mica possiamo ritornare così, e dare soddisfazione ai compaesani?  No, dobbiamo avere pazienza. “ E ripresero a tagliare tavole per baracche.  Quando meno  se  lo  aspettavano  il  podestà  pagava  il  dovuto  a  Francesco.  E  si  riprendeva  con rinnovato rigore.  Rimasero a Melfi circa 2 anni. Quando  il  lavoro  si  ridusse  parecchio  e  nulla  si  notava  all’orizzonte,  i  due  fratelli  più  grandi, andavano a  lavorare  con  imprese  che  ripristinavano  il manto  stradale. Quelle erano battute da carretti  a  trazione  animale,  asini  o  buoi  o  cavalli.  Le  strade  erano  lastricate  da  lastroni  lavici rettangolari:  quando  erano  bagnate  facevano  scivolare  gli  animali  da  tiro. Gli  operai  scalpellini  rendevano antisdrucciolevoli  i  lastroni di pietra,  forandoli  con martello e punzone.  I due  fratelli lavoravano a “giornata”.    L’inverno del 1932,  l’ultimo anno di permanenza a Melfi, fu  il più tremendo. Francesco, finito  il lavoro,  si decise di  rientrare a Gioia. Ma  furono bloccati  lì per parecchio  tempo da una grande quantità  di  neve,mai  vista  a memoria  d’uomo.  Ed  il  rientro  fu  impossibile  per  il  tempo,  per  il consumo dei  fondi: con  il podestà  sul podio  la musica era  sempre quella. E, mentre  il  freddo  si 

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poteva  tagliare  con  il  coltello  e  la  neve  era  tutt’uno  con  le  baracche,  il  castello  e  la  natura, Francesco mandò uno dei figli a spedire un telegramma: “Paese bloccato da neve e freddo. Spedite soldi per rientro stop Francesco”.   Dopo qualche settimana con  l’attrezzatura già sul punto di essere caricata sul  treno, ecco che  il podestà Ferretti lo fece chiamare e liquidò la rimanente parte del loro lavoro. Successivamente al loro rientro da Melfi,la stentata economia gioiese, antica da  tempo  immemore, aumentò per gli effetti del crollo della borsa di “Nuova York”, che fu   devastante per  il mondo  intero, ma che già per  conto  suo  soffriva  di  mali  endemici:  tasso  di  disoccupazione  alto,  imprese  ferme,  senza commesse  ,economia  stagnante.  Rimaneva  una  sola  strada  da  battere  per  il  governo  fascista: l’investimento  pubblico.  Francesco  prima  di  rientrare  a Gioia,  ritirò  i  suoi macchinari  anche  da Sulmona,  cittadina  anch’essa  distrutta  dal  terremoto,  in  Abruzzo,  provincia  dell’Aquila.  Infine rientrò  definitivamente  a  Gioia.  Quivi  Francesco,  successivamente  con  gli  affari  che  andavano benino, prese  in affitto un  terreno più grande, sempre  in quell’area,  in via Monacelli, allora una strada di campagna battuta da buoi, muli, asini, che metteva in comunicazione il ponte ferroviario di via commercio con la S.S. 18. Andando verso quella strada di campagna, il lato destro era abitato da bovari, contadini, pecorai. Sul  lato sinistro vi era  la segheria, vigneti, agrumeti, oliveti giù fino  in fondo. Sembravano  luoghi vuoti, invece era un brulicare di persone che svolgevano il loro lavoro tra gli alberi. Nei momenti di crisi economica, il settore primario assumeva un ruolo importante: la terra, la sua natura, la grazia di Dio, non ti tradisce mai. In  effetti  senza  il  frutto  delle  campagne,  la  fame  in  quegli  anni  sarebbe  stata  fatale.  Identico discorso valeva per le industrie di trasformazione come segherie, oleifici, distillerie. L’antipatia di Francesco verso il fascismo fu sempre gagliarda; ma era un po’ più prudente. Il solo fatto  che  avesse  dovuto  iscriversi  al  partito  in  quanto:  “Requisito  indispensabile  per  la  stessa capacità di diritto pubblico dei  cittadini”  lo obbligava alla prudenza. Ma nell’ambito  familiare  si sfogava.  Ed  il  Capitano,  la moglie,  le  cognate  lo mettevano  in  guardia  dal  dire  certe  cose:  il delatore  di  turno  poteva  stare  li  vicino,  o,  passare  in  quel momento,  e,  lui  con  quel  carattere irruento per una parola detta in più, poteva passare  guai.  In  effetti  la  delazione,  la  denuncia  nascosta,    pur  essendo  per  la  nostra  cultura,  un  aspetto deprecabilissimo,  durante  il  fascismo  diventò  una  filosofia  di  vita.  Il  fascismo,  nella  sua  ansia feroce di costringere la volontà altrui a obbedire, ad assoggettarsi completamente, capiva di aver vinto, ma non convinto gli  italiani. Per colpire meglio  i  riottosi usò questa arma a proprio uso e consumo,  pagando  profumatamente  i  delatori.  Sul  piano  della  società  civile,  questa  filosofia, spinse le persone a diffidare anche dei propri amici.  Uno dei poche  svaghi del  tempo era  la visione di qualche  film muto, proiettato presso  il  locale della società operaia o qualche spettacolo teatrale. Durante la proiezione dei film muti, vi era Ciro che con un pianoforte accompagnava le vicende raccontate dal film.  Oppure  vi  era  la  frequentazione  dei  circoli  aperti  dal  fascismo  stesso,  per  tutte  le  persone,  i lavoratori, chiamati “dopolavoro” una sorta di “camera di compensazione” ove  la gente comune veniva  assillata,  torturata  nelle  glorificazioni    di Mussolini  e  del  fascismo.  Un  aspetto  umano, personalissimo come  lo  spasso,  il divertimento,  il  tempo  libero era proprietà del  fascismo e dei suoi  accoliti.  Anche  le  tradizionali  feste  religiose  divennero  oggetto  simbolico  per  decantare  il sacro ed il profano: sia la religione che tutto ciò che riconduceva alla nazionalità, al fascismo, così fu  inventata  la  festa della Marcia su Roma;  la Befana  fascista;  la  festa di Roma caput mundi. La befana fascista era in camicia nera con i regali per i buoni e il manganello per i cattivi. Le iniziative del fascismo che, al pari degli imperatori romani controllavano le masse con la filosofia del “Panem et circenses”, ebbero tanto successo  in altri regimi dittatoriali  fuori  Italia,   che  fu  imitato. Anche 

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Hitler che in Germania intanto conquistava, con la violenza, il potere, usò La concezione del tempo libero come sistema di aggregazione sociale al nazismo. Così Gioia Tauro  in quegli anni ebbe  il cinema pubblico, prima chiamato cinema teatro “O.N.D.”. Poi  cinema  teatro  “Impero”  (con  la  democrazia  fu  chiamato  Mazzini).  Era  situato  in  piazza municipio a  sinistra dei “tre canali” o uscendo dal municipio alla  sua destra. Fu  ristrutturato un vecchio magazzino d’olio (appartenuto al cavaliere Giffone) ed adibito a  luogo d’intrattenimento pubblico.                        Il  fascismo  s’inventò  i  treni popolari,  le colonie,  le otto ore di  lavoro. Le  littorine  furono, allora, quelle che sostituirono la vecchia ciuf‐ciuf nelle ferrovie secondarie. Una invenzione che non fece piacere agli imprenditori e agli artigiani fu la creazione del sabato fascista. Il sabato tutti dovevano partecipare, obbligatoriamente, alle  loro manifestazioni  : ma nessuno dei partecipanti, specie se operaio, perdeva nulla: le imprese dovevano pagare comunque.  “Che il governo si dia da fare a stimolare l’economia, piuttosto che farci perdere denaro!”  Francesco non si tratteneva, nonostante i garbati rimproveri del Capitano e quelli  di suo cognato Peppino.  Vincenzo  al  compimento  del  20°  anno  partì militare.  Il  primogenito  fu  esentato.  Francesco  era favorevole che partisse il secondogenito:  “Vediamo  se  sotto  la vita militare  cambia un poco”. Scampò alla guerra d’Africa ed a quella di Spagna: ma diede ugualmente notizia di sé.  Un giorno del 1936, per  fare  lo  spiritoso con  i camerati di  fronte a un gruppo di belle donnine, Vincenzo si  tuffò  forte della sua esuberanza giovanile, da uno scoglio nel mare di La Spezia. Ma  fece male  i suoi calcoli sulla profondità dell’acqua  in quel punto: per poco non ci rimise  il collo. I suoi amici non vedendolo riemergere si tuffarono e lo salvarono; era  svenuto per il colpo. Quanto  era  chiuso  di  carattere  Vincenzo  come  suo  fratello  Peppino  o  Renato;  tanto  era  di compagnia  Francesco  jr. Che non disdegnava  spassarsela  con  i  suoi  anici più  cari: mastro Mico Romeo; Ciccio Costa e  suo  fratello  Felice,  giocando  a  carte o  a padrone e  sotto.    Il  sottofondo comune  era,  per  tutti  i  fratelli,  l’irascibilità.  Il  papà  evitava  di  fare  discussioni  in  famiglia  in presenza di Vincenzo, su questioni attinenti mancati pagamenti da parte di alcuni clienti. Le sue reazioni potevano portare rogne. Una volta sfuggì ad uno dei suoi fratelli che quel tale cliente non aveva pagato. Vincenzo partì senza avvisare alcuno. Tornò con una “balilla”. “Che hai combinato stavolta?” urlava Francesco.  “Mi  sono  fatto pagare  il debito da Saffioti, non aveva  soldi … mi  sono preso  la sua macchina a compensazione !”.  Apriti cielo ! Un vocabolario di parolacce uscì dalla bocca di Francesco, oltre le solite bestemmie. “Noi abbiamo bisogno di denaro fresco, non di macchine … voi avete le motociclette, la macchina non ci serve !” Giuseppe, orso come la mamma, era il più buono dei figli, danni a casa di suo padre non ne aveva mai portati, anzi, si sentiva poco ed era riservato. Ma era di una  sveltezza  incredibile,  sia nel  camminare,  sia nel  lavorare.  Le  cassette per agrumi erano  costituite  da  listelle  di  legno  (tre  o  quattro)  che  poggiavano  su  quattro  “cunei  portanti triangolari”. Le listelle sia di sotto che lateralmente si dovevano chiodare.  Questa operazione si faceva manualmente. La produttività di una organizzazione è il rapporto tra prodotto e unità di tempo. Nessuno riusciva a batterlo in questo: metteva tra le labbra una decina di chiodi, poi ad una ad una inchiodava le listelle, prendendo un chiodo e col martello lo batteva: ma  lo  faceva  con  un movimento  rapidissimo:  era  un  piacere  vederlo:  qualche  volta  invece  del chiodo trovava  il suo dito … ed allora … le stelle stanno a guardare. 

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Aveva capelli lisci e nerissimi, di corporatura esile e bassino di statura.  Durante uno dei suoi viaggi, imbarcato da nostromo su una delle navi della “cooperativa Garibaldi” (nata nel 1920 durante  il biennio rosso) di Genova, Rocco,  il marito di Domenica, secondogenita del  Capitano  Carresi,  comprò  una  delle  prime  radio,  quelle  con  le  valvole  che  sembravano lampadine per la luce. La portò a Gioia e ad alto volume faceva ascoltare le voci che venivano fuori da quel cubo di colore marrone, fornito di bottoncini, una rete ed un’asta che ruotava,  indicante tante capitali nel suo muoversi. Per  la gente, per  i vicini, quella scatola era una magia: si sentiva parlare, cantare o si ascoltava la voce stentorea del duce:  “Ma  come  fa  la  gente  a  stare  là  dentro?  In  una  scatola  così  piccola?”  diceva  qualcuno.  E muovendo  uno  dei  bottoncini  la  voce  si  alzava  o  spostando  l’altro  bottone  invece  di  parlare, cantavano. La gente addirittura si portava la sedia ed ascoltava per ore canzoni dell’Eiar o la propaganda del duce che annunziava grandi vittorie  future per  l’Italia,  la numero uno della nazioni ! Al suono di “Giovinezza, giovinezza primavera di bellezza !”. L’uso della radio utilizzata dal fascismo locale, portava la voce del duce direttamente tra le gente ed era una formidabile arma di propaganda.  Intanto  tra una crisi e  l’altra,  l’economia che non decollava, gli  investimenti pubblici  fascisti che riguardavano  solo  il  settore  degli  armamenti,  per  via    delle  continue  guerre  intraprese  dai “guerrieri italici” contro la politica della “perfida Albione”, esaurirono la pazienza di Francesco che si era stancato di pagare  la gente,  il sabato, senza che gli operai  lavorassero. Così, una mattina si presentò dal  federale di Gioia Tauro per  fare rimostranza contro quella  legge che  imponeva agli imprenditori di pagare lo stesso gli operai che si recavano alle manifestazioni loro:  “Dovreste provvedere a dare  lavoro alle nostre attività, piuttosto  che  imporci dei dazi  !”‐ disse rabbioso Francesco. “Attento a come parlate signor Caratozzolo, gli ordini del duce e del fascismo, non si discutono!”‐ rispose il federale con quel ghigno che di solito hanno i cattivi.  “Io  discuto  quest’iniziativa:  pagatela  voi  la  giornata  a  costoro,  altrimenti  fate  del  male  agli imprenditori!”‐  riprese  con  passione  Francesco;  e  tra  una  domanda  e  l’altra,  la  tensione  era cresciuta … Francesco alla fine buttò sul tavolo del federale  la sua tessera d’iscrizione al fascio. E mal gliene incolse. La camicia nera Labate e gli altri, si erano avvicinati al federale ed al cenno del “signore”  lo presero  (un uomo  indebolito dalla paralisi)  lo  legarono, gli  tagliarono  i  capelli e gli fecero bere l’olio di ricino. E fu mandato a casa.  Figuratevi  i figli, specie Vincenzo. Avrebbero  incendiato  il paese, ma  la prudenza,  la saggezza del Capitano e delle zie impedirono di fare ancora fesserie. Un giorno d’estate Francesco dopo aver  salutato  la moglie   che gestiva  l’unico  tabacchino della Marina, si recò in segheria. Qui dopo aver portato il carrozzino dentro la stalla, vide una contadina, che prendeva un secchio,  c’infilava dentro una bottiglia d’acqua e la calava in un pozzo artesiano. Un paio d’ore più tardi la stessa contadina riportava su il secchio con la bottiglia raffreddata.   La tracannava con gran soddisfazione mentre due rivoli d’acqua le scendevano dai lati della bocca. Poi  si  asciugava  con  l’avambraccio,  riempiva  di  nuovo  la  bottiglia  e  la  riportava  giù.  Allora  il ghiaccio,  in estate, era portato da una carrozza.  Il barrocciaio comprava  il ghiaccio a Bagnara,  lo copriva con segatura e  lo vendeva a Gioia. Bagnara essendo   un grosso centro peschereccio che viveva dei prodotti del mare, utilizzava il ghiaccio secco per la conservazione del pescato.  Francesco,  in quel momento  fu  illuminato: perché  il ghiaccio non  si può produrre A Gioia? Può servire la Piana, anche i pescatori nostrani, le nostre cantine o il bar “sport”e quelli del circondario. La  famiglia Caratozzolo, allora, viveva  in via Risorgimento, una viuzza prospiciente  il  forno degli “ursulini”e casa Morgante su fino all’abitazione della famiglia Vasta, qui era nato Albino, il futuro sacerdote. 

