Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS - cerbafaso.org · 4 GIOVANNI PAOLO II, “La Chiesa di...

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Negli anni trascorsi svolgendo il ministero con malati di Aids e nel tempo dedicato alla ri- cerca sul tema, ho costatato che ci troviamo in una situazione molto speciale, che richiede una riflessione specifica. Questa riflessione, infatti, è fondamentale ai fini di una pastorale che metta bene a fuoco i bisogni di chi è af- fetto dal fenomeno dell’Aids: i malati, la loro famiglia, gli operatori sanitari e l’intera comu- nità che sente il problema come qualcosa di proprio e sperimenta la sfida di prevenire, di assistere, di accompagnare e di fare ricerca. L’Aids presenta diverse caratteristiche: ci fa prendere coscienza della precarietà della vita e del limite delle risorse sanitarie, costrin- ge a non nascondere la verità al malato. 1 In più, la malattia ha un carattere conta- gioso e le sue vie di trasmissione sono molto associate al valore della vita e della sua co- municazione; essa è collegata al consumo delle droghe per via endovena; c’è uno stret- tissimo rapporto tra malattia e povertà; le sue associazioni metaforiche e i contenuti simbo- lici (soprattutto perché, attorno all’esperienza della malattia, vi è una convergenza tra eros e thanatos), nonché la vulnerabilità delle per- sone prima e dopo essere state infettate dal- l’HIV e la specificità dell’esperienza vissuta da chi è affetto dalla malattia. Queste, in pre- valenza, sono le caratteristiche peculiari con cui si presentano i malati di Aids. Il Popolo di Dio sta rispondendo agli interro- gativi posti da questo segno dei tempi 2 con me- rito, in maniera degna di riconoscimento ed in tutti gli ambiti. Nel settore dell’assistenza, tale risposta realizza progetti particolarmente rile- vanti d’accoglienza familiare a favore di malati gravi e terminali. Il Popolo di Dio risponde an- che attraverso la riflessione, con “la carità intel- lettuale” 3 , come abbiamo deciso di chiamarla. Di fronte a quella che Giovanni Paolo II ha chiamato “una sorta d’immunodeficienza sul piano dei valori esistenziali, che può ricono- scersi come una vera patologia dello spirito” 4 , si fa necessaria una certa “ecologia dello spi- rito”, 5 una vera sfida per l’intero Popolo di Dio. 19 Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS Fr. José Carlos Bermejo Higuera, Camilliano, Dottore in Teologia 1 Questo fa sì, per es., che il dialogo col malato sia fondato sulla conoscenza da parte del paziente della pro- pria diagnosi, cosa che non accade con molte altre malattie. Cfr. BERMEJO J. C:, “Accompagnamento spirituale e pastorale”, in AA.VV., “Aids emergenza planetaria”, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 137. 2 Cfr. BERMEJO J. C., “Relación pastoral de ayuda al infermo de SIDA”, Camillianum, Roma 1994, pp. 126-129. 3 “Le chiese, oltre alla carità di tipo assistenziale, sono chiamate anche ad offrire al mondo una carità di tipo ‘intellettuale’, cioè, in relazione ad una visione globale delle cose, nel senso della vita, della malattia e della mor- te, al fine di far sì che chi soffre sappia affrontare la sua sofferenza, liberato dalla tentazione di ritenersi maledet- to da Dio, giudicato e castigato oltre che dagli uomini, dalla giustizia divina”. Cfr. AUTIERO A., “L’Aids, quale sfida per l’etica”, in “Rivista di Teologia Morale”, 1988 (80), pp. 18-19. Infatti, come dice Antoni Mirabet, “in nessun’altra parte – all’infuori della Chiesa – abbiamo trovato tanto materiale di riflessione e studio sul valore e il rispetto del- le persone che vivono con l’HIV-Aids e di quelle del loro ambiente familiare e d’amicizia, e sul ruolo di tutte le per- sone che integrano la società”. Cfr. MIRABET A., “Obispos y Conferencias Episcopales del mundo sobre el SIDA” (1986-1999), Claret, Madrid 1999, p. 8. 4 GIOVANNI PAOLO II, “La Chiesa di fronte alla sfida dell’Aids: prevenzione e assistenza”, in “Dolentium Homi- num”, 1990 (13), p. 7. 5 ANGELINI F., “Quel soffio sulla creta”, Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, Roma, 1990, p. 331.

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Negli anni trascorsi svolgendo il ministerocon malati di Aids e nel tempo dedicato alla ri-cerca sul tema, ho costatato che ci troviamoin una situazione molto speciale, che richiedeuna riflessione specifica. Questa riflessione,infatti, è fondamentale ai fini di una pastoraleche metta bene a fuoco i bisogni di chi è af-fetto dal fenomeno dell’Aids: i malati, la lorofamiglia, gli operatori sanitari e l’intera comu-nità che sente il problema come qualcosa diproprio e sperimenta la sfida di prevenire, diassistere, di accompagnare e di fare ricerca.

L’Aids presenta diverse caratteristiche: cifa prendere coscienza della precarietà dellavita e del limite delle risorse sanitarie, costrin-ge a non nascondere la verità al malato.1

In più, la malattia ha un carattere conta-gioso e le sue vie di trasmissione sono moltoassociate al valore della vita e della sua co-municazione; essa è collegata al consumodelle droghe per via endovena; c’è uno stret-tissimo rapporto tra malattia e povertà; le sueassociazioni metaforiche e i contenuti simbo-

lici (soprattutto perché, attorno all’esperienzadella malattia, vi è una convergenza tra erose thanatos), nonché la vulnerabilità delle per-sone prima e dopo essere state infettate dal-l’HIV e la specificità dell’esperienza vissutada chi è affetto dalla malattia. Queste, in pre-valenza, sono le caratteristiche peculiari concui si presentano i malati di Aids.

Il Popolo di Dio sta rispondendo agli interro-gativi posti da questo segno dei tempi2 con me-rito, in maniera degna di riconoscimento ed intutti gli ambiti. Nel settore dell’assistenza, talerisposta realizza progetti particolarmente rile-vanti d’accoglienza familiare a favore di malatigravi e terminali. Il Popolo di Dio risponde an-che attraverso la riflessione, con “la carità intel-lettuale”3, come abbiamo deciso di chiamarla.

Di fronte a quella che Giovanni Paolo II hachiamato “una sorta d’immunodeficienza sulpiano dei valori esistenziali, che può ricono-scersi come una vera patologia dello spirito”4,si fa necessaria una certa “ecologia dello spi-rito”,5 una vera sfida per l’intero Popolo di Dio.

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

Fr. José Carlos Bermejo Higuera, Camilliano, Dottore in Teologia

1 Questo fa sì, per es., che il dialogo col malato sia fondato sulla conoscenza da parte del paziente della pro-pria diagnosi, cosa che non accade con molte altre malattie. Cfr. BERMEJO J. C:, “Accompagnamento spirituale epastorale”, in AA.VV., “Aids emergenza planetaria”, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 137.

2 Cfr. BERMEJO J. C., “Relación pastoral de ayuda al infermo de SIDA”, Camillianum, Roma 1994, pp. 126-129.3 “Le chiese, oltre alla carità di tipo assistenziale, sono chiamate anche ad offrire al mondo una carità di tipo

‘intellettuale’, cioè, in relazione ad una visione globale delle cose, nel senso della vita, della malattia e della mor-te, al fine di far sì che chi soffre sappia affrontare la sua sofferenza, liberato dalla tentazione di ritenersi maledet-to da Dio, giudicato e castigato oltre che dagli uomini, dalla giustizia divina”. Cfr. AUTIERO A., “L’Aids, quale sfidaper l’etica”, in “Rivista di Teologia Morale”, 1988 (80), pp. 18-19. Infatti, come dice Antoni Mirabet, “in nessun’altraparte – all’infuori della Chiesa – abbiamo trovato tanto materiale di riflessione e studio sul valore e il rispetto del-le persone che vivono con l’HIV-Aids e di quelle del loro ambiente familiare e d’amicizia, e sul ruolo di tutte le per-sone che integrano la società”. Cfr. MIRABET A., “Obispos y Conferencias Episcopales del mundo sobre el SIDA”(1986-1999), Claret, Madrid 1999, p. 8.

4 GIOVANNI PAOLO II, “La Chiesa di fronte alla sfida dell’Aids: prevenzione e assistenza”, in “Dolentium Homi-num”, 1990 (13), p. 7.

5 ANGELINI F., “Quel soffio sulla creta”, Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, Roma, 1990,p. 331.

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L’Aids, inoltre, ci mette davanti a persone,la cui stragrande maggioranza, possiamo di-re, erano già “malate” prima di esserlo: mala-te di povertà, malate di cultura, carenti d’ap-poggi sociali e affettivi sani, malate perchél’Aids conduce molte persone ad una “mortesociale” che precede quella fisica.6

Prima di proporre alcune piste per l’ac-compagnamento pastorale alle persone sof-ferenti di Aids, faremo una breve lettura teolo-gico-pastorale del fenomeno.

