cultura DOMENICA 2011 di JONATHAN SAFRAN FOER...

14
DOMENICA 19 GIUGNO 2011/Numero 331 D omenica La di Repubblica le tendenze Josephine Baker e il tempo delle piume LAURA ASNAGHI e LAURA LAURENZI spettacoli Officina Ronconi, “Sotto il testo niente” ANNA BANDETTINI cultura Safran Foer, un americano a Praga JONATHAN SAFRAN FOER i sapori La madre di tutte le ricette LICIA GRANELLO e FRANCESCO MERLO l’incontro Enzo Maiorca, “Ora sto a testa in su” ENRICO BELLAVIA l’attualità 1951-2011, l’umanità in fuga ADRIANO SOFRI WU MING 2 PÀVANA (Pistoia) «I montanari sono come i marinai: girano il mondo, ma poi, quando viene il momento, tornano a casa». Parola di Francesco Guccini, che dalla storica via Paolo Fabbri 43, nel quartiere Cirenaica di Bologna, ormai da una decina d’anni si è trasferito a Pàvana, sull’Appennino pistoiese, vicino al mulino di famiglia di tanti libri e canzoni. Ci ho messo del tempo per trovare l’avita dimora, perché il numero civico che mi hanno indicato sta di fianco al vecchio portone, invisibile dal- la strada, mentre sul cancello d’ingresso ce n’è un altro, tutto diver- so. Che sia un’antica trappola per scoraggiare i forestieri? Giù in città c’è chi sarebbe pronto a scommetterci, perché la mon- tagna, vista da sotto, pare sempre un rifugio da eremiti, un nido d’a- quila per misantropi e solitari, mentre nei sei romanzi che Guccini ha scritto con Loriano Macchiavelli, l’Appennino è sempre un luo- go di incontri, una società complessa e nera quanto quella di pianu- ra. Anche Macchiavelli ha vissuto l’infanzia da queste parti, poi è sce- so in città e solo molti anni dopo è tornato a vivere in quota. (segue nelle pagine successive) MICHELE SERRA G li Appennini sono un rastrello interminabile di bas- se vallate, una via l’altra dalla Liguria a Scilla. La dif- ferenza fondamentale con le Alpi è il turismo quasi assente: qualche seconda casa, un po’ di trekking, gente a cavallo, osterie dalla cucina robusta, rare piste da sci poco as- sistite dalla neve non sono bastati a bilanciare l’esodo di massa del dopoguerra. Di ogni paese (Pàvana inclusa) si leggono cifre impres- sionanti, con le migliaia di abitanti che sono diventate centinaia. Qui c’era la scuola, qui l’ambulatorio, qui una segheria, ora le ortiche e la vitalba si mangiano pietre e mattoni. L’abbandono è il segno domi- nante degli Appennini, disgrazia e fortuna. La sensazione del tempo immobile esalta oppure opprime, a seconda di quello che si cerca. Il colpo d’occhio è spesso ombroso fino alla cupezza: difficile imbat- tersi nei paesaggi luminosi dei colli toscani, o della Langa. Si può camminare giornate intere senza incontrare un’anima, sapendo che a parte le robinie (immigrate da un paio di secoli) e la lince (scom- parsa), vegetazione e fauna sono quasi le stesse di sempre. (segue nelle pagine successive) “Le mie montagne di vecchio e di bambino” Nella sua casa di Pàvana il cantautore racconta il ritorno alle radici Guccini La ballata dell’Appennino FOTO ALBERTO CONTI/CONTRASTO Repubblica Nazionale

Transcript of cultura DOMENICA 2011 di JONATHAN SAFRAN FOER...

DOMENICA 19GIUGNO 2011/Numero 331

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenze

Josephine Baker e il tempo delle piumeLAURA ASNAGHI e LAURA LAURENZI

spettacoli

Officina Ronconi, “Sotto il testo niente”ANNA BANDETTINI

cultura

Safran Foer, un americano a PragaJONATHAN SAFRAN FOER

i sapori

La madre di tutte le ricetteLICIA GRANELLO e FRANCESCO MERLO

l’incontro

Enzo Maiorca, “Ora sto a testa in su”ENRICO BELLAVIA

l’attualità

1951-2011, l’umanità in fugaADRIANO SOFRI

WU MING 2

PÀVANA (Pistoia)

«Imontanari sono come i marinai: girano il mondo,ma poi, quando viene il momento, tornano a casa».Parola di Francesco Guccini, che dalla storica viaPaolo Fabbri 43, nel quartiere Cirenaica di Bologna,

ormai da una decina d’anni si è trasferito a Pàvana, sull’Appenninopistoiese, vicino al mulino di famiglia di tanti libri e canzoni. Ci homesso del tempo per trovare l’avita dimora, perché il numero civicoche mi hanno indicato sta di fianco al vecchio portone, invisibile dal-la strada, mentre sul cancello d’ingresso ce n’è un altro, tutto diver-so. Che sia un’antica trappola per scoraggiare i forestieri?

Giù in città c’è chi sarebbe pronto a scommetterci, perché la mon-tagna, vista da sotto, pare sempre un rifugio da eremiti, un nido d’a-quila per misantropi e solitari, mentre nei sei romanzi che Gucciniha scritto con Loriano Macchiavelli, l’Appennino è sempre un luo-go di incontri, una società complessa e nera quanto quella di pianu-ra. Anche Macchiavelli ha vissuto l’infanzia da queste parti, poi è sce-so in città e solo molti anni dopo è tornato a vivere in quota.

(segue nelle pagine successive)

MICHELE SERRA

Gli Appennini sono un rastrello interminabile di bas-se vallate, una via l’altra dalla Liguria a Scilla. La dif-ferenza fondamentale con le Alpi è il turismo quasiassente: qualche seconda casa, un po’ di trekking,

gente a cavallo, osterie dalla cucina robusta, rare piste da sci poco as-sistite dalla neve non sono bastati a bilanciare l’esodo di massa deldopoguerra. Di ogni paese (Pàvana inclusa) si leggono cifre impres-sionanti, con le migliaia di abitanti che sono diventate centinaia. Quic’era la scuola, qui l’ambulatorio, qui una segheria, ora le ortiche e lavitalba si mangiano pietre e mattoni. L’abbandono è il segno domi-nante degli Appennini, disgrazia e fortuna. La sensazione del tempoimmobile esalta oppure opprime, a seconda di quello che si cerca. Ilcolpo d’occhio è spesso ombroso fino alla cupezza: difficile imbat-tersi nei paesaggi luminosi dei colli toscani, o della Langa. Si puòcamminare giornate intere senza incontrare un’anima, sapendoche a parte le robinie (immigrate da un paio di secoli) e la lince (scom-parsa), vegetazione e fauna sono quasi le stesse di sempre.

(segue nelle pagine successive)

“Le mie montagnedi vecchio e di bambino”Nella sua casa di Pàvana

il cantautore racconta

il ritorno alle radici

GucciniLa ballata dell’Appennino

FO

TO

A

LB

ER

TO

CO

NT

I/C

ON

TR

AS

TO

Repubblica Nazionale

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19GIUGNO 2011

la copertinaFrancesco Guccini

Fatica, silenzio. Ma anche storie di Resistenzae migrazioni tante volte cantate, oppure scrittenei romanzi insieme a Loriano MacchiavelliNella casa d’infanzia il cantautore raccontaa un cronista d’eccezione delle sue vette,forse non le più alte ma tra le più umane

(segue dalla copertina)

«ABologna», rac-conta, «quan-do discuto congli amici, vasempre a finireche mi dicono

“T’î pròpi un muntanèr!”, dove per mon-tanaro si intende conservatore, testardo.Ma io ormai non mi offendo più». Ci ac-comodiamo nella grande cucina con ca-mino di casa Guccini, intorno a un lungotavolo di legno, con una brocca d’acquadi fonte a riempire i bicchieri e la gattaMenica che ci zompa sulle ginocchia. Lospunto iniziale della chiacchierata sonoi luoghi comuni sulla vita in montagna,l’idea che avvicinarsi ai crinali significhiallontanarsi dalla società, ritirarsi in unguscio fatto di boschi e solitudine.

Anche di Tiziano Terzani si sente spes-so dire che «si ritirò all’Orsigna», a mezzagiornata di cammino dalla Pàvana diGuccini, ma quando lo incontrai daquelle parti, non mi sembrò affatto unuomo ritirato. Si faceva chiamare Anam,cioè senza nome in sanscrito, ed erava-

mo per questo quasi omonimi (Wu Mingsignifica senza nome in cinese mandari-no). Il vestito e la barba bianca eranoquelli di un eremita, ma poi ti sedevi conlui a bere e ti rendevi conto che il grandegiornalista era tutt’altro che lontano dalmondo. Ricordo un partigiano che ave-va combattuto nella valle del Senio equando parlava di quei mesi in monta-gna mi diceva che sì, sembrava di essereun gruppo di monaci guerrieri, in unostrano romitaggio fatto di rifugi e imbo-scate, però lo sapevi bene che stavi com-battendo una guerra mondiale e che daltuo angolo di montagna, grazie alla co-noscenza del territorio, avresti dato unamano a buttare il fascismo nella pattu-miera della Storia.

«Qui a Pàvana», racconta Guccini, «laResistenza c’è stata pochissimo. Gliamericani sono arrivati nell’ottobre del’44 e giù al mulino avevano messo quat-tro carrarmati. La mattina scendevano,sparavano qualche colpo e poi tornava-no su, come se fossero stati in ufficio. Ibossoli erano belli grossi, d’ottone: unpaio li hanno pure intagliati e adesso ser-vono come vasi sull’altare della chiesa».

Ma se in altri paesi d’Italia l’arrivo de-gli americani durante la Seconda guerramondiale viene ancora ricordato comeuna specie di sbarco alieno, a Pàvana gliyankee erano già di casa: «Molti pavane-si sono finiti negli Stati Uniti a fare i mi-

natori di carbone, e hanno fatto figli chenoi chiamavamo Edi o Eri, ma poi sco-privi che i veri nomi erano Eddie e Henry.Gente che non aveva mai messo il nasofuori dal paese andava a imbarcarsi a Na-poli, Genova, Le Havre». Guccini non lodice, ma in questo profilo da emigrante èfacile riconoscere lo zio Merigo di Cròni-che Epafàniche, ovvero l’Amerigo dellanota canzone, quello che «probabil-mente uscì, chiudendo dietro a sé, la por-ta verde». E in effetti una porta verde c’è,affacciata sulla corte dove abbiamo par-cheggiato, anche se «quella era la fale-gnameria di un cognato dei miei, brucia-ta dai fascisti. La porta di Amerigo stavagiù al mulino, ma dire che era verde è co-me dir nulla, perché qua le porte eranotutte verdi e quelle che non lo sono più, èper via del tempo o dei restauri».

«Appena arrivati in America», conti-nua Guccini, «gli emigranti di Pàvana sicompravano un revolver, tutti quanti, espesso entravano nelle fila di un’associa-zione anarchica, la “Giordano Bruno”.Poi, quando il lavoro finiva, tornavanoqua, e l’avventura oltreoceano la mette-vano da parte, come un capitolo chiuso.Giusto il revolver, gli restava, e qualchesoldo in tasca».

