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DI LORENZO, Gli strumenti musicali raffigurati nelle opere d'arte del Museo Campano di Capua: aggiunte e nuovi elementi Rivista di Terra di Lavoro - Bollettino on-line dell’Archivio di Stato di Caserta - Anno XV, n. 2 – ottobre 2020 - ISSN 2384-9290 20 PIETRO DI LORENZO GLI STRUMENTI MUSICALI RAFFIGURATI NELLE OPERE D'ARTE DEL MUSEO CAMPANO DI CAPUA: AGGIUNTE E NUOVI ELEMENTI 1 L’articolo propone riflessioni di iconografia musicale sulle alcune opere pittoriche del Museo Provinciale Campano di Capua. Si tratta di dipinti realizzati tra la seconda metà del XV secolo e la fine del XVIII che raffigurano strumenti e gesti musicali. Una delle opere richiede di essere nuovamente analizzata alla luce di nuovi documenti e notizie bibliografiche. Le altre sono in parte note agli storici dell’arte ma mai studiate dal punto di vista dell’iconografia musicale; una è finora del tutto ignorata 2 . Per collocare nel giusto contesto queste opere, presento paralleli con molte opere d’arte (dipinti e sculture) presenti a Napoli e nel resto del Meridione (per la gran parte anch’essi mai studiati dal punto di vista musicale). Laddove eventualmente presente, discuto e aggiorno la bibliografia di settore, specie per la viola da gamba e per gli strumenti composti: il “flauto a tamburo” o “flauto a una mano” e il buttafuoco (vottafuoco) / altobasso. Molteplici sono i punti di interesse emersi, a fianco a diversi dubbi irrisolti. 1. Lo stato dell’arte Il patrimonio culturale in provincia di Caserta è ricchissimo di archeologia, belle arti, paesaggio, storia, tradizioni immateriali ma è sorprendentemente povero di testimonianze musicali. La scarsa numerosità e l’assoluta marginalità dei “testimoni” storico-musicali veri e propri (gli spartiti) sopravvissuti nel Casertano spiegano lo stato arretrato della musicologia locale In effetti, in provincia i beni musicali sono persino meno frequenti di quelli storico- scientifici (già rari). Eppure (o forse proprio per questo) ad oggi si è solo agli inizi di una possibile ricostruzione della storia della musica in Terra di Lavoro. Infatti, un potenziale apparentemente così povero di risultati continua a tenere lontane le ricerche universitarie della musicologia, che, in genere, in Italia sono ancora troppo concentrate sulla produzione operistica (vastissima) e sull’analisi del repertorio. E la storia “ufficiale” della musica finora ha praticamente lavorato solo sulle biografie dei pochi musicisti (seppur celebri) nati nel nostro territorio (Durante, Cimarosa, Jommelli). A mio sommesso parere, si tratta di ricostruire un’altra storia capace di includere aspetti poco frequentati trascurati o del quasi ignorati da molta musicologia accademica: carte d’archivio di interesse musicale, spartiti, strumenti, prassi esecutive, committenti attivi sul territorio e, ovviamente, biografie dei musicisti e attività teatrali e spettacolari. Quindi, si tratta di affiancare alla storia maggiore una storia minore, fatta di dettagli, frammenti, notizie da fonti. La drammatica marginalità della ricerca musicologica a Caserta e in provincia è in sostanza similmente critica per tutte le testimonianze musicali. Qui provo a dare un ulteriore piccolo contributo limitatamente al campo delle immagini pittoriche di interesse musicale. Sono opere che ricostruiscono un panorama sonoro a volte piuttosto inusuale. 1 Si ringraziano il direttore del Museo Provinciale Campano di Capua, dott. Giovanni Solino, e il personale in servizio per la cortesia e l’assistenza fornita durante i sopralluoghi di studio ai dipinti della pinacoteca. 2 Lo spunto per riprendere e completare l’analisi dei dipinti “musicali” del Museo Campano è stato l’invito formulato a gennaio 2020 dal dott. Pasquale Iorio, presidente della “Rete Amici Museo Campano” per fornire un contributo per un volume collettaneo di celebrazione del Museo. Non era sua volontà chiedermi un saggio musicale ma l’ho convinto che questo settore era uno dei meno esplorati per il Museo. Il contributo è stato pubblicato a ottobre: P. DI LORENZO, Gli strumenti raffigurati nelle opere d’arte, in Il museo vivente delle madri, a cura di P. IORIO, Soveria Mannelli, 2020, pp.113 – 117. L’articolo è solo una sintesi minima del lavoro qui proposto, è privo delle immagini necessarie e, in molti casi, della citazione analitica delle fonti e della bibliografia e contiene qualche svista, perché non sono stato messo in condizione di effettuare l’opportuna revisione delle bozze.

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DI LORENZO, Gli strumenti musicali raffigurati nelle opere d'arte del Museo Campano di Capua: aggiunte e nuovi elementi

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PIETRO DI LORENZO GLI STRUMENTI MUSICALI RAFFIGURATI NELLE OPERE D'ARTE DEL MUSEO CAMPANO DI CAPUA: AGGIUNTE E NUOVI ELEMENTI1

L’articolo propone riflessioni di iconografia musicale sulle alcune opere pittoriche del Museo Provinciale Campano di Capua. Si tratta di dipinti realizzati tra la seconda metà del XV secolo e la fine del XVIII che raffigurano strumenti e gesti musicali. Una delle opere richiede di essere nuovamente analizzata alla luce di nuovi documenti e notizie bibliografiche. Le altre sono in parte note agli storici dell’arte ma mai studiate dal punto di vista dell’iconografia musicale; una è finora del tutto ignorata2.

Per collocare nel giusto contesto queste opere, presento paralleli con molte opere d’arte (dipinti e sculture) presenti a Napoli e nel resto del Meridione (per la gran parte anch’essi mai studiati dal punto di vista musicale). Laddove eventualmente presente, discuto e aggiorno la bibliografia di settore, specie per la viola da gamba e per gli strumenti composti: il “flauto a tamburo” o “flauto a una mano” e il buttafuoco (vottafuoco) / altobasso. Molteplici sono i punti di interesse emersi, a fianco a diversi dubbi irrisolti. 1. Lo stato dell’arte

Il patrimonio culturale in provincia di Caserta è ricchissimo di archeologia, belle arti, paesaggio, storia, tradizioni immateriali ma è sorprendentemente povero di testimonianze musicali. La scarsa numerosità e l’assoluta marginalità dei “testimoni” storico-musicali veri e propri (gli spartiti) sopravvissuti nel Casertano spiegano lo stato arretrato della musicologia locale

In effetti, in provincia i beni musicali sono persino meno frequenti di quelli storico-scientifici (già rari). Eppure (o forse proprio per questo) ad oggi si è solo agli inizi di una possibile ricostruzione della storia della musica in Terra di Lavoro. Infatti, un potenziale apparentemente così povero di risultati continua a tenere lontane le ricerche universitarie della musicologia, che, in genere, in Italia sono ancora troppo concentrate sulla produzione operistica (vastissima) e sull’analisi del repertorio. E la storia “ufficiale” della musica finora ha praticamente lavorato solo sulle biografie dei pochi musicisti (seppur celebri) nati nel nostro territorio (Durante, Cimarosa, Jommelli).

A mio sommesso parere, si tratta di ricostruire un’altra storia capace di includere aspetti poco frequentati trascurati o del quasi ignorati da molta musicologia accademica: carte d’archivio di interesse musicale, spartiti, strumenti, prassi esecutive, committenti attivi sul territorio e, ovviamente, biografie dei musicisti e attività teatrali e spettacolari. Quindi, si tratta di affiancare alla storia maggiore una storia minore, fatta di dettagli, frammenti, notizie da fonti. La drammatica marginalità della ricerca musicologica a Caserta e in provincia è in sostanza similmente critica per tutte le testimonianze musicali. Qui provo a dare un ulteriore piccolo contributo limitatamente al campo delle immagini pittoriche di interesse musicale. Sono opere che ricostruiscono un panorama sonoro a volte piuttosto inusuale. 1 Si ringraziano il direttore del Museo Provinciale Campano di Capua, dott. Giovanni Solino, e il personale in servizio per la cortesia e l’assistenza fornita durante i sopralluoghi di studio ai dipinti della pinacoteca. 2 Lo spunto per riprendere e completare l’analisi dei dipinti “musicali” del Museo Campano è stato l’invito formulato a gennaio 2020 dal dott. Pasquale Iorio, presidente della “Rete Amici Museo Campano” per fornire un contributo per un volume collettaneo di celebrazione del Museo. Non era sua volontà chiedermi un saggio musicale ma l’ho convinto che questo settore era uno dei meno esplorati per il Museo. Il contributo è stato pubblicato a ottobre: P. DI LORENZO, Gli strumenti raffigurati nelle opere d’arte, in Il museo vivente delle madri, a cura di P. IORIO, Soveria Mannelli, 2020, pp.113 – 117. L’articolo è solo una sintesi minima del lavoro qui proposto, è privo delle immagini necessarie e, in molti casi, della citazione analitica delle fonti e della bibliografia e contiene qualche svista, perché non sono stato messo in condizione di effettuare l’opportuna revisione delle bozze.

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2. Il patrimonio musicale del Museo Campano di Capua Dopo la Reggia di Caserta, forse il Museo Campano è il luogo più “musicale” della nostra

provincia. Infatti, consente un viaggio alla scoperta di qualche interessante dettaglio della civiltà musicale dei nostri antenati, dalla fine del Medioevo alle soglie dell’Ottocento. Un viaggio nello spazio più esteso degli attuali confini provinciali perché il Museo raccolse testimonianze da territori oggi in Provincia di Napoli (e qui ci interesserà Nola), di Latina, di Frosinone, di Isernia, di Campobasso e di Benevento.

Per quanto ne sappia, non ci sono strumenti musicali conservati nel Museo tranne i due frammenti di flauto in osso esposti nella vetrina ottagonale della sala 19, purtroppo privi di datazione e di luogo di ritrovamento (sono esposti senza alcuna didascalia).

Figura 1. Frammenti di flauti in osso, datazione e provenienza ignote.

Però, la biblioteca-archivio del Museo conserva qualche cimelio e pochi spartiti del celebre Giuseppe Martucci (Capua, 1856 – Napoli, 1909) e di Andrea De Simone (Capua, 1807 – ivi, 1874). Decisamente di maggior interesse è un processionale manoscritto del 1444-1447, finora trascurato dagli studi specialistici e di cui sto affrontando lo studio.

Ma soprattutto il Museo offre un patrimonio di opere d’arte in cui la musica appare ripresa in strumenti, gesti e occasioni musicali raffigurate. Alcuni di questi dipinti impongono la loro essenza sonora anche al visitatore più distratto, altri relegano la presenza musicale in particolari e dettagli delle scene decisamente più marginali e difficili da cogliere, altri ancora mostrano strumenti scomparsi da secoli che quindi sono “muti” per gli spettatori in quanto non ne riconoscono ruolo e suono. Le riflessioni su una di queste opere sono già state pubblicate negli anni scorsi: per essa qui mi limiterò a richiamare gli elementi essenziali e le novità emerse, rimandando per il resto alla bibliografia.

Fondamentale per la storia dei dipinti è il lavoro cruciale di Izzo che ricostruisce le vicende di costituzione del patrimonio e gli allestimenti originari del Museo Campano sulla scorta dei documenti di archivio3. 3. Angeli cantori e rotoli musicali nello stendardo della “Madonna col Bambino e Santi”

I gesti musicali dei due angeli cantori dello stendardo processionale raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Francesco d’Assisi, Giovanni Battista, Girolamo e Antonio da Padova, con coro d’angeli e Annunciazione sono tra i più misteriosi da decifrare4.

3 M. C. IZZO, La Pinacoteca del Museo Provinciale Campano dalle origini ad oggi: la fondazione, le donazioni, gli acquisti, in Il Museo campano di Capua: storia di un'istituzione e delle sue raccolte, a cura di R. CIOFFI – N. BARRELLA, Napoli, 2009, p. 191-252.

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L’opera è datata al 1449 grazie all’iscrizione dipinta, restaurata ma ritenuta affidabile da Leone de Castris5. L’iscrizione riferisce la committenza dell’opera a Gabriele Mastrilli che fu consigliere di Alfonso (da identificare in Alfonso I d’Aragona). Galeone6 data l’opera genericamente «intorno alla prima metà del Quattrocento», la dice proveniente dai Camaldoli di Nola (senza citare la fonte della notizia) e tralascia di riportare la committenza Mastrilli. In effetti, la provenienza dai Camaldoli di Nola (come deposito del Demanio) era già stata fissata da Izzo nella «Tabella riepilogativa delle provenienze ed attribuzioni delle opere»7.

Izzo specifica che si tratta delle attribuzioni che ella ritiene certe ma che la raccolta del museo «in gran parte necessita ancora di uno studio di revisione stilistico ed attributivo, da rimandare ad altra sede.»8. Nella tabella sono indicati nell’ordine inventario, ubicazione (da intendersi attuale), autore, soggetto, supporto, misure (da intendersi in cm), provenienza e note. Per la nostra opera risulta «13. Pinacoteca, J. Baço, Madonna in trono e santi, olio su tela, 272 x 200, Camaldoli di Nola, deposito del Demanio, app. 3.». Una lettera autografa di Gonsalvo Carelli «professore e consigliere del Real Istituto di Belle Arti di Napoli e dell’insigne Accademia di San Luca di Roma» riporta l’elenco delle opere del museo dopo «aver osservato con ogni perizia artistica e scienza di antiquario»9. La nostra tela è descritta come «9. Il quadro sopra tela rappresentante la Madonna con San Giovanni Battista, San Girolamo ed una turba di Santi, è copia di un quadro del Tesauro», attribuzione sicuramente non coerente con la datazione, se ritenuta opera di Agostino Tesauro (noto tra il 1501 e il 1541)10.

L’Inventario iniziato nel 1893, conservato nell’Archivio di Stato di Caserta11, identifica come San Bonaventura il santo a fianco a sant’Antonio (da Padova), contro l’evidenza. Infatti, si può facilmente riconoscere che si tratta di San Girolamo raffigurato secondo l’iconografia più tradizionale, con abito e cappello cardinalizio, libro e leone ai piedi. L’errore nell’identificazione dei santi appare anche nell’elenco del 1905 dove lo stendardo è citato come «Madonna della rosa con i santi Giovanni Battista, Francesco, Bonaventura e Antonio proveniente dal monastero dei Camaldoli di Nola” ed esposto nella cosiddetta “alcova” del palazzo Antignano»12.

Questa svista così evidente apre la possibilità che sia stata errata anche la trascrizione della provenienza nello stilare l’elenco riportato nel documento. E, in effetti, sempre Izzo nello stesso lavoro, trascrive in appendice la comunicazione di Salazaro pubblicata negli “Atti” del 1872 che propone il trasferimento non dai Camaldoli ma da Sant’Angelo in Palco di Nola di una “Vergine seduta con in grembo Gesù e circondata da più santi, opera del secolo XV”13.

4 Per i dettagli e i riferimenti qui omessi: P. DI LORENZO, Gli strumenti musicali raffigurati nelle opere d’arte in Terra di Lavoro: il primo Rinascimento (metà sec. XV – primi sec. XVI), «Rivista di Terra di Lavoro», Anno III, n° 2, ottobre 2008, pp. 23-38, a pp. 26 – 30. Altri miei studi sull’iconografia musicale in provincia di Caserta sono accessibili gratuitamente su https://independent.academia.edu/pietrodilorenzo. 5 Cfr. P. L. LEONE SE CASTRIS, Quattrocento aragonese. La pittura a Napoli al tempo di Alfonso e Ferrante d’Aragona, Napoli, 1997, pp. 22, 25 e 42. Nella nota corrispondente al testo sono segnalati i riferimenti bibliografici seguenti: F. BOLOGNA, Napoli e Le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli, 1977, p. 50, nota 11; F. SRICCHIA SANTORO, Antonello e l’Europa, Milano, 1986, p. 33, nota 13. 6 Cfr. A. GALEONE, Guida alle collezioni del museo Campano. Pittura e scultura dal XIII al XX secolo, Santa Maria Capua Vetere, 2018, p. 17. 7 IZZO, cit., p. 249 in cui riassume in modo sintetico i dati frutto della ricerca. 8 ID., p. 249. 9 ID., p. 232 – 233. 10 Cfr. F. BIFERALI, Tesauro Agostino, in Dizionario Biografico degli Italiani (nel seguito DBI), v. 95, Roma, 2019, edizione on-line, www.treccani.it/enciclopedia, alla voce (consultazione 20/02/2020). 11 Provenienza e committenza sono dichiarati in IZZO, cit., p. 208 e p. 243, che trascrive il documento di archivio conservato in ARCHIVIO DI STATO DI CASERTA (ASCE nel seguito), Amministrazione provinciale, 17 nella descrizione riportata al n° 122 dell’Inventario generale di tutti gli oggetti che si conservano nel Museo Campano diviso nei seguenti cataloghi. 12 IZZO, cit., p. 207. 13 IZZO, cit., p. 213, da Atti della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti di Antichità e Belle Arti nella Provincia di Terra di Lavoro, III, 1872, p. 14, tornata del 14 marzo 1872.

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In ogni caso, la provenienza è da confermarsi dal convento francescano di Minori Osservanti di Sant’Angelo a Palco in Nola. Infatti, la presenza dei santi Francesco e Antonio è del tutto naturale in un contesto francescano, mentre è poco coerente per uno camaldolese (benedettino). Inoltre, Gabriele Mastrilli commissionò la tribuna e un dipinto dell’altare maggiore della chiesa di Sant’Angelo14. Di più: mi sembra che alcuni degli affreschi rinascimentali del refettorio del convento francescano nolano abbiano punti di tangenza con il nostro stendardo. Però, lo stemma posto al centro della fascia inferiore del nostro dipinto replica la geometria di quello noto per i Mastrilli (una banda su campo) ma non gli smalti cioè i colori (qui azzurro su campo rosso invece che su campo oro).

Figura 2. Lo stendardo “Mastrilli” del Museo Provinciale Campano di Capua (1449).

14 G. REMONDINI, Della nolana ecclesiastica storia, Napoli, 1757, v. 3, pp. 194 – 195.

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Gli interessi musicali nel dipinto sono molteplici, alcuni sono stati già da me evidenziati15. Il pittore sceglie di dipingere le bocche degli angeli appena aperte: ciò potrebbe indiziare una emissione sonora più delicata e dolce, rispetto a quella di solito documentata all’epoca (a bocca spalancata). Si notano due manoscritti musicali tra le mani dei due angeli prossimi alla Vergine Maria. Mostrano due brani in notazione quadrata mensurale su pentagramma (quindi parti di polifonia, non di canto liturgico monodico), perfettamente coerenti con la datazione del dipinto. A sinistra (per chi guarda) è un O gloriosa Domina (testo di un responsorio e di un inno alla Vergine), a destra è l’incipit del Magnificat.

Figura 3. Particolari musicali dello stendardo “Mastrilli”, Capua, Museo Campano (1449): a sinistra, angelo cantore col rotolo manoscritto del O gloriosa domina, a destra, angelo col rotolo manoscritto del Magnificat.

La singolarità della rappresentazione è duplice. Innanzitutto gli spartiti sono rotoli e non

fogli o libri, in ossequio ad una tradizione che sembra sia stata mutuata dall’Oriente bizantino16. Inoltre, testo e musica sono capovolti per gli angeli che leggono ma diritti e visibili per chi osserva il dipinto. Volontà della committenza o scelta dell’artista per rendere riconoscibili le preghiere musicali intonate? Casuale invenzione creativa del pittore o straordinario recupero della tradizione del rotolo dell’exultet di cui proprio nel Museo Diocesano di Capua c’è un prezioso esemplare del 1075 – 109917? 2. Il coro di angeli musicanti nella Dormitio Virginis dell’ambito di Criscuolo

Il dipinto raffigura una “Dormizione della Vergine” divisa in tre scene: la Vergine morta, la sua assunzione al cielo e la sua incoronazione. Questo schema compositivo tripartito forse fu introdotto in epoca tardogotica: la più antica rappresentazione che io conosca è quella di Perrinetto

15 DI LORENZO, Gli strumenti raffigurati …il primo Rinascimento, cit., p. 28 – 30. 16 Sui rotoli liturgici (musicali e non) nel medioevo, si veda: T. F. KELLY, The role of the scroll. An illustrated introduction to scrolls in the Middle Ages, New York, 2019. 17 Sull’exultet capuano si vedano: T. F. KELLY, The Exultet in Southern Italy, Oxford, 1996, pp. 52 (nota 48), p. 142, pp. 160 – 161, p. 198; G. OROFINO, Exultet di Capua, in Exultet: rotoli liturgici del medioevo meridionale, a cura di G. CAVALLO, Roma, 1994, pp. 291 – 293.

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da Benevento18 a Napoli, San Giovanni a Carbonara, cappella Caracciolo del Sole. L’affresco affianca l’Incoronazione della Vergine di Leonardo da Besozzo ed è datato tra il 1440 e il 1460. Sul territorio casertano, coeva o forse precedente è la versione dell’anonimo maestro di Sant’Angelo d’Alife19, già proposto proprio come intervento di bottega di Perrinetto20.

Figura 4. Ambito di G. F. Criscuolo, Dormizione della Vergine (1530 – 1540) con il coro angelico.

18 Cfr. L. MOCCIOLA, Perrinetto di Maffeo da Benevento, in DBI, Roma, 2015, ed. on-line, alla voce (ultima consultazione 08/10/2019), con bibliografia complessiva sul pittore. 19 Cfr. P. DI LORENZO, Gli strumenti musicali raffigurati nelle opere d’arte in Terra di Lavoro: il tardogotico e il Rinascimento del Quattrocento (sec. XV), «Rivista di Terra di Lavoro», Anno III, n° 1, aprile 2008, pp. 1 – 20, a p. 10 - 20. 20 Cfr. F. ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia Meridionale, Il Sud Angioino e Aragonese, Roma, 1998, pp. 149 – 150 che dà per certe le storie dei Sant’Antonio abate e alla bottega il resto degli affreschi.

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Il soggetto fu poi ampiamente frequentato in area napoletana tra gli anni 1480 e 1530-40, da artisti “indigeni” e “forestieri”. Si vedano, per esempio, le opere seguenti legate allo stesso tema devozionale dell’Assunzione di Maria (con o senza la Dormitio e l’Incoronazione): Riccardo Quartararo, Dormitio Virginis di Napoli, Museo di Capodimonte (in deposito da Torre Annunziata, Chiesa dello Spirito Santo) del 1491-149221; Cristoforo Scacco, Incoronazione della Vergine e i santi Marco e Giuliano, Museo di Capodimonte (da Salerno, Chiesa della Maddalena) da datarsi tra il 1494 e il 150022; Anonimo, Transito della Vergine, Napoli, San Pietro Martire, del 1501, che tradizionalmente (ma in modo errato, come attestano studi recenti sul pittore) era data a Silvestro Buono23; Pietro Perugino, Assunzione, Napoli, Duomo, transetto destro (originariamente sull’altare maggiore), su committenza del card. Oliviero Carafa, 1502 – 150424; Alessandro Buono, Dormitio Virginis, Napoli, Museo di Capodimonte (da Santa Maria dei Pignatelli di Napoli), intorno al 150525; Pinturicchio e bottega, Assunzione, Napoli, Museo di Capodimonte (da Santa Maria di Monteoliveto detta Sant’Anna dei Lombardi, cappella Tolosa) su committenza dell’omonimo banchiere Paolo, probabilmente dopo il 150826; Dormitio Virginis, Napoli, San Gennaro al Vomero (ma proveniente da Santa Patrizia), datata al 150827; Assunzione della Vergine di Faffeo e bottega della Pinacoteca Provinciale di Salerno datata 1500-152428; Pedro Machuca, Morte e Assunzione della Vergine, Napoli, Museo di Capodimonte (quasi certamente realizzata a Roma, acquistata per il Museo nel 1988 ma che ben documenta l’attività del pittore a Napoli tra il 1510 e il 1519)29. L’elenco è significativo per chi vorrà proseguire gli studi perché si tratta di opere mai studiate dal punto di vista musicale.

Uno schema simile a quello dell’Assunzione di Maria fu impiegato anche per soggetti cristologici. Ne è esempio la tavola di Anonimo meridionale del tardo sec. XV, Ascensione di Cristo con i santi Sebastiano e Nicola, in Napoli, Chiesa di Santa Maria di Monteoliveto detta Sant’Anna dei Lombardi, cappella Piccolomini30.