1. CHIAVI PER UNA LETTURA

TEOLOGICO-PASTORALE DELL’AIDS

Possiamo dire, infatti, che dal punto di vi-sta teologico siamo di fronte ad un segno deitempi,7 perché tra noi ci sono numerosi mala-ti di Aids, un male che a livello umano si pre-senta senza rimedi possibili. Il male, inoltre,manifesta un insieme di fenomeni profondidella nostra società e, particolare ancor piùimportante, costituisce un urgente appello al-l’amore verso il prossimo ed alla solidarietà.

Segno dei tempi, poiché è appello alla co-munità cristiana a rendere viva la presenza diDio – riconoscendo in quest’emergenza un’oc-casione straordinaria, un momento ecceziona-le per offrire amore e agire affettivamente edeffettivamente nei riguardi dei più direttamen-te afflitti –, l’Aids è anche un kairòs.8 Bisogne-rebbe pure riconoscere che “l’Aids è anche unkairòs per la pastorale sanitaria. È, nello stes-so tempo, sfida e invito ad accettare la preca-rietà delle nostre riflessioni sulla sofferenza,sul senso della vita, in circostanze come quel-le che questa malattia presenta”.9

Seguendo una riflessione teologica, nonsolo dobbiamo riconoscere nel malato di Aidsla presenza del Cristo sofferente (Mt 25, 31-46), bensì, attraverso la parabola del buonSamaritano – punto di riferimento obbligato

d’ogni azione pastorale –, potremmo immagi-nare che Cristo sceglierebbe un malato diAids come figura centrale in una versione at-tuale della parabola: non nelle vesti di unapersona bisognosa d’aiuto, ma in quelle delbuon samaritano.10 Bisogna ricordare checon questa parabola Gesù non soltanto met-te in risalto il gesto verso l’uomo ferito, mache nello scegliere un samaritano per realiz-zarlo, lascia un po’ di sconcerto. Gesù vollemostrare a chi tende a condannare facilmen-te o in base alle apparenze, che le persone sidefiniscono per l’atteggiamento verso il pros-simo, e non per i pregiudizi legati al gruppod’appartenenza. Nel contesto giudaico, infat-ti, i samaritani rappresentavano un gruppo si-mile a quello che oggi identifica i malati diAids, almeno là dove non sono stati ancorasuperati gli atteggiamenti moralizzanti. Sa-rebbe interessante, prendendo spunto dallaparabola, andare oltre e chiedersi: “Se fossi ioa giacere nel fosso, accetterei l’aiuto dachiunque?, come mi sentirei se fossi assistito,curato, aiutato… da un malato di Aids?”.11

Queste riflessioni possono aiutarci a lasciareche siano i malati stessi ad evangelizzarci e afar sì che noi ascoltiamo la loro voce quandoessa c’indica il punto dove il sistema è fallito.

Gesù, conoscendo l'esistenza di un lin-guaggio sacerdotale e d'uno profetico sullamalattia, si situa in una prospettiva messiani-ca,12 allontanandosi sia dal legalismo sia dallaricerca di una colpa personale dietro ad ognimanifestazione patologica. Dalla prospettivamessianica che egli propone ed incarna, lamalattia si situa al centro dell’azione di Dio edell’attività sanante. L’annuncio e l’agire met-tono la compassione al centro, come energiache fa vivere e che genera salute, non solo sulpiano somatico ma anche su quello psichico,emotivo, relazionale e spirituale. La terapiamessianica non si centra soltanto sui sintomi

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FR. JOSÉ CARLOS BERMEJO HIGUERA

6 SONTAG S., “L’Aids e le sue metafore”, Einaudi, Torino 1989, pp. 31-32.7 COTTIER G., “Sida: ¿un signo de los tiempos?”, in “Dolentium Hominum, 1990 (13), pp. 34 e 39.8 Cfr. AA.VV., “Farsi prossimo ai malati di AIDS”, Elle Di Ci, Torino 1990, p. 22.9 BERMEJO J.C., “Accompagnamento spirituale e pastorale”, in AA.VV., “Aids, emergenza planetaria”, o.c.,

p. 136.10 BUCKMAN R., “Cosa dire. Dialogo con il malato grave”, Camilliane, Torino 1990, pp. 227-228. Cfr. anche “Su-

gerencias para la pastoral del Buen Samaritano”, in AA.VV., “SIDA”, CELAM, Bogotá 1989, pp. 211-244.11 Cfr. THOMSON C., “Parábolas y eneagrama”, PPC, Madrid 2000, pp. 32-33.12 MALHERBE J. F. – ZORILLA S. – SPINANTI S., “Il cittadino, il medico e l’Aids”, Paoline, Milano 1991, pp. 215-216.

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ma reintegra il malato nella comunità, ridonadignità alla persona, trasformandola in agentedella costruzione del Regno.

Nonostante i quasi vent’anni trascorsi dallascoperta del virus – un po’ meno dalle primedichiarazioni – credo tuttora attuale la rifles-sione di mons. Lehman nel 1990: “Non do-vremmo nemmeno ridurre il nostro messaggioa pochi e ristretti quesiti di teologia morale, co-me ad es. la valutazione dell’omosessualità, ilcontrollo dei concepimenti, i rapporti sessualidegli ammalati di Aids. Tali problemi hanno laloro importanza nella giusta sede, ma in ultimaanalisi possono essere risolti in modo convin-cente soltanto prendendo in considerazionel’insieme del messaggio cristiano di salvezza.Se predichiamo veramente ‘la speranza con-tro ogni speranza’ (Rm 4, 18), i problemi eticisi risolvono quasi da sé”.13

Reputo importante prendere coscienza delfatto che, in genere, il capitolo 25 di Matteo èinterpretato come la prescrizione di un’eticacristiana che, però, rischia di far dei malati edegli esclusi l’oggetto dell’amore cristianoverso il prossimo, invece di esserne i sogget-ti, vale a dire, d’essere fratelli di Cristo. Il te-sto invece ci presenta i più piccoli come sog-getti, fratelli del giudice del mondo, prima chedestinatari di una missione.14 Ciò implica unserio impegno di responsabilità nell’accompa-gnamento in mezzo alla malattia. “Perché,dobbiamo dirlo, anche i più deboli rischiano dipiegarsi di fronte alle dinamiche perverse cheli schiavizzano o che li rendono oggetto, inve-ce di soggetto, della loro storia”.15

2. CHIAVI PER LA

RIFLESSIONE-AZIONE PASTORALE

2.1. La chiave della denuncia dell’ingiustizia

Durante la prima decade di apparizionedell’Aids, il dibattito si è centrato fondamental-

mente sulla problematica relazionata con la li-bertà. Guardando il futuro, però, la grande sfi-da pastorale dell’Aids, secondo me, si pro-spetta sulle coordinate della giustizia e dellasolidarietà. Le vittime della seconda e terzadecade sono veramente povere perché, nonsolo costituiscono gruppi discriminati, ma per-ché mancano di voce. L’Aids nella secondadecade e all’inizio del terzo millennio “è la ma-lattia dei poveri, di quelli che non hanno vocein questa comunità di comunicazione interna-zionale che possiede il potere, alla quale s’ac-cede attraverso il controllo del mercato e deimass media. Perciò l’Aids propone (…) unasfida che sembra più che altro d’iscriversi nel-le coordinate morali del principio di giustizia”.16

Penso che la Chiesa, che tanta riflessioneha generato attorno all’Aids, sia sfidata a sol-levare il grido che emerge dalla consapevo-lezza che non è più possibile restare a brac-cia incrociate nel constatare che la stragran-de maggioranza dei malati si trova nei paesiin via di sviluppo. Questa è, secondo me, lachiave etico-morale più importante che do-vrebbe guidare sia la riflessione sia l’azionepastorale. Un giorno, nel futuro, il nostro at-teggiamento nei riguardi dei malati di Aids sa-rà apprezzato. Allora si potrà affermare cheesso è stato tanto più in sintonia col messag-gio di Gesù quanto più centrato nella difesa dichi è vulnerabile e povero.

Perciò il credente deve sentire l’impegnocollettivo e capire che i fattori alla base dicomportamenti a rischio sono estremamentecomplessi e trascendono frequentemente lasfera della volontà e del controllo personale.Com’è noto, la classe sociale d’appartenen-za, l’educazione ed altri fattori culturali hannoun ruolo molto importante nella determinazio-ne del comportamento individuale.17 Se la no-stra riflessione fosse centrata sulla singola re-sponsabilità dell’individuo, probabilmente

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

13 LEHMANN K., “La pastoral de la esperanza”, in “Dolentium Hominum”, 13, 1990, p. 224.14 Cfr. MOLTMANN J., “Nuovo stile di vita”, Queriniana, Brescia 1979, pp. 122-123.15 BERMEJO J. C., “Derecho a una vida digna”, in “Corintios XIII”, 88 (1988), p. 154.16 Cfr. FERRER J.J., “SIDA y bioética: de la autonomía a la justicia”, Universidad Pontificia de Comillas de Ma-

drid, Madrid 1997, pp. 284-285. Dice l’autore: “le vittime della seconda e terza decade sono dei senza voce: i tos-sicodipendenti di New York, Madrid, Milano o San Juan; le minoranze afro-americane e ispaniche degli Stati Uni-ti; le masse impoverite dell’Africa nera e del sudest asiatico”. Ibidem, p. 285.

