cultura Il racconto dell’amore ai tempi dell’Aids...

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1989 L’anno che cambiò il mondo DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009 D omenica La di Repubblica i sapori I segreti dei formaggi di frontiera LICIA GRANELLO e CARLO PETRINI cultura Il racconto dell’amore ai tempi dell’Aids SANDRO VERONESI e DAVID FOSTER WALLACE l’incontro Marcello Lippi, la felicità in campo MAURIZIO CROSETTI le storie La casa-rifugio dei reporter braccati ANAIS GINORI spettacoli Le marionette e il loro Maestro ANNA BANDETTINI e GUIDO CERONETTI l’attualità “Io, prigioniero dei pirati” ATTILIO BOLZONI FOTO AFP VARSAVIA L a rievocazione del 1989 è anche un inevitabile viaggio nel presente. Il ricordo di quel che accadde vent’anni fa si sviluppa, assume contorni nella memoria sensibile, vulnerabile alla dialettica del momento. La realtà sotto i nostri occhi fa da filtro al passato. Qui, sulla via Nowy Swiat, nel- l’autunno polacco ancora tiepido, mi chiedo se il Paese sia lo stesso in cui ho assistito a tanti avvenimenti drammatici, di rivolta e di re- pressione, nel secolo scorso. L’89, l’anno incruento che, più di una guerra, ha cambiato l’Europa e il mondo (ma ci fu poi alla fine, in di- cembre, il sangue versato in Romania), ha trasformato il paesaggio. Le cose e gli esseri umani. Sulla Nowy Swiat, la via del Nuovo mon- do, hai il ritratto di una società disinvolta nei gesti, attirata, ma non più affascinata, non più ipnotizzata, perché ormai assuefatta, dalle vetrine in cui sono esposti prodotti identici, almeno per un occhio inesperto, a quelli esibiti nelle capitali veterane del consumismo di lusso. Le donne avanzano a grandi falcate, mostrando le lunghe gambe abbronzate, lasciate scoperte da shorts più da spiaggia che da città. Gli uomini, anche loro reduci da vacanze assolate, indossa- no abiti scuri, secondo la moda maschile imperante un po’ ovunque in Occidente. Può sembrare una banale scena della ripresa dei nor- mali ritmi di vita, in una metropoli europea, dopo l’estate. Ma non lo è per chi ha nella memoria la Varsavia sbiadita, grigia, logora, in cui le luci delle vetrine illuminavano poveri oggetti che la fantasia prodigatasi nel presentarli non riusciva a rendere meno modesti. Nei primi anni Ottanta, durante lo stato d’assedio decretato (contro il sindacato Solidarnosc) dal generale Jaruzelski, primo segretario del Partito comunista e primo ministro, le ragazze avevano spesso la borsa imbottita di mele, che mangiavano per calmare la fame. Le addentavano con la stessa disinvoltura con la quale oggi sfilano, con lunghe falcate, davanti ai negozi scintillanti di via Nowy Swiat. Chi ritorna a Varsavia è abbagliato dalla capitale ripulita, ammo- dernata, costellata di edifici vetro e cemento, e con i palazzi rico- struiti sulle macerie della Seconda guerra mondiale (uguali o somi- glianti a quelli dei settecenteschi quadri del Bellotto, il Canaletto varsaviese), adesso rinfrescati con le tinte originali. O quasi. È un’e- splosione di colori. Ecco, l’89 ha cambiato le immagini. Vale a dire lo spettacolo della vita. Allo sguardo l’Europa non è più divisa in due mondi. È una prima impressione che, certo, va relativizzata. Dietro la facciata ci sono le delusioni: le angosce esistenziali alimentate dal denaro onnipotente; le fiammate di populismo che sollecitano gli egoismi nazionalisti e xenofobi; la paura di non avere un lavoro sta- bile, garantito prima dell’89, sia pure mediocremente; la diffidenza verso un’Unione europea che non si è rivelata una terra promessa. (segue nelle pagine successive) BERNARDO VALLI Repubblica Nazionale

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1989L’anno

che cambiòil mondo

DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

I segreti dei formaggi di frontieraLICIA GRANELLO e CARLO PETRINI

cultura

Il racconto dell’amore ai tempi dell’AidsSANDRO VERONESI e DAVID FOSTER WALLACE

l’incontro

Marcello Lippi, la felicità in campoMAURIZIO CROSETTI

le storie

La casa-rifugio dei reporter braccatiANAIS GINORI

spettacoli

Le marionette e il loro MaestroANNA BANDETTINI e GUIDO CERONETTI

l’attualità

“Io, prigioniero dei pirati”ATTILIO BOLZONI

FO

TO

AF

P

VARSAVIA

La rievocazione del 1989 è anche un inevitabile viaggionel presente. Il ricordo di quel che accadde vent’anni fasi sviluppa, assume contorni nella memoria sensibile,vulnerabile alla dialettica del momento. La realtà sotto

i nostri occhi fa da filtro al passato. Qui, sulla via Nowy Swiat, nel-l’autunno polacco ancora tiepido, mi chiedo se il Paese sia lo stessoin cui ho assistito a tanti avvenimenti drammatici, di rivolta e di re-pressione, nel secolo scorso. L’89, l’anno incruento che, più di unaguerra, ha cambiato l’Europa e il mondo (ma ci fu poi alla fine, in di-cembre, il sangue versato in Romania), ha trasformato il paesaggio.Le cose e gli esseri umani. Sulla Nowy Swiat, la via del Nuovo mon-do, hai il ritratto di una società disinvolta nei gesti, attirata, ma nonpiù affascinata, non più ipnotizzata, perché ormai assuefatta, dallevetrine in cui sono esposti prodotti identici, almeno per un occhioinesperto, a quelli esibiti nelle capitali veterane del consumismo dilusso. Le donne avanzano a grandi falcate, mostrando le lunghegambe abbronzate, lasciate scoperte da shorts più da spiaggia cheda città. Gli uomini, anche loro reduci da vacanze assolate, indossa-no abiti scuri, secondo la moda maschile imperante un po’ ovunquein Occidente. Può sembrare una banale scena della ripresa dei nor-

mali ritmi di vita, in una metropoli europea, dopo l’estate. Ma nonlo è per chi ha nella memoria la Varsavia sbiadita, grigia, logora, incui le luci delle vetrine illuminavano poveri oggetti che la fantasiaprodigatasi nel presentarli non riusciva a rendere meno modesti.Nei primi anni Ottanta, durante lo stato d’assedio decretato (controil sindacato Solidarnosc) dal generale Jaruzelski, primo segretariodel Partito comunista e primo ministro, le ragazze avevano spessola borsa imbottita di mele, che mangiavano per calmare la fame. Leaddentavano con la stessa disinvoltura con la quale oggi sfilano, conlunghe falcate, davanti ai negozi scintillanti di via Nowy Swiat.

Chi ritorna a Varsavia è abbagliato dalla capitale ripulita, ammo-dernata, costellata di edifici vetro e cemento, e con i palazzi rico-struiti sulle macerie della Seconda guerra mondiale (uguali o somi-glianti a quelli dei settecenteschi quadri del Bellotto, il Canalettovarsaviese), adesso rinfrescati con le tinte originali. O quasi. È un’e-splosione di colori. Ecco, l’89 ha cambiato le immagini. Vale a dire lospettacolo della vita. Allo sguardo l’Europa non è più divisa in duemondi. È una prima impressione che, certo, va relativizzata. Dietrola facciata ci sono le delusioni: le angosce esistenziali alimentate daldenaro onnipotente; le fiammate di populismo che sollecitano gliegoismi nazionalisti e xenofobi; la paura di non avere un lavoro sta-bile, garantito prima dell’89, sia pure mediocremente; la diffidenzaverso un’Unione europea che non si è rivelata una terra promessa.

(segue nelle pagine successive)

BERNARDO VALLI

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la copertina28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

Vent’anni dopo

IL DISCORSODI KENNEDYIl 26 giugno

1963 John

Kennedy

in visita

in Germania

occidentale

pronuncia

poco lontano

dal Muro

il celebre

discorso: “Io

sono berlinese”

LE FUGHEVERSO OVESTCinquemila

i tentativi

di fuga dei soli

berlinesi riusciti

tra il 1961e l’89

Tra i 138 uccisi,

questo

il numero

ufficiale,

il diciottenne

Peter Fechter

nel 1962

SCALEE MARTELLITra il 1986

e l’87 John

Running

attacca

il Muro

più volte

Lo scavalca

con una scala,

vi cammina

in equilibrio

e lo prende

a martellate

LA COSTRUZIONEIN UNA NOTTEInizia nella notte

tra il 12 e il 13

agosto 1961

la costruzione

del Muro

di Berlino:

il governo

dell’Est

vuole impedire

le fughe

verso

Occidente

(segue dalla copertina)

Il grande cambiamento è pieno di ombre. Ma l’unifica-zione delle immagini salta agli occhi. Cosi come è visto-so il culto della memoria. Altro elemento unificatoredell’Europa, che dall’89 ha abbattuto tanti steccati.Tante frontiere. Anche quelle della storia. A Praga ritorno nell’antico cimitero ebraico, attirato

dalla magica spettralità di quella necropoli. Voglio controllarese ricordo la ricca simbologia delle lapidi, che insieme forma-no un disperato esercito di pietra. Un esercito allo sbaraglio,scrive Angelo Maria Ripellino in Praga magica. Le mani bene-dicenti incise sullo stelo sono il segno dei sacerdoti. La broccae la bacinella il segno dei loro coadiutori. Le forbici indicano latomba di un sarto. Le pinze quella di un medico. L’arpa, di unliutaio. E poi vi sono cervi, lupi, colombe, carpe, oche. Il beccodi una gallina rivolto contro una testa femminile indicherebbela tomba di un’adultera, che il volatile sta per accecare. Sì, lamemoria funziona. Ha resistito quarant’anni, tanti ne sonotrascorsi dall’occupazione sovietica, quando il cimitero ebrai-co era per alcuni di noi, cronisti, un luogo di incontro apparta-to. La lettura dei simboli funerari sulle lapidi secolari adesso ècorale, poiché nel recinto siamo assai più numerosi noi vivi deimorti. Un’armata di turisti occupa il centro di Praga e ondeg-gia tra la Vltava e il ghetto che non c’è più, lungo la via Parigi, apochi metri dalla necropoli ebraica incantatrice della fantasiadi innumerevoli pittori. E nella via Parigi riscopro la scena var-saviese di via Nowy Swiat. Vetrine da rue du Faubourg-Saint-Honoré, e tanti indigeni vestiti secondo la moda del momen-to, tra orde di turisti scamiciati.

Anche Praga è stata imbiancata. Ripittata. Ma c’è chi rim-piange la città sdrucita, vittima dell’incuria e della povertà delcomunismo fallimentare. Allora soffriva di un’affascinantemestizia. Troppi sono, oggi, i cambiavalute e i pizzaioli. Esteti-ca e politica sono in aperta tenzone.

Allora Praga si difendeva dalla violenza dell’impero sovieti-co con l’ironia. Un’ironia sottile, come diafana era la preziosa

immagine della città. L’ironia ha poi finito col trionfare, dopol’89, quando Václav Havel, drammaturgo diventato un presi-dente democratico, si muoveva su un monopattino rosso dal-la sala barocca a quella gotica del castello boemo svettante so-pra Hradcany. E sostituiva la statua di Stalin, dominante lacittà, con quella di Michael Jackson. Havel si è ritirato da tem-po a vita privata, lasciandosi alle spalle l’impercettibile sciadella sua emozionante ironia.