21 Cfr. A. DENTAMARO, Quartararo Riccardo, in DBI, Roma, 2016, edizione on-line, alla voce (ultima consultazione 28/05/2020). 22 Cfr. P. LEONE DE CASTRIS, 44. Incoronazione della Vergine e i santi Marco e Giuliano, in Museo e gallerie nazionali di Capodimonte. Dipinti dal XIII al XIV secolo. Le collezioni borboniche e post-unitarie, Napoli, 1999 pp. 77 – 79. 23 Cfr. L. CATALANI, Le chiese di Napoli, v. 1, Napoli, 1845, p. 162 che in nota riporta come fonte De Dominici. Per una recente riorganizzazione sintetica della vicenda biografica e pittorica di Silvestro Buono si veda A. ZEZZA, La data della “Pietà” dei Cappuccini di Avellino e un riesame della cronologia di Silvestro Buono, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie IV, 2000, quaderni 1-2, pp. 191 – 200. 24 Cfr. F. ABBATE, Storia dell’Arte nell’Italia Meridionale. 3. Il Cinquecento, Roma, 2001, p. 10. 25 Cfr. P. LEONE DE CASTRIS, 19. Transito della Vergine, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 50 – 51. 26 Cfr. P. LEONE DE CASTRIS, 38. Assunzione della Vergine, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 72 – 73. 27 Cfr. M. P. DI DARIO GUIDA, Svolgimenti e collusioni sull'asse Roma-Napoli nella pittura tra Quattro e Cinquecento, in Napoli, l'Europa: ricerche di storia dell'arte in onore di Ferdinando Bologna, a cura di F. ABBATE – F. SRICCHIA

SANTORO, Catanzaro, 1995, pp. 127 – 135, a p. 131. 28 Cfr. M. A. PAVONE, Assunzione della Vergine, in Pinacoteca provinciale di Salerno. I dipinti dal Quattrocento al Settecento, a cura di M. A. PAVONE – M. ROMITO, Salerno, 2001, pp. 22 – 25, in cui nota dettagli che sembrano dipendere da opere di Perugino (la tavola del Duomo di Napoli, 1502-1054) e di Giannicola di Paolo a Perugia (1506-1507) e influenze dallo stile di Pinturicchio. 29 Cfr. P. L DE CASTRIS, Morte e assunzione della Vergine, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 168 – 170. 30 Cfr. G. TOSCANO, Francesco da Tolentino e Andrea da Salerno a Nola. Sulla pittura del primo Cinquecento a Napoli e nel Viceregno, Sorrento 1992, p. 17 e fig. 12, che richiama l’attribuzione data da F. Bologna nel 1977 che ricusò la precedente attribuzione a Quartararo data in A. DE BOSQUE, Artistes italiens es Eespagne du XIVème siècle aux Rois catholiques. Editions du temps, Paris, 1965, p. 219. Tarallo (cfr. M. TARALLO, Santa Maria di Monteoliveto a Napoli, dalla fondazione (1411) alla soppressione monastica: topografia e allestimenti liturgici¸ tesi di dottorato, relatore F. CAGLIOTI, Università degli Studi di Napoli, 2014) riporta una attribuzione storica, anche questa da rifiutare (essendo Silvestro Buono attestato nella seconda metà del XVI secolo, cfr. P. L. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli, 1540 – 1573. Fasto e devozione, Napoli, 1996, p. 241 e ss.). In una scheda di un inventario manoscritto del 1876 (BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI (BNNA nel seguito), Manoscritti e rari, ms. Prov. 36, “Inventario della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, Napoli 1876”) che reca «[46v] 14aCappella, Piccolomini / parete a destra / Legno / L’Ascensione con San Sebastiano e San Nicola di Bari / 2x2.90 / Silvestro Buono XVI [secolo] Osservazioni. Questo

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Nel dipinto qui in esame gli angeli musici sono disposti in modo da riempire gli spazi laterali delle due scene del registro superiore della composizione. Essi si collocano intorno alle figure celesti e formano la gioiosa corte sonora di Maria regina, replicando in ambito sacro un immaginario collettivo culturale profano e proponendo una materializzazione della armonia cosmica31. Inoltre, le due scene celesti mostrano i personaggi in scala decisamente ridotta rispetto a quelli terrestri. Ciò sembra delineare una scelta compositiva più prossima a certe forme proprie della devozione popolare piuttosto che una riflessione prospettico spaziale nell’organizzazione delle figure.

Figura 5. Coro angelico, particolare di Dormitio Virginis (1530 – 1540), ambito di G. F. Criscuolo.

La tavola giunse nel Museo probabilmente da una chiesa di cui ad oggi è non possibile

precisare nome e ubicazione perché non riportato nelle carte d’archivio32. L’opera fu così descritta da Spinosa33 che la attribuì alla bottega di Criscuolo:

«Modesta la presenza di dipinti cinquecenteschi. Accanto a due tavole con la Natività e la Morte della Vergine – la prima da attribuirsi ad un anonimo maestro attento ai modi dello Pseudo Bramantino attraverso il filtro delle esperienze di Andrea da Salerno; la seconda, guastata dal modesto restauro conservativo, assegnabile ad un pittore assi vicino a Giovanni Filippo Criscuolo, …».

trittico è considerato come l’opera più stupenda di Silvestro Buono» (TARALLO, cit., p. 527). L’attribuzione insostenibile a Buono è ribadita in P. E. SACCHI, Napoli e contorni, Milano, 1871, p. 25. 31 Per una bibliografia recente su questi punti e per uno sguardo in prospettiva locale si vedano: A. DE CAROLIS – P. DI

LORENZO, Gli strumenti musicali raffigurati nelle opere d’arte in Terra di Lavoro: il Medioevo romanico e gotico (fine sec. XI – metà sec. XIV), «Rivista di Terra di Lavoro», anno II, n° 3, 2007, p. 35; P. DI LORENZO, Aggiunte e precisazioni al catalogo dell'iconografia musicale della Diocesi di Caserta, «Rivista di Terra di Lavoro», Anno XI, n° 1, aprile 2016, pp. 25-53, a p. 30; H. GOO, L'iconografia musicale nella Madonna dell'Orchestra di Giovanni Boccati: un'esperienza sensoriale dell'armonia cosmica, in L'arte dei suoni dipinti. Il concerto angelico e la sua iconografia tra il XV e il XVII secolo, a cura di B. ANIELLO, Trapani, 2018, pp. 13 – 28; E. SIDONI, L'ascensione di Cristo e gli angeli musicanti di Melozzo da Forlì: una rilettura alla luce dell'iconografia musicale, in L’arte dei suoni dipinti…, cit., pp. 29 – 50. 32 Cfr. IZZO, cit., p. 170. 33 N. SPINOSA, La Quadreria, in Il Museo Provinciale Campano di Capua, «La provincia di Terra di Lavoro», XI, dicembre 1974, Caserta, p. 133 e ss.

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Marotta34 confermò che la tavola appartiene certamente ad un «… pittore della cerchia di Giovan Filippo Criscuolo» in quanto notò che «Il dipinto, infatti, si distacca di poco, nell’organizzazione complessiva degli elementi e dei valori, dalla peculiare fisionomia della Dormitio eseguita nel 1531 dal Criscuolo per il polittico dell’Annunziata di Gaeta».

Giovan Filippo Criscuolo si formò presso Andrea da Salerno e fu attivo al suo seguito forse dagli anni ’20 del Cinquecento. La prima opera firmata ad oggi nota di Criscuolo in proprio è datata al 1531 (il grande ciclo della cosiddetta “Grotta d’Oro” nell’Annunziata di Gaeta)35. E, sempre in quel territorio (all’epoca e fino al 1927 parte integrante di Terra di Lavoro) e precisamente nella chiesa dell’Assunta (Collegiata) di Fondi si conserva una Assumptio Virginis del 1534 pure data a Criscuolo36.

Il dipinto capuano appare irrimediabilmente danneggiato37 e ciò rende difficoltosa e in qualche caso impossibile l’osservazione dei dettagli. In particolare, mancano quelli relativi ai numerosi strumenti musicali raffigurati. Infatti, di molti di essi resta appena leggibile il solo profilo, privo di ogni dettaglio.

Si riconoscono ben dodici strumenti. Da alto sinistra: arpa, organo portativo, liuto, coppia di cimbali, triangolo, viola da gamba, flauto (a tre buchi) e tamburo, viola da braccio, altro liuto, buttafuoco / vottafuoco / altobasso (flauto a 3 buchi e cordofono), tromba retta e, probabilmente, un flauto o un piffero.

Insomma, quasi una rassegna enciclopedica degli strumenti in uso nel Rinascimento, disposti in “cori” (cioè gruppi) distinti ma non separati come vorrebbe la prassi dell’epoca. La cappella “alta” (così detta perché composta da strumenti molto sonori) solitamente comprendeva strumenti a fiato ad ancia e ottoni e percussioni; nel nostro dipinto attornia gioiosamente l’Assunta, La cappella “bassa” (dalla sonorità decisamente più debole) era composta da cordofoni, fiati legni e organo più vicini alla “corte celeste”; nel nostro dipinto allieta Dio Padre, Cristo e la Vergine “regina”.

2.1 Arpa

L’arpa raffigurata ha una struttura ancora tipicamente gotica. Ciò non deve sorprendere perché arpe di questa tipologia e forma sono documentate per quasi tutto il secolo 16° nella pittura campana.

Lo strumento è di piccole dimensioni e ha una cassa anch’essa di limitate dimensioni per spessore e profondità, come tipico negli strumenti del Quattrocento. Particolare decisamente non gotico è la forma della mensola che è quasi rettilinea e incontra ad angolo retto la cassa. Come in diversi altri esemplari del periodo e successivi, le corde sono distese tra la mensola e l’elemento obliquo. Ma, a differenza di quanto consueto, l’elemento obliquo non è una cassa di risonanza ma sembra una sorta di colonna con doppia curvatura. Ciò solleva questioni organologiche cruciali sia di resistenza strutturale dello strumento sia di sonorità sui quali rimando all’arpa descritta nel paragrafo 5.

Una simile disposizione problematica delle corde appare anche in dipinti realizzati negli anni precedenti: trittico dell’Incoronazione della Vergine di Scacco oggi a Capodimonte38; polittico

34 A. MAROTTA, Museo Provinciale Campano. Restauro di dipinti e sculture, s.l., s.d. [ma probabilmente 1991]. 35 Cfr. F. BOLOGNA, Roviale spagnolo e la pittura napoletana del Cinquecento, Napoli, 1958, p. 80 e ss.; F. ABBATE –

G. PREVITALI, La pittura napoletana, in Storia di Napoli, v. V/2, Napoli - Cava dei Tirreni, 1972, pp. 829 - 891, pp. 840; A. D’ANIELLO, Giovan Filippo Criscuolo in Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, a cura di G. PREVITALI, Firenze, 1986, pp. 229 – 233; LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento … Fasto e devozione, cit., pp. 37 – 44. 36 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento … Fasto e devozione, cit., pp. 37 e 41. 37 MAROTTA, cit., che riferisce di guasti causati da un modesto restauro degli anni Cinquanta in parte recuperati da un restauro della fine degli anni 1980. 38 Cfr. P. L. LEONE DE CASTRIS, Incoronazione della Vergine e i Santi Marco e Giuliano, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 77 – 79, a p. 79.

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di San Gennaro al Vomero di Napoli, del 150839; Natività del polittico di Fernandez oggi a Capodimonte datato tra 1509 e 151040; Assunzione della Vergine di Faffeo e bottega della Pinacoteca Provinciale di Salerno datata al 1500-152441). L’unico esempio coevo a me noto è proprio nell’Assunzione di Criscuolo a Fondi. Esemplari molto simili si ritrovano in dipinti realizzati per tutto il secolo successivo: Madonna col Bambino e i santi Eraclio e Paride in Pietravairano, chiesa di Sant’Eraclio, forse del 158042; Madonna del Rosario del 1589 di Aert Mytens in San Domenico di Benevento43, Benevento; nella Visione di Sant’Orsola di Donato Piperno del 1590/1595 in Benevento, Museo del Sannio44; nella Natività coi Santi Carlo Borromeo, Tommaso d’Aquino e Girolamo (?) in Baronissi, convento della Trinità, Natività, forse 1590 – 1610; anonimo degli affreschi di Campagna, ex convento degli Agostiniani oggi municipio, databili probabilmente a poco prima del 161845.

Figura 6. Arpa e organo portativo nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano (1530-40).

La colonna ha una doppia lieve curvatura e si innesta nella cassa appena sopra una sorta di

piede. Non è visibile alcun altro dettaglio: non si riesce neppure a stimare il numero delle corde (se ne intravvedono solo due), non sono accertabili la disposizione dei piroli e gli eventuali fori nella 39 Proveniente da Santa Patrizia, cfr. DI DARIO GUIDA, Svolgimenti e collusioni …, cit., pp. 127 – 135, a p. 131. 40 Già in Napoli, Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, cfr. P. L DE CASTRIS, Pedro Fernandez: adorazione dei Magi, Visitazione e Natività con predella, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 146 – 147; P. GIUSTI – P. L. LEONE

DE CASTRIS, Pittura del cinquecento a Napoli, 1510 – 1540. Forastieri e regnicoli, Napoli, 1988, p. 18. 41 In questo caso solo le corde più gravi si agganciano alla colonna; per il dipinto: cfr. PAVONE, Assunzione della Vergine, in Pinacoteca provinciale di Salerno, cit., pp. 22 – 25, in cui nota dettagli che sembrano dipendere da opere di Perugino (la tavola del Duomo di Napoli, 1502-1054) e di Giannicola di Paolo a Perugia (1506-1507) e influenze dallo stile di Pinturicchio. 42 Attribuita a Oratio Rossi, pittore di Pietravairano, e datata alla metà del XVI secolo, cfr. G. ANGELONE – G. VITAGLIANO, L’altra Sant’Eraclio. La chiesa collegiata di Pietravairano tra storia e restauri, Formia, 2010, p. 9 e immagini a p. 59 – 62, ma probabilmente da collocarsi almeno intorno agli anni 1580. 43 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento, 1573 – 1606. L’ultima maniera, Napoli, 1991, pp. 86 – 88, dalla forma davvero bizzarra. 44 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… Fasto e devozione, cit., p. 283, pp. 320– 322, e p. 325. E’ errata la segnalazione di T. CHIRICO, La musica a Benevento nell'Ottocento, in Accademie e Società Filarmoniche in Italia. Studi e ricerche, a cura di A. CARLINI, Trento, 2004, pp. 175 - 275, a p. 175 – 176, che attribuisce questa tavola e l’altra del Museo del Sannio ad uno sconosciuto Niccolò Piperno e che comunque non offre alcuna analisi né degli strumenti musicali raffigurati (solo elencati) né degli aspetti artistici. 45 Cfr. A. V. RIVELLI, Memorie storiche della Città di Campagna, Salerno, 1894, libro I, p. 234; M. R. PESSOLANO, Immagine e storia di Campagna centro minore meridionale, Napoli, 1985, p. 217 riporta il testo di Guerrieri relativamente i lavori del chiostro già finiti nel 1616 anche per le decorazioni (G. B. GUERRIERI, Antichità, origine et edificazione con le più degne cose da notarsi tanto dentro come nel tenimento della Città di Campagna con brevità raccolte dal cittadino amatore delle scienza Giovan Donato Guerrieri, trascrizione del manoscritto del 1616 a cura i Gibboni, s.l., s.d., p. 15).

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cassa, forse a causa del maldestro restauro degli anni Cinquanta. L’arpetta sembra galleggiare nel vuoto, essendo piuttosto inconsistente il contatto solo apparente della colonna dello strumento con la parte sinistra del petto dell’angelo. Le mani sono disposte a pizzicare le corde, con le dita distese in un gesto esecutivo plausibile, nonostante l’assenza delle corde.

Arpe del tipo raffigurato nell’opera in esame appaiono con continuità dalla metà del Quattrocento ai primi decenni del Cinquecento46 in molti dipinti documentati o prodotti in ambito campano. Il nostro strumento risulta comparabile per dimensioni con quelli raffigurati: nell’Incoronazione della Vergine del Maestro dell’Incoronazione della Vergine del 147047 nel Museo Diocesano di Salerno; nel Presepe del 1478 di Pietro e Giovanni Alamanno realizzato per la chiesa di San Giovanni a Carbonara e oggi alla Certosa e Museo di San Martino in Napoli48; nel Transito della Vergine del 1501 della chiesa di San Pietro Martire di Napoli, attribuita dalla fonti storiche (ma credo senza alcuna possibilità di conferma) a Silvestro Buono49; nella tavola con l’Assunzione di Perugino del 1502-0450 nel Duomo di Napoli; nell’angelo degli affreschi del 1508 di Polito del Donzello nella Cappella Tolosa di Santa Maria di Monteoliveto di Napoli51 (eretta a partire dagli anni 1490 circa); nel polittico della chiesa di San Gennaro al Vomero di Napoli (ma proveniente da Santa Patrizia), datato al 150852; nella lunetta del portale dell’ospedale dell’Annunziata in Napoli, di Tommaso e Giovan Tommaso Malvito, 1500 circa (che Abbate ritiene del figlio Giovan Tommaso proprio per le sculture gli angeli musici)53, nello scomparto destro Natività del polittico di Pedro Fernandez oggi al Museo di Capodimonte (proveniente da Santa Maria delle Grazie a Caponapoli) che Leone de Castris data tra 1509 e 151054; nella Assunzione della Vergine di Faffeo e bottega della Pinacoteca Provinciale di Salerno datata 1500-152455, nella Natività del Maestro d’Ischia al Museo di Capodimonte a Napoli56 e nella Madonna col Bambino di Sabatini della chiesa dei Santi Severino e Sossio di Napoli (datata molto diversamente al 151257 o al 1524 – 1529)58.

Oltre alla disposizione geometrica delle corde, un’altra differenza cruciale che consente una

46 Nelle raffigurazioni di area campana, l’arpa avrà un incremento incessante di presenze che raggiungerà il culmine nei primi decenni del XVII secolo, quando l’arpa sarà un topos imprescindibile dell’iconografia musicale. 47 Salerno, Museo Diocesano, 1470 circa, originariamente in Eboli, oggi al Museo Diocesano di Salerno, attribuita all’anonimo maestro che prende il nome proprio da quest’opera, cfr. LEONE DE CASTRIS, Quattrocento aragonese, cit. 48 Proveniente da Napoli, San Giovanni a Carbonara, 1478-84, cfr. ABBATE, Storia dell’arte…Il Sud angioino e aragonese, cit., p. 200. 49 Cfr. CATALANI, cit., p. 162 che in nota riporta come fonte De Dominici. 50 Napoli, Duomo, già sull’altare maggiore, cfr. ABBATE, Storia dell’arte…Il Cinquecento…, cit., p. 10. Altre arpe sono raffigurate da Perugino sono nell’Assunzione in Firenze, SS. Annunziata e l’Ascensione, in Lyon, Musée de Beaux-Arts. 51 In Napoli, Santa Maria di Monteoliveto, cappella Tolosa, cfr. F. SRICCHIA SANTORO, Pittura a Napoli negli anni di Ferrante e di Alfonso duca di Calabria. Sulle tracce di Costanzo de Moysis e di Polito del Donzello, «Prospettiva», 159-160, 2015, pp. 25 – 109, a p. 82. Per la precedente attribuzione Cristoforo Scacco 1493-1500, Cfr. R. NALDI, Cristoforo Scacco, in Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, a cura di G. PREVITALI, cit., p. 258, ribadita in Naldi su Scacco (R. NALDI, Riconsiderando Cristoforo Scacco, «Prospettiva», 45, 1986, pp. 35-55). A margine del lavoro sulle tarsie di Giovanni da Verona, in origine nella cappella Tolosa, Bugini si limita solo a citare la presenza di un’arpa (ritenendo considerando gli affreschi opera di Scacco), cfr. E. BUGINI, Lineamenti di iconografia musicale in un nucleo di tarsie rinascimentali, «Napoli nobilissima», LXVIII, 2011, pp. 3-14, a p. 9. 52 Cfr. DI DARIO GUIDA, cit., pp. 127 – 135, a p. 131. 53 Cfr. F. ABBATE, Le sculture del Succorpo di San Gennaro e i rapporti Napoli-Roma tra Quattro e Cinquecento, «Bollettino d'Arte», 11, 1981, pp. 89 – 108, a p. 94. 54 Già in Napoli, Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, cfr. LEONE DE CASTRIS, Pedro Fernandez, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 146 – 147; GIUSTI –LEONE DE CASTRIS, cit., p. 18. 55 Cfr. PAVONE, Assunzione della Vergine, in Pinacoteca provinciale di Salerno, cit., pp. 22 – 25, in cui nota dettagli che sembrano dipendere da opere di Perugino (la tavola del Duomo di Napoli, 1502-1054) e di Giannicola di Paolo a Perugia (1506-1507) e influenze dallo stile di Pinturicchio. 56 DE CASTRIS, Maestro d’Ischia: Natività, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., p. 171. 57 Cfr. F. PREVITALI, Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, in Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, cit., pp. 13 e 18. 58 Come proposto da P. GIUSTI, La fase “manierista” di Andrea Sabatini e i suoi ripiegamenti tardi. La formazione di Giovan Filippo Criscuolo, in GIUSTI – LEONE DE CASTRIS, cit., pp. 132 – 186, a p. 144 e ribadita in appendice a p. 278.

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prima classificazione è la forma della mensola. Infatti, le arpe delle altre opere citate hanno una mensola curva. Due di esse recano una sporgenza a punta a circa 1/3 della lunghezza (Fernandez a Capodimonte e in Faffeo a Salerno). L’unica arpa coeva con mensola rettilinea simile alla nostra è quella del dipinto di Fondi59. Esempi più tardi di mensola rettilinea sono nella tavola della cripta della cattedrale della Rabatana di Tursi, di artista vicino a Simone da Firenze, realizzata intorno al 154760, nella tavola Madonna col Bambino e i santi Eraclio e Paride in Pietravairano, chiesa di Sant’Eraclio, forse del 158061, nella Visione di Sant’Orsola di Donato Piperno del 1590/1595 in Benevento, Museo del Sannio (da Santa Sofia)62 e nel San Francesco d’Assisi offre il cuore alla Madonna col Bambino in gloria di Ippolito Borghese in Morano Calabro, chiesa dei Cappuccini63.

2.2 Organo portativo

Accanto all’angelo arpista, sempre sullo stesso gruppo di nuvole in alto a sinistra, è un angelo che suona un organo portativo. L’angelo sembra seduto davanti allo strumento in posizione inclinata rispetto ad esso, sempre che il disegno non sia realizzato fuori prospettiva. L’organista dovrebbe suonare con entrambe le mani ma è solo un’ipotesi perché le mani non si vedono. Accettando questa ipotesi di postura, l’organo appare all’osservatore raffigurato dal retro. Non è visibile alcun mantice: certamente non essendo collocato sul retro, probabilmente, l’organo raffigurato qui potrebbe essere stato dotato di un mantice a soffietto forse disposto sul lato sinistro dello strumento (figura 6).

Per le dimensioni apparenti (relativamente al corpo dell’angelo), l’organo dovrebbe avere almeno due ottave di estensione, presumibilmente cromatiche. Eppure, le canne raffigurate, disposte ad ala, sono solo sette64, di colore bianco (forse di tela inamidata o di pergamena), e mostrano una cameratura di dimensioni insolitamente ampia. Per le dimensioni della cassa lo strumento potrebbe sostenere due file di canne. Ancora più singolare è il fatto che le bocche delle canne sembrano aprirsi sul retro dello strumento e, quindi, direttamente esposte alla vista dell’osservatore del dipinto, contrariamente alla prassi. La cassa è molto semplice e non mostra le decorazioni architettoniche (tardogotiche) comuni negli esemplari locali della fine del Quattrocento65.

In definitiva, la raffigurazione del portativo nel dipinto capuano, forse la più tarda tra quelle sopravvissute, è l’unica finora ritrovata per tutto il Cinquecento, distante quasi mezzo secolo da altre opere precedenti (organi portativi) e da quelle successive (che mostrano già organi del tipo

59 Una simile forma della mensola è nella della bottega di Cornelis Smet in Lecce, chiesa del Gesù, cfr. LEONE DE

CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli, …’ultima maniera, cit., p. 37 e p. 40. 60 Cfr. Cfr. A. MIRAGLIA - D. SETTEMBRINO, La Cappella De Georgiis nella chiesa della Rabatana di Tursi, «Basilicata regione notizie», 104, 2003, pp. 177-198, con bibliografia di riferimento. 61 Attribuita a Oratio Rossi, pittore di Pietravairano, e datata alla metà del XVI secolo, cfr. ANGELONE – VITAGLIANO, cit., p. 9 e immagini a p. 59 – 62, ma probabilmente da collocarsi almeno intorno agli anni 1580. 62 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… Fasto e devozione, cit., p. 283, pp. 320– 322, e p. 325. E’ errata la segnalazione di CHIRICO, cit., p. 175 – 176. 63 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli. … l’ultima maniera, cit., p. 286 e p. 291, che la data verso la fine dell’attività del pittore, che morì tra il 1627 e il 1630. 64 Non molte di più, anche se nettamente più sottili, sono quelle del piccolo organo rappresentato nella Natività del Duomo di Sorrento, di Angiolillo Arcuccio (noto dal 1464 al 1492), cfr. R. CAUSA, Angiolillo Arcuccio, «Proporzioni», III, 1950, pp. 99 - 110. In questo caso, l’angelo è disposto in modo tradizionale. Un altro riferimento, dovuto ad un pittore catalano della seconda metà del Quattrocento, e quindi di matrice forestiera, è l’organo dipinto nella tavola con la Natività del Museo Nazionale di San Martino in Napoli, che sembra avere anch’esso poche canne (al più una decina). Ben 16 piccole canne (e forse altrettante sulla probabile seconda fila, in coerenza con l’estensione della tastiera.) sono visibili nell’organo del Trittico di Eboli (oggi in Eboli, chiesa di San Francesco), del 1472, di Pavanino Palermitano, cfr. G. SCAVIZZI, Nuovi appunti sul Quattrocento campano, «Bollettino d’arte», LII, 1967, I, gennaio-marzo, pp. 20 – 29, a p. 20; addirittura 21 canne (e altrettante sulla seconda fila) nell’organo dell’Incoronazione della Vergine (già ad Eboli, oggi Museo Diocesano di Salerno) nella tavola del Maestro omonimo, 1480 circa, cfr. ABBATE, Storia dell’arte .... Il Sud angioino e aragonese, cit., p. 173. 65 Maestro dell’Incoronazione di Eboli, Incoronazione della Vergine, 1480 circa (Salerno, Museo Diocesano), cfr. ABBATE, Storia dell’arte… Il Sud angioino e aragonese, Roma, p. 173; Pavanino Palermitano, Trittico di Eboli, 1472 (Eboli, chiesa di San Francesco), cfr. SCAVIZZI, cit., p. 20.