17 DANIELS N., “Seeking Fair Treatment. From the Aids Epidemic to National Health care Reform”, Oxford Uni-versity Press, New York/Oxford 1995, p. 95.

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sentiremmo “un grido di disperazione e nellostesso tempo di denuncia: perché ci avetepermesso di bere l’acqua contaminata deipozzi e non ci avete indicato l’acqua della sor-gente di vita? Perché non ci avete mostratodegli orizzonti più ampi in termini di vita ses-suale? Perché ci avete permesso d’avere del-le abbondanti informazioni che portano allamorte e non quelle che donano vita?”.18

Non è un caso che l’HIV e l’esclusione so-ciale siano degli itinerari bi-direzionali.19

L’Aids continua ad essere l’opportunità permettere in evidenza i più poveri.

Molti moralisti cattolici danno maggior ri-salto – direi persino sproporzionato – ai temidella morale sessuale implicati che a quellidella morale sociale. Uno sguardo ampio, uni-versale, servirebbe ad evitare quella sensa-zione d’intransigenza religiosa, percepita indiversi contesti, che è presentata come fedel-tà ad oltranza alla dottrina ed aderenza aiprincipi morali nell’ambito della sessualità,senza prendere in considerazione le circo-

stanze concrete in cui si trovano i destinataridel messaggio.

Il quadro attuale dell’infezione da HIV, in-fatti, ci pone davanti serie questioni di giustiziasociale. Prendiamo ad esempio la situazionedella comunità nera e di quella ispanica negliUSA. In queste comunità la trasmissione del-l’Aids è legata, fondamentalmente, all’uso del-le droghe, fatto a sua volta collegato alla po-vertà e all’emarginazione vissuta da diversegenerazioni. Da non dimenticare, inoltre, ladoppia emarginazione o povertà, in particola-re in alcuni paesi, che subisce la donna quan-do è lei la persona sofferente di HIV. L’emargi-nazione sociale e culturale di questi gruppi,inoltre, rende più difficile il loro accesso ai pro-grammi di prevenzione e cura.20

Nel messaggio di Giovanni Paolo II al Se-gretario dell’ONU in occasione della Sessionespeciale dell’Assemblea Generale sull’Aids(giugno 2001), il Pontefice esprime la sua par-ticolare preoccupazione su due problemi: latrasmissione materno-fetale dell’Aids e la diffi-coltà d’accesso dei malati di Aids alle cure me-diche.21 Anche l’intervento di mons. LozanoBarragán durante detta Assemblea ricordache “la Chiesa ha insegnato ripetutamenteche c’è un’ipoteca sociale su ogni proprietàprivata e che bisogna applicare questo con-cetto alla proprietà intellettuale. La sola leggedel guadagno non può essere applicata allalotta contro la fame, la malattia e la povertà”.22

2.2. La chiave della prevenzione

Una delle maggiori responsabilità della co-munità cristiana di fronte all’Aids è di contri-buire alla prevenzione attraverso la BuonaNovella di Gesù. Il messaggio di Gesù è sa-lute per l’uomo e la prassi pastorale deve es-serne un riflesso.23

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FR. JOSÉ CARLOS BERMEJO HIGUERA

18 MOSER A., “Ellos nos interpelan: pistas teológico pastorales partiendo del SIDA”, in: AA.VV., “SIDA”, CELAM,Bogotá 1989, p. 164.

19 BARBERO J., “Afectado por el SIDA. El acompañamiento a personas con VIH/SIDA. Claves ideológicas, con-textuales y relacionales”, CREFAT, Madrid 1997, p. 36.

20 FERRER J., “El SIDA, ¿condena o solidaridad? La teología, la Biblia y la moral ante un reto inaplazable”, PPC,Madrid 1992, pp. 107-108.

21 GIOVANNI PAOLO II, “Messaggio a S. E. Sig. Kofi Annan, Segretario Generale dell’ONU, in occasione dellasessione speciale dell’Assemblea Generale sull’Aids”, 21.06.2001.

22 Intervento del Presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale sanitaria, Mons. JAVIER LOZANO BARRAGÁN,capo della Delegazione della Santa Sede alla XXVI Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle NazioniUnite sull’Aids, 28.06.2001 (dalla traduzione in spagnolo in “Ecclesia”, luglio 2001, n. 3057, pp. 37-38).

23 Cfr. SANDRIN L., “La Iglesia, comunidad sanante”, San Pablo, Madrid 2000.

P. Trettene con un malato

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A mio parere, la prevenzione passa attra-verso:– l’educazione alla solidarietà di tutta l’uma-

nità e al dovere di distribuire equamentetutti i beni;

– la promozione del principio di correspon-sabilità verso tutti gli esseri della terra, pre-senti e virtuali;24

– la consapevolezza della dignità d’ogni per-sona e l’impegno a rispettarla per la suaappartenenza alla comunità della fragilità;25

– l’investimento in azioni d’aiuto ai bambini eai giovani nella loro crescita e maturazionepersonale in un ambiente d’equilibrio affet-tivo capace di stimolare la libertà e la re-sponsabilità;

– a puntare gli sforzi su un concetto di rap-porti interpersonali di rispetto reciproco, inparticolare il rispetto per la diversità, chesia riflesso della virtù della castità,26 dovel’autonomia e l’interdipendenza siano inter-pretate come elementi sempre vincolati;27

– l’impegno nella costruzione di una Chiesatestimone della parità tra uomo e donna eproposta esemplare che confronta quelleculture che non vivono quella dimensione;

– il contributo ad umanizzare la sessualitàquale dimensione umana essenziale chedeve integrare armonicamente la bellezzae la bontà del rapporto tra passione erotica,intimità emotiva e impegno interpersonale;

– l’educazione al valore della libertà qualedote e conquista, e ad evitare il consumodi quelle sostanze che annullano la possi-bilità d’esercitare detta libertà in manieraresponsabile;

– il richiamo alla necessità di preservare ilprossimo dall’infezione, rispettando la suadignità e vivendo i rapporti interpersonaliquale vera espressione dell’amore al Dioche ci chiama.

Credo che quando la Chiesa realizzeràdetti obiettivi finalizzati alla prevenzione, essapotrà incidere sull’educazione. Mi stanno par-

ticolarmente a cuore le sfide ad introdurre nel-la prassi interna della Chiesa le modifiche ne-cessarie per promuovere l’uguaglianza uo-mo-donna; l’impegno dei presbiteri ad essereincisivi nella predicazione per generare sensi-bilità e coscienza di responsabilità; la promo-zione nella catechesi di una buona educazio-ne ai valori nell’ambito delle relazioni, degli af-fetti e della sessualità. Le omelie e la cate-chesi con riferimento all’Aids e alle sue impli-cazioni, costituiranno un segno di effettivo im-pegno nella creazione di una cultura in sinto-nia coi valori del Vangelo.

2.3. La chiave della proposta della castità

Nell’accompagnamento dei malati di Aids(forse in particolare nell’accompagnamentopastorale), spesso è necessario affrontare iltema della sessualità. Non di rado compare laparola “castità”, molto usata dal Magistero nelproporre un valore per prevenire l’infezioneda HIV. Ora, però, è necessario chiarire ilconcetto perché, frequentemente, nel gergocomune il significato di “castità” si confondecon quello di continenza.*

“Continenza” – che deriva dal latino “con-tenere” – significa trattenere, controllare condominio, indica lo stato di una persona checontrolla le proprie pulsioni sessuali. La casti-tà non deve essere confusa con la continen-za. Può capitare, come dice Thévenot28, cheuna persona eserciti la continenza (vale a di-re che, volontariamente, s’astenga da ognipiacere genitale orgiastico) ma non sia casta.

La castità indica la disposizione interioreche porta la persona a controllare la propriasessualità in maniera liberatrice per sé e pergli altri. Il termine castità, pertanto, non indicala volontà di superare o di negare la realtàsessuale, bensì il desiderio di controllare l’or-ganizzazione delle pulsioni sessuali parziali dicui è impregnata ogni persona. Essere casto,quindi, non significa lo sforzarsi nell’evitare la

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

24 Cfr. JONAS H., “The Imperative of Responsibility. In search of an Ethics of the Technological Age”. The Uni-versity of Chicago Press, Chicago/Londra, p. 11. Anche GRACIA D., “Fundamentación y enseñanza de la bioética”,Búho, Bogotá 1998, p. 129.