Come a Varsavia, anche a Praga i luoghi della memoria so-no stati restaurati. Il socialismo reale dedicava un’attenzioneparticolare a quelli conformi alla sua interpretazione della sto-ria. Adesso la sovranità del ricordo, come la chiama GeorgeSteiner, prevale incontrastata. Le strade e le piazze sono tap-pezzate di scritte commemorative e sono dedicate a uomini diStato, militari, poeti, artisti, compositori, filosofi e santi, cheerano stati radiati dalla memoria ufficiale. I nomi delle grandifamiglie nobili sono stati reintegrati con enfasi nella storia pa-tria e riscritti sulle facciate dei palazzi. Come a Parigi o a Lon-dra o a Roma o a Stoccolma, la toponomastica esalta i protago-nisti della letteratura, della filosofia, dell’arte, della politica,senza più la censura di un tempo che non risparmiava la storia.Una riabilitazione al tempo stesso luminosa e soffocante, per-ché la sovranità del ricordo commemora anche secoli di mas-sacri e di sofferenze, di odio e di sacrifici. Ma l’Europa è questa.

A Budapest il paesaggio della riva destra del Danubio è sta-to restaurato con cura. A chi mi è accanto sull’opposta spondadel fiume, proprio di fronte a Buda, dico di non ricordare trop-po degradata l’acropoli che Sándor Márai definiva, con strug-gente ammirazione, di una fierezza altisonante. Neppure ne-gli anni Sessanta, quando il « comunismo al gulash», come erachiamato il regime di Kádár, cercava di far dimenticare il bagnodi sangue dell’insurrezione del ‘56, neppure allora i palazzi sto-rici e lo stesso castello mi erano apparsi trascurati e logori. Mail nuovo amico ungherese mi indica i contorni rinnovati e i co-lori rinfrescati del castello e delle costruzioni abbarbicate allependici della collina, evidenti espressioni del pensiero storicoin forma di pietra. E, dietro, i vecchi quartieri raggomitolati do-ve i nomi delle vie rievocano o rievocavano antiche arti e me-stieri degli abitanti di un tempo, anche loro risanati. I restaurinell’aristocratica Buda, come quelli di Pest, i cui tetti erano pa-

Le strade di Varsavia, di Praga, di Budapest sono le vetrine di società

disinvolte e ormai assuefatte al consumismo. I monumenti nazionali,

spesso mortificati dai regimi comunisti, sono stati restaurati con amore

Allo sguardo, il nostro continente non appare più diviso in due mondi

Nell’Europa rinatadalle rovine dell’89

CEMENTOE TORRETTENel 1975

viene costruito

il “Muro

di quarta

generazione”

in cemento

armato

rinforzato

Oltre trecento

le torri

di guardia

con i cecchini

il confine interno traBerlino Est e Berlino Ovest

43 chilometri

la lunghezza del Murointorno a Berlino Ovest

155 chilometri

il confine tra Berlino Oveste la Ddr

112 chilometri

i passaggi tra Berlino Este Berlino Ovest

8

l’altezza del Muroche divideva Berlino

3,60 metri

la larghezzadel Berliner Mauer

1,20 metri

BERNARDO VALLI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

L’UNGHERIAAPRE IL CONFINEIl 23 agosto1989l’Ungheriaapre il confinecon l’AustriaOltretredicimilatedeschidell’Estin vacanzane approfittanoper fuggire

IL CROLLOFINALENell’ottobre1989le primedimostrazionicontro il regimedi Berlino EstNella nottedel 9 novembrein migliaiasuperanoil Muroda uomini liberi

L’INCHIESTA

Comincia con questo articolo l’inchiesta-reportagecondotta da Bernardo Valli nei Paesi dell’Europacentrale che nel 1989 si liberarono dal comunismoI reportage successivi porteranno il lettorein Polonia, in Ungheria, nella Repubblica Cecae in Slovacchia, e nella Germania riunificata,mettendo a confronto gli avvenimenti storicidell’“anno che cambiò il mondo” con la realtàodierna di quei Paesi

ragonati a una foresta di color ruggine e blu acciaio, rivelanoquel culto del ricordo, sia pur spesso vergognosamente tra-sgredito, comune ai Paesi europei a lungo divisi dalla guerrafredda. Questo culto unificatore è una caratteristica dell’Euro-pa, schiacciata tra un’Asia che si è rinnovata e potenziata can-cellando le immagini del passato (i bulldozer in Cina hanno di-strutto più di qualsiasi esercito nella storia dell’uomo, per farspazio a nuove città e villaggi) e un’America per sua natura ri-volta al futuro. In memoriampotrebbe essere lo slogan del Vec-chio continente, vent’anni dopo l’89.

Idee ed espressioni di Sándor Márai (del quale mi accom-pagnano i libri) ricorrono nella conversazione con il nuovoamico ungherese, sulla riva del Danubio. Mi accorgo che gli ru-biamo a volte le parole. Lo scrittore è morto suicida, sulla sogliadei novant’anni, proprio nell’89, ma poco prima del crollo delMuro di Berlino e del mondo dal quale era fuggito. Viveva a SanDiego, in California, e il riconoscimento come grande roman-ziere avvenne dopo la sua morte. Il trionfo postumo, dice l’a-mico ungherese, fu quello della riemersa borghesia di Buda-pest. Lui era misconosciuto, in quanto scrittore «borghese».L’89 gli ha reso giustizia.

Per la prima volta nella sua storia, l’Europa intera applica l’e-conomia di mercato. Russia compresa. Sull’autenticità di que-sta scelta si possono avanzare tante riserve. Le dichiarazioni diprincipio non si traducono sempre in realtà. E tuttavia non c’èpiù antagonismo tra sistemi economici, con tutte le implica-zioni ideologiche e politiche. Inoltre è la prima volta (dal 1815,ricorda lo storico Krzysztof Pomian) che l’Europa non è più di-visa in due campi, virtualmente rivali anche nei periodi di pa-ce. Prima, i Paesi a regime parlamentare si confrontavano conle monarchie assolute o con i regimi autoritari. Poi le istituzio-ni democratiche si opponevano a poteri la cui legittimità si ba-sava su principi dinastici. E infine la linea di divisione passavatra democrazie e regimi totalitari o autoritari. Da vent’anni c’èun’uniformità ideologica e politica che, per quanto superficia-le e fragile, in particolare nell’Europa dell’Est, resta la granderealizzazione dell’89. La stessa Russia, nonostante la forte di-versità, non agisce nel nome di un’ideologia universale, maspinta da quello che crede essere il suo interesse, e dal nazio-nalismo.

L’uniformità europea è frantumata dalla diversità linguisti-ca. Le lingue sono più numerose dei Paesi. Sándor Márai dice-va che l’ungherese, parlato da una manciata di uomini e don-ne (dieci milioni sui miliardi che popolano la Terra) era la suapatria: il vero valore della vita. Per lui la lingua contava più ditutto il resto, o lo riassumeva. Molti cechi devono pensare lastessa cosa, se spinti da uno sciovinismo linguistico conside-rano Milan Kundera un «traditore» perché scrive ormai da an-ni in francese. Ben vengano traditori del genere, pensa un de-voto di Joseph Conrad, nato polacco e diventato romanziereinglese.

Una semiologa e psicanalista, che si presenta come una cit-tadina europea di nazionalità francese, d’origine bulgara eamericana d’adozione, Julia Kristeva, parla di individui calei-doscopici creati dal mosaico di idiomi europei. Individui pron-ti a sfidare il bilinguismo del globish englishper capirsi tra di lo-ro. Curiosamente il globish english, un inglese-esperanto,semplificato, articolato in tante versioni, come i vecchi dialet-ti, spesso incompreso da inglesi e americani, serve da elemen-to unificante in un continente pacificato in cui il poliglottismoè una causa di disunione. È fonte di gelosia, di odio, di nazio-nalismo. C’è il caso basco; quello belga; quello slovacco-un-gherese. Per non citare che i casi più attuali, più acuti. Meno fa-cile è elencare le grandi frustrazioni linguistiche, i conflitti la-tenti, sfumati, ammortizzati dall’educazione culturale. PaulValéry diceva che si può imparare l’inglese in venti ore. Era unavanteria francese, prima ancora che vedesse la luce il globishenglish.

In realtà per molti europei l’anglo-americano contiene in-consciamente una speranza legata al ricordo delle promessedel viaggio verso Ovest. Mentre le altre lingue, tanto amate etanto ricche di storia letteraria, sono vincolate ai luoghi dellamemoria, carichi di gloria e di altrettanta tristezza e sofferen-za. È la tesi condivisibile di George Steiner, insegnante di lette-ratura in quattro lingue (tedesco, inglese, francese, italiano).Nell’epoca della tecnologia, l’inglese, e in parte il suo surroga-to globish, è la lingua scientifica. Quella del computer, sillaba-rio del nostro tempo. Ma è anche la lingua dell’89, anno in cuisi è conclusa in Europa la guerra fredda, perduta dall’UnioneSovietica e vinta dall’America.

LA CADUTAQui accantoe in copertina,due immaginidella cadutadel Murodi Berlino

i passaggitra Berlino Ovest e la Ddr

6

le torri di guardiaposizionate sul Muro

302

i corridoi sorvegliatidai cani

259

i bunker scavati intornoal perimetro del Muro

20

i tentativi di fuga dall’interaGermania Est

100mila

il numero ufficiale dei mortiuccisi durante la fuga

138

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Repubblica Nazionale

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

l’attualitàCorsari moderni

“Io, prigioniero dei pirati”

Centodiciannove giorni nelle mani dei banditi somaliche catturano le navi al largo della loro costaUn “diario di bordo” che Mario Iarlori, un abruzzesedi Ortona comandante del Buccaneer, ha scolpitonella memoria e racconta a nome dei suoi quindici marinai:le minacce, i maltrattamenti e gli spari, la fame e la sete

L’acqua è finita con l’inizio dell’e-state. Il sole bruciava sino al tra-monto, poi di notte saliva l’umi-do del mare che s’incollava allapelle. E la cisterna era vuota.«Sarà stato il sessantacinquesi-

mo o forse il settantesimo giorno. Quando me nesono accorto, ho avuto un brivido e ho comincia-to a tremare», ricorda Mario, il comandante. L’ac-qua era finita ma la paura non finiva mai sul pontedel Buccaneer.

In quella prima lunga giornata di sete il nostro-mo prese all’amo un pesce, pesava una trentina dichili e luccicava come un piccolo tonno. Il cuocoscese in cambusa a recuperare l’ultima latta di po-modori, l’ufficiale di coperta avvertì gli altri che fi-nalmente c’era qualcosa da mangiare. Ma il pescelo rubarono quegli sbandati, lo fecero a pezzi con icoltelli e lo divorarono tutto. Erano ubriachi, stor-diti da un intruglio schifoso. «È il nostro gin», dice-vano. E agitavano pericolosamente i kalashnikov.Sparavano raffiche al cielo, si avvicinavano minac-ciosi ai loro prigionieri. Fu quella volta che sul Buc-caneer scoprirono chi era il peggiore fra i loro aguz-zini. Era Sadir, il più vecchio della banda. Era Sadir,l’uomo dai modi gentili che parlava bene l’italiano.Era Sadir che stava torturando le loro menti.

Il rimorchiatore d’alto mare era nelle mani deipirati che l’avevano abbordato fra lo Yemen e la So-malia. Galleggiava sul mare piatto del Golfo diAden a neanche mezzo miglio dalla costa di La-sqorey, un villaggio della provincia autonoma delPuntland. Sedici erano gli ostaggi. Dieci italiani.Un croato. Cinque romeni.

Il comandante Mario Iarlori, un abruzzese diOrtona, racconta quei centodiciannove giorni equelle centodiciannove notti passati con il suoequipaggio fino alla liberazione. Una cronacadrammatica degli avvenimenti dall’11 aprile al 9agosto 2009, settimana dopo settimana e mese do-po mese. Un diario di bordo che è nella sua me-moria.

Nel Golfo di Aden

«Era la prima volta che andavo da quella parte delmondo, in Estremo Oriente. Avevo navigato nelMediterraneo e nell’Atlantico, prima facevo il pe-

scatore e poi anche l’armatore. Da qualche annolavoro per la Micoperi, una società di Ravenna cheha una base operativa in Abruzzo, proprio a Orto-na. Mi hanno detto che con il rimorchiatore Buc-caneer avrei dovuto trascinare due grandi chiatteattraverso l’Oceano Indiano, una la dovevo lascia-re in un porto vicino ad Alessandria d’Egitto e l’al-tra qui in Abruzzo.