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cosiddetto positivo). Il piccolo organo portativo è ancora di impianto del tutto medievale, con sole sette canne, insolitamente di grande cameratura (rispetto alla loro lunghezza) e bianche (pergamena o tela inamidata non metallo o legno).

C’è qualche parallelo con quello raffigurato nella anonima tavola del Transito della Vergine, Napoli, San Pietro Martire, del 1501, attribuita (erroneamente) dalle fonti storiche a Silvestro Buono66. Riverberi molto tardi di organi di queste dimensioni sono nella Visione di Sant’Orsola di Donato Piperno del 1590/1595 in Benevento, Museo del Sannio e nel Sant’Antonio Abate e Sant’Onofrio con la Trinità del 1597, sempre di Piperno, nello stesso museo (ma provenienti dalla chiesa di Santa Sofia)67 e nel dipinto anonimo del Museo Campano, al paragrafo 5 di questo lavoro. 2.3 I cimbali

In piedi, nei pressi della scena dell’Incoronazione, è un angelo che suona una coppia di cimbali, in una posa chiaramente ispirata a movenze di danza. Nella lingua italiana attuale sono indicati più frequentemente come cembali ma in passato furono diversi i lemmi utilizzati (cembal, cembali, cembalo, cembolo, cimbale, cimbali, cimballi, cimbalo, zinbalo)68. Credo che sia da preferire il lemma cimbalo (usato nel seguito di questo articolo) che evita l’equivoco di identificazione con il clavicembalo, spesso abbreviato proprio come cembalo69.

I cimbali sono strumenti idiofoni a percussione reciproca noti a molte civiltà antiche e preistoriche. Il nome greco “kymbala” (χύμβαλα singolare, χύμβαλoν plurale) deriva da χύμβη con significato di “piatto, vaso” e βαλλειν che significa “gettare, battere”. In latino fu tradotto come cymbala o anche come vasa aera e anche acitabula (dal nome dei vasetti usati per conservare l’aceto)70. Controversa è l’opinione circa l’epoca di diffusione in area mediterranea. Probabilmente

giunsero dall’Asia Orientale in Grecia, da dove furono introdotti in Egitto. Da lì penetrarono nel mondo romano legati ai culti di Cibele71 e quelli di Demetra, Dioniso e Bacco ad essa associati e nelle cui raffigurazioni è spesso presente72. L’origine dall’Asia Orientale sembra potersi sostenere anche per la documentata esistenza nell’uso ebraico, come ampiamente documentato nella Bibbia73: nella versione dei Trenta e della Vulgata, sono identificati ai zilzelim e i meziltajim biblici74. Grazie a ritrovamenti archeologici, Bellia attesta l’uso dei cimbali in Sicilia sin dall’età del Ferro (IX-VIII sec. a.C.)75 prima della colonizzazione greca e ricorda che sono stati rinvenuti cimbali in bronzo databili in epoca protostorica anche in Lucania e Calabria76. Sempre Bellia precisa che in epoca greca furono legati al culto di Demetra, anche qui citando reperti archeologici e aggiungendo fonti letterarie77.

Nei diversi libri della Bibbia emerge con ogni evidenza la funzione rituale cruciale dei

66 Cfr. CATALANI, cit., p. 162 che in nota riporta come fonte De Dominici. 67 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… Fasto e devozione, cit., p. 283, pp. 320– 322, e p. 325. 68 Cfr. Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (nel seguito TLIO), Opera del Vocabolario Italiano, Consiglio Nazionale delle Ricerche, a cura P. G. BELTRAMI, cfr. http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/index2.html. 69 Anche se il Grande Dizionario della Lingua Italiana, 21 vv., a cura di S. BATTAGLIA, Torino, 1961 – 2003, alla voce “cembalo”, dice che la voce “cimbalo” qualifica la parola «Ant[ica] e letteraria». 70 J. SMITS VAN WAESBERGHE, Introduction, in Cymbala (Bells in the Middle Ages), a cura di J. SMITS VAN

WAESBERGHE, Roma, 1951, p. 11. 71 Cfr. C. SACHS, Storia degli strumenti musicali, Milano, 1996 (la prima edizione fu nel 1940, in inglese), pp. 110-111, p. 171 e pp. 540-541. 72 Cfr. Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti. Lessico (nel seguito DEUMM), Torino, 1992, alla voce “cimbali”. 73 Cfr. SACHS, cit., pp. 134-136 e DEUMM, cit., alla voce. 74 Per una rassegna delle differenti terminologie anche degli strumenti musicali, cfr. Dizionario Biblico, a cura di G. MIEGGE, Torino, 1992, pp. 578-579. 75 Cfr. A. BELLIA, Strumenti musicali e oggetti sonori nell’Italia Meridionale e in Sicilia (VI-III sec. a. C.). Funzioni rituali e contesti, Lucca, 2019, pp. 5. 76 Cfr. BELLIA, cit., p. 5, nota 1, in cui ricorda anche la tradizione nell’ambito dei Pitagorici, V sec. a. C., di suonare dischi metallici accordati. 77 Cfr. BELLIA, cit., pp. 7 - 9.

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cimbali in tutte le cerimonie di ringraziamento del Signore, di dedicazione e riconsacrazione del tempio, in cui essi appaiono sempre associati ad altri strumenti a corda e a fiato e, talvolta, ad altre percussioni. Singolare è l’attribuzione del ruolo di esecutori affidato ad uno specifico gruppo sacerdotale: si ha quasi l’impressione che senza di essi non si possa consacrare le mura di Gerusalemme (per la necessità della presenza rituale del gruppo tribale o per la specializzazione esecutiva da essi raggiunta?). Interessante è anche il riferimento ai materiali utilizzati (bronzo) per la brillantezza del loro suono, quasi a lasciare intendere che potessero essere realizzati anche con altri metalli.

Come ricorda Castaldo, secondo Origene i cimbali simboleggiavano l’amore ardente per Cristo dell’anima del fedele78.

I cimbali sopravvissero al tramonto del mondo pagano giungendo sino al Medioevo sotto due forme, memori, forse, proprio delle due specie note agli Israeliti: una di dimensione piccola dimensione (5-10 cm di diametro) e una più grande, maggiormente diffusa a partire dal XIII secolo (20-25 cm di diametro) e che evolse verso i piatti moderni79. Probabilmente i due differenti tipi di cimbali erano anche suonati con gesti differenti80.

Nelle più antiche raffigurazioni medievali europee i cimbali sono montati a coppie su lunghe bacchette di sostegno disposte a forcina, utilizzabili con una sola mano, e peraltro compaiono sempre legate alla figura di David, re e profeta: coperta del Salterio di Dagulfo (783-795)81, in quella della Prima Bibbia di Carlo il Calvo (846)82, nel Salterio di Carlo il Calvo (842 – 869)83 e nel Salterio aureo (prima metà sec. IX)84. In un tropario francese del X secolo appare raffigurata una coppia cimbali a forma di coppa collegati da una lunga catena85.

Il termine è usato in modo sorprendentemente ambiguo nei diversi passi letterari86 rintracciati tanto da far ipotizzare possa riferirsi a strumenti diversi da quelli qui in esame, vuoi per il contesto (si trova inserito in un elenco di strumenti a corde)87, vuoi per la tipologia (sembra collegato a strumenti con membrane a tensione regolabile)88, vuoi per il senso della frase.89

78 Cfr. D. CASTALDO, Immagini della musica al tempo dei del Balzo Orsini, in Dal giglio all'orso: i principi d'Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, a cura di A. CASSIANO – B. VETERE, Galatina, 2006, pp. 444 - 465, a p. 453. 79 Cfr. DEUMM, cit. Per il significato dei cimbali nelle raffigurazioni davidiche e, in generale, per la loro funzione simbolica di rappresentazione (sia degli strumenti a percussioni sia delle quantità ponderali proporzionali ai suoni) cfr. C. SANTARELLI, Tipologia di re Davide nei codici miniati medievali, in Prospettive di iconografia musicale, a cura di N. GUIDOBALDI, Milano, 2007, pp. 112 e ss. 80 Cfr. SACHS, cit., p. 135. 81 Scuola di corte di Carlomagno, oggi a Paris, Muséee du Louvre, in J. HUBERT – J. PORCHER – W. F. VOLBACH, L’impero carolingio, traduzione dal francese di M. LENZINI, Milano, 1981, p. 227 e pp. 334-335. 82 Arte carolingia, scuola di Tours, Saint-Martin de Tour, oggi in PARIS, BIBLIOTHÈQUE NAZIONALE DE FRANCE (nel seguito PBN), lat. 1, fol. 215, in J. HUBERT – J. PORCHER – W. F. VOLBACH, cit., p. 138. Nella stessa miniatura sono altri strumenti: olifante suonato accoppiato a cimbali metallici, un salterio, una “tibia”, una cetra tastata e pizzicata. 83 David e i suoi musici, arte carolingia, scuola di Corbie, oggi in PBN, lat. 1152, foglio 1 verso, in HUBERT – PORCHER

– VOLBACH, cit., p. 146. Nella stessa miniatura sono un danzatore e altri strumenti: olifante e uno strano strumento a forma di pala forse dei sistri e un salterio rettangolare. 84 In HUBERT – PORCHER –VOLBACH, cit, p. 170. Nella stessa miniatura sono David con un salterio e due danzatori; Sankt Gallen, Stiftsbibliothek, cod. 22, fol.2, prima metà sec. IX. 85 Tropario francese fine sec. X, oggi in PBN, lat. 1118, noto come Tonair d’Auch. 86 La ricerca è stata eseguita utilizzando TLIO, cit., e il Grande Dizionario della Lingua Italiana, cit., alla voce “cembalo”. 87 ANONIMO VENETO sec. XIV, «E in so sonar sonava tal fiada sì como zinbalo e arpa e chintara...» in Navigatio Sancti Brendani. La navigazione di San Brandano, a cura di M. A. GRIGNANI, Milano, 1975, p. 252, v. 1; ANONIMO PAVESE, 1342: «gli diversi instrumenti e inçegni de sonar le dolce melodie, gli salterion lo dexecordo laudi cytare organ cembali corni trombe nachare tympani zaramele sinfonie dianne e ogne moho artificial e delectevel de tuta la musica ghe mostrò…», in Parafrasi pavese del "Neminem laedi nisi a se ipso" di San Giovanni Grisostomo, a cura di A. STELLA - A. MINISCI, Firenze, 2000, p. 78, v. 26; 88 ANONIMO TOSCANO, sec. XIII – XIV: «Audivi suon' di molto dolzi danze / in chitarr' e carribi smisurati, / [e] tromb' e cennamelle in concordanze / e cembali alamanni assai tirati...», in L'Intelligenza. Poemetto anonimo del secolo XIII, a cura di M. BERISSO, Parma, 2000, p. 120; ANONIMO TOSCANO, SEC. XIV: «significa pergamena, della quale si faccia

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Quelli senza dubbio identificabili con i cimbali attuali, risultano costruiti in metallo (il rame90 oltre al tradizionale bronzo, usato anche in antichità) con un esito sonoro piuttosto simile a quello odierno.91 Anche l’ambito di utilizzo con cui appaiono nei testi letterari italiani a partire dal XIII secolo risulta piuttosto differenziato coerente per contesti ugualmente dinamici: sono presenti nell’accompagnamento delle danze92 e soprattutto legato nelle attività dei giullari93.

Nelle raffigurazioni del “fare” musica proprie del Medioevo e del Rinascimento non sembra esserci distinzione tra gli strumenti per la musica mundana (dell’universo) e per quella umana. E così, è possibile spiegare la presenza dei cimbali (strumenti legati a culti pagani dell’Antichità) in scene sacre, addirittura nel paradiso, con la necessità di evocare il suono dell’armonia celeste, identificata nel roteare dei cieli, con il tintinnio dei metalli94.

Figura 7. Cimbali nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano (1530-40).

Nonostante lo stato di conservazione impedisca una completa lettura dei particolari, i

cimbali raffigurati nel dipinto capuano sembrano avere forma esattamente circolare, di diametro 20-

tamburo, cembalo e simili cose.», in L’ottimo commento alla Divina Commedia. II il Purgatorio, a cura di A. Torri, Pisa, 1827, p. 538, v. 22; 89 «dice formarsi la voce dalle due nostre labbra, le quali non altrimenti sono che due cembali modulanti la commodità delle nostre parole...», in G. BOCCACCIO, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di G. PADOAN, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, v. VI, Milano, 1965, p. 100, v. 2. 90 ANONIMO FIORENTINO, anno 1313: «…lli cembali del rame suonano con matte percosse... », in Arte d'Amare di Ovidio volgarizzata (Volgarizzamento B), in I volgarizzamenti trecenteschi dell'”Ars amandi” e dei “Remedia amoris”, a cura di V. LIPPI BIGAZZI, 2 v., Firenze, 1987, v. I, p. 295, v. 18. 91 Citazione di cui alla nota precedente e ANONIMO ROMANO, sec. XIV: «Anche stavano canto l'acqua e manicavano e godevano, loro cembali sonavano, granne stormo facevano.», in Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. PORTA, Milano, 1979, p. 75, v. 27. 92 CIAMPOLO DI MEO UGURGIERI, anno 1340: «… per ciò che ella prendeva i cembali, e menava i balli nel tuo onore...», CIAMPAOLO DI MEO UGURGIERI, L'Eneide di Virgilio volgarizzata nel buon secolo della lingua da Ciampolo di Meo degli Ugurgieri senese, a cura di A. GOTTI, Firenze, 1858, p. 235, v. 6. 93 DOMENICO CAVALCA, anno 1342: «…venne uno giullare con una sua scimia, e incominciò a suonare suoi cimbali.», in D. CAVALCA, Dialogo di santo Gregorio volgarizzato, a cura di C. BAUDI DI VESME, Torino, 1851, p. 43, v. 9; ANONIMO LIGURE, sec. XIV: «vene un iugular cum una soa ximia e comencà a sonar suo cembali», in Dialogo de Sam Gregorio composito in vorgà, L. 1, cap. 9, p. 97, v. 8; CIAMPAOLO DI MEO UGURGERI: «O Bacco, i dico te solo degno di questa vergine, per ciò che ella prendeva i cembali e menai i balli ne tuo onore», in CIAMPAOLO DI MEO UGURGERI, cit., p. 235; ANONIMO UMBRO, anno 1366: «no(n) debbia andare per la citade vestito a muodo de femena nè de giolare, nè andare sonando con cimbale.», in Capitoli dei Disciplinati di Sant'Antonio di Città di Castello e Riformazioni in Testi trecenteschi di città di Castello e del contado, a cura di F. AGOSTINI, Firenze, 1978, pp. 122, v. 19. 94 B. R. TAMMEN, Prayers and beyond. The musical “Image on the Edge” in Fiftheent – century Books of Hours, in Prospettive di iconografia musicale, cit., pp. 71 – 108.

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25 cm, di colore dorato, chiaramente metallico. L’angelo appare impugnare i cimbali mediante manici scuri. La percussione reciproca delle due parti sembra avvenire in un piano verticale.

A parte gli esempi nella produzione decorativa antica e tardo antica95, la più antica rappresentazione dei cimbali nel Meridione credo possa essere quella citata da Castaldo in Santa Maria Donnaregina in Napoli, che Castaldo96 dà a Cavallini97. Quelli in Santa Caterina a Galatina sono forse tra i primi esempi del secolo XV98: sono di forma emisferica schiacciata con un bordo a tronco di cono, molto grandi, di colore bianco e suonati in posizione quasi orizzontale.

I più antichi tra quelli quattrocenteschi da me rintracciati in Campania sono nel fregio del corteo trionfale di Alfonso nell’Arco di Castel Nuovo, databile tra il 1456 e il 145799. Una raffigurazione più vicina alla nostra tavola è in una tarsia lignea del coro di Santa Maria di Monteoliveto (Sant’Anna dei Lombardi) a Napoli, datata al 1510-1524 e attribuita a Giovan Francesco d’Arezzo e Prospero100.

In questi due esempi, la struttura geometrica di ciascuna parte dello strumento è una emisfera cava al cui bordo è accostato un’ampia corona circolare ortogonale al bordo dell’emisfera; al centro esterno dell’emisfera è un gancio (forse in cuoio o in tessuto) che serviva ad impugnare.

2.4 Il triangolo

Dall’altra parte rispetto al Vergine, è un angelo, in piedi, che suona un triangolo. L’origine dello strumento è riferita al sistro copto101. La presenza nell’Europa medievale è documentata in diversi codici miniati dove compare sempre munito di anelli, anch’essi metallici, infilati nell’asta inferiore dello strumento allo scopo di accrescerne la sonorità102. La forma tradizionalmente attestata nell’iconografia è quella trapezoidale, che gli conferiva il nome con cui fu noto in Italia: staffa103. Le più antiche citazioni risalgono al XIV secolo:

95 Cfr. le tre distinte voci Etruria, Greece, Rome, in The New Grove Dictionary of Music and Musician (nel seguito GROVE), 2nd edizione, a cura di S. SADIE, London, 1980, alle voci. 96 Cfr. CASTALDO, cit., p. 453. 97 Più probabilmente sono da attribuirsi a suoi seguaci e continuatori, intorno agli anni 1320, cfr. P. L. LEONE DE

CASTRIS, Pietro Cavallini. Pietro Cavallini. Napoli prima di Giotto, Napoli, 2013. 98 Cfr. CASTALDO, cit., p. 453 e fig. 5. Ancora molto dibattute e controverse sono la datazione e l’attribuzione degli affreschi. Per quelli della controfacciata Castaldo propone un confronto con opere che orientano verso Cavallini. 99 Cfr. C. L. FROMMEL, Alberti e la porta trionfale di Castel Nuovo a Napoli, «Annali di architettura», n° 20, Vicenza, 2008, p. 13- 31, a p. 23. Le attribuzioni e le datazioni degli interventi all’arco di trionfo di Alfonso d’Aragona per il Castelnuovo di Napoli sono state oggetto di un vasto e lungo dibattito storico, riassunto con rara puntualità da Frommel. In due fasi, tra il 1453 e il 1458 e poi dal 1465 al 1467, lavorarono Francesco Laurana, Pietro di Martino da Milano, Pere Johan, Paolo Romano, Isaia da Pisa, Andrea dell’Aquila, Domenico Gagini (e su questi nomi c’è accordo pressoché unanime), Antonio da Pisa (che Caglioti ritiene non identificabile con Antonio di Chiellino, cfr. F. CAGLIOTI, L' Arco di Trionfo di Alfonso d'Aragona, relazione al convegno organizzato da Fondazione Napoli 99 e Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli, 21 aprile 2017) e forse Andrea Bregno (suggerito da Frommel). Quasi certamente il progetto iniziale fu di Pisanello, poi modificato da Pietro da Milano. Frommel attribuisce la scena del corteo trionfale di Alfonso con i musici ad Isaia da Pisa, che la realizzò tra il 1456 e 1457. Secondo Caglioti (CAGLIOTI, cit.) i musici a destra della Vittoria che conduce il carro trionfale sono opera di Gagini. Sugli aspetti propriamente musicali della cerimonia del “trionfo” di re Alfonso, cfr. G. D’AGOSTINO, La musica nel trionfo napoletano di Alfonso d’Aragona, in Linguaggi e ideologie del Rinascimento monarchico aragonese: (1442-1503), a cura di F. DELLE DONNE – A. IACONO, Napoli, 2018, pp. 137 – 178, che sostanzialmente rinuncia ad analizzare gli aspetti di iconografia musicale. 100 Cfr. C. CUNDARI, Il complesso di Monteoliveto a Napoli: analisi, rilievi, documenti, informatizzazione degli archivi, Roma, 1999, p. 64 e nota a p. 104, che ribadisce l’attribuzione tradizionale ribadita da R. CAUSA, Giovan Francesco d’Arezzo e Prospero maestri di commesso e prospettiva. Le tarsie del coro dei conversi nella certosa di S. Martino, «Napoli Nobilissima», III serie, v. 1, 1961 – 1962, pp. 123-134. Sulle tarsie (oggi nella sagrestia), gli affreschi (ancora attribuiti erroneamente a Scacco) e la tavola di Pinturicchio (oggi a Capodimonte), cfr. BUGINI, Lineamenti di iconografia musicale ..., cit. 101 Cfr. Triangolo, in DEUMM, cit., alla voce. 102 Questa tipologia dello strumento è documentata fino al XVIII secolo ma già dalla fine del sec. XIV (miniatura della Bibbia di Venceslao IV) è nota la versione priva di anelli, cfr. DEUMM, cit., alla voce. 103 Cfr. DEUMM, cit.

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«Cembali, staffe, tamburi e busoni / cinfali, cornamuse e ciaramelle / nacchere, trombe, pifferi e tromboni / d’udivan quivi e mille altre novelle»104 con passi ancora nel Cinquecento: «Fatto il convito, vennon molti suoni,/….. / trombe e trombette e nacchere e busoni, / cembolo, staffa e cemmanelle in tresca, / corni, tambur, cornamuse e sveglioni»105.

Il nome attuale comparve per la prima volta nel 1589 in un inventario di strumenti del Wurttemberg106. Poco dopo Praetorius (1619 - 1620)107 e Mersenne (1637)108 lo ritennero uno strumento da mendicanti, suonato in accompagnamento alla ghironda e al tamburin de Bearn (Mersenne) nome francese dello strumento composto da flauto a tre buchi e cordofono, presente nel nostro dipinto immediatamente al di sotto del triangolo. La raffigurazione capuana appare pienamente inserita nel solco della tradizione iconografica. Lo strumento ha la forma di un triangolo equilatero di lato di dimensioni pari a 2/3 del braccio dell’esecutore. L’angelo sostiene il triangolo mediante un gancio metallico o forse una corda collegato ad un vertice dello strumento e percuote la base opposta al vertice. Questa reca tre anelli metallici. La percussione avviene mediante una bacchetta metallica cilindrica un po’ più corta dei lati del triangolo.

Figura 8. Triangolo, particolare della Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano (1530-40).

In ambito napoletano e meridionale e per anni prossimi a quelli del nostro dipinto segnalo le raffigurazioni del triangolo nei rilievi del trono episcopale del Succorpo di San Gennaro nel Duomo di Napoli del 1507 - 1508109 (è uno strumento di dimensioni molto grandi rispetto al solito, circa 1/4 dell’altezza dell’angelo ed ha soli due anelli), nella tavola centrale di Sabatini a Napoli, Chiesa dei Santi Severino e Sossio del 1512110 (che si distingue per la naturalistica resa del filo di sospensione dello strumento e per il batacchio, che ha l’estremità percussiva a forma piroidale) e quella di Machuca, Madrid, collezione Gonzalez111. 104 F. CIECO, Componimento in terza rima offerto all’imperatore Sigismondo in perizia, 32-72, «Archivio Storico Italiano», appendice, tomo VII, n° 4, Firenze, 1849, sec. XV. 105 L. PULCI, Morgante, Milano, 1989, canto 16-25. 106 Cfr. DEUMM, cit. 107 Cfr. M. PRAETORIUS, Syntagmatis musici. De organographia, v. 2, Wolfenbüttel 1619, p. 78 e M. PRAETORIUS, Theatrum instrumentorum, Wolfenbuttel, 1620, t. XXII, che è il supplemento iconografico al v. 2. 108 Cfr. M. MERSENNE, Harmonie universelle, Paris, 1637, v. 2, lib. 7, p. 49. 109 Tradizionalmente attribuiti a Tommaso Malvito e al figlio Giovan Tommaso ma cui, dal 2001 osservazioni di Del Pesco e di Naldi nel 2002 affiancavano, tra gli altri il contributo di Gian Cristoforo Romano che Leone de Castris ritiene per il solo disegno, affidandone la realizzazione alla bottega malvitesca, cfr. P. L. LEONE DE CASTRIS, Studi su Gian Cristoforo Romano, Pozzuoli, 2010, pp. 111 – 140, in particolare a p. 126. Nel citato lavoro, Leone de Castris riassume e discute anche tutte le attribuzioni precedenti. 110 Cfr. PREVITALI, Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, in Andrea da Salerno, cit., pp. 13 e 18. 111 N. DACOS, Pedro Machuca, Adorazione dei pastori, in Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, cit., pp. 134 – 136, in cui il dipinto è datato a dopo il ritorno di Machuca in Spagna, nel 1519 – 1520. Un possibile ritorno di

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2.5 La viola da gamba Sulla nuvola in alto a destra è una viola che, per la posizione di esecuzione quasi verticale,

sembra da gamba, per quanto siano ancora dibattuti i criteri di classificazione tra viole da braccio e da gamba112. In particolare, Bornestein evidenzia che i criteri che Harwood indica siano poco utili alla classificazione per gli strumenti del secolo XVI113. Ancor più netta Hoffman che riduce a soli due gli elementi pressoché invarianti nella viola da gamba nel corso dei secoli: la posizione di esecuzione verticale (meglio sarebbe a dire non orizzontale, viste le tante varianti) e i lacci per tastare lo strumento114.