25 Cfr. GRACIA, D., “Bioética clínica”, Búho, Bogotá 1998, pp. 33 ss.26 Cfr. THÉVENOT X., “Pautas éticas para un mundo nuevo”, Verbo Divino, Estella 1988, p. 61.27 Cfr. CAMPS V., “Virtudes públicas”, Espasa Calpe, Madrid 1990, pp. 66-67.* Abbiamo scelto “continenza” per l’etimologia citata, invece di “temperanza” (N. del T.).28 THÉVENOT X., “Pautas éticas para un mundo nuevo”, o.c., p. 61.

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sessualità ma lo sforzarsi per accettarla inmaniera intelligente, qualunque sia lo statusdi vita in cui ci si trova e qualunque sia l’equi-librio umano che si riesce a stabilire. D’altrocanto, la finalità ultima di questo controllo del-la sessualità è eminentemente positiva: avereuna maggiore libertà. “Sarà casto il compor-tamento che porti la persona ad uscire dallostato d’indifferenziazione (‘incestuoso’) in cuisi trovava all’inizio della vita.”29

Thévenot presenta in maniera interessan-te il significato della castità quale rinuncia adun mondo senza difetti, vale a dire, l’accetta-zione nella propria vita della realtà del falli-mento e della morte, come rinuncia ad unmondo senza differenze («la castità è la virtùche fa ‘dell’altro, un altro’»), rinuncia ad unmondo d’onnipotenza, rinuncia ad identificar-si con la propria origine (con Dio, credendosiil creatore). Il desiderio d’essere casto signifi-ca amare, vivere il limite, creare delle diffe-renze, tentare di vivere la propria sessualitàquale modo per realizzare il proprio rapportocon le cose e con gli altri, avendo sempre inmente il limite che comporta e le differenzeche lo costituiscono.

La castità è un compito e non uno stato, apartire dal livello di sessualità che ognuno haraggiunto. C’è chi tenterà di realizzare questocompito a partire da strutture psico-sessualiparticolari e del tutto personali, come adesempio, partendo da “strutture” omosessua-li o da inibizioni personali.

“Comunque sia, ognuno, qualsiasi sia ilsuo stato psico-sessuale raggiunto, dovrà fa-re i conti con quelle particolarità. Talvolta que-sto lo porterà a superarle, quando possibile edesiderabile. Altre volte, invece, i soggetti do-vranno costruire la loro vita sessuale attraver-so l’ambivalenza delle loro particolarità ses-suali che non sono superabili. Penso, adesempio, alle persone omosessuali”.30

Seguendo l’autore che ci ispira, il signifi-cato cristiano della castità nasce dal convin-cimento che è possibile incontrare Dio sol-tanto se si prende atto veramente dell’uma-nità nella quale ci sono i sessi. Il testo, infat-ti, dove vediamo Adamo ed Eva nell’Eden ci

presenta i personaggi nella pienezza dellavita caratterizzata dal rispetto delle differen-ze e dei limiti reciproci: la differenza tra Dioe le creature, la differenza sessuale, vissutasenza vergogna, e la differenza tra gli alberi“permessi” e l’albero “proibito”. La vita uma-na in Dio è quindi “desiderare, riconoscendole differenze”. Porre fine alle differenze im-plica un nuovo rapporto con le realtà umane:con il lavoro, la fecondità e la sessualità, giànon umana.

Allora siamo lontani dal significato dellacastità a prima vista. Proporre la castità aimalati di Aids e a chi non è ammalato, qualepunto d’arrivo, come valore e come misurapreventiva, significa molto di più di proporrel’astinenza nei rapporti. Significa, principal-mente, testimoniarla nello stesso tempo in cuila si pone, vale a dire, accettare le differenze,mossi dal vero amore solidale.

In linea però con la presentazione di que-sto testo, vivere la castità non significherà se-pararsi dalla condizione di creature che han-no sesso; nemmeno vivere un aldilà escato-logico già perfettamente realizzato (volontàd’onnipotenza) nella realtà terrena. Si tratta diaccettare le differenze e di rispettarle. Perciò,la castità nella sessualità non porterà a che lapersona si confonda con il “diverso”, ma a ri-spettarlo come tale.

Certamente, quale misura di prevenzionedell’Aids, si propone anche la continenza nel-le relazioni che comportino rischio di contagioper se stesso o per altre persone. Inoltre, simantiene il valore della fedeltà al proprio/apartner, verso il/la quale c’è un impegno d’a-more che si comunica anche nella modalitàdella relazione sessuale.

In realtà, umanizzare la sessualità me-diante la virtù della castità significa presentar-la come l’armonia tra intimità emotiva, passio-ne erotica e impegno interpersonale.

Non esiste la coppia perfetta, ma indub-biamente ci sono dei segni di salute relazio-nale. Sternberg ha proposto la teoria del trian-golo dell’amore, che fa riferimento ai tre in-gredienti necessari affinché la coppia sia unluogo dove si costruisce la felicità. I tre ele-

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FR. JOSÉ CARLOS BERMEJO HIGUERA

29 Ibidem, p. 63.30 Ibidem, p. 70.

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menti debbono, in qualche modo, essere pre-senti in entrambi i membri della coppia.

Il primo elemento è l’intimità emotiva, ilpiacere e il benessere sperimentati nel condi-videre i sentimenti. Molto frequentemente, in-fatti, i partner delle coppie con problemi si la-mentano, dicendo dell’altro: “Non so cosasente, non mi comunica il suo pensiero”.

Compenetrarsi a livello emotivo significacomunicare apertamente ciò che si sente,creare un clima di mutuo scambio che va al-dilà dell’accordo sul ménage domestico e del-le questioni organizzative. L’intimità emotivasi muove a livello spirituale, generando la re-ciproca comprensione, tenerezza, fiducia, si-curezza, compagnia, stima, rispetto. L’intimitàemotiva si capisce dallo sguardo sereno, lim-pido e trasparente.

L’intimità emotiva non è un passeggerosentimento di benessere o il facile rifugiodalle proprie incertezze e vuoti. L’intimitàemotiva non si fonda necessariamente sullagenitalità, anzi, può essere libera d’ogni pas-sione erotica ed anche costruita con gli ami-ci intimi.

L’intimità emotiva nasce in chi ha fiducia inse stesso e cresce tra quelli che hanno unareciproca fiducia. Nasce protetta dall’ascoltoautentico e dall’accoglimento incondizionatodei sentimenti; accende un particolare calorenel cuore e si gode nella parola, nello sguar-do, nell’abbraccio, nel silenzio. L’intimità emo-tiva si crea un po’ per volta, e si ricrea inte-grando ed affrontando i conflitti, i quali si ri-solvono nell’accettazione delle differenze enel rispetto delle libertà.

Il secondo ingrediente della coppia sanaè, dice Sternberg, la passione erotica. Essainclude tutto ciò che è relazionato con il rap-porto sessuale, dal piacere genitale alle ca-rezze, a tutte quelle emozioni che si dannonell’intimità fisica; include l’allegria, l’orgo-glio e la soddisfazione e la gioia della reci-procità, il sapersi desiderato e apprezzato eil desiderio di compiacere l’altro attraverso ladonazione.

La passione erotica, quale ingrediente del-la coppia sana, sa di dialogo, di fiducia, di ri-spetto verso il ritmo dell’altro, di creatività, didialogo aperto ed esplicito sui gesti, sulle sen-sazioni, sui desideri e sulle aspettative.

La passione erotica è fuoco acceso; godeper la passione vulcanica e della delicata ca-

rezza; gusta la morbidezza della pelle ed ap-prezza la tenerezza e le buone maniere. Sismarrisce e vive intensamente perché godedella generosità senza misura. La passioneerotica ha un grande potere, ed è vissuta inmaniera salutare quando è condivisione chenon comporta né l’umiliazione dell’altro né lasua strumentalizzazione.

Il terzo ingrediente è l’impegno reciproco.Esso presuppone un coinvolgimento nelle con-seguenze di essere una coppia, suppone l’ac-cettazione della chiamata naturale sia alla suacondizione d'esclusiva sia all’apertura verso al-tre persone nella comunione reciproca.

L’impegno implica il lavoro in équipe, pro-getti condivisi, ricchezza e povertà personalimesse in comune, compiti divisi, servizi offer-ti senza fatture né ricevute.

L’impegno sa di solitudine e di comunio-ne, di libertà, di autonomia e di interdipen-denza, di guadagno e di perdita, di speranzae di pazienza, di ferite e cicatrici, di progettie fallimenti, di riuscite e d’umiltà, d’utopia erealismo.

L’impegno sa di fecondità, di continuitànella storia, di accoglimento di nuovi progettie di nuove libertà, integrati e rispettati nellacomunità della coppia.

Soltanto l’armoniosa presenza di questi treingredienti, seppure in intensità differenti evariabili nel processo di costruzione dellacoppia, fanno sì che questa sia un luogo disalute e di stabilità.

La castità, lungi da povere interpretazioni,se ben intesa, armonizza i tre ingredienti, ne-cessari alla coppia salutare.

