Cristina Falasca - Stefano Minzi, Planetaria, Galleria L'Affiche, Milan, 2013

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PLANETARIA

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Exhibition Catalog 2013 Texts by Mathia Pagani and Riccardo Venturi Translation by Franco Soekardi per Spaziolingue Photos by Stefano Bigatti, Cristina Falasca and Stefano Minzi Graphic Design by Ernesto Panda Languages: Italian and English Printed by PressUp Roma

Transcript of Cristina Falasca - Stefano Minzi, Planetaria, Galleria L'Affiche, Milan, 2013

PLANETARIA

Cristina Falasca

Stefano Minzi

PLANETARIA

Presentazione in catalogodi Mathia Pagani

Intervista ed intervento criticodi Riccardo Venturi

Traduzioni di Franco Soekardi per Spaziolingue

18 aprile - 10 maggio 2013

Galleria L’AfficheVia dell’Unione 620122 MilanoTel 02804978 - 0286450124www.affiche.it

Mathia PaganiPlanetaria

La scienza è analisi spettrale, l’arte è fotosintesi.

(Karl Kraus)

10... Una terra pesa 81 lune. E sulla luna si pesa sei volte di meno. Ragione di una certa incertezza nel passo e in altri gesti consueti: afferrare, rilasciare, spingere, ritrarre. L’in-dice opponibile diventa conquista inutile per una umanità molto poco lunare. Guardate il video dell’astronauta che prova a puntare il palo e conficcarlo, rotolandogli a lato come risposta inaspettata a tanto sforzo.Ma quale uomo l’uomo conquista conquistando la luna? E quale luna ha in definitiva conquistato?9... Visto con ipotetici occhi lunari, il tanto acclamato arrivo della tribù umana è sogget-to da sketch comico. Una prima sonda, Luna 1, deve schiantarsi sul satellite ma manca il bersaglio e vola oltre.Una seconda deve schiantarsi e infatti si schianta. La terza anche. E così via.Ci sono volute 9 sonde per un atterraggio morbido. Come dire.8... Poi arriva un certo energumeno con un oblò in testa, fa un passetto prima di inciam-pare e dice che è un grande passo per l’umanità. Lascia per terra una targa in acciaio con un disegnino e qualche scarabocchio. Ne arriva un altro che cade conficcando un palo, mentre il terzo pulisce l’obiettivo della macchina fotografica, da turista sprovvedu-to. Sulla luna non c’è luna: c’è solo polvere. E una terra blu, laggiù.La terra è blu?7... Insomma, per tre anni c’è un via vai di energumeni che fanno saltelli e fotografie fuori fuoco.Poi più nessuno. Nessuno? Nessuno. Dal 1972 ad oggi nessun energumeno con oblò in testa ha più messo piede sulla luna.Visto con ipotetici occhi lunari l’incontro con l’umanità oblò saltellante può avere gene-rato molte perplessità.6... Intanto sul pianeta terra l’evento assume dimensioni non a caso planetarie. Quel passo goffo e l’astronauta turista diventano l’icona, oltre che di una generazione e di un sogno condiviso, di un concetto: l’uomo superando lo spazio ha superato se stesso, quindi può superare anche il proprio superamento.La luna è il passo 1, anche in senso cinematografico. Poi arriverà il passo 2. E arriverà anche la grafica computerizzata. Il cinema sarà sempre più reale della realtà. Il web più reale del cinema. E la luna sempre meno reale.5... Dopo il passo 1, il passo 2 e tutti gli altri passi, la luna passerà di moda. Qualcuno ha spento l’interruttore, puntando il dito sulla regina nuda: ehy guys, la luna è solo un sasso. Quindi: let’s dance! Luci stroboscopiche, sudore e calca. Ci sono i Duran Duran. Che dureràn sicuramente di più di una luna qualsiasi.4... Del resto la luna per qualcuno è anche archetipo del femminile. E siamo in piena liberazione sessuale. La luna non è più un amore, ma diventa un’amante occasionale: per occasioni, in un certo senso, spaziali.Sono davvero andate così le cose? Perché la conquista dello spazio non è più un mito fondante?Perché quelle immagini fanno ora un tenero effetto amarcord?Dov’è finita la luna?È la società dell’immagine baby. La luna è stata la prima grande star a farne le spese.Davvero?Davvero no. Pensaci un po’ su. Pensa con la tua testolina baby.

3... Ma sappi che se è vero che l’uomo non va più sulla luna, in questi giorni la luna è atterrata sulla terra, negli spazi a loro modo galattici di una galleria milanese, l’Affiche, dove due esseri umani l’hanno richiamata, riesplorata e riconquistata, se così si può dire, lavorando in remoto da quella Berlino che è stata a sua volta icona dell’epoca che ha conquistato lo spazio, perché figlia dei due figli di una guerra piuttosto fredda.E, per inciso, non si tratta di energumeni con un oblò in testa. Ma forse saltellano. Sono Stefano Minzi e Cristina Falasca.2... Planetaria non è una mostra, è la scenografia di un’epoca, dove i reperti, i fossili e i gusci disabitati di Cristina Falasca testimoniano possibili tracce di esistenze altre, con poesia delicata, su una materia a tratti ruvida, dove è il negativo del calco ad essere esposto. E il processo ad essere rovesciato: il non visibile, il lato nascosto della materia, si mostra. In una nudità che è anche sonora.Perché i suoni dell’installazione hanno un tempo così dilatato da sembrare fisso, liqui-do, prenatale, e così materico da dare l’impressione di riempire e completare le opere esposte. Un dialogo tra materia e suono, dove l’una scivola nell’altro in un movimento invisibile che richiama la duplice natura della materia, onda e corpuscolo allo stesso tempo. Di valzer.Si può toccare il suono e ascoltare la materia?1... Di sicuro si può guardare la luna nella gigantografia di un francobollo, leggere un’i-dea di solitudine nelle pin-up riprodotte in formato tascabile per astronauti astinenti, toccare e accarezzare Laika prima che venga catapultata con gran clamore nell’univer-so, respirare nell’oblò di Gagarin e sorridere con lui: se avesse potuto Stefano Minzi avrebbe riprodotto, con la tecnica del transfert da fotocopia, anche qualche frammento di luna. Ma è il contorno sociale e politico del mito spaziale, qui sulla terra, che Minzi indaga. La memoria collettiva che vive a sua volta di reperti e lascia tracce, impronte: sbiadite come un mito dimenticato, vere perché copie di una copia.Cosa vedono due specchi infatti, se si guardano l’un l’altro, se non l’infinito, e oltre?0.