Eppure, a guardare i numeri, molti diquesti montanari giramondo hanno vol-tato le spalle per sempre ai loro luoghid’origine: dal 1911 a oggi, il comune diSambuca Pistoiese, dove si trova Pàvana,è passato da 7.400 abitanti a poco menodi 1.500. «Mia sorella», commenta Mac-chiavelli, «quando venimmo via da Piop-pe di Salvaro per andare a Bologna, disseche lassù non voleva più metterci piede.Aveva un odio viscerale per quella vitascomoda. Poi, col salto di un paio di ge-nerazioni e il riscaldamento a gas che èarrivato dappertutto, molte famiglie sisono decise a tornare». Negli ultimi tem-pi, infatti, altri comuni appenninici regi-strano un saldo demografico positivo euna febbre edilizia più contagiosa che inpianura. Coppie giovani, immigrati,professori col posto in provincia, inver-tono la tendenza allo spopolamento deimonti. come già fecero gli Elfi, a Sambu-ca, ristrutturando antichi borghi abban-donati, in cerca di un’esperienza di vitacomunitaria e autosufficiente. «Sonopassati trent’anni», racconta Guccini,«eppure la gente diffida ancora. “Eh, machissà i bimbi di chi son figli. Eh, le dro-ghe. Ma poi non muoiono mai? Forse liseppelliscono e non li denunciano, co-me i cinesi...” È che i montanari, perquanto abbiano viaggiato, restano sem-pre guardinghi nei confronti dei forestie-ri. Pensa che di là dal torrente Limentra,

La casa sul confine della sera / oscura e silenziosase ne sta, / respiri un’aria limpida e leggera /e senti voci forse di altra età‘‘

“Siamo marinaiapprodati sui monti”

WU MING 2

Da Radici

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 19GIUGNO 2011

una volta ci abitavano dei contadini,gente che coltivava la terra per sopravvi-vere, ma questo già li rendeva strani, agliocchi dei montanari, perché qui c’eranoi castagni e di là le viti. Era gente più riser-vata, più raccolta: i contadini sì, che si at-taccano alla terra. E infatti gli avevanopure affibbiato un soprannome dispre-giativo, “gli spinaioli”, perché tra uncampo e l’altro su quel versante cresce-vano gli spini, i rovi, mentre nei casta-gneti si tiene tutto pulito, per facilitare laraccolta».

Faccio notare che allora c’è del vero,nell’icona popolare del montanaroscontroso, che non ama gli intrusi. «Dal-le nostre parti», risponde Macchiavelli«quelli che arrivano dalla città li chiama-no “becca aria”, perché hanno il cultodell’aria buona, però gli manca la cultu-ra della montagna. Il motto dei becca ariaè vengo, vedo, compro, faccio come mipare. Si costruiscono ville che sembranotransatlantici. Luci dappertutto, fari, al-larmi e novanta chilometri al giorno inauto, per fare i pendolari con Bologna».

Chissà se i becca aria esistono anchesulle Alpi. Il fatto è che l’Appennino ge-nera meno rispetto. Le Alpi, con le loro ci-me aguzze, incutono timore. La diffe-

renza tra gli animali totemici dei due ter-ritori parla da sé: quello dell’Appenninoè il cinghiale, una specie di porco con lezanne che grufola nel fango, mentre leAlpi hanno la nobilissima aquila, il leg-giadro camoscio. Le Alpi toccano il cielo,sono iperuranie e spirituali. L’Appenni-no è più basso, terragno, spurio.

Sarà anche per questo che sulle Alpi, inVal di Susa, il treno ad Alta Velocità nonriesce ancora a sfondare le proteste e gliscudi umani, mentre sull’Appennino to-sco emiliano lo scavo delle gallerie è an-dato avanti senza grandi opposizioni,finché non ci si è trovati di fronte a danniirreparabili. Strano, per una montagna lacui storia è legata a doppio filo con la Re-sistenza, che in quei boschi trovò l’armain più per combattere il nemico. Del re-sto, solo una retorica da quattro soldi di-pinge i valsusini come montanari ottusi,egoisti, che vogliono essere «padroni acasa loro». In realtà, la forza del movi-mento No Tav sta nella competenza dif-fusa e nell’aver saputo coinvolgere an-che la gente di pianura. Nulla di simile èaccaduto tra Bologna e Firenze, perché ledue città voltano le spalle all’Appennino,lo considerano un ostacolo alla viabilitàe semmai un luogo di villeggiatura “mi-

nore”, per anziani in fuga dal caldo. I bo-lognesi hanno sempre preferito Cortinaa Porretta Terme.

«A interessarci di questi paesi siamogiusto un paio di sciagurati», osservaGuccini. «Abbiamo recuperato il dialet-to, ma quello vivo non lo parla più nessu-no. Questa è una zona di intrecci, discambi e immigrazioni. Da bambino ionon me ne accorgevo, ma molte pavane-si, in realtà, erano sarde, perché i nostrimontanari andavano in Sardegna a farei carbonai e poi tornavano a casa conqueste donne, che si vestivano con sot-tanoni mai visti e per dire “chiudi la por-ta” dicevano “tanca sa janna”».

«Quando sono andato a stare a Mon-tombraro», aggiunge Macchiavelli, «c’e-ra un’anziana che era la memoria delborgo. Ci raccontava storie che davanoun senso ai luoghi. Non c’entra la nostal-gia o il culto del tempo andato: solo se ri-cordi puoi difendere un territorio, per-ché sai cosa significa. Nel 1325, a Zappo-lino, dove inizia la salita per Montom-braro, ci fu una grande battaglia tra mo-denesi e bolognesi. Gli storici dicono chefu la più cruenta e sanguinosa di tutto ilMedioevo, e il luogo si chiama ancoraPrato dei morti, ma adesso ci stanno co-

struendo tre villaggi: con la banca, con ilsupermercato, e hanno potuto farlo per-ché nessuno ne sa più nulla».

Mi viene da pensare a Luciano Bian-ciardi, che negli anni Cinquanta si entu-siasmava per la marcia vittoriosa dellacittà contro la campagna e non soppor-tava le ubbie passatiste degli storici loca-li e degli archeologi eruditi, con i lorococci e i loro buccheri. Mi chiedo se oggi,dopo la vittoria definitiva dell’urbaniz-zazione, non sarebbe disposto anche luia rivalutare la memoria dei luoghi, noncome tradizione da mettere sottovetro, oda evocare a scopo elettorale, ma comeantologia di storie, ibrida e cosmopolita,resistente e cocciuta come certi monta-nari, che dopo aver girato il mondo ritor-navano, con i loro figli ormai stranieri, aicastagni dell’Appennino.

«Ma io sono tornato tardi», concludeGuccini mentre si avvicina l’ora di cena,«e tante cose che facevo d’estate, non lefaccio più. Da ragazzino, appena arriva-vo, subito mi mandavano a tagliare il gra-no, in canottiera, e mi prendevo certescottate che poi bisognava metterci so-pra l’albume d’uovo sbattuto con l’olio.Adesso, uno dice l’orto, l’orto, ma l’ortome lo devono fare gli altri, perché la terraè bassa e l’età è alta, oramai. Come lemontagne».

© 2011 Wu-Ming 2 / Agenzia Santachiara

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’EVENTO

Montagna, letteratura e avventura: questi i temi portanti

della quinta edizione di Lago Maggiore LetterAltura,

dal 22 al 26 giugno a Verbania e nei weekend successivi nelle valli

Antrona (1-3 luglio), Antigorio e Formazza (8-10 luglio), Vigezzo

(16-17 luglio). Francesco Guccini interverrà sabato 25 giugno

per parlare dei suoi Appennini, raccontati nel romanzo

Malastagione (Mondadori), scritto con Loriano Macchiavelli

Venerdì 24 Wu Ming 2 narrerà il suo viaggio a piedi da Bologna

a Firenze lungo il percorso della Tav, tema del suo ultimo libro

Il sentiero degli dei (Ediciclo)

Tutto il programma su www.letteraltura.it

Piccola città, vecchi cortili, / sognie dei primaverili, rime e fedi giovanili, /bimbe ora vecchie ‘‘

E Pàvana un ricordo lasciato tra i castagnidell’Appennino, / l’inglese un suono stranoche lo feriva al cuore come un coltello

La fuga discreta dei nati in cittàMICHELE SERRA

(segue dalla copertina)

Come ci si perde in Appennino non ci si perde da nessuna parte, senza alte vette a fare da bussola allo sguar-do, e in una vastità di boschi e di calanchi poco antropizzata e solcata da strade vecchie e strette. Ma al-l’alba o al tramonto, al margine dei campi di erba medica o delle faggete, qui è consueto incontrare l’i-

strice, il tasso, il cinghiale, la volpe, il capriolo, il daino, il cervo, il ghiro, lo scoiattolo, la donnola, la faina, e se haifortuna anche il lupo, che dagli Abruzzi ha compiuto in una ventina d’anni il suo viaggio di ritorno.

Non so cosa sarebbe della fauna selvatica italiana senza gli Appennini. Semi-abbandonati dall’uomo, sonotornati la patria delle bestie. L’uomo per ultimo cerca di risalire i crinali dai quali i nonni fuggirono per povertàe per voglia del moderno. Gli esiti non sono sempre fausti. Per ogni castagneto recuperato alla produzione, perogni casale di pietra ristrutturato a regola, ci sono dieci villette geometrili di quelle che ispirarono a Gadda leacri pagine sull’architettura brianzola. Il muro di sasso, che dell’estetica appenninica classica è l’elemento dibase, comincia solo negli ultimi anni a tornare d’uso comune, dopo mezzo secolo di desuetudine perché le ca-se di sasso ricordavano fame, freddo, buio, l’umidità che storce le ossa, il nerofumo.

È frequentissimo vedere la vecchia casa di sasso abbandonata al suo destino, e a fianco la casa nuova, iden-tica a quelle delle periferie di città, con gli infissi in alluminio, il portico bianco ad archi, e certi intonaci lustriche li vedi a chilometri di distanza. Mentre il sasso lo vedi solo quando gli sbuchi davanti, è mimetico, è essostesso Appennino. I cittadini che risalgono per cercare un nuovo rifugio e a volte un nuovo destino devono fa-re attenzione a non offendere gli indigeni, ai quali le case nuove paiono linde e decorose quanto quelle vecchieparevano muffite e malsane. Si impara la delicatezza, si impara a tenere sotto controllo l’alterigia dell’inurba-to che risale a dare lezioni e a far valere il reddito superiore. I più fortunati, come Guccini, hanno già nei ricordid’infanzia, nel Dna montanaro, la chiave per farsi accettare come «uno di qui». I nati in città come me cercanodi fare poco rumore e non farsi notare troppo, se non vogliono spaventare le bestie e indisporre i nativi, che so-no a casa loro, perdinci, e ti accettano solo quanto ti vedono con la schiena piegata a pulire l’orto, o con il dece-spugliatore a tracolla, a battagliare con il rovo e la vitalba, e con la spalla che duole per la fatica.

FO

TO

B

RE

SC

IA O

GG

I

FO

TO

A

LB

ER

TO

CO

NT

I/C

ON

TR

AS

TO

‘‘

© RIPRODUZIONE RISERVATA

approdati sui monti”

FO

TO

P

HO

TO

MO

VIE

IERI E OGGIIn alto, Francesco

Guccini con i genitori

da bambino

Nelle altre fotografie

e in copertina,

il cantautore oggi

nella sua casa

di Pàvana

Da AmerigoDa Piccola città

Repubblica Nazionale

l’attualità32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19GIUGNO 2011

EsodiIl 20 giugno di sessant’anni fa veniva istituito lo statusdi “rifugiato” per le vittime di guerre, persecuzioni, disastriDa allora cinquanta milioni di persone hanno trovato asiloAlla vigilia della Giornata mondiale, dai prigionieridei campi nazisti ai “clandestini” di Lampedusa, le fotodell’archivio Acnur sono il ritratto di un’umanità in fuga

uando toccò a lui compilare il documento di ingresso negli Stati Uniti,Albert Einstein rispose alla domanda: Razza, scrivendo: Umana. L’a-neddoto famoso è ancora e ancora citato perché la terra non smette diessere attraversata da creature di razza umana cacciate dalle guerre, daipregiudizi, dalla cattiveria e la stupidità dei loro simili e dalle catastroficapricciose della natura. Diventa sempre più difficile, del resto, separa-re i disastri di mano umana da quelli naturali, e il numero crescente diprofughi per effetto del cambiamento climatico è una misura da op-porre a chi non vuole riconoscerlo.

All’indomani della Prima Guerra, la Società delle Nazioni nominò ilnorvegese Fridtjøf Nansen, scienziato, esploratore e diplomatico, Altocommissario per l’assistenza ai milioni di profughi dalla Russia diven-tata sovietica e agli armeni scampati al genocidio turco. Nansen ideò, efece riconoscere da un numero crescente di Stati, uno speciale passa-porto che prese il suo nome, Passaporto Nansen, e ridiede un’identitàa centinaia di migliaia di apolidi, compreso quel Vladimir Nabokov chelo ribattezzò con un’amara ironia «Passaporto Nonsense». All’indoma-ni della Seconda Guerra altri milioni di profughi attraversavano l’Euro-pa e il resto del mondo. Lo status dei rifugiati fu definito dalla Conven-zione di Ginevra del 1951. Da allora, esattamente sessant’anni fa, le Na-zioni Unite hanno un’organizzazione che si occupa dei rifugiati e poidegli sfollati di guerre persecuzioni e disastri naturali, l’Unhcr (o Acnur,Alto commissariato per i rifugiati). Ai rifugiati è dedicata una giornatamondiale, il 20 giugno di ogni anno. L’Unhcr valuta di aver assistito, daallora, oltre cinquanta milioni di persone, e di assisterne oggi poco me-no di trenta milioni.

I nomi coi quali vengono designate, dai più nobili ai più oltraggiosi,segnano una specie di scala Mercalli della sofferenza: esuli, profughi, ri-fugiati, apolidi, asilanti, displaced persons — spostati, gente senza luo-go — sfollati e infine, il neologismo più sbrigativo, clandestini. Passeg-geri non autorizzati e non paganti a bordo di una nave riservata e infa-stidita. Il soccorso ai rifugiati si scontra ora con un amaro paradosso. Silamentava che troppo spesso i migranti “economici” (formula scaden-te, perché è di un’altra vita che vanno in cerca) usurpassero il titolo di ri-fugiati. Ma oggi è l’avversione incattivita contro i migranti a coinvolge-re sempre più chi ha diritto alla protezione internazionale. È di ieri —esca da vigilia di Pontida — l’annuncio che il tempo di detenzione neiCie di persone che non hanno commesso alcun reato e sono arrivate ir-regolarmente nei nostri confini sarà prolungato dai sei mesi attuali, du-rata già feroce, a un anno e mezzo.

È una corrente, quella dei profughi, che non si interrompe mai. Oggiè l’altra faccia della primavera araba — dalla Libia alla Tunisia e all’E-gitto, dalla Siria alla Turchia e all’Iran, dallo Yemen ai paesi d’origine,decine di migliaia. Milioni, dall’Afghanistan in Pakistan e in Iran, o nelcuore dell’Africa. Campi provvisori che diventano eterni, per i Saharawidel Sahara occidentale, nella Giordania e nel Libano dei palestinesi, nelBangladesh (dieci milioni di profughi bengali riversati in India nel solo1971). Oppure storie individuali, dissidenti politici, discriminati per laloro scelta sessuale, perseguitati per la loro fede. Persone in fuga, priva-te delle loro radici — lingua, casa, famiglia, amici — fino a dover con-

fessare a se stessi: Io non so chi sono io, Io non sono nessuno. Guardatei loro ritratti, e provate a leggere l’odissea senza gloria di cui sono la ri-sacca. Nello sguardo di una bambina di Srebrenica, di una donna etio-pe fuggita in Sudan che solleva un telo per nostalgia di una casa, di Moi-se Chagall, da Vitebsk, «detto Marc Chagaloff, artista pittore» — profu-go in Francia, in Spagna, in Portogallo, negli Stati Uniti... E poi nellosguardo di persone incrociate nelle nostre strade, che si riempiono distranieri poveri o banditi, e non li vogliono.

Il giorno del rifugiato si celebra a Roma, alla presenza di Giorgio Napo-litano e dell’Alto commissario Antonio Guterres, mentre continua la lun-ga notte del Canale di Sicilia e del Mediterraneo intero. Fortress Europecalcola a sedicimila i morti nella traversata dal 1988 a oggi. Uno su dieci diquanti si imbarcano alla volta delle coste italiane è destinato a perdere lavita. La notte dei respingimenti, indifferenti al fatto che una parte ingen-te dei pellegrini del mare cerca asilo e ha diritto a riceverlo, e almeno de-ve poterlo chiedere prima d’essere cacciato in un fondo d’acqua o di sab-bia. Si sono così respinti in Libia rifugiati del Darfur, etiopi, eritrei, soma-li. Molti di loro sono minori. È illegale, oltre che ignobile, respingere per-sone verso luoghi in cui la loro vita è messa a rischio. Sono illegali e infa-mi i respingimenti all’ingrosso, che non passino per l’esame della condi-zione personale di ciascuno. Adesso, il ministero italiano dichiara che,venuta meno la collaborazione con Gheddafi, si può ricorrere alle nostrenavi da guerra per chiudere il passo alle carrette del mare. Eppure l’annoscorso l’Italia ha accolto meno di settemila richieste di asilo, contro le qua-rantamila di Germania e Francia, le trentamila della Svezia, le ventimiladel Belgio. Quanto alle cifre assolute, i rifugiati erano circa cinquantami-la in Italia, seicentomila in Germania, trecentomila nel Regno Unito.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Q

Ero straniero e mi avete accolto

ADRIANO SOFRI

IL DOCUMENTOIn alto, un algerino

rifugiato in Tunisia

a fine anni

Cinquanta

durante la guerra

di indipendenza

dalla Francia

Nell’altra pagina

al centro, bengalesi

in India nel 1971

Qui a destra,

la carta d’identità

di Marc Chagall,

«artista, pittore»,

rilasciata

dalla prefettura

di Parigi nel 1929

Nella pagina

accanto, famiglie

kosovare cercano

asilo in Macedonia

nel 1999; un gruppo

di etiopi fuggiti

in Sudan nel 1985

© U

NH

CR

/S. W

RIG

HT

© U

NH

CR

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 19GIUGNO 2011

L’ARCHIVIODall’alto donne e bambini

bosniaci con, sugli striscioni,

i nomi di mariti e padri

scomparsi durante la guerra

civile; bambini cambogiani

rifugiati in Thailandia a fine

anni Settanta;

un campo di profughi ruandesi

in Tanzania nel 1994

Tutte le foto che illustrano

queste pagine fanno parte

dell’archivio Unhcr

© U

NH

CR

/H. J. D

AV

IES

© U

NH

CR

/D. H

EN

RIO

UD

© U

NH

CR

/C. S

AT

TLB

ER

GE

UN

HC

R/Y

. H

AR

DY

© U

NH

CR

/M.V

AN

NA

PP

ELG

HE

M

© U

NH

CR

/R. LE

MO

INE

Repubblica Nazionale

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19GIUGNO 2011

A Praga: truffato da un tassista, compatitodalla sua ambasciata, umiliato da un cameriere,ignorato dalla polizia. E poi una triste camera

d’albergo per un inutile ponte festivo, uno sterile corteggiamento,una sottile vendetta. Sono le avventure di un uomo senza qualitàraccontate da uno dei più affermati scrittori americani

CULTURA*

Ogni cosa leggera è pesante

Dovrei accettare, a questo punto, chequando mi si dice che una cosa èquella, per definizione non può es-serlo: che dove sono io, quella cosanon è. Ma fare mia questa lezione ri-chiederebbe gradi di autoconsape-

volezza e onestà che semplicemente non possiedo,e francamente non desidero possedere. Non voglioconoscere me stesso più del necessario. Per cui an-dai a Praga.

Sapevo, dalla guida turistica, che i tassisti pra-ghesi sono una schiatta particolare. Lo sapevo, e sa-pevo che il tassista mi stava fregando quando, sen-za infingimenti né scuse, premette sfacciatamentea ripetizione un tasto sul tassametro proprio al prin-cipio della nostra corsa. E però non protestai. Nonsapevo come protestare. Sono il tipo di persona che,letteralmente, preferirebbe morire piuttosto chefare una scenata. E non uso letteralmente metafo-ricamente. Fossi stato seduto nel viaggio d’andataaccanto a quel terrorista con l’esplosivo nella scar-pa, mi sarei concentrato sulla lettura del catalogoSkyMall mentre lui accendeva il fiammifero e avreiprovato molta rabbia nei suoi confronti, e pena perme stesso, e delusione ma non sorpresa per la finetragica della mia vita sulla terra. Morire a quel mo-do sarebbe meraviglioso. Ma non sarebbe meravi-glioso, perché non sarei vivo a godermi i vantaggidella compassione e dell’amore altrui. Solo i buonimuoiono giovani, ma solo i vivi hanno gli orgasmi.

Quando raggiungemmo l’albergo, il tassista midisse che erano 412 euro.

«Mi pare un po’ tanto», dissi, sapendo, dalla gui-da, che dovevano essere sui 40.

Indicò il tassametro come a lasciar intendere chel’avevo offeso. Gli umani possono mentire, diceva ilsuo dito, ma le macchine no. Forse in futuro potrai aragione accusare una macchina di mentire, ma finoa quel giorno dovresti pagare ciò che la macchina tidice di pagare. Mio malgrado, provai un senso dicolpa. Quindi provai rabbia per il senso di colpa,perché chi era questo tassista di Praga per farmi pro-vare emozioni di qualunque tipo? Odio i sentimen-ti negativi non generati da me stesso. L’odio, in sé, ègià un’emozione di quel tipo.

Pagai. Ebbe la faccia tosta di chiedere una man-cia. Ebbi la faccia tosta di chiedere scusa e dargliela,sebbene avessi letto che non si usa dare né richie-dere la mancia. Preferirei letteralmente morire, euso letteralmente letteralmente.

La mia stanza era grande quanto bastava per far-ci stare il letto. La stanza era della misura del letto.La porta si apriva all’esterno, perché non poteviaprirla all’interno a causa del letto, e quando l’apri-vi, c’era subito il letto. In qualunque punto dellastanza, ti trovavi sul letto. In fondo al corridoio c’e-ra il bagno comune. Il water non aveva la tavoletta,ma non importava, tanto non c’era la carta igienica.

Il mattino dopo fui svegliato alle cinque da unasveglia telefonica che non avevo richiesto. Era unavoce registrata, e le voci registrate non possonomentire, per cui a quanto pareva avevo ordinatouna sveglia, nonostante non ci fosse né un serviziodi sveglia telefonica automatica né qualcuno a ri-spondere al telefono alla reception. Mi vestii, feciuna doccia senza il saponcino o lo shampoo o l’ac-qua, bevvi del caffè tiepido dalla caffettiera dietro ilbancone della reception deserto dell’albergo ac-canto, e scarpinai fino al consolato americano.

«Come posso aiutarla?» mi chiese una ragazzadietro dieci centimetri di vetro antiproiettile. Stan-do in punta di piedi riuscivo a vedere una porzionesufficiente del suo seno da farmi venir voglia di pro-vare a vedere una porzione ulteriore del suo seno.

Le dissi: «Sono arrivato dall’America ieri notte, enel viaggio dall’aeroporto il tassista si è approfitta-to di me».

La cosa suonò più sessuale di quanto avrei volu-to. Non volevo affatto che suonasse sessuale nelsenso che il tassista aveva allungato le mani su dime. Questo a che mi sarebbe servito? Ma volevochesuonasse sessuale nel senso di farle capire che avreivoluto allungare le mani su di lei. Solo lei sapeva se

la frase era suonata sessuale in quel senso.Per assicurarmi che non ci fossimo fraintesi,

chiarii: «Ha premuto più volte il pulsante del tassa-metro, aggiungendo in qualche modo delle tariffeextra, e quando abbiamo raggiunto l’hotel il prezzodella corsa era astronomico».

«Quanto?» chiese lei.«Circa trecento euro».«Trecento euro?»«Perciò voglio sporgere reclamo».«L’ha pagato 300 euro?»«Ero esausto, ed è la prima volta che vengo qui. E

avevo bisogno di andare in albergo».«Ma era già arrivato all’albergo».«È vero, ma in un paese straniero e con una quan-

tità notevole di bagagli».«Come mai tanti bagagli?»«Non erano così tanti, in senso oggettivo, ma ho

la sindrome del tunnel carpale, per cui le cose leg-gere mi risultano pesanti, e per come la percepivoio, la quantità dei miei bagagli era notevole. In defi-nitiva, non volevo fare una scenata lì per lì».

«Glielo ha detto che era troppo?»

piatto? Fingere di darti una scelta è più irritante chenon dartela proprio. Mentre aspettavo il cibo ho ac-ceso l’iPad, sono andato sul sito del consolato ame-ricano a Praga, ho cliccato su “Il nostro staff” e hotrovato la donna che mi aveva aiutato. Si chiamavaCecilia Warren. Un nome non carino. Per niente, innessun senso, un nome che fosse o potesse mai es-sere anche solo remotamente carino, o generosa-mente fatto passare per carino. Potevo conservarel’attrazione per lei ora che conoscevo il suo nomeradicalmente non carino? E non era, questo, il ge-nere di via di fuga di cui avevo bisogno? Ecco che ilmontone annullava il sacrificio. Via, sciò, sono Ceci-lia. Qui non sei gradito.

E tuttavia provavo il forte desiderio di superare laripugnanza per il suo nome. Volevo volermi ma-sturbare guardando me che ero lei che si masturba-va nonostante il suo nome nauseante, e ciò mi fecesentire improvvisamente gonfio di benevolenza. Eper lo meno mitigò il senso di ripugnanza. Ero unapersona cattiva con un lato buono.

Guardai la sua pagina di Facebook, ma non veni-va aggiornata da un paio di mesi. Cercare il suo no-

«Certo».«E lui?»«Cosa stiamo facendo, uno sceneggiato della

Pbs? Intende aiutarmi o no?»«Ce li ha i dati dell’autista?»«So per certoche la matricola comincia con un CX

o un XC».«Non credo di poterla aiutare».«Perché no?»«Mi sta chiedendo di agire da investigatore pri-

vato».«Le sto chiedendo di proteggere un vostro citta-

dino contribuente».«Può esporre reclamo al distretto di polizia. È

possibile che la sappiano aiutare. Ma se fossi in lei,mi metterei alle spalle lo sfortunato incidente e migodrei la vacanza».

Ma lei non era me. Ma avrei tanto voluto lo fosse.Intendo proprio questo? Che mi piacerebbe esserelei e masturbarmi. Questo, intendo. Ma neancheesattamente questo. Vorrei essere lei che si mastur-ba se potessi però anche essere me, nel senso del meche non è lei, in piedi in un angolo, a masturbarmiguardando il me che è lei che si masturba. Chiaro, èsolo uno stupido sogno.

Andai in un ristorante consigliato dalla guida perriorganizzarmi. Che senso ha un menù con un solo

me su Google non rivelò niente di fondamentale,sebbene ci fossero varie altre Cecilie Warren, fra cuiun paio che avrei guardato molto volentieri neipanni di me stesso in un angolo e così via. Fui so-praffatto all’improvviso e a sorpresa dalla rabbiaper il tassista che mi aveva inculato — inculato me-taforicamente. Perciò scrissi un’email.

Gentile signorina Warren,sono stato nel suo ufficio pochi minuti fa, nel ten-

tativo di porre rimedio a un infelice caso di prevari-cazione tassistica. Le scrivo ora poiché mi è occor-so di pensare che non l’ho ringraziata a dovere perla sua assistenza. (Anzi, nemmeno sono certo diaverla ringraziata!) Io e il mio esteso bagaglio — ah!— saremo a Praga per quattro giorni, e se lei ha tem-po sarei lieto di portarla fuori a cena (o a bere, o qua-lunque cosa) per dimostrarle la mia gratitudine.Controllo l’email con molta frequenza.

Saluti,Ruben Feinberg-Horowitz

Rimpiansi la frase «Controllo l’email con moltafrequenza» appena l’ebbi spedita. Rimpiango qua-si sempre l’ultima frase di ogni mia comunicazione,perché è il risultato dell’inspiegabile bisogno di di-re una frase in più invece che del disporre di conte-

nuto sufficiente per riempire una frase in più. Cer-cai di smussare la sensazione di imbarazzo speden-do una seconda email.

Quando ho scritto che «controllo l’email conmolta frequenza», intendevo semplicemente cheho portato in vacanza l’iPad. Penso che a Praga lacopertura wi-fi sia perfino migliore che in America!No, certo che no, ma la copertura è sorprendente-mente buona, considerato tutto. In ogni caso, nonintendevo con ciò dare a intendere che ero in qual-che maniera disperato.

Saluti,Ruben Feinberg-Horowitz

Controllai d’istinto la posta non appena premu-to Invia sulla seconda email. Non avrebbe avuto an-cora tempo di ricevere le mie email, figuriamoci leg-gerle, figuriamoci rispondere, ma c’era sempre lapossibilità che mi stesse spedendo un’email similea quella che le avevo spedito io, e che le nostre lette-re si fossero incrociate.

Il cameriere mi portò il conto e sgattaiolò via. Esa-minai il conto e lo richiamai.

«C’è qualcosa che non capisco, qui», dissi. «Sem-bra che mi siano stati messi in conto il sale, il pepe,il ketchup e la mostarda».

Jonathan Safran

Foer

JONATHAN SAFRAN FOER

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 19GIUGNO 2011

Si mise a piovere. Mi slogaila caviglia. E la malariauccide un bambino ogni trentasecondi. E probabilmentenon esiste l’aldilà

«Esatto», disse lui.«Ma perché?»«In che senso, perché?»«Perché mi avete messo in conto i condimenti?»«Perché li ha usati».«Lei parla inglese?»«Stiamo parlando inglese».«Senta, non c’è scritto da nessuna parte, sul me-

nu o altrove, che si devono pagare queste cose».«È necessario scriverlo da qualche parte, che

quello che si mangia va pagato?»«Mi avete fatto trovare questi condimenti al ta-

volo», dissi, non abboccando al suo amo antisemi-ta. «Non li ho ordinati».

«Li ha usati».«Li ho usati perché erano in tavola».«Signore, questo è il suo conto».«Chiaramente, ma non vale a giustificare ciò che

contiene. Se lei uccide qualcuno non dice alla poli-zia: “Agente, questo è il cadavere” e poi pretende diesser lasciato andare. Voglio dire: se sul menù ci fos-sero state due righe per spiegare che i clienti dove-vano pagare i condimenti, non solleverei la que-

stione adesso, perfino se fosse stato scritto in carat-teri incredibilmente piccoli e sbiaditi».

Il suo volto cambiò espressione, in una manierache faceva presagire violenza. Cercai di calmarmicon pensieri su quanto fosse povero questo stupidocameriere ceco, e su come i cinema di Praga fosse-ro pieni di film già usciti in dvd negli Stati Uniti. Misentii meglio? Mi sentii meno male. Pagai il conto, elasciai una mancia così infinitesima che era più of-fensivo che non lasciarne affatto.

Andai a piedi al distretto di polizia, perché mi ve-nisse un colpo ma non intendevo prendere il taxi.Mi slogai una caviglia su un penoso surrogato dimarciapiede. Ogni cosa sapeva di lavanderia o pe-sce affumicato. Entrai zoppicante e venni condottoin una sala d’attesa da una donna col pomo di ada-mo. Passai cinque ore su una sedia con schienalenon ergonomico. La tv ceca è una barzelletta invo-lontaria. Non mi serviva sapere il ceco per capirequanto erano patetiche le loro trasmissioni. InAmerica alcune non sarebbero sopravvissuteneanche cinque minuti.

Per fortuna avevo portato con me la guida. Nonc’è niente di meglio che leggere di un posto in cui titrovi. Quando sono a Washington passo spesso laserata a leggere storie della città, o pamphlet dellaFondazione Architettura, o guide di quartiere perturisti. È narcisistico o ammirevolmente onestoammettere che una delle ambizioni della mia vita èfigurare in una guida futura di Washington? Dovròprobabilmente assassinare qualcuno di davveroimportante perché ciò accada. Cosa che non farò.Magari solo sapere che c’è la possibilità mi basta.

Alle 4,20, un uomo grasso coperto di peli pubiciuscì a dirmi che il distretto stava per chiudere.

«Ma sono solo le 4,20. Mi avete detto che rimane-va aperto fino alle 5,00».

«Siamo aperti finché non chiudiamo. E chiudia-mo fra cinque minuti».

«Alle 4,25? Nemmeno aspettate le 4,30?»«Esattamente. Ma il suo posto in fila è stato con-

servato. Glielo posso assicurare».«Non voglio che mi si conservi il posto. Voglio

parlare con qualcuno adesso. Ho già sprecato ungiorno della mia vacanza».

«Mi spiace, signore, ma stiamo chiudendo. Tor-ni giovedì, prego».

«Giovedì? E domani?»«Domani è vacanza. È tutto chiuso».«Cosa si festeggia?»«C’è il ponte».«Ma per quale ricorrenza?»«Mi spiace».«Non posso avere cinque minuti del suo tempo?

È tutto il giorno che aspetto».«La mia risposta è no».«Cinque minuti».«No».«Chi ha una vacanza che non festeggia nulla? Mi

pare triste. In America abbiamo sovrabbondanza dicose da festeggiare, e detto con franchezza non ab-biamo abbastanza giorni».

«Stiamo chiudendo».«Posso dirle una cosa?»«No».«Beh, gliela dico comunque: ero sinceramente

intenzionato ad apprezzare Praga».Tornai in albergo e controllai se Cecilia Warren

aveva risposto. Non ancora. Riflettei se spedirleun’altra email, in caso le prime due non fossero ar-rivate, come a volte accade. Potevo aspettare un al-tro giorno, ma ero lì per solo due giorni ancora, e sepoi finiva che ci intendevamo? Avrei rimpianto dinon averle spedito un’ulteriore email in modo daavere il massimo possibile di tempo a disposizione.Come forma di compromesso con me stesso, rispe-dii la prima email, con il seguente preambolo: «Miscuso per l’eventuale ridondanza, ma le mie emaila volte non arrivano, non so perché. Ciao». Mi pen-tii immediatamente del «Ciao».

E adesso? Mi venne di pensare che avevo conser-vato una discreta immagine mentale del tassista.Perché non ci avevo pensato prima? Presi l’iPad eandai in un caffè, dove nemmeno rivolsi lo sguardoai condimenti. Il cameriere mi domandò se avevodeciso e gli dissi che non volevo il solo piatto pre-sente sul menu, e non volevo nemmeno un bic-chiere d’acqua. Vincere fu una sensazione magni-fica. Feci delle ricerche di immagini e trovai una fac-cia che pareva ragionevolmentesimile al mio ricor-do di quella del tassista. Con Photoshop feci un fin-to manifesto per un ricercato. Chiamai il consolato.

«Salve, cerco Cecilia Warren».«La signorina Warren non è di turno. Posso aiu-

tarla in qualche modo?»«È in malattia?»«Come, scusi?»«Ripeto: “È in malattia?” Lei chi è?»«Chi è lei?»«Possiamo piantarla con i corsivi?»«Conosce Cecilia?»«Sì. La conosco».«È in vacanza».«A festeggiare nulla, immagino».«Signore, vuole lasciarmi un messaggio? O posso

aiutarla in qualche altro modo?»«Ho bisogno di aiuto per tradurre una cosa».«Qui non offriamo servizi di traduzione. Ma pos-

so indicarle un...»«Non cerco servizi. Mi serve un aiuto per tradur-

re una frase».«Come le ho detto...»«Senta, potevamo aver già finito, e invece lei mi

ha sottoposto a questa trafila insensata. Non cercoservizi. Devo tradurre una frase. Ci vogliono trentasecondi».

«Mi dica la frase».«“Questa persona, solo più magra e senza baffi, sta

stuprando dei bambini di questa città”».«Prego?»«La frase è questa. “Questa persona, solo più ma-

gra e senza baffi, sta stuprando dei bambini di que-sta città”».

Decisi di passare il resto del mio soggiorno a Pra-ga tappezzando la città di volantini. Ma l’area busi-ness dell’albergo non aveva una stampante chestampasse. E non c’era un’area business. Mi disse-ro che c’era una copisteria a due sole fermate d’au-tobus. Me la feci a piedi, per non dover tollerare l’im-barazzo di capire, in tempo reale, come funzionas-

se il sistema di trasporti pubblici di una città stra-niera. Non mi sorprese che il negozio si trovasse benpiù lontano di quanto fossi stato indotto a credere.E si mise a piovere. E la copisteria era chiusa per viadella festività immotivata del giorno dopo. E mi slo-gai l’altra caviglia. E siamo ben oltre il punto in cuipossiamo fermare il riscaldamento globale. E la ma-laria uccide un bambino ogni trenta secondi. E pro-babilmente non esiste l’aldilà.

E comunque, quanto è ridicolo Cecilia, come no-me? Cos’è, finto italiano? Non le stavo chiedendouna conversione, solo di mangiare insieme e sem-mai impegnarci in pratiche benignamente perver-se. Si credeva meglio di me? Era meglio di me — al-trimenti perché mai le avrei scritto? — ma ciò non laautorizzava a pensarlo, né tantomeno ad agire aquel modo. Sono meglio di molta, molta gente, manon ne faccio un vanto.

E sapete una cosa? Non avevo nemmeno usatolamostarda! Perché mi venne in mente solo allora? Ilsale, sì. Il ketchup, colpevole. Ma la mostarda nonl’avevo toccata. Nemmeno mi piace, la mostarda.Detesto la mostarda. La teoria di quel cretino di unceco era che si deve pagare per ciò che si usa, stan-do a quella logica — stando alla sua logica — avevopagato un quinto di troppo. Potevo tornare al risto-rante e chiedere indietro il corrispettivo di quellafrazione di condimento. Ma come potevo dimo-strare di non aver usato la mostarda? Gli avrei fattosentire il mio alito, ma erano passate già diverse ore.E non volevo dargli la soddisfazione.

Quando tornai in albergo, ero esausto e quasi di-strutto. Disegnai una pubblicità contro Praga per ilNew York Times, sapendo che non avrei mai potu-to permettermi di pubblicarla, ma ottenendo unapiccolissima vittoria a livello di idee. La misura diuna vittoria è quasi sempre inversamente propor-zionale alla sensazione di trionfo.

Nel letto a dimensione stanza della stanza a di-mensione letto, al bagliore intermittente dell’unicalampadina, decisi di controllare la posta un’ultimavolta. Non potevo tollerare il pensiero che lei-con-l’innominabile-nome si fosse magari fatta sentire,avesse sporto una mano digitale verso il mio cuorebattuto ma battente, avesse scritto: «Scusa se mi ciè voluto tanto a risponderti. Giornata folle, te la rac-conto dopo. Non mi crederai, e invece sì. Mi crede-rai perché sei tu. Qui stiamo chiudendo bottega, emi piacerebbe tanto accettare quella cena e quellafantasia masturbatoria narcisistica, se ancora ti va.Ho sentito che odi la mia città adottiva. Ho sentitoche non ti piace il mio nome. È che hai pensato a vo-ce molto alta. Credi che io ti consideri un seccatore,invece per me sei eccezionale. Ho sentito che face-vi incubi sullo tsunami. Ho sentito che hai il tunnelcarpale dell’anima: ogni cosa leggera ti pare pesan-te. Ho sentito che hai sentito tuo padre dire a tua ma-dre: “È un peccato che ci siamo trovati, io e te”, maè stato trent’anni fa. La memoria è lunga, Ruben, mala vita è breve, ma l’esperienza è infinita. Sono cosìfelice che sei venuto. Non c’è niente di meno magi-co dei giorni. Non capita mai niente. Ma sei capita-to tu. Sei capitato a me. Avresti potuto fermarti allatua richiesta, ma non l’hai fatto. Saresti potuto ri-manere intrappolato sotto il ghiaccio della tua ti-midezza, ma non è stato così. Non è meravigliosoche per quanto della nostra vita terrena sia già die-tro le nostre spalle, continuiamo a credere che l’in-credibile non solo sia possibile ma inevitabile? Ac-cadrà. Accadrà. Solo, non a noi. Ho vissuto la vita piùnoiosa nella storia dell’umanità. Sono stata sedutacon le mani in mano e il cuore in un pugno. Non cre-do in nulla da anni, ma non ho mai smesso di cre-dere nell’importanza di credere. Accadrà... Acca-drà....E avevo ragione a essere tanto stupida. Avevoragione ad alzarmi ogni mattina. Avevo ragione a te-mere che sarei morta senza mai esser vista per inte-ro da nessuno, ma avevo torto a nascondermi die-tro quella paura, ma ragione a svegliarmi ogni mat-tina con queste parole sulle labbra: Accadrà. Anchese non a me, accadrà. Avevo ragione perché sei arri-vato tu. Tu sei arrivato da me. E tu sei perfetto, amo-re mio. Tu sei la cosa ideale».

Traduzione di Francesco Pacifico

L’APPUNTAMENTO

Anticipiamo in queste pagine il testo che Jonathan Safran

Foer leggerà sabato 25 giugno a “Le conversazioni:

scrittori a confronto” che si terrà a Capri nella piazza davanti

all’Hotel Punta Tagara dal 24 giugno. La rassegna, ideata

da Antonio Monda e Davide Azzolini, quest’anno è dedicata

al tema dell’eros. In due weekend consecutivi (24, 25 e 26

giugno e 1, 2 e 3 luglio), saliranno sul palco Cathleen Schine,

Nicole Krauss, Phillip Lopate, Donna Tartt e David Leavitt

Il programma completo su www.leconversazioni.it

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I DISEGNI Due schizzi di Egon Schiele; Nudo maschile (1910) e Nudo femminile (1914)

Repubblica Nazionale

L

Officina Ronconi

Il regista mostraper la prima voltagli appuntida cui prende formail suo teatroE racconta

come ha cominciato,

il prossimo debutto

e perché ha aperto

una scuola:

“Vorrei insegnare

ai giovani

che andare

controcorrente

non vuol dire

fare quello che vuoi”

SPETTACOLI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19GIUGNO 2011

ci credessi perderei la curiosità di anda-re avanti. Anche per i grandi spettacoliho fatto così. Ne Gli ultimi giorni dell’u-manità, per esempio, lo spettacolo daKarl Kraus che feci al Lingotto nel ’91:nell’opera tutto si conosceva attraversoi giornali, la stampa. Da lì mi venne l’ideadi mettere in scena le grandi linotype,non da chissà quali elucubrazioni. Ilbuon risultato è se cose così ovvie resta-no ovvie o comunicano altro».

Nessuno come Ronconi, il più cari-smatico regista del teatro italiano, unadelle poche eccellenze italiane cono-sciute in tutto il mondo, dimostra quan-to «la creazione artistica» sia una cosaterrena, un puzzle di innesti, più che diprofonde meditazioni, dove trovano po-sto attori, scenografi, costumisti, perso-ne che lavorano, provano, e poi fatica,sale da lavoro, dedizione, routine.«Quando provo uno spettacolo sono ot-to, dieci ore al giorno di lavoro. Poi la se-ra a casa c’è in testa una specie di movio-la, rivedi quello che hai fatto e cerchi dicapire gli errori, perché un attore trovauna difficoltà, come fare a rimuoverli».

Il punto di partenza, spiega, è sempreil testo. «Non solo testi teatrali, però.Quante volte ho messo in scena roman-zi in quanto romanzi, senza farne tra-sposizioni; o saggi scientifici, epistolari.A volte può diventare teatro anche solouno spazio come mi capitò con XX, chefeci all’Odéon di Parigi nel ’71: era un’a-zione in venti stanze che diventava spet-tacolo. A me succede questo: che non so-lo quando leggo un testo teatrale maqualunque cosa mi capiti a tiro, la collo-co immediatamente in una possibilescena. L’idea di trasferire in un tempo-spazio quello che sta sulla pagina scrittal’ho sempre avuta, anche quando avevovent’anni. Ogni cosa, non solo il testoteatrale, ogni pagina letteraria può ave-re nello spazio la sua forma ideale».

Quali letture, fantasie, autori diventi-

no i suoi spettacoli autorevoli, difficili,mai banali non è facile dirlo. «Prendia-mo le ultime regie, per esempio: la com-media di Bond che ho fatto al PiccoloTeatro, La compagnia degli uomini e No-ra alla provache ho fatto con lo Stabile diGenova. Nel caso di Ibsen è chiaro chepossono essere cose che mi lavoranonella memoria, testi che conosco datempo e che negli anni cambiano fisio-nomia. Quello di Bond, invece, è un testoche conosco da quindici anni e mi è son-necchiato in testa prima di venire fuori.Oppure uno spettacolo può nascere daspunti diversi: una volta può essere l’in-contro con un attore o un’attrice, un’al-tra volta un avvenimento storico. Ancheuna scommessa che faccio con me stes-so. A pochissime, tra le tante cose che hofatto, posso dare il nome di progetto, in-tendendo qualcosa di prefigurato, me-ditato. Il mio modo di lavorare è semprestato una sfida: fino a che punto un testopuò essere trasferito in scena?».

Racconta di quando nel ’69, per il leg-gendario Orlando Furioso, aveva tra lemani i fogli sparsi della traduzione diEdoardo Sanguineti pensando alla pos-sibile rappresentazione. «Mi ero fatto lariflessione lapalissiana che le cose anda-vano rappresentate una dopo l’altra per-ché nel libro sono ovviamente cosi. In-vece quella volta, nello studio, per siste-marli misi i fogli sul pavimento in ordinesinottico. Capii che era la successionegiusta. Quella mappa sul pavimento di-venne lo spettacolo».

In questo momento sta lavorando aun nuovo allestimento. Sul palco del Pic-colo Teatro di Milano di cui è il consu-lente artistico, sta seduto al tavolo, unabottiglietta d’acqua, un pacchetto di ca-ramelle e il testo aperto su La modestiadiRafael Spregelburd, «un autore che mifece conoscere Franco Quadri due annifa. Mi piacciono gli autori che per lin-guaggio e strutture drammaturgiche

ANNA BANDETTINI

e autocelebrazioni gli si addicono poco.«È tutto lì, in palcoscenico», ripete conpazienza da guru Luca Ronconi, mentremostra, un po’ reticente e per la primavolta in pubblico, alcuni fogli di carta di-segnati, strani schizzi, ghirigori. «Coseche hanno valore solo per me, come fos-sero delle rune — dice guardandoli —Sono schizzi di come immagino possaessere una scena. Per il resto lo spettaco-lo lo tengo a mente tutto. Mi faccio in te-sta le possibilità di un lessico scenico chepoi in parte è mantenuto, in parte è a per-dere... Quaderni di lavoro? Diari? Ma no,non ho niente da scrivere. Se scrivessi,crederei troppo a quello che faccio. E se

DAGLI SCHIZZI ALLA SCENA / 1Nella foto grande, Mariangela Melato in Nora alla prova

da Ibsen, che ha debuttato a marzo

e riprenderà a settembre; a sinistra, appunti di Ronconi

sul copione di Quel che faceva Maisie

di Henry James e appunti per La vita è sogno

di Calderón de la Barca

“Il palcoscenico è tuttoil resto non conta”

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 19GIUGNO 2011

portano qualcosa, non dico di nuovoperché alla novità non ci credo, ma qual-cosa che spinge il teatro oltre le sue con-venzioni, come Beckett, Genet: autori enon confezionatori». La modestia de-butterà il 24 giugno al festival di Spoletoe poi al Mittelfest, con un quartetto di at-tori coi fiocchi: Maria Paiato, Paolo Pie-robon, Fausto Russo Alesi, FrancescaCiocchetti, praticamente tutti o quasisue “scoperte”. «Non scelgo gli attori peraderenza fisica al personaggio, visto cheho fatto recitare a Mariangela Melatouna donna che ha trecento anni in L’af-fare Makropoulos di Karel Capek e unabambina di nove in Quel che faceva Mai-sie di Henry James. Il lavoro con gli atto-ri è ovviamente centrale. Inizialmente

fanno quello che cre-dono e io stesso sonocurioso di vedere co-sa viene fuori. Il lavoro impor-tante, talvolta anche lungo, è quello co-siddetto a tavolino sul testo: una ricogni-zione, una prefigurazione di quello chesarà. Leggere insieme il testo è un modoper assorbirlo. Ma quanto alle interpre-tazioni, aveva ragione Von Hoffman-sthal quando diceva che la profondità vacercata nella superficie. Io parto dal pre-supposto che sotto i testi non c’è niente.Basta leggerli facendo le connessionigiuste, ampliando lo sguardo».

Ci sono attori che farebbero il diavoloa quattro per partecipare a questo “stu-dio” ed è anche per loro che Ronconi si è

inventatoSanta Cristina. È il suocentro teatrale in Umbria, un luo-go da sogno. In un riparato casale im-merso nel verde, tra biblioteche e saleprove, gli attori lavorano, studiano e vi-vono assieme, dormono in stanzette dadue, mangiano nella sala soggiorno,provano. Una cosa a metà tra scuolad’eccellenza e follia perché sta in piedicon i soldi del regista e poco altro. «Hovoluto creare Santa Cristina per dare adattori giovani professionisti uno spazio

vedo anche tra gli allievi della scuola delPiccolo — i giovani che vorrebbero fareMacbethpensando: “Finora l’hanno fat-to così, io lo faccio in un altro modo”. Misforzo di far capire loro che andare con-trocorrente vuol dire rompere un codiceestetico, non fare quello che ci pare».

Come questi pensieri raggiungano ilpubblico è un’altra storia. «Il rapportocol pubblico è un incontro. Non lo inca-teno a credere in quello che faccio io. Mipiace che gli spettatori vedano in quelloche faccio ciò che possono vedere. Chepoi è il mio modo di stare al mondo: es-sere liberi. La libertà di chi fa teatro e la li-bertà di chi viene a vederlo, è la grandeverità che sostiene il teatro. Da sempre».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

DAGLI SCHIZZI ALLA SCENA / 2Dall’alto, La vita è sogno

di Calderón de la Barca

al Piccolo di Milano nel 1999;

Sogno di una notte di mezza estate

di Shakespeare nel 2008

aperto dove fare esperienze non neces-sariamente finalizzate a rappresenta-zioni. È importante che i giovani sappia-no che lo spettacolo “cotto e mangiato”è negativo soprattutto per loro. Studianouna cosa, la dicono male ed è già fatta.No. Recitare è un lavoro di scavo, di stu-dio, ricerca. Mi fanno tenerezza — e lo

Repubblica Nazionale

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19GIUGNO 2011

le tendenzeRuggenti

Come

Fu la diva degli anni Venti. Appena sbarcata da Saint Louisnella Parigi capitale del mondo, con quella sua esplosivasensualità fece innamorare Picasso, Hemingway, Le Corbusier,Simenon. Oggi la moda torna ad attingere al suo stile,

e ai suoi pendenti su gambe nude, per disegnareuna donna tanto autoironica quanto sicura di sé

Non c’è star, non c’è diva che evochigioia di vivere e insieme esotismocome e più di Josephine Baker. Enon meraviglia che gli stilisti e lamoda si guardino indietro e pensi-no a lei come a un’icona di moder-

nità e di liberazione, simbolo e testimonial dei co-siddetti “anni folli”. Gli anni del charleston, del di-vertimento, della leggerezza, dell’edonismo, del-la vitalità rumorosa con cui si divorava ogni gior-no come se fosse l’ultimo. Anni — sì — folli e sme-morati, ma con un lampo di disperazione nel lorotramonto: i roaring twenties, i ruggenti anni Ven-ti che si chiuderanno con il terrificante crac del’29. E dunque con la fine dei giochi.

E fu subito tutto esaurito. Josephine, che in unanota canzone dell’epoca fa rima con charmante etdivine, arriva a Parigi da Saint Louis che ha solo di-ciannove anni e nel breve volgere di una notte —basta che si mostri, basta che si muova e che balli— ha la capitale del mondo ai suoi piedi. Nessunacome lei incarna con tanta naturalezza e tanto fu-rore l’esotismo alla moda e il mito del primitivi-smo così caro alle avanguardie. Pudore è una pa-rola che lei non conosce o che nel suo vocabolarioha un significato diverso. «Una Venere di Modi-gliani coperta solamente di qualche piuma» la de-scrive una recensione della Revue Nègrecon cui laBaker debutta al teatro degli Champs Elysées inun numero creato apposta per lei che si intitola Ladanza dei selvaggi, il 2 ottobre del 1925.

Oggi la moda attinge al suo stile, alla sua ener-gia, alla sua femminilità istintiva ma anche allasua ironia. E dunque ai suoi monili, alle sue piu-me, ai suoi pendenti, ai suoi fili di perle, ai suoi or-namenti tribali e metallici, alle sue frange ma so-prattutto all’esiguità delle sue vesti frastagliateper disegnare una donna sicura di sé e del suo fa-scino, le gambe molto nude, le braccia anche, la li-nea degli abiti scivolata e spesso a vita bassa, maivolgare: ed è proprio questa la sfida.

A Saint Louis Josephine era la bambina più po-vera della città, nata in un ospedale per prostitu-te, e a Parigi diventa una regina. O meglio: è la prin-cipessa tam tam. «Con questo sembrerai vestitis-sima», le dice Jean Cocteau inventando per lei ilcelebre gonnellino di banane. Non ha bisogno di

una lunga chioma per sedurre e infatti lancia il ta-glio alla garçonne, tanto che Marinetti paragoneràla sua testa alla «più dolce noce di cocco». He-mingway la descrive come «la donna più sensa-zionale che si fosse mai vista o si vedrà. Alta, pellecolor caffè, occhi d’ebano, gambe di paradiso, unsorriso da cancellare tutti gli altri sorrisi». La suagrazia esplosiva ipnotizza René Clair, Le Corbu-sier, Picasso, Erté, Picabia, Calder.

Che ammiratori, e che anni. Georges Simenon,presto suo amante, le fa pure da segretario, le in-segna a leggere e scrivere, e anche le buone ma-niere. Fonda per lei un giornale, il JosephineBaker’s Magazine, di cui esiste solo il numero ze-ro. Eric Remarque la definisce «il soffio della giun-gla nel mondo civilizzato d’Occidente».

Incanta anche le signore. Colette la descrive co-me «la più bella pantera e la più affascinante delledonne». Sono passati quasi novant’anni da quel-l’innamoramento collettivo, ma la vitalità e l’on-data di libertà e di pienezza, il ritmo, la velocità, ildesiderio di divertimento rappresentati da quelladonna-icona sono più moderni e contemporaneiche mai. La moda rispecchia sempre un’aspira-zione: Josephine, charmante et divine.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LAURA LAURENZI

6. LA POCHETTEÈ in raso di seta,

con applicazioni

di cristalli swarovski

e metallo

la borsa firmata

Giorgio Armani

7. LA SCARPATomaia in velluto

e suola con banane

pop art in cuoio

e gomma per i sandali

di Bernard Willhelm

per Camper

3. LA COLLANAOro rosa, opali rosa,

onice e diamanti

nella Sautior

Collection Evasions

Joaillières

di Cartier

4. IL GIROCOLLOMimì alterna anelli

d’oro rosa e perle

Appese alla catena

due boule con perle

d’acqua dolce viola

e zaffiri bianchi

5. IL CERCHIETTOHa la base in argento

e tante piume

il “cerchietto piuma”

che porta la firma

di Giovanni

Raspini

IL MANIFESTOJosephine Baker

con la sua

“gonna banana”

in un manifesto

di Paul Colin del 1927

2. L’ANELLOÈ in oro bianco

con diamanti crema

La creazione

di Annamaria

Cammilli,

opera unica

1. L’OROLOGIOIspirazione anni Trenta

per l’orologio Lady

Hamilton Vintage:

nel cinturino

convivono elementi

in pelle e in acciaio

1 4 53

6

7

2

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 19GIUGNO 2011

“Corto, colorato, con tante piume e molte frangeecco l’abito giusto per questa estate”

Frida Giannini / Gucci

LAURA ASNAGHI

C’èun filone esotico che tiene banco nella moda esti-va, quella riservata alle serate mondane, dove oc-corre avere l’abito giusto per essere perfette party

girl, indipendentemente dall’età anagrafica. A Frida Gian-nini, direttore creativo di Gucci, il marchio che ha fatto diquesta tendenza uno dei suoi punti di forza, abbiamo chie-sto da cosa trae spunto questo modo di vestire, decisamen-te glamour ma sempre contrassegnato da lievi tocchi «ani-maleschi», con piume, decori, ricami e colori brillanti.

A cosa si deve questa voglia di sedurre sfruttando richia-mi esotici?

«Tutto parte da un desiderio innato nelle donne, che èquello di sentirsi belle e di divertirsi con abiti moderni, grin-tosi, iper ricercati ma facili da indossare».

A quali donne si è ispirata?«In una collezione non c’è mai una sola donna che domi-

na la scena. Basta vedere il tableau con ritagli di foto e di ap-punti assemblati da uno stilista quando prepara una colle-zione per rendersi conto di quanti sono gli elementi checoncorrono alla creazione di una collezione. Ecco perchénei miei abiti ci sono riferimenti allo chic felino di FlorindaBolkan, in versione anni Settanta, piuttosto che all’esoti-smo di Josephine Baker, con richiami etnici che si rifannoalla tradizione delle donne berbere e al caldo esotismo me-diterraneo. Il tutto tradotto in una chiave moderna e sexy».

Ci fa l’identikit di un suo abito estivo?«Innanzitutto è corto, ben al di sopra del ginocchio, ed è

un concentrato di decori metallici, frange, piume e intrecci.I colori sono ricercati e decisi: si va dal giallo oro al verde ot-tanio, dall’arancione al viola, al blu iris».

La sua donna vuole stare al centro dell’attenzione.«Non c’è dubbio. Anche perché è sicura di sé e sa, in ogni

momento, come valorizzarsi. Ma la sua forza è nell’ironia,che non guasta, unita alla voglia di divertirsi e farsi notare».

Questi abiti hanno quindi come obiettivo esaltare lafemminilità in maniera forte?

«L’abito è una proiezione della propria personalità. Eccoperché si dice che “un vestito parla di te”. E in questo mo-mento le donne che hanno bellezza, carattere e testa hannobisogno di abiti che parlino il loro stesso linguaggio».

Orli corti e tacchi alti: è questo il giusto mix?«Per l’estate 2011 la moda va così. Con i miei abiti prezio-

si, i sandali devono essere alti, molto sexy, con intrecci di lac-ci in velluto colorato e listini oro».

Secondo lei, perché in questo momento c’è voglia di unamoda che metta insieme eleganza, savoir faire ma anche ilpiacere di una zampata felina?

«Perché le donne che rientrano in questo mood voglionoessere protagoniste e capaci di esercitare un grande fascino.Sono dotate di quel “certo non so che” che le rende intri-ganti, magiche, misteriose. Insomma, sono magnetiche esanno come scatenare l’interesse di chi le guarda».

Cosa suggerisce alle donne che vogliono essere elegantie moderne senza scadere nell’esagerazione degli eccessi?

«Di dosare bene tutti gli elementi che compongono unlook: abito, accessori, trucco, capelli. Se si osa su tutti, si puòrischiare di eccedere, ma se si dosano bene tutte le compo-nenti, il risultato sarà sicuramente moderno, grintoso e al-lo stesso tempo elegante».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

8. IL CAPPELLOCloche in rafia lavorata in crochet

È la proposta per l’estate 2011

per chi ama lo spirito libero

e scanzonato del cappello Borsalino

9. GLI ORECCHINIFrutti, animali e figurine femminili

adornano i fantasiosi orecchini pop

di Prada. Rigorosamente esotici

e rigorosamente in plastica

10. I SANDALITacco altissimo e fiocco in punta

è il must per l’estate 2011

che ritroviamo nel sandalo

in raso pensato da Santoni

11. I PENDENTISono in oro, diamanti e perle

di Tahiti gli orecchini di Damiani

collezione Ninfea. Per una donna

elegante e di classe

12. LA CLIPCristalli colorati e piume di resina

arricchiscono gli orecchini

a clip proposti da Maliparmi

per l’estate 2011

13. SEXYIspirazione anni Venti per l’abito

scollatissimo Louis Vuitton in seta

ricamata con fili di perline nere

e due bande a contrasto, rosso e oro

14. SOLAREAbito in tweed giallo intenso ricamato

con piume. Da abbinare a scarpe

aperte in pelle scamosciata con bordi

in metallo e tacco in tweed. Chanel

15. MINIGucci propone un miniabito

in macramè di nappa intrecciata

a mano color quarzo. Da indossare

su bikini a triangolo e bootie spuntati

16. BAMBOLAAbito in crochet di chiffon blu

intrecciato con effetto Tie&Die

e scollato sulla schiena

La mise di Dior per l’estate

17. LUMINOSAAbito corto in chiffon di seta

con nastri di seta lucidi

Da abbinare a sandali

in pelle stampa rettile. Boss Black

13 14 15 16 17

12

8

10

9

11

Repubblica Nazionale

«I

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19GIUGNO 2011

i saporiD’Italia

Vellutate di carote vivacizzate da una spruzzata di zenzero,lombate al profumo di coriandolo, filetti di orata resi sfiziosida pomodorini canditi.Tecnologia e ricette da tutto il mondohanno modernizzato le nostre tavole, a cominciaredalla preparazione dei cibi. Come ci insegna un classicodella cucina a più di sessant’anni dalla sua prima edizione

dal pesce in giù. O come le marinature — con carte assorbenti pro-gressive, grazie a ginger e spezie o in purè di fagioli, zucchero e sale— abbiano sostituito le classiche, a base di aceto o limone, ad alto tas-so di condizionamento gustativo.

Le nozioni di base, quelle non si toccano. Perché, come sostieneFerran Adrià, «solo dopo aver mandato a memoria i sacri testi dellacucina tradizionale, si può lavorare con la fantasia, che diventa l’u-nico limite di un grande cuoco». Quindi, via libera ai burri compostie alle paste lievitate, alla sfilettatura del pesce e alle salse da versarecol sac-à-poche. Ma la nuova cucina vive anche di glossari aggiorna-ti, dove tra stufato e tartare c’è spazio per la tajine e il tandoor, stru-menti simbolo della cucina araba e indiana. La ricetta dei nachos colguacamole— l’irresistibile mix messicano di sfogliatine di mais e sal-sa d’avocado — va a braccetto con quella dei cubotti fritti di guancia,l’elenco degli apporti calorici si accompagna alle piramidi nutrizio-nali, i verbi della cucina — da abbattere a velare — non possono pre-scindere da wok e centrifuga. Se poi vi siete appena imbattuti in unmagnifico trancio di coda di rospo in pescheria, compratelo senzadubitare del risultato finale: al forno con patate o spadellato col Mar-tini Dry sarà comunque buonissimo.

mmergete la carne in abbondante acqua fredda, portate a bollore,lasciando cuocere lentamente...». C’erano una volta i libri di cucina.Una sequenza ininterrotta di ricette codificate nel tempo: antipasti,primi, secondi, dolci, e poi ingredienti, grammature, tecniche, tem-pi di cottura, stampelle imprescindibili per generazioni di famiglie.

A sessant’anni dalla prima edizione, il nuovo Cucchiaio d’Argentoci racconta un modo diverso di concepire la tavola. Perché la cucinaè cambiata così tanto da non poter più essere definita con scansionie modalità tradizionali. Certo, gli ingredienti-base sono quelli disempre: farina e zucchero, olio e carne, pesce e verdure... Ma le cuci-ne del mondo che si sono affacciate negli ultimi anni hanno cam-biato l’ordine e il numero degli addendi. La vellutata di caroted’antàn, in cima a tutti i menù ospedalieri e d’infanzia, oggi viene fir-mata da una grattugiata di zenzero fresco, l’insalata mista che per-seguita i dannati della dieta si vivacizza con il chutneydi mele e ribes,lo stinco viene cotto nel sidro, la lombata di maiale si profuma di co-riandolo. Perfino i filetti di orata, così candidi e banali, diventanoipersfiziosi grazie a pomodorini canditi e vaniglia.

Le stesse tecniche di preparazione hanno cambiato status. Siamopassati da acqua&fuoco — bolliti, arrosti, stufati, grigliati, in teglia —a sottovuoto, azoto liquido, piastre a induzione, microonde, osmo-si, sifoni, forni ventilati e al vapore... Un universo di tecnologia culi-naria che si affianca, integra, a volte sostituisce in toto gli strumentitradizionali, piccola rivoluzione figlia del modo diverso in cui stiamoimparando ad alimentarci. Basta osservare i minutaggi delle cottu-re, per capire come il crudo si vada lentamente a sostituire al cotto,

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Cucchiaiod’argento

LICIA GRANELLO

Linguine al pestoBasilico pestato con aglio e sale,

montato con extravergine,

pecorino, Parmigiano. Ideale

per linguine, con patate e fagiolini

il libroÈ appena tornato in libreria

il Cucchiaio d’Argento

(Editoriale Domus,

1318 pagine, 49 euro),

storica bibbia gastronomica

con due milioni

di copie vendute

e dieci edizioni straniere

Giunto alla nona edizione,

forte di duemila ricette,

è curato dalla giornalista

e scrittrice Clelia D’Onofrio

Patè di tonnoTonno frullato con le acciughe,

mantecato con burro e limone

Riposare in frigo in stampo oliato

Servire con crostini e crudité

Il nuovo che avanza

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 19GIUGNO 2011

Tra un arancinoe una Divina Commedia

FRANCESCO MERLO

Eppure mia madre correggeva il Cucchiaio d’Ar-gento, come mio padre correggeva, nientemeno,la Divina Commedia: «… fatti non foste a viver

come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». Miamadre diceva che gli arancini si fanno «con la carne sfi-lacciata, perché tritata la mangiano i cafoni». Mio pa-dre aveva contato in Dante almeno «sette “conoscen-za”, sempre “conoscenza”, e una sola canoscenza,quella di Ulisse. Perché?». Mia madre concludeva:«Non esiste il manoscritto degli arancini». E neppureesiste il manoscritto della Divina Commedia.

Entrambi erano convinti che la vera sapienza non èscritta, ma orale. Una mamma cuoca, per dire, nonprenderà mai sul serio l’idea (Savarin) che «ha un sa-pore particolare la coscia su cui la pernice si appoggiadormendo». Ebbene, il Cucchiaio, sostituendo la co-scia ben scritta con la coscia ben mangiata, fu il primolibro «nutriente». Eliminò gli aggettivi che sono robada digiunatori e adottò per sempre l’imperativo plura-le «condite» senza la confidenza oleosa del «condisci»,o peggio la pappa scotta del «condirete», né tanto me-no lo sciapo «condire» o il pepato «lo si condisca». In-segnò che anche le parole si mettono a fuoco e «se il su-go è venuto grasso, sgrassatelo». Conquistò dunque lecucine d’Italia perché non fa pensare a una mano chescrive, ma a una voce che parla, una voce di mammache crea e nutre e rimanda all’indicibile: «quando ilbattuto è ammorbidito mettete l’anguilla». Ma quan-do il battuto è ammorbidito? E se l’anguilla, ancora vi-va, scivola via per tubi e per anfratti?

Frutto dello scisma con Il Talismano della felicità, ilCucchiaio fu la modernità che portava in cucina il mi-to della Donna Pratica. La casalinga diventava hou-sewifeed è un peccato che non ci sia nel nostro cinemauna Alberta Sordi senape e mostarda che usa “la cuci-na americana”, il fridge e frulla sedani nel mixer. NelCucchiaiodi quegli anni non c’è l’inglese dei cretini co-gnitivi di oggi, ma ci sono, ovviamente, il curry, l’ham-burger e il porridge, né si poteva fare a meno del fran-cese, entrèes, omelettes, bouchèes,crêpes, pot-au-feu…E c’erano il gaspacho e il kugelhupf. Le lingue vannousate ‘sq’: secondo quantità. Mia madre raccomandale vecchie edizioni, quelle senza matematica: «quantobasta», «un bicchiere di vino», «un pizzico di sale». E «ilburro deve fondere, ma non friggere». Che vuol dire?«Vuol dire il tempo di un Padrenostro» tagliava cortomia nonna.

Nato nel 1950, il Cucchiaio sedusse infine anche lenonne d’Italia negli anni frettolosi della Tecnica, glianni in cui il Paese si risvegliava e l’essere aspirava albenessere, il vivere al saper vivere, l’abbondanza di-ventava ghiottoneria, la povertà si mutava in mode-stia: non più sapori forti ma piaceri. Perciò vinse laguerra alla pesantezza dell’Artusi e alle stranezze del-lo Scappi, il cuoco dei Papi: «Battonsi otto uova che sia-no di almeno tre settimane ché sono migliori delle fre-sche…». Ecco: passava la voglia di mangiare.

Chicchi d’uvacon caprinoCaprino lavorato

con gocce di limone,

trito di pinoli, aromi

sale e pepe,

per farcire i chicchi

aperti e scavati

Vellutatadi zuccaCottura

in brodo

vegetale

con cipolla

e aglio

Frullare

e profumare

con noce

moscata

Per rifinire

un filo

di panna

e pepe

Anatraall’aranciaFasciare

con pancetta

dopo aver

farcito

con burro

e salvia

Rosolare

con vino

e brodo

Al fondo

di cottura

unire succo

e scorza

d’arancia

TiramisùMontare tuorli

e zucchero

e unirli

al mascarpone

Aggiungere

i bianchi

a neve

A strati,

savoiardi

spennellati

col caffè,

crema

e cioccolato

grattugiato

Pizzadi pennetteLa pasta al dente

e condita con olio

viene compattata

su una teglia oliata

Pelati e mozzarella

Infornare per 15’

Trigliettecon uvettaNella teglia, le triglie

deliscate con olio,

aceto, uvetta, pinoli,

sale e pepe

Cuocere sul fuoco

e ultimare in forno

Millefogliecon patateBurro, paprika

e latte per lavorare

le patate lessate

A strati la crema

e il manzo scottato

sotto il grill

Bavaresedi mandarinoTuorli montati,

cotti a bagnomaria

con succo e bucce

di mandarino

Gelatina, panna

e panpepato

© RIPRODUZIONE RISERVATA

vengono compilati i dieci

libri del De re coquinaria

230 d.C.esce La scienza in cucina

di Pellegrino Artusi

1891la prima edizione

del Cucchiaio d’Argento

1950

Giulio Peruzzi

Vortici e coloriAlle origini dell’opera di James Clerk Maxwell

Uno sguardo inedito all’opera di Maxwell

per capire le radici della scienza e della tecnica di oggi.

www.edizionidedalo.it

Roger G. Newton

La fisica dei quantisfida la realtà

Einstein aveva ragione ma Bohr vinse la partita

prefazione di Giulio Peruzzi

L’avvincente dibattito sull’interpretazione

della meccanica quantistica e sulle profonde obiezioni

di Einstein riguardo alla descrizione della realtà.

Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19GIUGNO 2011

l’incontroGente di mare

‘‘

“Per tornaresu c’è da pinneggiarecon le gambeche sembranoinsugherirsiIl cervellomanda impulsima loro vorrebberosolo bloccarsi”

in divisa a difendere l’indifendibile, as-serragliato al suo posto da combatti-mento su un tappeto di camicie nere ab-bandonate dai fuggiaschi. «Io ero statoeducato a credere nel dulce et decorumest pro patria mori. Trovavo la fuga ver-gognosa. Ma gli Hitler e i Mussolini nonmi sono mai piaciuti».

Più in là nella memoria ci sono deisommergibilisti superstiti «inzuppati esanguinanti» portati all’ospedale, a bor-do di un carro inglese. «Quella sera ces-sarono i lamenti e tutti insieme cantava-no il Nabucco». Battuti, ma non perden-ti, a loro modo fieri e vivi. Enzo Maiorcaaveva dodici anni allora. Quelle vicendesegnarono le scelte di un uomo che nonè «mai stato fascista» ma votava Msi e, alParlamento, nel 1994, andò da senatoredi Alleanza nazionale, restandoci perdue anni, trascorsi a litigare. «Vissi in unostato di attrito permanente. Non ho maisopportato i colonnelli. Rifiutai la rican-didatura: me ne torno al mare, gli dissi».Primo giorno a Palazzo Madama, il suoprimo no. «C’era da votare il condonoedilizio. Come facevo?». Mare e cemen-to non vanno d’accordo. «Anche adesso,vogliono massacrare questa costa con ilprogetto di due porti e di un villaggio.Hanno immaginato un’isola artificiale,cemento e mattoni sulle necropoli, folliapura. Tacciono sui reperti che stanno infondo al mare. Non vogliono che affiori-no, tutto verrebbe vincolato». Con la fi-glia Patrizia e “Sos Siracusa” sostieneuna campagna quotidiana contro laspeculazione e a difesa della splendidariserva naturale del Plemmirio. I proget-ti si sono incagliati sulla muraglia del-l’indignazione che Maiorca puntellasenza troppe illusioni. «A nord di Siracu-sa pagammo il prezzo all’industrializza-zione del petrolchimico, creando gene-razioni di “spostati”, contadini e pesca-tori entrati in fabbrica, sradicati dal loroambito e dalle loro idee. Allora, negli an-ni Cinquanta, ci sembrava un giustoprezzo per uscire dalla miseria. E cosìquesto mare lo abbiamo visto di tutti i co-lori: rosso, grigio e con le mèches. Ci con-solava sapere che rimaneva salva la co-sta di levante e quella a sud. Non è così,niente è più al riparo dalla voracità».

Rievoca, pietra dopo pietra, scogliodopo scoglio, ogni metro della sua costapasseggiando con Maria, la compagnadi una vita. Si conobbero sul treno che ri-portava lei e il padre in città dalle cele-brazioni dell’Anno Santo. Lui, dicianno-venne, figlio di Guglielmo, un borgheseche viveva curando i propri giardini, tor-nava dall’università: studi in medicina,poi interrotti. «Roma era un compro-messo, quasi un ricatto. Volevo fare l’uf-ficiale di Marina, mio padre me lo vietò.

Ma ciò che mio padre mi ha negato me losono ripreso e con fatica. Conquistatoper modo di dire, perché il mare non si la-scia prendere da nessuno». Va fiero del-la medaglia al merito della Marina, per leimprese sportive e «l’ardore nella difesadel mare».

Per il bambino che se ne stava ore ap-pollaiato alla finestra della casa di Grot-tasanta a scrutare l’azzurro non dovevaesserci altro destino. Fu mamma Gem-ma, toscana, a lasciarlo nell’acqua inco-raggiandolo a pescare le telline. E fu conuna maschera, rabberciata cucendo eincollandone una antigas abbandonatadai soldati, che vide il fondo per la primavolta. «Entrava acqua da tutte le parti, mapotevo guardare». La fidanzata, poi mo-glie, gli regalò la sua prima vera masche-ra da sub e a Ischia, in viaggio di nozze, luile insegnò gli stili del nuoto. Lui che nonpesca da molti anni, da quando sentìpulsare il cuore di una cernia appena in-filzata, fece il pescatore per vivere. Do-vette industriarsi, quando, a venticin-que anni, decise che con Maria avrebbemesso su famiglia. Poi informatore me-dico scientifico per trent’anni.

«Era il mio lavoro, quello con cui miguadagnavo lo stipendio. E mi piaceva.Come mi avevano insegnato, illustravo idifetti di un prodotto prima di esaltarnei pregi, ora dappertutto è un raccontaredi virtù nascondendo il peggio. È l’epocadei venditori, l’epoca di Berlusconi». Ilgiro di ambulatori per alimentare la pas-sione. «Le immersioni, i record, lo sport,quello mi ha dato da vivere e tanto, manon i soldi». Anche i giorni del primatodivennero trattenute in busta paga, perun congedo a zero assegni.

Aveva smesso per lunghi anni, dopo labestemmia in diretta tv nel 1974 per uncameraman incrociato tra la sua testa e ilcavo. «Successe di tutto in quella setti-mana, all’ultimo giorno utile per tenta-re, prima di una libecciata imminente,un altro cameraman andò in ebbrezzada abissi e strappò tutti i contrassegni se-gnametro. Il giorno dell’incidente ritar-dammo di cinque ore l’immersione per-ché il cavo si era avviluppato intorno aquello della tv e per liberarlo, anzichéutilizzare gli arnesi della nave appoggio,calarono un palombaro. Avrei forse do-vuto dire di no ma significava anche ri-nunciare al fascino della tv».

Negli anni lontano dai record, Patriziae Rossana, l’altra figlia, crescevano trabarche, bombole e apnea. Furono loro aconvincerlo a riprendere. E arrivaronostagioni di successi per quel trio di padree figlie che si emulavano a vicenda. «Ros-sana aveva qualcosa in più che la porta-va a fare determinate cose con natura-lezza». Rossana se n’è andata per unamalattia, sei anni fa. «Non è vero che iltempo è medicina. Non c’è giorno in cuiMaria e io non torniamo nei posti dovesiamo stati con lei. Era più capace di me,poteva fare di tutto». Per quella figliastrappata c’è stato l’orgoglio e perfinouna punta di rivalità. Ora c’è il ricordocontinuo, avvilente che tormenta «chinon crede nell’aldilà».

È un’unica gigantesca macchia in unavita felice. «Mi piace vivere. La mia è sta-ta una vita piena e densa». La voce si in-frange sugli scogli della sofferenza. Ser-ve pinneggiare per risalire. Altri ricordi:Jacques Mayol, l’antagonista dai duellimemorabili, morto suicida all’Elba. Asorpresa, Maiorca tira fuori il suo nomequando si tratta di indicare chi gli era piùsimile. Anni di cronache a descriverli di-versi che più non si poteva: il siciliano aragionare, il cino-francese più incline almisticismo, la battaglia sulla sceneggia-tura del film di Luc Besson, Le GrandBleu. «Eravamo affini, il punto di contat-to stava nel rispetto con cui ci muoveva-mo nell’acqua. Passavamo ore a litigaresulle correnti marine che invalidavanola giusta misura dei nostri successi. Mi

manca Jacques». Negli anni della sfida aspararsi bordate oltre il limite dello sber-leffo, nei successivi a rievocare quellestagioni come protagonisti di un’epo-pea in cui i computer si chiamavano ela-boratori elettronici. Il mare li teneva in-sieme, sull’altare di un sogno in cui l’ac-qua è dio, il mondo perfetto, con l’equi-librio da sfiorare nel silenzio di un corpoche gli scivola dentro. «Credo in qualco-sa, credo nel mare ed è lì che ritrovo il ru-more del silenzio». Il mare come religio-ne, come disciplina, come etica. E in fon-do al mare c’è sempre l’uomo. Parla at-traverso i cocci di un’anfora, i ferri di unoscafo. «Quando ti imbatti in un reperto,pensi alle speranze alle illusioni agliideali di quell’uomo vissuto anche tre-mila anni fa». Si illumina con i colori «delcorallo che si incendia sotto la torcia, inuna grotta che è un tempio giù nel cana-le di Sicilia, in un trionfo di luce filtranteda due fori in cima alla volta». A volte par-la con rintocchi di campana a morto, co-me nel fondale di Capo Passero. «Era apoppa di un piroscafo affondato. Provaia disincagliarla senza riuscirci e la sentiisuonare mentre risalivo. Tornai giù an-cora una volta e la sentii suonare di nuo-vo. Ero turbato ma attratto, mi avvicinaie scorsi un gigantesco polpo abbarbica-to alla campana che con uno dei tenta-coli batteva ritmicamente sulla parete».La memoria viva di quell’immersione èsull’avambraccio destro di Maiorca: ilsuo unico tatuaggio.

Ora i giorni sono occupati dalle batta-glie per il mare, dai libri, dai nipoti e dalperiplo di Ortigia. Maria è sempre ac-canto. Al mare torna quando può, quan-do il cuore glielo permette. «Fa qualchebizza ogni tanto», dice con noncuranza.Poi racconta del ricovero nel 2005 e deimedici che dissero: «Lei ha chiesto tantoa questo cuore: è giusto che lo lasci ripo-sare un po’». Ma immaginarlo in ozio èimpossibile, del resto «la posizione mi-gliore per l’uomo è in piedi, perché la te-sta è più vicina al cielo».‘‘

ENRICO BELLAVIA

SIRACUSA

Lo vedi incresparsi come ac-qua di porto al ruggire di unricordo, lo senti impennar-si come onda al riaffiorare

di un legittimo orgoglio, lo ascolti farsiscuro e buio sotto la coltre di un dolorepudico. Ha il mare dentro Enzo Maiorca.Lo ha, certo, negli occhi, ma è nella voceche lo riconosci. Ottant’anni fra unamanciata di ore per questo siciliano fie-ro che se ne sta sul bordo di Siracusa. Sot-to una jacaranda che sparge petali blusul prato e tende i rami oltre la baia, ver-so Ortigia. «Sembra un mazzo di fiori inomaggio al mare».

Racconta una vita in apnea, a testa ingiù nel profondo e nel freddo, per inse-guire un sogno, un record, un traguardo.Ma è nella risalita che si misura l’uomo.«Tutti i peccati che commetti in superfi-cie li espii in risalita, l’askesis greco, l’a-scesi è espiazione». Giù è la temerarietàdi un’immersione a capofitto nel buiolungo una corda: 30, 50, 60 metri. E poi,ancora, con i timpani che quasi esplodo-no, «un dolore lancinante», fino al limitee oltre: 101. Ma bisogna tornare su. «Pin-neggiare con le gambe che sembrano in-sugherirsi, farsi legnose, il cervello chemanda impulsi e loro che vorrebberobloccarsi». Lì, di fronte a quella «faticaimproba», serve volontà. Il trionfo, lagioia che stringe tra le dita il cartellino èrimasta sotto, qui e ora c’è da tornare al-la luce. Con i polmoni che chiedono ariae il cuore che vuole tornare a battere altempo della vita.

Rinunciare: accade. Per paura. «È unagiusta compagna che ti tiene vigile».Fuggire: no. Nei ricordi di Enzo Maiorcac’è Tonin, un alpino bellunese, rimastoda solo a mitragliare contro gli inglesi,che planando sugli alianti in una baia or-mai muta, avevano espugnato la costa il10 luglio del 1943. Tonin, l’angelo che vo-lava sull’acqua tuffandosi dalle rocce, è

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per la prima volta andò sott’acquacon una maschera antigas dimenticatadai soldati. Fu subito amore, ma primadi diventare il sub dei record fece

per un po’ il pescatoree per anni l’informatoremedico. Ora che ne compieottanta, fa il bilanciodi una vita: “I peccatiche commetti in superficieli espii sempre in salita

La posizione migliore per l’uomoresta quella in piedi, perché la testaè molto più vicina al cielo”

Enzo Maiorca

Repubblica Nazionale