Così, il 19 febbraio, sono arrivato a Singapore.Ho aspettato il mio equipaggio e abbiamo carica-to la stiva di ogni ben di dio. Tortellini, gnocchi, fa-rina, Nutella, carni e pesci, dolci, frutta secca, be-vande, formaggi, salumi. Avevamo proprio tutto.Anche i cosciotti di agnello per il giorno di Pasqua.Poi, il 19 marzo, abbiamo fatto rotta verso occi-dente. Le chiatte erano molto pesanti, il Buccaneer

arrancava: non superavamo mai le sei o le sette mi-glia l’ora. Dopo ventuno giorni, all’alba dell’11aprile, siamo entrati nel Golfo di Aden. Alla par-tenza ci avevano avvertito che lì era pericoloso, noiperò non c’eravamo preoccupati fino a quandonon ho visto quelle due barche».

L’attacco

«Mi sono accorto subito che quei due peschereccifacevano strane manovre. Non erano allineati pertirare su le reti, venivano verso di noi zigzagando.Sembrava che giocassero. No, non stavano pe-scando. Ho capito che su quelle barche non c’era-no pescatori. Ho suonato l’allarme e tutto l’equi-paggio è salito in plancia. Noi eravamo a circa cen-toquaranta miglia dalla costa somala e i due pe-scherecci erano a quasi cinque miglia da noi. Hoavuto paura. Ancora non sapevo che quella paurami avrebbe accompagnato per altri quattro mesi.Ho lanciato l’sos a tutte le navi in zona. “Ci stannoattaccando”, ho urlato alla radio. Non ho fatto intempo a ripetere il messaggio che dai peschereccihanno calato due piccole imbarcazioni. Una era invetroresina, l’altra di legno. Sulla prima c’erano ot-to uomini, sull’altra forse nove. Puntavano versodi noi a venticinque, trenta nodi. Ho fatto ricopri-re di grasso le pareti del rimorchiatore per renderedifficile un abbordaggio, poi ho protetto il Bucca-neer a prua e a poppa con alcuni pali messi di tra-verso per ostacolare l’assalto. Ho provato anche acreare una manovra diversiva, navigando prima adestra e poi a sinistra. Ma il nostro rimorchiatoreera troppo lento, ormai quelli ci stavano raggiun-gendo. Sulle due piccole barche c’erano uominiarmati. In lontananza ho visto un bazooka. E tantifucili mitragliatori. Già sentivo i colpi dei loro kala-shnikov».

Il capitano Omar

«Il grasso e i pali non sono serviti a niente. Dopopochi minuti, quegli uomini erano tutti sulla mianave. “Aprite la plancia”, ha gridato uno di loro. Siè presentato come “il capitano Omar”, diceva diessere il capo. Avrà avuto una quarantina d’anni.Da quel momento noi l’abbiamo sempre chiama-to “il matto”. Era irascibile, violento. Un attimo pri-ma sembrava garbato e comprensivo, un attimodopo aveva già affondato la canna del suo fucile nelmio stomaco. Quando ha ordinato di aprire la

ATTILIO BOLZONI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

“È passato un mese da quando siamo tornati liberi,non so nulla del riscatto: se è stato pagatoo chi l’ha pagato. So soltanto che la notte li sognoancora. Sogno Sadir. E sogno il capitano Omarche ordina ai miei uomini di fare rotta verso l’inferno”

plancia, il nostromo Filippo Speziali mi ha guar-dato. Aspettava un cenno. Gli ho bisbigliato: “Fi-lippo, per carità di Dio apri, apri perché altrimentiqua sparano a tutti”. Poi “il matto” ci ha detto chedovevamo fare rotta verso Bosaaso. Ci ha anchedetto che non ci avrebbero uccisi: “Vogliamo soloi soldi per il vostro riscatto”. Il capitano Omar par-lava in inglese, tutti gli altri — ragazzi di vent’anni,uomini di trenta e al massimo di quarant’anni —stavano zitti. Mentre il Buccaneer navigava versoBosaaso, i due pescherecci ci seguivano. Ogni tan-to uno ci affiancava. Ho visto uomini bianchi a bor-do. Forse erano arabi dalla carnagione molto chia-ra, forse erano anche loro prigionieri».

Kalashnikov puntati«La prima volta sono saliti in diciotto sul Bucca-neer. Erano tutti neri, tutti armati. L’equipaggio èstato rinchiuso nella plancia. Ci hanno spiegatoche non dovevamo muoverci. Hanno cominciatoa distruggere le cabine, a portare via tutto quelloche avevamo. Soldi, cellulari, macchine fotografi-che. Poi hanno preso a schiaffi alcuni di noi. Nonpotevamo fare un passo, dovevamo stare immo-bili: alzare la mano per andare in bagno, alzare lamano per fumare una sigaretta. E ci puntavanosempre addosso quelle armi. Avevamo solo il per-messo di dormire, sulle poltrone o a terra. Poteva-mo cucinare per due ore al mattino e per due orealla sera. Il nostro cuoco, Filomeno Troino, scen-deva giù e preparava la pizza e il pane per tutti. Pernoi e per loro, i nostri sequestratori. E poi anche lapasta, la carne, le verdure. Fino a quando, verso iltrentesimo giorno, il cibo è finito. Io ho perso piùdi otto chili. E così tutti gli altri marinai del Bucca-neer. Intanto eravamo arrivati dove loro volevano:da Bosaasa ci hanno ordinato di andare avanti emollare l’ancora in un’insenatura, davanti a un vil-laggio».

Ossa da succhiare«Da quel momento la roba da mangiare ce la da-vano loro. Portavano a bordo patate, olio di palma,cipolle e un riso sporco, di pessima qualità. Ognitanto saliva qualcuno con un sacco di tè e qualchedattero. Un paio di volte hanno portato sulla naveun capretto. Lo scannavano sul ponte, il caprettoancora si muoveva e già lo squartavano. Prende-vano le interiora, il cuore, il fegato e le parti più

spesse dell’intestino e le buttavano in una padella.I pezzi di carne invece li facevano bollire. Dalla cu-cina saliva in plancia un odore nauseante. Primabevevano quel brodo grigio e poi mangiavano. Anoi davano i resti, un po’ di quella carne che resta-va attaccata alla schiena dell’animale. Stavamoore a succhiare le ossa dei capretti. C’erano giorniche davano il permesso di pescare al nostromo.Ma il pesce che Filippo prendeva se lo mangiava-no sempre loro. A noi, toccavano solo gli avanzi».

Cisterna vuota«Avevamo una cisterna con ottanta tonnellate diacqua. E a metà giugno è finita. Io e miei marinai cisiamo guardati negli occhi, avevamo tutti lo stessopensiero: moriremo di sete. Non potevamo più la-varci, se non con l’acqua del mare. Ma il problemaa quel punto era sopravvivere. Allora abbiamoavuto l’idea di stendere un telone e di far scivolare,goccia dopo goccia, la condensa dei condiziona-tori. Il telone era diventato un piccolo recipiente.Sino alla fine di giugno abbiamo bevuto quell’ac-qua, poi il capitano Omar ci ha fatto arrivare fustida centottanta litri. Non sempre, ogni tanto. Eraacqua gialla, maleodorante. La bollivamo. Ma ave-vamo paura: era zozza, infetta. Noi non avevamoneanche più medicine a bordo, eravamo spaven-tati, qualcuno di noi stava cedendo, non ce la face-va più. Eravamo rassegnati, sottomessi. Sul Buc-caneer salivano ogni giorno altri uomini, diversi daquelli delle prime settimane. Salivano, scendeva-no. Si ubriacavano tutti con un liquore fortissimo,più della grappa. Dicevano. “È il nostro gin”. E do-po che tracannavano quella roba litigavano fra diloro, urlavano, si spintonavano, sparavano. Ungiorno cominciarono a prendere a schiaffi un paiodi marinai, un altro giorno uno di loro afferrò il ka-lashnikov e come una mazza me lo rovesciò sullaschiena».

Schiaffi e spari«Cominciai a pensare di non tornare più a casa do-po due mesi di prigionia. Ero stanco, avvilito. Ci di-cevano che le trattative non andavano bene. Equando non andavano bene, loro se la prendeva-no con noi. Gridavano, ci minacciavano. E parti-vano insulti e altri schiaffi, fucilate in aria. Se il ra-dar non funzionava la colpa era di Ignazio Angio-ne, il direttore di macchina. Se un motore non an-

dava come doveva andare, la colpa era sempre diIgnazio. Una sera si arrabbiarono e cominciaronoa sparare all’impazzata: ci siamo buttati tutti a ter-ra. Il cuoco era sotto, sopra di lui c’erano altri duedei nostri. I due si sono rialzati, il cuoco invece è ri-masto immobile: non respirava più. Sembravamorto, colpito da una pallottola. Per fortuna dopoqualche secondo ha riaperto gli occhi. Stavamosempre più male, eravamo sempre più sporchi, af-famati, assetati. Ogni otto o nove giorni ci davanoil satellitare per chiamare casa. E ci suggerivanocosa dire alle nostre mogli: “Se non pagano il ri-scatto non ci faranno mai andare via”. C’era sem-pre qualcuno che controllava le nostre telefonate,qualcuno che parlava bene l’italiano».

“Come le Brigate Rosse”«Era Sadir, il più vecchio. Uno che diceva di averestudiato in Italia. Non è arrivato subito sul Bucca-neer, ma dopo un mese. Si era presentato come ilnostro interprete. Poi abbiamo capito che forse eralui il vero capo e non “il capitano Omar”. Sadir ap-parentemente ci tranquillizzava, ci diceva sempredi “stare calmi”, ci ripeteva: “Fra due o tre giornitornerete liberi”. Ma dopo due mesi, quei “due otre giorni” ci sembravano un ritornello per farcistare buoni e nello stesso tempo sotto pressione.Era infido Sadir. Ci teneva sulla corda psicologica-mente, sapeva come trattare i suoi prigionieri. E ri-dendo, una volta ci ha detto: “Noi siamo come levostre Brigate Rosse”. Era gentile, però era quelloche ci terrorizzava più degli altri».

Rotta per l’inferno«Le giornate erano una uguale all’altra: giornate dipaura. L’unico dei nostri sequestratori che ha avu-to un gesto di umanità è stato Mustafà, un ragazzi-no. Una sera mi ha fatto avere di nascosto un bi-gliettino, si scusava con noi per le sofferenze che cistavano infliggendo i suoi amici e anche lui. Io misono sentito un “sopravvissuto” solo quando hovisto l’ultimo somalo scendere dal Buccaneer. Erala sera dell’11 agosto.

È passato un mese da quando siamo tornati li-beri, non so nulla del riscatto: se è stato pagato o chil’ha pagato, io non so niente. So soltanto che la not-te sogno ancora loro. Sogno Sadir. E sogno “il ca-pitano Omar” che ordina ai marinai del Buccaneerdi fare rotta verso l’inferno».

11 APRILEIl rimorchiatore Buccaneer vienesequestrato dai pirati nel Golfodi Aden. Si muove la FarnesinaLa fregata Maestrale della Marinamilitare arriva sul luogo il 12 aprile

16 APRILEIl primo ministro del governo somalo,Ali Sharrmake, parla di trattativein corso. Tre giorni dopo, le autoritàdel Puntland accusano il Buccaneerdi trasportare rifiuti tossici

24 APRILEI parenti dell’equipaggio annuncianodi aver ricevuto per telefonoun ultimatum dai rapitoriLa Farnesina smentisce. L'armatorenega che vi sia richiesta di riscatto

9 AGOSTOI sedici membri dell’equipaggio,tra i quali dieci italiani, vengonoliberati dopo quattro mesi di prigioniaIl governo italiano nega che sia statopagato alcun riscatto

IL COMANDANTENella foto sopra, il comandantedel rimorchiatore Buccaneer MarioIarlori, 52 anni, abruzzese di OrtonaSuo il diario della prigionia ricostruitoin queste pagine. Sotto, il Buccaneer

LE IMMAGINILe immagini di questa pagina sonodi Véronique De Viguerie e ritraggonoun gruppo di pirati somali nato treanni fa e formato da 350 uominiNel 2008 hanno attaccato 29 navi

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

Questastoria d’amore la conoscete già. Un valoroso cavaliere in-travede una bella fanciulla attraverso le lontane finestre di uncastello alquanto sinistro e minaccioso. I loro occhi si incon-trano — vagamente — attraverso l’aria tremolante per la cani-cola. È un colpo di fulmine. Il buon Signor Cavaliere parte al ga-loppo sfrenato in direzione del castello, brandendo la sua lan-

cia. Ce la farà a galoppare fino alla bella fanciulla e a portarsela via senza com-plicazioni? Non proprio. Prima di tutto dovrà affrontare con successo undrago, non è vero? C’è sempre un drago particolarmente orribile di guardiaal castello e se il cavaliere intende portarsi via la fanciulla deve assoluta-mente combattere e farlo a pezzi. E così, al pari di qualsiasi altro fidato ca-valiere al servizio della passione, egli combatte con il drago, per il bene del-la bella fanciulla. “Bella fanciulla”, a proposito, significa “vergine di bell’a-spetto”: cerchiamo quindi di non fare tanto gli ingenui su ciò per cui il cava-liere si batte in realtà.