Figura 9. Viola da gamba e liuto nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano (1530-40).

Purtroppo, nel nostro dipinto davvero sono pochi i particolari leggibili. In rapporto alla

statura dell’angelo, sembra una viola da gamba di taglio tenore. La forma della cassa ha una forma insolita che associa le spalle spioventi ad una coppia di punte, al centro dello strumento. La macchia scura al centro della tavola armonica, sotto le corde, potrebbe segnalare la presenza di una rosa a chiusura parziale del foro di risonanza. Le fasce hanno uno spessore grossomodo costante, il che lascerebbe intuire un fondo piatto. Nulla si può dire sulla presenza o l’assenza dei lacci di tastatura. Si intravvedono almeno 4 corde. Una macchia più chiara e di colore diverso da quello della cassa, al centro dell’estremità inferiore, potrebbe indicare la posizione del ponticello. L’archetto è incredibilmente lungo ed è segnalato da un colore prossimo al nero.

L’angelo inspiegabilmente sembra tenere l’archetto col polso invece che nel palmo o tra le dita della sua mano destra. La mano sinistra impugna lo strumento e diteggia la tastiera, in modo piuttosto naturale.

Per Hoffmann l’origine occidentale della viola da gamba sembra doversi riferire all’arrivo in Spagna per il tramite bizantino ed arabo115, il che non aggiunge nulla a quanto precedentemente affermato e riassunto in modo completo e dettagliato in Woodfield116. Ma, forse perché non è a conoscenza dei dipinti palermitani di età normanna, Hoffmann non prende in considerazione un possibile approdo anche in Sicilia, contemporaneo, precedente o successivo a quello spagnolo non interessa chiarirlo qui. A mio sommesso parere, ritengo che non sia da escludere una introduzione

Machuca in Italia «sul crinale del 1530» è stato ipotizzato da P. L. LEONE DE CASTRIS, Pedro Machuca: Morte e assunzione della Vergine, in LEONE DE CASTRIS, Il Museo di Capodimonte, … cit., pp. 168 – 170, a p. 170. 112 Cfr. A. BORNSTEIN, Gli strumenti musicali del Rinascimento, Padova, 1987, p. 254. 113 BORNESTEIN, cit., p. 264, che cita I. HARWOOD, An introduction to renaissance viols, «Early music», II, 1974, pp. 234 – 246, a p. 236. 114 B. HOFFMANN, The viola da gamba, Abingdon, 2018, p. 3. Non so quanto l’edizione inglese del 2018 sia aggiornata rispetto a quella italiana del 2010, che non ho consultato. Segnalo che Hoffmann non cita il lavoro di Bornstein. 115 HOFFMANN, cit., p. 62 e ss., in cui non cita alcun riferimento bibliografico. 116 I. WOODFIEDL, La viola da gamba dalle origini al Rinascimento, a cura di R. MEUCCI, Torino, 1999, edizione italiana del testo in inglese già pubblicato nel 1984.

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dalla viola da gamba medievale anche nel Meridione117 dal XII secolo, giustificabile dalle raffigurazioni certamente tarde ma potentissime del rabab nella cappella Palatina di Palermo, realizzate durante il regno di Ruggero II118, morto nel 1154. Una lettura più recente di Brenk sostiene che i dipinti del soffitto abbiano sicuramente una concezione cristiana, inquadrata in iconografie arabe119, ed accetta la tesi di Johns per una realizzazione a cura di una bottega di artisti musulmani provenienti dal Cairo tra 1140 e il 1147120, restringendo il termine dei lavori entro il 1143121.

In ogni caso, Woodfield conosce e cita l’esempio di Palermo ma ritiene che l’antenato medievale della viola da gamba occidentale, sviluppato dal rabab arabo, sopravvisse solo in Aragona122. Woodfield ricorda che Dart123 fu il primo a supporre, a suo dire correttamente, che lo strumento sarebbe stato elaborato modificando la vihuela da mano, in Spagna intorno al 1450, e ne dà una ampia e dettagliata dimostrazione iconografica, in particolare all’Aragona. Invece Hoffmann propone proprio il Regno di Napoli come possibile luogo d’origine, citando un passo di Vincenzo Galilei a riguardo (ritenuto poco credibile da Woodfield124). Inoltre, rileva l’uso assolutamente marginale che lo strumento ebbe in Spagna nei secoli successivi alla fine del 1400, a fronte delle testimonianze decisamente più forti e rilevanti nel Meridione una per tutte il trattato di Ortiz del 1553125.

Il più antico documento italiano che associ la viola (termine che quando occorre da solo tutti concordano sia da intendere “da gamba”) agli spagnoli è del 1493126 ma Hoffmann ritiene che si trattasse di strumenti pizzicati e non da arco127. Per quanto se ne sappia, il nome comparve per la prima volta nell’inventario degli strumenti del cardinale Ippolito d’Este del 1511128 ma Hoffamann segnala la presenza di «Tre grandi vivuole» già nell’inventario degli strumenti di Lorenzo il Magnifico redatto nel 1492129.

Nel Meridione, la più antica attestazione finora ritrovata è stata segnalata da Sisto nell’inventario del musicista ebreo nel 1513, in Sicilia130. Secondo Hoffmann, però, nei decenni successivi e ancora per tutto il Seicento il termine “viola da gamba” fu usato con accezione

117 Che WOODFIELD, cit., p. 25, non esclude e non proporne esplicitamente, evidenziando la presenza sporadica in Italia del rabab a due corde. 118 Cfr. D. GRAMIT, I dipinti musicali della Cappella Palatina di Palermo, «Schede Medievali», n. 10, gennaio - giugno

1986, pp. 5 – 55, a p. 16 – 17, che ritiene queste le più antiche raffigurazioni sopravvissute del rabab, in uso già dal X secolo, citando W. BACHMANN, The origins of bowing and the development of bowed instruments up to the Thirteenth century, London, 1969. 119 B. BRENK, Il concetto del soffitto arabo della Cappella Palatina del palazzo dei Normanni di Palermo, in Narrazione, exempla, retorica. Studi sull’iconografia dei soffitti dipinti nel Medioevo Mediterraneo, a cura di L. BUTTÀ, Palermo, 2013, pp. 9 – 40, a p. 37. 120 BRENK, cit., p. 12. Per la datazione tra il 1140 e il 1147 cita J. JOHNS, Le pitture del soffitto della Cappella Palatina, in La Cappella Palatina a Palermo, a cura di B. BRENK, Modena, 2010, pp. 387-407. 121 BRENK, cit., p. 17, che cita JOHNS, cit., per l’attribuzione. 122 WOODFIELD, cit., p. 20. 123 T. DART, Le viole da gamba, in Storia degli strumenti musicali, a cura di A. BAINES, Milano, 1983, pp. 194 – 201, a p. 194, edizione italiana del lavoro in inglese del 1961. 124 Cfr. WOODFIELD, cit., p. 109. 125 Cfr. HOFFMANN, cit., p. 98 e nota 58 a p. 171. 126 Lettera di Bernardino de Prosperi a Isabella d’Este, documento per la prima volta associato alla viola da gamba da I. WOODFIELD, The Early History of the Viol, «Proceedings of the Royal Musical Association», v. 103, 1976, n°1, pp. 141 – 157, a p. 141 e ss. 127 Cfr. HOFFMANN, cit., p. 81. 128 ARCHIVIO DI STATO DI MODENA, Registro d’amministrazione del Cardinal Ippolito d’Este, 1511, f. 245r, pubblicato in W.F. PRIZER, Isabella d’Este and Lorenzo da Pavia, Master Instrument-Maker, «Early Music History», 2, 1982, p. 110. 129 Cfr. HOFFMANN, cit., p. 80 e nota 1, p. 168, che riporta la fonte pubblicata in Inventario in morte di Lorenzo il Magnifico, a cura di G. GAETA BERTELÀ – M. SPALLANZANI, Firenze, 1992, p. 21. 130 Cfr. L. SISTO, La confisca dei beni di Matteo Sansone, musico sefardita (Palermo 1513). Considerazioni sull’introduzione della violecta spagnola in Italia, in Musica tra storia e filologia. Studi in onore di Lino Bianchi, a cura di F. NARDACCI, Roma, 2010, pp. 567 - 578.

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piuttosto generale e generica (di strumento suonato in posizione verticale) piuttosto che per significare una precisa famiglia di strumenti131.

Hoffmann pubblica una vasta rassegna iconografica dello strumento, inserendo (senza commenti nel testo) l’immagine di un rilievo di Donatello a Padova, datato 1446, sul quale però non si pronuncia (se sia o non una viola da gamba)132. Più precoci delle testimonianze documentarie e letterarie furono quelle pittoriche nell’area culturale ferrarese-bolognese (con propaggini verso Urbino) e, poi, in quella lombardo-veneta che Hoffmann ricostruisce puntualmente citando opere di Lorenzo Costa133, Francesco Francia134, Timoteo Viti135, Michele Coltellini136, Eusebio Ferrari137, Bergognone138, Bernardino Zenale139 e Giovanni Agostino da Lodi140.

Le uniche raffigurazioni riconosciute da Hoffmann fuori dall’area padano-veneta sono a Roma: quella citatissima di Filippino Lippi in Santa Maria sopra Minerva (cappella Carafa, 1488 - 1493), una inedita di un aiuto di Peruzzi (1508/09141) e quella celebre in Vaticano. Quest’ultima è ugualmente molto nota ma è stata segnalata erroneamente. Hoffmann la presenta come tarsia della porta della stanza della Segnatura in Vaticano, la data al 1512 e la ritiene anonima, in contrasto con questo sostenuto precedentemente da Bugini che la individua non nella stanza della Segnatura ma in quella di Eliodoro e la dà a fra Giovanni da Verona seppur con incertezze142.

Finora praticamente ignorata è la presenza della viola da gamba nell’arte del Meridione d’Italia. Ciò appare sorprendente nonostante Woodfield avesse riconosciuto le più antiche testimonianze pittoriche proprio in Aragona e Hoffmann avesse pubblicato la notizia della presenza della viola negli affreschi della cappella Borja della cattedrale di Valencia realizzati congiuntamente dal napoletano Francesco Pagano e dal bolognese Paolo da San Leocadio al 1472143.

131 Cfr. HOFFMANN, cit., p. 4. 132 CFR. HOFFMANN, cit., p. 75. 133 Incoronazione della Vergine, 1497 (in Bologna, chiesa di San Giovanni in Monte) e Matrimonio di Santa Caterina (coll. privata), cfr. HOFFMANN, cit., p. 83 - 84. 134 Madonna col Bambino e santi, 1500 (già a Bologna, oggi San Pietroburgo, Hermitage), cfr. HOFFMANN, cit., p. 85. 135 Madonna col Bambino, 1501 – 1505, (da Urbino, oggi in Milano, Pinacoteca di Brera), cfr. HOFFMANN, cit., p. 86. 136 Incoronazione della Vergine, 1503 (in Ferrara, chiesa di Santa Maria della Consolazione), opera attribuita anche a Baldassarre Carrari, cfr. HOFFMANN, cit., p. 87. 137 Putti, 1505 – 1510, in Vercelli, palazzo Verga, cfr. HOFFMANN, cit., p. 88. 138 Incoronazione della Vergine, 1507 (in Milano, basilica di San Simpliciano), cfr. HOFFMANN, cit., p. 88. 139 Putti, prima del 1508 (da Milano, chiesa di Santa Maria di Brera, oggi in Lurago d’Erba, villa Sormani), cfr. HOFFMANN, cit., p. 88. 140 Sacra conversazione, 1515 circa (in Gerenzano, parrocchiale), cfr. HOFFMANN, cit., p. 99. 141 San Pietro in Montorio, cfr. HOFFMANN, cit., p. 90. 142 E. BUGINI, Musica tarsiata. Catalogo dei soggetti musicalmente rilevanti del magister perspectivae Giovanni da Verona, «Imago musicae», XXIV, 2011, pp. 61 – 90, a pp. 72 – 73. Precedentemente Bornstein (cfr. BORNSTEIN, cit., p. 267) la colloca anch’egli nella stanza della Segnatura e la attribuisce al senese Giovanni Barile e la data al 1514 circa, senza citare la fonte, Bornestein e Hoffmann né ignorano (o non citano) lo storico lavoro di E. WINTERNITZ, Quattrocento-Intarsien als quellen der instrumentengeschichte¸in Bericht uber den siebenten internationalen Musikwissenschaftlichen kongress Koln 1958, Kassel, 1959, pp. 300 – 302 e tavv. IX – XIV, a p. 301 e tav. XIII, abb. 10, che anche la colloca nella stanza della Segnatura. Bugini (cfr. BUGINI, Musica tarsiata…, cit.) non commenta Bornstein (pur citandolo per altri passaggi) e riporta come riferimento bibliografico P. L. BAGATIN, Preghiere di legno. Tarsie e intagli di fra Giovanni da Verona, Firenze, 2000, pp. 121 – 132, ricordando l’autorevole attribuzione a Giovanni da Verona data da Vasari. Le tarsie sarebbero state realizzate tra il 1511 e il 1514 e l’intervento di Barili si sarebbe concretizzato solo dal 1514 e per gli intagli e non per gli intarsi. La porta effettivamente è nella stanza di Eliodoro che apre verso la stanza di Costantino. Bugini ricorda che il suo articolo sintetizza la tesi di dottorato sullo stesso tema, discussa nel 2007. 143 Cfr. quanto precisa SRICCHIA SANTORO, Pittura a Napoli …, cit., a p. 87, nota 23. Gli aspetti di interesse musicale del recente ritrovamento degli affreschi sono stati pubblicati nei contributi di A. CONDORELLI, Il coro angelico di Rodrigo Borgia, in Gli angeli musicanti della cattedrale di Valencia, a cura di M. MIGLIO - A. M. OLIVA - M. DEL

CARMEN PÉREZ GARCIA, Roma, 2011, pp. 57 – 89, in L. MAURI VIGEVANI, Gli strumenti musicali degli angeli affrescati nella cattedrale di Valencia: una preziosa fonte per la musica del Quattrocento, in ID., pp. 159 - 191, e in J. BALLESTER, Tradición, fantasía y realismo en los instrumentos musicales representados en el altar mayor de la catedral de Valencia, in ID, pp. 193 – 206. Su Francesco Pagano si veda G. DE SIMONE, Pagano Francesco, in DBI, v. 80, Roma, 2014, alla voce.

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Tuttavia, ritendo del tutto non sostenibile l’ipotesi proposta da Woodfield (seguito da Sisto144) circa il ruolo recitato dai Borgia nell’introdurre strumenti musicali spagnoli nel Meridione, riportata come segue: «Per sottolineare l’importanza dei Borgia nell’introduzione degli strumenti spagnoli in Italia non si deve comunque dimenticare l’influenza che essi esercitarono in un’altra area più a Sud, il Regno di Napoli»145.

Infatti, è vero che Alfons Borgia fu dal 1417 al 1444 uno dei più fidati ed ascoltati consiglieri di Alfonso V Trastamara, ma Alfonso il Magnanimo ebbe il controllo del Regno solo dal 1442 e già nel 1444 Alfons, elevato al cardinalato, interruppe del tutto i rapporti con re Alfonso I, diventando, dopo l’elezione al papato col nome di Callisto III nel 1453, uno dei più fermi oppositori alla politica del suo potente conterraneo e sovrano146.

Di più. La ripresa di relazioni non bellicose tra le famiglie aragonesi dei Borgia e dei Trastamara si ebbe solo dal 1493, quando il papa Alessandro VI si riconciliò con Ferrante I di Napoli147. I rapporti si consolidarono nel 1494, anno del matrimonio di Goffredo148, figlio di papa Alessandro VI Borgia, con Sancia, figlia naturale del duca di Calabria, poi re Alfonso II (la dote portò alla famiglia Borgia il principato di Squillace) e poi definitivamente dal 1498 grazie al matrimonio, ben più rilevante, di Alfonso, figlio naturale di re Alfonso II Trastamara, duca di Bisceglie e principe di Salerno, con Lucrezia, figlia del papa149.

Quindi, supporre una influenza culturale dei Borgia nel Regno è quanto mai improbabile, salvo che nei territori a loro infeudati e comunque solo per l’ultimo decennio di dominio della corona aragonese nel Meridione. Piuttosto, sono molto più consistenti, significative e indiscusse le influenze dovute ai musicisti spagnoli nella cappella reale napoletana allestita già dal Magnanimo150.

E ancor più lo sono le tracce, numerose, diffuse, perduranti e unanimemente riconosciute dalla critica d’arte, della pittura valenzana su quella meridionale almeno dagli anni 1420-30, quindi anche prima dell’ascesa al trono di Alfonso I, e ben oltre il ritorno di Pagano dall’impresa nella cattedrale di Valencia, e fino agli anni iniziali del 1500151.

In ogni caso, Woodfield cita un solo esempio pittorico anche a Napoli, nella parte inferiore trittico su tavola dell’Incoronazione della Vergine di Scacco oggi a Capodimonte152. Ma Leone de Castris sostiene che gli angeli musici (quasi completamente perduti) dipinti ai piedi della scena siano con certezza (attesi i dati del restauro) di un anonimo pittore locale153. Inoltre, precisa che l’opera proviene da Salerno, monastero della Maddalena, e che fu realizzata nella tarda maturità del pittore154, cioè qualche anno prima del 1500. 144 Cfr. SISTO, cit., pp. 567 – 568, che forse accoglie l’ipotesi di Woodfield, citato come riferimento bibliografico nella nota precedente al suo asserto. 145 Cfr. WOODFIELD, cit., p. 109. 146 Cfr. F. SENATORE, Callisto III nelle corrispondenze diplomatiche italiane. La documentazione sui Borgia nell’Archivio di Stato di Siena, in I figli del signor Papa, Quinto centenario della morte di Cesare Borgia (1507-2007), Actes del II Simposi Borja (València-Gandia, 21-23 novembre 2007), «Revista Borja. Revista de l’IIEB», 2 (2008-09), pp. 141-182, a p. 151, dove ricorda le scorrerie del condottiero Niccolò Piccinino del 1455 l’episodio che causò la rottura definitiva tra Alfonso I e Callisto III. 147 Cfr. G. B. PICOTTI, Alessandro VI papa, in DBI, v. 2, Roma, 1960, ed. on-line. 148 Cfr. G. DE CARO, Rodrigo Borgia, in DBI, v. 12, 1971, ed. on-line. 149 Cfr. S. BORSARI, Alfonso d’Aragona, in DBI, v. 3, Roma, 1961, ed. on-line. 150 Cfr. A. W. ATLAS, Music at the Aragonese court of Naples, Cambridge, 1985, pp. 23 – 57 e pp. 87 – 97, che riporta puntuali riferimenti alle fonti amministrative e contabili della cancelleria napoletana, sin dagli anni della presenza di Alfonso I. 151 Valgano per tutti i lavori di: SCAVIZZI, cit.; F. BOLOGNA, Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli, 1977; P. LEONE DE CASTRIS, Il “Maestro dei Penna” uno e due ed altri problemi di pittura primo-quattrocentesca a Napoli, in Scritti in onore di Raffaello Causa, a cura di S. CASSANI – D. CAMPANELLI – R. CAUSA, Napoli, 1988, pp. 53 – 65; LEONE DE CASTRIS, Quattrocento aragonese…, cit. 152 Cfr. WOODFIELD, cit., p. 109. 153 Cfr. P. L. LEONE DE CASTRIS, Incoronazione della Vergine e i Santi Marco e Giuliano, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 77 – 79, a p. 79. 154 IBIDEM.

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Non ci sono paralleli tra l’esemplare del nostro dipinto e le raffigurazioni di Virdung155, ma ciò non sorprende perché siamo ben lontani dalla temperie culturale, musicale e grafica del Regno di Napoli. Solo qualche punto di contatto c’è tra la nostra viola e quelle di Ganassi156.

Considerata la mancanza di riferimenti al Meridione in bibliografia, è importante segnalare le altre occorrenze del nostro per lo strumento rintracciate nell’orizzonte culturale del Regno di Napoli.

Come la nostra (e quindi piuttosto lontana dalla forma poi divenuta usuale, quella con le spalle spioventi) si vedono nella tavola Adorazione dei Pastori in Napoli, Certosa e Museo di San Martino (anonimo catalano, sec, XV157), nel trittico di Andrea Sabatini in San Valentino Torio del 1511158, nell’Assunta di bottega di Cola dell’Amatrice (Agnone, chiesa di San Francesco, del 1530159), del Maestro di Gesualdo in Gesualdo, del 1530 - 1540160, nella Natività di Giovan Filippo Criscuolo in Napoli, Quadreria dei Girolamini, del 1540161, negli affreschi e nella tavola della cripta della cattedrale della Rabatana di Tursi, di due diversi artisti rispettivamente vicini a Giovanni Todisco e a Simone da Firenze, realizzati intorno al 1550162, nella tavola Madonna del Carmine coi santi Antonio e Francesco in Pietravairano, chiesa di Sant’Eraclio, datata 1570 - 1585163, nella Visione di Sant’Orsola di Donato Piperno del 1590/1595 in Benevento, Museo del Sannio164, nella Natività e Santi anonima di Baronissi, convento della Trinità (forse del 1590 – 1610), negli affreschi anonimi del ex convento degli Agostiniani in Campagna (oggi municipio), databili probabilmente a poco prima del 1618165, e in un affresco anonimo, di matrice popolare, databile intorno agli anni 1620-30 in Santa Maria a Vico, basilica dell’Assunta166.

La viola da braccio della tavola di Fondi sembra collegata alla nostra, ma in uno stile (organologico, non solo pittorico) decisamente più aggiornato e moderno. Le caratteristiche più evolute dello strumento lì presenti (profilo di spalle e fianchi, la forma delle incavature e le punte, la tastiera in legno scuro, nero) si ritroveranno (a volte tutte, a volte solo alcune) in altri strumenti da gamba in dipinti molto posteriori, mediamente mezzo secolo e più. Oltre a quelle per nulla studiate della provincia di Caserta e di Benevento167, si vedano, per esempio168, le viole da gamba: di Teodoro d’Errico (Dirk Hendricks) nell’Assunta di Santa Maria a Vico (Madonna del Rosario del 1585 e Santa Caterina d’Alessandria, Santa Caterina da Siena e Ferdinando d’Aragona in adorazione della Vergine col Bambino del 1594 - 1595)169; nella Apparizione della Madonna col

155 Cfr. S. VIRDUNG, Musica getutscht und ausgezogen, Basel, 1511, ff. 46v e 51v. 156 Cfr. S. GANASSI, Regola rubertina, Venezia, 1542, frontespizio. 157 Come da indicazione del cartiglio museale. 158 Per attribuzione e datazione cfr. F. ABBATE, Andrea Sabatini, trittico, da Salerno, p. 114-117, in Andrea da Salerno nel Rinascimento Meridionale, cit., pp. 114 – 117. 159 Cfr. L. MORTARI, Molise: appunti per una storia dell'arte, Roma, 1984, p. 111 e fig. 172; si caratterizza per il lungo manico. 160 Cfr. A. CUCCINIELLO, Madonna di Costantinopoli, in Capolavori della Terra di Mezzo. Opere d'Arte dal Medioevo al Barocco, a cura di A. CUCCINIELLO, Napoli, 2012, pp. 122 – 123, che non analizza alcun dettaglio musicale. 161 Cfr. R. MIDDIONE, La Quadreria dei Girolamini, Pozzuoli, 1995, p. 19, che non entra in alcun dettaglio musicale. L’esemplare si caratterizza per la lunghezza spropositata dell’archetto. 162 Cfr. MIRAGLIA - SETTEMBRINO, cit., con bibliografia di riferimento. 163 Anonima, cfr. ANGELONE –VITAGLIANO, cit., p. 41. 164 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… Fasto e devozione, cit., p. 283, pp. 320– 322, e p. 325. 165 Cfr. RIVELLI, cit., libro I, p. 234; PESSOLANO, cit., p. 217 riporta il termine dei lavori al 1616. 166 Si tratta di un affresco staccato dal presbiterio (notizia orale), conservato in una sala che affaccia sul chiostro sul braccio attiguo alla chiesa. 167 Segnalo: anonimi, fine sec. XVI – inizi sec. XVII, a Sessa Aurunca (5 dipinti tra tavole, tele e affreschi in palazzo vescovile, Chiesa di Sant’Anna, Santuario della Libera); anonimo, intorno al 1630 – 1640 a Camigliano, chiesa di San Simeone; anonimo della seconda metà del 1600 a Francolise, parrocchiale di Santa Maria a Castello e quella davvero in ogni senso diabolica del Museo del Sannio in Benevento (in una raffigurazione de La notte del Sabba, probabilmente realizzato nella prima metà del XVII secolo). 168 Escludo quasi del tutto gli esempi napoletani che conosco, il cui elenco prenderebbe molto spazio. 169 Cfr. R. GERVASIO, Per una prima indagine di iconografia musicale sui rapporti tra Napoli e Caserta, in Archeologia e arte in Campania, a cura di F. D’EPISCOPO – M. DE RUBERTIS, Salerno, 1993, pp. 201 – 233, a pp. 211 – 214, in cui

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Bambino a San Giacinto in Napoli, chiesa di San Domenico Maggiore, di Giovan Vincenzo Forli del 1595170; di Girolamo Imparato171; di Donato Piperno nella Madonna del Museo del Sannio di Benevento; di Fabrizio Santafede nella Madonna del Rosario in Mercato San Severino, chiesa di San Giovanni in Palco, del 1586172; nella Madonna del Rosario del 1589 di Aert Mytens in San Domenico (ma proveniente da San Pietro) di Benevento173; della bottega di Cornelis Smet in Lecce, chiesa del Gesù174; di Pietro Torres nell’Immacolata in Napoli, palazzo Arcivescovile del 1591 – 1603175; di Balducci in Maddaloni, Annunziata, del 1604176; di Pirrus Marturius in Casagiove, chiesa di San Michele, del 1609; di Orazio di Carluccio a Sommana di Caserta del 1609177; di Azzolino nella Madonna del Rosario in Napoli, Santa Maria della Sanità (1612 – 1614)178; di Belisario Corenzio negli affreschi della cappella Ravischieri in Santa Teresa degli Scalzi (1612 – 1614)179; di Giovan Tommaso Guarino in Solofra, collegiata di San Michele, del 1620180. 2.6 Il liuto del registro superiore L’angelo che suona il liuto condivide la postazione sulla nuvola con l’angelo che suona la viola da gamba. Dello strumento si può dire davvero pochissimo perché è in una delle parti maggiormente danneggiate del dipinto. Ha la consueta cassa piriforme, di forma piuttosto allungata rispetto a quella usuale tra gli anni finali del 1400 e i primi due-tre decenni del 1500181, ha il cavigliere ripiegato (probabilmente proprio ad angolo retto rispetto al manico) e si caratterizza per un foro centrale della tavola armonica di grandi dimensioni e, apparentemente, non coperto da una rosa. Il gesto esecutivo dell’angelo è corretto e non si impone all’attenzione per alcun tratto distintivo (figura 9). 2.7 Il flauto e tamburo o flauto a una mano

A sinistra, in piedi, al di sotto dell’altro angelo che suona i cimbali anch’egli in piedi, è un angelo che suona un flauto a tre buchi con un tamburo. Il flauto a tre buchi è uno strumento della famiglia dei flauti dolci in cui la produzione del suono avviene grazie al becco strutturato come un fischietto182.