A mio parere, il mondo sta conquistandola dimensione gioiosa e piacevole dell’eroti-smo e della sessualità, tuttavia non sempretrova dei referenti di valore capaci d’aiutarea vivere con libertà e responsabilità questadimensione tanto importante della vita dellapersona.

Il documento stilato dal gruppo di lavorodella Diocesi di Treviri, nel far riferimento aquelle coppie in cui uno dei suoi membri èsofferente di HIV, dice: “Si ha una problemati-ca particolare quando, in una coppia di sposi,uno dei due è sieropositivo. In questo caso,entrambi hanno la responsabilità in comunedi far sì che non avvenga il contagio del virus,ma nel contempo debbono fare in modo chela loro comunione coniugale non si veda irre-

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

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parabilmente compromessa e distrutta a cau-sa dell’Aids”.31

Uno dei compiti dell’accompagnamento aisofferenti di HIV consisterà nell’evitare l’infe-zione di altre persone. Molti di coloro i qualisono infetti però non cambiano il loro com-portamento a rischio. Perciò, l’operatore èchiamato a contribuire all’azione preventiva.Ci sono delle indicazioni su come procedereall’atto di comunicare la diagnosi affinché sieviti il contagio. Sono i suggerimenti del-l’OMS, volti ad aiutare le persone a modifica-re i loro modelli comportamentali che porte-rebbero ad infettare altre persone.32 Siamoconsapevoli, però, che molti degli infettati nonmodificano il loro comportamento, inficiandotali strategie. Educare ai valori costituisce unasfida di prevenzione.

2.4. La chiave dell’accompagnamento olistico

L’obiettivo di ogni accompagnamento pa-storale ai sofferenti non è altro che quello dicontribuire a far sì che il malato possa fare,nella misura possibile, esperienza di guarigio-ne integrale (Gv 10, 10).33

García Roca, uno studioso spagnolo deiprocessi d’esclusione ed emarginazione, halanciato l’ipotesi che l’esclusione sia il risultatodi tre processi sociali che hanno delle logicheproprie, il confluire di tre squarci con le loro re-lative trame.34 Il primo vettore è formato daelementi strutturali (dimensione economicadell’esclusione: carenza d’abitazione, lavoroinstabile, risorse economiche scarse o nulle).La maggior parte dei malati di Aids, infatti, pri-

ma di esserlo, patiscono le limitazioni dellapropria famiglia, sia per la scarsità degli introi-ti economici sia per le caratteristiche dell’abi-tazione e del quartiere in cui abitano, ecc.; echi è già colpito dalla malattia è escluso dallerisorse sanitarie secondo il grado di sviluppodel paese in cui si trova. Il secondo vettore ècostituito da elementi contestuali che si riferi-scono alla dimensione sociale dell’esclusione(il mondo relazionale della persona, l’inesi-stenza o fragilità di rapporti sani d’appoggio, lamancanza di punti di riferimento che possanorappresentare dei supporti, la debolezza deiservizi di prossimità o delle reti vicine d’ap-poggio). Con frequenza possiamo verificare lafragilità degli appoggi familiari dei malati diAids (o lo sono stati nell’età propria della pri-ma educazione); l’ambiente umano circostan-te non è favorevole, i rapporti tra i membri del-la famiglia spesso sono molto volatili, se noninesistenti. Il terzo vettore è dato dalla preca-rietà riguardo alla qualità del soggetto (gli ele-menti più soggettivi e personali dell’emargina-zione, la “precarietà culturale”35, la rottura d’al-cune comunicazioni, la debolezza delle aspet-tative, lo scoraggiamento e l’indebolimentodella fiducia, dell’identità e dell’autostima). Ilprocesso d’esclusione ed emarginazione ècontemporaneamente causa e conseguenzadi un deteriorarsi nella persona, nella capacitàdi fare una lettura obiettiva della realtà che lacirconda e di mettere in moto dei meccanismipropri che l’aiuteranno ad uscirne.

Da questa prospettiva, l’accompagnamen-to pastorale e la relazione d’aiuto36 hanno una

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FR. JOSÉ CARLOS BERMEJO HIGUERA

31 Gruppo di lavoro della Diocesi di Treviri, “Orientamenti sull’Aids”, in: BRUNELLI G. (a cura di), “Chiamati acompassione. Le chiese rispondono all’Aids”, EDB, Bologna 1990, pp. 173-174.

32 BAYES R., “Sida y psicología”, Díaz de Santos, Madrid 1995, p. 153.33 ALVAREZ F., “La experiencia humana de la salud desde una óptica cristiana”, in “Labor Hospitalaria”, 219

(1991), p. 33.34 GARCÍA ROCA J., “Contra la exclusión. Responsabilidad política e iniciativa social”, Sal Terrae, Santander

1995, pp. 9-15.35 Ibidem, p. 14, è interessante la riflessione sulla povertà d’informazione: “La povertà nell’informazione ha an-

che delle ripercussioni sulle restanti dimensioni della persona. In questo modo, il progresso della tecnologia del-l’informazione potrebbe far sì che colui che è ricco d’informazione diventasse ancor più ricco, approfondendo ilvuoto tra lui e chi è povero d’informazione. Ipotesi molto problematica, poiché i poveri d’informazione sono di so-lito anche quelli più depressi economicamente e culturalmente e i più bisognosi di quanto una migliore informa-zione potrebbe comportare. Di fronte a questa situazione, la riflessione di Luis Miguel Uriarte mette in risalto la di-mensione educativa degli interventi”. Cfr. URIARTE L. M., “Reflexiones sobre las autopistas de la información y lapobreza”, in “Dossier: Escuela de formación social”, Caritas, Madrid 1995, pp. 353-357.

36 Ultimamente ho fatto una riflessione sulla relazione d’aiuto e l’esclusione, in BERMEJO J. C., “Relación deayuda y marginación”, in “Camillianum” 20 (1999), pp. 279-296.

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grande importanza e possono incidere sui trevettori, in maniera che la persona possa rico-struirsi interamente (cfr. Gv 7, 23): è auspica-bile che l’intervento avvenga nell’ambito eco-nomico, lavorativo, abitativo, ecc., e nel mon-do dei rapporti e dell’immagine personale, co-sì che la salute generata nell’incontro sia du-ratura e non un mero palliativo. Dobbiamo te-nere presente l’importanza di questo inter-vento olistico (cfr. Mc 5, 1-20) in vista dellaprevenzione, giacché il portatore di HIV rap-presenta un eventuale agente d’infezione, so-prattutto in contesti e persone vulnerabili.

Così, la responsabilità di alleviare la soffe-renza del malato di Aids è nel contempo per-sonale e collettiva, perché la sofferenza provo-cata dalle variabili sociali ha molto di struttura-le e di comunitario, che attenta anche contro ilprincipio etico della giustizia. In questa manie-ra riusciamo più facilmente ed efficacementead “uccidere la morte evitabile” e ad eliminarela “morte sociale” che tanta sofferenza crea trai portatori di HIV. Altrettanta o ancor di più diquella del provocata dal virus stesso.37

Diciamo pure che un accompagnamentoolistico dovrà tener conto dell’importanza dellafamiglia del malato. Essa infatti soffre non sol-tanto perché ha in seno un malato ma,frequentemente, a causa dell’emarginazionesociale, dei sensi di colpevolezza,38 dello spez-zarsi dell’immagine che si erano fatti del loro fi-glio, ecc. In certe occasioni, sono anche rile-vanti i dilemmi etici che si prospettano attornoal rapporto della persona affetta da HIV e lasua partner, occasioni nelle quali l’agente dipastorale può rivestire un ruolo significativo.39

2.5. La chiave del supporto emozionale e spirituale

Siamo dell’idea che un accompagnamentopastorale alle persone colpite dall’HIV debbaispirarsi al mistero pasquale. In esso, le tre di-mensioni del tempo – passato, presente e fu-turo – si danno appuntamento in manieramolto particolare, ispirando l’azione ecclesia-le: il passato che si riassume, si ricorda, sirende vivo, il presente che è inondato dallapresenza del Signore e il futuro che si proiet-ta e si attende.40

• Accompagnare nella rappacificazionecon il passato

Una delle necessità basilari nei malati diAids è di far pace con la propria storia. Que-sta è una delle esperienze più comuni nellatappa finale della vita (lo sguardo indietro), enella malattia in generale (visto il misteriosorapporto tra l’esperienza della malattia e ilsenso di colpa).

Accompagnare a “ruminare” la propria sto-ria, forse a riflettere sulle pene in maniera nonsterile, ma nel tentativo di ritornare sui propripassi per riuscire a farsi carico e a dominaretutto ciò che si è vissuto, può contribuire a“sanare le proprie piaghe”41 e ad un processodi riconciliazione. “Ricordare il passato, puòaiutare a dare un nuovo senso al presente”42

curando i rapporti,43 là dove essi possano es-sere guariti.