Potete scommetterci quello che volete che una volta fatto a pezzi il dragoil cavaliere si aspetterà qualcosa di più di un semplice per quanto ispirato«Oh mio eroe!» da parte della fanciulla. Infatti la storia racconta sempre cheil buon Signor Cavaliere avventandosi contro il drago rischia la propria vitanonché la lancia non per “salvare” la vergine di bell’aspetto, ma per “con-quistarla”. E qualsiasi cavaliere, a qualsiasi epoca appartenga, può spiegar-vi facilmente che cosa designa il termine “conquistare” in questo contesto.

Alcuni dei miei cavallereschi amici ritengono che lo spettro dell’Aids ete-rosessuale sia niente meno che un Armageddon sessuale, una fine violentaper la promiscuità carnale e occasionale degli ultimi trent’anni. Alcuni, dra-stici ma più ottimisti, considerano l’Hiv come una sorta di prova per l’ardo-re sessuale della nostra generazione; costoro adesso esaltano la loro srego-lata attività sessuale, avventata e del tutto occasionale, alla stregua di un’im-prudenza sanitaria che ribadisce l’indomabilità dello spirito erotico. [...]

Non posso tuttavia impedirmi di notare che alcuni dei cavalieri odierniancora oggi sottovalutano sia i rischi sia i vantaggi dell’Aids. Non si rendonoconto che l’Hiv potrebbe benissimo essere la salvezza della sessualità neglianni Novanta. Penso che non se ne accorgano perché tendono a interpre-tare in modo sbagliato l’eterna storia di ciò che è davvero passione erotica.

Può esistere un erotismo “malgrado gli ostacoli”? Torniamo per un mo-mento a quel cavaliere e a quella bella fanciulla che si scambiavano sguardilascivi. Ecco dunque arrivare al castello il cavaliere al galoppo, con una ma-stodontica lancia pronta all’uso. Cerchiamo però di immaginare che questavolta non vi sia impedimento alcuno da superare: nessun drago da temere,affrontare, combattere, fare a pezzi. Immaginiamo anche che la carica delcavaliere verso la fanciulla sia Completamente Priva di Ostacoli: non c’è dra-go; il castello non è sprangato; il ponte levatoio si alza addirittura automati-camente, come la porta di un garage di periferia. Ed ecco, all’interno del ca-stello, la fanciulla che indossa un completino intimo di Victoria’s Secret far-

gli col ditino indice cenno di avvicinarsi… C’è per caso qualcun altro qui ol-tre al sottoscritto che scorge sul volto del Signor Cavaliere una vaga ombradi delusione, un impercettibile cedimento, in preda alla delusione, della sualancia? Questa versione della storia ha qualcosa in comune con il taglio ero-tico e appassionato dell’altra?

«La volontà umana di scopare»? Qualsiasi animale può scopare. Ma sol-tanto gli esseri umani possono sperimentare la passione sessuale, qualcosadi completamente differente dall’impulso biologico ad accoppiarsi. La pas-sione sessuale è sopravvissuta ai millenni come forza psicologica fonda-mentale per la vita umana, non “malgrado” gli impedimenti, ma propriograzie a essi. Il buon vecchio semplice coito diventa carico di erotismo e si-gnificativo a livello interiore proprio nei momenti in cui impedimenti, con-flitti, tabù ed eventuali conseguenze gli conferiscono un carattere a doppiotaglio: il sesso che ha significato è quello nel quale si vince e si soccombe auno stesso tempo; vi sono trascendenza e trasgressione; è quello esultantee straordinario ed estatico e malinconico. [...]

Poi, però — e la cosa deve esser parsa accadere repentinamente e senzapreavviso — i draghi sono tutti stramazzati a terra e sono scomparsi. Ciò si è

Il 12 settembre di un anno fa, il suicidiodi uno dei grandi talenti della letteraturaamericana. Mentre lo ricordanoal Festival di Mantova ed esce in libreriauna raccolta di racconti inediti,ecco una sua riflessione, mai apparsain Italia, sull’amore ai tempi dell’Aids

CULTURA*

FosterWallace

verificato più o meno alla mia nascita, durante la “Rivoluzione” della ses-sualità degli anni Sessanta. I progressi fantascientifici e avveniristici dei pro-filattici e dei farmaci per curare le malattie veneree, il femminismo come for-za politica, la Tv istituzionalizzata, l’ascesa della cultura giovanile, della lo-ro arte e della loro musica stimola-ghiandole, i Diritti Civili, la ribellione co-me moda, le droghe che inibivano l’inibizione, la castrazione morale dellechiese e dei censori. I bikini e le minigonne. L’“Amore Libero”. Il portone delcastello non è stato spalancato, ma fatto saltare dai suoi stessi cardini. Il ses-so, alla fine, non ha più avuto costrizione alcuna: senza freni, un appetito co-me un altro, occasionale. [...]

Se ho capito bene, gli occasionali cavalieri della mia fragile generazionepotrebbero benissimo arrivare a considerare l’Aids una benedizione, un do-no forse elargito dalla natura per ripristinare qualche equilibrio cruciale,forse inconsciamente evocato dalla disperazione erotica collettiva della sa-turazione post anni Sessanta. Infatti il drago è ritornato, ed è ammantato dafiamme che non possono essere ignorate.

Non ho intenzione di offendere. Nessuno affermerebbe che un’epidemialetale è qualcosa di positivo. Nulla di ciò che è naturale è buono o cattivo. Ciò

La passione eroticaè sopravvissuta ai millennicome forza psicologicafondamentale per la vitaumana,non “malgrado”gli impedimenti, i conflittie i tabù, ma propriograzie a essi

Noi, il sesso e il Drago

DAVID FOSTER WALLACE

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

Èstrano, ma insieme al doloreper la notizia della morte di Da-vid Foster Wallace, insieme a

quel colpo sordo e lì per lì insoppor-tabile, ricordo di avere provato sol-lievo. Il sollievo provvidenziale e su-peregoistico di chi riflette fulminea-mente (si può ben dire che una rifles-sione fulminea equivalga a un rifles-so, e se stai scivolando, il riflesso èquello di aggrapparti a qualcosa) sulfatto che, dopotutto, ciò che si ama-va (o, per usare un verbo molto ap-prezzato da DFW, ciò che si “venera-va”) della persona che è morta, quel-lo non morirà mai. Già. La sua scrit-tura — vale a dire, per Wallace più cheper chiunque altro, la sua voce —quella non morirà mai, perché era giàimmortale da un bel pezzo.

Meschinamente, mentre facevo iconti con l’immagine della sua co-spicua figura ciondolante dal soffit-to, mi sono consolato pensando cheil suo genio straripante era semprestato prodigo di pagine, e che perciòavrei ancora letto un sacco di cosescritte da lui — senza contare il pia-cere forse ancora più profondo del ri-leggere quelle già lette. Il giorno stes-so del suo funerale, per esempio, hotrovato e letto su Internet Roger Fede-rer as Religious Experience — il suolungo, stupendo omaggio al piùgrande tennista del nostro tempo:ecco che era bell’e risorto. C’erano al-tri scritti sparsi qua e là nella rete, ine-diti o non ancora comparsi in Italia, epiano piano ho letto anche quelli:David Foster Wallace, per me, dal 12settembre 2008 in qua, è stato più vi-vo che mai. Dopodiché c’era sempreil romanzo a cui stava lavorando, ThePale King, che prima o poisarà messo in ordine epubblicato, ancorché in-compiuto; e c’era di sicu-ro da far di conto su altri li-bri che sarebbero usciti, arinforzare il sollievo dinon dover mai fare a me-no della sua voce.

A un anno esatto dallasua morte, ecco che escein Italia uno di questi libri.S’intitola Questa è l’acqua(Einaudi Stile Libero, 166pagine, 16,50 euro), e rac-coglie cinque racconti euna lectio magistralis se-lezionati da Luca Briasconel magma dei suoi testi inediti. I rac-conti sono molto vecchi (1984-1991),vale a dire scritti tra i ventidue e i ven-tinove anni (!). Due di essi, SolomonSilverfish e Ordine e Fluttuazione aNorthampton, sono veramente bel-lissimi. Un terzo, Il pianeta Trillafonin relazione alla Cosa Brutta, è il pri-mo racconto in assoluto pubblicatoda Wallace, e — guarda caso — ancheil suo primo scritto dedicato alla de-pressione. La lectio, infine, è più re-cente (2005), e costituisce un precipi-tato di sapienza riguardo all’uso chesi può fare della sapienza, sapiente-mente costruito senza la minima re-torica sapienziale.

Di sicuro la voce è la stessa, quellacomica, profonda, brillante, rassicu-rante, empatica e malinconica de LaScopa del Sistema, quella morfinica,enciclopedica, infelice, esilarante,centripeta e stroboscopica di Infini-te Jest — e di sicuro, nel complesso, sitratta di un libro postumo straordi-nariamente vitale. (Un unico appun-to sulla traduzione, che poi è un mo-nito in vista dell’edizione italiana delRe Pallido: la parte di Solomon Silver-fish narrata in gergo chicagoan dalpappone-tossico-spacciatore di no-me Too Pretty è esattamente ciò chefa dire ad alcuni che Wallace è intra-ducibile, e per ridurli al silenzio biso-gnava fare di meglio). Il modo giusto,cioè, di dimostrare che Wallace non èmai morto, e rimane uno dei più pro-digiosi talenti letterari di tutti i tempi— il più prodigioso, tra loro, nell’i-spezionare, collaudare, rappresen-tare e lenire il dolore mentale, vero si-cario della nostra civiltà.

Immortalitàdi un genio

SANDRO VERONESI

casionali nel nome del “coraggio” o del “desiderio” romantico. Anzi: il donoche l’Aids ci fa è ricordarci ad altissima voce che non vi è assolutamente nul-la di occasionale nel sesso. [...]

Grazie al coraggioso riconoscimento da parte di alcune persone che l’Aidsè un fatto della vita, stiamo iniziando a renderci conto che un tipo di sessomolto intenso può essere praticato con modalità che abbiamo dimenticatoo trascurato, per esempio toccandosi senza sfiorarsi i genitali, o parlando atelefono, o anche comunicando per posta; conversando con sfumature di-verse; assumendo una data postura del corpo, imprimendo una certa pres-sione sulla mano che si tiene in mano. Il sesso è ovunque ci troviamo, in qual-siasi momento. Tutto ciò che dobbiamo fare è affrontare sul serio questodrago, senza cedere mai né al terrore isterico né a un infantile diniego dellasua esistenza. In cambio, il drago potrà aiutarci ad apprendere nuovamen-te ciò che significa essere veramente passionali. Non si tratta di una cosa dipoco conto o discrezionale. Il fuoco è letale, ma ne abbiamo bisogno. Lachiave di tutto, dunque, sta nel capire come avvicinarsi al fuoco e che nonbasta rispettare soltanto gli altri.