Intervista di Riccardo Venturi agli artisti

RV Cominciamo dall’inizio, o meglio da prima dell’inizio. Perché Planetaria si apriva in realtà prima di entrare all’interno dello spazio espositivo vero e proprio. Avete infatti deciso di utilizzare la lunga vetrina orizzontale che fiancheggia l’ingresso dello stabile nel cui cortile è ospitata la galleria. Senza dubbio, si trattava di una scelta dettata dalla man-canza di spazio e dalla mole di materiale che avete prodotto per Planetaria. Tuttavia mi sembra che questo display costituisca una sorta di antefatto ai temi e alle immagini che il visitatore troverà presto all’interno dello spazio espositivo. E che in questi pochi metri a manifestarsi è una certa densità visiva e concettuale: ci sono dei libri aperti che mostrano delle fotografie, degli specchi sullo sfondo per vedere il retro dei libri, delle sculture installate su piedistalli di specchi all’altezza dello sguardo dei passanti…

SMIn effetti la lunga vetrina che porta alla galleria è tradizionalmente utilizzata dagli arti-sti dell’Affiche come preambolo ed introduzione alla mostra. E’ uno spazio interessante perché costituisce una sorta di filtro tra la Milano dello shopping e lo spazio espositivo. Un’esca che, se studiata bene, può attirare il passante e condurlo nell’atmosfera della mostra. E’ anche uno spazio particolare e difficile, con le sue nove finestre che scandi-scono un ritmo fitto nel corridoio relativamente stretto. Tutti questi aspetti hanno costi-tuito un banco di prova per me e Cristina per mettere in relazione, in uno spazio ridotto, i nostri lavori molto diversi dal punto di vista del linguaggio.

CFInoltre lo spazio delle vetrine richiama l’idea dell’ “espositore didattico”, concepito come un catalogo di elementi non ordinari esposti allo sguardo del visitatore. Un po’ come in un museo di scienze naturali, in cui fare incontri insoliti con oggetti non quotidiani. Noi abbiamo deciso di comporre lo spazio a disposizione, giocando sulla reciprocità del den-tro/fuori, visibile/nascosto, sfruttando l’elemento comune degli specchi, che in qualche modo è stato il legante semantico dei nostri lavori così linguisticamente diversi.

RVLa vetrina in effetti restituisce sin da subito le atmosfere se non l’universo di Planetaria. Le vostre realizzazioni, che installate in un contesto più classico – ovvero quello della sala museale o del white cube della galleria – verrebbero connotate intuitivamente come opere d’arte, messe in vetrina o sotto vetro o riflesse dagli specchi, diventano oggetti dalla natura ambigua. Sono sculture ma anche oggetti, libri d’arte ma anche, sempli-cemente, libri. Al riguardo trovo prezioso il riferimento al museo di scienze naturali, in quanto opera questo piccolo scarto che si riflette anche sul resto dei lavori.Prima di entrare nello spazio espositivo, vi chiederei di descrivere cosa c’era in vetrina…

SMAppoggiato alla base della vetrina, aperto a fisarmonica per quasi tutta la sua lunghez-za, campeggia il libro d’artista intitolato The two faces of the Moon. Un leporello che ho realizzato nel 2013 utilizzando come pagine le lastre di carta di alcune opere esposte nella mostra (principalmente quelle appartenenti alla serie Manama). E’ quindi un libro realizzato con degli “scarti” del mio processo di stampa preferito: lo Xerox Transfer qua-dricromatico. Le due copertine di cartone sono invece stampate ad hoc (sempre con la stessa tecnica) e rappresentano due dei principali attori politici della corsa allo spazio negli U.S.A.: John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon. Le due facce della Luna del titolo richiamano le anime contrapposte che i due presidenti incarnano nell’immaginario col-lettivo della recente storia americana: quella sognatrice e progressista e quella cinica,

corrotta e plutocratica.All'interno del libro (uno per ogni facciata) ho ricopiato a stencil con uno smalto dorato i testi di due discorsi scritti dai due presidenti statunitensi.Il primo discorso, famosissimo, è stato pronunciato da JFK alla Rice University di Hou-ston (Texas) il 12 settembre 1962, un anno e un mese prima di essere assassinato. In questo discorso Kennedy prometteva che entro la fine del decennio gli astronauti ame-ricani sarebbero sbarcati sulla Luna, malgrado i costi esorbitanti e la immane sfida tec-nologica. Un traguardo considerato inarrivabile ma che è stato in seguito effettivamente realizzato.Il secondo discorso, scritto sul lato nascosto del libro che lo spettatore più curioso può provare a leggere negli specchi appoggiati sul fondo della vetrina, è un discorso mai pronunciato. Richard Nixon, il presidente che ha avuto l’onore e la fortuna di raccogliere nel 1969 i frutti delle promesse di Kennedy, aveva preparato un discorso da pronunciare nell’eventualità che gli astronauti dell’Apollo XI Aldrin e Armstrong fossero morti sulla luna e quindi la missione fosse fallita. Quel discorso si concludeva con un cupo: “Ogni essere umano che guarderà verso la Luna nelle notti a venire saprà che c’è un angolo di un altro mondo che appartiene per sempre all’umanità”.

CFIn vetrina sono state esposte 9 sculture di medio-piccola dimensione e 4 stampe a sec-co su carta 53x75cm. Le sculture in gesso, foglia d'oro e patina di argilla, sono titolate Reperto#1-2-3....9. Sono dunque “oggetti”, come tu suggerisci, che innescano l’idea di un ritrovamento, testimonianza di una esistenza lontana, stravagante. Sono oggetti che sfuggono tuttavia ad una reale catalogazione scientifica, in quanto extra-ordinari, strani, non riconducibili ad una memoria appartenente al nostro conosciuto/conoscibile. Sembrano ma non sono.Mi sono divertita a giocare con l’idea di mistificazione, questo in generale in tutti i lavori presentati in mostra. Mi interessava poter manipolare e deformare l’idea che si costru-isce intellettualmente guardando qualcosa; intervenire sul processo mentale di attribu-zione di senso. Lo spettatore guarda un oggetto ex-novo, ma l’ambiguità di fondo dei materiali presentati, mette in dubbio proprio la certezza che sia un oggetto artefatto.Le sculture sono realizzate in gesso. Sono però partita da un blocco di argilla, che ho lavorato con una procedura inversa, per ottenere un negativo.La parte nascosta, interna, delle sculture è patinata con foglia d’oro, e solo attraverso la sua riflessione nella base specchiante si ne può cogliere la qualità preziosa, raffinata, dell’oro, in contrapposizione a quella ruvida e sporca della superficie.Le stampe a secco bianco su bianco, sono parte di una serie più ampia di 9 stampe, nominate come i 9 pianeti del sistema Solare. Sono uno sfondo molto discreto, come delle apparizioni, un omaggio alle qualità specifiche dei dodici pianeti. Realizzate con elementi vegetali, arborei e cereali, impressi a secco, codificano l’idea dell’impronta, della memoria di un elemento che rimane come un marchio, come testimonianza, come l’immagine della prima impronta sulla Luna.

RVEntriamo finalmente in galleria. Se la vetrina è un dispositivo preesistente con cui siete entranti in dialogo per accordare in qualche modo l’esperienza dello spettatore al vostro universo visivo, la galleria si presentava come il classico white cube. Si poneva quindi il problema di come presentare il vostro lavoro. Da una parte, Stefano, hai occupato l’ufficio della galleria, in particolare gli scaffali, come in un proseguimento ideale della vetrina. Tuttavia, anziché esporre dei libri, que-sta volta figurano dei libri fotografati. Al primo grado di distanza/distanziamento creato dalla scrittura difficilmente decifrabile sui leporelli, si aggiunge ora un secondo grado, più concettuale, in cui del libro resta solo una traccia fotografica, come se questi do-

cumenti fossero rubati a un archivio andato distrutto o comunque inaccessibile. Vi era inoltre una foto appesa dall’alto, una foto non più ancorata alla terra, alle pareti, agli scaffali, un aquilone legato ai temi celesti e astronomici della mostra.Dall’altra, Cristina, al centro della stanza, hai disposto – e soprattutto costruito – dei piedistalli simmetrici, cavi all’interno, di diverse altezze e materiali per disporre i tuoi reperti, finalmente liberati dalla calotta del vetro che rischiava di accentuarne la loro natura museale. Si tratta di tavoli o piattaforme che a me, e probabilmente a ogni oc-chio allenato alla palestra artistica del XX secolo, non possono non evocare la scultura minimalista. La porosità della tavola su cui poggiano le sculture, le diverse altezze che le associano a volte a delle sculture su un piedistallo altre volte a delle pietre trovate a terra e appena rialzate per non calpestarle, trasforma radicalmente questi “oggetti”.Potete rivenire sul ruolo di questi dispositivi d’esposizione, che mi sembrano vere e pro-prie strategie artistiche?