Crediamo che l’accompagnamento me-diante l’ascolto abbia un valore mai sottoli-neato abbastanza. Accompagnare chi rac-conta la sua vita è un fatto carico di contenu-

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

37 BARBERO J., o.c., p. 36.38 AMIGO VALLEJO C., “El SIDA: una pastoral sanitaria especializada”, Siviglia 1998, p. 10.39 Cfr. BERMEJO J.C., “A Spaniard resists disclosing his HIV Status to his Girlfriend”, in KEENAN J.F., “Catholic

Moral Theologians in the service of HIV prevention” (in stampa).40 Cfr. MONGILLO D., “La malattia: esperienza da vivere e mistero da celebrare”, in “Camillianum” 2 (1990), pp.

339-341. G. POLICANTE, a proposito della pastorale con malati di Aids, scrive: “Io ho il fondato sospetto che certoricorso alle religioni abbia il sapore di un recupero in extremis di risorse che si crede di dover offrire perché altri-menti non si avrebbe altro da dare e da dire: una proposta religiosa tesa a colmare un vuoto, dunque, e non tesaa dar più sapore a qualcosa già esistente”. Cfr. POLICANTE G., “C’è una pastorale per i malati d’Aids?”, in “Insiemeper servire” 9 (1989), p. 22. Da ciò la necessità di fondare bene l’azione pastorale.

41 Cfr. VIMORT J., “Solidarios ante la muerte”, CCS, Madrid 1990, pp. 98-99.42 Astudillo W. – Mendinueta C., “El sufrimiento en los enfermos terminales”, in ASTUDILLO W. – MENDINUETA C.

– ASTUDILLO E., “Cuidados del enfermo en fase terminal y atención a su familia”, Eunsa, Pamplona 1995, p. 272.43 PASINI G., “La comunità cristiana di fronte all’Aids. Esperienze e prospettive d’impegno”, in AA.VV., “Aids,

una prossimità possibile”, Atti del Corso per la promozione e la formazione del volontariato, Milano, 30.X –18.XII.1997.

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to simbolico, perché raccontare la propria vitasignifica distinguere nel proprio passato ciòche è essenziale da ciò che è accessorio. Èpossibile, infatti, impiegare più o meno temponel raccontare un evento che nel viverlo. Ilracconto crea un’intelligibilità, dà un senso aciò che si fa. “Raccontare la propria vita dà adessa un senso”.44 Ne consegue l’importanzadell’accompagnamento personalizzato al ma-lato da parte dell’agente di pastorale e la rile-vanza dell’ascolto.

• Accompagnare a viverei valori nel presente

Laddove la sensazione di una perdita di fi-ducia in quello a cui si credeva cela la possi-bile scoperta di nuovi valori, l’agente di pasto-rale ha anche la sfida d’accompagnare il sie-ropositivo in maniera empatica – pur speri-mentando l’impotenza di non essere in gradod’annullare le cause della sofferenza –, per-correndo con lui un cammino verso la pazien-za, nuovo modo di sperimentare se stesso eatteggiamento libero verso l’inevitabile. La

pazienza comporta l’accettazione dei limiti; èun esercizio umile, ma fondamentale, d’acco-glimento della vita e di realizzazione di quelliche V. Frankl definisce i valori attitudinali45. Sitratta d’accompagnare ad adottare ciò cheTeilhard de Chardin chiama la “passività dicrescita”, facendo riferimento all’altro bracciocon cui Dio ci porta verso di sé, virtù che nonci rende passivi né ci aliena, bensì ci mette difronte alla possibilità di rispondere al proble-ma del senso.46

Dal punto di vista della fede, penso che lanecessità di purificare il linguaggio sulla sof-ferenza costituisca un’importante sfida all’in-terno della Chiesa. Questo ci fa essere testi-moni di un Dio dei vivi invece che di morte esacrifici. L’interessante diffusione della teolo-gia della riparazione, dell’espiazione, dell’of-ferta, ecc., frutto ancor oggi dell’influenza –tra gli altri – di Sant’Anselmo (1033-1109) fasì che numerose espressioni sembrino unaforma di dolorismo e certi schemi d’interpreta-zione teologica arrivino ad essere tradotti in

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44 MALHERBE J. F., “Hacia una ética de la medicina”, Paulinas, Santafé de Bogotá 1993, p. 73.45 Dice FRANKL: “Ciò che importa è l’atteggiamento con cui una persona va verso il destino inevitabile e im-

mutabile”. Cfr. FRANKL V. E., “Ante el vacío existencial”, Herder, Barcellona 1987, p. 34. cfr. Anche FRANKL V. E.,“Homo patients”, Salcom, Varese 1979, pp. 96-109.

46 In questo senso, a proposito del concetto di “abbandono di Dio”, scrive J. ALFARO: “Il termine abbandono dise stesso può suggerire un falso concetto della speranza cristiana, come se essa fosse un atteggiamento di pas-sività e di rinuncia a decidere e ad agire, lasciando solo a Dio l’opera della nostra salvezza. Proprio perché nellasperanza, l’uomo s’abbandona all’amore di Dio, dispone di se stesso nella decisione più impegnativa della sua li-bertà, che è il donare se stessi all’amore assoluto di Dio in Cristo. La speranza non esclude la decisione e l’azio-ne dell’uomo, bensì l’include e la esige”. ALFARO J., “Speranza cristiana e liberazione dell’uomo”, Queriniana, Bre-scia 1973, p. 41.

Rayong - Thailandia Operatori sanitarial Camillian Social Center

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proposte pastorali d’accompagnamento pocosane. Se c’è qualcosa da “completare” allapassione di Cristo (cfr. Col 1, 24) non sarà al-tro che l’apporto di maggiore amore – anchein mezzo al dolore – per l’instaurazione delRegno.47 Se c’è qualcosa da espiare, non sa-rà altro che il disporsi nell’atteggiamento di la-sciarsi riconciliare da un Dio tutto grazia.48

Secondo me, noi, comunità dei credenti, ab-biamo quest’importante sfida da affrontaresenza paura affinché il linguaggio sulla soffe-renza sia in sintonia con il Dio di Gesù Cristoe costituisca una sana proposta per chi viveafflitto dalla malattia.

Accompagnare a vivere in maniera saluta-re la sofferenza significherà anche prestareuna speciale attenzione agli innumerevoli con-flitti etici che emergono. Tra essi, si citano ladifesa del carattere confidenziale, la difesa diterze persone, qualora il malato non volessecomunicare lo stato di positività, la difesa deldiritto all’assistenza sanitaria, la difesa delprofessionista qualora egli non abbia delle mi-sure di protezione, l’accompagnamento ai pro-fessionisti che subiscono incidenti a rischio, laprevenzione, l’inaccettabile ingiustizia creatadalle differenze tra certi malati e altri al mo-mento d’accedere alle terapie oggi esistenti.

• Infondere speranzaLa presenza significativa, simbolica, sa-

cramentale, dell’agente di pastorale nei ri-guardi del malato di Aids dovrà essere, comemesso in evidenza da mons. Lehmann, unapresenza capace d’infondere speranza ma,

com’egli stesso annotava, non di una speran-za che passa sull’amara realtà della sofferen-za e della morte, bensì che sostenga la real-tà intera dell’essere umano sofferente.49

“Il ‘principio speranza’ in molti aspetti si ètrasformato in un’espressione di moda cheattrae e affascina tante persone proprio per-ché è mutevole ed ambigua. Le tentazionisono molteplici: si fa credere al malato che,malgrado tutto, gli sia possibile guarire; lo siconferma nell’aspettativa di una nuova medi-cina prodigiosa; si sorvola lo stato disperatodella sua attuale situazione, la si minimizza egli si promette la salvezza fuori della morte.Noi sappiamo però che molti malati di Aidshanno un imprescindibile bisogno di chiarez-za e verità. Desiderano parlare di questa ir-refrenabile realtà che li umilia così tanto. Dalì proviene una regola fondamentale perqualsiasi accompagnamento pastorale deimalati in generale e in particolare di quellisofferenti di Aids”.50

La speranza è vissuta dai malati di Aidscome forza interiore che dà senso e densitàal presente, un presente ferito dove però siscoprono, come abbiamo detto in preceden-za, valori e relazioni nuovi che permettono divivere con dignità nella precarietà delle con-dizioni alla quale molti di loro sono ridotti.51

Nel fondo, anche per tutti i cristiani, la spe-ranza è questa.