Traduzione di Anna Bissanti © 1996, David Foster Wallace

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che è naturale è e basta; l’unica bontà, l’unica cattiveria si trovano unica-mente nelle scelte che gli esseri umani compiono al loro riguardo. Ma la no-stra stessa storia dimostra che — a prescindere da quali ne siano le ragioni— un’esistenza umana eroticamente ricca esige ostacoli e impedimenti perprovare passione, e un prezzo da pagare per le scelte effettuate. Che centi-naia di migliaia di persone stiamo morendo in modo orribile di Aids sembraun prezzo ingiusto e crudele da pagare per un nuovo impedimento erotico.Ma, ovviamente, non è più ingiusto rispetto alle milioni di morti per sifilide,o per aborti praticati da incompetenti, o per “delitti passionali”; né è più cru-dele rispetto a coloro la cui vita è stata sistematicamente disùtrutta ed è an-data a pezzi per i “traviamenti”, le “fornicazioni”, i peccati, o per aver avutofigli “illegittimi”, o per essere rimasti invischiati da insensate prescrizioni re-ligiose in matrimoni aridi d’amore e grondanti maltrattamenti. Quanto me-no, non è così ovvio per me.

C’è un nuovo drago con cui battersi. Combattere contro un drago, però,non significa procedere verso di lui tutti impettiti, disarmati e insultandonela madre. E analogamente la carica erotica del rischio correlato al sesso e al-l’Hiv non significa che possiamo continuare ad abbandonarci a scopate oc-

IL LIBROÈ in libreriaQuestaè l’acqua,(Einaudi,166 pagine,16,50 euro)

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Da sempre considerato secondario, adatto ai bambinio relitto del passato, il teatro animato sta incontrandouna nuova fortuna grazie a scuole, compagnie storiche

e recenti, esperimenti e innovazioni. Per questoal festival annuale di Charleville,città natale di Rimbaud, l’Italia sarà protagonista. Anche grazie al tributo al Maestrodegli attori appesi a un filo Guido Ceronetti

Dice Eugenio Monti Colla:“Non vogliono essere umanePuoi rappresentarlecome vuoi, ma rimane questaprofonda verità”

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

Esistono spettacoli dove i corpi volanoe danzano nell’aria come in un qua-dro di Chagall, dove le montagne simuovono e dove l’emozione del bel-lo è semplicemente un’ombra, unasagoma leggera. Spettacoli dove, da

secoli, sono gli stessi attori — Pulcinella, Gioppi-no, Sandrone, Gerolamo — a incantare il pubbli-co, in tutte le latitudini del mondo senza mai stan-care. Eppure il teatro delle marionette e dei burat-tini ha spesso brontolato di essere relegato in unangolo vetusto e polveroso del teatro, buono perbocche semplici. Buono per i bambini.

Da tempo, per fortuna, le cose stanno cambian-do. In poche altre arti si assiste a un intreccio cosìproficuo tra tradizioni antiche e tecniche d’avan-guardia come nel teatro animato. E esperienze distar internazionali — i pupi siciliani di Mimmo Cu-ticchio; la milanese compagnia marionettisticaCarlo Colla e figli, con la sua severa e fascinosagrammatica espressiva, colta e popolare insieme;

ANNA BANDETTINI

Cuori di legnoe vite di spago

SPETTACOLI

‘‘Heinrich von KleistSì! Costei

è straordinaria quasi…quasi come

una marionetta!

Da Il teatro delle marionette

maestri come Guido Ceronetti e il Teatro dei Sen-sibili — ne fanno un’oasi di valore artistico ricono-sciuto dove trovano rifugio spettatori che ancoracercano fantasia, immaginazione.

La rinascita viene celebrata in questi giorni aCharleville Mézières, nelle Ardenne, patria diArthur Rimbaud, dove ogni tre anni, dal ‘61, sisvolge il Festival mondial des Théâtres de Marion-nettes, che ha una sua curiosa dimensione dome-stica visto che sono gli abitanti stessi a ospitare incasa artisti e compagnie, ma con numeri da kolos-sal, tra le centinaia di compagnie e gli oltre cento-cinquantamila spettatori. Con un programmasempre molto ricco, il festival dal 20 al 27 acco-glierà una intera sezione italiana, “Etre Marion-nette”, a cura dell’associazione La Terra Galleg-giante e della Regione Piemonte, sicuramente trale poche italiane capace di valorizzare la fervida at-tività del settore: un corso universitario di teatro difigura, istituti di recupero storico come l’Istitutoper i beni marionettistici e il Teatro popolare di To-rino, compagnie e collezioni, dalle marionette del-la famiglia Lupi ai burattinai Niemen.

«In Italia abbiamo stimato almeno duecentocompagnie, tra marionette, pupazzi, burattini(che si distinguono dalle marionette perché sonomossi dal basso), teatro delle ombre, teatro ani-mato... Quello, insomma, che dal ‘70 viene defini-to “teatro di figura”», spiega Damiano Priviteradell’associazione La Terra Galleggiante. Un pano-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

rama teatrale che va da Palermo (dove hanno sedei pupi dei Cuticchio) a Gorizia (dove c’è il centro re-gionale del Teatro d’animazione e di figura), cheha radici culturali antiche attraverso i rami di fa-miglie come i Podrecca, i Colla, i Lupi, che ha nu-merosi festival (l’Alpe Adria Puppet Festival; la ras-segna del Mittelfest di Cividale; Arrivano dal mare!di Cervia, il più atteso degli appuntamenti annua-li italiani).

E poi musei, istituti, compagnie storiche e nuo-ve, e maestri come Guido Ceronetti che occupa unposto privilegiato nel mondo delle marionette, ilpiù sofisticato del teatro animato, dove, come diceEugenio Monti Colla, erede della storica compa-gnia milanese, la più prestigiosa e richiesta, «l’arti-ficio dell’attore di legno svela in noi emozioni re-condite, come tornare bambini». È lo stesso stupo-re innocente che calamitò trent’anni fa Guido Ce-ronetti, poeta, saggista, scrittore, nel mondo dellarappresentazione scenica, quando con la moglieEnrica Tedeschi, in casa ad Albano Laziale, si in-ventò il suo “teatro dell’anima” applaudito da spet-tatori come Montale, Soldati, Fellini, Bassani. Ilteatro era l’appartamento, in scena il geniale scrit-tore, la moglie e le marionette ideofore, «metafore,più che corpi», che mettevano in atto cose strane e«erano loro a muovere l’uomo, non viceversa».

«Il teatro di Ceronetti o lo odi o lo ami per sem-pre, perché scava dentro di te e invade la tua vita.La mia l’ha cambiata — racconta Manuela Ta-mietti, ideatrice di una scuola per doppiatori a To-rino, che da ventitré anni è in quella strana “fami-glia teatrale” che è il Teatro dei Sensibili, fondatoda Ceronetti, e ora ha riallestito uno spettacolo leg-gendario come I misteri di Londra che andrà aCharleville con quattro “sensibili” (Patrizia DaRold, Luca Mauceri, Valeria Sacco, Erika Borroz).«Il Teatro dei Sensibili — racconta Tamietti — hauna lunga vita fatta di periodi di letargo e periodi disublime risveglio ma sempre intimamente legato

alla poetica di Guido». Così anni fa, quando il mae-stro ha scoperto nella strada la “casa”, il luogo chepiù gli ha regalato emozioni, accanto agli spetta-coli nella baracca con maschere, attori, ombre ci-nesi, ideofore, nacquero anche happening da stra-da, sui marciapiedi con le musichette di “Lola”,l’antico organo di Barberia, nuovo simbolo cero-nettiano di un teatro popolare e di poesia, rappre-sentato col titolo Siamo Fragili. Spariamo poesia.Sarà commovente ora a Charleville vederlo, senzail loro padre spirituale, trattenuto in Italia da ra-gioni di salute, animato dai giovani “sensibili” inun ideale passaggio di eredità.

L’innovazione e la sperimentazione sono statela linfa del teatro di figura di questi ultimi anni. Da-miano Privitera, del centro d’innovazione a Pine-rolo, dice: «La fortuna è che il teatro di figura ha unapossibilità infinita di forme ed espressioni. Rinno-varsi è più facile». Lo testimoniano molti degli ar-tisti attesi a Charleville: il pulcinella a guanto diGianluca Di Matteo che incrocia le vecchie tecni-che dei maestri napoletani (Bruno Leone e Salva-tore Gatto) con le suggestioni del teatro delle om-bre; i Dottor Bostik che uniscono linguaggio ani-mato e attori in carne e ossa; ma anche compagnieconsolidate come il Teatro Gicovita, le Briciole, ilburattinaio Gino Balestrino di Genova, Gigio Bru-nello. Ed Eugenio Monti Colla: «Io considero il tea-tro delle marionette il teatro di domani tout court.Filosoficamente raccoglie tutte le discipline delteatro, il canto, la danza, la scenografia per creareun mondo di fantasia e magia che misteriosamen-te è più vero di quello reale. Il segreto? Non scim-miotta. La marionetta non vuole essere un umano.Puoi rappresentarla antica, moderna, piccola,grande, ma rimane questa profonda verità. L’hascritto Kleist nel suo saggio: la ballerina che saltainevitabilmente deve ricadere a terra, una mario-netta può continuare a volare sempre più in alto».Come dice Ceronetti: può accompagnarci in cielo.

Ah! Viellesse felonne et fière... Così, maledicendo la malfamata, vigliacca, fe-roce vecchiaia, strepita in lacrime rabbiose l’Elmiera di Villon — venditricedi elmetti e anche più del corpo giovane e bello, nella Parigi del Quindicesi-

mo, al tramonto del Medioevo. Il suo terribile lamento d’invecchiata, misera e in-freddolita, ha attraversato i secoli, fino alla drammatizzazione in scena e strada chene fa Egeria dei Sensibili, mediante la mia versione italiana (vedi Trafitture di tene-rezza, Einaudi Poesia).

Ma questo, con il festival mondiale delle marionette a Charleville-Mezières, l’e-vento degli eventi teatrali di questo settembre, c’entra qualcosa?

Ahimè, sì, c’entra. Perché quella vigliaccona di vecchiaia malconcia e malcam-minante mi rende più urgente un soggiorno in un luogo di cura, facendomi per-dere un lavoro in strada coi miei giovani attori in quei giorni, negandomi inoltre ilpiacere di ritrovare, dopo ormai undici anni, le facce care degli amici dell’Institutde la Marionette (tra cui l’infaticabile Margaretha Niculescu, i ponti sulla Mosa, do-ve si fa teatro nei chiattoni coperti, il grande Massimo Schuster, creatore fantasti-co e solitario, Marja Nykanen, Basil Twist, gli organisti agli angoli delle strade... epurtroppo il festival è triennale, la mia fiaccola dovrò trasmetterla... resterò un teo-rico, le mani vuote).

L’Elmiera è sempre attuale, nella sua verdezza sfaceloide.Charleville è lontana. In treno, dalla Gare de l’Est, sono circa altre tre ore, a metà

strada si vede il profilo della cattedrale di Reims, e per sette anni fu per me una me-ta abituale. Ma nell’anno celebrativo di Rimbaud, il 1991, mancai ad un appunta-mento decisivo con il festival.

Il mio Teatro era in tournée all’estero e aveva un paio di recite con Viaggia viag-gia Rimbaud, che al festival piacque poco, fu capito pochissimo, e venne stronca-to con durezza dalla stampa locale. Non ero presente, adducendo discutibili mo-tivi di stanchezza, ebbi il torto di lasciar sola la compagnia.

Con un po’ di chiacchiera di presentazione in francese, avrei potuto salvare tut-to... Mi resta il rimorso, guai a perdere certe occasioni. Tre anni dopo ero al festival,ma senza compagnia né spettacolo, giravo la manovella dell’organo di Barberialungo le vie pedonali riservate ai teatrini ambulanti, facendo anche buone recettesin franchi coll’inevitabile piattino. Là vidi un meraviglioso spettacolo di un teatrodi marionette di Monaco, che presentava, mi pare un adattamento da Aristofane,col solo accompagnamento musicale di una fisarmonica (nulla di registrato). Unacompagnia belga faceva, in Ombre Cinesi, un intero Western di oltre un’ora: nonera né teatro né cinema, erano ombre viventi, un mondo diverso, di fatica e di gran-de intelligenza creativa.