CFPensare le sculture all’interno di uno spazio classico stile white cube, ha inevitabil-mente posto la questione della coesistenza di due lavori linguisticamente così diversi, ma fondati su tematiche e percezioni comuni. Mi interessava la possibilità di costruire l’oggetto piedistallo con una duplice funzione, sia di cassa per trasporto che di soste-gno per l’esposizione, ed inoltre che fosse anche un dispositivo ‘legante’ con il lavoro di Stefano. Ho dunque costruito i piedistalli intorno alle sculture stesse, pensandoli anche come contenitori dell’opera. Di conseguenza questi riflettono in qualche modo l’esigenza stessa dell’opera, di essere contenuta e protetta per il trasporto, ricavando da esse le dimensioni. Al piano spaziale e formale, effettivamente di evocazione minimalista, si sovrappone, ma anche si unisce, il piano dialettico del mio lavoro in dialogo con quello di Stefano. Da qui la scelta di velare queste strutture/piedistallo con una vernice dorata, molto leg-gera e discreta ma che, percettivamente, in modo sottile, costruisce un filo rosso, un legante appunto, sia con le sculture stesse, che con alcuni dei suoi lavori, in particolare i tre grandi ritratti su tela esposti nella parete centrale, nei quali ha usato una leggera doratura come sfondo. Un altro aspetto è il posizionare le opere nello spazio a diverse altezze e le superfici su cui esse posano: la scelta di seguire un andamento irregolare aveva sia lo scopo di movimentare visivamente l’insieme della mostra, sia di coinvolgere lo spettatore ad osservare le opere in uno stato corporeo di attenzione nei confronti dello spazio fruito, innescando una conseguente dinamicità. Sopra ogni piedistallo sono posate delle lastre di metallo, su cui le sculture sono collocate. Seguendo il suggerimento di Adriano Mei Gentilucci, il gallerista, abbiamo dato una soluzione ossidante a queste lastre, portan-dole ad una colorazione variabile e rugginosa. Queste, a mio avviso, creano una sensa-zione in parte di contrasto con alcune superfici più raffinate e gentili delle sculture, ma anche di risonanza con altre superfici ruvide e sporche delle stesse.

SMEntrando nella sala principale della galleria a sinistra c’è un piccolo angolo d’ufficio dove normalmente vengono esposti i cataloghi. Non avendo realizzato il catalogo in occasione dell’inaugurazione ho deciso di invadere le scaffalature con alcune opere.La serie Spacebunnies è formata da sei stampe in bianco e nero ciascuna di 30x40 cm in cui figurano delle riproduzioni di un piccolo libro che gli astronauti dell’APOLLO XII por-tavano in dotazione applicato al polso della loro tuta spaziale. All’epoca chiaramente non esistevano palmari e tablets, per cui gli astronauti utilizzavano questi piccoli taccuini per poter richiamare alla mente le numerose e complesse procedure che dovevano eseguire durante la missione. La cosa sorprendente è che nel realizzare questi taccuini gli addetti della NASA hanno deciso di aggiungere, all’insaputa degli astronauti, alle noiose check

list necessarie alle procedure anche delle immagini, con lo scopo di allentare la tensione e strappare un sorriso ai temerari eroi nello spazio. Le immagini consistono in parte in vignette comiche e in parte in foto di prosperose playmate dallo sguardo seducente. Le immagini erotiche erano accompagnate da divertenti giochi di parole del tipo: “ricordati di descrivere le protuberanze” oppure “notato qualche collinetta interessante?”. Mi interessava molto esporre questi documenti perché illuminano un aspetto del rappor-to uomo donna nel momento della “conquista” della luna (il femminile) da parte dell’uo-mo, proprio nel periodo della liberazione sessuale negli anni successivi al 1968. E’ un tema che scorre sotto la superficie del mio lavoro e torna nella scomposizione visiva dei volti delle coppie ufficiali in Mariti e Mogli. Anche l’aquilone sospeso nello stesso angolo ha a che fare con il femminile: rappresenta la prima donna astronauta, la sovietica Va-lentina Vladimirovna Tereskova. Mi interessava in qualche modo contrapporre le diverse immagini della donna nelle due culture contrapposte nella corsa allo spazio.

RVPrima di rivenire, nella conclusione, sul rapporto mutevole del vostro lavoro su cui insiste Cristina, vorrei procedere su due binari paralleli, come parallela era del resto Planetaria, concepita a quattro mani. Vorrei chiedere a ciascuno di voi in che modo questa mostra s’inserisce nello spettro più ampio del vostro lavoro precedente, ovvero in che termini conferma quanto precede e in che termini invece rilancia e apre verso direzioni prima insospettate. Perché nell’insieme di Planetaria mi sembra di ritrovare delle costanti del vostro lavoro ma anche un tentativo di estremizzare tendenze in germe.Nel caso di Cristina, mi sembra diventi evidente l’importanza del recto e del verso delle sculture, come pieghe di un oggetto che potrebbe animarsi e girarsi come un guanto. A questo si lega la tensione tra un materiale grezzo e uno raffinato – e così ricco di strati-ficazioni storiche nel campo della scultura – come l’oro. E altresì la loro natura minerale che, nel contesto di Planetaria, si accentua fino a farne dei reperti misteriosi provenienti da un’altra galassia. Infine penso a una maggiore consapevolezza riguardo alla disposi-zione – e alle aspettative – dello spettatore, alle condizioni concrete in cui incontra un oggetto che riconosce presto come scultoreo.Nel caso di Stefano, la stampa e il libro, due medium con cui lavori da tempo, finalmente convergono nello stesso oggetto, in parte readymade – il libro d’istruzioni della NASA che sembra ispirato più alla Pop Art che alle procedure di sicurezza –, in parte reinven-tato. Quanto ti permette di declinare diversamente il rapporto maschile/femminile (nella forma della donna, della luna o dell’aquilone). Riguardo alle foto, penso al convergere di elementi biografici (se non autobiografici legati comunque alla storia della tua famiglia) e di eventi storici più grandi di noi che sulle prime non hanno punti di tangenza ma che, in qualche modo – ed è qui mi sembra la sfida – sembrano inestricabili.