Lo strumento si distingue dal flauto a becco a sei o più fori per la cameratura cilindrica estremamente ridotta che consente di produrre solo suoni armonici dei fondamentali e per la presenza di soli tre fori, due anteriori (per l’indice e il medio) ed uno posteriore per il pollice. L’estensione dello strumento raggiunge senza eccessive difficoltà quasi due ottave, cui devono essere aggiunti i quattro suoni fondamentali al grave, cioè all’ottava inferiore di quella in cui si

per il primo ritiene insolito il cavigliere all’indietro (tipico della vihuela) in uno strumento da gamba e per il secondo, pur rilevando la plausibile derivazione dalla vihuela (sempre per il cavigliere all’indietro) segnala la mancanza della tastatura. 170 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… l’ultima maniera, cit., p. 208. 171 A Napoli (chiesa di Santa Maria del Popolo agli Incurabili), a Castellammare di Stabia (158?, dalla chiesa di San Francesco, oggi nel Museo Diocesano), a Montecassino (primi anni del 1600), a Nicotera (Museo diocesano, da Vibo Valentia, chiesa di San Raffaele, 1605), in località sconosciuta (mercato antiquario Monaco, 1991), cfr. S. DE MEIRI, Girolamo Imperato nella pittura napoletana tra ‘500 e ‘600, Napoli, 2009, rispettivamente a pp. 176 - 177, p. 184-185, p. 222 e 224, pp. 227 – 228, pp. 228 – 229. 172 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… l’ultima maniera, cit., p. 26 e p. 261, fig. a p. 264. 173 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… l’ultima maniera, cit., pp. 86 – 88, dalla forma davvero bizzarra. 174 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… l’ultima maniera, cit., p. 37 e 40. 175 Cfr. P. L. DE CASTRIS, Pietro Torres: Immacolata concezione ed angeli, in Opere d’arte nel palazzo Arcivescovile di Napoli, Napoli, 1990, pp. 54 – 55. 176 Cfr. GERVASIO, cit., p. 217; DI LORENZO, Aggiunte …, cit., pp. 25-53, a pp. 33; 177 Cfr. P. DI LORENZO, Aggiunte …cit., a pp. 35; 178 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… l’ultima maniera, cit., p. 308 e p. 311. 179 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… l’ultima maniera, cit., p. 209 e p. 220. 180 Cfr. GERVASIO, cit., p. 227, che cita, attribuisce e data il dipinto ma lo analizza solo per l’arpa. 181 Si vedano le opere citate, nella quasi totalità delle quali è presente il liuto. 182 Per la struttura del flauto a becco si veda V. GAI, Flauto, in DEUMM, cit., alla voce flauto, p. 247 e ss.

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possono ottenere tutti i suoni diatonici (e, in parte, cromatici) di una scala183. Il nome italiano dello strumento proposto da Lanza è “tamburino”184 mentre Bornstein lo

individua come “flauto a tre buchi” o “flauto da tamburo”. Nella traduzione italiana di Sachs è indicato, più correttamente, “flauto sonato con una sola mano”185. Col nome “flautino ad una mano” lo introduce e lo descrive Seravalle186 e forse è la soluzione terminologica più appropriata e completa.

Figura 10. Flauto a una mano nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano (1530-40). L’incertezza del nome con cui fu chiamato in Italia in passato e ancor oggi appare evidente

nel fatto che la voce “pipe and tabor” (usata in inglese per lo strumento) del celebre dizionario Grove taccia sul termine italiano, pur riportando quelli nelle altre principali lingue europee187.

L’attestazione più antica nei trattati di teoria musicale risale al 1270 circa, nell’Ars musica di Egidius di Zamora188. Un’altra citazione apparve già alla fine del 1200 in Toscana: «Lo cecino si è uno ucciello che è de grande corpo et è quasi tutto biancho et ave cotal natura ch'elli canta volontieri, e quando homo li sona uno stormento che ssi chiama arpa, sì s'accorda con esso in cantare, sì como lo f[laut]o co lo tamboro»189. Nel Meridione e in lingua napoletana il termine usato per il flauto fu “siscariello” ma non credo ci fosse la prassi dello strumento suonato a una mano e col tamburo nella tradizione popolare190.

L’origine e la datazione della nascita dello strumento sono taciute in Sachs, Lanza e Bornestein. Seravalle genericamente lo fa sorgere in Europa Occidentale verso la metà del XII

183 BORNSTEIN, cit., pp. 64, dà una estensione di una ottava e una quarta, oltre ai quattro suoni fondamentali. 184 A. LANZA, Tamburino, in DEUMM. Il lessico, v. 4, Torino, 1984, alla voce. 185 Cfr. SACHS, cit., p. 367. 186 Cfr. L. SERAVALLE, Angelicus concentus. Gli strumenti musicali nei dipinti di area senese e grossetana dei secoli XIII – XVII, Grosseto, 2006, pp. 232 – 234. 187 Cfr. A. C. BAINES – H. LA RUE, Pipe and tabor, in Grove, alla voce. 188 Cfr. BAINS – LA RUE, cit., 189 Nel Bestiario toscano, XIII ex. (pis.), cap. 8, pag. 27.23, cfr. TLIO, alla voce. 190 Per le citazioni storiche sul “siscariello” si veda il paragrafo 2.9 dedicato al “vottafuoco”.

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secolo, ma senza citare fonti191. In ogni caso, la diffusione dello strumento sembra limitata all’Europa occidentale ed è riassunta in Lanza192 e ripresa da Bornestein193. Anche Sachs non sembra conoscere la presenza del flauto a tre buchi suonato ad una sola mano in altre civiltà194. Baines – La Rue sorvolano sul luogo di origine del flauto a tamburo confermando che nella musica tradizionale dell’Europa Orientale lo strumento non è conosciuto195.

Tutti gli autori citati sembrano riferire il contesto d’uso del flauto a tamburo alla sola musica strumentale e in particolare a quella di accompagnamento alla danza. Mi sembra una posizione francamente assai parziale che non giustifica in alcun modo la presenza in iconografie sacre e, almeno nel Meridione, con frequenza persino maggiore a quella di altri strumenti (per esempio la ghironda).

Nell’esemplare raffigurato nel dipinto di Capua, l’angelo sembra sostenere il tamburo con un laccio di sospensione a forma di anello. Il tamburo sembra circolare: non se ne può cogliere l’altezza della cornice, a causa dello stato di conservazione assai deteriorato del dipinto. Non si distinguono neppure dimensioni, forma e materia della bacchetta di percussione. Il flauto si segnala per le dimensioni ridottissime del diametro, rispetto alla lunghezza. Ciò lascia indurre possa trattarsi di una realizzazione in canna naturale piuttosto che in legno o addirittura in metallo (come nel whistle irlandese). La lunghezza del flauto induce a propendere per una intonazione tenore196. Il flauto è sostenuto in modo apparentemente corretto dall’angelo, che sembra fermarlo tra anulare e mignolo, come consueto.

Se ci si limita alla bibliografia di organologia storica, l’iconografia nota per l’Italia sembra fermarsi alla sola citazione di Bornestein del solito affresco Lippi per la cappella Carafa in Santa Maria Maggiore in Roma, dove, però, lo strumento è accoppiato alla cetra e non al tamburo197. Lanza tace esempi italiani ma cita quella che ritiene la più antica raffigurazione in Europa che è nei manoscritti delle Cantigas de Sancta Maria, datati alla metà del XIII secolo198. Esempi di ambito senese-maremmano sono riportati dalla metà del secolo XIV in Seravalle199.

Nel Regno di Napoli il primo documento iconografico del flauto a tamburo sembra essere lo strumento dipinto da Leonardo da Besozzo nell’affresco della parete d’ingresso della cappella Caracciolo del Sole in San Giovanni a Carbonara in Napoli, datato agli anni Quaranta del XV secolo200 (che si evidenzia per il flauto di taglio soprano, per il tamburo di diametro molto grande e di fusto molto sottile), seguito dallo strumento raffigurato nel rilievo marmoreo del trionfo di Alfonso al Castel Nuovo, attribuito a Pere Joan e datato al 1456-57201, nel Polittico di Laurino di Faffeo (1482202), nell’incisione del 1485 che illustra una delle favole di Esopo datata un trentennio dopo203, nell’Andata al Calvario del 1487 di Teggiano, Convento della Ss. Pietà, refettorio204

191 Cfr. SERAVALLE, cit., p. 232. 192 Cfr. LANZA, cit. Il riferimento di Lanza all’America Latina sembra collegato alla colonizzazione spagnola, fatto salvo, al più, un flauto di Pan accoppiato al tamburo diffuso in Perù, in epoca pre-incaica. 193 Cfr. BORNSTEIN, cit., p. 67. 194 Cfr. SACHS, cit, nei capitoli dedicati a ciascuna delle civiltà antiche e recenti del mondo intero. 195 Cfr. BAINES – LA RUE, cit. 196 Circa 65 cm, cfr. SACHS, cit., p. 368. 197 Cfr. BORNSTEIN, cit., p. 66. 198 Cfr. LANZA, cit. 199 Cfr. SERAVALLE, cit., pp. 233 – 234. 200 Cfr. ABBATE, Storia dell’arte …Il Sud Angioino e Aragonese, cit., p. 150. 201 Cfr. FROMMEL, cit., p. 23. Ma il flauto del “flauto a tamburo” del corteo di Alfonso è eccezionalmente corto, secondo una tipologia assai rara. Uno strumento popolare, simile anche per dimensioni, è in uso ancora oggi in Valle Imagna, nel bergamasco, ed è noto col nome di sivlì. 202 Cfr. PAVONE, cit., p. 22 – 25, oggi nel Museo Diocesano di Vallo della Lucania. 203 Aesopus. Vita et fabulae, Napoli 1485, in M. RASMUSSEN, Mary Rasmussen's Musical Iconography, pipe and tabor, ottobre 2008, www.unh.edu/music/igref.htm. 204 ABBATE, Storia dell’arte …Il Sud Angioino e Aragonese, cit., pp. 175 – 176, che li ritiene vicini ai migliori di quelli di San Donato in Ripacandida che si richiamano a Giovanni da Gaeta. Non mi sembra che Abbate evidenzi che si possa trattare di una committenza diretta dei Sanseverino, il cui stemma compare nella cornice laterale sinistra dell’affresco.

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(l’unico che mostra la cordiera del tamburo, il particolare delle corde di tensione lungo il fusto del tamburo e i due fori anteriori del flauto, che però è impugnato in modo innaturale), nelle due miniature presenti, rispettivamente, nel corteo dell’incoronazione di Alfonso II d’Aragona e in quello dell’ambasceria turca nel manoscritto Ferraiolo, datate 1494-95205 e in Paolo del Donzello a Napoli, Monteoliveto, 1490 circa206.

Occorrenze di poco anteriori o contemporanee alla nostra raffigurazione capuana sono: Perugino in Napoli, Duomo (1502 – 1504)207; Francesco da Tolentino (1525) in Napoli, sala capitolare di Santa Maria La Nova208; Machuca in Madrid, collezione Gonzalez (1530 circa)209; l’Assunta dell’altare maggiore della Collegiata di Fondi (1534)210, attribuita allo stesso Criscuolo; Basilicata e il presepe di Aurelio Persio della chiesa di San Francesco in Gallipoli del 1535 circa211, nella tavola della cripta della cattedrale della Rabatana di Tursi, di artista vicino a Simone da Firenze, realizzata intorno al 1547212.

4.8 La viola da braccio

Come fu davvero la viola da braccio credo che sia uno dei problemi aperti più rilevanti dell’organologia storica. Infatti, diverse sono le possibili definizioni e, soprattutto, molteplici sono le ipotesi sulla forma, sul numero di corde e sulla struttura (interna) dello strumento. Ancor più ardua e dibattuta è l’individuazione degli elementi strutturali e musicali che distinsero le viole da braccio (o rinascimentali) dalle progenitrici vielle (o viole medioevali). E molti degli aspetti ancora indefiniti e dibattuti dipendono proprio dal fatto che anche la viella è ancora una sorta di fantasma organologico, sebbene iconograficamente molto meglio distinguibile dalla sua compagna ribecca213.

Sembrano condivisi, però, alcuni punti: la differenza con la viola da gamba si gioca sulla posizione di esecuzione, che non coinvolge la parte bassa del corpo umano, ma solo tronco e spalle e una direzione sostanzialmente orizzontale dello strumento; le corde generalmente non furono tastate né in modo fisso né con laccetti; ci fu la coesistenza di modelli diversi anche nella stessa zona e nella stessa epoca; l’evoluzione della viola rinascimentale e la sua sostituzione alla viella durò almeno mezzo secolo; la nascita della viola da braccio rinascimentale dalla viella medievale si possa datare al tardo secolo XV e si possa localizzare in Italia, probabilmente in Lombardia. Non per nulla furono Brescia e Cremona i centri che per primi e per secoli si distinsero per la costruzione del violino, la ulteriore evoluzione della viola da braccio nel taglio soprano.

Purtroppo, anche della nostra viola da braccio molti particolari sono perduti o non sono mai stati dipinti, avendo poca superficie pittorica a disposizione. Lo strumento ha una forma molto allungata: la lunghezza del corpo dello strumento è circa 5 volte la larghezza minima del corpo al

205 FERRAIOLO, Cronaca della Napoli aragonese / Cronaca Partenope, New York, The Pierpont Morgan Library, Ms M. 801, foll. 103 e 104v, cfr. RASMUSSEN, cit. La cronaca è pubblicata da R. FILANGIERI, Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento, Napoli, 1956. Il contesto musicale del periodo è descritto in A. ATLAS, Music at the Aragonese court, Cambridge, 1985, pp. 98 e ss. 206 Cfr. SRICCHIA SANTORO, Pittura a Napoli …, cit., p. 82. BUGINI, Lineamenti di iconografia musicale …, cit., p. 9 non si accorge e quindi non cita gli altri strumenti presenti, suonati dai putti ai lati dei due angeli che tengono il cordone legato allo stemma: il flauto a tamburo e la ribecca a destra e il flauto doppio e il cerchietto di sonagli a sinistra. 207 Cfr. ABBATE, Storia dell’Arte … Il Cinquecento, cit., p. 10. 208 Cfr. G. REBECCHINI, Francesco da Tolentino, in DBI, Roma, v. 50, 1998, edizione on-line. 209 DACOS, cit., pp. 134 – 136, in cui il dipinto è datato a dopo il ritorno di Machuca in Spagna, nel 1519 – 1520. 210 Arte a Gaeta, dipinti dal XII al XVIII secolo. Gaeta, Palazzo De Vio, Firenze, 1976, figura n. 31, p. 81, citata in RASMUSSEN, cit. 211 Cfr. D. FABRIS, Presepi scultorei con strumenti musicali del Cinquecento in Puglia, «RIdIMNewsletter», v. 16, 1991, n° 1, pp. 8 – 20, a p. 10 e nota 7 a p. 16, che per l’attribuzione e la datazione cita C. GELAO, Il presepe artistico pugliese, Bari, 1992. In effetti, Fabris in più passi (ID, p. 13 e p. 19) parla di un cornetto «o simile strumento» invece che di un flauto, contro l’evidenza della struttura troncoconica ma rettilinea del tubo sonoro. 212 Cfr. DEROSA, cit., p. 40, con bibliografia di riferimento. 213 Per la viella: cfr. M. REMNANT, Fiddle, in Grove, alla voce; SACHS, cit., pp. 322 – 326; A. BAINES, Origini antiche e popolari, in Storia degli strumenti musicali, …, cit., pp. 211 – 251, a p. 227 – 232; C. CASELLATO, Viola, in DEUMM, alla voce. Ai precedenti, per la viola da braccio si aggiunga BORNESTEIN, cit., pp. 274 – 280.

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centro dell’incavature. Le incavature sono poco profonde e, sebbene di forma semicircolare, hanno raggio meno di 1/6 della larghezza minima della cassa. Le incavature terminano ciascuna in due punte molto marcate. Le spalle incontrano la cortissima tastiera ad angolo retto. Il cavigliere sembra terminare a ricciolo.

I fori di risonanza sono a forma di C, distanziati (forse) della distanza massima occupata dalle corde, che non si vedono per nulla, e col centro allineato alle punte superiori delle incavature. Il ponticello appare come una piccola macchia scura leggermente arcuata. Non si distingue la cordiera. Lo strumento appare dipinto con un colore molto chiaro, vicino al giallo ocra, molto lontano dal colore scuro degli strumenti ad arco realizzati successivamente.

L’archetto è conservato solo in piccola parte grazie alla traccia nera dipinta che individua la bacchetta che appare piuttosto curva; una leggera traccia marrone sembra indicare i crini. Stimando che l’arco termini almeno nella mano destra dell’angelo e non superi la cassa dello strumento, la lunghezza dell’arco sarebbe maggiore di 1/3 della lunghezza del corpo.

Figura 11. Viola da braccio nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano (1530-40).

L’angelo suona la viola nella postura usuale ancor oggi per il violino e la viola. La mano

destra sostiene l’archetto, la sinistra sembra appoggiarsi a parte del cavigliere per accordare. Proprio sulla scorta della vasta diffusione nell’iconografia italiana propongo che una

possibile distinzione (almeno nella forma) tra viella e viola da braccio possa basarsi sulla presenza delle incavature nel corpo dello strumento che solitamente nella viola assumono una forma semicircolare.

Questa ipotesi di lavoro potrebbe essere confermata da un censimento su larga scala delle rappresentazioni e da una analisi dei dati raccolti sui dipinti e sulle sculture: datazione, luogo di produzione, ambito autoriale (autore, bottega, scuola), data di arrivo nella località, relazioni con altre opere dello stesso territorio, l’affidabilità organologica della realizzazione pittorico-scultorea.

In attesa, è opportuno comunque richiamare le altre rappresentazioni presenti sul territorio, concentrando l’elenco tra gli ultimi esempi di raffigurazione di viella e qualche altra rappresentazione coeva o di poco successiva alla nostra. Raffigurazioni di viola da braccio utili per confronti sono quelle di Pinturicchio Tesauro e bottega in Eboli, San Francesco, affreschi di poco

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successivi al 1520214 (cassa molto sottile, colore chiaro, incavature molto profonde e strette, foro di risonanza circolare al centro, spalle spioventi, ponticello larghissimo, cavigliere piatto, archetto corto), dell’Assunta di Machuca, oggi a Capodimonte, che Leone de Castris ritiene opera realizzata a Napoli sul crinale del 1530215 (incavature profonde, spalle spioventi, tastiera lunga, cavigliere a ricciolo, cassa piuttosto sottile, colore bruno), dell’anonimo vicino ai modi di Cardisco della Madonna col Bambino e angeli musici dei Girolamini in Napoli, datata 1530-1540216 (cassa scura, tastiera corta, incavature poco profonde e quasi senza punte, spalle tonde, cavigliere piatto, fori a C), di Fondi del 1534 (cassa molto spessa, di colore scuro, incavature poco profonde, spalle non spioventi, punte molto prominenti, fori a C, tastiera, cordiera e ponticello, cavigliere non visibile, archetto molto curvo, piuttosto corte). 2.9 Il liuto del registro centrale

In posizione simmetrica alla viola da braccio rispetto alla Vergine Assunta, dall’altra parte è un angelo piccolo con un altro liuto. Anche in questo caso le dimensioni della raffigurazione e lo stato di conservazione consentono poche osservazioni. Sembra un liuto di piccolo formato e di caratteristiche del tutto simili a quello raffigurato nel registro immediatamente superiore: il grande foro di risonanza centrale, in parte nascosto dalla mano destra dell’angelo, la mano sinistra poggiata sulla tastiera in posizione adeguata al fermare le corde, la cavigliera rivolta all’indietro (sembra ad angolo retto). In questo caso mi sembra di poter scorgere almeno 5 corde/cori (figura 12). 2.10 Buffatuoco, vottafuoco o altobasso

Alla destra dell’angelo precedentemente descritto è un angelo che suona un altobasso. Si tratta dell’accoppiamento di un flauto a tre buchi (del tipo di quello accoppiato al tamburo descritto nel precedente paragrafo 2.7 di quest’articolo) e di un cordofono a corde percosse217. Fu descritto da Zarlino218 come segue «Si ritrova etiandio un'altra sorte d'Istrumento lungo intorno un braccio, il cui nome si chiama in Vinegia Altobasso, et è quadrato et vacuo; sopra 'l quale sono tese alquante chorde accordate tra loro per una delle nominate consonanze, et s'usa in questa maniera; che mentre 'l Sonatore di questo Istrumento sott'un certo numero, ò tempo percuote con una mano le sue chorde con una bachetta, con l'altra sona un Flauto, et fà udir'un'aria di cantilena, fatto à suo modo».

E’ uno strumento non frequente nell’iconografia degli strumenti musicali ed è conosciuto per diverse raffigurazioni medievali e primo rinascimentali quasi ovunque in Italia e in Europa219. Ma, credo, solo nel Meridione e Napoli in particolare ebbe una singolare fortuna fino a tutto il XVIII secolo220. E’ stato un problema lungamente dibattuto individuare il nome con il quale in passato lo strumento fu identificato nel Meridione.

Credo che sia stata per prima Barassi ad individuare il “vottafuoco” in una descrizione di Cesare Negri ma ritenne si trattasse di uno strumento ad ancia: «.. adatto a creare un’atmosfera festosa e ad accompagnare il ballo: poteva, perciò, uno strumento a fiato ad ancia, dal

214 P. L. LEONE DE CASTRIS, Agostino Tesauro, in GIUSTI – LEONE DE CASTRIS, cit., pp. 187 – 226, a p. 192 e ss. 215 LEONE DE CASTRIS, Pedro Machuca …, cit., pp. 168 – 170, a p. 170. 216 Cfr. R. MIDDIONE, La quadreria dei Girolamini, Pozzuoli, 1995, p. 20. 217 Cfr. SACHS, cit., pp. 367 - 368; Altobasso, in DEUMM, v. 1, alla voce, p. 70; Tambourin de Béarn, in DEUMM, cit., vol. IV, alla voce, p. 484; BORNSTEIN, cit., p. 64-68. 218 Cfr. Altobasso, in DEUMM, cit., che riporta il riferimento a Zarlino (1588) privo dell’indicazione del titolo dell’opera ma che è identificabile con G. ZARLINO, Instituzioni Harmoniche, Venezia, 1588, p. 216-218. La voce tambourin de Béarn in DEUMM, cit., fa riferimento ad altri nomi invalsi nell’uso in diverse parti d’Europa ed in diversi periodi: «chorus, choron, nel XI-XIV sec.; medio tedizione[esco] bonge [?]». 219 Cfr. J. BLADES – M. CYR – D. KETTLEWELL, Tambourin de Béarn [tambourin de Gascogne, tambourin à cordes], in Grove, alla voce. 220 La citazione più tarda fuori dal Regno di Napoli sembra quella del 1666, riportata in M. TARRINI, Appendice - Addenda, in BALDANO, cit., pp. 214 – 220, a p. 219.

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suono acuto e penetrante, come la bombarda o cennamella, che – guarda caso – altrimenti mancherebbe nella sfilata descritta dal Negri»221.

Ferrari Barassi (1984) cita l’ipotesi di Barassi del saggio del 1967 come «forse una

bombarda o un piffero-cennamella tenore», aggiungendo che «... potrebbe anche essere uno strumento a percussione, perché esso è accomunato al tamburo e alla campana da Virgiliano 1600, circa»222. Tarrini223 riporta il passo di Virgiliano che, in effetti, è solo la titolazione di una pagina non completata del manoscritto (tra le tante della terza parte): «Il Tamburro: Il Buttafoco: E la Campana»224 ma non chiarisce che nella stessa pagina ci sono anche idiofoni, strumenti a fiato (anche doppie e ottoni), a corde: «Modi di sonar il Pa[n]calamo: La Piva / La Tro[m]ba marina / Il Ti[m]pano: La Gnacch[e]ra / Il Triangolo: Il Tabali: La Tro[m]ba: Il Tamburro: Il Buttafoco: E la Campana». Il che pregiudica ogni tentativo di possibile classificazione per similitudine con uno tra gli altri.

Anche Meucci (1996, ma pubblicato nel 2001) sembra d’accordo con Barassi quando classifica il “buttafuoco” negli strumenti a fiato225. Ma poi Meucci (1998) cambia opinione226 e dichiara che a Napoli lo strumento doppio (cordofono-aerofono accoppiati) era noto come “vottafuoco” o “buttafuoco”.

Van der Meer segnala che Baldano (1600 circa) tra i brani per sordellina raccolse anche alcuni brani per buttafuoco e ne delinea le caratteristiche. In particolare, soffermandosi sul fatto che l’intavolatura ha due righi sostiene che il buttafuoco fosse un flauto o un clarinetto doppio227 associato ad un cordofono, una cetra a percussione. Che van der Merr propendesse per il clarinetto doppio calabrese come fiato per il buttafuoco è registrato nella citazione di Leydi e Guizzi228. Dopo questi interventi, anche O’Neill accetta che il buttafuoco sia costituito da un cordofono229. Ballester propende per il nome buttafuoco, ma senza precisare la natura dello strumento melodico230.

Ma credo che la prova definitiva di cosa fu davvero il “vottafuoco col siscariello” l’avesse già data Nocerino, che nel 2001 attesta i «flauti de botta foto» presenti nella bottega di due liutai

221 E. BARASSI, Costume e pratica musicale in Napoli al tempo di Giambattista Basile, «Rivista italiana di Musicologia», 167, v. 1, n. 2, pp. 74 – 110, a pp. 91 – 92. Il testo di Cesare Negri è il celebre trattato di danza: C. NEGRI, Le gratie d’amore, Milano, 1602, pp. 9 e ss. 222 E. FERRARI BARASSI, Feste, spettacoli in musica e danza nella Milano cinquecentesca, in La Lombardia Spagnola, a cura di A. ANNONI, Milano, pp. 197-220, a p. 212 e nota 22. 223 Cfr. TARRINI, cit., a p. 215. 224 Cfr. A. VIRGILIANO, Il dolcimelo, manoscritto del XVII secolo in BOLOGNA, CIVICO MUSEO BIBLIOGRAFICO

MUSICALE, ms. c 33, a c. 59r. 225 R. MEUCCI, La bibliografia organologica italiana, in Canoni bibliografici. Atti del convegno internazionale IAML-IASA. Perugia, 1-6 settembre 1996 (Contributi italiani), a cura di L. SIRCH, Lucca, 2001, pp. 413 – 419, a p. 415. 226 Cfr. R. MEUCCI, Musical instruments in Southern Italy (XVI-XIX centuries), «Fonti musicali italiane», 1998, 3, pp. 233-264. 227 Cfr. J. H. VAN DER MEER, Alcune considerazioni intorno al buttafuoco, in G. L. BALDANO, Libro per scriver l'intavolatura per sonare sopra le sordelline (Savona 1600); facsimile del manoscritto e studi introduttivi a cura di M. TARRINI – G. FARRIS – J. H. VAN DER MEER, Savona, 1995, pp. 203 – 213. 228 R. LEYDI – F. GUIZZI, Gli strumenti della musica popolare in Italia, Lucca, 2002, p. 24, che riportano J. H. VAN DER

MEER, Das Buttafuoco, in Festschrift Rainer Weber, a cura di E. FONTANA – R. WEBER – S. EHRICHT, Leipzig, 1999, pp. 47–56, a p. 51. Probabilmente van der Meer subì la suggestione delle citazioni in due testi del 1664 (P. M. TERZAGO, Musaeum septalianum, Tortona, 1664, a p. 288: «33. Instrumentum calabrensibus familiare ludrica [recte: ludicra] lingua, Buttafuoco dicunt Africanise quoque notum») e del 1666 (P. F. SCAREBELLI, Museo o Galeria dal sapere … descritta da Paolo Maria Terzago, Tortona, 1666, p. 366: «Un buttafuoco stromento no all’Africani, et usatissimio tra Calabresi», traduzione non letterale dell’opera precedente), entrambi citati in TARRINI, cit., pp. 218 – 219. 229 Cfr. B. O’NEILL, The Sordellina, a possible origin of the Irish regulators, «Journal of the Sean Reid Society», 2.13, March 2002, p. 1 - 20, a p. 3. Dalla ristampa anastatica si rilevano ben 36 composizioni per “butta foco”, sulle 86 complessive del manoscritto, cfr. VAN DER MEER, cit., p. 203 230 J. BALLESTER, The stringed drum and the 16th century music: new iconographical sources, «Anuario musical», n° 66, enero-diciembre 2011, pp. 47 – 60, a p. 49.

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napoletani nel 1578231. Il doppio pentagramma di Baldano piuttosto che indurre a suppore un clarinetto doppio potrebbe semplicemente fare riferimento all’esecuzione simultanea di due buttafuochi, secondo un organico che risulta coerente con alcune delle citazioni letterarie.

Figura 12. Liuto e buttafuoco / vottafuoco / altobasso nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano.

Infatti, il termine in napoletano “votta fuoco” è declinato anche al plurale ed è attestato in

citazioni letterarie232 (in prevalenza in area napoletana) di Della Porta, Cortese, Basile233: «Ped[ante]: Or che siamo tutti alacri e ridibondi, chiamansi i musici, e con sibili sonanti, e con belle circumvoluzioni di coree s’onori questa copula matrimoniale. / Giac[omino]: Sì bene, chiamiamo suoi per li balli. / Gia[como]: Vasta no vottafuoco, na cetola, no calascione e no zzucchezzucche»234. «Addò le stelle allo vottafuoco de le Sfere fanno Tordeglione»235

«Valea chiù lo consierto de lo tiempe passato, lo pèttene, e la carta, l'ossa nmiezo a le deta, lo crocrò che parlava, lo bello zuco zuco, la cocchiara sbattuta co lo tagliere e co lo pignatiello, lo votta fuoco co lo siscariello, che te ne ive nsiécolo»236. «… e fatto vestire da Prencepessa à Filadoro, levate che foro le tavole, vennere li votta fuoche, e s’accommenzaie lo

231 Cfr. F. NOCERINO, La bottega dei 'violari' napoletani Albanese e Matino in un inventario inedito del 1578, in Liuteria, musica e cultura 1999-2000, a cura di R. MEUCCI, Lucca, 2001, pp. 3 – 9, a pp. 4 – 5. 232 Cfr. TARRINI, cit. Di grande interesse sono le citazioni in manoscritti di Firenze e di Roma negli inventari, rispettivamente, di casa Medici del 1620 e del 1622 (TARRINI, cit., p. 215) e Bourbon del Monte del 1627 (cfr. TARRINI, cit., p. 220). 233 Cfr. M. RAK, Napoli Gentile, Bologna, 1994, pp. 52, 68, 70, 71, 96 e 110 riporta passi dedicati al “vottafuoco”. Le citazioni qui riportata sono state rintracciate in modo indipendente da quelle citate in Rak. 234 G. B. DELLA PORTA, La Tabernaria, Napoli, 1626, p. 114, atto V, scena VI. 235 G. C. CORTESE, Li trauagliuse ammure de Ciullo e Perna, Napoli, 1666, p. 13, ma l’opera è del 1632, cfr. C. LOMBARDI, Danza e buone maniere nella società dell'antico regime. Trattati e altri testi italiani tra 1580 e 1780, Napoli, 1991, p. 101. 236 G. B. BASILE, Calliope, overo la Museca, in Le muse napolitane, Napoli, 1635, p. 133. Il passo è riportato anche in BARASSI, cit., p. 90.

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ballo, che dura pe fi à la sera:…»237. «… e commenciando lo Sole comm’a pottana falluta à cangare quartiero, lo Rè fece venire li votta fuoche, e commitanno tutte li Segnure vessalle, fece na festa granne, e comme happero fattò cino, o sei ore de catubba, se mesero a tavola…»238 «… per passare allegramente chell’ore, che s’erano poste ‘miezo fra la matina, e l’ora de manciare; fecero venire li votta fuoche, e commenzarono co gusto granna ad abballarare: facenno Roggiero, Villanella…»239 «E subeto na mano de serveture, che se delettavano, vennero lesta co colasciune, tammorrielle, cetole, arpe, chiuchiere, vottafuoche, cro-cro, cacapenziere e zuche-zuche, e fanno na bella sofronia e sonato lo Tenore …»240 «Appriesso, lo juorno che li zite se vanno a nguadiare, e tornate a la casa, veneno tutte li pariente, e 1' ammice, e co lo vottafuoco, lo siscariello, e l'arpa se metteno a ballare, e ballato, che hanno, vecino a la lecenziata, se spenzano li confiette, e le ccose doce e quarche bota se nce fa quarche farza Cavajola»241. «Po’, pe’ se ’ntrattenere ’nfi’ a lo bruoco, / chiammaro ad uno co’ lo vottafuoco, lo quale ieze da lo Zito e da la Zita242». «Lo vottafuoco de lo Mpacchiatore, / Lo violino de l’Abbate Meo, La chitarra de Mineco Calore, / Lo violone de Mastro Matteo».243 «Jeano nconzierto co lo vottafuoco / Tutte l’autre stromiente, e la cantata; E ssuone, e ccante dinto de lo bbruoco / Faceano nn'aria n'armonìa serrata: La serenata bella a ppoco a ppoco / Àvea la gente llà tutta scetata, / Che ncantata sentea, chi pò dì quanto / Lo doce suono, e lo sovave canto.»244 «Accossì li Trojane: ecco strillare / Fanno na Babbelonia, e non so' ntise; / Ll' uno non ntenne ll' aùte a lo pparlare, / Pecchè so'gente de ciento paise. / Nè nce manca quà Ddio pe l'attizzare, / Ca chi vò chiste, e echi vò chille accise. E ‘nce' e no vottafuoco p'ogne pparte, / Palla a li Griece, e a li Trojane Marte.»245.

L’etimologia del termine napoletano è sconosciuta ma non mi risulta sia stata spiegata neppure l’altra, quella veneta / italiana, di “altobasso”. Il nome “vottafuoco” forse potrebbe alludere a una potenza sonora rilevante, come parrebbe confermare la citazione guerresca dell’ultimo passo. Meno probabile mi sembra quanto riportano Leydi e Guizzi circa la possibile assonanza con l’arnese per attizzare la fiamma246. Come evidenziato da Barassi, il buttafuoco è associato a contesti festosi e di ballo. Cruciale è far rilevare, e mi pare che non sia stato fatto finora, che nell’immaginario collettivo lo strumento era pienamente accolto anche a corte e in contesti formali. E, ancor più interessante, che poteva eseguire in formazione omogenea (le citazioni al plurale sembrano indicarlo), cosa che Arbeau (1589) ammetteva e Mersenne (1636) rifiutava247.

Le citazioni in ambito napoletano durano due secoli e sono le uniche finora rintracciate nella lingua letteraria: ritengo siano sono cruciali per chiare la diffusione, l’uso e il contesto musicale di impiego dell’altobasso / vottafuoco / buttafuoco nel Regno di Napoli.

237 G. BASILE, Lo cunto de li cunti, Napoli, 1645, v. 2, p. 74. 238 IDEM, p. 53, riportato anche da TARRINI, cit., p. 216 239 G. BASILE, Lo cunto de li cunti, Napoli, 1645, v. 3, p. 3, riportato anche da TARRINI, cit., p. 216. 240 G. BASILE, Lo cunto de li cunti, Napoli, 1645, v. 3, p. 3, riportato anche da TARRINI, cit., p. 217. 241 Opere di Giulio Cesare Cortese, Napoli, 1783, p. 155, che riporta le «annotazjune a lo canto IV» de “La Vajasseide”, nell’edizione del 1628, cfr. TARRINI, cit., p. 216. 242 G. C. CORTESE, La vajasseide, Napoli, 1666, pp. 52 – 53. TARRINI, cit., p. 215, riporta la prima edizione (1612, canto IV, xxx, 240) 243 N. PAGANO, Mortella d’Orzolone poema arrojeco, Napoli, 1737, p. 24. 244 PAGANO, cit. p. 25. 245 Cfr. N. CAPASSO, De la guerra de Troja. Libbro quarto, in N. CAPASSO, Poesie napoletane, maccaroniche e satiriche …, Napoli, 1787, p. 129. Se non è una omofonia, è l’unica citazione antica del vottafuoco, tra quelle rintracciate, in ambito non musicale, salvo che non si tratti di un significato metaforico o traslato. 246 Cfr. LEYDI - GUIZZI, cit., p. 24. 247 Cfr. BERNESTEIN, cit., pp. 66 – 67,

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La permanenza iconografica nel Meridione è ancora più ampia e rilevante di quella letteraria per numero di esemplari e per l’estensione temporale della loro occorrenza. Infatti, ci sono raffigurazioni che coprono oltre due secoli, dal Rinascimento al Settecento, particolarmente concentrate in Basilicata e Puglia, in cui però non risulta alcuna permanenza nella tradizione orale popolare.

Lo strumento compare nel resto del Meridione quasi contemporaneamente alla nostra tavola e quindi molto in ritardo rispetto agli affreschi di Lippi a Roma, del 1488 - 1493248. Sull’esemplare di vottafuoco presente nella parte inferiore della tavola centrale del trittico del veronese Scacco (Napoli, Capodimonte, proveniente da Salerno, monastero della Maddalena, 1495 – 1500)249 permangono dubbi di autografia che sposterebbero la data dell’intervento di aggiunta presunta di qualche rispetto a quello dell’opera originale. Come pure in Senise (San Francesco, Simone da Firenze, 1523250) e poi nel presepe di Matera (Cattedrale, presepe di Altobello Persio e Sannazzaro Panza d’Alessano, 1534)251 e in quelli di Tursi (Santa Maria Maggiore, presepe, Aurelio Persio, 1550)252, di Gallipoli (San Francesco, presepe di Aurelio Persio, prima del 1550)253 e di Altamura (Cattedrale, imitatore di Altobello Persio, presepe, 1587)254, che formano un gruppo omogeneo, dipendente da quello di Matera. In pittura, è Giovanni Todisco a raffigurarlo più volte, a Santarcangelo (cupola della chiesa del convento di Santa Maria d’Orsoleo, 1545255) e negli affreschi di Avigliano (abside della cappella di Santa Lucia, 1567256). Un vottafuoco è nella tavola della cripta della cattedrale della Rabatana di Tursi (ambito di Simone da Firenze, 1550257). La più tarda attestazione che trovo è quella della tela di Melfi (cattedrale, Adorazione del vitello d’oro, attribuito con molti dubbi ad Andrea Miglionico258, e comunque non verso il 1723259 ma eventualmente entro la data di morte, 1711).

In Campania, la raffigurazione sicuramente più prossima alla nostra è la tavola di Criscuolo per l’Assunta di Fondi (1534260). La fortuna dello strumento continuò anche in Campania dove è attestato in Maddaloni (Corpus Domini, Oratio de Carlucciis, 1610261), in un affresco anonimo inedito, di matrice popolare, databile intorno agli anni 1620-30 in Santa Maria a Vico, basilica

248 Cfr. E. PARLATO, Lippi, Filippino, in DBI, v. 65, Roma, 2005, alla voce, ed. on-line. 249 Cfr. LEONE DE CASTRIS, 44. Incoronazione delle Vergine, cit., p. 79, in cui si propone come «… aggiunta antica di due angeli appunto in basso, la cui stesura pittorica, piatta e del tutto difforme dalla materia testa e “sbalzata” tipica di Scacco, sembra propria di un pittore locale che forse dové adattare il trittico stesso, poco dopo la consegna e l’allontanamento del suo autore verso altri impegni, ad un’imprevista condizione del montaggio o della cornice». Evidenzio la probabile svista di Leone de Castris sul numero degli angeli aggiunti in basso che sono tre invece di due. 250 F. ABBATE, Tardogotico & Rinascimento in Basilicata, 2002, Matera, p. 258. 251 cfr. FABRIS, cit., che enumera e classifica le raffigurazioni degli strumenti in questo e degli altri presepi citati senza discutere nel merito le caratteristiche organologiche. Per il vottafuoco usa il termine “tamborin de Gascogne”, p. 13 e fig. 10. 252 Cfr. G. LANZILLOTTA, Aurelio Persio e la scultura del Rinascimento in Puglia, Bari, 2010, p. 42. FABRIS, cit., p. 20, lo data (sulla scorta di Gelao) a dopo il 1535 da Antonello Persio o imitatori. Segnalo l’imprecisione in FABRIS, cit., p. 9riguardo all’appartenenza di Tursi alla Puglia, storicamente non attestata (anche perché non è mai esistita una denominazione amministrativa “Puglia” prima dell’attuale Regione, ma solo le circoscrizioni di “giustizierato” di Capitanata, Terra di Bari, Terra di Otranto, sin dall’età angioina). 253 Cfr. FABRIS, cit., p. 11. 254 Cfr. FABRIS, cit., p. 19. 255 Cfr. A. GRELLE IUSCO, Arte in Basilicata, 1981, p. 83. 256 Cfr. GRELLE IUSCO, Arte in Basilicata, 2001, p. 217. 257 Cfr. MIRAGLIA - SETTEMBRINO, cit., con bibliografia di riferimento. 258 Cfr. M. M. AMOROSO, La Basilica cattedrale ed il campanile di Melfi, Melfi, 1994, pp. 44 – 45. 259 Cfr. R. VILLANI, La pittura in Basilicata dal manierismo all’età moderna, [Potenza], 2006, pp. 253, che raccoglie contributi precedentemente pubblicati in «Basilicata regione notizie». Ma G. SCARCIA, Andrea Miglionico. Un pittore giordanesco tra Basilicata, Puglia e Campania, Potenza, 2005, e M. EPIFANI, Miglionico, Andrea, in DBI, v. 74, Roma, 2010, alla voce, ed. on-line, non recepiscono l’attribuzione, in quanto Scarcia (p. 44) fissa la data di morte del pittore al 1711. 260 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento … Fasto e devozione, cit., pp. 37 e 41. 261 Cfr. DI LORENZO, Iconografia musicale nelle chiese della Diocesi di Caserta, cit., pp. 189 – 192; DI LORENZO, Aggiunte e precisazioni al catalogo dell'iconografia musicale della Diocesi di Caserta, cit., pp. 39 – 40.

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dell’Assunta262, in Napoli (Santa Maria La Nova, Battistello Caracciolo, 1623 - 1624263), in Salerno (San Giorgio, Angelo Solimena, affreschi conclusi nel 1675264).

Il nostro esemplare ha forma parallelepipeda, molto lunga, piuttosto stretta e piatta, e sembra avere tre o 4 corde (se ne intravvedono le tracce in punti diversi). E’ un esemplare radicalmente diverso da quello coevo dipinto per Fondi, che è molto più corto (meno della metà del nostro), decisamente più largo (quasi il doppio), apparentemente più spesso, fatto in legno chiaro con una solo foro di risonanza (invece dei due presenti nel nostro) e corde (sembrano essere cinque o sei) ammorsate da un bottone nella faccia laterale inferiore dello strumento. Molto diversa è anche la bacchetta, che è più corta a Fondi e che a Capua appare nera (forse perché in cuoio o in metallo addirittura?). Assai diverso è anche il flauto, che nel dipinto di Fondi sembra avere una cameratura maggiore e fori terminali.

Il gesto musicale, poi, è completamente differente. L’impugnatura del vottafuoco è simile (entrambi reggono sulla spalla sinistra) ma il flauto è diteggiato molto più in alto a Capua (a Fondi più verso l’estremità inferiore dello strumento). Inoltre, a Capua la bacchetta è impugnata tra due dita e attraversa tutto il palmo (a Fondi sembra non attraversi il palmo), il “siscariello” è insufflato poggiandolo al centro delle labbra e in posizione apparentemente ortogonale al viso (e sostanzialmente parallela al vottafuoco) mentre l’angelo di Fondi lo imbocca in posizione decisamente laterale (quasi fosse un cornetto), in direzione obliqua tanto da sovrapporsi al buttafuoco, posizione che è usuale quando il flauto è più corto del vottafuoco265. Insomma, tante differenze che spingono a ipotizzare una grande originalità di soluzioni che il pittore poteva mettere in campo (probabilmente in virtù di una conoscenza della prassi esecutiva dello strumento) oppure la presenza di due mani diverse.

4.11 La tromba retta

Nella scena inferiore, quella che mostra la Vergine assunta in cielo e circondata da volti di putti alati, sulla sinistra è raffigurato un angelo che sembra suonare una tromba retta.

Un aspetto molto interessante è il modo di sostenere lo strumento che è mantenuto da una mano dall’alto (forse per diteggiare tre o quattro fori) dall’altra mano dal basso. E’ un gesto che trova riscontro parziale nei coevi angeli trombettieri di Fondi e nelle trombe rette scolpite nella lastra di tabernacolo o di olea sacra di Casertavecchia, datata nell’episcopato di Pierre de Lambert (1533 – 1541), per la presenza dello stemma del vescovo266. Trombe, questa casertane, che sarebbero perfettamente sincrone al dipinto capuano se fosse confermata la datazione da me proposta nel 2013267, contro la quale si è espressa Dentamaro che suggerisce di riportare la datazione al 1490 - 1500 sulla scorta di meri elementi stilistici, contro l’evidenza data dalla committenza268.

Ma proprio il dato musicale evidenzia una grande distanza (stilistica e temporale) dal perduto modello di questi tabernacoli che è gaginiano (come sostiene Caglioti richiamato in Dentamaro) e dalle sue numerose repliche e dagli esemplari accertati a Jacopo della Pila (del 1480

262 Il dipinto, distaccato da un altro ambiente, è conservato in una sala attigua alla chiesa cui si accede dal chiostro. 263 Cfr. M. STOUGHTON, Giovan Battista Caracciolo detto Battistello, in Civiltà del Seicento, v. 1, Napoli, 1998, pp. 119 264 Cfr. A. RUSSO, Solimena, Angelo, in DBI, v. 93, Roma, 2018, alla voce, ed. on-line. 265 Anche nell’esecuzione moderna di strumenti tradizionali della musica popolare, per esempio nella regione francese Languedoc-Roussillon-Midi-Pyrénées, dove il tambourin de Bèarn è ancora molto diffuso e praticato (ci sono anche diversi video su youtube). 266 Cfr. P. DI LORENZO, Lapidi ritratti e stemmi dei vescovi di Caserta: conservazione della memoria e culto della persona, in Bulla Sennetis Episcopo Casertano - Diocesi di Caserta 1113 – 2013 - giornata di studi per il 900° anniversario della bolla di Senne, a cura di D. CAIAZZA – P. DI LORENZO, Dragoni, 2013, pp. 209 – 236, a p. 227 – 229. 267 P. DI LORENZO, Iconografia musicale nelle chiese della Diocesi di Caserta, in Bulla Sennetis …, cit., pp. 181 – 208, a pp. 196 – 197. 268 Cfr. A. DENTAMARO, Tabernacoli e altari eucaristici del rinascimento in Campania, tesi di dottorato, Università degli studi di Napoli “Federico II”, tutor F. CAGLIOTI, Napoli, 2014, p. 181 – 184.

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circa in Napoli, Monteoliveto269; del 1481 in Napoli, Castel Nuovo, Cappella Palatina270) e della sua bottega (1480 – 1490 circa, in Atripalda, Sant’Ippolisto271) o di quella di Tommaso Malvito (Squillace) o di anonimo scultore napoletano (Campodimele)272. Infatti, in tutti queste sculture citati da Dentamaro273 le trombe sono sempre sostenute dall’alto e col pollice che serra il tubo sonoro nel palmo a differenza, mentre la tavola di Criscuolo di Fondi, questa di Capua e (unico tra la serie dei tabernacoli scultorei) il tabernacolo di Caserta sorreggono, del tutto o parzialmente, dal basso.

Figura 13. Tromba retta nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano.

269 Cfr. DENTAMARO, Tabernacoli…, cit., p. 139. Questa e le altre schede sono complete di una vasta e ragionata bibliografia. 270 IDEM, p. 142. 271 IDEM, p. 153. 272 IDEM, pp. 27 e 149. 273 Nel pregevole lavoro di ricerca bibliografica, documentaria e sul campo, Dentamaro non affronta mai alcun aspetto musicale.

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Ad ulteriore possibile supporto dell’ipotesi di cambio del gesto esecutivo nel suonare la tromba retta, segnalo altri esempi di impugnatura dall’alto (con pollice che serra il tubo): l’affresco di Teggiano del 1487274 e la tarsia del coro di Monteoliveto a Napoli del 1506 – 1510, realizzate da Giovan Francesco d’Arezzo e Prospero275.

2.12 Il flauto o il piffero

A incorniciare la scena dell’Assunzione di Maria, sulla destra è raffigurato un angelo che suona uno strumento a fiato. Potrebbe trattarsi di un flauto, di taglio contralto o tenore, o di un piffero. Non è visibile alcun dettaglio che guida la decisione verso una della due ipotesi. La posizione apparentemente serena e non forzata delle guance sembrerebbe indirizzare verso il flauto, perché, di solito, il piffero richiedere che le guance gonfie comprimano l’aria verso l’ancia trattenuta tra le labbra.

Figura 14. Strumento a fiato (legno: flauto o piffero) nella Dormitio Virginis, Capua, Museo Provinciale Campano.

2.13 Osservazioni conclusive sul dipinto

A chiusura dell’analisi degli aspetti musicali legati al dipinto, è necessario provare a delineare una sintesi. Certamente il contesto musicale della tavola del Museo Campano guarda con interesse alle soluzioni compositive tardogotiche e raffigurazioni in cui gli strumenti dalla “alta cappella” (cioè ance e ottoni) e della “bassa cappella” (flauti, organo, liuti e archi) coesistono, peraltro senza alcuna organizzazione spaziale.

Per le tipologie organologiche attestate, gli strumenti sembrano retaggi ritardatari di quelli maggiormente documentati dagli anni 1480 al 1520. Elemento unico di relativa innovazione è la presenza della viola da gamba, che, però, probabilmente nel Meridione circolò diffusamente sin dal suo attestarsi in Italia. Davvero insolita se non unica è la presenza congiunta di addirittura tre idiofoni (cimbali, triangolo e del tamburo del flauto a una mano / flauto a tamburo). Inspiegabile resta la presenza di due liuti, peraltro dalla stessa parte rispetto alla Vergine, e anche questo dato credo sia isolato nella iconografia musicale meridionale coeva.

274 Per la sola datazione cfr. ABBATE, Storia dell’arte …Il Sud Angioino e Aragonese, cit., pp. 175 – 176. 275 Cfr. R. CAUSA, Giovan Francesco d’Arezzo e Prospero maestri di commesso a Napoli. Le tarsie del coro dei conversi nella certosa di S. Martino, «Napoli nobilissima», 1962, f. IV, pp. 123-134.

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Unica è la contemporanea presenza di due strumenti composti: un buttafuoco / altobasso / vottafuoco e un flauto a una mano / flauto a tamburo. Sono strumenti che sono per tradizione bibliografica associati ad ambiti di danza e a contesti non colti: quindi, fa specie ritrovarli tra strumenti decisamente più legati a prassi compositive sofisticate quali liuti e viole. Di più: si tratta di strumenti autoconsistenti, capaci, cioè, di tenere la scena in assoluta autonomia perché sono in grado di proporre melodia e accompagnamento, percussivo o armonico.

Come dimostrato dalla persistenza nelle raffigurazioni in opere d’arte di Terra di Lavoro, la partecipazione del buttafuoco / vottafuoco ai complessi musicali colti, anche sacri, caratterizzerà ancora per circa due secoli molte opere d’arte del Meridione, fino agli anni 1720 circa. Resta ad oggi impossibile affermare alcunché di certo sui motivi di questa singolare persistenza. Non sono convinto si trattò solo di una stanca e ripetitiva opera di replica per preservare una tradizione. Propendo più per una ragione di carattere timbrico-suggestivo, per il colore speciale che la presenza del vottafuoco, forse, era in grado di ricreare.

A mio sommesso parere, i dati musicali relativi alla forma e alla struttura degli strumenti forniscono un ulteriore elemento per segnare con maggior forza (rispetto agli aspetti meramente stilistici e autoriali) la grande distanza tra la tavola capuana e l’opera di Criscuolo nel dipinto di Fondi del 1534. Gli accenti di temperata maniera sabatiniana propri del secondo decennio del 1500, visibili nella tavola di Capua, trovano un coerente confronto nel disegno degli strumenti, tutti poco in linea per gli anni 1530. D’altra parte, per quello che può significare, fatta salva la probabile strategia dell’autore di replicarne le forme modello anche per lungo tempo, gli strumenti musicali raffigurati si ambientano molto meglio entro il limite del 1530 piuttosto che nel decennio successivo. Per esempio, nel Criscuolo di Fondi del 1534 viola da braccio, buttafuoco / vottafuoco e liuto sono decisamente più moderni dei nostri che invece trovano paralleli con quelli dei dipinti di Sabatini di San Giovanni Torio (1511), di Buccino (1512) e di Napoli in Ss. Severino e Sossio (datata a dopo il 1524)276.

Per contro, il Criscuolo di Fondi appare sensibilmente suggestionato da certi esiti stilistici “eversivi”, eccentrici ed espressivi emersi a Roma nel decennio precedente tra i seguaci e collaboratori di Raffaello, grazie alle sperimentazioni di Machuca, Polidoro da Caravaggio e Perin del Vaga. Segni nuovi recepiti su scala regnicola da Cardisco e Cardillo. E i suoi strumenti musicali nella tavola di Foni sono concordi con queste aperture, anche romane, fosse solo per le vernici più scure, rispetto a quelle chiare di Capua (quindi, molto più medievali). Inoltre, la nostra tavola appare distante e ritardo anche rispetto al dipinto autografo di Criscuolo per l’Annunziata di Gaeta (1531) che certamente è molto più aggiornata sulla pittura degli anni 1530; ma, in questo caso, la tavola di Gaeta non ha strumenti musicali, e quindi l’argomento iconografico-musicale non può venire in soccorso.

Vero è che quel che rileva Zezza: «Gli anni Trenta, in parte, gli anni Quaranta della pittura napoletana sembrano caratterizzati da una certa stagnazione»277 e, quindi, la tavola di Capua potrebbe comunque collocarsi in quest’orizzonte temporale in ritardo e senza riverberi delle novità che dirompevano a Roma già dal secondo decennio del 1500 e che giunsero con maggior forza a Napoli in conseguenza prima della peste di Roma del 1522-23 e ancor più del Sacco dei Lanzichenecchi del 1527278.

L’opera di Capua sembra guardare molto di più alla fase del Sabatini ancora non troppo distante dal Raffaello di maniera, quello degli anni 1510 – 1520, piuttosto che a quello del decennio successivo. Chiaramente, la minore qualità della pittura, il possibile intervento della bottega (per una committenza probabilmente di secondo piano) e la ripetizione stanca di schemi iconografici fanno il resto del gioco.

276 P. GIUSTI, Il rapporto romano tra Cesare da Sesto e Andrea Sabatini da Salerno e la formazione di Andrea Sabatini, in GIUSTI - LEONE DE CASTRIS, cit., pp. 86 – 112, a p. 96, e più recentemente P. L. DE CASTRIS, Andrea Sabatini da Salerno il Raffaello di Napoli, Napoli, 2017, p. 18. 277 A. ZEZZA, L’Italia Meridionale, in La pittura italiana, a cura di C. PIROVANO, Milano, 2000, pp. 529 – 537, a p. 533. 278 ZEZZA, cit., p. 532.

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Anche la disposizione degli angeli, isolati ciascuno sulla propria nuvola o a coppie, aumenta i punti di contatto coi dipinti di Sabatini di San Valentino Torio (ritenuto da Giusti, «forse quanto di più antico ci resti di Andrea Sabatini»279) e di Napoli in Ss. Severino e Sossio, piuttosto che con la pala di Fondi, in cui gli angeli formano una composizione compatta attorno alla Vergine. 3. Gli angeli musici e lo zampognaro della Natività con l’annuncio ai pastori

La Natività qui analizzata ha due elementi di interesse per l’iconografia musica: un piccolo gruppo di tre putti musicisti in alto (con liuto, viola da braccio e, forse, piffero/ciaramello) e lo zampognaro sul fondo. Di seguito la storia critica dell’opera che oggi è ricondotta ad un seguace di Pedro Machuca.

Causa definisce l’opera «di spirito moresco e vivace sui canoni compositivi tradizionali ma già attestanti le prime infiltrazioni di cultura umbra nella più ritardataria cultura napoletana»280. Spinosa individua un «anonimo maestro attento ai modi dello Pseudo Bramantino [Pedro Fernandez] attraverso il filtro delle esperienze di Andrea da Salerno»281. Per Previtali282 il dipinto va considerato «come esempio di opera già influenzata dalla sprezzatura e dalle accentuazioni espressive dei dipinti del Machuca posteriori al suo rientro in patria (1520)». Machuca fu a Roma tra il 1510-15 (nel cantiere dei lavori delle Logge Vaticane, diretto da Raffaello); poi, probabilmente, fu in Campania ove influenzò Andrea da Salerno, il suo allievo Criscuolo e Cardisco283. Per Leone de Castris la nostra tavola è da assegnare a un pittore «… locale al corrente degli sfondi pastorali dell’area di Roma fra Pinturicchio e Aspertini» che «si prova attribuire alle carni quella misteriosa lumescenza di cristallo e alabastro che tanto doveva stupire nelle prove di quello strano forestiero», uno degli artisti «…evidentemente legati in passato alla tradizione antoniazzesca e centro italiana di stanza nel Meridione» che Leone de Castris ritiene capace di recepire «tracce di conversioni immediate, precoci ma anche superficiali»284. In ogni caso, il dipinto si collocherebbe intorno degli anni 1525285.

L’opera mostra riverberi della Adorazione dei Pastori di Machuca, a Barcelona286 e ricordi ancor più lontani dell’analogo soggetto di Fernandez a Madrid287. Più in particolare, i tre piccoli angeli con liuto, viola da braccio e piffero288 evocano il coro angelico della “Natività”, sportello

279 Cfr. GIUSTI, cit., p. 92. 280 Cfr. R. CAUSA, Il nuovo ordinamento delle collezioni di arte medioevale e moderna al Museo campano di Capua, «Bollettino d’arte», 1953, pp. 348 – 355, a p. 351. 281 Cfr. SPINOSA, cit., p. 137. 282 Cfr. G. PREVITALI, Natività, in Andrea da Salerno nel Rinascimento meridionale, a cura di G. PREVITALI, Firenze, 1986, p. 138. 283 Cardisco è l’unico pittore meridionale ricordato da Vasari nelle “Vite” che lo dice attivo tra il 1508 e il 1542 anche come “valente liutista”; cfr. D. SINIGALLIESI, Marco Cardisco, in Andrea Sabatini, cit., pp. 216 – 220, a p. 216. 284 Cfr. LEONE DE CASTRIS, La congiuntura “iberico-lombarda» nel primo decennio della dominazione spagnola a Napoli, in GIUSTI – LEONE DE CASTRIS, cit., pp. 13 – 35, a p. 26 e fig. 19 a p. 25. 285 SPINOSA, cit., p. 137, accolto da tutti i successivi. 286 Nella collezione J. Milicua, cfr. N. DACOS, Adorazione dei pastori, in Andrea Sabatini, cit, pp. 134 – 136, a p. 134: «Natività tuttora anonima del Museo Campano di Capua, cfr. scheda 23 risente chiaramente del miglior Machuca tardo, quale si rivela fra l’altro nella Natività Milicua, datata dopo il 1520». Per esempio, gli aspetti “musicali” di quest’opera, riguardano tre angeli in volo disposti al centro, che suonano un flauto e tamburo (col flauto sottilissimo e il tamburo agganciato al polso del braccio del flauto, con gesti e posizioni plausibili delle dita), forse dei cimbali (al centro) e un triangolo (con gancio ad anello ma sostenuto per lo stelo di collegamento all’anello). Nel paesaggio che si apre sullo sfondo si notano delle figure, appena abbozzate, di cui una seduta che potrebbe essere uno zampognaro, secondo uno schema replicato nel dipinto di Capua e in quello di Arienzo. 287 Cfr. Pedro Fernandez, Adorazione dei pastori, Madrid, collezione del duca di Villahermosa, in LEONE DE CASTRIS, cit., p. 18 e fig. 9 a p. 20. 288 In DI LORENZO, Gli strumenti raffigurati nelle opere d’arte…, cit., p. 115, dove erroneamente prospettavo un flauto dolce che lasciava supporre un orizzonte sonoro molto più suffuso e cameristico. Elemento dirimente per propendere verso il piffero o analogo strumento ad ancia doppia è la svasatura della campana terminale del tubo sonoro, del tutto inappropriata per un flauto e che mi era sfuggita ad uno sguardo attraverso le fotografie.

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destro del polittico del 1509/10 di Fernandez oggi a Capodimonte289, nonostante siano differenti organizzazione, postura, tipologia e numero degli strumenti musicali raffigurati.

Figura 15. Natività, ambito di Pedro Machuca, 1525 circa, Capua, Museo Provinciale Campano.

289 Già in Napoli, Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, cfr. P. L DE CASTRIS, Pedro Fernandez: adorazione dei Magi, Visitazione e Natività con predella, in Museo nazionale di Capodimonte…, cit., pp. 146 – 147.

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Figura 16. Natività, particolare dei tre angeli, ambito di Pedro Machuca, 1525 circa, Capua, Museo Campano.

Le dimensioni molto ridotte dei tre angeli e lo stato di conservazione non buono del dipinto

rendono impossibile una lettura dei dettagli degli strumenti raffigurati. Le stesse mani dei putti sono solo approssimativamente disegnate e posizionate sugli strumenti (specie la mano sinistra del liutista e le due mani del piffero). Della viola da braccio (certamente di taglio soprano) si notano il fondo piatto, il profilo spiovente delle spalle, le punte delle stesse e una delle incavature, di forma quasi circolare. Dell’archetto si intravvedono la punta e i crini che disegnano il tipico profilo molto curvo, ancora in uso nel Rinascimento inoltrato.

Dello zampognaro si riconoscono il profilo, l’abito (costituto da calzabraca, giubba corta e scarpe basse, il tutto molto rinascimentale, cortese e poco pastorale), la posizione seduta probabilmente su un piccolo masso e lo strumento. La zampogna è costituita da due canne melodiche di uguale lunghezza (tipologia cosiddetta “a paro”) che lo zampognaro tocca con le mani, anche se non si coglie l’articolazione delle dita per le dimensioni minuscole della figura. Un corto cannello di insufflazione offre alimentazione alla piccola sacca grazie all’azione del pastore. Un lungo bordone sporge dalla parte opposta dei due chanter. Le tre canne (il bordone e le due melodiche) sembrano innestarsi direttamente nella sacca, senza alcun somiere di distribuzione dell’aria.

Nonostante qualche differenza non secondaria (sia nello strumento sia nell’azione, che manca nella scultura), lo zampognaro della nostra tavola dialoga con quello presente nella Natività, pannello centrale della cona marmorea della cappella superiore nel palazzo arcivescovile di Capua, già altare maggiore della chiesa di San Benedetto in Capua, commissionato dall’abate commendatario De Angelis nel 1519 – 1520 ad un anonimo scultore vicino a Ordonez290.

Per la presenza della viola da braccio e del piccolo liuto, il concerto musicale nella tavola capuana richiamerebbe le raffinate e intime sonorità contrappuntistiche proprie dell’esecuzione

290 Cfr. R. NALDI, Bartolomé Ordóñez e Diego De Siloe. Due Scultori Spagnoli a Napoli agli Inizi del Cinquecento, Napoli, 2019, p. 159; R. NALDI, Su Giovan Giacomo da Brescia e la bottega napoletana dell’Ordonez: la ‘cona’ della cappella arcivescovile di Capua, «Paragone», 81, gennaio 1996, pp. 31 – 51. Per la ricostruzione della committenza, cfr. F. CAGLIOTI, Girolamo Santacroce. John the Baptist and S. Benedict, in Italian Renaissance sculpture, a cura di A. BUTTERFIELD, New York, 2004, pp. 53 – 60.

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cameristica di mottetti sacri o dei primi madrigali rinascimentali che stavano conquistando l’Europa grazie alla stampa musicale, proprio in quegli anni. Senonché, irrompe in questa delicato e raffinata sonorità la presenza del piffero. Questo, però, si lega indissolubilmente all’ambientazione musicale pastorale tipica della scena dell’annuncio ai pastori e che è resa grazie allo zampognaro dipinto sul fondo, la parte che occhieggia di più alla produzione di Machuca.

Figura 17. Natività, particolare dello zampognaro, ambito di Pedro Machuca, 1525 circa, Capua, Museo Campano.

Il tema dello zampognaro sullo sfondo e dei tre angeli sospesi in volo sulla scena potrebbe

essere stato introdotto a Napoli con la Natività dell’altare Piccolomini in Monteoliveto in Napoli di Antonio Rossellino del 1474291, scultura di tale successo da avere una replica nell’altare di Giovan Antonio Caracciolo nell’Annunziata in Napoli, ad opera di D’Auria292 tra 1557 e 1561. La Natività di Criscuolo ai Girolamini in Napoli (dipinta verso il 1540)293 perpetua la figura dello zampognaro seduto sul masso (ma della zampogna di vede pochissimo).

Anche Cardisco nella Natività ed angeli coi simboli della Passione294 replica il soggetto con lo zampognaro perso nel paesaggio, in lontananza e con la variante, significativa, della rinuncia al coro angelico a favore del richiamo profetico alla crocefissione. Considerato il percorso artistico di Negroni, che fu prima legato prima a Cardisco poi all’aversano Cardillo, la Natività in Arienzo (Chiesa di Santa Maria degli Angeli, convento dei frati minori Cappuccini, del 1550-1560295) è tra gli ultimi esempi del fortunato schema, anche qui con lo zampognaro seduto su un masso, questa volta abbigliato all’antica, che suona una zampogna zoppa (cioè con due chanter di diversa lunghezza) con somiere.

291 Cfr. D. CARI, New documents for A. Rossellino's altar in the S. Anna dei Lombardi, «The Burlington Magazine», CXXXVIII, 1996, pp. 318-320. 292 Cfr. R. NALDI, «Virtus unita crescit». La cappella di Giovanni Antonio Caracciolo, in Giovanni da Nola, Annibale Caccavello, Giovan Domenico D'Auria. Sculture 'ritrovate' tra Napoli e Terra di Lavoro 1545-1565, a cura di R. NALDI, pp. 143 – 179, a p. 150. 293 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli, …, Fasto e devozione, cit, p. 40 e p. 81, nota 19 in cui si ricorda che l’attribuzione a Criscuolo fu data da Bologna nel 1959. 294 Ubicazione sconosciuta, già London, Leger, IDEM, fig. 223, a p. 239. 295 Cfr. P. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli, …. Fasto e devozione, cit., p. 57, p. 83.

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4. Cornetto e arpa nello “Matrimonio mistico di Cristo con santa Caterina d’Alessandria” Tosi296 riassume le vicende critiche del dipinto che è attribuito a un anonimo pittore vicino a

Sellitto, operante dal 1612 circa, detto il «Maestro dello sposalizio mistico di Santa Caterina» cui l’opera capuana dà il nome. La proposta fu di Bologna, dopo da una prima attribuzione a Sellitto di Spinosa (1974) e più di recente da Leone de Castris a «un artista iberico attivo a Napoli nel corso degli anni Dieci in prossimità di Sellitto, Vitale, Finoglio e Battistello»297.

Figura 18. Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria, Maestro dello sposalizio mistico di Santa Caterina, 1621 circa, Capua Museo Campano.

296 F. TOSI, La pittura del Seicento a Capua, «Annali del Museo Campano», 2, 2005, pp. 145 – 172, a pp. 156 – 159, in cui dimostra la provenienza dal convento dei Camaldoli di Nola. 297 Cfr. P. L. LEONE DE CASTRIS, Il giovane Finoglio, in Paolo Finoglio e il suo tempo. Un pittore napoletano alla corte degli Acquaviva, Napoli, 2000, p. 39, citato in TOSI, cit., p. 171.

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L’angelo suona un cornetto, lo strumento a fiato, realizzato in legno (raramente in avorio) che ha bocchino come le trombe e fori come i flauti. Fu ritenuto l’unico strumento capace di emulare per soavità e dolcezza la voce umana. In uso dal 1510 al 1650 circa, raggiunse l’apice del gradimento proprio a cavallo dell’anno 1600. Vicina è un’arpetta barocca, suonata non da un angelo, come sostiene Tosi298, ma dal re profeta Davide. Insomma, un’atmosfera celestiale fortemente in contrasto con le tinte scurissime della tela.

Ma perché la musica accompagna la scena? Qui c’è un piccolo equivoco da smascherare e chiarire. Tutti gli storici che hanno analizzato questo dipinto non hanno mai precisato chi è la protagonista della scena, limitandosi a dichiarare Santa Caterina. Ma quale? La Caterina d’Alessandria, martire del IV sec. o la domenicana Caterina da Siena, anch’essa “sposa” mistica di Cristo? In effetti, la scena è frutto di un equivoco o meglio di una sovrapposizione delle agiografie delle due sante che, probabilmente, circolava già da tempo ed era oramai consolidato all’epoca della realizzazione del nostro dipinto. Infatti, nel nostro caso, stando alle vesti, la musica dovrebbe accompagna la scena della visione mistica di Santa Caterina d’Alessandria, sebbene il racconto (passio) della santa alessandrina non ne faccia cenno alcuno.

Invece, stando alla documentazione storico/agiografica, la musica ha a che fare con la visione mistica di Santa Caterina da Siena. Il beato domenicano Raimondo da Capua fu confessore della santa senese e suo primo biografo. Verso il 1396 terminò la Legenda maior che fu subito sintetizzata in una redazione minor, precocemente apparsa anche in volgare (1410 circa). Tutte le versioni della Legenda, in latino e in volgare, manoscritte e a stampa (la princeps è del 1477) riportano la descrizione dello sposalizio mistico di Caterina da Siena alla presenza di «… David propheta avendo nela sua mano el psalterio da sonare et sonandolo soavissimamente la Vergine …»299. La confusione salterio / arpa per la caratterizzazione di David percorre tutta l’iconografia della musica, sin dal IX sec., con occasionali soluzioni ancora più eversive (vihuela da mano300 o viola da braccio ancora medievale301) e quindi pesa poco nel contesto.

Ora, secondo l’agiografica, il matrimonio mistico di Santa Caterina da Siena avvenne certamente dopo la sua vestizione monacale302: quindi, atteso l’altissimo rigore morale dalla santa, già prima dei voti formali, è impossibile immaginarla in un abito così sfarzoso. Se il pittore avesse voluto davvero raffigurare la santa senese non avrebbe certamente mancato di vestirla dell’abito domenicano. Per contro, la santa alessandrina era tradizionalmente ritenuta figlia di re (ecco perché spesso compare incoronata nei dipinti) e un abito dorato e di ricco tessuto, come quello del nostro dipinto, era perfettamente coerente con Caterina la martire.

Almeno fino nella prima metà del XVI secolo, la confusione iconografica tra le due sante non era diffusa come attesta l’esistenza di dipinti di secondaria importanza che fanno comparire il riferimento alla musica e a re David ma nel giusto contesto di Caterina da Siena303. Mentre, già

298 TOSI, cit., p. 157. 299 Cito da Legenda (minore) sanctae Catharinae Senensis, sec. XV, PBN, Italien 2178, c. 73r, volgarizzazione di Ranieri Pagliaresi (per la parte che qui interessa), cfr. F. GROTTANELLI, Leggenda minore di S. Caterina da Siena, Bologna, 1868, p. IX; Acta sanctorum. Aprilis, III, Anversa, 1675, p. 88, riporta «…Davide propheta, psalterium musicum habens in mano sua. Quo supersuavissime ac sonore pulsante, Virgo Dei…» in accordo con il manoscritto della Legenda sanctae Catharinae Senensis, del 1401, in LJUBLJANA, NARODNA UNIVERZITETNA KNJIŽNICA, 12, c.25v. 300 Come nella miniatura del codice manoscritto in BNNA, manoscritti e rari, I-B-26, c. 85r, datato 1480 - 1499, (per datazione cfr. S. LUCIANELLI, Scheda manoscritto Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” Napoli, I. B. 26, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Istituto Centrale per il Catalogo Unico, Manus on-line, https://manus.iccu.sbn.it/opac_SchedaScheda.php?ID=155256, con bibliografia recente). 301 Come nella miniatura del codice manoscritto in BNNA, manoscritti e rari, XV.AA.05, c. 56, proveniente da Napoli, Santa Maria di Monteoliveto, datato al sec. XVI, (per provenienza e datazione cfr. R. ARNESE, Codici notati della Biblioteca Nazionale di Napoli, Firenze, 1967, pp. 179 - 180). 302 Cfr. G. BEDOUELLE, Santa Caterina da Siena, in Dizionario di storia della Chiesa, Bologna, 1997, pp. 57 – 59, a p. 58. 303 Nel dipinto di Michele Coltellini (prima metà sec. XVI, oggi in Berlin, Gemäldegalerie) la santa è ancora chiaramente Caterina da Siena correttamente in abito domenicano e la presenza di David con una viola da braccio sembra, però, far parte della scena non per ragioni organiche ma per scopo devozionale, alla pari degli altri santi (san

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nella seconda metà del Cinquecento si ritrovano molti dipinti (anche celebri come quello di Veronese304) che introducono indebitamente la musica nella scena relativa a Santa Caterina di Alessandria. Per contro, in età coeva o di poco successiva alla nostra, sono noti dipinti che riportano correttamente la scena musicale alla santa senese305.