La speranza, infatti, non si limita ad indica-re la meta della fede, ma è la forza interioredella fede che fa sì che gli uomini camminino

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

47 Commentando Col 1, 24, dice F. VARONE: “Le sofferenze di Paolo non hanno in alcun modo un senso di ri-parazione complementare; si tratta delle sofferenze apostoliche sopportate ‘da voi’ (1,24), ‘dal suo Corpo, che èla Chiesa’ per annunciare Cristo in mezzo ai gentili (1, 27) (…). Non si tratta, dunque, di sofferenze da continua-re ad aggiungere incessantemente a quelle di Cristo sotto lo sguardo di un Dio implacabile”. Cfr. VARONE F., “Il Diosadico. Dio ama la sofferenza umana?”, Sal Terrae, Santander 1988, p. 237. “In senso rigoroso, il senso delle sof-ferenze consiste, dunque in ‘offrirgliele a Dio’. A nessuno possiamo offrire qualcosa se non si è convinti che quel-la data cosa gli faccia piacere, gli provochi gioia o l’arricchisca intimamente. Quando una persona soffre, per qual-siasi ragione, Dio non si compiace di questa sofferenza, bensì si compiace che attraverso la sofferenza, e mal-grado essa, quella persona cresca nel suo rapporto di ‘compagno’ con Cristo, nella sua capacità d’accogliere loSpirito e nella sua fede nel Creatore fedele, il Dio che genera la vita” (Ibidem, p. 243). Un linguaggio dolorista po-trebbe rendersi complice d’atteggiamenti passivi nella necessaria denuncia delle ingiustizie associate all’Aids enel suo stretto rapporto con la povertà.

48 Cfr. LÉON DUFOUR X., “Jesús y Pablo ante la muerte”, Cristiandad, Madrid 1982, pp. 21. 137, 202-203. Cfr.Anche VORGRIMLER H., “Il cristiano ante la muerte”, Herder, Barcellona 1981, pp. 75-76.

49 Cfr. LEHMANN K., o.c., p. 21950 Ibidem, p. 219.51 BERMEJO J.C., “La speranza nei malati di Aids”, in AA.VV., “Speranza, dove sei? Le immagini della speran-

za nel mondo della salute”, Camilliane, Torino 1995, p. 152.

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con Dio e s’impegnino a lavorare per il suoRegno.52 Le relazioni del presente, realizzate“nel nome del Signore”, sono anticipi del de-siderato rapporto con Dio, sono la sua realiz-zazione perché “gustarono la buona parola diDio e le meraviglie del mondo futuro” (Ebr 6,5).53 E non ci sarebbe motivo d’aspettarsimolto dal futuro se i segnali di speranza nonsi facessero visibili nel presente.54

Durante l’accompagnamento nella faseterminale, è importante che s’insegni a rinun-ciare alla guarigione, evitando così l’accani-mento terapeutico e quell’accanimento con-solatorio di cui talvolta è connotata l’azionepastorale.55 È altrettanto importante fare at-tenzione per non contribuire a ciò che po-tremmo chiamare l’“eutanasia sociale” nécontribuire alla morte relazionale (previa aquella biologica) o all’isolamento fisico edemotivo conseguente ad atteggiamenti cheevitano o sono incapaci di instaurare dei rap-porti attorno al malato che parla nella verità.56

2.6. La chiave dell’empatia

Nel fare riferimento all’accompagnamentopastorale ai sofferenti e quando parliamo del-la comunicazione interpersonale autentica, sifa sempre maggior riferimento all’atteggia-mento di empatia.

Disporsi in atteggiamento empatico versouna persona significa realizzare quel proces-so kenotico di disponibilità, d’ascolto attivo edi desiderosa comprensione che implica l’a-dozione di un punto di riferimento altrui, spo-gliandosi dai pregiudizi e disponendosi ad unaccoglimento impegnato.

Adottare l’atteggiamento empatico nei ri-guardi della persona e del complesso mondodell’HIV-Aids, ci potrebbe portare a:

– leggere la realtà a partire dalla realtà stes-sa, vale a dire, con una buona dose di rea-lismo e, quindi, di “precisione” nella perce-zione dell’individuo e del fenomeno incar-nato in ogni persona, in ogni gruppo, inogni cultura, nel mondo in generale;

– realizzare programmi di prevenzione ed’assistenza con e dall’ottica dei più vulne-rabili e colpiti;

– considerare che anche i programmi desti-nati a lottare contro la povertà (nelle suemolteplici manifestazioni) devono accetta-re la povertà quando essa si manifestasotto la forma del fallimento o dell’impossi-bilità d’ottenere tutto, evitando sia il desi-derio di perfezionismo che lascia fuori i piùdeboli, sia l’anticonformismo verso gli esitirealisti e possibili;

– vederci più uguali gli uni rispetto agli altri,riconoscendo la nostra medesima condi-zione umana ed imparando dalla propriavulnerabilità e dalle proprie cicatrici, per-ché siamo dei guaritori feriti;

– proporre degli obiettivi realisti che portanoalla radice dei problemi e conformi anchea ciò che è veramente raggiungibile, te-nendo conto degli aspetti culturali, dell’am-biente sociale e familiare, della strutturadella personalità, della storia d’ognuno, diquanto ognuno abbia interiorizzato i valori;

– lavorare dal basso, a partire dagli atteg-giamenti e dalle strutture che generano lecondizioni della vulnerabilità all’HIV, in vi-sta della trasformazione della realtà;

– lasciarsi interpellare dall’alterità, ascoltarlaed umilmente imparare da essa;

– capire i significati singoli delle esperienzedi chi è colpito dalla malattia e identificarele risorse di ognuno per promuovere almassimo possibile la salute fisica, psichi-ca, emozionale, relazionale e spirituale;

– confrontare quei comportamenti dei malatiche non sono salutari né per se stessi néper gli altri, soltanto dopo aver realizzatoun’accoglienza incondizionata della suapersona e dopo aver imparato l’arte di unapersuasione che non sia né manipolatricené coercitiva.

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FR. JOSÉ CARLOS BERMEJO HIGUERA

52 Cfr. HÄRING B., “Liberi e fedeli in Cristo”, II, Paoline, Roma 1980.53 Cfr. BOFF L., “Hablemos de la otra vida”, Sal Terrae, Santander 1979, p. 176.54 Cfr. NOUWEN H. J. M., “Ministero creativo”, Queriniana, Brescia 1982, p. 26.55 FASSINO S., “Aspetti psicologici dell’Aids”, in: GRILLONE V. – DAVANZO G. – FASSINO S., “Aids, prevenzione, cu-

ra, assistenza”, Camilliane, Torino 1991, p. 126.56 Cfr. SANDRIN L., “Iglesia, comunidad sanante”, San Pablo, Madrid 2001.

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Il disporsi in atteggiamento empatico impli-ca anche un costo personale perché l’ascoltoci fa entrare in contatto con la nostra vulnera-bilità; richiede un grado d’umiltà e di maturitàsufficienti perché i propri limiti, evocati nell’in-contro con l’altro, si trasformino in risorse(non siano dei blocchi o generino degli atteg-giamenti rigidi), aumentando la vicinanzaumana e generando una libertà di spirito.

Il disporsi in atteggiamento empatico versola persona affetta da HIV richiede che s’inse-gni a gestire con intelligenza emozionale emorale i sentimenti suscitati nell’incontro conla vulnerabilità, imparando l’arte di relaziona-re ciò che è razionale con l’emotività, i senti-menti e i valori.

Il disporsi in atteggiamento empatico pre-suppone il coraggio di avventurarsi gestendola paura della propria insicurezza e impoten-za, addentrandosi nel mondo interiore dell’al-tro, anche quando questo provoca vertigine.La passione per l’altro e l’interesse “disinte-ressato” per tutto ciò che preoccupa l’altrohanno una valenza educativa e terapeutica.

2.7. La chiave del dialogo e l’inclusione di chipuò restarne fuori

L’etica cristiana è un’etica di virtù, di su-perlativi. Si propone come un’utopia, comeun ideale che tende al maggior bene possibi-

le, accettando talvoltail male minore e pro-movendo dei pro-grammi che tendonoad accompagnare imalati affinché rag-giungano il massimoin salute anche nel-l’ambito morale.

In quella che Engel-hart ha chiamato unasocietà di “estraneimorali”, mi pare oppor-tuno che la Chiesa, neltentativo di essere ve-ramente significativa,accetti il dialogo con larealtà, contribuendo aldibattito sociale checerca una “etica deiminimi”. In questo sfor-zo, siano privilegiati la

deliberazione e il dialogo nella ricerca del be-ne, superando così la fallacia naturalista (dal“è” deriva il “deve”), e cercando timidamentela verità e ciò che è buono – o quello che èmeno cattivo –, specialmente nelle situazionidi conflitto etico.

Molti programmi assistenziali e d’integra-zione tendono ad ottenere il massimo benepensabile, e si può arrivare al paradosso percui talune persone restano escluse dai pro-grammi specifici intesi per promuovere l’inte-grazione. Fare pace con i limiti significa altre-sì accettare che si devono creare dei proble-mi per migliorare la qualità della vita, per ri-durre i rischi, per minimizzare i comportamen-ti disadattati o distruttivi, senza però aspettar-si di ottenere dei “santi perfetti”, usciti dallemani di cristiani benintenzionati che chiedonola conversione in cambio del servizio reso edell’assistenza.

