QUADERNI BAGNARESI -...

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Pag. 1 BAGNARA CALABRA Febbraio 2016 CIVILTÁ DELLO STRETTO QUADERNI BAGNARESI Anno II nr. 3 (Febbraio 2016)

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Questo saggio si basa su una ricerca elaborata utilizzando

anche testi del tutto inediti in Calabria. Le fonti

bibliografiche saranno fruibili da un lavoro a stampa ora in

progettazione.

Peraltro, questo lavoro che qui si pubblica, è ampiamente

citabile, oltreché fruibile da tutti gratuitamente.

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1.- Una brevissima Premessa pag. 5

2.- Bagnara 1806 – Francesca La Gamba detta Cicca a Parmisana pag. 6

3.- Bagnara 1806 – Francesco Zagari detto Fica pag. 8

4.- Bagnara 1806 – Pasquale e Antonio Versace detto Genialitz pag. 12

5.- Bagnara 1807 – don Gaetano Bottari pag. 15

6.- D’Hauteroche e Bagnara - 1807 pag. 16

7.- James Grant e il massacro di Bagnara – 1807 pag. 17

8.- Bagnara 1807 – La battaglia dei Cappuccini pag. 20

9.- Bagnara 1809 – Firrindi e l’Orbo pag. 20

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ARMATA D'ITALIA CARTA INTESTATA DEL GEN. ALEXANDRE BERTHIER

CAPO DI STATO MAGGIORE DELL'ARMATA DURANTE LA PRIMA COALIZIONE

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1.- Una brevissima premessa storica

Il Regno di Napoli ratificò il 21 settembre 1805, un Trattato di Neutralità con la Francia, assicurandosi la tranquillità in un momento in cui l’Europa si contrapponeva con tutte le sue forze all’Imperatore. Trattato disatteso il 22 novembre dello stesso 1805: una flotta anglo-russa sbarcò al porto di Napoli un robusto contingente che da Napoli avrebbe dovuto attaccare il generale Laurent de Gouvion-Saint Cyr, padrone di Roma, liberare il Lazio e da qui invadere il Regno d’Italia costituito da Napoleone, ricongiungendosi quindi con l’Armata della Terza Coalizione. Piano fallito dopo la vittoria dell’Imperatore ad Austerlitz e la conseguente ritirata dell’Arciduca Carlo dal Veneto. Napoleone non perse tempo. Il 25 dicembre dal Quartier Generale allo Schönbrunn, emanò un duro proclama:

SOLDATI!

Sono dieci anni dacché ho fatto tutto il possibile per salvare il Re di Napoli, ed egli fa tutto per perdersi. Dopo

le battaglie di Dego, di Mondovì e di Lodi, egli non poteva oppormi che una debole resistenza; mi fidai delle

parole di questo Principe e fui seco generoso. Allorquando la Seconda Coalizione venne disciolta a Maregno,

R ’ , à , z . ’ ò dai il perdono per la seconda volta. Pochi mesi sono, voi

eravate alle porte di Napoli istessa, ed io avea ragioni abbastanza legittime di sospettare il tradimento, che si

andava meditando, quanto per vendicare gli oltraggi fattimi. Fui ancora generoso e vi ordinai di evacuare quel

Regno, e per la terza volta la Casa colà regnante fu consolidata e salvata.

Perdoneremo Noi una quarta volta ad una corte senza fede, senza onore, senza ragione? No.

: z ’ , ’ .

Soldati!

Marciate, precipitate nelle onde qué deboli battaglioni dei tiranni del mare, se pure hanno il coraggio di

aspettarvi; fate vedere al mondo come da Noi puniscansi gli . ’I in terra è sottomessa à miei ordini, alle mie leggi ed a quelle dé miei alleati; che il più bel paese della terra ha ormai sc osso il gioco dei più

perfidi tra gli uomini; che è vendicata la santità dé trattati e che le ombre dé miei bravi soldati scannati né porti della Sicilia nel tornare

’ , , , . Soldati!

Mio fratello marcerà alla vostra testa. A lui sono noti tutti i miei progetti, essendo egli depositario

della mia autorità e possedendo tutta la mia fiducia. Voi dunque accordategli tutta la fiducia vostra.

Ferdinando IV tentò disperatamente di riallacciare i rapporti coll’Imperatore. Il Cardinale d. Fabrizio Ruffo lasciò precipitosamente il Palazzo di Bagnara al largo del Mercatello a Napoli, e raggiunse Napoleone recando un messaggio di scuse del Re: egli non ebbe la possibilità di “fermare” quello sbarco di migliaia di uomini sui moli di Napoli, discesi da ben 14 vascelli di linea. L’Imperatore accolse con cordialità ed amicizia il vecchio Cardinale di Bagnara al quale però, ribadì la propria avversione verso un Re traditore. Nel contempo, l’Armée d’Italie si mobilitò e, sotto gli ordini del valoroso Maresciallo Andrea Masséna, mosse verso Sud, nel mentre Giuseppe Bonaparte, fratello dell’Imperatore, raggiunse Roma. Il 20 gennaio Masséna era già a Spoleto con metà della spedizione, l’altra metà stava raggiungendo Terracina. Il 18 e dopo aver preso il controllo dell’Umbria, Masséna lanciò un proclama alla truppa nel quale tenne a ribadire che: se noi dobbiamo punire un Potenza infedele ai trattati, noi non siamo punto in guerra cò Popoli, e

che gli annali del nostro paese presentino più di un esempio di unione e di buona intelligenza tra i

Francesi ed i Napoletani.

Ferdinando IV presiedette un Consiglio di Stato presenti gli ufficiali russi e austriaci.

IL GENERALE ANDREA MASSÉNA, DUCA DI RIVOLI, PRINCIPE DI ESSLING

MARESCIALLO DELL'IMPERO

IL GENERALE LAURENT GOUVION,

MARCHESE DI SAINT-CYR MARESCIALLO DELL'IMPERO

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Le truppe austro-russe si reimbarcarono subito dopo e la Corte si apparecchiò per fuggire per la seconda volta in Sicilia, concentrando al confine della Calabria tutte le forze militari disponibili. L’11 febbraio la Corte della Regina s’imbarcò per Palermo mentre venne reso noto a Napoli un manifesto reale, firmato da Tommaso Colajanni; in esso si richiamava tutti alla solidarietà nazionale e al rispetto dell’ordine pubblico.

Affidata Napoli a un Consiglio di Reggenza presieduto dal Principe Francesco e composto da:

- Tenente Generale don Diego Naselli – Presidente effettivo

- d. Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa, Consigliere

- il Capo Ruota d. Michelangelo Cianciulli, Consigliere

- d. Domenico Sofia, Segretario, il Principe Ereditario Leopoldo raggiunse la Calabria per mettersi alla testa dell’Esercito Reale. Il 14 febbraio 1806 i Francesi entrarono in Napoli senza incontrare la violenta resistenza del 1799. Subito dopo cadde nella mani di Massena la fortezza di Gaeta, custodita dal Principe d’Assia-Phillipsthal, cugino della Regina Maria Carolina di Napoli. Il 3 Marzo la concentrazione borbonica a difesa delle Calabrie, al comando del valoroso Generale Roger de Damas, fu battuta a Campotenese dalle armate di Jean Reynier che poi dilagarono verso Sud all’inseguimento degli sbandati napoletani. Il Principe Leopoldo trovò rifugio a Bagnara, bene accolto dalla popolazione che lo rifocillò e insieme al suo seguito, lo nascose fino all’approntamento di una speronara che lo condusse in salvo a Messina. Dopo la battaglia di Mileto del 28 maggio 1807 nella quale Reynier ebbe ragione del Principe Phillipsthal, sbarcato in Calabria con un nuovo contingente, la Regione si poté considerare liberata dai Borboni ma non assoggettata. Giuseppe Bonaparte si trovò a Bagnara quando ricevette la nomina a Re di Napoli col titolo di Giuseppe Napoleone (secondo Desvernois, la nomina Giuseppe la ricevette a Scigliano mentre a Bagnara si svolse la prima cerimonia di acclamazione). I movimenti insorgenti, definiti “brigantaggio”, entrarono in azione e furono indomabili. Iniziò una guerriglia micidiale e inesorabile che costrinse da una parte le truppe francesi a continui rastrellamenti e formazione di colonne mobili, e dall’altra la popolazione civile a fuggire verso l’interno o Messina. Bagnara, nel 1807, divenne un deserto in mano ai Francesi o, quando costoro si sportavano, ai briganti. 2.- Bagnara nel 1806 – Francesca La Gamba detta “Cicca a Parmisana” Le avanguardie di Reynier dopo le azioni a Lauria, Campotenese, Amantea, Maida, Belmonte, giunsero a Bagnara ai primi di marzo del 1806. Le famiglie più eminenti s’erano già imbarcate per Messina, seguendo il Principe Leopoldo mentre i Volteggiatori francesi stavano liberando le alture di Bagnara dalle ultime comitive di Briganti, collegate col Quartier Generale del Generale Stuart di stanza in Messina. Dopo la battaglia di Maida del 4 luglio 1806, i Francesi si ritirarono sopra la linea di Cosenza, attaccati in continuazione dalle masse, una delle quali capitanata da Francesca La Gamba, già valorosamente attiva sui Piani della Corona al fianco degli Anglo-Napoletani del Principe Phillipsthal. Francesca era nata a Palmi nel 1768 e ivi esercitò il mestiere di filandiera secondo la tradizione di famiglia. Si sposò giovanissima con mastro Antonio Saffioti trasferendosi quindi a Bagnara. Da questo matrimonio nacquero due figli: Carmine e Domenico. Ancora nel pieno fiore degli anni, Francesca rimase vedova. Stimata per le virtù di madre e donna dalla dirittura morale più che esemplare, accettò di sposare don Antonio Gramuglia, buon commerciante inserito nella migliore Bagnara dell’epoca. Durante la prima discesa francese a Bagnara, mise gli occhi su di lei un sottufficiale della milizia civile, noto come “Lo Sfregiato” già al seguito del Cardinale Fabrizio Ruffo-Bagnara nel 1799, da egli perdonato per gli efferati crimini commessi per uno dei quali a Crotone, subì una coltellata alla guancia; era adesso al soldo, come mercenario, dell’Armée.