Oggi, al festival, gli attori, con la regia di Manuela Tamietti, fanno i miei Misteridi Londra, che creammo in appartamento nel 1978, invitati a Charleville per inte-resse della Regione Piemonte, seguito da qualche giorno di lavoro in strada — sta-volta con assenza mia purtroppo bene giustificata. A loro il mantra immortale chepropizia il duende: AUM, più volte ripetuto in uno stretto struggente abbraccio.

Dare gioia è un mestiere duro.

Il duro mestieredi dare gioia

GUIDO CERONETTI

SENSIBILIA sinistra, GuidoCeronetti fotografatoinsiemealle sue marionette;sotto, una scenade I misteri di Londrache il Teatro dei sensibiliporterà al Festivaldi Charleville;in basso a sinistra,un’altra immaginedello spettacolo

I GENERI

OMBRESi mettonoin scenaproiettando figuresu uno schermoopaco, illuminatoda dietro. Il teatrod’ombrepiù famosoè quello cinese

BURATTINIHanno testa e manidi legno fissatead un camiciottosul quale vienemesso il vestitoL’animatoreli inguantae i pupazzi sonomossi dal basso

MARIONETTEPupazzi di legnoo di stoffache vengono mossidall’alto con filidi refe, di solitonove per tuttii movimenti, legatia un legno a croce,il bilancino

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

le storieMestieri rischiosi

È una palazzina grigia, ai bordi del centro di Parigi, si chiamaMaison des Journalistes e nelle sue sedici stanze ospitaa rotazione, per non più di sei mesi, i cronisti in fuga da Paesidove un’inchiesta scomoda, uno scoop anti-regime, un volto tvsgradito possono costare la morte. Oggi lì dentro abitano Diana,Nilou, Athula, Jean-Jacques e le loro vite che sembrano romanzi

PARIGI

«Estremista». «Terrorista». Dia-na ha letto l’articolo che par-lava di lei. E ha capito. Era ar-rivato il momento, la sua vita

non sarebbe più stata la stessa, mai più. Dovevascappare. Subito. Senza dire arrivederci, neppurealla madre, neppure agli amici e ai colleghi.

C’è un vecchio detto che gira per le redazioni:quando un giornalista si trasforma in una notizia,bisogna incominciare a preoccuparsi. Diana Veli-bekova, ventidue anni appena, fisico minuto,sguardo vivace. L’anno scorso ha firmato un’in-chiesta che documenta le ambigue e pericolose re-lazioni tra il governo del Dagestan, i miliziani del-l’opposizione nella repubblica caucasica, risalen-do fino al Cremlino. «Sono stata aggredita in stra-da da due giovani — racconta —. Mentre ero inospedale, il caporedattore e il cronista con i qualiavevo preparato l’inchiesta sono stati assassinati».

La colpa di Nilou Farhabibi invece è stata quelladi essere un volto. Presentava il telegiornale allaprincipale emittente di Kabul. Leggeva soltanto lenotizie. Ma faceva scandalo: una donna. Dopo po-chi mesi, un fanatico l’ha pugnalata al petto. L’at-tentatore è già in libertà. Lei no, è dovuta fuggire aseimila chilometri di distan-za, trovare rifugio in questapalazzina grigia ai bordi delcentro di Parigi.

Diana e Nilou ora abitanoin piccole stanze rigorosa-mente anonime — moquettegrigia, armadio grigio, scriva-nia grigia — che si chiamanocome le più importanti testa-te francesi, Le Figaro, ParisMatch, Courrier Internatio-nal. Nelle camerette, nientetelefono né computer. «Me-glio che non siano troppo acontatto con l’esterno, alme-no all’inizio», spiega PhilippeSpinau, che come un padre siprende cura di questi figlireietti di guerre e dittature.Dal 2002, quando è stata crea-ta, la Maison des Journalistesha già ospitato 171 rifugiati,provenienti da 48 paesi. Spin-gendo un carrello della spesa,Spinau passa davanti alla tar-ga in memoria di Anna Po-litkovskaya, su un muro del-l’ingresso. Sdrammatizza:«Oggi insegniamo le regole diuna dieta equilibrata. Questigiornalisti non sanno man-giare correttamente, la lorospecialità è piantare grane».

Lezioni di francese

In fondo all’atrio c’è l’aula do-ve si tengono le lezioni di fran-cese, una sala per vedere filme leggere i giornali. Il fondato-re è un ex sessantottino conuna testa piena di capellibianchi e nobili ideali. Spinauha avuto l’idea quando ha sentito parlare di ungiornalista iraniano costretto a dormire sulla pan-china di un parco parigino. «I reporter vengono ri-compensati con targhe o premi se muoiono. Nes-suno si occupa di loro quando sono vivi». Inutile di-re che questo ostello di lusso, ricavato in una vec-chia fabbrica di spazzole del quindicesimo arron-dissement, è sempre pieno. Per avere ospitalità inuna delle quindici camere (massimo sei mesi) c’èuna lunga lista d’attesa. Secondo Reporters SansFrontières, il numero dei giornalisti assassinati èaumentato del 244% negli ultimi cinque anni, ognigiorno nel mondo due cronisti vengono arrestatisolo perché fanno il loro mestiere. Spinau ha rice-vuto metà dei finanziamenti dall’Unione europeae l’altra metà da grandi media francesi che “adot-tano” i giornalisti perseguitati.

Gli arrivi procedono per “ondate”, e sono il ter-mometro dei luoghi dove la censura avanza nelmondo. Athula Vithanage è scappato dallo Sri

Lanka dopo che Lasantha Wickrematunga, il diret-tore del Sunday Leader, è stato ucciso a gennaio.«Anche io ero fra quelli che denunciavano gli abu-si del governo contro la minoranza tamil», spiegalui. Seduto davanti al computer nella mediatecadel sottosuolo, Dana Asaad Mohammed, trent’an-ni, cerca online altri giornalisti iracheni. Ha co-minciato a diciotto anni come cronista per alcuniquotidiani locali, è diventato “stringer” di fiducia dimolti media americani. La sua vita è cambiata nel2006, quando ha accettato di fare da interprete alprocesso di Saddam Hussein. Le milizie sunnitenon lo hanno mai perdonato.

Al primo piano, si riunisce la redazione di L’Oeilde l’Exilé che confeziona piccole cronache o com-menti sulla condizione degli immigrati in Francia.Una delle voci al microfono è quella di Jean-Jac-ques Jarrele Sika arrivato dal Gabon pochi mesi fa.«Da noi — dice — esiste un proverbio: “Quando ilfuoco arriva alla foresta, le lepri devono fuggire ver-

so il fiume”». Nel suo paese, Jarrele Sika ha osato da-re in diretta la notizia della malattia di Omar Bon-go, il dittatore morto l’8 giugno. «Un generale mi haconvocato e mi ha detto: “O la valigia o la bara”. Pur-troppo ho dovuto disattendere un altro proverbiodelle mie parti. “Un elefante che ha figli non cor-re”». Jarrele Sika ha fatto la valigia, e anche in fret-ta, lasciando la famiglia.

Un bimbo di tre mesi

Anche Chouna Mangondo ha dovuto abbandona-re il suo bimbo di tre mesi. Era uno dei volti televi-sivi più famosi del Congo. «Un giorno — ricorda —sono stata avvicinata da un funzionario del gover-no che mi ha chiesto di sedurre e avvelenare un po-litico dell’opposizione. Ovviamente ho rifiutato.Da lì sono incominciate le minacce».

La sua storia, come quella di molti residenti,sembra uscita da un romanzo. Molti però devonoabbandonare la vocazione, accontentandosi di

aver salvato la pelle. «Preferisco essere duro —spiega il direttore della Maison des Journalistes —e dire subito che le possibilità di continuare a fare igiornalisti in Francia saranno minime». Erano pas-sati di qui l’haitiano Philomé Robert, assunto daFrance 24, e J. Rémy Ngono, ex direttore di un’e-mittente camerunese, arrestato diciassette volte,ora famoso commentatore sportivo. Più spesso,invece, questo posto è un capolinea. C’è chi diven-ta operaio da Renault (una giovane giornalista bir-mana), chi imbianchino (un reporter colombia-no), chi commesso a Disneyland Parigi (un croni-sta del Sierra Leone). Un’ex anchorwoman dellaGuinea adesso fa l’assistente sociale per i ragazzi dibanlieue, un giornalista del Ciad, vittima di unasharia, ha ottenuto un posto nella Biblioteca di To-losa. La caporedattrice di un giornale algerino haavuto più successo: adesso è chef in un famoso ri-storante della capitale, guadagna bene. Ma diconoche non sorrida mai.

La casa dei reporter braccatiANAIS GINORI

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INQUILINITre ospiti della Maison des JournalistesIn senso orario, da destra: Deo Namujimbo,della Repubblica democratica del Congo;Athula Vithanage, dello Sri Lanka;Diana Velibekova, del Daghestan russoSulle porte, i nomi delle testateche sponsorizzano la casa. Qui sopra,la lapide in memoria di Anna Politkovskaya;in basso, una sala di lavoro

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Inseparabilile tendenze

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

IRENE MARIA SCALISE

Un tempo avevano una sola forma eun solo colore. Mesti contenitori insimilpelle, sinonimo di business edall’inconfondibile odore di uffi-cio. Un incrocio, dall’anima tecno-logica, tra la cartella scolastica e la

valigetta del commesso viaggiatore. Erano le bor-se porta computer. Rigorosamente tra il grigio scu-ro e il nero. Da qualche stagione, però, tutto è cam-biato. Decisamente in meglio. Queste mini venti-quattrore sono diventate belle, tecnologiche, co-loratissime e perché no, anche chic. Così deside-rabili che, anche chi un notebook non lo possiede,spesso decide di comprarsene una. E di usarla co-me una borsa qualunque. Perché questa è stata lachiave della svolta. Il tuffo nell’ibrido.

Le valigia porta-pc ha infranto le regole e ha at-traversato i confini della borsa tradizionale. Stessimateriali, stessa eleganza nelle linee e stessa sfron-tatezza nei colori. Insomma, si è trasformata in unaccessorio non più solo necessario ma anche de-siderabile. Se prima il portatile era sinonimo di la-voro e fatica ora è molto di più. È divertimento mi-sto a ossessione. Nell’era di Facebook diventa lostrumento indispensabile per coltivare amicizie,ripescare ex fidanzati e controllare gli eventuali fi-gli adolescenti.

Gli ultimi dati della Commissione europea, sul-la competitività digitale, dicono che il cinquanta-

sei per cento degli europei utilizzano Internet. Ser-ve per prenotare viaggi, ordinare la spesa e fareshopping. Va da sé che, anche il contenitore, deveessere all’altezza. Spesso poi le nuove bags svolgo-no in un sol colpo più funzioni: portfolio, cartellada lavoro, porta biglietti da visita e portafoglio.Una sorta di casa ambulante da cui diventa im-possibile separarsi. Specialmente per l’affannatopopolo dei manager, bisognoso di avere sempretra le mani tutta la tecnologia possibile. Ma anchei giovani tra i diciassette e i ventiquattro anni con-siderano il pc un compagno inseparabile. Sonoproprio loro a usarlo più assiduamente. Ed è agliunder 25 che la moda riserva un trattamento spe-ciale: porta-pc all’avanguardia, leggeri e pratici.Talvolta con bretelle inserite indispensabili perchi viaggia in motorino e in bicicletta. Non sono dameno gli adolescenti. Visto che proprio a questaetà il novantatré per cento dei ragazzi passa il pro-prio tempo al pc e il cinquantasette naviga quoti-dianamente in Rete.

Infine, un po’ a sorpresa, sono state anche mol-te donne a buttarsi a capofitto nel cambiamento.Le ragazze di ogni età, finalmente libere dall’incu-bo di un accessorio in grado d’imbruttire qualsia-si mise, hanno accolto con entusiasmo le soluzio-ni più vezzose. E un esercito di laptop bag hannoinvaso lo scenario metropolitano. Dagli aeropor-ti, sino alle sale riunioni degli uffici, è tutto unosfoggiare contenitori notebook che, a prescinderedalla dimensione, sono soprattutto belli.