2.8. La chiave dell’attenzione speciale ver-so la vulnerabilità aggiunta

Accompagnare a vivere la sofferenza inmezzo all’HIV-Aids in maniera sana richiedeun’attenzione particolare quando s’aggiungo-no alcuni aspetti come quelli associati allatossicodipendenza, all’omosessualità, allacondizione di consacrazione religiosa o sa-cerdotale del malato, ai bambini.

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

Rayong - Thailandia. Bambini del Camillian Social Center

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Accompagnare un sieropositivo con un’i-dentità personale molto definita da certe di-namiche personali, infatti, può significare af-frontare delle particolari sfide. Con l’avanzaredella malattia può capitare che l’adozione dicerte dinamiche e comportamenti non saluta-ri costituisca un fattore di soddisfazione in re-lazione con la sua percezione come malato.La qualità dei rapporti dell’agente di pastora-le, la fermezza nel credere e testimoniare chevale la pena di vivere in mezzo alle difficoltà,saranno motivo di confronto e stimolo nell’ac-compagnare – con la valenza educativa dellarelazione pastorale – a ricostruire l’identitàdel sieropositivo.57

Se la tendenza della persona infetta dal vi-rus è omosessuale, l’accompagnamento pa-storale dovrà essere attento anche a questoaspetto della personalità del malato e a quan-to esso implica nella sua percezione della ma-lattia. Certe indicazioni invitano a prendere co-scienza empaticamente, prima di una qualsia-si considerazione morale al riguardo, dellacomplessità e nel contempo della peculiaritàd’ogni caso. Invitare a ciò che effettivamente èpossibile, smascherare i falsi sentimenti di col-

pa, aiutare a evitare le reazioni di ghetto, ac-compagnare nel proprio modo di vivere la soli-tudine.58 È ovvio che “accogliere una personasofferente di Aids non significa approvare odisapprovare un determinato stile di vita, bensìdimostrare alla società il modello di quell’amo-re incondizionato che la Chiesa ha verso unapersona per la quale Cristo è morto”.59

Non vogliamo nemmeno dimenticare laparticolare sofferenza che accompagna lepersone affette da HIV quando essi sono deireligiosi consacrati, sacerdoti o candidati.60

Esistono alcune iniziative di riflessione e assi-stenza al riguardo.61 Ciò nonostante, la cono-scenza di quanto si pratica in alcune diocesi eistituti religiosi sul test dell’HIV prima d’am-mettere i candidarti, fa pensare alla necessitàdi criteri di riferimento che risultino da una se-rena ed aperta riflessione al riguardo.62

CONCLUSIONE

Oltre ad esperimentare soddisfazione egioia per quanto la Chiesa sta facendo per imalati di Aids, sia nell’ambito dell’assistenza,sia in quello della prevenzione e della “carità

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FR. JOSÉ CARLOS BERMEJO HIGUERA

57 Cfr. ZATTON GILLINI M.T., “Il momento educativo”, in GARGNEL – VICINI (a cura di), “Ricerca multidisciplinaresu Aids e tossicodipendenza. Problemi, esperienza, prospettive”, Queriniana, Brescia 1992, pp. 261-275. Cfr. an-che BERMEJO J. C., “Pastorale con i malati di Aids”, o.c., pp. 150-151.

58 Cfr. THÉVENOT X., “Principi etici di riferimento per un mondo nuovo”, Elle Di Ci, Torino 1984, pp. 62ss. Cfr.inoltre: BERMEJO J. C., “Pastorale con i malati di Aids”, o.c., pp. 140-149.

59 AA.VV., “Aids. Testimonianze e esperienze che interpellano i cristiani”, Queriniana, Brescia 1987, p. 193.60 AA.VV., “Farsi prossimi ai malati di Aids”, Elle Di Ci, Torino 1990, p. 45. In questo saggio è raccolto l’inte-

resse manifestato dalla Conferenza Statunitense dei Superiori Maggiori attorno al tema. Si raccolgono però piùinterrogativi che criteri per il discernimento.

61 Cfr. il documento: “The Gospel Alive. Caring for persons with Aids and related illnesses. A pastoral docu-ment”. Si consulti anche AA.VV., “Farsi prossimi ai malati di Aids. Assistenza ai malati di Aids e delle malattie cor-relate”, Elle Di Ci, Torino 1990.

62 Uno dei problemi specifici dell’Aids in relazione alla vita consacrata e il sacerdozio, infatti, è quello del testper i candidati ed i professi temporanei. Sebbene il Diritto Canonico parli di condizioni di salute fisica e mentale(c. 597 e 1.029), e vieti ai religiosi che abbiano contratto una malattia fisica o psichica dopo aver emesso i votitemporanei la possibilità di rinnovare i voti o di professarli perpetuamente (c. 689), sorgono degli interrogativi suicriteri in base ai quali includere il test di HIV tra le condizioni per l’ammissione dei candidati. Inevitabilmente na-scono degli interrogativi sulla motivazione del test, sul modo di farlo ottenendone un consenso consapevole e ri-spettando il carattere confidenziale dei risultati, così come sul peso decisivo o meno degli esiti riguardo all’am-missione, rifiutando l’ammissione ai sieropositivi. Cfr. SÁNCHEZ CARO J. – GIMÉNEZ CABEZÓN J. R., “Derecho y Si-da”, Papfre, Madrid 1995, p. 11 e 25. bisogna dire che a tutt’oggi in alcune Diocesi, ameno in Paesi africani, enelle Congregazioni religiose c’è l’esigenza di un test previo all’ammissione del candidato, rifiutandola a chi vie-ne trovato positivo. Cfr. KEENAN J. F., “HIV testing of seminary and religious-orders candidates”, in “Review ofReligious” n. 55 (1996), pp. 297-314. Abbiamo anche raccolto delle informazioni di prima mano da religiosi e sa-cerdoti di Kenya, Tanzania, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico, Burkina Faso. Il problema del test qua-le requisito nell’accettazione di una persona si presenta anche in alcune imprese che lo richiedono prima di as-sumere un dipendente.

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intellettuale”, bisognerebbe avere un udito at-tento per incidere su ciò che è veramenteprioritario.

Von Eiff e Gründel63 hanno detto che forsesiamo di fronte ad un sintomo di immuno-deficienza spirituale, espressione usata daGiovanni Paolo II, ma io credo che bisogne-rebbe centrare la riflessione su tutti i valorievocati e le reazioni scatenate dall’Aids, nonsolo su come si contagia. In questo modos’interpellerebbero le riflessioni attorno allasofferenza, la prevenzione, la giustizia, la re-sponsabilità nei rapporti interpersonali, l’edu-cazione, anche le dichiarazioni stesse, dellediverse richieste del Popolo di Dio che, senon sono bene centrate, potrebbero patire diquella patologia spirituale.

Di fronte a questa situazione, non possia-mo fare a meno d’associarci all’appello di al-cuni vescovi che premono per un’appropriata

preparazione degli agenti di pastorale che la-vorano con questi malati.64

Voglia Dio che le riflessioni fatte qui appor-tino qualcosa allo sforzo di porre sempre “piùcuore nelle mani”, come amava dire San Ca-millo ai suoi seguaci nell’appassionante in-contro con i malati. E aggiungerei anche “piùcuore nelle menti” nel pensare all’Aids.

Anche i sofferenti di Aids, nel lasciarsi vo-ler bene e curare, ci ricordano che è possibi-le essere un agente evangelizzatore dalla“cattedra della sofferenza”, poiché si è fer-mento d’amore in mezzo al dolore.

Per concludere, parafrasando mons.Oscar Romero, diciamo che “la Chiesa tradi-rebbe il suo stesso amore a Dio e la sua fe-deltà al Vangelo se smettesse d’essere vocedi chi non ha voce”.65 Molti malati di Aids oltrea non aver voce potrebbero essere conside-rati come membri dei gruppi crocifissi.

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Assistenza pastorale ai malati di HIV-AIDS

63 VON EIFF A. W., - GRÜNDEL J., “El reto del Sida”, Herder, Barcellona 1988, p. 111. Gli autori dicono: “D’altrocanto, ci si domanda: l’Aids, come immunodeficienza acquisita di fronte alle piccole infezioni, è forse un sintomodi un’immunodeficienza spirituale più profonda?”.

64 Cfr. AMIGO C., “El Sida: una pastoral sanitaria especializada”, s.e., Siviglia 1988. L’arcivescovo di New York,personalmente impegnato nell’assistenza ai malati, ha affermato che, a causa dell’ “allarmante situazione che sista vivendo per la Sindrome d’Immunodeficienza Acquisita (Aids), tutti i sacerdoti e le religiose dovranno render-si capaci nel trattamento specifico ed adeguato dei sofferenti di questa malattia”. Cfr. “Vida Nueva”, 1988 (1.630).anche la Conferenza dei Vescovi Cattolici del New Jersey, 18 giugno 1987, in Brunelli G., o.c., p. 123.

65 Cfr. MONS. OSCAR ROMERO, “Quarta Lettera Pastorale”.