S.A.R. LEOPOLDO DI BORBONE PRINCIPE DI SALERNO

IL GENERALE ROGER ETIÉNNE DE DAMAS

CONTE D’ANTIGNY

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IL GENERALE CONTE JEAN LOUIS EBÉNÉZER REYNIER

CAVALIERE DI GRAN CROCE DEL REALE ORDINE DELLE DUE SICILIE

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Francesca respinse con sdegno le istanze del milite e si ritirò in casa evitando per quanto più possibile, di farsi vedere sulla strada. Lo Sfregiato non desistette ma ancora una volta respinto, ritenne di doversi vendicare per quell’affronto e fece arrestare il marito Antonio Gramuglia, reo di traffico illecito di armi. Immediatamente dopo, la guardia fermò e arrestò anche i due figli di Francesca, di quindici e diciotto anni, con l’accusa di aver affisso manifestini inneggianti alla rivolta contro i francesi. Dopo un processo sommario, la corte marziale sentenziò il carcere duro per Gramuglia, e la condanna a morte per fucilazione dei due ragazzi, per cospirazione grave contro lo Stato, subito eseguita al largo dell’attuale Belvedere. Antonio Gramuglia apprese in carcere della tragedia e in pochi giorni ne morì di crepacuore. Francesca La Gamba, straziata dal dolore, stette il tempo necessario a smaltire quel tormento e poi iniziò a ragionare con lucida determinazione. Si tagliò i capelli e raggiunse i boschi di Solano ove si aggregò a una compagnia di banditi sbandati e in cerca di rifugio. In breve tempo riuscì a trasformare quel gruppo in una squadra motivata e determinata. A Scilla prese contatto con i rappresentanti di Lord Stuart e in cambio

dell’appoggio militare, ottenne armi, munizioni e vettovaglie. Ricevette anche i primi ordini e così la banda La Gamba iniziò ad operare ai Piani della Corona. In una di queste incursioni sopra Bagnara, la banda di Francesca catturò Lo Sfregiato che venne subito condotto al suo cospetto, incatenato e gettato a terra. Francesca lo osservò a lungo e quindi sfilò dalla cintola il rasoio iniziando con calma a farlo penetrare nel petto dello Sfregiato, che si dimenava fra urla disumane. Il rasoio raggiunse il cuore e lo recise di netto. Francesca affondò la mano, lo estrasse, lo sollevò e quindi iniziò a mangiarlo quando ancora era palpitante. Il fatto si raccontò fin negli accampamenti di Messina e il Principe d’Assia ben volentieri accolse lei e la sua banda fra le file dei combattenti a Mileto, ove la guerrigliera ancora una volta si distinse per valore. Ricevette allora il grado di Capitano e il comando di una massa di 100 volontari. Combatté ancora a lungo, inseguita nel 1810 dalle colonne mobili del Generale conte Charles-Antoine Manhès, tristemente noto a Bagnara, che la costrinsero a riparare in Sicilia. Dopo Waterloo e il Congresso di Vienna, Francesca lasciò l’Armata Reale con un ottimo grado di servizio e una adeguata pensione di guerra e preferì tornarsene a Palmi. Bagnara era per lei sito di lancinanti ricordi. A Palmi visse avvolta in una strana malinconia continua, quasi estraniata dal mondo che la circondava e lo sguardo assente, fisso nel vuoto. Morì circondata dall’affetto dei palmesi che a lungo la ricordarono nei loro cuori e nelle loro preghiere. A Bagnara, aveva avuto da Gramuglia una figlia, della quale però s’è persa la storia. 3.- Bagnara nel 1806 – Francesco Zagari detto Fica. La destabilizzazione amministrativa favorì in quei frangenti il rinfocolarsi di antichi odî che riemersero in alcuni eminenti cittadini, contrapposti da sempre ad altri nelle competizioni commerciali e per il governo della Città. Ebbero un ruolo importante gli stessi inglesi e, per loro, Fradiavolo di Scilla, e nella stessa Bagnara il cassiere Morabito, il Preside Filippis, i fratelli Carbone da Sinopoli, Francesco e Luigi Caruso, un certo “Diavoletto”, Giuseppe Sofio. Favorire i Briganti significò almeno per i bagnaresi, difendere le prerogative in vigore durante l’amministrazione borbonica e gli stessi principî che caratterizzarono il Governo di Ferdinando IV nelle Province. Fedeli al Re dunque e alla sua politica antifrancese. I Francesi promettevano invece un regime “liberale”, basato su una migliore libertà individuale d’intrapresa, nell’ambito di una competizione concorrenziale ove prevaleva il principio del libero commercio innanzitutto. La ricca società imprenditoriale e commerciale meridionale, cullata dalle leggi borboniche basate sul merito ma anche sul privilegio e la fedeltà alla Corona, consideravano le iniziative novatrici napoleoniche come un pericolo per la loro posizione e “quindi” per il Regno. Di segno contrario il c.d. “Partito Liberale”, quasi tutto associato alla Massoneria filo-francese, votato alla sradicalizzazione della “immobilità” sociale ed economica del Regno a favore di una visione più aperta, più italiana ed europea della vita. Non sfuggì alla contrapposizione fra le due ideologie Bagnara, ove però, come altrove in Calabria, le contrapposte vibrazioni patriottiche presto cedettero il campo a mai sopiti odi familiari, sgarri, invidie, prevaricazioni che adesso

IL GENERALE CHARLES-ANTOINE MANHÈS DIEDE INVANO LA CACCIA A FRANCESCA LA GAMBA DURANTE LE INCURSIONI, SPESSO SPIETATE, FRA I VILLAGGI CALABRESI ALLA RICERCA DI BRIGANTI E LORO COLLABORATORI

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trovavano facile terreno per scatenarsi in sete di giustizia privata, da ottenersi con tutti i mezzi, anche violenti, anche fatali. Lo scenario entro il quale tutto questo si svolse, esplose improvvisamente ai primi di agosto del 1806. Uno dei capimassa di Solano, Francesco Zagari detto Fica, ricevuti gli ordini da Messina, armò una banda, presto sfuggita al primitivo spirito di lotta all’invasore per la difesa delle genti e della Monarchia, per trasformarsi in una accozzaglia di gravi banditi e della quale conosciamo alcuni componenti solo per il soprannome:

- Bannello - Bascio - Branca - Carminuzzo - Castagnella - Ciancianoso - Ciccione - Colarino - Corazzo - Farao - Forgarello - Grillo - Iona - Labruzzi - Maisi - Manale (ma potrebbe essere Manile) - Micidaro - Occhiuzzi - Pisciallaro (Francesco Russo da Pellegrina) - Tatà - Ticaffo - Titto - Zoccali (due fratelli)

La banda nella sua prima apparizione, scese su Bagnara solennemente: tamburo battente e bandiera bianco-gigliata, con in testa Fica, due pistole ai fianchi, moschetto a tracolla, sciabolone attaccato alla cintola dalla quale emergeva il manico di un enorme rasoio. Ogni tanto il corteo si arrestava in corrispondenza di qualche crocevia e Fica urlava ai quattro venti di volere giustiziare tutti i francesi e i “giacobini” loro alleati. Molti dei cittadini rimasti, ancorché in grado di combattere se non altro per difendere averi e familiari, preferirono nascondersi e non furono rintracciati dai banditi.1 Stabilite le ronde con l’incarico di rastrellare la Città in cerca di nemici, una di queste, di ronda sulla spiaggia, fermò una barca proveniente da Messina e, fatti sbarcare i passeggeri, li fucilò sul posto, senza una apparente ragione se non quella spontanea di “spie” del nemico. In realtà furono semplicemente depredati e poi eliminati. Intanto lo stesso Fica riusciva a scovare in un giardino della casa dei Saffioti, il Notaio don Carlo Lapiana e il figlio Giuseppe. Il Notaio, preso per i capelli, fu scaraventato giù per le scale d’accesso alla casa e fatto rotolare lungo la via ancora semivivo. Morì dopo diverse bastonate e, una volta deceduto, gli vennero cavati gli occhi e tagliate braccia e gambe in modo che i Bagnaroti, nascosti e tremolanti, vedessero e imparassero la lezione. Assistette al massacro il figlio Giuseppe, menato per la via con una gamba spezzata a bastonate e ferite da coltello sulla pancia che sanguinavano

1

Dopo il 1815 questa codardia fu motivo di dure polemiche a Bagnara, all’interno del movimento patriottico antiborbonico prima e fra gli aderenti del Partito Liberale poi.