Non chiamatele porta-pc

PRATICAÈ disponibile in più colori la borsa rigidacon doppie tasche sul davanti firmataPiquadro. Per uno stile pratico

DEEP BLUEBorsa con doppi manicirealizzata in vitello bludi Furla. Elegante e raffinataanche senza computer

ALLEGRAÈ in verde pistacchio la borsa griffataTavecchi destinata a rallegrarele giornate invernali. Sembra una cartella

RESISTENTEMorbida e resistente la borsa Spalding& Bros. Un contenitore in cui metterepc, documenti e ogni oggetto utile

FASHIONBorsa da lavoro pelle stampa coccodi Coccinelle nel colore fashion violaPer un’eleganza pronta a stupire

BRITISHSottile borsa porta pc, motivocon finiture in pelle lungo le cucituredi Burberry Classic. Manici in pellecon fibbie metalliche, tracolla adattabile

SUPERFEMMINILEBorsa 24 ore di Bally con porta laptopin caldo color cipria. Pensataper la professionista che non rinunciaalla sua femminilità

RICICLO CHICSono realizzate con la plastica dei telonidei camion riciclata le nuove laptop bagdi Freitag. Perfettamente impermeabilie resistenti agli urti, ideali per i viaggi

GLOBETROTTERPorta computer attrezzato per il trolleyin tessuto nero con dettagli in saffianodi Prada. Per l’infaticabile giramondo

Un tempo avevanouna sola formae un solo coloreed erano il simbolodi businessmene viaggiatoriOra sono belle,tecnologiche, griffate

degli europei usanoInternet per lo shopping

56%

degli adolescenti passanoil proprio tempo al pc

93%

degli inglesi usano Internetanche in bagno

33%

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

i saporiDelizie casearie

Formaggidi

Per noi terra di confine significa terra di montagna,dove capre alpine e vacche di razza producono il latte che dà vitaa tome speciali, erborinati unici, rare ricottine.Ma le malghedove riposano le forme sono sempre più piccole e sempremeno sono i pastori che ne tramandano il sapere produttivo:regalatevi un weekend per scoprire gusti dimenticati

Anatomiadi un pascolo. I colori: il verdebrillante dell’erba, il cielo azzurro, lemacchie scure come fondi di bottigliadei boschi, i bianchi e i neri delle muc-che, il grigio madreperlaceo delle ca-pre. I profumi: di terra sana, rigogliosa,

di fioriture sfacciate, di resine. Perfino l’odore del le-tame, qui, riesce gradevole, ben diverso dai liquamiacidi degli allevamenti intensivi. Tra gazze e marmot-te, brucano le capre nere di Verzasca e le camosciatealpine, le vacche Rendena e le jersey, le brune e le pez-zate rosse, le pecore di razza brigasca e quelle sambu-cane. Di qua e di là dall’invisibile linea che divide glistati, ma certo non i comprensori gastronomici. Per-ché proprio a cavallo di ciò che la geografia politica di-vide, il lavoro dell’uomo e la vita degli animali unisco-no in maniera eterna e indissolubile.

Per noi, terra di confine significa terra di montagna.

frontieraLICIA GRANELLO

MurianengoDeriva da una valle savoiarda(Moriana) il nome di questa tomaerborinata di tre latti (ovino, caprino,vaccino) dalla storia millenariaOccorrono tre mesi perchénelle forature si sviluppi il penicillium

BettelmattToma della Valdossola, Novara, di sola matrice estiva, quando le vacche della val Formazza (confinecon la Svizzera) si nutrono di erbed’alpeggio, tra cui l’aromaticamottolina, a oltre duemila metri

FontinaIl più celebre formaggio valdostanoesibisce in etichetta il profilodel monte Cervino, picco condivisocon la Svizzera. Il nome è quellodi uno storico alpeggio. Stagionaturadi quasi tre mesi in grotta

E dove ci sono alpeggi, ci sono animali. Moltissimi, untempo, quando in Italia la pastorizia era semplice-mente la trasposizione montana dell’agricoltura dipianura (che occupa il venti per cento del territorio to-tale contro l’ottanta per cento di monti e colline!).

Nell’immediato dopoguerra, più della metà dei la-voratori italiani era impegnata nelle pratiche agrico-le. Oggi siamo al cinque per cento, con aziende sem-pre più piccole (ultimi in Europa) e sempre più vec-chie (fanalino di coda pure qui). Niente da stupirsi,quindi, se il numero dei pastori nell’ultimo trenten-nio si è ridotto del novanta per cento. In scia, anche lapopolazione dei ruminanti al pascolo si è assottiglia-ta così tanto, che molte delle razze tradizionali sonoormai al limite dell’estinzione.

Se i vignaioli delle aree estreme hanno saputo farfronte comune, in nome della cosiddetta “viticulturaeroica”, i produttori del bitto tradizionale e quelli delCastelmagno d’alpeggio ancora combattono batta-glie solitarie contro le nefandezze dell’agroindustria,poco o niente supportati dalle istituzioni (con la soli-ta eccezione di Slow Food). Risultato: insieme a muc-che e capre a bassa resa quantitativa – ma altissima

qualitativa! – di latte, rischiamo di far scomparire glistraordinari formaggi prodotti a un passo da Francia,Svizzera, Austria, Slovenia.

Assaggiare per credere. Il massimo è andare in mal-ga, o presso le piccole cooperative di produttori vir-tuosi, e regalarsi un percorso multisensoriale – sco-prire il viola dei pistilli di genziana che punteggiano letome, palpare la consistenza della fetta, annusare gliaromi dell’erba tradotti in latte, ascoltare lo scrocchiosotto i denti e infine godere di un gusto antico e appa-gante, che rivela la magia di quando uomo e naturastanno dalla stessa parte. Oppure regalatevi un weekend braidese, e, tra un Presidio e un laboratorio del gu-sto, trasformatevi in scopritori di formaggi diversi,particolari, poco conosciuti. Poi parlate con i pastorie incoraggiateli a tener duro, comprando le loro tome,“adottando” a distanza i loro animali. Se vi piaccionogli spalmabili light, cambiate programma.

Comincia l’importazionedi formaggi d’oltralpe

1963I formaggi italianicensiti

451

‘‘Antonio TabucchiAccanto alle stalle il casale si prolungain una specie di cantina [...] dove lei fabbricail suo formaggio che è poco più di una ricotta salata

Da Si sta facendo sempre più tardi

Nuovi segretidell’alpeggio

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

ZincarlinÈ protetto da un presidio Slow Foodil piccolo formaggio vaccino,con poco latte di capra, prodotto tra le montagne comasche e varesinee la valle di Muggio (Canton Ticino)Crosta trattata con vino bianco

Castelmagno d’alpeggioDue mungiture per la poderosa formadalle lievi venature blu (fino a settechili di peso) delle montagne cuneesiche guardano alla FranciaLa versione più pregiata è figliadegli alpeggi (con dicitura in etichetta)

GraukäseÈ grau, grigio, il formaggio-cultodella tradizione tirolese, ottenutoda latte vaccino insolitamentescremato (in parte). Sale e pepe primadi metterlo negli stampi. Esisteuna versione lievemente affumicata

Formadi frantNato per recuperare i ritagli di formediverse di “latteria” (toma fresca),il formaggio rotto della Carnia è un assemblaggio speziato e impastato a mano con lattee panna. Forma cilindrica o a cassetta

Con le sue case in stileBiedermeier, il borgodell’alta Engadina vicinoa St.Moritz è circondatodai pascoli e punteggiato di villaggi, doveabbondano latterie sociali

DOVE DORMIRECHESA SALIS (con cucina)Località Bever, tel. (+41) 81-8511616Doppia da 115 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREALBULA (con camere)Albulastrasse Tel. (+41) 81-8541284Chiuso lunedì, da 35 euro

DOVE COMPRAREPAUN E CHASCHÖLSan Bastiaun 1, SamedanTel. (+41) 81-8525282

La Punt Chamues

Affacciato nel cuoredella val Maurienne,vanta una gloriosaformaggeria. Protagonistii formaggi dell’alta Savoia,a partire da Beaufort,Reblochon, Abondance

DOVE DORMIREHÔTEL SAINT-GEORGES334 rue de la République, tel. (+33) 4-7964010Doppia da 60 euro, colazione esclusa

DOVE MANGIARENORDPlace Champ de Foire Tel. (+33) 4-79640208Chiuso dom. sera e lun. a pranzo, da 25 euro

DOVE COMPRAREAUX PRODUITS SAVOYARDS8 Rue St Antoine Tel. (+33) 4-79642314

È stata prima tedescae poi austriaca (fino al 1919)la cittadina atesina costruitaalla confluenza di Rienzae Isarco. Qui Baumgartnerseleziona, importa e affinai formaggi dei pascoli tirolesi

DOVE DORMIREHOTEL RISTORANTE PACHERVia Pusteria 6, tel. 0472-836570Doppia da 99 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARESCHÖNECK Via Castello Schöneck 11, FalzesTel. 0474-565550Chiuso lunedì e mart. a pranzo, da 45 euro

DOVE COMPRAREDEGUSTVia Isarco 1Tel. 0472-849873

Varna (Bz)

itinerariIl romano Stefano Mariotti dirige www.qualeformaggio.it,sito di approfondimento rigoroso su latte,allevamento, alimentazione, ma anche scorciatoie e sofisticazioniIn linea la mappa dei distributori di latte crudo

La ricchezza della memoriaCARLO PETRINI

Pastori e casari delle montagne tra Italia e Francia quest’anno per la pri-ma volta verranno a Cheese riuniti sotto un unico marchio. Un’areatransfrontaliera che, sul versante italiano, scende dalla Val d’Aosta fi-

no alla Liguria e che coinvolge in tutto due Stati, cinque regioni e otto pro-vince. Quindici diverse istituzioni ma un unico territorio. Un confine inmezzo, ma le stesse esigenze, lo stesso potenziale. È la storia di tante zoneconsiderate depresse perché soggette a fortespopolamento: dure da camminare, coltivare evivere; territori che negli ultimi decenni sono ri-masti praticamente abbandonati a se stessi, masalvati da pochi eroici contadini e pastori.

Oggi queste montagne chiedono la nostraattenzione non soltanto per i grossi problemiche si trovano ad affrontare, ma perché sonoluoghi poco toccati da ciò che chiamiamo co-munemente progresso o ricchezza. Arretrati emarginali, si penserebbe, ma proviamo a cam-biare prospettiva: vediamo come quel pro-gresso mancato sia diventato conservazionedel paesaggio, della memoria e del savoir faire, altrove spariti; quella man-cata ricchezza in denaro si sia tradotta in abbondanza di umanità, cultu-ra, natura e conseguenti eccezionali frutti della terra, che hanno, oppor-tunamente valorizzati, un potenziale economico.

Bisogna far capire l’importanza che hanno i malgari, i pastori, le greggi,i formaggi; la biodiversità che decide gusti unici e orienta tecniche favolo-

se. Eroi, dicevamo, anziani quasi eremiti o giovani che sono ritornati allaterra, cercando con essa quasi una sorta di riconciliazione. Custodisconoquesti territori e i loro boschi, li proteggono dagli incendi e dal declino svol-gendo una funzione ecologica utile a tutti noi. La qualità del loro formag-gio è irripetibile; perché ogni pascolo ha le sue erbe, e in quota i sapori so-no più intensi e profumati. Non solo la poesia di paesaggi mozzafiato e di

vite estreme, c’è anche l’economia, quella mi-cro-economia locale senza la quale il territoriosubisce tutte le distorsioni che la fast life ha sa-puto dispensare: perdita del bello, del buono,del savio, di porzioni intere di terra.