CFI lavori realizzati per Planetaria sono, per entrambi, lavori complessi e leggibili su vari piani di riflessione e interpretazione. E’ interessante la visione del guanto che si rivolta, è un’immagine forte che conduce spontaneamente al tema del recto e verso nel mio lavoro. La dualità è un tema a cui sono profondamente legata: la coesistenza del diverso, la Coniunctio Oppositorum, il matrimonio mistico degli opposti nella visione alchemica, la Coincidenza degli Opposti suggerita da Eraclito e così via. E’ questo il substrato concettuale che attraversa il mio lavoro, declinandosi in un ventaglio di possibili varianti: dalla coesistenza di materie estremamente differenti alle sensazioni contraddittorie e ambigue con cui lo spettatore entra in contatto, fino all’aspetto dell’eterno femminino che si esprime anche attraverso l’energia attiva e maschile. La polarità si rivolta, si offre in modo reversibile agli occhi dello spettatore, tenta di darsi nella sua natura complessa di coesistenza, unione, unità.Le sculture in mostra si offrono allo sguardo in modo ambiguo, forse reperti di altre

galassie, forse oggetti che sperimentano il proprio recto e verso, il dentro e il fuori, il concavo e convesso, il femminile e il maschile. Forse, come hai notato, nel caso di que-sta serie di lavori per Planetaria, alcune tendenze si sono estremizzate, soprattutto nella metodologia di lavoro.L’idea di impronta, di imprimere, suggerita dalla tematica della mostra, mi ha portata a sperimentare in modo più ampio e profondo l’idea di reversibilità, di uno spazio continuo dove la superficie si modula da recto a verso, cercando di assottigliare il confine fisico, la soglia di intervallo tra Uno e l’Altro.

SMPlanetaria è stata per me un importante punto di svolta. Affrontare un tema universale come la conquista dello spazio è stato un ottimo espediente per scrollarmi di dosso molti anni di opere e mostre incentrate sull’asfissiante clima politico italiano. Nonostante ciò, in questo lavoro esercito ancora uno sguardo politico. Penso in particolare al contrasto tra un’epoca (gli anni Sessanta) in cui si vedeva come inevitabile e assai prossima l’e-spansione della civiltà umana nel sistema solare e ben oltre, e l’epoca in cui viviamo oggi in cui si ha la consapevolezza di essere intrappolati in un pianeta che corre ad una velocità incontrollabile verso la rovina. Il mio apporto a Planetaria vuole essere un piccolo tributo a quest’epoca e a questa infantile fede nel progresso. Questo disincanto viene vissuto individualmente oggi nella biografia di ogni bambino che sogna di fare da grande l’astronauta fino a risvegliarsi adulto in un mondo inquinato e sempre più claustrofobico. L’aspetto autobiografico, al-tro filo rosso nel mio lavoro, è presente ma ben nascosto: la serie di stampe quadricro-matiche Manama è costituita da riproduzioni di alcuni francobolli a tema spaziale tratti dalla collezione di francobolli che ho raccolto durante l’infanzia.

RVLe vostre risposte contengono un elemento che mi colpisce di Planetaria e, più in gene-rale, del vostro lavoro: ovvero il rapporto strategicamente obliquo verso il contempora-neo, come in contropiede. Il vostro universo visivo è costituito, semplifico, nel caso di Cristina, di reperti pseudo-archeologici, meteoriti cadute da chissà quale pianeta, nel caso di Stefano, di leporelli realizzati con una tecnica pre-digitale. Ovviamente non si tratta di semplici accortezze tecniche, ma di un aspetto decisivo del vostro lavoro. Entra così in risonanza con un’esigenza condivisa da molti artisti: recuperare o riattivare l’ob-soleto, mimare processi archeologici oppure occuparsi del “paleofuturo”, ovvero della visione del futuro formulate nel passato. In quest’ultimo caso penso al lavoro di Stefa-no: l’allunaggio era considerato come l’orizzonte utopico alla fine degli anni sessanta ma per noi oggi fa parte del passato – è un futuro anteriore, che descrive bene l’universo, l’atmosfera direi, di Planetaria. Forse un modo per sfuggire a quel clima politico asfis-siante che evochi…

SMIl concetto di “paleofuturo” mi sembra in perfetta armonia con la mia visione della mostra. La distanza che ci separa dagli anni sessanta è indispensabile per avere una visione più ampia; visione che nello sguardo sul contemporaneo sarebbe impensabile. Bisogna uscire dalla foresta per poter comprenderne l’ampiezza. Il mio sguardo sulla storia non vuole essere una parodia e tanto meno un giudizio. Piuttosto l’invito a una riflessione sull’ambiguità delle dinamiche inscenate nella società della comunicazione di massa. Il puntare un piccolo fascio di luce su alcuni meccanismi più o meno consapevoli con cui la Storia tramite i suoi attori e registi principali stimolano con estrema semplicità delle reazioni a catena nell’inconscio collettivo di una data epoca. Numerose figure ar-chetipiche emergono tra i personaggi di Planetaria: il mito dell’eroe, gli Arcani Maggiori della Luna e del Mondo, le necessarie vittime sacrificali per la riuscita del rito (Leika), il

missile fallo (La Torre?) e ancora la Luna descritta come una docile e prosperosa pin-up.Questo aspetto emerge in particolare nell’opera Il Primo Uomo, in cui sovrappongo l’im-magine del primo astronauta a camminare sulla luna con una stampa medievale in cui ogni organo del corpo umano è associato a un segno zodiacale. Quanto sono distanti queste due umanità?

CFRecuperare e riattivare l’obsoleto: forse ci si interroga su cosa sia l’obsoleto e cosa sia il contemporaneo, e come queste qualità del reale in relazione al tempo si manifestino e siano sostenute e convalidate da un contesto sociale, artistico e culturale.Nel mio caso, il contributo alla mostra Planetaria è stato stimolato non tanto dalla fun-zione storica dell’evento allunaggio, dell’utopia tecnologica, e come questa sia stata còlta ed elaborata dal tessuto sociale, quanto dall’aspetto ambiguo della comunicazione, dal modo in cui tale risonanza mediatica ha giocato un ruolo importante nell’esperienza dell’essere umano, nella costituzione di un immaginario legato allo sconosciuto. Non mi interessava sottolineare l’aspetto maschile della conquista e dell’intreccio politico, come nell’opera di Stefano: mi sono concentrata su ciò che la relazione con lo sconosciuto determina nel sentire comune. Cosa scatena a livello percettivo e dunque emotivo e dunque psichico: la visione di qualcosa di non definito, incerto, ambiguo? La mistificazione del reale, gioca con le aspettative dell’individuo, e devia le certezze che l’intelletto crea, suggerendo possibilità differenti attraverso una messa in discussione forzata. Ad esempio nell’opera audio Lunar, nella quale i materiali campionati proven-gono dal sito della N.A.S.A., dunque sono materiali sonori accessibili e divulgati da una istituzione scientifica, valida e riconosciuta, ma sono deformati e manipolati digitalmen-te, creando atmosfere evocative, che nulla hanno a che fare col reale. Nel caso dei ma-teriali scultorei, il mimare processi archeologici è anch’essa una forma di mistificazione, di gioco, messo in atto al fine di ricondurre l’immaginario collettivo verso un’origine arcaica e ancora oltre, risalire la linea del tempo, al contrario.

RVLa ricchezza simbolica e visiva di Planetaria è tale che è facile immaginarne un seguito, o eventi paralleli che rimettano in circolo lo stesso materiale. Prima di congedarci, vor-rei chiedervi se e in che modo l’esperienza di Planetaria ha influenzato la vostra ricerca visiva attuale, se alcuni elementi qui marginali hanno preso il sopravvento; oppure se, terminata la mostra, siete passati a tutt’altro perché questo materiale va in qualche modo lasciato “riposare”, prima di essere ulteriormente rilavorato…

SMPer quanto mi riguarda il mio lavoro successivo si è concentrato su altre tematiche e altri media. Nel periodo successivo alla mostra mi sono dedicato per lo più alla pittura, riprendendo in mano un discorso iniziato molti anni fa. Nonostante questo alcune solu-zioni e idee nate per il progetto Planetaria rimangono centrali nella mia ricerca e sono sicuro che troveranno in futuro un nuovo sbocco.

CFDal mio punto di vista, il lavoro e l’immaginario messo in campo dalle tematiche della mostra hanno influenzato sicuramente il mio lavoro attuale. Probabilmente sia l’imma-ginario che la procedura tecnica sperimentata sono per me ancora vitali nel panorama della mia ricerca artistica. Ovviamente non so per quanto questa direzione mi accompa-gnerà né se mai risulterà satura prima di una ulteriore svolta.

Cristina Falasca Fossile , 2012, 120 x 65 x 7 cm

Stefano Minzi Laika , 2012-2013, 90 x 120 cm

Stefano Minzi Big Golden Laika , 2012, 110 x 90 cm

Stefano Minzi Mariti e Mogli (24 soggetti) 2012, 26 x 30 cm cad.

Cristina Falasca Guscio #2 , 2013, 70 x55 x 25 cmGuscio #3 /#4 , 2013, 16 x 13 x 4 cm

Stefano Minzi Spacebunnies (6 soggetti), 2013, 30 x 40 cm cad.Aquilone, 2013, 60 x 53 x 5 cm

Stefano Minzi Manama 250 , 2012, 60 x 80 cm

Manama 2 , 2012, 60 x 80 cm

Manama 75 , 2012, 60 x 80 cm

Cristina Falasca, Guscio #6 , 2013, 25 x 20 x 12 cm Guscio #5 , 2013, 23 x 19 x 12 cm

Stefano Minzi Il primo uomo , 2013, 80 x 60 cm

pagina a fianco:Stefano Minzi Missile 2013, 60 x 38 cm

Cristina Falasca Guscio #1, 2012, ø40 x 18 cm

Stefano Minzi The two faces of the Moon , 2013, leporello, 50 x 37 cm (chiuso)

Cristina Falasca Reperto #5 , 2013, ø15 cm (circa)

Cristina FalascaMarte, 2013, 75 x 53 cmReperto#8 , 2013, ø15 cm

CRISTINA FALASCA

Rome 1981. Lives and works between Rome and Berlin.

Education

2010 Academy of Fine Arts Rome, Master Degree in Sculpture

2006 University “La Sapienza” Rome, Bachelor Degree in Humanities, History of Contemporary Art profile

Personal Exhibitions

2013 Cristina Falasca - Stefano Minzi, Planetaria;Galleria L’Affiche, Milan.

2012 Cosa ferma le altalene?_unconventional twins - doppio personale (Albanese/Falasca), curated by Flavia Montecchi, Pino Casagrande Gallery, Rome.

2011 Che sia tu che sia io, curated by Francesca Gallo, AOCF58 Gallery, Rome

Selected Group Exhibitions

2015 “Omaggio al paesaggio – sculpture Simposium”, Roccafluvione, (IT)

2014 Projects for “Il giardino di Irene Brin” - Irene Brin Museum, Sasso di Bordighera

2013 La Sequenza dei Fiori di Carta, curated by Martina Cavallarin, SCATOLABIANCA Incubatore, Sant’Elena, Venice.

2013 Essere io non ha misura – curated by Artnoise, Macro Factory, Rome

2013 Unconventional Collective – curated by Flavia Montecchi, Pino Casagrande Gallery, Rome

2012 ALL CONNECTIONS WILL BE REACHED - curated by Kreuzberg Pavillon, Gartenstudio, Berlin

2011 DOUBLE ESPACE – curated by Bruno Di Marino, La Nuova Pesa Gallery, Rome

2011 NUTOPIE - Altre Narrazioni – curated by Andrea Fogli, MLAC, La Sapienza University, Rome

2011 ART IN BOX - Czech-Italian group exhibition – curated by Susanna Horvatovičová and Tereza Rullerová, La Porta Blu Gallery, Rome – Czech Institut of Culture, Milan

2010 Buen Viage, curated by Graziano Menolascina and Andrea Fogli, a.g Artecontemporanea Gallery, Rome

2010 My Generation – under 35, curated by Manuela Pacella, Museo Pietro Canonica, Rome

2010 Lungara 18 - Stanze Segrete - curated by Lucianella Cafagna, artist’s studios in Trastevere, Rome

2010 Interiors - curated by Manuela Pacella, Ugo Ferranti Gallery, Rome

2009 Germinazioni #2 Step Forward - curated by Manuela Pacella, Palazzo Penna, Perugia

2009 Avvertenze Artistiche - curated by Emanuele Ladovaz,Trajan’s Market, Rome

2008 Legami – un segno nel parco - Symposium of sculpture, Roman Travertine, Tivoli

2006 Frammenti - Villa Sciarra, Frascati

Stefano Minzi The two faces of the Moon , 2013

Selected Group Exhibitions 2015 Metropolis, a book-art project by Andreas Kramer. São Paulo - Venedig – Berlin.

2013 La Sequenza dei Fiori di Carta, curated by Martina Cavallarin, SCATOLABIANCA Incubatore, Sant’Elena, Venice.

2013 Quadrilegio, Parma, ITA.

2012 All connections will be reach, curated by Kreuzberg Pavillon, Gartenstudio, Berlin, GER.

2012 Patria Interiore/Inner Homeland, curated by Manuela Pacella, Golden Thread Gallery, Belfast, UK.

2011 Altre Narrazioni, curated by Andrea Fogli, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Università La Sapienza, Rome, ITA.

2011 Exhibition of Works by Italian Contemporary Artists, curated by Carola Syz, Italian Embassy, London, UK.

2011 Bianco e Nero, Galleria Ugo Ferranti, Rome, ITA.

2010 Art Grain, Fridey Mickel Gallery, Berlin, GER.

2010 Ecobrain, curated by Martina Cavallarin, EcoArt Project. Ecomondo – Rimini Fiera – Rimini.

2010 My Generation, curated by Manuela Pacella, Museo Pietro Canonica, Rome, ITA.

2010 Parlour No. 17, curated by Meenakshi Thirukode, (http://parlourdoor.com/) New York, USA.

2010 PILOTA, project by Marco Pezzotta and scatolabianca (www.scatolabianca.com), Berlin, GER.

2010 XXVI IN MMIX, a selection of prints. Art’s Bar, 25a Camberwell Church Street, London, SE5 8TSUK.

2010 The Marginalia Project, Exhibition on the road between Anchorage (AK) and New York City (NY), USA.

2010 Interiors,curated by Manuela Pacella, Galleria Ugo Ferranti, Rome, ITA.

2010 Guten Abend mein Freund, Gallery Homeland, The Ford Building, Portland, Oregon, USA.

2009 Parlour No. 9, Open Season, New York, USA.

2009 Marginalia. MTS Gallery, 3142 Mountain View Drive, Anchorage, Alaska, USA.

2009 Camberwell MA Show. Camberwell College of Arts (UAL), London, UK.

2008 WUNDERKAMMER. La camera delle Meraviglie. Creative Room, Rome, ITA.

2008 The M.A. & Other Contemporary Art Show 2008, Atkinson Gallery, Somerset, UK.

2008 An Act of Happening, Red Gate Gallery, London, UK.

2007 Climate of Change, 235-245 Union St,London, UK.

2007 Yo! What Happened to Peace?, The Foundry, Shoredich, London, UK.

2006 OSI (Occupare Gli Spazi Interni), Enzimi, Rome, ITA.

2005 Incisione Italiana Under 35, Art and the printing press 2005 ADAFA, Cremona-Krachowie.

2004 Dissolvenze: giovani artisti in galleria. Galleria Officina14, Rome, ITA.

STEFANO MINZIMilano 1976

Lives and works between Rome in Berlin

Education 2009 Camberwell College of Art, London MA Printmaking 2002 Graduated summa cum laude in History of Contemporary Art at “La Sapienza” University in Rome.

Personal Exhibitions

2013 Cristina Falasca - Stefano Minzi, Planetaria;Galleria L’Affiche, Milan.

2013 The Wheel of Fortune, Galerie Lifebomb,Leipzig.

2012 Ouroborus, curated by Manuela Pacella, Galleria Ex-Elettrofonica, Rome.

2011 Aria, Galleria Lorcan O’Neill,Street View, Rome.

2009 L’imperatore; Galerie FMAB, Berlin.

2009 Digestione; Galleria L’Affiche, Milan.

2008 Family Game, curated by Manuela Pacella; Galleria AOCF58, Rome

2006 Mater Atomica, Galerie Lifebomb, Berlin.

2005 Atomic Dreams; Galleria Il Quadrato di Omega; Rome.

Riccardo VenturiArcheologia lunare

Astronomy Domine

C’era una volta l’era spaziale. Una volta quando? Nel 1957 diranno subito i miei lettori, quando il 4 ottobre l’Unione sovietica mandò in orbita il satellite Spoutnik 1; lo stesso anno in cui venne indetto l’Anno Geofisico Internazionale sui rapporti tra il sole e la ter-ra. Eppure le cose non sono così semplici, come dimostra quella celebre storia italiana che aveva come protagonista un pezzo di legno e non un re, e come la storia che accen-neremo qui – quella di un pezzo di osso.

Non è affatto certo, questa è la premessa, che l’era spaziale risalga alla sinergia virtuo-sa di elementi scientifici, tecnici, politici, militari e commerciali della civiltà moderna, al perfezionamento tecnologico di strumentazioni astronomiche come le sonde spaziali. Se adottiamo uno sguardo antropologico-etnologico, le date dell’era spaziale comincia-no a scendere progressivamente quanto inesorabilmente fino a toccare le origini della scienza e le civiltà agricole della Grecia, dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India, della Cina, dei Maya o degli Inca nell’America Centrale, che avevano del resto stabilito un calendario lunare. L’esplorazione dello spazio da parte dell’uomo si può far risalire al passaggio dalla caccia all’agricoltura, due attività che instaurano un diverso rapporto col tempo. Se la caccia si svolgeva nell’arco di una giornata, l’agricoltura seguiva l’avvicendarsi delle stagioni, era un’attività regolata dal tempo o time-factoring, come si esprime il giornalista, archeo-logo e storico dell’arte americano Alexander Marshack (1918-2004), che qui ci farà da guida. E time-factoring, aggiunge Marshack, sono anche il cervello, l’arte e la scienza, le leggende e le cerimonie, l’astronomia e la religione, la scrittura e il linguaggio che permettono all’uomo di organizzare un’esistenza sempre più complessa. Certo, queste discipline non hanno aspettato la diffusione dell’agricoltura per svilupparsi, e del resto ci è giunta traccia di osservazioni lunari precedenti lo sviluppo dell’agricoltura. Che si debba risalire ancora più indietro? No, un attimo, ma più indietro dove? Perché in questo modo l’era spaziale finisce per coincidere con la storia dell’umanità stessa. Non siamo più davanti a una questione di astronomia allora, ma di archeologia lunare.

Ishango, Ishango!

Immaginiamo di trovarci a Ishango, sito mesolitico nell’attuale Congo, sulle montagne orientali dell’Africa equatoriale, nella parte superiore del Nilo. Attorno al 6500 a.C., tre-mila anni prima la comparsa della prima dinastia egiziana, una comunità di pescatori viveva sulle rive del lago Edoardo; purtroppo scomparvero poche centinaia di anni dopo a causa di un’eruzione vulcanica. Se ne parliamo ancora oggi, è perché qualcosa della loro civiltà è giunta fino a noi. Manufatti all’apparenza insignificanti, come un minusco-lo osso inciso di 9,6 cm, nient’altro che il manico di un utensile con un frammento di quarzo alla sommità e degli intagli disposti su tre linee. A prima vista si direbbe che questi abbiano una funzione decorativa. Tuttavia la loro disposizione simmetrica fa in-sospettire Marshack. E se quei segni fossero stati incisi con un’intenzionalità precisa, cioè con una volontà di far senso lontana dalla mera riproduzione di un pattern? Che si tratti di un gioco aritmetico, come suggeriva un articolo di tale Jean de Heinzelin letto da Marshack? Quella della ripetizione non era in sé un’idea nuova. L’uomo primitivo avvertiva la ne-cessità di osservare e misurare la periodicità, ad esempio quella offerta dai cicli lunari. Già André Leroi-Gourhan, cui Marshack scrive nel giugno 1962, aveva portato l’atten-zione sulla ripetizione della stessa composizione nelle pitture e nei disegni murali delle caverne. La loro frequentazione aveva probabilmente un carattere stagionale: pitture e disegni rupestri erano realizzati in occasione di un cambio di stagione (come l’avvento delle piogge), di una migrazione, della fine dell’ibernazione degli orsi, della prima caccia in primavera o in autunno, del trasferimento dei cacciatori dal rifugio invernale al campo estivo, di cerimonie d’iniziazione e così via.

Tuttavia Marshack vede, in quei segni minuscoli incisi due o tremila anni prima la com-parsa della prima scrittura geroglifica, uno dei primissimi sistemi di notazione di cui ci sia rimasta traccia. Le difficoltà non mancano. Dopo un periodo di studio sui libri e le fotografie riprodotte nei libri della New York Library, è ora di verificare di persona. Nel 1965 Marshack si reca al museo di storia naturale dell’Institut Royal di Bruxelles, dove è conservato l’osso di Ishango, e due volte al Musée des Antiquités a Saint-Germain-en-Laye, poco fuori Parigi, dove ci sono altri reperti su cui sta lavorando. La seconda volta ha con sé centinaia di chili di materiale, un’attrezzatura più professionale rispetto al microscopio binoculare giapponese pagato 15 dollari della prima visita. Tornato a New York, il 4 febbraio 1966 la fondazione Wenner-Gren organizza una conferenza che dura tutta la giornata, in cui il nostro viene sottoposto al fuoco incrociato di archeologi e an-tropologi, incuriositi quanto scettici. In quell’occasione un Marshack appassionato raccontò il concretizzarsi delle sue intui-zioni, che allora dovevano apparire rivoluzionarie non meno che controverse. In quelle tre file di segni del fatidico osso, ecco la sua ipotesi di lavoro, si nasconda un codice, una delle primissime forme di scrittura della civiltà umana. O meglio un calcolo del tempo, più precisamente delle fasi lunari, in cui ogni rigatura sta per una giornata. Come se l’osso di Ishango fosse una versione in scala ridotta dei monoliti di Stonehenge. Secon-do Gerald S. Hawkins, astronomo dell’osservatorio astrofisico Smithsonian dell’universi-tà di Harvard, che Marshack contatta nell’estate 1964, i monoliti di Stonehenge seguono una disposizione ben precisa che non può che implicare una conoscenza dell’astronomia e l’esistenza di un calendario.

Ma qui non siamo davanti alle colossali costruzioni di Stonehenge ma a un arnese di, non dimentichiamolo, meno di 10 cm.; uno di quei reperti coperti dalla polvere e accompa-gnati da un’etichetta ingiallita e illeggibile che passa inosservato alla maggior parte dei visitatori del museo. E così del resto erano presentati questi ossi prima che Marshack si mettesse a studiarli, adottando uno sguardo lenticolare, microscopico, attento al modo in cui ogni singolo tratto è stato inciso. I primi risultati non sono incoraggianti poiché le sequenze irregolari si sposano male coi cicli regolari della luna: la prima linea riporta 11, 13, 17 e 19 segni; la seconda 11, 21, 19 e 9. Marshack fa la somma: 11+13+17+19=60 per la prima; 11+21+19+9= 60 per la seconda. E se ogni linea rappresentasse due mesi? Uhm, due mesi lunari fanno 59 giorni, non 60. Senza contare che la terza linea è costituita da 47 o 48 segni, che fa un mese e mezzo. Marshack non si butta giù, sente che l’intuizione di fondo è buona, che è davanti a un sistema primitivo di osservazione e notazione lunari, e che suo compito è quello di decifrarlo. Quanto avviene quando si accorge che i 60 tratti variano per inclinazione e lunghezza: la serie di 19 è suddivisa in due sequenze di 5 e 14; quella di 17 ha gli ultimi 6 più pro-nunciati e 2 più lunghi; la sequenza di 13 ha i tratti più piccoli rispetto alle altre. Il ciclo lunare astronomico è composto, per la precisione, dai 29 giorni e mezzo che compon-gono il mese sinodico, su questo non ci piove. Nondimeno è impossibile cogliere l’intero ciclo a occhio nudo: vi saranno sempre delle notti senza luna; a volte una, a volte due, a volte tre. Per questo, in un sistema d’annotazione basato sulla mera osservazione, le serie lunari saranno composte da un numero variabile tra i 28 e i 31 giorni. Marshack dimostra inoltre che, uno degli aspetti su cui il giudizio della comunità scientifica è una-nime, le incisioni sono realizzate con diversi strumenti. Nel caso di un osso con 69 se-gni, riconosce ben 24 scritture differenti, che procedono nel tempo con regolarità, uno dopo l’altro, sulla stessa linea, per poi proseguire su quella successiva. Siamo insomma davanti a un sistema di notazione sequenziale – qui l’osservazione delle fasi della luna e la scrittura pittografica ritrovano la stessa origine.

Aleph e mirador

Non c’interessano le critiche mosse dagli specialisti alle ipotesi di Marshack, alla sua ipertrofia ermeneutica, alle giustificazioni a volte stravaganti, alla sua single-mindness. L’osso di Ishango – e gli altri manufatti analizzati dall’autore in The Roots of Civilization. The Cognitive Beginnings of Man’s First Art, Symbol and Notation, pubblicato nel 1972, alcuni risalenti a 30.000 anni fa, come l’osso di Blanchard o di Lartet – è uno dei pri-missimi tentativi di riappropriarsi del tempo, di registrarlo e di esorcizzarlo. Non solo: il metodo scientifico di Marshack si apparenta al lavoro di chiunque si occupi di visibile, che si tratti di critici o di artisti. Che Marshack sia il Giovanni Morelli di un’epoca primi-tiva, quella di un’arte senza nomi? Un approccio utopico, se ci affidiamo a un passo straordinario di Ernst Bloch: “La co-scienza utopica vuole spingere lo sguardo molto in là, ma in ultima analisi solo al fine di penetrare la vicinissima oscurità dell’attimo appena vissuto, in cui tutto ciò che è, è tan-to operante quanto nascosto a se stesso. In altre parole si ha bisogno del cannocchiale più potente, quello della coscienza utopica levigata, per penetrare proprio la prossimità più vicina” (Il principio speranza).

Con la sua capacità di focalizzare e analizzare ma anche di perdersi nel dettaglio, di riporre tutte le proprie aspettative e ossessioni in un solo oggetto – un misero osso! – Marshack è in fondo il prototipo del visionario. E per il visionario un microscopio e un telescopio, una lente d’ingrandimento e un cannocchiale, una radiografia e un’immagine aerospaziale, una camera oscura o un panorama paesaggistico, un aleph e un mirador, un primissimo piano e un grandangolo, uno zoom fino ai pixel più puntiformi e Google Earth funzionano alla stessa maniera.L’archeologia lunare sarà la disciplina che si occupa di quella vertiginosa ellisse che se-gna la scena d’apertura di 2001 Odissea nello spazio, quando il primate brandisce un osso-clava prima di lanciarlo verso il cielo. Così in alto che lo spazio si fonde con il tem-po e l’osso diventa di colpo una navicella spaziale (di colpo, e non in quelle 97 ore e 20 minuti ancora necessari a Jules Verne in un romanzo del 1865!). Una History of Violence certo, ma anche un’archeologia lunare che considera quell’intervallo non trascurabile tra l’osso di Ishango e lo Spoutnik.

Riccardo VenturiLunar Archaeology

Astronomy Domine

Once upon a time there was the space age. Once upon a time, when exactly? In 1957! my readers would say without hesitation, when the Soviet Union launched into orbit the satellite Sputnik 1 on October 4; on the same year the International Geophysical Year (IGY) was declared to study the links between sun and earth. Yet things were not that simple as testified in the Italian tale featuring a piece of wood and not a king, or in the story we are about to tell you here – a story about a piece of bone. It is not entirely certain – and herein lies the initial remark – that the space age was triggered by a virtuous synergy combining elements scientific, technical, political, mili-tary and commercial of modern civilisation, and the technological progress of astrono-mic instruments such as space probes. If we were to adopt an anthropologico-ethnolo-gical viewpoint space age dating would inexorably go back further and further in time, all the way to the origins of scientific thought and agrarian civilisation in Greece, Egypt, Mesopotamia, India and China, or among the Maya and Incas of central America, who had after all established a lunar calendar. The exploration of space on the part of man may be traced back to the passage from hunting to agriculture, two activities that established a different relationship with time. If hunting took place in the course of a day, agriculture followed the changing of sea-sons, it was an activity regulated by time – a time factoring activity, as it was described by Alexander Marshack (1918-2004), the American journalist, archaeologist and art historian who will act as our ideal guide in this venue. Time-factoring, Marshack adds, are also the brain, art and science, legends and ceremonies, astronomy and religion, writing and language that allow man to organise an ever more complex existence. Cle-arly, these disciplines didn’t have to wait for the diffusion of agriculture to develop, also because we have proof of lunar observations having been carried out prior to the rise of agriculture. Does that mean we need to go back even further in time? Wait a sec: even further back, to where? Because going further back would be like saying that the space age actually coincides with the history of mankind itself. Which would mean that we are no longer dealing with astronomy but with lunar archaeology.

Ishango, Ishango!

Let’s imagine ourselves to be at Ishango, a Mesolithic site in present day Congo, on the eastern mountain range of Equatorial Africa, in the Upper Nile basin. The year is 6500 BC, some three millennia before the advent of the first ancient Egyptian dynasty. On the shores of lake Edward lived a community of fishermen that, however, would not survive the eruption of a volcano a few centuries later. And if we still talk about these fishermen today it is because something of their civilisation has reached down to us: A handful of apparently insignificant manufactured objects, such as a tiny 9.6 cm piece of carved bone, merely a utensil handle with a quartz fragment at the top and etchings arranged along three rows. Though these carvings at a first glance appeared to be decorations, their symmetrical disposition aroused Marshack’s suspicion. And what if those carvin-gs had been made for a specific reason? What if those signs had been carved with the precise will of achieving a meaning that went beyond the mere function of reproducing a decorative pattern? What if they were an arithmetic game, as implied in an article written by a certain Jean de Heinzelin that Marshack had read?

By all means, the concept of repetition wasn’t something altogether new. Primitive man felt the urge to observe and measure periodicity such as that relating, for example, to lunar cycles. André Leroi-Gourhan, whom Marshack had corresponded with in June 1962, had already focused attention on the repetition of compositions in cave drawings. Permanence in caves was most likely seasonal in character: cave paintings and drawin-gs were probably made during a change of seasons (e.g. the coming of the rains), in the course of a migration, at the end of the hibernation period of bears, at the start of the hunting season in spring or autumn, at the time when hunters decamped from their winter refuge and set up the summer camp, and to mark ceremonies of initiations and so on and so forth. Marshack observed in those tiny notches carved two- or three-thousand years before the advent of hieroglyphic writing, one of the earliest notation systems that had survi-ved. But there were many difficulties to be tackled. After a time spent studying books and the photographs available at the New York Library, the time had come for him to see the artefact in person. In 1965, Marshack visited the Institut Royal in Brussels where the Ishango bone is kept and twice the Musée des Antiquités in Saint-Germain-en-Laye, the museum located just outside Paris that housed other objects he was also studying. The second time he went he brought along hundreds of kilos of materials, much more sophi-sticated than the Japanese 15-dollar binocular microscope he had with him the previous time he was there. On his return to New York, the Wenner-Gren foundation organised on 4 February 1966 a conference during which intrigued as well as downright sceptical archaeologists and anthropologist gave Marshack a day-long grilling. On that occasion, an impassioned Marshack explained how his revolutionary but not less controversial intuitions had developed. The three rows of notches on that fateful bone – his theory went – concealed a code, one of the earliest forms of writing in hu-man civilisation. Or, to be more precise, a means to calculate time, namely the lunar phases where each notch represented a single day. It was as if the Ishango bone were a reduced-scale version of the Stonehenge monoliths. According to Gerald S. Hawkins, an astronomer at the Smithsonian astrophysical observatory of Harvard University whom Marshack contacted in the summer of 1964, the Stonehenge monoliths are arranged in such a way as to imply astronomical knowledge as well as the existence of a calendar. Here though – and we shouldn’t forget it – we are not dealing with the monumental constructions of Stonehenge but with a tool of the length of under 10 cm. Indeed, one of those items covered in dust and accompanied by a yellowing description tag that would pass unnoticed in most museums. And unnoticed it went until Marshack started studying it in full earnest, microscopically observing the way each one of those notches had been carved. The initial results were not at all encouraging because the irregular sequence of the notches did not tally well with the moon’s regular cycles. The first row bears 11, 13, 17 and 19 notches; the second 11, 21, 19 and 9. Marshack adds them up: 11+13+17+19=60 for the first row; 11+21+19+9= 60 for the second. And what if each notch represented two months? Hum, two lunar months make up 59 days, not 60… Without considering that the third row counts 47 or 48 notches, which is equivalent to one-and-a-half month. But Marshack wasn’t going to take it laying down because he felt the basic intuition was solid. He was certain that what he had before him was a primitive lunar observation and notation system and that his job was to decipher it.

And then he realised that the 60 notches vary by inclination and length: the series of 19 notches is divided in two sequences of 5 and 14; in that with 17 notches, the last 6 are more pronounced while 2 are longer; in the series with 13, the notches are smaller with respect to the others. The lunar cycle is composed – to be precise – by the 29-and-a-half days that make up the synodic month, and this is a fact. Nevertheless, it is not possible to observe the entire cycle with the naked eye: there are bound to be moonless nights, at times once, twice or three times. For this reason in a notation system based exquisitely on observation, the lunar series will be made up of a number varying betwe-en 28 and 31 days. Marshack moreover demonstrated – and this is one of the aspects that have met the unanimous consensus of the scientific community – that the notches were etched with different tools. In the case of a bone having 69 signs he recognised as many as 24 different writings that progress over time with regularity, one after the other, along the same line, before proceeding on the successive one. In other words, we are dealing with a sequential annotation system where, in this case, the observation of the lunar phases and the pictographic writing have the same origin.

Aleph and mirador We are not interested in the criticism by specialists of Marshack’s theories, of his hyper-trophic hermeneutics, of his often extravagant justifications, of his single-mindedness. Alongside the other artefacts analysed by the author in The Roots of Civilization – The Cognitive Beginnings of Man’s First Art, Symbol and Notation (published in 1972), some of which dating back to 30,000 years, such as the Blanchard or Lartet bone, the Ishango Bone is one of man’s earliest attempts to repossess time, to measure and exorcise it. And that’s not all: Marshack’s scientific method is connected with the work of whoever deals with the visible, be they critics or artists. Is Marshack, then, the novel Giovanni Morelli of a time primitive, of an era of an art without names? Indeed, a utopian approach, as Ernst Bloch writes in this remarkable passage: “Utopian conscience aims to expand the gaze well beyond, but, at a closer observation, only with a view to penetrating the extreme nearness of the obscurity of the instant that has just been lived, where all that is, is as operating as it is hidden to itself. In other words, one needs the more powerful binoculars, the binoculars of smoothened utopian conscience, to penetrate the closest proximity” (The Principle of Hope). With his ability to focus and analyse and also lose his way in the detail, to concentrate all his expectations and obsessions on a single object – a miserly bone! – Marshack is, come to think of it, the prototype of the visionary. And for a visionary a microscope and a telescope, a magnifying lens and a spyglass, a radiography and an image from space, a camera oscura or a panoramic landscape, an aleph and a mirador, a close-up or a wide-angle snapshot, a zoom to the tiniest pixel and Google Earth, all work in the same way. Lunar archaeology will be the discipline that will focus on the dizzying ellipse that marks the opening scene of 2001: A space Odyssey, when the primate brandishes a bone-cu-dgel before casting it heavenwards. So high up that space merges with time, and the bone becomes, all of a sudden, a spaceship (all of a sudden and not in the 97 hours and 20 minutes that is required to Jules Verne in an 1865 novel!). A History of Violence, no doubt, but also a lunar archaeology that considers the interval between the Ishango Bone and the Sputnik as not being negligible.

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Foto: Stefano Bigatti, Cristina Falasca, Stefano MinziGrafica: Ernesto PandaStampa: Press Up, Roma