S.A.R. IL PRINCIPE LUIGI D'ASSIA PHILLIPSTHAL

SIR JOHN STUART, CONTE DI MAIDA, LUOGOTENENTE GENERALE DI SUA MAESTÀ BRITANNICA E

COMANDANTE IN CAPO DELLE FORZE INGLESI IN SICILIA

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come fontanelle. Gettato in una cella fra insulti e bestemmie, languì a lungo prima di essere liberato dai Francesi. La colpa dei Lapiana? Essere stati “al servizio” dei benestanti “giacobini” di Bagnara quando invece il bravo Notaio fino a quel momento svolse un onestissimo lavoro di presa d’atto e testimonianze legali. Stessa accusa fu rivolta al giudice e governatore don Giovanni Messina, prelevato in casa dov’era tranquillamente intento ai suoi studi di giurisprudenza. Gli dilaniarono la pancia e quindi lo trascinarono sulla via, legato alle mani con una corda e trascinato di corsa da un capo all’altro di Corso Borbonio, fino a farlo morire. Toccò la stessa sorte al commerciante don Giuseppe Caruso al quale tagliarono di netto la mascella e lo lasciarono morire dissanguato. A sera la furia dei banditi si placò; i cadaveri furono caricati su un trasporto per condurli alla sepoltura e il mesto corteo fece per muovere quando una torma di donne inferocite circondò il carro; sequestrarono i poveri resti e li trasportarono fino al Pinno, dal quale li precipitarono. Si sparsero lungo le sottostanti rasole, destinati in pasto ai cani da guardia delle vigne. Guidava la torma di donne che appoggiava i banditi perché parenti o perché in cerca di riscatto e vendetta per antichi torti, una certa Maria Gentilomo, detta la Catinota, i cui parenti erano fra i fuggiti a Messina e con i quali intratteneva rapporti a mezzo di trasporti che di notte, raggiungevano Bagnara da Messina portando dispacci e vettovaglie e operando il contrabbando. Donna e attività perfettamente note alla polizia militare francese che, nel corso della seconda discesa su Bagnara (stavolta più che vittoriosa), la catturò in piena piazza. Immediatamente sottoposta a un processo sommario, fu condannata a morte e fucilata sulla Piazza del Mercato di Bagnara. I rastrellamenti ordinati da Fica, ben presto trasformarono il piccolo carcere di Bagnara in un contenitore pieno come un uovo, e di tutti notabili, persone distinte, ottimi commercianti. Non si contarono le torture e le violenze inflitte a quella povera gente: i lamenti s’udivano a distanza e di notte spezzavano il cuore degli scampati, molti dei quali decisero di lasciare Bagnara alla spicciolata, chi verso Seminara, Palmi, Nicotera, Monteleone per affidarsi ai Francesi, e chi verso Scilla, Messina e Palermo, in braccio agli anglo-borbonici. Fu così che a Bagnara, “rimasta deserta e muta come un sepolcro”, iniziò il metodico saccheggio della banda Fica. Nei giorni seguenti qualche valoroso sbarcò all’imbrunire sull’arenile rimanendo costernato: Bagnara aveva “ingombre le strade di rovi, di cardi e di solano spinoso; né intese che miagolati di gatti passeggianti su tetti, il latrare di qualche cane ed il romore del mare, e per accrescere il terrore di quando in quando, colpi di fucile, tratti non senza scopo, e

sollecito rifuggiva versando amare lagrime”.2

Bagnara non fu incendiata perché ivi i briganti trovarono “buona dimora” accogliendo anche numerosi delinquenti dell’altopiano e della foresta di Solano.

II Durante la permanenza a Bagnara, Fica divenne padre di un figlio maschio. Si organizzò una grandiosa festa durante la quale si mangiò, si ballò e si bevve moltissimo. Chi venne rintracciato in paese, fu obbligato a partecipare. Fra costoro, capitò un giovanissimo sacerdote, Domenico Di Mejo (o de Majo), preso di mira, per diletto, da Ticaffo che lo stuzzicò per tutta la serata. A un certo punto si accorse del gesto Ciccione, parente del Di Mejo che non esitò a minacciare il compagno di non osare portare violenza al suo protetto. Ci fu uno scontro violento al termine del quale Ticaffo ebbe la meglio accettando però un compromesso: il minacciante chiamò a sé Di Mejo e gli impose il pagamento di cinquanta ducati per avere salva la vita. Nacque un nuovo violento conflitto: nei patti fra Ticaffo e Ciccione, che accusò il primo di aver sconvolto i patti; essi non prevedevano minacce di morte. Di Mejo approfittò di quell’imprevista baruffa per dileguarsi. Nel giro di mezz’ora, lui e la sua famiglia erano già su una palamitara che, a voga forzata, raggiungeva il largo con

destinazione Messina. 2 (omissis)

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E a Messina giunsero anche le tristi narrazioni sulla derelitta Bagnara, al che Lord Stuart ordinò che i “giacobini” bagnaroti fossero tutti condotti a Scilla per essere imbarcati verso Messina. Fica armò una scorta sotto la responsabilità di Forgiarello e Micidaro e così i prigionieri finirono nelle mani di Lord

Stuart. I briganti si attendevano dagli inglesi lodi e ricompense in denaro, ma gli inquisitori britannici s’accorsero subito che le accuse si riducevano a sospetto giacobinismo e basta, e assolsero la comitiva di “giacobini”. I fatti urtarono il nobile animo del Lord inglese. I banditi vennero bastonati e cacciati via e i prigionieri liberati e fatti ricoverare a Messina, al sicuro. Tornati scornati a Bagnara, Forgiarello e Micidaro giurarono vendetta: se fosse capitato fra le loro grinfie qualche altro “giacobino” ne avrebbero fatta carne da macello. Quanto stava avvenendo in Bagnara, si replicava nei dintorni: a Solano i Malovento insieme alla banda Firrindi e a quella dei Giusandri, presero possesso di tutta la Cuvala e in quel bosco impenetrabile, eressero un quartier generale coll’intenzione di organizzare la difesa-attacco contro i francesi. In effetti i briganti, conoscendo bene i siti, sottoposero i Francesi che da Seminara e Palmi spingevano avanti pattuglie d’esplorazione, a duri e sanguinosi agguati, soprattutto nella zona dell’Affacciata e ai Piani della Corona.

III Dopo la battaglia di Maida, ove Lord Stuart còlse una splendida vittoria sul

Generale Reynier, i francesi si ritirarono verso Cosenza, inseguiti dai briganti. Sicché Bagnara fu evacuata da quei sanguinari soggetti che cessavano di essere banditi per ridivenire Briganti filo borbonici e, gradatamente, nel giro di una settimana, i bagnaroti fuggiti pensarono di rientrare in Città. Ma non tutto si era tranquillizzato. Ai piedi d’Aspromonte bazzicavano ancora bande che nulla avevano a che fare col patriottismo. Una di queste armate banditesche, simile a quella di Fica, raggiunse Bagnara. Era formata prevalentemente da Pedacesi. Per verificare la presenza di prede appetibili, i Pedacesi usavano presentarsi all’uscio delle abitazioni e con modi cortesi, offrire a bassissimo prezzo oggetti d’oro e pietre preziose o anche manufatti in seta e arredi preziosi. Nel contempo, lanciavano occhiate nelle abitazioni e con fare esperto, valutavano se in quella casa ci fosse preda da saccheggiare. E così a Bagnara in quei giorni, i Pedacesi ebbero modo di visitare quasi tutte le case patrizie e dei benestanti. Alla fine si riunirono tutti in piazza per organizzare le razzie, imbastendo discussioni anche animate su come distribuirsi i compiti. Furono intesi da qualche passante e fu lanciato l’allarme: i Pedacesi avrebbero attaccato la Città con lo scopo di saccheggiarla. Nuovamente in preda al terrore, i Bagnaroti si chiusero in casa serrando porte e finestre. In quei frangenti capitò che due brik inglesi che rientravano dalla Battaglia di Maida, decisero di ancorare a Marinella di Bagnara per l’acquata e un approvvigionamento di fieno. I brik infatti, trasportavano due interi squadroni di cavalleria, con molti feriti e militari colti da gravi febbri, molti avevano le labbra gonfie dall’arsura, a stento alleviata da foglie di fico avvolte fin dentro la bocca. Un piccolo nugolo di cittadini li raggiunse, narrando loro il grave pericolo di saccheggio e incendio che incombeva su Bagnara. Malgrado la maggior parte dei militari in quelle condizioni, tutti i militi abili balzarono in sella e caricarono i Pedacesi inseguendoli lungo le vie e le vineje. Moltissimi perirono sotto le sciabolate e i superstiti si diedero alla precipitosa fuga.

IV Ma al termine la Battaglia di Maida, non furono solo gli Inglesi a rientrare! Maisi a capo di una piccola massa con al seguito Vincenzo Careri, Minici e Nano, nel ritornare dalla Piana di Sant’Eufemia, si fermarono a Melicuccà, che terrorizzarono fino a quando non ricevettero un riscatto di 200 razioni complete e 200 ducati. Si raccontò in quei giorni, fra i vari soprusi, quello perpetrato da Maisi che pretese da un contadino la consegna di un cesto di ciliegie appena colte. Il contadino obiettò che esse erano state commissionate dal comandante Spina, ufficiale sotto il quale stava la responsabilità dell’agro di Melicuccà.

IL CONTE JEAN ANTOINE VERDIER GENERALE DI DIVISIONE

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Il contadino fu immobilizzato e legato ad un olivo e quindi torturato. Cessato lo spasso, fu liberato e il poveraccio fuggì verso il villaggio ove narrò l’accaduto, suscitando in tutti sgomento e terrore. I fatti furono ingigantiti oltremisura e i paesani, ormai certi della morte, decisero di uscire in processione col Santissimo sotto il baldacchino e il Sindaco in testa e banda musicale al seguito. Fra litanie e canti tremolanti, la processione raggiunse il sito ove Maisi riposava dopo le bravate. Il Sindaco prese sotto braccio Maisi e gli fece prendere posto sotto il baldacchino e la processione tornò in Melicuccà. Si arrestò sulla piazza della chiesa e Maisi fu ricevuto solennemente in casa Gordiano ove ricevette 50 ducati di riscatto volontario in cambio della pace. A mezzogiorno ci fu un lauto pranzo a palazzo Gordiano e a sera i capi banda si ritrovarono a cena dal comandante Spina, cena seguita da un ballo. Terminata la festa, a Maisi fu offerta una bella camera per la notte ma il bandito preferì il meleto e pereto della proprietà, circondato dai suoi fedelissimi. Il giorno dopo la banda proseguì il viaggio; non scese a Bagnara, s’imbarcò invece a Scilla per Messina ove Maisi fu arruolato nella “Cavalleria della Morte” da dove disertò poco dopo, preferendo rientrare a Bagnara insieme ai rifugiati a Messina. 4.- Bagnara nel 1806 – Pasquale e Antonio Versace “Genialitz”

I Una delle prime azioni di rappresaglia compiuta dai Francesi nel corso della loro prima occupazione di Bagnara nel 1806, fu l’arresto di don Pasquale Versace. Don Pasquale era un agiatissimo possidente e commerciante, discendente di antica e distinta famiglia bagnarese. Ed era anche oltremodo famoso in Italia e in Francia, per essere stato il primo e più importante supporto finanziario per la spedizione di “riacquisto del Regno” intrapresa da S.E. il Cardinale don Fabrizio Ruffo dei Duchi di Bagnara & Baranello. Fuggiti i Reali a Palermo a fine 1798 a seguito della rivoluzione giacobina a Napoli, appoggiata dalle truppe francesi del Generale Championnet, il Cardinale aveva accettato l’incarico di “Alter ego del Re per le Calabrie” e di suo rappresentante per le operazioni sul Continente. Sbarcato a Punta del Pezzo, ove la Gran Casa di Bagnara possedeva il Villino Baranello, il Cardinale ricevette i primi supporti militari da Reggio e Scilla ma si mosse solo dopo avere avuto la certezza che a Bagnara egli avrebbe ricevuti adeguati supporti finanziari. E così fu. Don Pasquale lo mise in condizioni di trattare armi e munizioni e mettere sotto paga uno stuolo di Terrazzani oltremodo agguerriti e decisi e che costituiranno il nucleo “dei Calabresi” della sua Armata Reale e Cristiana della Santa Fede. Don Pasquale si aggregò all’Armata col prestigioso incarico di Tesoriere Generale e dunque di braccio destro del