Se è difficile biasimare chi quelle terre ha ab-bandonato per rifuggire la vita grama dei pro-pri padri, tanto più bisogna aiutare chi ne haraccolto l’eredità. I prodotti vanno pagati più diquelli ottenuti a valle, o in pianura, perché co-stano più fatica. La montagna deve tornare a es-sere viva, con una nuova socialità, nuove op-portunità garantite da mezzi di comunicazione

e trasporto. Restando dove sono ci hanno insegnato molto, bollandoli co-me arretrati non abbiamo compreso l’importanza e la modernità di ciò chestanno realizzando. È tempo che la loro bravura sia premiata e possa esse-re d’esempio; spesso è sufficiente fare il piccolo sforzo di conoscere le lorostorie, che poi sono tutte nei loro prodotti. Non banali formaggi, non ba-nali mieli, ma capolavori degni di una cattedrale.

l’appuntamentoAppuntamento dal 18 al 21 settembre a Bra, Cuneo,

con la settima edizione di “Cheese”. Centinaiai formaggi in passerella, la maggior parte a latte

crudo In programma degustazioni,cene a tema, laboratori del gusto, incontri

Negli stessi giorni. Sagra del Bitto a Gerola Alta,Sondrio, a supporto della lotta

dei produttori d’alpeggio per la difesadella produzione tradizionale

I pastori che hannolasciato i pascoli in 30 anni

90 per cento

Toma di pecora brigascaHa i sentori dei prati provenzali la formaggella che porta il nome dei muscolosi ovini de La Brigue,paese alpino al confineligure-francese, dove il microclimapermette il pascolo per tutto l’anno

Saint-Jean-de-Maurienne

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 SETTEMBRE 2009

Ha cominciato collezionandole figurine sulla spiaggia e nella pinetadi Viareggio, poi è diventato figurinalui stesso, adesso è l’allenatoredella nazionale di calcio campionedel mondo. “A volte sembro scontroso

ma quando entroin campo sono feliceSe ripenso a quelloche mi è successo,posso soltanto dire grazieperché ho trasformatoil sogno in mestieree quel sogno adesso

è diventato la mia vita”

l’incontro

parlano di me come di un conservatore,perché non è vero: mi sembra che nellanazionale italiana ci siano tradizione enovità in giusta dose, e comunque nonè colpa mia se le nostre squadre di clubsono piene di stranieri, anche undici suundici. Non alleno la Juventus ma l’Ita-lia: però, la Juventus ha puntato anchesugli italiani e sui giovani. Noi non sia-mo la Spagna che si è permessa dieci an-ni di esperimenti senza vincere nulla, epoi in effetti ha costruito un’ottima na-zionale. Noi dobbiamo esserci sempre.E ci saremo anche in Sudafrica, perchénelle sfide dentro o fuori gli italiani tro-vano il meglio di loro stessi e non ce n’èper nessuno. Comunque, pensandoci,più su del massimo c’è la capacità digioire per quello che si fa, c’è il coraggiodi provarci».

Adesso il sole si è mangiato quasi tut-ta la mattina come un bombolone allacrema. Marcello Lippi, braghe corte escarpe da ginnastica, maglietta rosa eocchiale da sole, rigira il cucchiaino nel-la tazza vuota del caffè. I pensieri si ac-chiappano così, dentro gesti piccoli emeccanici. «Io penso che il rispetto pergli altri sia la cosa più importante. Dipiù, per chi ce l’ha, forse esiste solo la fe-de. Se ripenso a quello che mi è succes-so, posso soltanto dire grazie. A voltesembro scontroso o permaloso, perònon lo sono: bisogna difendersi. Maquando entro in campo prima che lapartita cominci, allora lì sono veramen-te felice, perché capisco che ho trasfor-mato il sogno in mestiere e che quel so-gno è diventato la mia vita. Sento il pro-fumo dell’erba, il più inebriante, il piùparticolare che c’è». Da qualche parte,in strada, rotola un nocciolo di pesca.

Marcello, difensore».Il tempo si arrotola lentamente, ma è

solo un’impressione, come queste on-de in rincorsa sulla spiaggia. Piedi pic-coli la calpestano ed è subito di nuovoliscia, acqua e schiuma cancellano ognitraccia. «Da ragazzo giocavo mezz’alanella Stella Rossa Viareggio. Era il 1964.Alto, discretamente tecnico, segnavopure. Quell’anno feci il provino per Mi-lan, Fiorentina, Bologna, Inter e maineanche un gol, chissà perché. Finchénon vennero a vedermi quelli dellaSampdoria, e nella partitella segnai fi-nalmente una doppietta. La secondarete la ricordo come adesso: stop e tiroal volo da fuori area. Mi dissero che sa-rei andato a Genova per il secondo pro-vino, quello decisivo, e mi presero pa-gandomi ottocentomila lire più uncompleto di maglie per la Stella Rossa.Quando tornavo a casa, vedevo i miei excompagni di Viareggio con le casacchedoriane e pensavo che era un po’ meri-

to mio». Vent’anni gli è rimasta addos-so la maglia diversa da tutte, “blucer-chiata”, un po’ come quelle degli anti-chi ciclisti: «Anche a Genova c’era il ma-re, anche a Napoli dove ho allenato unanno solo però intensissimo. Ma le co-se più importanti come tecnico, a parteil mondiale, le ho vissute in una città do-ve il mare non c’è».

Nella città senza il mare, Torino,Marcello Lippi ha allenato colui che de-finisce il più grande calciatore degli ul-timi vent’anni: «Zidane aveva tutto, glischemi se li faceva da solo, non c’era bi-sogno di dirgli niente e neppure il con-cetto più importante che ripeto sem-pre, anche ai fuoriclasse: “Gioca per glialtri.” E nei vent’anni prima, il miglioreè stato senza confronti Maradona».

Il vento ha deciso di spazzare tutti icolori di questa mattina come un ca-mion della nettezza urbana: non lasciaindietro niente, nessuna sfumaturaumida, tutto è nitido come appena di-segnato dalla punta di una matita. I ros-si (una palla, una fetta d’anguria), i ver-di (un asciugamano, le foglie della bou-gainville), specialmente i blu. «Non erotanto bravo a scuola e non credo cheavrei continuato. I miei genitori gesti-vano una pasticceria e io ero in gambacon le decorazioni. Poi, è chiaro, mi oc-cupavo delle consegne in bicicletta:penso che oggi farei quel mestiere lì. Siviveva con poco, i soldi li facevamo ba-stare. A me è andata di lusso, sto bene, ifigli sono a posto. Però credo di essererimasto una persona semplice, ho gliamici di allora, non cerco chissà che. Ilfuturo lo vedo ancora così, salute per-mettendo: sempre più mare come daragazzino, la bicicletta, la famiglia, mionipote Lorenzo». Ha già otto anni.«Quando ne aveva quattro, un giornovenne e mi chiese: “Nonno Lello, ma tesei Lippi?”. Gioca a calcio nella squadradella scuola, a Roma. Da qualche mesemi pare migliorato, secondo me è por-tato, ha un bel dribbling, sta sulla fasciadestra».

Chi vince un campionato del mondodiventa una specie di madonna pelle-grina, ogni giorno è una processione digloria e petali dalle finestre. Fino allaprima sconfitta. Fino al nuovo mondia-le. Era proprio il caso di riprovarci? Co-sa c’è più su del massimo? «Il massimoè un limite mentale, nella realtà non esi-ste. Esiste solo la prossima sfida, un’al-tra partita e poi ancora una. Lo so che èdifficilissimo rivincere la coppa, ma iosono tornato soprattutto per riviverecerte sensazioni, per emozionarmi in-sieme ai ragazzi. Mi dispiace quando

Gente di sport

Certo che dobbiamoancora mandarei nostri figlia giocare a palloneI bambini devono faresport di squadra,devono impararea dire “noi”invece che “io”

VIAREGGIO

Tutto comincia da un sasso,un sasso insignificantesulla strada che da scuolaporta a casa. «Lo calciavo

d’esterno, d’interno, di punta, di fino. Avolte era una lattina vuota, oppure unapallottola di carta o un nocciolo di pe-sca. Accompagnava me e i miei amici,era come un’azione che non finiscemai. Perché l’istinto dell’uomo è calcia-re. E non a caso: si calcia per mandare lapalla, il sasso, la lattina, il nocciolo in unpunto preciso. Si gioca e si calcia e perfare gol».

L’ultimo sole dell’estate intiepidiscela sabbia sottile come cipria, bianca co-me burro. Marcello Lippi parcheggia lasua bici e si siede sotto la tenda chiaradei Bagni Lido. Ha appena incassato(vabbè, quasi) la qualificazione mon-diale per difendere la sua coppa in Su-dafrica, tra nove mesi. La morbidezza disettembre fa bene al cuore. «Il primopallone, proprio il primo non lo ricordo.Ma so che ne avevamo tanti e diversi,quasi tutti di gomma. Ogni tanto capi-tava di incontrarne uno di cuoio ed eracome un’apparizione, però non è che cipiacesse tanto. Era duro, più difficile dacontrollare, in ciabatte non si poteva.Andavamo di puntonate, ma così sonocapaci tutti. Io ero alto, ero bravo di te-sta: però quei palloni pesantissimi e le-gati con una stringa come scarponi, se lipigliavi di taglio sulla valvola che venivafuori come un’escrescenza o sull’allac-ciatura ti lasciavano il segno, ti sfregia-vano. Poi il rosso sulla pelle andava via

presto. Vivevamo di palloni».La casa di Marcello è quella alta, ver-

de, tutta vetri sul mare. Ogni tanto lui sivolta e la guarda, come ad accertarsi chesia sempre lì. «Non riesco a vivere senzail mare. Ogni giorno ho bisogno di star-ci almeno un’ora, è un fatto fisico, mipiace sentirlo addosso, tuffarmi, annu-sarlo, mi piace andare al molo, stare coni pescatori oppure in barca». Il bambi-no che calciava sassi lo usava come la li-nea laterale, quando lo stadio era laspiaggia. «D’inverno si giocava in pine-ta e d’estate sulla sabbia, come i brasi-liani, ogni giorno. E durante la CoppaCarnevale si andava a scocciare le squa-dre in ritiro, i giocatori, i magazzinieri,per avere un portachiavi o un gagliar-detto. Per noi era carnevale due volte».

L’allenatore della nazionale: quellacosa che è di tutti e di nessuno. «Ma l’in-no di Mameli è bellissimo». Quella cosache, forse, non interessa mica tantoperché siamo ancora un’Italia di cortili,di pianterreni e pianerottoli: chiunquesvolti l’angolo della via è uno straniero.«Però io vedo anche tanto amore. E ve-do il talento dei nostri ragazzi: non è ve-ro che le nuove generazioni sono solomuscoli. Io ho cercato di miscelare ilvecchio e il nuovo, non escludo per an-tipatia e non chiamo per gratitudine. Epoi, se il vecchio vale non è vecchio». Mail calcio è ancora un posto dove manda-re i nostri bambini? «Certo che sì. Sape-ste quanti maestri dello sport lo fannoper passione e vogliono bene a ognunodi questi piccoli. I bimbi devono faresport di squadra, devono imparare a di-re “noi” invece che “io”. Qualche volta,quando parlo con una persona cerco dicapire da quello che dice se da giovaneha fatto sport di squadra o individuale,e spesso ci azzecco».

Un aquilone verde s’imbizzarriscenel cielo smaltato. Sono languidi que-sti ultimi giorni al mare, da catturareprima dell’inverno che sarà. Da qual-che parte tintinna il ghiaccio in unoshaker. «Quando giro in bici, ricordo.Vedo la fontanella, che è un posto in pi-neta dove si giocava sempre. Vedo lecase dove ho abitato, in una c’è ancorala saracinesca del garage che era la no-stra porta. Facevo la raccolta delle figu-rine, è naturale: e c’era il Pizzaballa,l’introvabile. Infatti non lo trovai mai.Quando divenni figurina io stesso, ca-pii che il desiderio si era fatto mestieree che ero proprio una persona fortuna-ta. A volte mi capita di trovare una bu-sta nella buca delle lettere: è di qualchetifoso che mi spedisce una vecchia fi-gurina Panini con la faccia di Lippi

MAURIZIO CROSETTI

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Marcello Lippi

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Repubblica Nazionale