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Più  il  tempo  passava  più  l’idea  si presentava  alla mente  con  insistenza. Ma  come  si  fabbrica  il ghiaccio? Che macchinari servono? Ne parlò con  i  figli più grandi e con  la moglie. Ma Fortunata non era convinta:  “Lascia  perdere,  non  fare  altre  iniziative,  basta  la  segheria  e  il  tabacchino,  ora  come  ora  non abbiamo problemi, i debiti li stiamo pagando … “  “L’idea è buona, c’è un bacino di centomila persone che  si può  servire d’estate.” E Fortunata a ribattere:  “E se poi va male? Che facciamo? Ci vuole fortuna anche per le idee buone e noi non ne abbiamo tanta!”.‐ diceva tesa la moglie‐  “Ma perché sei  tanto pessimista? Dai problemi ne siamo sempre usciti … “ rispondeva Francesco ma Fortunata era inconvincibile.  “E non pensare che, nella difficoltà, vada a bussare a quattrini da qualche sorella !” e si chiudeva la discussione.  Francesco  quando  era  preso  da  un’  idea,  per  lui    buona,  non  si  fermava:  il  suo  spirito d’imprenditore aveva il sopravvento. Così una mattina prese il treno e si reco’ a Bagnara con uno dei figli; passò dai parenti, si fece dare delle indicazioni sul proprietario della fabbrica del ghiaccio ed assieme a  loro andò da costui, tale Musolino. Fece finta di comprare del ghiaccio, cominciò a parlare del più e del meno, sul come si formava il ghiaccio, la ditta di provenienza del macchinario, e se ne ritornò a casa con  le  idee più chiare. Il tabacchino era posto sull’unica strada percorribile tra Gioia centro e  la Marina. La più  frequentata, ovviamente, da barocciai, pedoni che erano di passaggio, contadini, marinai dei pochi velieri che ancora facevano rotta verso porti vicini o le isole Eolie, caricando merce varia; rispetto a qualche decennio prima, i velieri s‘erano muniti di motore ausiliario, come il Cutter “Assunta in cielo” di 27 tonnellate dei fratelli, Padroni Marittimi Matteo e Antonio Longo. Ogni mattina, prima di prendere il largo, zio Ciccio “u fasciano” con Matteo Longo, acquistavano sigarette e sale da portare a bordo alla nave. Zio Ciccio, già allora con  la voce roca per  il  fumo, dopo  lo  scambio di gentilezze, discorrevano del più e del meno:  il  tempo,  l’annata agricola,  i velieri,  la pesca andata quest’anno male. Fortunata chiedeva dove andassero ora e zio Matteo  rispondeva  che  avevano  un  carico  di  botti  d’acqua  da  portare  a  Lipari.  Zio  Ciccio  “u fasciano” comprava, col cappellino alla siciliana di traverso, tabacco e cartine, e poi andavano via.  Intanto Francesco trattava con il Banco di Napoli; accompagnato dal suocero e da una telefonata del barone Musco. Al direttore della filiale, spiegò l’intento suo di fare questo nuovo investimento acquistando  il  macchinario  necessario  per  produrre  il  ghiaccio,  utilizzabile  dai  circoli,  bar, pescatori, privati, ospedali, per  la consumazione di cibi e quant’altro. Alla richiesta di garanzia  la trattativa si fermò. Così in famiglia, per compiere l’operazione, fu deciso di vendere il tabacchino, dopo  l’ennesima  discussione.  Furono  presi  accordi  con  chi  produceva  quelle  macchine,  la Termomeccanica di La Spezia, e  l’impianto fu montato a Gioia Marina,  in via Trinacria. Nacque  la prima industria del “freddo” della piana di Gioia Tauro.  Si trattava di un motore elettrico che trascinava, tramite delle cinghie trapezoidali di gomma, una puleggia. Coassialmente collegata a questa vi erano due globi metallici che pescavano entro due vasche ripiene d’acqua. Le due vasche erano separate. Dentro la prima vasca il globo era vuoto e durante  la  rotazione  riscaldava  l’acqua.  L’altro  era  ripieno  di  un  gas  (anidride  carbonica)  che ruotava entro una vasca di 6metri quadrati circa, ripiena d’acqua salata o salamoia.  Il globo, per effetto  del  gas  al  suo  interno  si  gelava  e  per  induzione  gelava  l’acqua, ma  l’acqua  salata  non ghiacciava  . Longitudinalmente e trasversalmente vi erano dei  longheroni  in ferro che  lasciavano degli  spazi  entro  cui  venivano  calate  le  formelle  piene  d’acqua  dolce  che  si  ghiacciavano generando un blocco. Quando era pronto,  le  formelle venivano estratte dalla  salamoia e  calate nella vasca con acqua calda. Il ghiaccio si scioglieva qualche millimetro lateralmente, a quel punto si mandava il blocco in uno scivolo, pronto per la vendita. Non c’era famiglia, o bar o cantina della 

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zona  che  non  acquistasse  un  pezzo  o  un  blocco  o mezzo  blocco  di  quella  cosa  fredda  che  ti bruciava la mano; il freddo lo si conosceva d’inverno o quando nevicava o quando lo vendevano in strada, ma  avere  per  tutta  l’estate  qualcosa  che  ti  desse  refrigerio  era  un  avvenimento.  Non cambiò  il  costume  della  gente  della  Piana  o  dei  gioiesi,  ma    raffreddare  le  bibite  da  bere, conservare  il pescato o  le  carni, per qualche giorno, dava  l’impressione della magia. Non vi era carrettiere o contadino o nobile che, passando, non si fermasse ad acquistare bibite ghiacciate o un  pezzo  di  ghiaccio  da mettere  dentro  il  vino  o  l’acqua..  I  pescatori  lo  compravano  in  gran quantità  per  i  pesci,  che  poi  vendevano  nei  paesi  della  Piana  raggiunti  con  la  “littorina”  o  con carrozze, senza rischio che  il prodotto   si deteriorasse prima del previsto. Ogni festa patronale fu allietata,  non  solo  dagli  scoppi  dei  fuochi  artificiali  o  dalle  bande, ma  anche  dal  poter  gustare “calia” accompagnato da una bella birra fresca ! Da  un’idea  ne    nasceva  un’altra:  come  sfruttare  questa  novità  al massimo?  Vendere  le  bibite fresche a quella massa di persone che d’estate si recava al mare in cerca di frescura . E come fare? Concentrando,  pensò  Francesco,  la  gente,  che  d’estate,  affollava  la  spiaggia  di  Gioia  con  la costruzione di un  lido  fornito di baracchine per  spogliarsi,  altalene di  legno o  a  corde,  zone di rinfresco. Era nato il primo lido di Gioia e, forse , della CALABRIA. Negli anni trenta, le spiagge, in estate, erano rigidamente separate. Vi era il settore delle donne e il  settore degli uomini. Anche  i  costumi erano particolarmente  castigati:  le donne  con  vestaglie lunghe  fino ai piedi; gli uomini con costumi  interi. Era noto  (e  lo è ancora) che più proibizioni si mettevano più si spingeva l’essere umano a peccare.  Ed era un via vai di gente che si muoveva, chi dalle cabine, dai giuochi o a comprare in baracca bibite fresche: gazzose, birra, acqua. Non era raro che la “lavatura”, così i vecchi marinai chiamavano la maestralata, portasse via tutto.  Si ricominciava da capo.   Le cose andavano bene allora. Anche  la pace  fatta da Francesco con  il fascismo,  personificata,  successivamente  alla  purga,  dal  federale  De  Fazio  col  quale  ci  fu  un rapporto di stima e simpatia. Intanto il cinema Impero era pronto. Bisognava darlo in gestione a un privato.  Il  De  Fazio  durante  uno  degli  incontri  con  Francesco,  lo  invitava  a  fare  domanda  per ottenere  in  gestione  il  cinema  Impero.  In  vero  a  Francesco  gli  frullava  già  in  testa  un’idea  del genere. Un  giorno mentre  era  in  segheria  ad  assistere  alle  operazioni  di  lavoro,  si  presentò  la guardia Rocco Toscano. Nel rapporto d’amicizia chiedeva in prestito la moto Guzzi per un viaggio a Vibo. “Ma  sarò di ritorno molto presto.” Diceva Rocco Toscano. Francesco non rifiutava mai nulla. E nel discorrere, da ingenuo, rivelò all’amico che quanto prima avrebbe  avuto  in  gestione  il  cinema.  Il  Toscano  riuscì durante  il  viaggio di  ritorno  a  rompere  il motore della moto e  rientrò  in  treno.  Francesco quando  si presentò al  comune per  fare  la  sua offerta, scoprì che il cinema era stato affidato in gestione ad un'altra persona, proprio in assenza del De Fazio.  “E come può essere? Nessuno sapeva del fatto … nessuno?” Francesco mangiò  la foglia. L’amico Rocco oltre al danno gli aveva procurato la beffa! Nonostante tutto,  le sue attività andavano benino. Lo stesso vituperato fascismo gli dava  lavoro: per le esercitazioni guerriere faceva costruire i fucili in legno e gran parte di questo lavoro veniva affidato a lui. La domenica dopo aver ringraziato il Creatore con la Santa Messa, i fratelli, ognuno con i propri amici si recava chi a fare un a partita a carte, chi al cinema, chi si dedicava al semplice passeggio o a corteggiare qualche ragazza (molto alla lontana) e spesso, come tutti i giovani della provincia, le discussioni futili erano all’ordine del giorno:  “Ti piace quella ragazza?”  “A me no, perché quella dopo  il primo figlio diventerà con un culo grosso così. Preferisco quelle magre  …”  frasi  a  doppio  senso,  battute  salaci:  oppure,  con  decisione,  la  domenica  gli  amici 

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partivano col treno e andavano a Messina, dove esisteva l’unico casino più vicino a Gioia. Qualche volta ci si recava sulla spiaggia a vedere il mare in burrasca.  “Tu lo faresti il bagno con un mare simile per una lira?”   “Per una lira? Anche di meno … “ e giù una risata, mentre il vento di maestrale portava il rumore delle  loro voci molto  lontane. Poi si faceva una disamina delle belle ragazze del paese:  la figlia di Tizio, di Caio,  a  cui ognuno di  loro  ci  aveva  fatto un pensierino. Vincenzo,  ad  esempio,  era un bell’uomo, non solo forte e muscoloso: aveva un viso allungato e levigato con capelli lisci castani; aveva  la  faccia  della  madre.  Allora  corteggiava  una  bella  ragazza  del  luogo,  una  certa  Olga Stancampiano. Bella ragazza, alta, capelli scuri, viso perfettamente ovale, su cui  luccicavano due occhi neri e grandi, anche lunghe rispetto al busto più tozzo, ma provvisto di seni non prosperosi, ma a misura, proporzionati. Anche a lei, Vincenzo, non era indifferente. Così, su una battuta semiseria di uno degli amici suoi, che sosteneva che non riusciva manco ad avvicinarla, Vincenzo rispose:  “Ti  farò vedere  che  io  la bacerò  in  strada  !”  scommessa  fatta.  L’indomani, mentre  la  ragazza  si recava  in  piazza  per  acquistare  frutta  e  verdura,  Vincenzo  le  si  parò  dinanzi  e  avvicinatosi rapidamente, la strinse sulle spalle e la baciò sulla bocca, tra i gridolini della ragazza (non si sa se di piacere o di paura), fra la meraviglia della gente per l’accaduto, Vincenzo si era allontanato mentre i suoi amici osservavano con stupore la scena, perdendo la scommessa. Ci fu in paese qualcosa che assomigliò ad una  scossa di  terremoto. Già parlare  con una  ragazza  in mezzo alla  strada,  senza vincolo  di  parentela,  era  disdicevole  .  Figuriamoci  un  bacio.  Roba  da  “fuitina”  e,  quindi,  da matrimonio riparatore.  Immediate le razioni da parte della famiglia di lei: il fratello lo voleva sparare. “Che venga a farlo !” gli rispondeva Vincenzo “Lo aspetto sulla spiaggia !” Francesco, il padre, era alterato, non gli rivolse la parola per diverso tempo, anzi lo scacciò di casa. Intanto il fratello di lei Pietro continuava a minacciare. Per tutta risposta Vincenzo ripetè l’impresa e, ancora una volta, dimostrò la sua natura ribelle.  Nell’anno 1937, nel mese d’ottobre, mentre Pineo  in segheria produceva  listelle per cassette, un nodo del grosso legno che stava segando, lo costrinse a spingere con forza il legno, quello si ruppe all’improvviso, e la sua mano finì sul nastro della sega il quale gli tranciò di netto un dito (l’indice) e per metà il medio. Immediatamente soccorso fu portato in ospedale a Taurianova.  Intanto  il  Capitano  Carresi  cominciava  a  sentire  sempre  più  il  fastidio  al  ditone.  Era  sempre infiammato, nonostante cure e lavaggi, uso di tinture e fasciature, gli doleva. Il medico visitandolo, non poteva che avvisarlo, di fare molta attenzione, altrimenti il dito poteva andare in cancrena.  Felicia  invece combatteva la sua battaglia con il suo sistema nervoso fragile ed esaltato. Ogni sua manifestazione  diveniva  oggetto  di  risate:  bastava  chiedere  il  racconto  di  barzellette  a  doppio senso, che subito cominciava a parlare come se si trattasse di una favola da raccontare ai bambini.  Il Capitano, rassegnato e paziente, assieme ai figli e ai numerosi nipoti, agivano per difenderla dai vicini maliziosi. Negli anni trenta, meglio tardi che mai diceva un vecchio adagio, un gruppo di facoltosi olivicoltori della Piana aveva dato vita alla società ‘Olivo’ (una cooperativa per azioni) con sede a Gioia Tauro sulla S.S. 18 lato Rosarno all’incrocio di via Valleamena. Finalmente gli  imprenditori  locali avevano  capito  che  la produzione e  la  commercializzazione  in proprio dell’oro verde, avrebbe potuto arrecare a  loro e al territorio vantaggi e risorse da poter, successivamente, reinvestire sul posto. Considerando la frantumazione della proprietà fondiaria, il fatto  che  tanti  produttori  si  fossero  riuniti  in  cooperativa,  rompeva  quella  cultura  sociale dell’individualismo a tutti i costi, deleterio per se e per l’economia della piana. Il prodotto spedito con  ferrovia  in botti o, molto più  raramente  in nave,  in varie parti d’Italia  riportava all’origine  il valore aggiunto ricavato e quivi reinvestito, con un effetto moltiplicatore che si immagina: operai, 