Cardinale di Bagnara. Durante l’avanzata in Calabria, don Pasquale ritenne di dover rinforzare l’amministrazione dell’Armata e chiamò al suo fianco Domenicantonio Savoja al quale conferì l’incarico di Ispettore della Contadora (la moderna ragioneria in amministrazione) con l’incarico di erogare il “prest” ai volontari dell’Armata. Don Pasquale fece dunque parte della ristrettissima cerchia di primi collaboratori del Cardinale, insieme al colonnello Carbone di Scilla, all’Ispettore De Cesare incaricato di istruire i processi e Don Ciccio Ruffo, suo fratello, 2° Principe di Spinoso, Marchese di Guardia Perticara, Signore di Accetturo e Gorgoglione e Patrizio Napoletano (dal 1808). Nell’Armata ricoprì il ruolo di Ispettore Generale di Guerra

e di seguito divenne Brigadiere nell’esercito borbonico. Era logico che don Pasquale venisse ritenuto dai Francesi, un nemico primario, da ricercare e punire per le violenze recate dalla Santa Fede all’Armée durante il 1799. In realtà quella che i Francesi cercarono fu solo brutale vendetta verso uno dei componenti che furono capaci di abbattere la Repubblica Partenopea, generatasi dalla costola della Rivoluzione Francese. Don Pasquale fu arrestato e sottoposto a processo. La condanna a morte per decapitazione fu eseguita sulla Piazza del Mercato a Bagnara. Lo strazio della famiglia fu immane e non lo sopportò il più giovane dei fratelli di don Pasquale, Antonio. Antonio gestiva in famiglia, l’attività di una flotta di velieri che con successo, si occupava di trasporti commerciali lungo le primarie rotte di Sicilia verso il Mediterraneo e amministrava l’attività che si svolgeva fra le floride campagne, sempre di proprietà della famiglia, sulle colline attorno a Bagnara. Una famiglia molto unita e dedita al commercio con sacrificio e passione. Antonio non sopportò quello strazio e di notte, lasciò Bagnara su una paranza armata colla quale raggiunse Messina. Notissimo in Città e stimato nella guarnigione di Sua Maestà fu ricevuto da Lord Stuart dal quale ottenne

EMBLEMA DELLA ARMÉE D'ITALIE DURANTE LA PRIMA GUERRA D'ITALIA (1796-1799)

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le licenze per organizzare un contingente di volontari da affiancare alle truppe britanniche e napoletane nelle operazioni di guerra in Calabria. Con le licenze ottenute, la notorietà della famiglia in Calabria e l’ottima disponibilità finanziaria, Antonio Versace, che i britannici definivano “Genialitz” per le ottime intuizioni commerciali e non solo, che dimostrò durante il lungo e proficuo rapporto con loro, organizzò una potente “formazione a massa”. Ragazzo intelligentissimo e preparato, comprese da subito che per poter conseguire un qualche successo contro i veterani di guerra francesi, era necessario formare una “unità” fra le varie formazioni di insorgenti che operavano in Calabria. Ma gli interessi locali prevalsero e fu quella circostanza, la più grave eccezione nella trasformazione delle “formazioni popolane riunitesi a massa” in una organica Armata Rivoluzionaria, capace di una forza d’urto eccezionale e soprattutto idonea a supportare un mutamento politico generale nel Regno. Vi credettero invece i britannici che non disperarono sulla finale

riuscita dell’iniziativa di Antonio Versace e gli preannunciarono il grado di Capitano, inquadrato nelle forze di Sua Maestà. Versace operò con valore, soprattutto nella zona di Caccuri, unitamente a Nicola Gualtieri (“Panedigrano”), Giacomo Pisano (“Francatrippa”) e Paolo Mancuso (”Parafante”). Genialitz sempre più nel cuore degli inglesi dunque, più che patriota e difensore della legittimità della Real Casa di Borbone di Napoli e Sicilia. La Città di Cosenza, come Belmonte, alla notizia della vittoria di Lord Smith a Maida (battaglia di Sant’Eufemia) il 4 luglio 1806, si era sollevata, cacciando la piccola guarnigione francese e inalberando il vessillo borbonico. Ma fu investita dalla colonna Verdier in ritirata, mentre Reynier raggiungeva la fedele Catanzaro per poi occupare Crotone (Strongoli pagò col saccheggio e l’incendio il rifiuto a concedere vettovaglie ai francesi in ritirata). Il Generale ritenne necessario fare sostare i feriti a Cosenza, e così Verdier per garanzia che ai francesi ricoverati fossero fornite le cure necessarie, prese per ostaggi:

- Raffele Mollo (poi deceduto nei pressi di Cassano, forse assassinato da un Polacco per banale litigio),

- il Marchese Salvatore Spiriti, - il Marchese Dattilo, - Ercole Giannuzzi-Savelli, - Antonio Cavalcanti, - Mattero Vitari, - Giovanni Castiglion-Morelli.

Il Capitano Nicola Vitari si sarebbe occupato di mantenere la pubblica tranquillità in Città, in sintonia con l’Arcivescovo Dentice. Così il nove luglio Verdier, alla testa di 600 effettivi, lasciava Cosenza. Alla notizia della sollevazione dei cosentini, Antonio Versace s’era intanto mosso con i suoi volontari dai nascondigli silani e insieme ad altre masse provenienti anche da sud, entrò in Cosenza per appoggiare le rivendicazioni legittimiste della Città. La Corte di Palermo fece allora giungere agli Eletti di Cosenza un dispaccio col quale Antonio Versace veniva nominato Comandante della difesa della Città, non senza risentimenti da parte degli altri Capi Massa, che male vedevano già di per sé, un gentiluomo fra le proprie schiere. Le masse confluirono a Cosenza ognuna con proprio tamburo battente, quasi tutte senza vessilli e seguite da torme di donne fameliche di preda. Ad ogni massa che s’avvicinava alla Città, le campane battevano a martello per avviso. Il palazzo Turani fu saccheggiato dalla banda Carelli di Zumpano e il palazzo Vercillo fu saccheggiato e poi incendiato dalla banda di Raffaele Murano (in questo caso si disse per odio e vendetta). Stessa sorte ai palazzi Passalacqua e Roberto, quest’ultimo perché la famiglia fu giudicata rea di non aver tenacemente sostenuta la causa di intermediazione per il rilascio di Fortunato Gualtieri, figlio di Panedigrano, impiccato dai francesi. I tumulti aumentarono a dismisura, a stento frenati dai miliziani di Versace, tumulti dovuti all’azione sconsiderata di Giambattista Di Michele, dietro il quale si accodarono servi, prigionieri liberati, marmaglia assetata di bottino.

JULIEN AUGUSTE J. MERMET GENERALE DI DIVISIONE

ARMATA D'ITALIA (PRIMA COALIZIONE)

CARTA INTESTATA DEL GEN. NAPOLEONE BONAPARTE COMANDANTE DELL'ARMATA (CON FIRMA AUTOGRAFA)

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Infine le masse inferocite s’avviarono verso l’ospedale, con l’intento di giustiziare i feriti francesi ricoverati e incuranti della parola d’onore fornita dalla Città a Verdier e degli ostaggi che questi tratteneva presso di sé. Versace schierò i volontari a difesa dell’edificio, certo della morte di fronte a quella innumerevole marmaglia. Salvò Versace e i suoi la mesta processione dietro il Crocifisso di uno stuolo di monache, fanciulli e donne oranti che sfilò in mezzo alla marmaglia commossa e genuflessa, fino a quando il grido “Viva il Re, viva la Fede!” sciolse i cuori e la violenza cessò. A Cosenza i saccheggi in quel frangente furono più di cento e nella furia di fare bottino, la massa Sposati di Donnici uccise lo stesso Arcivescovo, reo di intendersela coi Francesi. La situazione tornò alla normalità con l’arrivo di Panedigrano e la sua massa, di rinforzo al Comando di Antonio Versace. Ci fu la Processione di ringraziamento alla Madonna del Piliero e Versace poté nominare De Michele, Preside di Cosenza. Non cessarono gli arresti di presunti “patrioti”, in realtà avvenuti per «privati odi».

II Dopo la caduta di Gaeta, il Maresciallo Massèna, con 15.000 effettivi, mosse verso la Calabria. Una prima formazione scese per la via di Lagonegro, al comando dello stesso Massèna e una seconda per la via di Sapri al comando del Generale Mermet. Scontri sanguinosissimi e memorabili fra francesi e insorgenti avvennero a Lauria e Castrovillari ove le colonne Mermet e Massèna si riunirono puntando su Cosenza. Mermet in particolare, scendeva al comando di un fortissimo contingente di Dragoni (29°, 24° e 30° cavalleria) dando così spalla efficace a Reynier che presidiava Crotone e Catanzaro. A Cosenza si visse con fermento il prossimo arrivo di questa forte spedizione militare. Versace non smise di organizzare pattuglie e fortificare il campo fuori dalla Città e soprattutto impartire ordini ai capi massa e agli stessi componenti delle masse non dipendenti dal suo comando. E per meglio enfatizzare questa sua posizione, indossò la divisa britannica di Capitano della Guardia, suscitando a tal punto, l’avversione e l’invidia dei capi massa, Panedigrano compreso. Il 15 Agosto, un’avanguardia di Reynier avanzò verso l’area di Portapiana, più che altro per verificare la difesa della Città e, intercettato dalla sorveglianza di Versace, fu attaccata con foga. Nel clamore dell’azione, Versace fu raggiunto da una fucilata sparata a tradimento da un componente di una banda

“amica”. Si disse che Versace in realtà morì in combattimento durante la battaglia sul Marro, vicino Seminara, ma tutte le fonti confermano che fu ucciso a tradimento da uno dei suoi, certamente per invidia. Morti don Pasquale e Antonio, della famiglia Versace restava a Bagnara, oltre la vedova di don Pasquale, il figlio di questi Pier Francesco e l’ultimo Fratello di don Pasquale, Pietro. Il Governo del Re punì severamente la famiglia Versace. Tutti i beni furono sequestrati e incamerati a Demanio.