Figura 19. Arpa, particolare del Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria, Maestro dello sposalizio mistico di Santa Caterina, 1621 circa, Capua Museo Campano.

In ogni caso, cornetto e arpa garantivano la musica dolce e soave prevista dalla narrazione della visione, ma della Caterina senese patrona d’Italia, non della principessa martire egiziana! Per scelta compositiva, l’angelo musico e il profeta David sono al centro della composizione ma in secondo piano, il che impedisce la rappresentazione completa degli strumenti musicali. Dell’arpa si riconoscono la mensola (curva) e la colonna (anch’essa curva); il terzo lato sembra privo di cassa armonica. La sezione della cassa è a profilo grossomodo quadrato. Gli spessori delle parti lignee sono ridotti e regolari per larghezza. Non si vedono né i fori di aggancio delle corde nel lato della cassa né i piroli di accordatura. Le corde sembrano essere 19 e formano 9 coppie, lasciano isolata la corda più lunga, corrispondente al suono più grave. Il gesto della mano del profeta che pizzica le corde è perfettamente coerente con la tecnica di esecuzione ed è di grande precisione musicale.

Paolo, san Filippo Benizi (?), san Giovanni Evangelista), cfr. BOLOGNA, FONDAZIONE ZERI (nel seguito BOFZ), fototeca, scheda n° 40260, cfr. http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/ (ultimo accesso 30/03/2020). 304 Cfr. Paolo Veronese, Matrimonio mistico di santa Caterina, 1565 – 1570, in Venezia, Gallerie dell’Accademia, proveniente dalla chiesa veneziana di Santa Caterina dei Sacchi, cfr. Gallerie dell’Accademia, Venezia, sito istituzionale del museo, www.gallerieaccademia.it/matrimonio-mistico-di-santa-caterina (ultimo accesso 04/02/2020) 305 Ad esempio, si veda la tela di Francesco Allegrini del 1632 (Roma, Chiesa dei SS. Domenico e Sisto), cfr. BOFZ, scheda n° 32301.

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Figura 20. Cornetto, particolare del Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria, Maestro dello sposalizio mistico di Santa Caterina, 1621 circa, Capua Museo Campano.

Del cornetto non si scorgono il bocchino e i fori e la curvatura si intuisce solo per la posizione delle mani sullo strumento. Il colore restituisce l’idea di uno strumento in legno oppure ricoperto di una pelle non molto scura (di solito il cornetto era “nigro”). Anche in questo caso, il gesto musicale è appropriato sia per l’imboccatura (che sembra laterale alle labbra) sia per la disposizione e l’articolazione delle dita.

Il soggetto del dipinto è da identificarsi più correttamente come Matrimonio mistico di Santa Caterina da Siena e sacra Famiglia. E’ un soggetto piuttosto raro per la presenza della Santa Famiglia al completo e, in particolare, per l’organico iconografico-musicale interessato ad evocare anche l’aspetto sonoro.

Dal punto di vista della composizione, il parallelo più immediato è con la tela della Vergine col Bambino e i ss. Margherita, Antonio e Bernardo di Finoglio di Napoli, Castel Nuovo (proveniente dalla chiesa dei Ss. Bernardo e Margherita a Fonseca306), successiva di circa un ventennio307 rispetto al nostro dipinto ma nelle quale i due strumenti si ritrovano nella stessa posizione del nostro dipinto e in vicinissimi308. 306 Cfr. V. ANTONUCCI, Finoglio Paolo, in DBI, Roma, v. 48, 1997, edizione on-line, che cita come bibliografia recente Civiltà del Seicento a Napoli, 1984, p. 273; 307 E’ datata a dopo il 1634, cfr. P. BELLI, Madonna in gloria tra angeli musicanti e i Santi Bernardo, Margherita e Antonio, in Civiltà del Seicento, Napoli, 1998, p. 273. 308 Nella tela di Finoglio, nell’angolo opposto sono un liuto, organo e violino.

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Se davvero il dipinto capuano fu già dagli anni 1611 – 1620 nella chiesa nolana dei Camaldoli da cui pervenne al museo309 dovette fare abbastanza scalpore per la grande novità stilistica. Si pensi, infatti, alle opere assolutamente manieriste e sostanzialmente tradizionali che popolarono le chiese di Terra di Lavoro ancora fino agli 1630.

Dal punto di vista dell’iconografia, la coppia isolata (arpa e cornetto) è rara (forse unica), ma non mancano possibili raffronti e paralleli con cornetto e arpa dipinti310 databili entro i primi due decenni del 1600 e presenti in altre opere del territorio (oggi casertano e napoletano, allora tutto di Terra di Lavoro): di anonimo in San Nicola La Strada (Santa Maria degli Angeli, 1575 – 1625311), di Giovan Luca d’Errico in Airola (Annunziata, 1602 – 1608)312, di Balducci in Maddaloni (Annunziata, 1604)313, di Oratio de Carluccio in Caserta (Sommana, 1609314), di Sellitto in Arienzo (Annunziata, 1610315, ma col liuto al posto dell’arpa), di Pussé in Caserta (Santa Lucia, tra 1611 e 1630 secondo la datazione Cleopazzo316, dove non c’è il cornetto), sempre di Oratio de Carluccio in Caserta (Sommana, 1609317) e dell’anonimo della Madonna Assunta di Camigliano (San Simeone, forse 1630-1650). 5. Cetra, organo, liuto e arpa nella Visione e coronazione di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi318

Il dipinto è di scarso interesse artistico ma di grande interesse musicale. Montesano identifica il soggetto come Visione di santa Caterina da Siena e data la tela al sec. XIX319 ma credo sia in errore. Molto più probabilmente il dipinto fu realizzato nel XVII secolo (forse 1630 - 1650) e sono proprio gli strumenti musicali a sostenere l’ipotesi320.

Infatti, nessun pittore dell’Ottocento avrebbe potuto avere una conoscenza così particolareggiata degli strumenti e dei gesti, neppure copiandoli da altri dipinti del 1600, perché si tratta di strumenti scomparsi almeno dai primi del 1700. Da sinistra a destra, da alto in basso egli raffigura angeli del Paradiso che suonano una cetra, un liuto, un’arpa, un organo positivo.

309 Cfr. IZZO, cit., p. 211, nella tabella riepilogativa. 310 Tutti i dipinti seguenti per cui non è precisato l’organico rappresentano anche altri strumenti oltre all’arpa e al cornetto. 311 Cfr. DI LORENZO, Iconografia musicale nelle chiese della Diocesi di Caserta…, cit., a pp. 196 – 197, come strumento di estensione grave, quindi più propriamente un serpente o serpentone. 312 GERVASIO, cit., p. 214; anche qui, lo strumento raffigurato sembra di estensione grave, quindi più propriamente un serpente o serpentone; 313 GERVASIO, cit., pp. 216 – 217; DI LORENZO, Iconografia musicale nelle chiese della Diocesi di Caserta…, cit., pp. 194 – 195; DI LORENZO, Aggiunte …, cit., p. 33. 314 Cfr. DI LORENZO, Aggiunte …, cit., pp. 33 – 38, a pp. 33 – 35. 315 Cfr. G. FORGIONE, Sellitto Carlo, in DBI, v. 91, 2018, ed. on-line, alla voce che riporta la bibliografia. Saccone (cfr. M. R. SACCONE, Sant'Antonio da Padova¸ scheda OA 1500045748, 1981, cfr. www.catalogo.beniculturali.it) e tutti coloro che hanno studiato il dipinto non hanno riconosciuto il cornetto, individuato, erroneamente, come flauto. 316 Cfr. N. CLEOPAZZO, Committenti, frati, artisti. Il ‘trittico’ di Pollica e la possibile identità dello Pseudo-Rodriguez, in Ritorno al Cilento. Saggi di storia dell’arte, a cura di F. ABBATE - A. RICCO, Foggia, 2017, pp. 77 - 83 a p. 80. Precedentemente, in DI LORENZO, Aggiunte …, cit., a pp. 38 - 32 lo datavo intorno al 1650. La distanza stilistica e organologica tra gli strumenti rappresentati con il dipinto di Caserta, nella chiesa di San Benedetto (prima del 1611) attribuito a Pussé da Guida (cfr. A. GUIDA, L’attribuzione a Pussé della tela “Incoronazione della Vergine” della chiesa di San Benedetto di Caserta, «Rivista di Terra di Lavoro», Anno XI, n° 1, aprile 2016, pp. 54-60) e i nostri solleva un problema di attribuzione: o il dipinto di San Lucia non è di Pussé, oppure le opere di Pussé (che Guida individua sulla scorta dei paralleli proprio con gli affreschi al palazzo al Boschetto di Caserta a lui saldati nel 1611 e con quelli di Isernia, Ss. Cosma e Damiano, tra 1627 e 1639) sono di un altro pittore. 317 Cfr. DI LORENZO, Aggiunte …, cit., pp. 33 – 38, a pp. 33 – 35. 318 In DI LORENZO, Gli strumenti raffigurati nelle opere d’arte…, cit., pp. 116 – 117, la mancata possibilità di correggere le bozze ha comportato una svista nella stampa del titolo della scheda che riporta il numero progressivo, assente nelle altre schede, e il titolo non in grassetto. 319 E. MONTESANO, Visione di Santa Caterina da Siena, scheda OA 1500263963, 1995, cfr. www.catalogo.beniculturali.it 320 Ringrazio il restauratore Vincenzo Salomone (ocra restauri s.r.l.) per la cortesia di consentirmi di studiare e fotografare il dipinto in corso di restauro a maggio 2020.

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Figura 21. Visione e coronazione di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 1630 – 1650 circa, Capua Museo Campano.

5.1 Cetra Che io sappia, ad oggi è la prima e unica raffigurazione di una cetra di queste dimensioni nel territorio di Terra di Lavoro e nel Meridione. Soprattutto sorprende il contesto in cui compare che non è in alcun modo ispirato alla rievocazione di scene dell’Antichità. La cetra ha una cornice davvero bizzarra costituita da due montanti verticali, paralleli, e da una traversa sommitale a doppia curvatura, concava e convessa. L’incontro tra i due montanti e la traversa è risolto con una voluta straordinariamente barocca ma che non sembra compatibile con ragioni strutturali, in quanto costituirebbe un drammatico punto di debolezza rispetto allo sforzo di trazione esercitato dalle corde, se questo fosse elevato.

Lo strumento è privo cassa di risonanza il che esclude possa trattarsi di un’arpa, tranne che la cassa non sia alla base, che non è visibile, in quanto nascosta dalla nube. Rispetto all’angelo che suona, lo strumento è persino più alto. Quindi, considerata la lunghezza delle corde, probabilmente si tratta di uno strumento di molto esteso nel registro grave, come il violone barocco (antenato del

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nostro contrabbasso) o la tiorba. Le corde sono solo 12, quindi coprono al più l’estensione di un’ottava e una quinta immaginando suoni diatonici e non cromatici. Si tratta di una estensione sufficiente a tenere le note gravi di un basso continuo. Le corde sembrano ammorsate nella traversa mediante dei fori.

Figura 22. Cetra, particolare da Visione e coronazione di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 1630 – 1650 circa.

L’angelo tocca le corde con la mano destra mediante una bacchetta probabilmente metallica

(a giudicare dal colore) ma non si capisce se per percuoterle o, più probabilmente, per pizzicarle, vista la terminazione a punta della bacchetta. La grande cetra è sostenuta dall’angelo con la mano sinistra che sembra impugnare la traversa al centro della curvatura convessa. Il pollice, in opposizione alle altre dita, serra la presa sulla traversa passando nello spazio tra due corde. Il gesto musicale, nel complesso, sembra ragionevole, atteso che non ha termini di paragone, vista l’unicità della raffigurazione.

La forma della traversa superiore della cornice ricorda il clavicytherium, di cui van der Meer ricostruisce le descrizioni e le raffigurazioni in quello che credo sia il primo saggio scientifico moderno sullo strumento321. La prima citazione nota è in un manoscritto del 1460 di Paulus

321 Cfr J. H. VAN DER MEER, Zur Geschichte des Klaviziteriums, in Bericht iiber den internationalen musik. Wissenschaftlichen kongrep Kassel 1962, a cura di G. Reichert – M. Just, Kassel, 1963, pp. 305 – 308, cui fanno

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Paulirinus di Praga, ma probabilmente fu in uso già precedentemente. La più antica citazione italiana che van del Meer rintraccia sarebbe la cethera inserita da Zacconi (1596322) tra gli strumenti a tastiera, il che induce a identificarla col clavicytherium. La più antica raffigurazione nota è l’altare ligneo scolpito della parrocchiale di Kefermarkt (Maestro dell’Altare di Kefenmarkt, 1491 - 1497 ca323). Successivamente, ma sempre in area tedesca, fu rappresentato in una incisione di Virdung (1511)324 e da Michael Praetorius (1619 - 1620)325. La più antica attestazione di uso in Italia sembra quella riportata da Mersenne. E la cornice della nostra cetra si avvicina proprio alla forma della cassa nel lato del grave del clavicytherium di Mersenne. Resta il dubbio: si tratta dell’unica raffigurazione finora emersa di una grande cetra, uno strumento originale, in uso nel periodo barocco, in Italia, o solo nel Regno di Napoli e mai documentato né prima né dopo altrove, oppure siamo in presenza di una svista del pittore che voleva raffigurare un clavicytherium di cui ha dimenticato / deliberatamente ignorato di rappresentare cassa armonica e tastiera? 5.2 Liuto In basso a sinistra è un angelo che suona un grande liuto, di dimensioni un po’ insolite (ma non rarissime) per gli anni prima del 1630. Si intravvedono il ponte incollato sulla tavola armonica, le corde (di budello di colore molto chiaro), che sembrano solo cinque (anche se il segno grafico della più acuta sembra sdoppiarsi) e il grande foro di risonanza posto al centro della cassa, racchiuso in una cornice e coperto da una rosa traforata (il disegno riporta un fiore a 8 petali). Si intuisce la presenza di un cavigliere, forse solo parzialmente inclinato (quello del liuto è a 90°), il che farebbe propendere più per una mandola che per un liuto. Il gesto esecutivo e l’impostazione delle mani dell’angelo sono del tutto corretti.

Figura 23. Liuto, particolare da Visione e coronazione di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 1630 – 1650 circa.

riferimento tutte le citazioni dei trattati con descrizioni e raffigurazioni che sinteticamente riporto, tranne quella sull’altare. 322 Cfr. L. ZACCONI , Prattica di musica, Venetia 1596, f. 213 r. 323 Cfr. R. KAHSNITZ, Carved Splendor. Late Gothic Altarpieces in Southern Germany, Austria and South Tirol, Los Angeles, 2006, pp. 164 – 179, contro la datazione riportata da van der Meer al 1480 ca. 324 Cfr. VIRDUNG, cit., f. 5v. 325 Cfr. M. PRAETORIUS, Syntagma musicum, v. 2, Wolfenbüttel, 1619, pp. 66 – 67 e t. XV.

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5.3 Arpa In basso a destra di nota un angelo che suona un’arpa. Si tratta di arpa di medie dimensioni,

non ancora il grande modello barocco che si diffuse dal 1630. La forma è tipicamente barocca, come denuncia anche il ricciolo all’incontro tra la colonna concava (rispetto alle corde) e la mensola (convessa). Ha solo 20 corde e la stranezza (o meglio l’errore organologico, ma abbastanza comune nella raffigurazione dell’arpa) è che le corde sono incardinate nella colonna e nella mensola, indistintamente e puntano verso il terzo lato, l’unico rettilineo. La disposizione “errata” delle corde e la voluta tra traversa e cassa sono presenti anche nella Visione di Sant’Orsola di Donato Piperno del 1590/1595 in Benevento, Museo del Sannio (ma proveniente dalla chiesa di Santa Sofia)326. Su lato retto dovrebbe vedersi la cassa di risonanza che non appare raffigurata. La mancanza della cassa non impedisce la produzione di suono ma lo rende decisamente più debole e aspro e poco o nulla persistente. L’arpa sembra galleggiare nel vuoto e nella nuvola sottostante. Probabilmente doveva esser sostenuta con una fascia di tessuto o una cinghia di cuoio che non appaiono nel dipinto. Quindi, sembra che siano le mani e le braccia contro ogni possibilità. Le mani sono disposte in un gesto corretto e plausibile per la prassi esecutiva.

Figura 24. Arpa, particolare da Visione e coronazione di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 1630 – 1650 circa.

326 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… Fasto e devozione, cit., p. 283, pp. 320– 322, e p. 325.

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5.4 Organo positivo In alto a destra appare un piccolo organo positivo. Qui, però, come nel dipinto di San Nicola

La Strada (Santa Maria degli Angeli, 1575 – 1625327) il numero di canne è molto inferiore a quello di ogni possibile strumento appropriato per l’epoca, dal punto di vista organologico. Infatti, si contano solo 8 canne. Tutta via l’angelo è impegnato in un gesto esecutivo sicuramente appropriato ma che coinvolge entrambe le mani che, in otto tasti appena (tasti neri inclusi) non troverebbero alcuno spazio. Ugualmente “critico” dal punto di vista organologico (ma col vantaggio del particolare delle bocche delle poche canne previste) è l’organo positivo raffigurato nella Visione di Sant’Orsola di Piperno del 1590/1595 in Benevento, Museo del Sannio (dalla chiesa di Santa Sofia)328. L’organo è posato (da qui l’attributo) su un tavolino dal piede articolato in volute.

Figura 25. Organo positivo, da Visione e coronazione di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 1630 – 1650 circa.

5.5 Il soggetto e la datazione: motivazione

L’individuazione del soggetto come Visione di santa Maria Maddalena de’ Pazzi poggia sulle seguenti considerazioni. Ritengo improbabile si tratti di santa Caterina da Siena perché la monaca non veste l’abito domenicano ma quello carmelitano. Nella stessa sala del Museo si conserva un ritratto di S. M. Maddalena de Pazzi in fanciullezza (trascrivo l’iscrizione dipinta) che è erroneamente datato 1525-1549329 contro l’evidenza. Infatti, la santa carmelitana fiorentina visse dal 1566 al 1607 e fu canonizzata nel 1669. L’assenza dell’aureola non è elemento decisivo in età barocca per la datazione del dipinto prima della canonizzazione di un santo e, nel nostro caso, per stabilire un termine di realizzazione entro il 1669. Le caratteristiche organologiche degli strumenti e la composizione dell’organico (praticamente privo di strumenti tipicamente melodici e comunque senza il violino) orienterebbero verso il 1620-1630. Io propendo per un data più vicina alla canonizzazione che, sebbene in ritardo di qualche decennio rispetto alla data più appropriata,

327 Cfr. DI LORENZO, Iconografia musicale nelle chiese della Diocesi di Caserta…, cit., a pp. 196 – 197, in cui le canne sono di pergamena. 328 Cfr. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento… Fasto e devozione, cit., p. 283, pp. 320– 322, e p. 325. 329 E. MONTESANO, Santa Maria Maddalena dei Pazzi, scheda OA 1500263923, 1995, cfr. www.catalogo.beniculturali.it

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potrebbe esser giustificata dalla necessità di produrre un dipinto a scopo devozionale realizzato ricordando a memoria un’opera originale non identificata, vista probabilmente molto prima o descritta oralmente al pittore. L’ipotesti di un artista dalla mano certamente poco aggiornata, frettolosa e incerta nel disegno in prospettiva, seppur non del tutto inesperta, potrebbe giustificare gli errori nella disposizione delle corde dell’arpa e nella raffigurazione delle canne dell’organo.

L’opera proviene certamente dal Convento di san Gabriele (meglio noto come “Ritiro”) e fu trasferita nel Museo nel 1897330. Il convento femminile del Carmelo (sorto nel 1702331) affianco quello maschile, esistente in Capua dal 1321332. Forse la grande diffusione del culto della santa fiorentina si dové ad Angela Marrapese, la discussa mistica che ebbe proprio la visione di Santa Maria Maddalena333 e che dal 1738 fondò il Monastero carmelitano di San Gabriele, di cui Maria Amalia di Sassonia fu benefattrice334. Una stampa «a rame» raffigurante la santa fu donata durante una delle visite della Regina (20 settembre 1759)335. La devozione portò a Capua anche reliquie della santa, oggi conservate nel Museo Diocesano. Quindi, il soggetto da me proposto non sarebbe estraneo al sentire religioso documentato in città, tutt’altro.

Di più. La più antica e affidabile agiografia racconta che santa M. Maddalena, dopo l’undicesimo anno d’età per «…mortificarsi prese una volta di nascosto alcuni gambi di melaranci spinosi, et in capo strettamente legatili, passò una notte intera con ismisurato dolore..»336. Il citato ritratto reca proprio una corona di foglie e di fiori, non presente nell’originale cinquecentesco (dipinto da Santi di Tito) di cui il dipinto capuano è copia tarda. Chiudo ricordando che durante una visione di Cristo, della Vergine e del Paradiso la santa fiorentina ebbe la grazia della coronazione di spine337. Il dipinto capuano richiama esplicitamente la Trinità di cui la santa carmelitana fu particolarmente devota.

Una identificazione e una provenienza alternative potrebbero essere dalla chiesa dell’Annunziatella di Maddaloni (oggi inclusa nel “Villaggio dei Ragazzi”), qualora si propendesse per riconoscere in questo dipinto quello descritto come “Santa Teresa che fa professione di fede”338. 6. L’arpa classica e lo spartito nella “Famiglia Ferdinando IV di Borbone” di Kauffmann.

Galeone lo ritiene bozzetto (del 1782) di Angelica Kaufmann per il dipinto oggi a Capodimonte339 contro Spinosa che lo considera «piccola e mediocre replica dell’originale»340.

A suonare è Maria Teresa, figlia di Ferdinando IV, nota per le competenze musicali341. Lo spartito purtroppo non è decifrabile, neppure nel dipinto napoletano. L’arpa è un tipico modello di età classica (1760 – 1820). Nella piccola tela capuana, l’arpa mostra solo 18 corde contro le 27 della tela definitiva, ciò forse in ragione delle ridotte dimensioni dello strumento nel dipinto capuano.

330 IZZO, cit., p. 208 e nota 26 con il riferimento ai documenti. 331 F. GRANATA, Storia sacra della chiesa metropolitana di Capua, Napoli, 1756, v. 2, p. 51. 332 L. SAGGI, Storia dell'Ordine Carmelitano, Roma, 1962-63, I, I, p. 99. 333 M. CAMPANELLI, Il monastero di San Gabriele a Capua tra età borbonica e soppressioni post-unitarie, in Stato e Chiesa nel Mezzogiorno Napoleonico, a cura di C. D’ELIA, Napoli, 2011, pp. 265 – 288, a p. 268. 334 Sulle vicende che legarono Maria Amalia di Sassonia, moglie di Carlo di Borbone, alla discussa (mistica o millantatrice?) suor Angela Marrapese e al convento carmelitano di San Gabriele in Capua, si veda M. CAMPANELLI, Monasteri di provincia. (Capua secoli XVI - XIX), Milano, 2012, parte II, che riporta la bibliografia. 335 R. CHILLEMI, Una visita della regina al Ritiro di Capua, «Capys», 22, 1989, pp. 3 – 46, a p. 41. 336 V. PUCCINI, Vita della veneranda madre suor M. Maddalena de' Pazzi fiorentina, Firenze, 1611, p. 4. 337 PUCCINI, cit., p. 143 e ss. 338 IZZO, cit., p. 213, da Atti della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti di Antichità e Belle Arti nella Provincia di Terra di Lavoro, III, 1872, p. 46, tornata del 14 marzo 1872. 339 GALEONE, cit., p. 57. 340 IZZO, cit., p. 193; SPINOSA, cit., p. 134. 341 P. DI LORENZO, Testimonianze storiche della musica in Terra di Lavoro in età borbonica: Diocesi di Teano, Capua, Caserta, «Rivista di Terra di Lavoro», XIV, n. 2 - ottobre 2019, pp. 1 – 12, a p. 14.

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Figura 26. Famiglia di Ferdinando IV di Borbone, replica da Kaufmann, dopo il 1782, Capua, Museo Campano.

Figura 27. Arpa, particolare da Famiglia di Ferdinando IV di Borbone, da Kaufmann, dopo il 1782.