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impiegati,  servizi  indotti,    altri  dipendenti  e  salari  spesi  sul  posto,  che  incrementavano  altri comparti economici. “La cooperativa Olivo, nel progresso dei tempi ebbe momenti gloria, ma poi fu  costretto  ad  affrontare  grosse  difficoltà  specie  con  l’ammasso  dell’olio  durante  il  periodo bellico. L’obbligo dell’ammasso impedì una normale attività commerciale. La rettifica, poi, dell’olio con altri tipi di grassi vegetali, portarono alla condanna della cooperativa. Intanto fra una tensione e l’altra, gli stati europei stavano affastellando mattone su mattone, per arrivare  ad  una  nuova  guerra.  L’Italia  contro  la Germania  per  l’Austria  (Anchluss);  la  Francia  e l’Inghilterra  contro  la  Germania  nazista;  poi  tutti  contro  l’Unione  Sovietica, mentre  ogni  stato europeo  o  asiatico  subiva  le  grandi  pressioni  dei  più  forti:  bastava  una  scintilla  e  i  fragilissimi accordi, compreso quello di Monaco, si sarebbero  sciolti seduta stante. Gli Stati Uniti osservavano sonnacchiosi  l’andazzo,  però  pronti  ad  intervenire,  come  Brenno,  poggiando  la  loro  forte economia ed il loro armamento sul piatto della bilancia politica internazionale.      Mentre l’orizzonte europeo si offuscava, Giuseppe nel 1938 partì per la leva nella regia marina. Fu imbarcato a bordo dell’incrociatore “Cadorna”, come cannoniere; il fascismo con in mano tutti gli strumenti di propaganda preparava con la Germania di Hitler “Il patto d’acciaio” che obbligava ad intervenire militarmente nel caso che uno dei due stati fosse coinvolto  in una guerra. Ciò voleva dire  allontanarsi  politicamente  da  Francia,  Gran  Bretagna  e  Stati  Uniti:  e  questo  scatenava  il risentimento di Francesco:  “Si sta  inimicando con tutta Europa … abbandona tutte  le nazioni economicamente più forti, per gettarsi nelle mani di un esaltato … !”‐ sbottava Francesco. “Ed è in contrasto con la nazione che ci ha aiutato durante l’embargo per la guerra contro l’Etiopia, l’America”. Questi avvenimenti sembravano molto lontani dalle preoccupazioni della gente:  “Tanto noi non capiamo quello che dicono …!”. Ogni tanto qualche coraggioso antifascista faceva trovare  fogli  di  giornali  dell’opposizione:  l’Unità  o  l’Avanti,  con  i  quali  si metteva  sull’avviso  la popolazione di quanto stava accadendo e delle reali intenzioni del fascismo e del nazismo. Ma  il  regime  continuava  nella  sua  opera  propagandistica  tendente  a  creare  sdegno  contro  le nazioni “plutocratiche”; regalava patacche, premi, diplomi alle famiglie numerose. “ “Così diventano carne da macello”. commentavano le sorelle Carresi. Giuseppe navigò 7 mesi  sul Cadorna, e non  furono per  lui mesi  felici; a parte  le preoccupazioni della  guerra  .  Qualcuno  sosteneva  che  nella  propria  vita  s’incontra  sempre  un  “caporale”,  un omuncolo  che  solo  per  aver  un  nastrino  sulla  spalla  pensava  di  essere  un  generale,  questo omuncolo cominciò a vessare Giuseppe: turni massacranti, dispetti, sfottò. Finchè, un giorno, una bottiglia non partì come un siluro e colpì  il “caporale di giornata” sulla testa. Giuseppe arrestato, ma subito liberato per le testimonianze di un suo superiore, un ufficiale di Reggio, per punizione, fu mandato  a  finire  la  leva  nelle  isole  del  “Dodecanneso”  con  sede  a  Rodi,  destinato  ad  una batteria costiera.   Prima di ripartire per  la nuova destinazione,  fu mandato  in  licenza a Gioia.  Invano  il papà tentò, tramite il suo amico federale De Fazio o il nonno Carresi con il barone Musco, di trovare un modo di lasciarlo in Italia.  Ma il tribunale militare lo aveva condannato; non era permesso che la bassa forza potesse reagire, alzando  le mani,  su  un  “piccolo  superiore”;  il  fascismo  puniva  pesantemente  “i  normali”  per tutelare la sua onorabilità, lasciando chiusi gli occhi per vicende più gravi. Non si potè far nulla. Da Brindisi fu portato a Rodi dove risiedeva  il comando generale, guidato dall’ammiraglio Campioni. La sua prima destinazione fu l’isola di Lero a nord di Rodi. Poi Stampalia più verso ovest, ancora più piccola di Lero. Quando Giuseppe partì il primogenito Francesco jr, stanco degli alti e bassi delle attività del padre, prese la decisione di partire per cercare fortuna al nord. Tutti cercarono di convincerlo a rinunciare quell’idea. 

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“Mi  lasci ora che abbiamo buone quantità di  lavoro …  ! Come  faccio ? Servi alla  famiglia …  tuo fratello è militare in Egeo … qua non si sa come finirà … ci sarà, forse, la guerra … !” Nonostante le preghiere, non si convinceva:  “Mi devo sistemare, sono grande! E non ho intenzione di farlo in questo fottuto paese !” “E’ proprio vero ‐ diceva mesto Francesco ‐ la famiglia non esiste più … non siamo più ai tempi di una volta, quando bastava guardare negli occhi un figlio che subito ubbidiva !” dimenticando che i figli derivano  da un padre e una madre, ne ereditano, i caratteri somatici e psicologici.  Il Capitano Carresi, anziano e stanco, camminava poco:  il ditone s’infiammava continuamente. Si dedicava alla  lettura o a dar  consigli  chi per documenti,  chi per gli esami di  capobarca,  chi per rinnovare  il  libretto  di  navigazione,  o  qualche  lettera  di  raccomandazione.  Quando  leggeva  il giornale non nascondeva la stizza, alle notizie riportate dai quotidiani.  Non riusciva a capire, se la guerra che stava per scoppiare, fosse colpa dei tedeschi, degli inglesi o dei  francesi, oppure, se  tutti assieme  tiravano verso  l’abisso. Una sera che  il Capitano si sentiva una leggera febbricola, nel medicarsi il ditone, se lo trovò dolorante e nero. Fu chiamato il medico condotto  dottore  Gullace  e  l’esito  fu  temibile:  inizio  cancrena.  Bisognava  ricoverarlo  presso l’ospedale di Rosarno.  Il dottor Laghi, chirurgo,  lo visitò e decise di amputare un pezzo di dito e bloccare  l’avanzata  della  cancrena.  Così  fu  fatto.  Tutti  i  figli  e  i  nipoti  fecero  a  gara  per accompagnarlo e assisterlo in ospedale. Donna  Felicia,  poverina,  era  come  vivesse  in  un  mondo  tutto  suo:  non  capiva  quanto  stava accadendo.  La  sera,  al  solito  orario,  quando  non  vedeva  rientrare  l’ultimo  figlio,  si  piazzava all’angolo con i pugni a fianco e lo chiamava. Vicino al padre, costantemente, vi era Carmela. Era, come sempre, pronta a darsi da  fare: parlava con  i medici, gli  infermieri, assisteva  il padre nella recita del Santo Rosario. Aveva  una  grande  ammirazione  per  questo  papà,  saggio  ed  esperto  Capitano  di  Velieri  e  di Piroscafi, di fede diamantina, moralmente integro e notevolmente acculturato per il tempo.  E tutte le sue virtù le aveva trasmesse ai figli. Le piaceva stare li al suo fianco, parlare con lui per ore intere di tutto e di tutti. Chiedeva dei figli, dei generi e dei cari nipoti, quando non li vedeva li voleva  sempre  intorno:  forse,  pensava  che,  potesse  essere  l’ultima  volta.  Come  infatti,  diversi giorni dopo,  il medico aprì  la  fasciatura e notò che  la cancrena era avanzata;  la  febbre non era sparita. Si decise per una nuova amputazione; un altro pezzetto. La sensazione di tutti fu di dolore e mestizia. Vincenzo, il solito figlio di Fortunata, che non aveva peli sulla lingua, prese a dire:  “Ma  perché  non  lo  avete  fatto  subito  il  taglio  più  sopra?  Invece  che  un  pezzo  per  volta  ?”  Il dottore  Laghi,  infastidito,  avvisò  i  parenti  che  quell’uomo  non  voleva  vederlo  più,  altrimenti avrebbe  chiamato  i  carabinieri.  Così  Vincenzo  non  ci  andò  più  in  ospedale. Ma  non  ce  ne  fu bisogno:  la cancrena aveva preso  la  rincorsa. Un sacerdote gli diede  l’estrema unzione.  In piena coscienza, in attesa che la setticemia invadesse tutti gli organi più importanti pregava:  “Signore abbi pietà di me che sono un peccatore. Però Tu sai leggere nel mio cuore, sai bene che ti voglio bene, come so che Tu ne vuoi a me. A Te affido la mia anima.”  E’ il 29 ottobre del 1939 il Capitano spirò, tra le braccia delle figlie e di tutti gli altri parenti . Gaetano e Carmela, come si usava allora, fidanzarono la primogenita Giuseppina con un marinaio del  luogo, certo Rafele, detto “quartina”. Era costui una brava persona, gran  lavoratore, onesto: per  l’ambiente di  allora era un nulla osta  indiscutibile. Pur non essendo un  “latin  lover”. E pur ammettendo che  la sua bellezza  fosse un aspetto secondario nell’immaginario delle  famiglie del tempo  (e non è  vero  !)  la  rozzezza non  lo era di  certo; a Giuseppina non piaceva quell’ometto basso e tarchiato. Ma la donna, allora, era una merce da vendere a tutti i costi: con un minimo di garanzie, ma al primo richiedente. I sentimenti della donna o i suoi desideri contavano come il due di  coppe  con  la  briscola  a  danari.  Eppure  corteggiatori,  Peppina,  ne  aveva.  Ma  la  forza  del 

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“tradizionale” era dura a morire. Le famiglie nobili si apparentavano con altre famiglie nobili, in un paese di tradizioni marinare come la marina di Gioia Tauro, le figlie o i figli di marinai, nelle quasi totalità dei casi, si sposavano con marinai. Era un concetto forte e antico e molto resistente anche se, con lentezza, stava cambiando anche nel meridione d’Italia.  Il  legame  affettivo  tra  sorelle  e  cognati  era molto  solido. Ma  per  ognuno  di  loro  il  punto  di riferimento,  il porto  sicuro dove  approdare nella buona e nella  cattiva  sorte era  rappresentato dalla famiglia di Gaetano e Carmela. Francesco li stimava moltissimo: se li sentiva più vicino degli altri, sapeva di poter contare su di  loro, sulla  loro generosità d’animo. Per usare una parafrasi  li definiva  i  “buoni  samaritani”. Per questo motivo vedeva di buon occhio un matrimonio  tra  suo figlio Giuseppe e  sua nipote Giuseppina, che  intanto occhieggiavano, anche  se era necessaria  la dispensa ecclesiastica,  trattandosi di primi cugini. Quando poteva, Francesco, metteva  in cattiva luce quel fidanzato, buono e lavoratore per carità! ma dozzinale, rozzo. Francesco quando andava in visita dai cognati, tra una chiacchiera e l’altra, faceva un complimento alla nipote:  “Guardate  che  bella  nipote  che  ho!  e  poi,  per  tale  bellezza  ci  vorrebbe  un  bell’uomo,  fine  e educato. “ Carmela, quando suo cognato parlava così, capiva che Francesco volesse parare da qualche parte. E così, le sorelle si confidarono una sera  e Fortunata espresse il desiderio del marito di vedere suo figlio Giuseppe legato ad una famiglia come la sua e diceva:  “ Il grande è partito, il secondo dei miei figli sembra non avere né padre e né madre … io vorrei che il più buono dei miei figli si sistemasse con la figlia dei cognati che preferisco, piuttosto che cadere preda di qualche famiglia poco seria!” e Carmela rispondeva:  “Ma Peppina è fidanzata … come si fa ?”. Francesco a questa opposizione rispondeva:  “Perché quel pastore sembra adatto a tua figlia ?”. Questo discorso lo faceva a denti stretti: il figlio Mario  infatti corteggiava una bella ragazza, appartenente ad una  famiglia che a  lui non piaceva. Non che  fosse balorda, ma  il padre della  ragazza era un “senza bandiera”, un apolide, un privo d’ogni  cittadinanza.  In  quella  società,  essere  apolide,  era  come  dire  “senza  onore”.  Perciò  era  contrarissimo.  I fratelli e le sorelle di Gaetano, da tempo, si erano trasferiti a Reggio Calabria, ed egli, quando era a casa,  portava Peppina spesso dagli zii, i quali, da benestanti, la riempivano di regali: vestiti alla moda, scarpe, cappelli. Portati in un paese, che tendeva a crescere, ma ancora piccolo come Gioia, faceva bella figura davanti a tutti.  I genitori di Peppina, pur  lusingati della  richiesta di Francesco, non  sapevano  come uscire dalla situazione a testa alta. Andare  lì, un bel giorno, dal  fidanzato e dire:  la promessa è stracciata. Si faceva la figura degli sciocchi in un paese moralista per elezione. L’intenzione c’era. Mancava solo la  motivazione.  Un  bel  giorno,  questa,  arrivò  sotto  forma  del  fratello  Mico.  Egli  era  il secondogenito  di  Gaetano  e  Maria.  Faceva  il  chierichetto  nella  chiesa  di  Portosalvo.  Quella domenica, il fidanzato di Peppina fu invitato a pranzo dai suoceri e si aspettava il rientro di Mico. Ma i suoi genitori non sapevano dove fosse. A questa domanda il povero Rafele rispose:  “Mico?  Io  l’ho  visto  in  chiesa  vestito  da  ‘chicaro!  “:  a  volere  esagerare,  la  parola  assomigliava lontanamente ad una mala parola. Ma fu la motivazione che giustificò la rottura della promessa di matrimonio.  “Come vi permette a dire a questa parola, di fronte ad una vergine ?! Vergognatevi e, per favore allontanatevi da questa casa onorata, la promessa è rotta !” Così  si espresse Carmela di  fronte  al povero  fidanzato  che,  incredulo,  con  gli occhi  stupiti, non riusciva a capire quel che stava accadendo. Balbettando riprese:  “Ma che ho detto ? Io ho solo detto che a Mico l’ho visto in chiesa vestito da “chicaro”! e Carmela finta offesa, continuava la sceneggiata: 

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 “Peppina,  vai  via  di  quà,  allontanati  e  non  ascoltare  queste  parolacce!  Basta,  basta  così!”  Il poveretto stupefatto, si allontanò senza capire perché avesse perso la fidanzata.  In  compenso  Peppina  trovò  un  nuovo  fidanzato  in Giuseppe,  il  cugino.  E  quando  egli  venne  in licenza da Rodi, fu suggellato il fidanzamento ufficiale con una festicciola. Giuseppe era un uomo molto  romantico e  lo manifestava  in  lunghe  lettere  che  inviava a  tutti  i parenti,  oltre  che  alla  fidanzata  o  agli  amici,  da  ogni  isola  in  cui  veniva  spostato  come  destinazione. E quelle  lettere  alla  fidanzata,  scritte  con una  scrittura piccola  ed  elegante ma  leggibile,  erano cariche  di  sentimenti  di  amore,  come  fossero  innamorati  da  tanto  tempo.  Sembrava  si conoscessero da una vita. Peppina si affezionò a quelle lettere che provenivano da quella lontana parte  del mondo;  e  s’accorse,  poi,  di  aspettarle  con  sempre maggiore  desiderio.  Quelle  belle lettere   descrivevano  i  luoghi dove    si  trovava,  i  suoi  compagni o  i  rapporti  con  gli  abitanti o  i momenti  del  calar  del  sole  quando  i  grilli  chiacchieravano  tra  loro:  “cri,  cri”,  ruppero  qualche lontana eventuale ritrosia  di Peppina.  Intanto l’attività di Francesco era portata avanti da Vincenzo, Mario e i soliti dipendenti di fiducia: Mastro Augusto Tedeschi, Marzano, il simpatico mastro Peppe Tomaselli u’ burdinu, amico per la pelle di Francesco, ed altri numerosi operai.  Intanto Mario proseguiva  imperterrito a corteggiare Gina.  E  le  discussioni  in  famiglia  erano  continue,  sembrava  si  fosse  ritornati  ai  tempi  di  Francesco  e Fortunata  e  al  contrastato  antico  amore:  evidentemente  la  storia  non  è  poi  tanto”maestra  di vita”!. Dante  era  il  quinto  figlio  di  Fortunata  e  Francesco.  Egli  nacque  affascinante  ed  affascinante cresceva.  Aveva  un  ovale  perfetto,  due  labbra  carnose,  due  sopracciglia  ad  arco  lunghe,  perfette  che coprivano due orbite con gli occhi piccoli, nerissimi e vispi. Gli zigomi alti gli davano un aspetto ironico,  lo rendevano un “sex simbol” del  tempo. La pelle non era  levigata come,  in genere, era definito  il  classico  bello;  ma  diventava  un  aspetto  secondario  quando  sorrideva  o  parlava  in maniera naturale, con quel profilo da attore; la figura piccola e asciutta come la mamma e, come lei,  il naso  lungo; ogni pezzo, era  inserito al posto giusto,  il deambulare e  il gesticolare, attirava ogni  ragazza  da marito:  un  “latin  lover”.  I  suoi  capelli  ricci  e  fini  lo  rendevano  ineguagliabile. Quando Dante discorreva con qualche ragazza, questa lo guardava con gli occhi stupiti come se di fronte avesse un  ipnotizzare che gli carpiva  l’anima e  la plasmava a suo piacimento.   Era sveglio d’ingegno e vestiva alla moda.  Dante suonava il clarinetto nella banda del paese dall’età di nove anni. Il padre, essendo il ragazzo portato per lo studio, lo mandò a scuola. Completò le scuole dell’obbligo e la scuola media a Palmi, poi si  iscrisse al  liceo classico di Reggio Calabria. Era un gran chiacchierone, parlava  in modo così colorito e simpatico che non ci si  stancava di ascoltarlo. Grande spendaccione.  Vezzoso e narcisista, amava vestirsi  sempre  in maniera  impeccabile, con grandi sciarpe colorate d’inverno, cappelli all’americana o il borsalino, vestiti chiari in estate con paglietta.  Per mantenersi qualche vizietto o aiutava il padre o dava lezioni di musica. Si sbizzarriva anche con il disegno, essendo un ottimo disegnatore e, spesso, partecipava a concorsi banditi dal fascismo. Una  volta ne  vinse uno per  avere disegnato  il Duce  (la  sua  testa)  con  il  casco da  combattente denominato: “testa di ferro”. Poi partecipò ad un concorso nazionale per fare  l’attore. Era molto fotogenico. L’arrivo della radio in casa Caratozzolo, ruppe le vecchie abitudini familiari. Dopo Rocco toccava a Francesco  fare  i biglietti per  l’ascolto dello  strumento  radio. Era di  forma  rettangolare di marca Marelli color marrone. Sul  lato sinistro c’erano  le tre vecchie manopole color chiaro poste  le une accanto all’altra; sopra le manopole vi era l’altoparlante coperto con della stoffa retinata. A destra 

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il quadro con tutte le città del mondo scritte a colori diversi. Possedere la radio, allora, significava non  solo ascoltare notizie o  canzoni  con  tutti  i mitizzati  cantanti di allora,  che  si vedevano o al cinema o sui giornali. Era uno “status‐simbol”. Piuttosto che coricarsi con  le galline e rischiare di fare figli, si restava, per buona parte della sera ad ascoltare le trasmissioni EIAR. Così la domenica mattina i soliti rumori della piazza davanti  alla chiesa della Marina, erano interrotti dal rumore di una musichetta fascista o dalla voce di Carlo Buti o il motivo in voga: “Se potessi avere mille lire al mese  “. Che era  il  sogno, ovviamente, di  coloro  che  guadagnavano molto meno di mille  lire  al mese. Un sogno, tutto sommato, modesto.  Dante mentre si cambiava, affacciandosi ogni tanto dal balcone che dava sulla piazzetta antistante la chiesa di Portosalvo e a sinistra casa Morgante e Purrone, canticchiava la sua canzone preferita: “Fiorellin del prato, messagger d’amore, bacia la bocca che non ho mai baciato! Fiorellin del prato non mi dir di no !” osservato dai fratelli più piccoli Renato e Renzo. Chi era più attratto dal fratello maggiore era Renzo, quello che gli rassomigliava di più caratterialmente.  Intanto il fascismo compiva un altro passo verso la tragedia della guerra. Il patto d’acciaio era stato firmato  anche  dal Giappone.  Il  fascismo  sostenne  le  annessioni  fino  al  corridoio  di Danzica.  Si tentava con la politica di evitare il nuovo scontro in Europa: ma tutte le volte che si adoperava la parola pace si continuavano a costruire carri armati e cannoni e aerei e bombe … Solo chi era nei centri di comando o leggeva la stampa capiva ciò che stava accadendo, la tragedia che aleggiava sul mondo  intero. Non che  i giornali dicessero apertamente: è guerra; ma si capiva dalle cose non scritte .  “Se  la Germania continua ad annettere pezzi d’Europa, poi non reagiranno nazioni come Francia, Gran Bretagna ?”diceva Francesco. La  sua  preoccupazione,  come  quella  di  tante  famiglie,  erano  i  figli militari,  che,  in  una  guerra, potevano rimetterci la pelle.  Intanto Giuseppe dalle  isole  spediva  lettere e  foto. Qualche volta veniva  in  licenza. Ed ogni  suo ritorno era una festa per tutti. Da quei posti tanto lontani Giuseppe rientrava sempre con il sacco militare pieno di sigarette estere, che offriva a tutti, compreso il caro amico Pasquale De Gennaro. Mentre  il  fratello  Renato  gliele  fregava  e  le  fumava  con  i  suoi  amici:  Nunziato  Fiore,  Arturo Panzazza, Gianni ‘u Vecchiu.  Renato, settore Fortunata, chiuso di carattere, buono, di poche parole, serio aveva labbra e mento di  Giuseppe,  la  parte  superiore  del  fratello  Mario,  capelli  ondulati  e  castani.  Renzo,  magro, chiacchierone, scherzoso, sempre pronto con la battuta, nervoso aveva gli zigomi della madre, alti e puntuti. Per sfotterlo il papà di sera, in inverno, lo mandava ad acquistare il vino; Renzo, come sempre, si era già piazzato con ciabatte e calzettoni lunghi invernali vicino al braciere e rispondeva:  “Papà potevate dirmelo prima … ho  i reumatismi alti e con questo freddo, mi fa male!” La verità vera  risiedeva nei discorsi che spesso si  facevano sulla presenza degli spiriti,  folletti,   … vicino a quel palo della luce hanno ammazzato uno… .  Figurarsi se Renzo, di sera, d’inverno con quel vento sibilante che spostando le chiome degli alberi o il tronco stesso, faceva danzare le loro  ombre come fossero “tagghiacori”, andava per il vino … e tutto finiva in risate.  Le lettere di Giuseppe servivano a tranquillizzare tutti quando le spediva. Era lontano, è vero, ma tutto  sommato  faceva  la  “pacchia”.  Era  in  una  zona  tranquilla.  Tra  una  guerra    e  l’altra,  la manutenzione al cannone,  lo scherzare con  i camerati e  l’amicizia con  le famiglie del  luogo, che, per  fortuna,  non  sentivano  gli  italiani  come  occupati, ma  come  dei  vicini,  tutto  sommato  ci  si annoiava.  

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Ogni tanto arrivava una vecchia puttana, che non faceva perdere  il gusto e  le gioie dell’amore ai militari italiani che non potevano usare bordelli. Era talmente esperta che conosceva tutti i militari italiani che erano lì, forse dal 1911 anno della prima occupazione. Conosceva le debolezze di tutti: un militare di Udine voleva essere accarezzato dalla donna sui capelli; con un altro militare doveva gridare: “Il paradiso ! Il paradiso !”; un siciliano voleva essere chiamato con il nome di donna: solo allora raggiungeva l’orgasmo. Era una donna di famiglia.  Un giorno Francesco ascoltò la notizia che non avrebbe mai voluto ascoltare: la trasmissione si aprì con le parole della canzone: “Giovinezza, giovinezza … “ Era  il 10 giugno del 1940. “Ci siamo” disse Francesco “l’ora è giunta  !” e dalla radio si diffuse  la voce di Mussolini: “Combattenti di terra, di mare e dell’aria ! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni ! Uomini e donne d’Italia, dell’impero e del regno d’Albania ! Ascoltate ! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata … Francesco  ascoltava  con  le  mascelle  serrate  mentre  il  popolo  assiepato  in  Piazza  Venezia acclamava: “Guerra ! Guerra !”  “… Agli ambasciatori di Gran Bretagna  e di  Francia.  Scendiamo  in  campo  contro  le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano …”  “Che bugiardo ! Che bugiardo !” sbraitava Francesco. “Zitto non farti sentire !”diceva suo cognato Peppino o Fortunata la moglie.  Le urla dalla piazza in delirio si alzavano altissime prorompendo dalla membrana dell’altoparlante della radio: “Duce ! Duce ! Duce !” “L’avevo detto io, questo gaglioffo di Hitler con l’amico suo Mussolini ci hanno portato in guerra: ho due figli che sono militari di leva … e dobbiamo pregare Dio che duri poco !” Francesco aveva capito tutto perché da qualche mese prima, il Ministero delle corporazioni aveva ordinato la mobilitazione in tutta l’Italia e le colonie.  “Il  20  maggio  1940  il  Prefetto  di  Reggio  Calabria  organizzava  una  riunione  per  avviare  la mobilitazione  civile,  in  base  agli  ordini  impartiti  dal Ministro  delle  corporazione  con  circolare riservata n° 1069/96‐12 del 26 aprile 1940. “Ora  voglio  vedere quanti di quelli  che  gridavano:  “Guerra  ! Guerra  !”  va  veramente  a  farla  la guerra  !” Ad  ascoltare  la dichiarazione di  guerra  alla  radio di  Francesco  vi erano  vicini,  amici e parenti.  Vi  erano  Gaetano,  Carmela,  Peppina  e  i  più  piccoli,  l’amico  Nicola  Gargano  nonché padrone di casa di Francesco, con Luigi Purrone,  il signor Cannizzaro proprietario della distilleria posta di fronte alla casa di Francesco; il cognato Peppino, Nino, figlio di Peppino era partito a fare il corso di ufficiale di complemento nella fanteria.  Erano un po’  tutti preoccupati:  fino a quando  tutto era  tranquillo, gridare  il proprio  coraggio o guerra, guerra non costava nulla. Ma di fronte al pericolo che realmente si parava davanti, ognuno rimaneva  solo  con  se  stesso.  Era  come  il  povero  che  prima  di  comprare  del  pane,  controllava sempre le sue tasche per verificare che avesse soldi. Così facevano tutti coloro che gridavano … Guerra ! Guerra ! Francesco di fronte alla catastrofe che si rifletteva  anche sulla sua attività, in quanto tutti i giovani di  età  uguale  a  quella  dei  suoi  figli,  furono  chiamati  perla  leva,  perdeva  giovani  braccia  e  si sostituivano con quelle di persone più anziane. Lo stesso trattamento subirono gli imprenditori, di ogni specializzazione, di tutta la Piana.  “Nel mese di luglio del 1940 la Piana di Gioia fu interessata dalle prime incursioni aeree alleate.  

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Nell’agosto dello  stesso  anno  il Prefetto,  in esecuzione  alla  circolare del Ministero della  guerra n°7570 del 25 agosto 1940, ordinava l’oscuramento parziale nell’intera provincia.” L’economia locale già sfruttata dagli “stranieri” fu messa in ginocchio dalle decisioni del fascismo. “In esecuzione alla  legge 25‐5‐1940 n°415,  il Ministero dell’agricoltura emana un decreto  con  il quale si obbliga a ciascun detentore di bestiame bovino di tener vincolata fino al termine del 30 giugno 1941, una quota pari al 30% del peso vivo del bestiame posseduto …” Nelle  fasi  successive  tale  obbligo  toccherà  anche  a  cereali  ed  altri  alimentari:  vi  era  l’obbligo dell’ammasso.       Tutte queste riserve dovevano servire per  le nostre truppe. Ma gran parte delle cifre denunciate erano false: la merce, più avanti, sarebbe stata destinata al mercato nero.  Quando  passavano  gli  aerei,  i  bambini,  ed  anche  gli  uomini,  alzavano  gli  occhi  al  cielo  e saltellavano gridando:  “Gli aerei, gli aerei !” sembrava una festa per tutti. La guerra era ancora lontana. Ma i ricognitori passavano sempre sopra la Piana:  “Perché?”  si  domandava  Francesco.  Che  intanto  provvedeva  a  rifornire  la  casa  con  una  buona scorta alimentare. Partiva con  l’amico mastro Peppe ed andava a Decollatura a comprare fagioli, patate, grano, salami e prosciutti ed altro. Il quartogenito, Mario, era partito per il militare di leva nella Regia Marina e fu mandato in Sicilia, a porto Empedocle, proprio di fronte all’Africa. Egli era il tecnico della famiglia: castani e ondulati i capelli,  alto  come  il padre,  gran  chiacchierone  e  gran  giocatore di pallone.  Sempre  in  continua discussione con il padre per via di quella ragazza che, al papà non piaceva. La fabbrica del ghiaccio la  seguiva  lui  dal  punto  di  vista  tecnico. Quando  si  doveva  risparmiare  sul  conto  dell’acqua  e dell’energia elettrica, era lui che sapeva come fare. Intanto, Vincenzo. durante uno dei suoi viaggi per servizio a Reggio era tornato con una nuova “fidanzata”. Il precedente fidanzamento, voluto e forzato  dal  padre,  era  fallito  dopo  tre mesi.  La  nuova  era  una  ragazza  di  vent’anni,  Candelora Rappocciolo. Il papà, quando se lo vide arrivare con costei in un rapporto di convivenza, senza alcuna intenzione di sposarla, fece fuoco e fiamme per impedire che la ragazza rimanesse con lui. Ma Vincenzo non si  convinse,  anzi …  più  gliene  parlavano  peggio  era.  Neanche  le  buone  sorelle,  tutte  assieme, riuscivano a spostarlo di un centimetro dalle sue convinzioni. Il primogenito, intanto, a Genova, si era sposato ed aveva avuto una bambina, che aveva chiamato come il nonno: Francesca.  L’Italia in guerra, a parte qualche successo iniziale, andava male. La Regia Marina, ebbe il primo mortale colpo con il bombardamento  della flotta navale in rada nel Mar Grande    a  Taranto,  la  prima  volta  nel  novembre  del  1940. Gli  aerei,  cacciabombardieri  e aerosiluranti, provenivano da Malta e nonostante la difesa antiaerea e i palloni esplosivi, volavano al di sotto del tiro minimo dell’antiarea e sganciarono il loro carico micidiale sulla città  affondando buona parte della  flotta. Questo  fece capire a  tantissima gente che  la guerra non sarebbe stata breve, e che non c’erano città o paesi sicuri dal conflitto che insanguinava, ormai, l’Europa: con un tale  aereo,  si  raggiungeva  qualsiasi  porto.  Ma  tutto  ciò  non  traspariva  dalla  propaganda  del fascismo. Anzi con il prolungarsi della guerra, la propaganda sulla stampa e alla radio si accentuava sempre di più. Ma bisognava riaffermare nei notiziari,  i successi dei nostri militari o dei camerati tedeschi, esaltandoli. La sera però,  i più coraggiosi ascoltavano  il Maggiore Stevens che da radio Londra, affermava esattamente  il contrario di quanto raccontato dal fascismo. Un po’ di verità si conosceva solo quando rientrava qualche militare in licenza. Anche sul fronte terrestre le cose non andavano affatto bene come si sosteneva con la stampa o con i notiziari radio presentati dal signor “Appelius”:  la  guerra  d’Albania  e  di  Grecia  ne  furono  un  esempio;  senza  l’arrivo  dei  soldati tedeschi, l’Italia sarebbe stata ributtata in mare. 

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 L’economia  locale, per  i provvedimenti di politica  fiscale  fu messa  in ginocchio definitivamente. Alcuni  grossi  allevatori  come  Filoreto  Fondacaro  e  tanti  altri,  si  videro  ridurre  il  numero  delle bestie. Ma, come sempre,  fatta  la  legge  trovato  l’inganno.  I notabili del  fascio, molto spesso,  in accordo con allevatori e agrari, chiudevano un occhio. La corruzione cominciava a dilagare. Anche il grano,  l’orzo,  l’avena si dovevano ammassare. Cereali e  farine, per   esigenze di guerra,  furono razionate per  tutta  la popolazione  civile, quella  senza potere; mentre quella dei notabili  viveva bene come sempre.  La maggior parte della gente riceveva la quantità di merce o derrate alimentari, con il controllo dei tagliandi  di  una  tessera  che  limitava  l’acquisto  al  necessario.  Chi  aveva  “imboscato”  la merce, specie  le  cibarie,  le  vendeva  di  contrabbando  alla  “borsa  nera”,  arricchendosi. Alcuni  di  questi contrabbandieri  si  contentavano di  vendere un po’ d’olio o di  farina,  in  cambio di  altro  tipo di merce o in moneta sonante.  Ma c’erano quelli che riuscivano ad accaparrare fortune: la gente comune li chiamava “pescecani”.  Appena le prefetture deliberavano per l’obbligo dell’ammasso, i “pescecani” portavano la merce in mercati proficui, raddoppiando i prezzi, ovviamente dopo aver corrotto i funzionari fascisti. Uno  di  questi  pescecani  tale  Rocco  Morrone,  pur  essendo  analfabeta  si  arricchì.  Riusciva  a trasportare ingenti quantità d’olio o altra merce con diversi mezzi: con velieri che non attiravano l’attenzione di alcuno (e caso mai si compravano), in treno o in camion. Seguiva sempre di persona i trasporti e trattava con i mediatori. Non cedeva sui prezzi da lui imposti. Era un uomo deciso e si faceva rispettare. A volte con le armi. Ma non era l’unico. In quegli anni bui tutti si dedicarono alla borsa nera. Bisognava sopravvivere. Con la situazione di guerra peggiorata, le misure di politica economica del fascismo continuarono a stringere  ancor  di  più  i  consumi  interni;  la  stampa  di  nuova  carta moneta;  emissione  di  bot; riduzione dei consumi di energia elettrica e  la logica conseguenza delle diminuzione delle attività industriali  e  artigianali.:  solo  l’industria  pesante  o  i  cantieri  navali  erano  esclusi  dalle  riduzioni, ovviamente,  l’energia  serviva  per  fabbricare  armi.  E  per  un  paese  senza materie  prime,  come rifornimento per  le  industrie pesanti  spinse  gli  strateghi  fascisti  a  far  fronte  alla  costruzione di nuove armi con mille espedienti: si dava la caccia a tutto ciò che era ferro, cancellate, cerchi delle botti ecc.  Dal  1941  a  tutti  i  mezzi  di  locomozione  a  benzina  fu  proibita  la  circolazione.  Insomma  il razionamento anche dei beni di prima necessità non fece altro che rafforzare  il mercato nero. Le tanto celebrate forze armate italiane si rivelarono un bluff. Francesco,  Fortunata,  i  parenti  che  avevano  figli  al  fronte  soffrivano  le  pene  dell’inferno. Ma continuavano a pregare, a chiedere alla Provvidenza Divina  la   protezione sui  loro figli;  in special modo  sul  primogenito  di  Serafina  e  Giuseppe  che  s’imbarcò  su  un mercantile  a  16  anni.  Allo scoppio  delle  ostilità,  si  trovava  in  Egitto  (Port  said)  protettorato  inglese,  assieme  a  tutto l’equipaggio fu dichiarato prigioniero di guerra: ritornò solo alla fine delle ostilità. A  Gioia  sembrava  scorrere  normalmente  la  vita.  Ciò  che  rompeva  il  tran  tran  era  il  continuo arrivare in stazione F.S. di militari tedeschi, italiani, sulla S.S. 18, camion e carri armati facevano un rumore assordante; tutti  i ragazzi si divertivano a seguire tutte  le operazioni   di scarico di mezzi, cannoni, tende militari ecc.  Per  loro  era  uno  spettacolo.  Come  lo  era  osservare  il  milite  tedesco  tanto  decantato  dalla propaganda fascista. Di norma, durante  le guerre, si militarizzano ampie zone territoriali, strategicamente  interessanti dal  punto  di  vista  bellico.  Uno  di  questi  luoghi  fu  la  Piana  di  Gioia  Tauro.  “Tra  Gioia  Tauro  e Rizziconi,  nel  tratto  che  va  dalla  stazione  F.S.  a  villa  Cordopatri  era  attestata  la  munitissima divisione tedesca Goering”. “A Cittanova era dislocata la 211° divisione costiera, che si prolungava  

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fino ai contrafforti montuosi, nelle contrade Fendetti, Barone e Spina”. “Mentre il 53° reggimento, il cui comando era a Gioia Tauro, era accampato alla foce del fiume Petrace”.  Su tutta la superficie della spiaggia di Gioia Tauro, il fascismo vi aveva fatto costruire delle grandi postazioni militari, affondate sotto la sabbia, con il miglior cemento armato. A Cannavà, in contrada Cavallaro, nel comune di Rizziconi, vi era “ospitato” un piccolo aeroporto, nei  pressi  del  passaggio  a  livello.  Ad  ottobre  del  1942,  per  effetto  di  una  legge  fascista  che prevedeva  il diritto di avvicinamento dei militari  che da  almeno due anni,  si  trovavano  lontani, Giuseppe rientrò in Italia, per la felicità dei suoi genitori, della fidanzata e suoceri.  Francesco sapendo come andavano le cose in Italia, che non vi era base militare risparmiata dagli attacchi anglo‐americani, si preoccupò non poco del rientro in Italia del figlio.  “Forse rimanere a Rodi sarebbe stato meglio visto che non avete sparato un solo colpo di cannone, ora potrebbero mandarti in zone molto più pericolose.” gli diceva. Come si sbagliava Francesco! Appena Pineo rientrato che fu  il Dodecanneso, specie Lero, furono bombardate a più non posso dall’aviazione inglese. Successivamente, dopo l’otto settembre 1943 completarono la strage gli ex camerati tedeschi.   “Ma no papà, vedrete, al massimo mi manderanno a Reggio o a Villa S.Giovanni”. Infatti  fu mandato  a Villa, batterie  costiere di Punta Pezzo, proprio quando  gli  anglo‐americani bombardavano  a  tappeto  basi  militari  e  città  industriali.  Gaetano  che  assieme  a  Francesco ascoltavano “Appelius” alla radio, che gli anglo‐americani avevano bombardato e provocato morti “solo” fra i civili, si sdegnavano:  “Posso giustificare, in una guerra, che si colpiscano obiettivi militari …. Ma non giustifico le bombe nelle città contro civili inermi !” Peppino il marito di Serafina rispondeva:  “Forse lo fanno per stancarci, demoralizzare la popolazione civile !”.    Intanto ogni tardo pomeriggio, all’imbrunire,  i ragazzini, si recavano sulla spiaggia per assistere a ciò che accadeva all’altezza dello stretto di Messina: ondate di fortezze volanti sganciavano sulla base militare siciliana il loro carico di morte e distruzione. La contraerea rispondeva al fuoco con i suoi proiettili  traccianti:  sembrava  la  festa patronale,  scoppi  in  cielo e  tanto  fumo,  scoppi  sulla terra ed altre alte colonne fumose che si levavano verso l’alto. Poi di colpo la calma, di nuovo una nuova ondata di aerei, e lo spettacolo riprendeva con più vigore come un crescendo rossiniano. Tutti i ragazzini restavano con gli occhi sbarrati e pieni di paura, ma non riuscivano ad allontanarsi. Anche  i  militari  della  postazione  vicina  al  Petrace,  con  i  loro  visi  che  si  illuminavano  e s’imbrunivano per via delle continue esplosioni erano preoccupati:  “Madonna bona”‐ diceva un soldato toscano al suo camerata ‐“i nostri colleghi stanno ballando un po’ più del solito!” “Meno male che siamo abbastanza lontani da quell’inferno !” rispondeva un altro.  Anche  il  figlio  Mario,  alla  fine,  per  la  medesima  legge,  fu  trasferito  da  porto  Empedocle  in Calabria, esattamente a Palmi come segnalatore. Quell’anno il Natale tutta la parentela dei passò insieme le feste natalizie: zeppole, ragù di maiale e salsicce, polpettone, pasta di casa. A seguire i dolci fatti in casa, come pure i liquori: il rosolio.  Era un liquore preparato con alcool, zucchero ed acqua nella stessa proporzione poi si aggiungeva un’essenza che dava  il gusto ed  il nome al rosolio: menta, arancio. Era un preparato di moderata gradazione alcolica ed al gusto si presentava forte e morbido.   Intanto, da un poco di  tempo, Francesco spingeva il figlio Albino, penultimo dei maschi a studiare in  seminario.  Ci  teneva  molto.  L’avere  un  figlio  sacerdote  in  famiglia,  una  famiglia  cristiano‐cattolica come la sua, era motivo di orgoglio. Albino, capelli ricci e neri, come la madre , somigliava 

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in  viso  al  padre;  ma  dal  carattere  materno.  Come  tutti  i  ragazzi  del  tempo,  frequentava  la parrocchia del Duomo; ci andava molto volentieri,  si  sentiva attratto dall’ambiente della chiesa, dai suoi riti, dalla  maestosità del suono dell’organo e dalla immobile vocalità del canto gregoriano. Gli piaceva quell’altare pieno di piante e fiori e di candele illuminate che adornavano l’ urna  ove era custodito il S.S. Sacramento, mentre in alto si stagliava la statua di S. Ippolito martire a cavallo, patrono della città, le icone della madonna o di altri santi, gli piaceva anche quell’odore di cera che impregnava  l’aria  e  quell’atmosfera  di  spiritualità  che  si  respirava  all’interno  della  chiesa.  Ci rimaneva volentieri. Anche zia Carmela  lo spingeva a frequentare  il seminario. Ma era un tipetto vispo che facilmente perdeva le staffe, a dispetto della Santità . Una volta mentre con alcuni cugini si recava in chiesa con la tonaca da seminarista, fu fatto oggetto di scherno da alcuni tipacci:  “Ahi, ahi … tocchiamoci passa il corvo nero !” non l’avesse mai detto, si alzò la tonaca e si scagliò contro i malcapitati, tirando pugni e calci. Frequentava  il  seminario  di Mileto:  Gioia  Tauro  ricadeva,  allora,  nel  vescovado  di Mileto.  Lo accompagnavano il padre, e, spesso qualche fratello  Mario era sempre innamorato di quella ragazza che suo padre non vedeva di buon occhio, Dante frequentava  il  liceo  e  nello  stesso  tempo  corteggiava  una  delle  figlie  di  Rocco  Morrone,  il pescecane del mercato nero.  Intanto    Francesco  jr  era  arrivato  da  Genova.  La  città  era    continuamente  sottoposta  ai bombardamenti  degli  anglo‐americani.  Pensava  che  qui  si  fosse  più  sicuri  che  non  in  una  città industriale del nord . Vincenzo  con quella  ragazza di Reggio,  che di  fatto era diventata  sua moglie, partorì un bimbo (1942) a cui fu dato  il nome di Franco, come  il nonno. Abitavano quasi di fronte alla segheria;  la ragazza  era    in  cinta  del  secondo  figlio. Ma  le  discussioni  tra  padre, madre,  parenti  ecc.  non finivano  mai.  Francesco  voleva  legalizzare  la  loro  situazione  con  il  matrimonio  religioso.  Ai rimbrotti del padre si aggiungeva il coro delle sorelle Carresi . Ma  ottenevano l’effetto contrario. Durante  la  guerra,  poche  navi  di  poche  compagnie  navigavano:  il  rischio  era  troppo  alto  per l’equipaggio. Così Gaetano si adattava a lavorare a terra. Spesso andava dal cognato Francesco con il figlio Mico.  Lo  spettacolo  di  Messina  continuamente  bombardata  era  un  chiaro  segnale  che  gli  anglo‐americani avrebbero quanto prima invaso l’Italia: a cominciare dalla Sicilia.  Quel sabato 20 febbraio dal 1943, Francesco, come al solito, si alzò di buonora. Riscaldò un po’ di caffè d’orzo.  Fumò mezza  sigaretta  africa;  in  cucina  versò dell’acqua  in un bacile,  si  lavò  con  il sapone;  pulì  con  uno  spazzolino  dove  andava  messo  del  bicarbonato  per  sbiancare  i  denti, sciacquò la bocca e fece qualche gargarismo. Mentre asciugava le mani, si sentì toccare la schiena: era l’ultimo figlio maschio Ciro di 10 anni. Francesco lo guardò e gli disse:  “Ciro che fai alzato a quest’ora ?”  “Papà”‐ rispose Ciro‐ “portami con te, la scuola non mi piace, non ci voglio andare. Fammi venire con te sul carrozzino !” e Francesco  l’accontentava. Era  l’ultimo dei figli maschi, Francesco si era fermato con il cantiere solo alla nascita di una femmina. Infatti, l’ultima nata fu chiamata Maria, in memoria  di Maria Minutolo, madre  di  Francesco,    di  poche  parole,  chiusa  e  riservata  come  la madre. Ciro era come  il fratello Giuseppe e come  lui buono; era un amante degli animali e della natura, amava le cose semplici. In segheria, spesso, faceva il carbone con la legna, proprio come lo facevano i carbonari. Seguiva le api che si appoggiavano sui fiori, o le farfalle. La stessa mattinata si alzarono pure Mario in licenza e Renato che doveva pigliare il treno e recarsi al liceo scientifico di Reggio. Il resto si recò in segheria. Francesco  scese  le  scale,  incontrò Nicola Gargano  sottocasa,  si  salutarono.  Poi  salutò  il  signor Cannizzaro che aveva già aperto  il distillatore. Andò vicino alla stalla, posta a fianco della casa di 

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Luigi Purrone; dove alloggiava  il carrozzella e  il cavallo. Con Ciro e Renato e Mario  legò  il cavallo alla carrozzella e si avviarono.  Quella fu una giornata che solo febbraio poteva regalare. Chiara e fredda: tutto era terso. Il cielo azzurrissimo si specchiava regalando  il suo colore al mare.  Intanto  il freddo aveva trasformato  la rugiada in ghiaccio e lungo la rotabile che portava verso Gioia Tauro centro, gli alberelli d’ontano ancora  giovani,  piantati  lungo  il  percorso,  sembravano  immobili  come  volessero  gustarsi  quel chiarore. Si sentiva un odore  fradicio di  terra, di  radici, di agrumi ancora  in albero, mischiato al profumo di menta e rosmarino che proveniva da tutte quelle campagne. Ciro ogni tanto dava un colpetto al posteriore del cavallo, mentre osservava il fiato dello stesso che vaporizzava al contatto con  l’aria  fredda. Gli  stessi  rumori,  amplificati  dal  silenzio,  si  riconoscevano  tutti:  carri  di  buoi, greggi di pecore, qualche motoretta o macchina. Padre e  figlio si   acquattavano e si stringevano l’un  l’altro  per  riscaldarsi.  Un  militare  qualunque,  che  avesse  avuto  un’esperienza  minima  di guerra, con una giornata così avrebbe detto: “E’ ideale per bombardare qualunque obiettivo”.  La giornata ideale durò tutto il pomeriggio. Davanti alla segheria, Vincenzo aveva aperto il grande cancello.  Poi  arrivò  il  cognato Gaetano  con  suo  figlio Mico.  Poi  arrivarono,  di  seguito, Augusto Tedeschi, Marzano . Vi lavoravano circa venti persone. Non si pensava alla guerra, se non quando passava qualche aereo o compagnia di militari. La guerra era ormai persa ma la verità non veniva fuori. Tutti i fronti erano persi, e si stava verificando la profezia di Nenni di tanti anni fa. I  tedeschi  con  i  loro  mezzi  presenti  sul  territorio,  non  sembravano  in  smobilitazione.  Anzi. Sembravano i padroni. Un giorno uno di questi si acquartierò  in casa del capitano Carresi: come hanno fatto sempre gli eserciti  invasori.  Spesso,  da  ubriaco,  raccontava  della  sua  casa,  di  Dresda  che  intanto  subiva tremendi bombardamenti, e della sua  famiglia che era “kaputt”. Quel giorno  il militare  tedesco, eccitato,  dal  racconto  estrasse  la  sua  pistola  d’ordinanza  e  sparò  un  colpo  contro  la  foto  del Capitano che era appesa al muro. Grande spavento per  i residenti, ma di nulla di serio  : solo un grande dolore perché il proiettile bucò il ritratto del Capitano. A Gioia centro,  invece, ci fu un episodio che rese ancor più odiosi  i militari tedeschi: una giovane donna fu violentata da uno di questi. Il fratello di costei, tale Ippolito, lo ammazzò a coltellate. I militari tedeschi lo imprigionarono e lo torturarono, strappandogli i denti crudamente; tanto che lo stesso Ippolito impazzì per il dolore. Il paese di Gioia Tauro alle 17:00 del pomeriggio era ancora nel pieno della sua attività lavorativa. Era  sabato,  giornata  di  paga.  Francesco, mentre  si  lavorava,    Ciro  giocava  dentro  la  stalla  col cavallo,  chiamò  suo nipote Mico e  lo mandò dai  “caconghi” a  cambiare dei  soldi. Mico  si avviò piano, piano a compiere il servizio. Per evitare un po’ di lavoro. D’improvviso si sentì il rumore di un  aereo,  poi  spuntò  la  sua  sagoma  da  sud.  Ciro  uscì  correndo  dalla  stalla  e  gridava:  “Gli apparecchi  ! Gli apparecchi!” con  felicità come  fecero quel giorno  tutti  i bambini di Gioia. Mico intanto era rientrato con i soldi cambiati ed era nel capannone. Francesco stava davanti al cancello e chiacchierava con un vicino:  “Don Ciccio, questi sono aerei americani !” Francesco annuiva.  “Si vede che sono molto vicini e pronti a sbarcare in Sicilia”.  Fu un attimo. Il rumore assordante ritornò, questa volta accompagnato da   sibili strani seguiti da forti esplosioni.  Le “fortezze volanti” avevano bombardato,  la ferrovia,  il campo d’aviazione,  i militari  lì assiepati, depositi di carburanti (sic) e i civili. La segheria fu colpita in pieno. E tra  il fumo, l’odore di polvere da  sparo,  come  fosse  la  festa  di  un  santo,  le  urla  di  spavento,  ognuno,  correndo,  cercava  di mettersi  in  salvo. Mico  con  la  testa  rotta  da  un mattone,  Augusto  Tedeschi  ferito  e  Gaetano correvano  in mezzo  alla  campagna  circostante.  Vincenzo,  dopo  gli  scoppi  e  in mezzo  al  fumo, 

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correva per raggiungere la sua casa dove stavano sua moglie e i suoi due figli. Accecato dal fumo passò  vicino  al  padre morente  e  corse  verso  casa,  per  trovare  ciò  che  non  c’era  più. Mario tremante, assieme al fratello Renato, rientrato da scuola e si trovava in segheria e qualche operaio soccorsero Francesco che dava segni di vita, mentre il piccolo Ciro, il silenzioso Ciro, l’amante delle cose semplici, era rimasto intatto, ma morì per una misera scheggia di bomba che gli aveva bucato la  tempia  destra.  Era  steso,  a  fianco  del  cavallo morto  anch’esso. Mario,  Renato  e  gli  operai caricarono Francesco su una carriola e cercavano disperatamente di portarlo da qualche medico. Mario, con le lacrime che gli colavano a fiotti e gli impedivano di vedere la strada, gridava: “Un medico ! Un medico ! chiamate un medico !”. Francesco  era  stato  colpito  al  fianco  destro  ed  al  collo  proprio  sotto  la  mandibola,  che  gli penzolava sul petto. I  bombardamenti  del  20  febbraio  avevano  ucciso  parecchi  civili  e  provocato  danni  a  parecchi palazzi, compresa  la chiesa principale che dieci anni prima era stata  inaugurata  in pompa magna dal fascismo. Nei pressi del Duomo Mario, tra  la gente terrorizzata e assiepata  incontrò un giovane sacerdote: don Peppino Minà. Vedendo le gravi condizioni di Francesco, si avvicinò per confessarlo, e disse:  “Vi pentite dei vostri peccati?” Francesco girò gli occhi da moribondo verso di lui, abbassò il capo più volte in senso affermativo e don Minà:  “Ego te absolvo in nomine patris et filio et spiritus sancto”, Francesco subito dopo spirò.  Vincenzo,  intanto,  aveva  trovato  la  propria  casa  distrutta.  Trovò  Franco  senza  una  gamba,  la moglie  senza  testa.  Li  abbracciò  con  forza,  alzò  gli  occhi  al  cielo  e  cominciò  a  piangere disperatamente, urlando il proprio dolore, imprecando contro la malasorte che ancora una volta si era ricordata di questa famiglia. Intanto i soccorsi, in modo particolare dei militari, arrivarono con sollecitudine.  I  corpi  furono portati  con mezzi  al  cimitero, perché non  vi erano bare  sufficienti, ammucchiati  l’uno sull’altro,  tutti  i  ragazzi  tra cui Turi,  il  terzogenito di Gaetano e Carmela, uno scavezzacollo, gran  lavoratore ed altri cugini, Vincenzo, Ciccio e tanta gente osservavano  il triste, sconvolgente spettacolo,   un altro dei suoi figli Renzo, che era stato avvisato di quanto successo, mentre  saliva  verso  la  segheria,  incontrò  il  carretto  con  i  morti  suoi.  Lo  seguì,  piangendo  e chiamandoli per nome. Il ragazzo rimase particolarmente scosso dall’avvenimento. Ogni aereo che sarebbe passato, non era per lui una festa, ma un motivo per scappare alterato e farsi proteggere dai militari. Fortunata,  in seguito, accolse tutti  i suoi cari con  l’anima  lacerata. Non riusciva a capire del tutto quel ch’era successo: le sembrava un brutto romanzo dell’orrore. Ma cinque morti in un colpo solo erano lì a raccontare la verità, quella che ogni madre di famiglia non avrebbe mai voluto vedere. Quei corpi  intrisi di sangue e di  terra davanti a se,  le parlavano di una realtà  inumana, violenta, crudele  che  si  accaniva  sempre  verso  innocenti  persone,  i  più  deboli  e  indifesi  che  non  dava tregua; quando sembrava che la vita seguisse il verso giusto, questa le sfuggiva, scivolava come il sapone tra le sue dita:  “Quando sembra che le cose in terra vanno male, alzate sempre gli occhi al cielo e dite: Signore ti affido queste sofferenze ! Tu che conosci il mio cuore aiutami … mio Dio… “. Queste parole del Capitano venivano nella mente a Fortunata: ma, nello stesso  tempo,  la cruda realtà  si  scontrava  con  la  fede:  perché?  Signore  perché  la malasorte  si  accanisce  sempre  sulle stesse persone ? Sulle stese famiglie ? Sembra un solco tracciato nella propria vita, che viene da molto lontano. Con gli occhi gonfi di lacrime e arrossati, in un pianto lento, continuo, composto, le veniva  in mente  che  il marito  non  aveva  conosciuto    il  padre, morto  annegato  nella  lontana Argentina, dove era emigrato per stare meglio; o come l’altro fratello del suocero, Rosario, morto anch’esso in tragiche circostanze. Questo destino crudele, pensava, si trasmette da padre in figlio ininterrottamente. Ma la fede dava forza e coraggio a tutte le sorelle: “Guardate sempre in alto, là 

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ritroverete  ristoro  e  forza”.  Ricordavano  tutti  gli  insegnamenti  del  padre.  Mentre  Fortunata accarezzava la testa di Ciro, che aveva i capelli sempre ispidi, e impolverati con quel forellino sulla testa; Carmela cercava di consolarla, abbracciandola, parlandole dolcemente.  “Quanti sacrifici, quanti sforzi, quanti problemi, quante contrarietà abbiamo passato insieme nella vita, breve, ma intensa che abbiamo vissuto” ripeteva con amarezza Fortunata. Le buone iniziative, le idee brillanti, la voglia di fare devono sempre essere accompagnate da una buona dose di fortuna: che era come  il coraggio di don Abbondio, “Se uno non ce  l’ha, non se  lo può dare da solo”. Gioia Tauro quel   20  febbraio   1943  capì  che  la  guerra era  vicina  violenta e mortale.  La  stessa formazione aerea aveva bombardato la Piana quasi al completo, compreso il comune di Cittanova. Dove erano piazzate le batterie costiere del 211° battaglione. Anche lì provocò morte e distruzione tra  i  civili, più  che a Gioia. E, nonostante,  la presenza di  tanti militari, non vi  fu una  sirena  che allertasse per l’arrivo di “fortezze volanti”. Da  allora, il prefetto con i comandi militari, decisero di piazzare anche a Gioia Tauro le sirene d’allarme aereo. Durante  la tragedia, la gente della marina si era riparata  in mezzo al boschetto di eucalipti, nei pressi del fiume Budello. Quando   ritennero che  i bombardamenti fossero finiti rientrarono alle proprie case: ciò dimostrava come  il fascismo operasse superficialmente, alla cieca, senza organizzazione logistica, senza informazione corretta, senza preparazione. Da quella volta, ogni notte si ascoltava un aereo inglese, detto il “ferroviere”, che mitragliava le tradotte militari. Giuseppe  l’indomani  di  quel  tragico  giorno  fu mandato  in  licenza  da  Punta  Pezzo. Mentre  si trovava sulla strada nei pressi del fiume Petrace lato Palmi, ove tutti erano scesi perché il treno si era  fermato  per  un    bombardamento,  il  signor  Cannizzaro,  in macchina,  diretto  verso  Palmi, incontrò Giuseppe e  lo  invitò  a  salire,  raccontandogli quanto  fosse  successo  in quel disgraziato giorno precedente,  lo accompagnò a casa. Il pianto fu  doloroso, alla vista dei suoi cari dentro due bare che ne contenevano i corpi. Anche in questo caso i suoceri, la fidanzata e gli amici cercarono di consolarlo. Nello stesso giorno Vincenzo, di buon mattino, era partito con buona lena verso la sua abitazione crollata per effetto delle bombe. Voleva trovare a tutti i costi la sua bambina di meno di un anno, che  ancora  giaceva  sotto  le macerie.  E  scavò  per  tante ore,  senza  tregua,  spostava  traverse di legno e blocchi di pietra, mattoni e calcinacci,  le sue dita erano sanguinanti, ma non si  fermava; non si stancava. Alla fine la trovò. La trovò ancora nella sua culletta, con una traversa in legno che l’aveva salvata dallo  schiacciamento,  ma  non  dalla  polvere  che  l’aveva  soffocata.  La  sua  vestina  bianca  era diventata grigia come pure il suo visino. La raccolse dolcemente, se la strinse al petto forte, forte, con gli occhi che grondavano  sangue e non acqua. E mentre  squassato dal pianto,  la  sollevò,  la gente, i militari si avvicinarono per offrire il loro aiuto. Ma rifiutò. Poi, sempre, tenendola stretta al petto,  si avviò  verso  la  casa della madre, alla Marina,  seguito dai  fratelli e dagli amici. Mano a mano  che  la  gente  lungo  la  via  si  rendeva  conto di quanto  stava  accadendo,  faceva  ala  al  suo passaggio;  si  segnava  con  la  croce  o  si  inginocchiava;  si  accompagnava  alla  triste  processione, sciogliendosi  in  lacrime, assieme a quelle di Vincenzo  che diventavano una preghiera unica  che raggiungeva i piedi di Cristo in cielo. Il corpicino della bambina fu messo nella stessa bara accanto, anzi  sopra  la madre  e  il  fratellino  Franco,  uniti  nella morte  come  uniti  erano  stati  in  vita.  E qualcuno urlava:  “Smaliditti  i  ‘ngrisi, smaliditti americani e cchiù di tutti smaliditti  i fascisti, chi  ‘ndi portastivu sta cruci, nui chi cruci ‘ndavivamu tanti, a decini !” “I  feriti  gravi  furono  portati  chi  a  Taurianova,  chi  a  Reggio.  I  feriti  leggeri  furono  curati  negli ospedali da campo militare”.  

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Lo stesso giorno dei funerali (fu dichiarato lutto cittadino), mentre la carrozza della Società di M.S. addobbata  con  lustri  e  lustrini,  i  cavalli  coperti  con  il  drappo  nero  e  il  corteo  d’onore s’incamminava verso il cimitero, dopo la funzione funebre officiata da Don Peppino Minà, di colpo un  rumore d’aerei  in volo,  scatenò paura  tra  la  folla, che abbandonò  immediatamente  il corteo funebre. Compreso Renzo  il figlio di Francesco che tremando, si rifugiò presso  i militari   vicino  la casa della zia Peppina, sorella di Francesco.  Ogni  giorno  Fortunata,  vestita  a  lutto  completamente,  si  recava  al  camposanto  a  piangere  le ultime lacrime che le rimanevano, accompagnata dalla sorella Carmela.  Oltre  la paura di altri bombardamenti, vi era  la paura della morte per  fame. Tutto scarseggiava. Tutto bisognava procurarsi. “La provvidenza Divina ci aiuterà !” diceva Carmela. “Dio affligge ma non abbandona !” rispondeva Domenica. I figli più grandi di Francesco, tentarono di rimettere  in sesto  la segheria, cercando di recuperare ciò che era recuperabile. Gaetano andava a pescare con qualche amico e portava del pesce fresco, che veniva diviso con gli altri se era abbondante. Un altro cercava di procurarsi cibo con il baratto: un quadro o altra merce per il pane di mais o frutta racimolata nelle campagne. La roba di valore veniva  scambiata  al mercato  nero.  L’affascinante  Dante,  veniva mandato  al municipio.  Qui  vi lavoravano  diverse  ragazze  da marito.  Tra  una moina,  una  battuta,  un  occhiolino,  otteneva  le tessere per  il cibo contingentato. Ogni capacità era buona per  sopravvivere. Ciro operava con  il Barone  a  cui  non mancava  di  certo  il  cibo.  Spesso  Gaetano  con  il  cognato  Peppino,  a  rischio affondamento, partivano con una barca a vela verso Messina portando olio e scambiandolo con fave secche, fagioli, farina; poi rientravano. La  guerra  andava  talmente male  che  furono  richiamati  anche  coloro  che  avevano  fatto  già  il militare.  Fra  questi  vi  fu  Vincenzo;  e  stava  per  partire  anche  Dante.  Anzi  partì  subito  dopo  il bombardamento del 20 febbraio. Fu mandato all’isola d’Elba come furiere.  Per fiaccare psicologicamente le popolazioni ed i militari italiani, dopo i bombardamenti a tappeto gli alleati lanciavano manifestini che spingevano alla ribellione con parole del tipo: “ Italiani, i veri nemici sono coloro che vi hanno portato alla guerra. Ribellatevi alla dittatura  fascista!”. Era uno stress continuo. Ogni sera  aerei alleati mitragliavano, i posti militari della piana. Il 6 maggio del  ’43, dopo  tanti  falsi allarmi, Reggio  fu massicciamente bombardata per  la prima volta, da fortezze volanti, provenienti dalla Tunisia. Vi furono 327 morti civili. Il 18 giugno del 1943 ci  fu  l’ennesimo  bombardamento  su  Gioia.  Gran  parte  delle  famiglie,  comprese  le  nostre,  si rifugiarono al solito boschetto di eucalipti.  Poi capirono, che ci si doveva allontanare un po’ di più. Si rifugiarono nelle campagne del Sovereto di Gioia, fra gli alti alberi di olivo e agrumeti e per tetto usavano un pagliaio. Qui partorì la moglie di Francesco jr, Valentina. Al neonato fu dato i nome di Ciro Marcello come lo sventurato figlio di Fortunata. Il povero bambino dopo qualche giorno fu aggredito dalle pulci che infestavano la zona.  Se gli alleati non bombardavano Gioia, bombardavano Palmi o Rosarno o Siderno. Nessuno era risparmiato. Così  il  gran  consiglio di  famiglia decise  che  fosse ora di  allontanarsi  ancora di più: decisero di  rifugiarsi a Melicuccà su suggerimento di Rosaria  la moglie di Ciro,  l’ultimo  figlio del Capitano Carresi,  che aveva partorito un maschietto nel marzo del  ’43 a  cui  fu dato  il nome di Francesco come il nonno.  Facciamo qualche passo indietro.  Rosaria era una ragazza bionda e con gli occhi azzurri, bassina ma sveltissima in casa, orfana della mamma.  In  fatto  di matrimoni,  da  queste  parti,  l’ultima  parola  toccava  ai  genitori  (quando  ci riuscivano, vedi Fortunata) e se non c’erano  i genitori,  le sorelle o  i  fratelli  (di norma). Nel caso nostro, le sorelle Carresi. Le quali si ponevano al centro del ring, per trattare la dote della ragazza. La zia di Rosaria rispondeva: 

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 “La  cassapanca  c’è,  piena  di  roba,  che  la  sua povera mamma … Dio  l’abbia  in  gloria,  prima  di morire ha lasciato per lei … “ e si asciugava una lacrima da un occhio semichiuso dalla nascita, per effetto, forse più di congiuntivite che di commozione.  Le  sorelle Carresi,  commosse  veramente, mentre Carmela  sosteneva    la  contrattazione,  le altre sorelle spiegavano a Felicia, la loro mamma, la situazione e lei rispondeva:  “Ah, bonu, bonu, iti cu’ pondu !” Naturalmente si cercava di vedere la cassapanca ed il contenuto:  “Quanto prima ve la faremo vedere … vediamo se arriviamo al quaglio !” “Nostro  fratello  Ciro  ha  un  lavoro  di  tutto  rispetto;  esattore  del  Barone Musco,  suona  tanti strumenti musicali, violino, pianoforte, clarinetto e fa l’organista in chiesa.  La  cosa  alla  fine  sembrava  fatta,  perché  tutti  ci  si  baciavano, ma  prima  si  doveva  verificate  la cassapanca. Che quando arrivava,  le sorelle trovavano  insufficiente   ed  il matrimonio si bloccava. Le nacatole, sotto il letto di nonna, intanto le mangiavano i nipoti, nell’attesa che il contratto fosse firmato. Questa discussione si interruppe per ben due volte, prima di concludersi nel matrimonio. Quella mattina con  le poche masserizie,  in  fila  indiana,  i parenti si rifugiarono a Melicuccà. Ogni uomo  si  dava  da  fare  per  racimolare  da  mangiare.  Chi  raccogliendo  fichi,  o  pomodori  che barattavano  con  altro.  I  figli  di  Fortunata  di  giorno  tornavano  in  segheria  o  alla  fabbrica  del ghiaccio  per  riprendere  l’attività. Un  giorno Gaetano,  con  una  vecchia  bici,  si  recò  a Gioia  per trovare  del  cibo:  pesci  o  “pane  rosso”  (pane  di mais). Quando  “la  spesa”  era  fatta  rientrava  a Melicuccà, gettandosi al lati della strada quando, all’improvviso sentiva gli aerei volare bassi. Poi si rialzava  e  riprendeva  a  pedalare.  Il  buon  Gaetano  era  un  ottimo marinaio  con  il  patentino  di Padrone Marittimo, ma era uno scarso ciclista. Cosicché quel pomeriggio nei pressi di Sant’Anna, con la strada in discesa, si lanciò con la bici per far riposare le gambe stanche, quando dietro una curva,  ad  un  incrocio,  vide  una  pattuglia  di  soldati  tedeschi  che  fermavano  tutti  i  passanti  per controllarne  i documenti. Gaetano, capace di cazzare  la randa, di orzare, di rallentare un veliero, non  fu  lesto  a  fermare  una  misera  bici.  I  tedeschi  vedendolo  arrivare,  con  voce  gutturale, gridarono:  “Halt,  halt…  !” macchè.  Gaetano  cadde,  perdendo  l’equilibrio,  sopra  un  sottufficiale  tedesco, buttandolo a terra. Fu pestato di botte e il cibo che aveva racimolato gli fu sequestrato. Quando se lo vide arrivare, Carmela si mise le mani i capelli assieme a tutti i figli e ai parenti. La provvidenza divina, a volte, si manifestava sotto forma del fratello Domenico, che residente a Reggio Calabria, da anni,  faceva  il negoziante di generi alimentari. Riusciva ad avere  la  roba da smerciare  come  voleva  il  fascismo  e  la  distribuiva  con  la  tessera.  Ma  il  grosso  del  profitto, Domenico, chiamato “zi abate”, perché sembrava un monaco, lo guadagnava con il mercato nero.  Così periodicamente esso con un’auto e  tanto di autorizzazione andava a Melicuccà dal  fratello, carico di generi alimentari: ed era festa per tutti. In  questo  periodo, mentre  gli  alleati  si  apprestavano  ad  invadere  la  Sicilia, Giuseppe  e Mario, quando potevano rientravano  in  licenza. Mario era sempre  innamorato di quella ragazza, anzi  lo era ancora di più. Ma  la madre,  forse memore della posizione di suo marito e per rispetto dello stesso, era sempre contraria a quel fidanzamento e non voleva saperne di ufficializzare la cosa. E Mario restava incavolato di brutto. Il 15 luglio 1943 Gioia Tauro fu di nuovo bombardata.  Ma questa volta le sirene d’allarme, come il 18 giugno, suonarono in tempo  e la gente guadagnò subito i ricoveri. Ma questa fu un'altra data che la famiglia Carresi non avrebbe più dimenticato.  Lo stesso giorno fu bombardata anche Bagnara.  Vincenzo il primogenito del Capitano Carresi stava in un bar vicino casa sua. La famiglia di Vincenzo era composta da cinque persone: marito, moglie, il primogenito Francesco che faceva il meccanico a  Gioia  Tauro,  Felicia  e  l’ultimo  nato  Gino.  La mamma,  Domenica, mandò  il  figlioletto  Gino  a chiamare  il papà, era ora di pranzo. Ad un tratto  i rumori quotidiani, furono  interrotti dal suono 

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cupo come  ruggito degli aerei e dal  sibilo delle bombe che,  sganciate, colpirono per  l’ennesima volta la popolazione civile: il piccolo Gino e suo padre Vincenzo, assieme a tanti altri civili, furono colpiti mortalmente. Anche Bagnara, come Gioia, pagò  il suo tributo alla guerra. Ancora di più  il nucleo familiare dei Carresi. Domenica, la moglie di Vincenzo, corse come una pazza fuori di casa, quando sentì gli scoppi e le urla dei feriti. Un fosco presentimento l’aveva avvisata che qualcosa di grave fosse accaduto: e si trovò  il piccolo Gino dilaniato assieme a suo padre,  in una pozza di sangue. Le sue urla di dolore squarciarono  l’aria afosa di quel 15  luglio. Domenica, da allora, non si riebbe più da quel dolore dell’anima che provano le mamme quando perdono i figli. Le sorelle affrante, distrutte, si recarono a Bagnara per i funerali. I poveri morti furono seppelliti in mezzo alla strada in fretta e furia visto il pericolo.  Intanto alcuni giorni prima, il 10 luglio, le forze alleate avevano invaso la Sicilia, con la VII armata USA del Generale Patton  e  la VIII  armata britannica. Dopo  38  giorni  la  Sicilia era occupata. Gli alleati ora si preparavano a sbarcare in Calabria. Come ha insegnato ogni guerra moderna, prima di uno sbarco bisognava fare terra piana con il più classico bombardamento sia dal cielo, sia dal mare. Le navi alleate cominciarono a sparare con  i 305 mm e gli aerei a bombardare.  Il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del fascismo dimissionò Mussolini. Fu un grido unico:  “Adesso al guerra finirà !” Giuseppe e Vincenzo si trovavano sul treno fermo a Sant’Eufemia Lamezia quando fu annunciata la caduta del fascismo: anche loro pensarono che presto la guerra sarebbe finita. Intanto,  però,  essi  furono  mandati  in  servizio  a  Taranto.  Giuseppe  a  Buffoluto,  il  deposito munizioni della Regia Marina. Vicenzo al castello Angioino, settore trasmissioni.  Intanto tutta la costa tirrenica da Reggio fino a Napoli era battuta dagli aerei e dalle navi. Bombe e mitraglia su  tutto ciò che si muoveva:  tanto che una mitragliata uccise un uomo nel cimitero di Gioia Tauro. Mentre gli alleati sbarcavano a Reggio,  i tedeschi cercavano di rallentare  l’avanzata alleata. Intanto i nostri parenti, sotto l’incalzare delle incursioni aeree, se ne contarono sette nel mese di agosto,  lasciarono pure Melicuccà e  si  rifugiarono  sotto  la  galleria della  ferrovia  a  scartamento ridotto.  Lì  facevano  tutto,  mangiare,  dormire,  fra  i  cespugli  i  bisogni;  ed  in  quella  galleria arrivavano tante persone di tanti paesi. Era una gran confusione. Ma si sa che in questi casi non vi erano questioni razziali, di religione o di censo che potevano porre limiti o portare a discussioni o ad atti di  superbia  fra  loro. Anzi,  la disperazione,  la paura e  la  fame,  riavvicinavano  le persone. Accadevano anzi situazioni comiche. Come quella notte che un uomo s’alzò zitto, zitto, si portò nei pressi  dell’ingresso  della  galleria  per  orinare:  aveva  paura  ad  allontanarsi. Renzo  e  Ture,  se ne accorsero, lo rimbrottarono:  “vai a pisciare più in là, sporcaccione!” “ma solo un pochetto ne devo fare!” rispondeva costui. “vai fuori a pisciare!” gridava Renzo. Un giorno  il  figlio di Fortunata, Albino  il  seminarista, mentre con gli altri parenti  rientravano da Gioia alla galleria, videro lungo la strada un accampamento tedesco abbandonato.  “Chissà se c’è da mangiare !” diceva Albino mentre inghiottiva saliva.  “E se è avvelenato quel cibo ? Vi ricordate di quella bicicletta lasciata lì, vicino alla caserma della finanza? Sembrava senza padrone invece era minata e il figlio di mastro Luigi “u pirio” è saltato in aria    ‐ diceva dall’alto dei  suoi 18 anni,  suo  fratello maggiore   Renato. Egli aguzzava gli occhi e diceva:  “Io non m’avvicino … “ ma la fame ebbe la meglio sulle opinioni più o meno giuste degli altri. 

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 “Facendo  così moriremo per  la  fame, per  lui …  “  e  si  lanciò  a  “pesce”  in quell’accampamento abbandonato e trovarono tanto cibo. Dopo diversi giorni dallo sbarco degli alleati a Reggio, più a nord i tedeschi cercavano di rallentarne l’avanzata. La vallata del Petrace si prestava allo scopo. Una mattina un gruppo d’ufficiali tedeschi fu visto alla Marina, mentre discutevano fra di loro con alle spalle la riproduzione esatta, stampata sul muro del vecchio magazzino borbonico posto sul lato destro della spiaggia scendendo lungo via Tripodi. Stavano discutendo dell’avanzata alleata e di bloccarla facendo saltare i ponti sul fiume. Vi erano riprodotti  i piloni, le misure esatte di questi e lo spessore. Verso  la  fine di  agosto del 1943  i  tedeschi dopo  averli minati  li  fecero  saltare  tutti e  tre: della ferrovia dello stato, quello delle littorine, e quello della S.S. 18, un vecchio ponte di legno. Il Sud della Calabria  fu separato dal  resto del paese.  I  treni provenienti da Nord si  fermavano a Gioia non potendo più proseguire. Intanto dopo l’evento del 25 luglio ’43, Mussolini, per ordine del Re fu arrestato. Il Re nominava il Maresciallo  Badoglio  Capo  del  governo  e  sciolse  il  partito  fascista,  e,  pur  dichiarando  di  voler rimanere in guerra al fianco dei nazisti, mandò degli emissari presso gli alleati anglo‐americani per trattare la resa. Che fu firmata il 3 settembre 1943 a Cassibile.  Gioia  Tauro  intanto  era  divenuta,  dopo  l’abbattimento  dei  ponti  sul  Petrace,  “il  capolinea,  il terminale  ferroviario  e,  conseguentemente,  luogo  nevralgico  di  traffici  leciti  e  illeciti”.  Tutti  si davano  da  fare,  per  racimolare  qualche  soldo  ed  acquistare  qualcosa  per  sopravvivere:  altri continuavano  a  essere  “pescecani”.  Gaetano  con  i  cognati,  partiva  sempre,  stavolta  a  rischio ridotto,  con  una  barca  a  vela  portando  olio  di  contrabbando  e  scambiato  con  altra merce  a Messina.  Il baratto, spesso, era olio contro sigarette americane. Che al ritorno si consegnavano ai ragazzini, ai propri figli: Mico, Turi figli di Gaetano e Carmela; Vincenzo e Francesco figli di Antonietta e zio Peppe, che in questo momento aveva  intrapreso  il viaggio da Genova a Gioia: parte del viaggio a piedi, parte con mezzi di fortuna; a codesta attività partecipavano tutti. In  mezzo  a  quella  gran  confusione,  quel  caos  che  caratterizza  il  capolinea  di  una  stazione ferroviaria,  gente  che  va,  gente  che  viene,  carrozze  con  cavalli,  asini,  buoi,  sembrava  si  fosse ritornati  agli  anni  belli  dei  velieri  e  di  carretti  che  portavano    la  merce  da  caricare,  tutti approfittavano di tutto,  i ragazzini si avvicinavano ai clienti come gli sciuscià napoletani, accento diverso, ma identici nella necessità, nel bisogno, gridando:  “Sigaretti, sigaretti … cesterfield, marboro, luchi strica !”. Questo facevano, a volte ci riuscivano a vendere, a volte no. Turi, quasi sempre, portava a casa buoni guadagni; gli altri di meno e Vincenzo quando  non  ne  vendeva  s’incavolava.  A  volte  la  fame  prendeva  il  sopravvento  e  Mico,  che conosceva  qualche  parola  d’inglese,  si  avvicinava  ai  soldati  americani,  che  intanto  avevano sostituito  i  tedeschi  in  città, e  chiedeva:  “Biscuit, biscuit …  avere biscuit  for me  ?” e  i  generosi americani spesso accompagnavano i “biscuit” con cake e chocolat. Intanto Mario, da Palmi, rientrò a Gioia. In quella confusione chi si poteva accorgere di un militare assente ? A casa, siccome lingua batte dove il dente duole, tornava alla carica per la fidanzata. La risposta  era  sempre  no.  Cosicché  i  due  decisero  di  fuggire.  Si  allontanarono  assieme,  rimasero fuori, forse, un giorno, poi rientrarono a Gioia Tauro. Ma quando Fortunata vide suo figlio Mario con  la  ragazza,  non  si  rese  conto  di  quanto  fosse  successo,  troppa  era  la  confusione,  troppi  i pensieri, come per gli altri parenti. Di fronte alla freddezza di tutti i due decisero di fuggire un'altra volta, questa volta avvisando con lettera.  E si sposarono. Giuseppe,  intanto, quando venne  fuori  la notizia che  l’armistizio era  stato  firmato a Cassibile, a parte la manifestazione di giubilo di tutti i militari, raccolse la roba e lasciò il suo reparto assieme a 

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centinaia di altri soldati. Lungo le strade che da Taranto portavano a sud si vedevano lunghe teorie di militari che in fila indiana camminavano.  Ma  sbagliavano,  poiché  ufficialmente  la  guerra  continuava.  Così Giuseppe  prima  di  prendere  il treno per Gioia, passò dal Castello a chiamare Vincenzo e rientrare assieme. Ma egli aveva fatto venire da Reggio la sorella di Lea, la  donna morta con i due figli a Gioia: era la sua nuova amante. Vincenzo chiese un favore a Giuseppe:  “Per  favore, vai  in Via Principe Amedeo numero 38 e porta questo pacco a Tina  , poi prendi  le strade  di  campagna  per  rientrare  a  Gioia.  Noi  sappiamo  qui,  che  la  guerra  continua,  e  se  ti prendono ti considereranno disertore e ti possono fucilare. “ Giuseppe seguì alla lettera i consigli di  Vincenzo.  Si  nutrì  di  frutta,  riposò  in  pagliai,  ogni  tanto  qualche  buon  uomo  gli  dava  un passaggio;  incontrò altri militari  sbandati  calabresi  che  facevano  lo  stesso  tragitto  suo. Qualche famiglia dava loro da mangiare:  “Grazie  signora,  sono  sei anni di militare  che ho  sul groppone, ora basta, mi  sono  stancato.  La guerra  per me  è  finita  !” ma  si  sbagliava. Ai  confini  della  provincia  di  Catanzaro, mentre  dieci militari  camminavano  a  passo  spedito,  sentirono  un  camion  sopraggiungere  carico  di  reali Carabinieri. Giuseppe  ed  i  restanti militari  scapparono  e  si  nascosero  dentro  una  galleria  della ferrovia. Ma  dietro  ai  carabinieri  vi  era  un  automezzo  di  soldati  tedeschi.  Anche  loro  videro  i “disertori”,  scesero  subito dal mezzo, presero  le  loro mitragliatrici e  le piazzarono agli  imbocchi della  galleria,  pronti  a  sparare  se  non  fossero  usciti.  Così  il  comandante  dei  reali  Carabinieri  il maresciallo Greco parlò loro dicendo:  “Sentite camerati, vi hanno dato false notizie. La guerra ancora continua con i tedeschi, perciò vi consiglio di uscire a mani  in alto, prima  che questi  strunzi vi  sparano addosso”. Dopo un breve consulto  i militari uscirono.  I  tedeschi  chiesero  loro di  continuare a  combattere assieme a  loro, altrimenti, sarebbero stati fucilati sul posto.  Giuseppe  intimorito da questo,   pregò  il maresciallo Greco di  lasciarlo andare via. E gli raccontò tutto quello che lui e la sua famiglia avevano subito con i bombardamenti:  “ho perduto cinque persone in una volta!”.  Il Greco s’impietosì e con una scusa gli diede  il  lasciapassare per una postazione militare vicina. Così Giuseppe rientrò a Gioia. Intanto  il  “bello”  di  casa, Dante,  dopo  essere  partito  per  l’isola  d’Elba,  era  rientrato  a Gioia  in licenza. Si era alla data successiva all’otto settembre ’43. I fascisti sentendosi traditi avevano fondato la R.S.I. di Salò e promettevano la fucilazione a coloro che disertavano la guerra: vi erano i manifesti appesi. Dante non voleva partire. Tutti i fratelli suoi erano  rientrati. Pure Vincenzo da Reggio. Era  rientrato a piedi portando un  carico di 50kg  sulle spalle pieno di sigarette e merce varia.    Dante tante volte era andato alla stazione, ma poi ritornava indietro:  “Ma  i  treni  non  arrivano,  non  parte  nessuno”  diceva  all’amico  e  collega militare Caruso  in  via Tripodi, pronto anch’esso a partire. Ma sotto le insistenze delle sorelle Carresi e della mamma  che voleva non gli succedesse nulla per mano dei  fascisti, dopo quello che era successo agli altri,  lo pregavano:  “Parti, parti perché questa gente è  spietata”. E  lui una  sera partì. E non  tornò più. Durante un bombardamento  sull’isola  d’Elba,  Dante  non  fu  trovato.  Il  Caruso  morì  annegato  dentro  un sommergibile. Intanto  la  famiglia  Carresi  fu  convocata  a  Bagnara  per  la  mesta  e  dolorosa  cerimonia  del disseppellimento dei  corpi del  fratello Vincenzo e del di  lui  figlio Gino. Dopo  che  i  corpi  furono tumulati  nel  cimitero  di  Bagnara,  i  parenti  gioiesi  rientrarono  a  casa.  Sbarcati  dal  treno  nel versante palmese, a piedi si recarono a Gioia alle loro abitazioni. Giunti all’altezza di “due pompe” in via Tripodi, furono fermati da tre soldati americani, abbastanza alticci. Chiedevano notizie di una 

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“buona  donna”  del  posto,  che  faceva  il  mestiere  più  vecchio  del  mondo  e  meno  rischioso. Chiedevano  della  “sgargiata”  e  lo  chiesero  con  lingua  italiana  stentata, mezzo  inglese  e mezzo italiano: “You conoscia “sgargiata?” Quella che  fa “gig‐gig”?  il marito di Antonietta, zio Peppe, e Gaetano si fermarono e non capivano cosa volessero. Si avvicinarono e zio Peppe ripeteva: “I don’t understand!”  così  gli  americani  con  gesti  in  lingua  internazionale,  fecero  capire  di  cercare  una donna per “fuck”, muovendo  il pugno  sopra e  sotto. “Oh  ia …  !” disse  zio Peppe e  la parola gli rimase sulla bocca, perché gli era arrivato uno schiaffone che l’aveva mandato a gambe all’aria.  “You tedesco, fuck you! Sanama bicth, you tetesco”. Gaetano cercava di bloccarli, di spiegar loro che sbagliavano, ed anche  lui per  la seconda volta  fu preso a botte da un soldato di nazionalità diversa.  A  quel  punto  il  seminarista  Albino,  Vangelo  o  non  vangelo,  cominciò  a  scagliare  sassi contro i soldati americani. Giuseppe, che sul piano fisico non poteva competere con costoro, usava la sua arma più nota, l’agilità. Così colpiva con cazzotti ben assestati sullo stomaco gli americani e scappava, poi tornava, un nuovo colpo e fuggiva passando sotto le gambe degli stessi bacchettoni americani. Alla  lotta partecipavano anche  le donne della comitiva,  fra queste  la più potente era Antonietta perché robusta e ben piantata, tirando i capelli e calci negli stinchi. Poi furono divisi da altri commilitoni e passanti che si trovavano al momento. Perché successe questo episodio ? Bisogna  sapere  che  in  America  l’inglese  parlato  è  diverso  (quello  ufficiale)  dall’inglese  vero.  E ancora  più  differente  è  lo  slang  (un  dialetto).  Il  buon  zio  Peppe  pronunciò  il  “yes”  in  slang italianizzato,  che  assomigliava  più  a  un  “ya”  che  a  un  “yes”.  Quelli  ubriachi  com’erano  non capirono nulla ed alzarono le mani. Verso la fine del ’43, mentre Carmela sulla spiaggia di Gioia aspettava con altre persone, il rientro della barca con cui Gaetano e i suoi amici erano andati a pescare, vide sotto una barca un militare febbricitante.  Carmela  lo  soccorse,  ed  al  rientro  di  Gaetano  decisero  assieme  di  curarlo.  Lo tennero  in  casa  per  una  settimana,  dimostrando  ancora  una  volta  la  loro  generosità  e  nobiltà d’animo. Una  volta  curato,  il militare  che  era  siciliano,  fu  accompagnato  da Gaetano,  con  una barca a vela fino a Messina. Intanto l’orribile guerra si spostava verso il nord a mietere altre vittime innocenti. Verso  la  fine del mese di  settembre del 1943,  Fortunata ascoltando alla  radio dei  continui  raid aerei sull’isola d’Elba, si preoccupò delle sorti dell’ultimo dei figli, Dante, ancora militare nell’area isolana: le morti e distruzioni furono molte. Si  recava molto  spesso ai vari  comandi militari posti vicino ai  cognati Arlacchi o al  comune  che reggevano l’amministrazione comunale per avere notizie del figlio. La  risposta  fu  che  la  confusione  regnava  sovrana  in  quel  lembo  di  terra,  né  si  avevano  notizie precise  sul numero dei militari deceduti  sotto quella  valanga di bombe  sganciate dalle  fortezze volanti alleate. Un brutto presentimento attraversava la mente di Fortunata: “Spero  che  Dio  mi  risparmi  l’ennesimo  dolore,  cinque  innocenti  vittime  più  due  a  Bagnara dovrebbero bastare anche per  il più esigente dio!”  Sperava  tanto  in una prigionia del  figlio, da parte tedesca. Fu  un  andirivieni  continuo  dagli  uffici  preposti  a  fornire  notizie  di militari  defunti  o meno. Un giorno la famiglia decise di fare ricerche dirette recandosi sul posto. Fu Francesco a partire poiché esonerato dal servizio militare. Vincenzo, Peppino, Mario evitarono di muoversi, visto che non si erano presentati ai richiami della R.S.I., rischiavano la pelle. Portoferraio era diventata una  località  spettrale.  In quei  fatidici  giorni  che  vanno da  settembre 1943  fino agli  inizi del 1944,  furono sganciate migliaia di bombe per distruggere gli  impianti per l’estrazione della materia prima, la ferrite, che serviva alla costruzione di armi pesanti, prima dagli alleati, in una fase successiva dagli ex alleati tedeschi, i quali deportarono migliaia di soldati italiani 

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che  si erano  rifiutati di  combattere  al  loro  fianco. Al  suo  arrivo  Francesco  cominciò  le  ricerche recandosi presso la caserma dove Dante prestava servizio come furiere. Un vecchio maresciallo alla domanda di Francesco rispose: “La caserma, l’ufficio, la città non esistono più.” Rispose il graduato. “Quest’ultimo bombardamento è stato spaventoso, ci sono stati centinaia di morti. Il ragazzo me lo  ricordo, era  simpatico e  filava  con  la  figlia del  comandante della  compagnia. Vi  converrebbe recarvi in ospedale, sapere se è stato ricoverato lì ferito….. e nella migliore delle ipotesi sapere se è stato deportato in Germania. Altro non so, non ho altri consigli da darvi.” Francesco cosi  fece, mostrò  la  foto di Dante,  in tanti,  locali,  lo ricordavano perché tipo ameno e ciarliero. Ma dopo l’ultimo bombardamento non l’avevano visto più. Francesco decise di recarsi presso l’abitazione del comandante, a parlare direttamente con quella ragazza con cui Dante aveva filato nei tragici giorni precedenti la guerra. Neanche da  lei ebbe notizie più precise, se non che era sempre  in compagnia di un conterraneo, un militare  di  Locri,  tale  Santoro. Quando  Francesco  rientrò  senza  buone  nuove,  la  famiglia  al completo  cominciò  ad  intuire  che,  forse,  bisognava  aggiungere  alla  loro  lunga  lista,  l’ennesimo nome: ma la Speranza che potesse esser stato deportato in Germania, teneva tutti col desiderio di aspettare, di continuare a cercare. Da qui  la decisione di recarsi e trovare  il Santoro, che era stato  l’ultimo a vederlo vivo. Mario  lo trovò e chiese con la speranza di sapere qualcosa di più. “Mi  dispiace,  amico  mio,  vi  posso  solo  dire  che  al  momento  che  l’allarme  era  cominciato  a suonare,  io e Dante corremmo verso  i rifugi antiaerei. Sentimmo uno scoppio,  io mi riparai sotto un porticato ferito alle gambe. Al risveglio mi ritrovai nell’ospedale militare. Chiesi di Dante e mi risposero che c’erano stati centinaia di morti, alcuni irriconoscibili.” Mario rientrò deluso e con una gran pena nel cuore. La vita continua. Bisognava ricominciare,  la guerra era  lontana, bisognava rimuoverla dal proprio cuore e dalla propria mente anche se molto difficile, dopo quei tragici avvenimenti familiari. Solo una grande fede nel Dio dell’Amore ed il sostegno morale, la solidarietà, di chi vuole bene senza se e senza ma, disinteressatamente, poteva compiere il miracolo di far dimenticare. La segheria fu riattata completamente. Qualche sega a nastro si era pensato di spostarla vicino ai luoghi di  taglio dei  tronchi  in montagna. Segarli  in grosse  tavole e spostarle giù per un’ulteriore lavorazione. Una mattina del 1944, Fortunata  in  compagnia del  figlio Renzo,  si era  recata a  far  spesa per  la famiglia  in piazza Tre Canali. Fortunata osservava  la merce sulle varie bancarelle e ne chiedeva  il prezzo  mentre  Renzo,  individuato  Melo  il  micone,  gli  chiedeva  insistentemente  se  gli  fosse spuntato il “pelo d’oro”, nel di dietro.   Melo il micone, con quello sguardo intelligente, lo guardava stupito senza capire e domandava: “E che è questo pelo d’oro, che significa?” “Ma  scherzi? Non  sai  cosa  è?  Ad  una  certa  età  deve  nascere,  come  i  denti:  se  i  denti  non  ti spuntano ad una certa età,  tu che pensi Melo? Che sei malato, no? Per  il pelo d’oro è  la stessa cosa, se non spunta è la stessa cosa. E deve nascere al centro del “cinque lire”, ricordati. Se esce da un’altra parte ti devono operare. Perciò Melo, ogni sera culo allo specchio e verifica, va bene? Se vuoi chiedi a tua madre.” Durante questo dialogo, Fortunata stava discutendo alquanto animatamente con un venditore. Di colpo  vide  la  mamma  cadere  a  terra  spinta  dall’energumeno.  Renzo  era  troppo  ragazzo  per reagire, se non a parole. Bastò la gente ad aiutarla e a rimproverare l’uomo. Renzo  accompagnò  la mamma  a  casa,  poi  andò  in  segheria,  non  prima  della  raccomandazione della mamma di non dire nulla ai  suoi  fratelli. Salì verso  la  segheria ed avvisò  i  fratelli presenti. Vincenzo,  Peppino,  Renato,  senza  pensarci  due  volte,  formarono  la  spedizione  punitiva.  Si 

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recarono  in  piazza  a  chiedere  ragione  dell’azione  all’uomo.  L’uomo  tentò  di  spiegare  che  non voleva….ecc. prima che costui potesse dire più di due parole, Peppino gli scaricò un pugno in pieno viso,  a  ruota  seguirono  gli  altri  a menare.  Vincenzo  con  un  nodoso  bastone,  completò  l’opera mentre  l’uomo  disperatamente  cercava  aiuto,  correndo  verso  il  comando  vigili,  inseguito  dai fratelli  che  continuavano  a menare  botte  da  orbi.  L’uomo  si  ritrovò  con  il  braccio  fratturato. Furono avvisati  i carabinieri che  intervenuti sul posto,  fermarono Vincenzo. Peppino e Renato si dileguarono.  Più  tardi,  imprudentemente,  Renato  si  avvicinò  alla  caserma  per  avere  notizie  di Vincenzo, pensando di farla franca.  Fu riconosciuto e fermato immediatamente dai carabinieri: l’assassino ritorna sempre sul luogo del delitto! Peppino stava commettendo lo stesso errore ma, l’appuntato Azzarà, si affacciò dalla finestra della caserma e avvisò Mico, che, intanto, si era avvicinato per avere notizie dell’avvenimento.  Azzarà lo avvisò di non far avvicinare Peppino altrimenti finiva in gattabuia pure lui. Pineo cosi fece e non si avvicinò. Il 1944 fu l’anno dei matrimoni nella famiglia Caratozzolo. Pineo e Peppina  si  sposarono  l’undici marzo del 1944, a dicembre dello  stesso anno partorì un bambino nato morto per soffocamento da cordone ombelicale. Un nuovo dolore si era aggiunto agli altri. Lo stesso anno si dovette fare una triste operazione al cimitero. Per infiltrazioni d’acqua si dovettero spostare le bare dei defunti di Fortunata. Francesco, il marito di Fortunata, per via delle infiltrazioni d’acqua che avevano bucato la bara, si era quasi dissolto. Fortunata non potette che fare un’affermazione dolorosa: “Neanche in morte hai avuto fortuna!” Vi erano presenti i parenti più stretti, Carmela, Grazia, Domenica, Ciro e poi Renato. Quando fu rimossa la bara bianca di Ciro, ormai di colore diverso, Fortunata per un gesto d’amore di mamma, chiese al camposantaro: “Me lo fate vedere, signore?” l’uomo rispose spaventato: “Donna Fortunata, non si può, è proibito dalla legge!” Poi, in un attimo di distrazione dell’uomo, Fortunata vide un foro sulla bara del piccolo Ciro, infilò un  dito  fece  forza  ed  il  coperchio  si  aprì  cadendo  fragorosamente  a  terra:  Fortunata  vide  il corpicino del figlioletto, bianco cinereo, la testolina girata in un lato e un foro sulla tempia destra, i capelli  ispidi, una espressione di dolce serenità stampata sul viso. A quella scena Renato svenne. Fortunata abbracciò il figliolo con forza. Il camposantaro urlava per  il  timore di perdere  il posto, altri parenti soccorsero Renato,  il  resto fece allontanare Fortunata e ritornarono assieme a Gioia. A casa di zia Serafina una buona notizia sconvolse  la giornata della  famiglia: Antonino stava per tornare  dalla  prigionia  egiziana.  Una  bella  notizia  senza  dubbio ma,  impegnativa.  La  fame  era tantissima.  Come  accogliere  Nino?  Tramite  i  parenti  si  preparò  un mediocre  pranzetto:  pane, stoccafisso,  vino.  Zio Peppino  si  vestì elegante per  accogliere  il  figlio, non  avendo una  camicia, indossò una canottiera e sopra vi piazzò una bella ed elegante cravatta. Poi andarono alla stazione. Il treno arrivò e Nino no. Zio Peppino e Serafina rientrarono a casa.  La fame era tanta. Cosi nell’attesa, mangiavano un pezzetto di pane ed un pezzetto di stoccafisso. Alla fine quando Nino arrivò su quel tavolo nulla era rimasto del misero pranzetto.          

FINE       

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    Da  Carresi  Vincenzo  e  Ruggiero  Fortunata  nacque  Carresi  Francesco  che  ha  sposato  Patamia Felicia. Carresi Vincenzo ha sposato Domenica Fedele.   

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Bibliografia

“Gioia che cambia” Ing. Marino “Gioia Tauro” Prof. Orso “Gioia Tauro nel contesto storico calabrese” Achille Barbaro “Storia del fascismo” A. Petacco “Documenti archivio” c.c.i.a. di RC “Le società di M.S. V. Savoia “Gioia Tauro” R. Liberti “fascismo,borghesia agraria e lotte popolari: Rizziconi 1918 – 1946” R. Lentini