III Nel 1811 il Re Gioacchino Napoleone (Gioacchino Murat) conferì a Nicolas Phillips Desvernois, Barone di Altomonte, Cavaliere dell’Ordine delle Due Sicilie, Cavaliere dell’Ordine di San Luigi e membro della Legion D’Onore e Aiutante di Campo del Generale Mathieu Dumas, Ministro della Guerra del Regno, un consistente maggiorasco costituito da beni distribuiti fra Seminara, Bagnara, Pellegrina, Scilla, i Piani della Corona, Palmi ecc. Desvernois aveva combattuto su praticamente tutti i teatri di guerra ove fu impegnato l’Imperatore e Murat, che fu fra i migliori comandanti della

Cavalleria Imperiale, apprezzava molto le doti del giovane ufficiale. Accompagnato dall’Esattore dei demani, Desvernois visitò tutti i luoghi ove stavano le sue nuove proprietà che, secondo l’Esattore, rendevano un valore superiore ai 70.000 ducati. Ma a ogni arrivo sulle sue nuove proprietà, Desvernois si trovò di fronte a scene di disperazione dei parenti degli espropriati, ed ebbe frequentemente dei dubbi se accettare o meno quella dotazione e correttamente l’Esattore ogni volta gli rammentava che quei beni, ora facenti parte del demanio statale, se da lui rifiutati, sarebbero stati assegnati ad altra persona. La bontà di quei beni, suggeriva l’Esattore, era fuori discussione. Dal solo taglio immediato dei boschi fra Palmi e Bagnara, si sarebbero realizzati in pochi giorni dai 25 ai 30.000 ducati, offerta di un commerciante di Palmi che aveva un contratto aperto con industriali Statunitensi che amavano quel legno, utile per la fabbricazione di botti, barili e cerchi. “Nemmeno uno stuzzicadenti” pare commentasse stizzito Desvernois. Informò quindi del rifiuto il Generale Manhès e, di ritorno a Napoli, si recò dal Re per informarlo della decisione.

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Volle il Re sapere quando Desvernois avesse maturato quella decisione e le testuali parole riportate nel Diario del valente militare francese sono le seguenti:

Sire! Ho avuto l’animo molto afflitto dalla loro angoscia. La famiglia del cavaliere Pietro Versace di Bagnara, una grande parte dei cui beni rientrava nella dotazione, provocava soprattutto la mia compassione a causa dei numerosi bambini che mi stringevano colle loro braccia, supplicavano in ginocchio di non ridurli alla mendicità; e questo quadro, così straziante, era dominato dal dolore della loro madre che singhiozzava in mezzo alla sua giovane famiglia

- Va bene colonnello, aggiunse il Re. 5.- Bagnara nel 1807 – don Gaetano Bottari Bagnara del 1806 era un sistema di dossi e colli intervallati da valli e burroni, tutto piantato a vigne e boschi cedui di castagno. Il sistema stradale periferico di Bagnara, era necessariamente tortuoso e passava sul fondo di molti di questi dossi. Per tale motivo i Francesi che transitavano, erano frequentemente oggetto di micidiali imboscate da parte degli insorgenti e per la difficoltà a ricevere soccorsi, gli inglesi frequentemente accostavano alla riva e scaricavano sugli accampamenti bordate di moschetteria. Il re Murat allora, decise che Bagnara dovesse essere munita di “batterie a fior d’acqua” da Pietracanale fino alla Torre di Rocchi. Sopra lo scoglio grande di Pietracanale fu dunque posto un pezzo da otto assistito da un piccolo presidio mentre il Capo di Rocchi, ov’è la Torre, fu fortificato alla base con un pezzo da sei che dalla scogliera fortificata fra Cacilì e Capo Rocchi, puntava verso la Marinella. Fra i due estremi: Pietracanale e Capo di Rocchi, fu posto un pezzo da sei sotto il promontorio di Marturano in modo da completare una perfetta triangolazione. Infine per evitare l’assalto (e l’aggiramento) verso la baia di Gramà, i francesi adattarono una rientranza naturale posta all’interno della collina di Gramà. Scavarono una galleria aprendo una “finestra” che ancora oggi guarda dritto verso la Torre e lì piazzarono un pezzo da sei. All’uscita della galleria, sulla Costera, costruirono una torretta sulla quale piazzarono un pezzo da otto. In tale maniera Bagnara fu considerata inattaccabile dal mare. Per raggiungere l’ingresso della galleria, i Francesi costruirono un muro a secco, una massicciata, addossata alla parete di Gramà, molto resistente, se ancora oggi se ne può vedere una parte sulla parete della montagna. In totale a Bagnara funzionarono ben cinque batterie: Pietracanale – Marturano – Rocchi – Gramà (2).

La parte settentrionale del sistema collinare bagnaroto, era tutta una vigna e qualche giardino. Era servita da due stradelle, una prossima al mare, detta della Croce, tortuosa a quasi a picco che iniziava dalla Marinella e andava al Pinno e l’altra detta di Malopasso che costeggiava il Catiano e saliva fino alla strada che conduce a Pellegrina. A quel tempo erano già scomparse le sorgenti termali, scomparsa dovuta, secondo le testimonianze dell’epoca, all’innalzamento del suolo per via dei materiali trasportati dal Catiano “che nelle grandi pioggie ingrossa, straripa e danneggia precipitando dall’alto in una stretta gola, trasportando al mare terre e ciottoli e pietre per gli slamamenti, per le frane e per la stessa coltura cangianati”. Dal Malopasso al Catiano, si trovavano vigne e pruneti annosi e folti sopra questa caratteristica vegetazione, un ampio sistema di boschi di castagno attraversato dall’antica strada di collegamento con Pellegrina, dopo la curva dell’Affacciata. Sotto l’Affacciata, ancora vigne che correvano dal basso all’alto, girando attorno alla Costa della Monaca fino a Cacilì e poi ancora i giardini della Malarosa. Restò famosa l’imboscata che i Briganti organizzarono proprio all’Affacciata nel 1807, quando Bagnara era tornata in mano agli Inglesi e agli Insorgenti. In quell’imboscata morì un solo Brigante, dopo aver ucciso tredici Francesi con tredici colpi di moschetto. Quando i Francesi osavano l’assalto, gli Insorgenti di sparpagliavano fra i pruni e i castagni iniziando una guerriglia che i Francesi alla fine non poterono reggere per molto. Proprio in occasione di quell’assalto all’Affacciata, i Francesi inseguirono un folto gruppo d’Insorgenti che commise l’errore di entrare in Paese. Molti furono centrati dai fucili ad alta precisione e lunga gittata e il resto s’arrese sperando nella clemenza. Erano in dieci e furono immediatamente afforcati proprio all’Affacciata e ivi lasciati penzolare per lungo tempo, a monito per i Bagnaroti. Nessuno osò avvicinarsi per mettere fine a quella terribile scena. Ci pensò alla fine un certo don Orazio da Scilla, mandato ivi dagli Inglesi,

mossi da pietà cristiana.

L'INGRESSO AL TUNNEL DI MURAT, RICAVATO ALL'INTERNO DI GRAMÀ, FOTOGRAFATO COL TELEOBIETTIVO. SI NOTA LA FINESTRA CHE GUARDA DRITTO SU CAPO ROCCHI, OVE FU PIAZZATO UN PEZZO DA SEI. L'INGRESSO AL TUNNEL FU "RIDOTTO" PER MEGLIO PROTEGGERE LA BATTERIA. RECENTEMENTE HO PROPOSTO LA RIATTIVAZIONE DELLA GALLERIA CHE ALL’USCITA SULLA COSTERA SI COLLEGA COL «SENTIERO DEL VINO» USATO DALLE BAGNAROTE IN VENDEMMIA, E DA QUI RAGGIUNGERE IL LEGGENDARIO TRACCIOLINO. LA TORRETTA DEL PEZZO DA OTTO SISTEMATA ALL’USCITA SULLA COSTERA, È STATA DISTRUTTA DA UN BOMBARDAMENTO INGLESE CHE HA LASCIATO UN INCAVO TUTTORA VISIBILE.

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Accadde poi che su due cadaveri di Insorgenti centrati dai Francesi durante la fuga, e rimasti nei pressi della Chiesa dell’Immacolata a Porelli, si inginocchiò un buon prete, don Gaetano Bottari. Il prete voleva dare cristiana sepoltura alle vittime e dunque si accinse a ricomporne i resti. E in quel frangente, s’accorse che in una delle tasche di una delle due vittime, erano ottanta piastre. Decise di trattenere la somma per il pagamento dei funerali e le opere di carità. Il prete fu arrestato il giorno appresso con l’accusa di appartenenza ai Briganti e condotto davanti a una corte marziale che lo condannò a morte. In attesa dell’esecuzione, fu incarcerato nel Convento dei Cappuccini. Il povero prete impazzì di terrore e dolore, mentre attorno al padre e ai suoi due fratelli, si strinsero le poche famiglie che ancora stavano a Bagnara. Impietosito infine dalle continue implorazioni dei parenti e della popolazione, l’autorità francese accettò di graziare il prete in cambio della restituzione delle piastre sottratte dal corpo del brigante. Partiti i Francesi la seconda volta per la controffensiva britannica e napoletana nel cosentino, i Briganti rientrarono a Bagnara e arrestarono a loro volta il povero prete con l’accusa di appartenere al circolo giacobino e di essere in intelligenza coi Francesi. Si ripeté la scena delle ottanta piastre in cambio della grazia e il povero prete venne di nuovo liberato. Solo che questa volta a uscire dal carcere fu un povero demente. 6.- D’Hauteroche a Bagnara - 1807 In questa Bagnara, durante la seconda occupazione francese, capitò dunque Etienne D’Hauteroche. Terminato l’addestramento alla Scuola Militare di Fontainebleau, il diciottenne bel tenentino era stato destinato a Bologna per aggregarsi al 20° di Linea, in partenza per gli Abbruzzi. A Pescara stazionò dal 1° Agosto 1806 al 2 gennaio 1807 e qui condusse una vita gioiosa fra corteggi a belle signore dell’alta società e gagliarde locandiere. Partecipò alla battaglia di Loreto contro duemila insorgenti (1° ottobre 1806) e quindi il 2 gennaio 1807, il 20° di Linea mosse verso Napoli. Qui il battaglione si rinforzò e si inquadrò nel Reggimento del generale Reynier, in marcia verso la Calabria. Durante la lunga marcia, D’Hauteroche fu raggiunto alla coscia da una palla di fucile, sparata da un brigante in agguato. Operato, rientrò nei ranghi ma con una ferita che gli procurò guai e dolori, rifiutandosi di rimarginarsi. L’impetuosa avanzata del 20° di Linea, si concluse a Bagnara ove il Battaglione ricevette l’ordine di fare il campo in attesa di istruzioni. Ed ecco cosa scrive il giovane sottotenente a proposito di Bagnara:

Da Seminara giungemmo a Bagnara; questa cittadina è del tutto nuova, essendo stata, come Seminara, interamente distrutta nel 1783. È adagiata ad anfiteatro sopra una montagna che alla base è bagnata dal mare, una parte della città si distende sulla spianata che è a sud lungo la riva; quest’ultima parte è bella e fornita di magazzini di ogni specie, ma la rimanente parte della Città è talmente abbarbicata sulla montagna, che i cavalli non possono percorrere le vie se trasportano pesi. Le donne di Bagnara sono “charmantes”, rievocano la favola delle sirene che vissero nelle vicinanze. Del resto, visto che la maggior parte dei bagnaresi si rifugiò a Messina, ho visto molti Francesi che, nel tentativo di soddisfare occhi e orecchie, hanno trovato queste sirene moderne ben più pericolose che quelle delle favole. La campagna di Bagnara abbonda di vino che è della migliore qualità rispetto a tutto il resto della costa. La vigna che cresce tutto intorno a Bagnara, è sistemata su un terreno scosceso e pietroso; è dunque sostenuto da muri a secco che si elevano gli uni sopra gli altri; questo modo di sistemare la montagna, dona al paesaggio un aspetto molto singolare. La costa di Bagnara, vista dal mare, presenta una successione di rasole sulle quali sono disposte piante e ghirlande di fiori e verdure; restituisce un effetto incantevole, si può osservare, se si pone attenzione, fra le pietre e i fiori, cespugli di lilla, rose, “syringa”, fichi, granati e arance. Rimanemmo a Bagnara qualche giorno e ne approfittai per prendere qualche bagno di mare. Dopo molti mesi, come dissi, avevo sulla gamba una piaga inquietante, malgrado la quale fui costretto a camminare per circa cento leghe a piedi ed essa resistette a tutte le medicazioni e non mi tormentava moltissimo anche perché sembrava volesse prendere una fisionomia cronica, inguaribile; le medicine non erano state capaci di rimarginarla. Giunto a Bagnara, andai a prendere dei bagni di mare. Dopo il primo bagno, una leggera pellicola si formò sulla piaga incurabile; al secondo, questa pellicola prese consistenza; dopo alcuni bagni, ero radicalmente guarito, e credo di poter usare questa espressione, perché malgrado le numerose fatiche provate durante la mia carriera militare, mai ne risentii. I bagnaresi, come cennato, s’erano rifugiati a Messina, abbandonando l’ultima vendemmia e le botti erano piene. Non potevamo non assaggiare un poco di quella abbondanza. Fu assegnata una grotta (una cantina) a ogni compagnia e un capitano fu incaricato di controllare la distribuzione del vino; era copioso e Dio sa la gioia e le canzoni di quei giorni.

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Del resto, avevamo bisogno di questo ristoro perché nelle vicinanze, non trovammo che qualche pollo e delle cipolle. Ci sdraiavamo sulla spiaggia perché i bagnaresi s’erano portati via anche i letti; ma il vino faceva dimenticare tutti i piccoli inconvenienti. Quanto a me, confesso che, sia per la guarigione della mia gamba, sia a causa della gioia procurata dai bicchieri del liquore di Bacco, è sempre con piacere che ancora oggi mi ricordo di Bagnara dove, più di una volta, l’alba ci soprese a cantare tutti assieme con una brocca di vino e delle cipolle. Un canto d’amore verso Bagnara come pochi se ne intesero prima e pochissimi se ne udranno dopo.

E dopo, a Bagnara, tornò purtroppo la violenza brutale e

l’oscurantismo più nero.

7.- James Grant e il massacro di Bagnara - 1807

A metà ottobre il contingente ove era inquadrato D’Hauteroche lasciò Bagnara per aggregarsi alla divisione Reynier che muoveva verso Seminara. A fine dicembre del 1807, i Francesi riuscirono a espugnare Seminara e la preoccupazione che potessero impadronirsi del Forte di Scilla, spinse il gen. Stuart a dare ordini perentori al suo Aiutante di Campo in Calabria, affinché si procedesse immediatamente al potenziamento delle difese del Forte e a stabilire al Passo di Solano una guarnigione sotto il comando del Cavaliere di Castelluccio3, amico e compagno d’armi del Duca di Bagnara4 in scorrerie talvolta impietose fra i villaggi calabresi giudicati collaborazionisti dei Francesi. Il 31 dicembre i Francesi sfondarono la difesa inglese alla Melia, costringendo i difensori a ripiegare su Scilla mentre il generale Regnier5 faceva occupare il Passo. Assicuratasi la strategica posizione di Solano e ormai padrone dei Piani della Corona sopra Bagnara, Regnier a metà del 1807 s’interessò soprattutto del riassetto della strada che da Seminara conduceva al Passo al fine di un più agevole trasporto delle vettovaglie e del treno di artiglieria, affidandone il compito al responsabile degli ingegneri militari al suo seguito, il colonnello Francesco Costanzo. Operazioni ritardate dalle azioni di guerriglia operate dagli irregolari del Marchese di Castelluccio, dai Briganti di Francatrippa, che operavano dai boschi di Solano, dalla Banda di Francesca La Gamba di Palmi ma Bagnarota per adozione, e dai borbonici del Principe di Sant’Agata che operavano da Reggio su Aspromonte, mentre il Colonnello Comandante del Forte di Scilla, il Luogotenente G.D. Robertson, impegnava la propria guarnigione per disseminare di ostacoli la strada che scendeva dalla Melia sulla Città e guastare i guadi che la attraversavano.6 Con la caduta di Reggio in mani francesi, il reggimento Valdemone con circa 800 fanti del col. Sentier e i resti dello squadrone di cavalleria Valdimazzara del Visconte Luigi di Santugo si trincerarono a Scilla, ormai mezzo diroccata sotto i colpi delle batterie di Regnier. Si rese dunque impellente l’abbandono della cittadina da parte delle forze filoborboniche e inglesi e per ritardare il consolidamento francese attorno a Scilla, il Marchese di Castelluccio suggerì a Grant un attacco a sorpresa contro il 23° fanteria leggera francese, i famosi “voltigeurs” vanto di Regnier, che avevano preso stanza a Bagnara.7

3 Si tratta con buona probabilità di don Giuseppe Pescara, Cavaliere di Malta e fratello di don Francesco VII° Marchese di

Castelluccio. 4 Si tratta di don Francesco Ruffo (1779-1865), X° Duca di Bagnara, IX° Principe di Sant’Antimo e VIII° della Motta S.G., IV° Duca di Baranello, III° Barone di S. Lucido, Patrizio Napoletano, Signore di Soleto, Amendolea, Fiumara di Muro, San Lorenzo e Signore

della Gabella di Catona (dal 1802). Sposò nel 1798 donna Rosalia Di Napoli Barrese, dei Principi di Resuttano, aristocratica di

Palermo. Il Duca era noto come accanito giocatore di carte insieme al cav. Benedetto del Castagno e al Principe di Sant’Agata, col

quale si spartiva le vincite alla fine delle partite. Il luogo preferito per le riunioni fra nobili era Nicastro, ove convenivano anche molti

degli ufficiali dello Stato Maggiore del Luogotenente generale Sir John Stuart, comandante in capo delle forze stanziate in Messina. 5Nella Divisione Regnier operò Stefano Romeo, Patriota nato a S. Stefano in Aspromonte nel 1786. Il giovane ufficiale di Regnier

ebbe poi un ruolo di primo piano nel movimento costituzionale del 1820-21 perché insieme col fratello Domenico fu fra i maggiori

esponenti del moto insurrezionale calabrese del sett. 1847 e quindi deputato al Parlamento napoletano del 1848. Con la restaurazione

e l’abolizione della Costituzione, Stefano dovette fuggire da Napoli trovando asilo a Costantinopoli. Dopo il 1861 rientrò in Calabria

e fu eletto deputato fino al 1868. 6 Così riferisce il militare nella sua relazione a Sir E.Smith a Messina il 19 febbraio 1808. La relazione è riportata integralmente in:

(omissis). 7 Regnier aveva investito Scilla muovendo dai Piani della Corona sopra Bagnara con uno squadrone del 9° cavalleria al quale si

aggiungerà quello del colonnello Maurizio M.M. Giuseppe Godefroy, principe de La Tour d'Auvergne d'Apchier, il 22° e il 23°

IL GENERALE REGNIER

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Grant ideò un piano teso a bloccare il 23° Volteggiatori, isolandolo dal resto dello schieramento Regnier a mezzo di 200 irregolari (i Briganti e le bande collegate a Francesca La Gamba) che scesi da Aspromonte, si posizionarono in Favazzina, e i britannici, in parte fatti sbarcare sull’arenile del villaggio e in parte provenienti dal Forte di Scilla. L’azione iniziò a fine 1807, durante una notte caratterizzata da enormi nuvoloni che lasciavano cadere sulla costa bagnarese una nebbiolina umida e insistente. Cento commandos inglesi uscirono da Scilla e s’incamminarono nel buio pesto lungo l’arenile roccioso che dal Forte di Scilla, conduce a Favazzina, guidati dai bagliori dei fuochi di bivacco dei francesi del generale Milette che luccicavano lungo le alture fra i Piani della Corona e la Melia. Sull’arenile di Favazzina i due contingenti alleati si riunirono e, sotto la guida dei briganti del posto, affrontarono sentieri in salita e quindi rasole su rasole, fino a giungere, nei pressi del Pizzolo, sulla mezza costa di Cucuzzo, ove all’epoca sorgeva un piccolo frantoio (U Cushiutu). Qui si fermarono per riprendere fiato ed esaminare Bagnara dall’alto. All’epoca il Borgo consisteva in diradate abitazioni fra magazzini di deposito di prodotti agricoli e commerciali. Fra l’amplissimo arenile e l’inizio dell’abitato del Borgo, correva un viale alberato che serviva da collegamento fra l’estremità sud della Città, la Bajetta, con l’estremità Nord, il Cannito. Seguivano dopo il viale e andando verso l’interno, una serie di casette e capanne fra magazzini, alcuni davvero consistenti, fino alla via principale, l’attuale via Garibaldi, a metà della quale sorgeva un’ampia piazza (la Piazza del Mercato, l’attuale Piazza G. Denaro) attorno alla quale erano state edificate le abitazioni dei maggiorenti della Città: Messina, Parisio, Sciplino. Si intuiva bene che i francesi avevano preso possesso delle case, abbandonate dai bagnaresi tutti fuggiti a Messina per salvarsi dalle azioni dei briganti, o a Palmi. Il comandante dei volteggiatori aveva preso dimora nel palazzo Messina, noto come Casa del Podestà, attorno alla quale era stato posizionato un reparto della Guardia e tre pezzi di artiglieria leggera, puntati sulla via maestra. Il contingente si mosse a notte fonda, scendendo con prudenza fin sul litorale alberato (l’odierna via Marina dalla parte del rione Bajetta). Qui, subito dopo il torrente Sfalassà, il contingente si divise in tre colonne:

Colonna-Santugo che puntò verso l’area dell’attuale Rione Inglese, all’epoca caratterizzato da sparse casette in legno e pagliari, attorno alla Cartiera del Duca, i molini-deposito e i depositi di circhi.

Colonna-Castelluccio che avanzò lungo il litorale, protetto dalla vista dei difensori dagli alberi e i dossi dell’arenile.

Colonna-Grant che attaccò al centro, dalla Bajetta verso il Borgo (guardando Bagnara oggi), procedendo ai lati della via.

L’intera area era controllata da una sola sentinella, che pattugliava soprattutto verso la marina e che fu sopraffatta in un baleno e fatta prigioniera. Tutte le restanti sentinelle incontrate in postazioni agli angoli delle vineje, colte si sorpresa, vennero uccise a pugnalate dagli irregolari e quindi i commandos e i briganti dilagarono silenziosamente per la Città. Mentre i commandos britannici pendevano posizione ai crocevia, gli irregolari Calabresi, divisi in gruppi di tre-quattro elementi, entrarono in silenzio nelle abitazioni, cogliendo i francesi nel sonno. Vennero tutti prima scannati e poi fatti a pezzi a fil di spada. Brandelli di corpi furono gettati sulle strade e le teste fatte rotolare nella polvere. Un massacro inaudito. Intanto il grosso delle forze di Grant, dopo aver preso il controllo di tutti i crocevia principali, raggiungeva la Piazza del Mercato. L’avanguardia calabrese si mosse allora urlando e con i coltelli spianati, verso il posto di guardia che intanto s’era allertato. Il comandante della guardia era un certo colonnello Pepe già noto agli inglesi. Costui si diresse immediatamente ai tre pezzi di artiglieria caricati a mitraglia e fece fare fuoco sui Calabresi, causandone una strage. Pezzi umani caddero a pioggia ovunque, ma la carica non si fermò. Il Pepe cercò di ritirarsi all’interno del Palazzo per organizzare la difesa dalle finestre; venne colto dalla fucileria inglese che lo fulminò alle spalle. Ma quel rumore causato dall’artiglieria francese, allertò la guarnigione che aveva preso stanza ai Cappuccini e anche i picchetti di Milette sulle alture e oltre ad essi, certamente si sarebbero immediatamente mosse le truppe di Seminara, per cui fu necessario concludere rapidamente l’azione di annientamento del 23° volteggiatori. Il Palazzo Messina fu attacco dalla parte opposta a quella principale, dalle masse di Santugo, mentre l’attacco principale sul fronte della Piazza, fu operato dalle forze riunite di Castelluccio e Grant. I volteggiatori asserragliati nel caseggiato risposero con una nutrica scarica di fucileria di sbarramento che mieté decine di vittime fra gli attaccanti, costringendoli a mettersi fuori tiro.

fanteria leggera volteggiatori, quest’ultimo poi fermato a Bagnara e il Primo, il 62° e il 101° fanteria di linea (fucilieri), per un totale

di circa 600 elementi e un appoggio consistente di artiglieria fra obici e mortai (Omissis)

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Nella furia della battaglia, i commandos riuscirono però a prendere uno dei tre cannoni francesi posti a difesa dell’abitazione. Grant diede ordine di girarlo verso il Palazzo e quindi una serie di tiri ben piazzati, aprì un varco nel muro della casa. Verso di essa si precipitò l’intero 62° seguito dai Calabresi, in un furibondo attacco alla baionetta. Furono investiti dalla fucileria francese ma malgrado le vittime che cadevano a decine, non si fermarono e penetrarono nell’abitazione. I Calabresi si fecero strada per primi, ammazzando senza pietà chi tentò di difendersi e solo l’intervento dei commandos inglesi impedì a chi si arrendeva, di essere passato a fil di spada dai furibondi guerriglieri della montagna. Alla fine della battaglia, quasi tutto il 23° volteggiatori risultò letteralmente “tagliato a pezzi” dai Calabresi. Se ne contarono 450 su 600, sparsi ovunque lungo le strade di Bagnara fra pozze di sangue misto a polvere e teste mozzate che erano rotolate dappertutto. Come contorno, il fumo puzzolente degli incendi: Bagnara bruciava e moriva fra cadaveri sparpagliati ovunque. Fu quando in lontananza s’udì una tromba che trasmetteva ordini al piccolo reparto di dragoni francesi che stava scendendo al galoppo dai Cappuccini, in soccorso del 23°, che i commandos e i Calabresi si ritirarono di corsa verso l’arenile, ove li attendevano le scialuppe del col. Robertson.

Ma la ritirata non avvenne in perfetta sincronizzazione: le squadre che erano rimaste alla Bajetta e all’attuale Rione Inglese e quelle che s’erano avventurate oltre il Cannito, impiegarono del tempo per raggiungere il posto d’imbarco e oltretutto, lo stesso imbarco non fu rapido a causa dei feriti trasportati a braccia o in barella, e per i prigionieri legati e dunque con movimenti impacciati. Mentre sopraggiungeva l’alba allora, la retroguardia di Castelluccio, formata da Calabresi, si dovette impegnare sulla spiaggia per ritardare l’avvicinamento francese che però non fu arrestato. Quando la cavalleria mostrò di voler caricare alla sciabola, Grant, rendendosi conto che i francesi avrebbero raggiunto la riva troppo presto e quindi avrebbero decimato la retroguardia di Castelluccio e crivellati di pallottole quanti stavano appena prendendo il largo sulle scialuppe, fece sbarcare la truppa e formare rapidamente un quadrato a due file, una inginocchiata e l’altra in piedi, con al centro i prigionieri. La cavalleria tentò di caricare il quadrato, sempre respinta dalle lunghe baionette inglesi e fatta oggetto di tiri micidiali di fucileria.

Il quadrato funzionò a meraviglia tanto che la cavalleria si mise più volte fuori tiro per organizzarsi, consentendo agli inglesi di spostarsi velocemente verso il Pizzolo, riformando di volta in volta i micidiali quadrati, e alla fine costoro riuscirono a guadagnare i foltissimi giardini di aranci e mandarini che cominciavano subito al di là della Fiumara ed entro i quali la cavalleria francese non poté manovrare. Raggiunsero così Scilla. Il massacro di Bagnara restò a lungo nella memoria dei locali, fu vantato ovunque dagli inglesi e subìto dai francesi in silenzio, forse in memoria di quegli oltre 400 commilitoni che, durante l’azione notturna, furono fatti a pezzi in un massacro che a Bagnara e non solo, non sarà né il primo né l’ultimo.

Precedentemente sulla medesima Piazza del Mercato avvenne nel 1799 un’orrenda carneficina operata dal brigante Giannazzo Calarco, che alla fine si fece esplodere nel suo pagliaro di Purello coinvolgendo la guardia civica di Bagnara che coraggiosamente lo aveva contrastato.8 8.- Bagnara 1807 – la battaglia dei Cappuccini Tornarono a fine 1807 di nuovo i Briganti a Bagnara, padroni del territorio dopo l’ennesima ritirata strategica francese. Nelle ispezioni e battute di rastrellamento alle quali sottoposero la Città, s’accorsero che nel convento dei Cappuccini era asserragliato un picchetto francese, probabilmente rimasto a retroguardia e in sorveglianza delle manovre nemiche. Il convento fu circondato e messo in assedio. I Francesi però riuscirono a fare passare una staffetta col compito di avvisare Seminara di quel che stava accadendo a Bagnara.

8 Oltre a Grant, il massacro di Bagnara fu raccontato al generale Smith in una lunga relazione ora in: omissis. Altre notizie sul

massacro di Bagnara del 1807 sono in: TITO PUNTILLO, La Bagnarota. La donna di Bagnara ricondotta dal mito alla realtà,

Archivio Storico Fotografico Bagnarese ed., Bagnara C. 2008, da pag. 88. Il saggio è scaricabile gratuitamente e stampabile.

L’episodio di Calarco è narrato con dovizia di particolari inediti in: TITO PUNTILLO, Bagnara 1799-1815. Patrioti e briganti durante l’occupazione francese, “Quaderni Bagnaresi”, anno I nr. 1 (giugno 2011), editi da Archivio Storico Fotografico Bagnarese, Bagnara C. 2011, da pg. 58. Il file è scaricabile gratuitamente e stampabile.

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Subito dopo, i Francesi valutarono che il sito ove s’erano ricoverati non offriva un’eccellente difesa, il rischio di restare tutti trucidati già al primo assalto degli Insorgenti, era praticamente certo. Dalla balza del Canalello i Briganti già sparavano sul Convento e avanzavano con prudenza fra la macchia della collina. Gli otto Francesi asserragliati nel Convento decisero allora una sortita disperata. Innestate le baionette si precipitarono fuori dall’edificio e attaccarono i Briganti corpo a corpo. Tre di loro perirono sotto le rasoiate dei Briganti, ma gli altri cinque raggiunsero, inseguiti inutilmente, l’Affacciata. Non solo: gli inseguitori si accorsero che un consistente nucleo di cavalleria si intravvedeva a distanza galoppare verso l’Affacciata. Bagnara stava per essere nuovamente attaccata dai Francesi! La notizia raggiunse Fica sulla Piazza del Mercato mentre questi stava organizzando un assembramento di “cappelli” ai quali il Brigante «voleva parlare». Tutta la Bagnara distinta e per bene, non fuggita a Messina, si ritrovò su quella Piazza, mentre nelle varie abitazioni i parenti di disperavano e pregavano. Sarebbe stata una strage inaudita ma la notizia del sopraggiungere della cavalleria francese, mise i Briganti in fuga. La caccia ai Briganti in Città e intorno alla campagna bagnarese, impegnò a lungo i Francesi, in questo supportati dal sindaco don Francesco Spina, gentiluomo bagnarese fra i più impegnati a favore della causa francese. Spina mise a disposizione degli ufficiali francesi il suo palazzo e i francesi lo supportarono in tutte le decisioni di governo della Città. I briganti che già avevano in odio la famiglia Spina a causa delle idee liberali che perseguiva senza tema, fremettero nel venire a conoscenza di questa alleanza e tuttavia a loro sempre sfuggiva don Francesco, il quale non appena i Francesi si muovevano fuori Bagnara, li seguiva passo passo. Ma durante una brutta sera, partiti i Francesi in ricognizione sui monti con al seguito don Francesco, i Briganti vennero da Scilla e in Paese, circondarono la casa di don Giuseppe Versace Spina, marito di donna Maria Giuseppina Spina, sorella di don Francesco. Don Giuseppe Versace, proprio per la parentela coi grandi Legittimisti borbonici, era fuggito a Messina già da tempo, rifiutandosi la moglie di volerlo seguire. L’abitazione fu data alla fiamme e la famiglia Spina si salvò fuggendo da una finestrella che dava sul giardino. Raggiunta la vineja deserta, si diedero a correre abbracciati l’un l’altra anche se la povera signora faceva fatica, essendo in stato interessante e con un bambino piccolo fra le braccia. I bagliori dell’incendio si videro anche a Messina e don Giuseppe Messina, munito di cannocchiale, poté verificare che si trattava proprio del suo palazzo. Il dolore fu lacerante, non conoscendo il destino della famiglia. La quale intanto, aiutata da alcuni paesani, trovò un rifugio ove nascondersi. I bagliori dell’incendio furono avvistati anche dalle pattuglie francesi che accorsero in Città, lasciata precipitosamente dai Briganti. La povera donna fu soccorsa e condotta in salvo a Palmi ove l’attendeva don Francesco. 9.- Bagnara 1809 – Firrindi e l’Orbo Malgrado le perlustrazioni e i pattugliamenti fossero frequenti, i Francesi non riuscirono a mettere sotto scacco i Briganti. Ebbero costoro sempre il soccorso del forte di Scilla e la conoscenza della Montagna di Solano, ma anche l’aiuto della marineria della costa. Firrindi, che si impose su Solano, scese frequentemente per conferire a Scilla o Favazzina con Fica e capitava che insieme traghettassero verso il Faro per ricevere istruzioni dagli Inglesi. Firrindi doveva la sua potenza a mezzo dell’alleanza con le squadre dell’Orbo, Antonio Musumeci, Brunazzo e Ciccone, tutti padroni delle rotte sul Canale e spietati pirati per i convogli borbonici. L’Orbo, essere nerboruto, fu certamente il più determinato e il più temuto. Una sera sulla spiaggia di Bagnara, verso Pietracanale, poco sorvegliata dai Francesi, stava sdraiato sulla spiaggia a fumare la sua pipa quando fu avvicinato da Firrindi, con sempre vicino il suo affezionatissimo cane, che con fare arrogante, lo incitò a varare la sua barca per portarlo al Faro. L’Orbo fece per protestare e si trovò la punta del coltello alla gola e così capì bene che coi Briganti della Montagna era meglio stare in campana. Il contrabbando avveniva in genere a mezzo del trasporto al Faro di capre, pecore, prodotti delle rasole e dei giardini. Gli inglesi pagavano profumatamente in monete d’argento e i guadagni si spartivano. Fu così che l’Orbo imparò a rispettare, anzi a supportare il contrabbando dei Briganti. La collaborazione si estese anche alle attività di Fica e col tempo, la base operativa si invertì: adesso i Briganti partivano da Messina, temendo molto le perlustrazioni dei Francesi che quando catturavano un brigante, lo fucilavano immediatamente. Anche per essere costretto alla condizione di rifugiato, Fica covava un odio verso i lealisti bagnaropti che col tempo divenne ossessione.

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Una notte che i Francesi lasciarono sguarnita Bagnara, Fica approdò alla spiaggia, raggiunto dai Briganti disseminati nei dintorni e la terribile comitiva, percorse la strade principali di Bagnara, quasi a voler “marcare” il territorio. Assetato di sangue, si recò nell’abitazione di donna Gaetana Savoja, la triste vedova del Notaio Lapiana che viveva insieme al figlio Giuseppe, azzoppato al tempo dell’esecuzione del Notaio. Donna Gaetana e il figlio, avevano deciso di non seguire i fratelli Domenico, Vincenzo, Pasquale e Giacinto Lapiana, rifugiatisi a Monteleone (Vibo V.), confidando di aver già dato quanto bastava alle voglie di violenza dei Briganti. Nei pressi dell’abitazione Savoja, Fica incrociò Giuseppe, che si avviava verso casa sostenuto dalle grucce. Gli si avvicinò e gli domandò da quanto tempo non si confessasse. Giuseppe gelò e Fica gli impose di inginocchiarsi al suo cospetto e simulando una confessione pubblica, lo “assolse” con una fucilata in pieno petto. Quindi sfoderò il rasoio e di netto gli mozzò il capo. Fica preso il trofeo per i capelli e sfondando la posta dell’abitazione, lo depose ai piedi della madre, intimandole la consegna di 200 ducati entro le ventiquattr’ore, pena la morte. La sua testa, le disse, sarebbe stata messa accanto a quella del figlio che nel frangente deponeva sul davanzale della finestra. Passarono le ore per la povera donna Gaetana, non consapevole che la scadenza era vicina. E in effetti le si presentò davanti Domenico Tripodi Oli, araldo di Fica. Donna Gaetana pagò. Qualche giorno appresso, si accese una furibonda lite fra Fica e Pisciallaro, il quale ritenne che fosse giunto il tempo per separare le competenze di comando: Pisciallaro voleva per sé Pellegrina e Ceramida, senza interferenze esterne. Insultato pesantemente nell’onore della moglie da Fica, Pisciallaro con ira irrefrenabile, gli sparò una fucilata che lo fulminò all’istante. Quindi, in una specie di delirante apoteosi, lo decapitò e gli mozzò le mani. Messo il trofeo (la testa era ancora intrecciata coi nastrini rossi) su una lunga pertica, lo condusse in processione per le vie della Città in segno di vendetta per l’onta subita. Cessata la lugubre processione, il capo di Fica fu deposto dentro una cesta e portato a Messina ove fu mostrato agli emigrati, dai Pisciallaro quali ricevette per ricompensa, molto denaro. Pisciallaro rientrò dunque a Bagnara e gettata la testa sulla strada, fu menata a calci fino al Cannito ove Vincenzo Solamo, detto il “Rozzo” lo spaccò a pietrate e ne mangiò il midollo, per vendicarsi delle tante offese ricevute. Con la morte di Fica e la fortificazione di Bagnara da parte dei Francesi, e dopo, con il sopravvento definitivo dei Borbonici e l’arrivo a Bagnara di Domenicantonio Savoja come Commissario, la Città poté respirare. I suoi abitanti, lentamente e con comprensibile soggezione, iniziarono a rientrare in una Città in parte incendiata, depredata, saccheggiata, violentata in tutte le sue strutture. Molti si adattarono a dormire a terra, sulla spiaggia, in attesa della ricostruzione delle case ma tutti e per un tempo infinito, non riuscirono a dimenticare la violenza alla quale fu sottoposto questo nostro Paese che dal 1783 e passando dal 1799, mai conobbe un attimo di pace e serenità. La Storia di Bagnara: non è solo storia di chiese, sacrestie e giaculatorie, né di feste di paese con bande musicali in concorrenza. È sempre stata purtroppo, storia di grande dolore e sofferenza, una volta per fatti di guerra entro i quali fu sempre vittima per la centralità e importanza del sito, una volta per le faide fra opposte fazioni di imprenditori e commercianti, una volta per catastrofi sismiche di inaudita violenza, una volta per la consistente ondata migratoria, soprattutto dopo la distruzione per epidemia, della fiorente attività sulle rasole. Ma alla fine, pur se fra immani fatiche e sacrifici, seppe sempre tornare a vivere e ad essere “la Signora” della bassa Calabria, forte della tradizione e del coraggio tramandato come indole, dagli avi nostri. Ma alla fine, quando si perde anche la “MEMORIA” di quel che fummo capaci di fare nel bene e nel male, si resta senza speranza e non resta che vivere alla giornata, raccattando dalla vita ciò che si può o che ci viene lasciato raccattare.

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Il testo del D’Hauteroche, per la parte riguardante Bagnara è il seguente: