COSTRUIRE SENSO, NEGOZIARE SIGNIFICATI: IL MANAGER DEI...

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Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze dell’Educazione SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN : Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione CICLO XXIII COSTRUIRE SENSO, NEGOZIARE SIGNIFICATI: IL MANAGER DEI SERVIZI ALLA PERSONA E LA SUA DIMENSIONE ETICA Direttore della Scuola: Ch.ma Prof.ssa Marina Santi Supervisore: Ch.ma Prof.ssa Emanuela Toffano Dottorando: Iusuf Hassan Adde

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Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Scienze dell’Educazione

SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN :

Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione

CICLO XXIII

COSTRUIRE SENSO, NEGOZIARE SIGNIFICATI:IL MANAGER DEI SERVIZI ALLA PERSONA

E LA SUA DIMENSIONE ETICA

Direttore della Scuola: Ch.ma Prof.ssa Marina Santi

Supervisore: Ch.ma Prof.ssa Emanuela Toffano

Dottorando: Iusuf Hassan Adde

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INDICE

Abstact (versione in italiano) 5

Abstact (English version) 6

Introduzione 7

1. Alla ricerca di un metodo (di ricerca) 1.1 Il paradigma di riferimento 111.2 La questione metodologica e il pensiero riflessivo 20

2. Alla ricerca di un modello (di apprendimento)2.1 La costruzione della conoscenza attraverso la pratica riflessiva 312.2 La teoria dell’apprendimento sociale di Wenger 382.3 La dimensione tacita della conoscenza 432.4 L’apprendimento organizzativo 462.5 Le competenze 51

3. La dimensione etica3.1 Etica e filosofia morale 593.2 Le teorie morali 683.3 La fondazione dell’etica nel pensiero di John Dewey 773.4 Psicologia morale e neuroetica 883.5 Etica delle professioni 99

4. La figura del manager4.1 Le funzioni del manager 1114.2 Esercizio del potere e disposizione all’obbedienza 1154.3 Leadership: una questione di stile 1214.4 Le competenze del manager 1244.5 Il manager sociale 126

5. La ricerca sul campo5.1 Ricerca e narrazione (della ricerca) 1315.2 Da dove partiamo? 1375.3 L’analisi con ATLAS.ti 144

6. I protagonisti della narrazione6.1 Il manager sociale 1516.2 Il contesto organizzativo 163

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7. Dove si narra dei principi morali del manager sociale7.1 Principi morali in pratica 1757.2 Principi morali dell’Ente Pubblico 1787.3 Principi morali dei Servizi alla Persona 1847.4 Principi morali del management 199

8. Dove si parla della competenza etica del manager sociale8.1 La competenza etica 2118.2 Le qualità personali 2138.3 Le capacità relazionali 2288.4 Le componenti motivazionali 233

9. Dove si narra di come vengono acquisite le competenze etiche

9.1 Lo sviluppo delle competenze etiche 2399.2 L’acquisizione delle competenze nella pratica del manager 2419.3 Lo sviluppo delle competenze etiche nell’organizzazione 258

10. Pensiero e sé morale10.1 Il pensiero in azione 27310.2 La narrazione del pensiero: conflitti morali e bioetica 27410.3 L’etica professionale, il sé morale e la questione del senso 29310.4 Cinque storie sul manager sociale e la sua dimensione etica 304

Conclusioni 319

Riferimenti bibliografici 323

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Abstract (versione in italiano)

Il presente studio si propone di mettere in luce le competenze etiche del manager dei

servizi alla persona e come queste competenze si vengano ad acquisire e a sviluppare nel

corso della pratica professionale.

Nella prima parte del lavoro viene definito il quadro epistemologico che fa da sfondo alla

ricerca, il quale si richiama prevalentemente ad un orientamento di tipo costruttivista.

Si delineano poi alcuni modelli di apprendimento situazionale, a cui si fa riferimento per

l’elaborazione delle ipotesi di ricerca. Il framework teorico è dato in particolare dalla

teoria sociale dell’apprendimento di Wenger, dal modello dell’indagine riflessiva

sviluppato da Schön e dal concetto di apprendimento organizzativo proposto da Schön e

Argyris.

Vengono di seguito tracciate alcune coordinate essenziali per addentrarsi nell’ambito

dell’etica delle professioni e del management dei servizi alla persona.

Nella seconda parte del lavoro si illustra la ricerca empirica, che si è avvalsa dello

strumento dell’intervista semi-strutturata e ha coinvolto un gruppo di 12 dirigenti di

“Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza” (Ipab) del Veneto.

Viene tratteggiato il profilo delle competenze etiche del manager sociale, che emerge

dall’analisi del sapere esperienziale del gruppo di riferimento, di cui si mettono in luce le

“teorie agite” in ambito etico.

Nell’esito dell’indagine trova sostanziale conferma l’ipotesi che collegherebbe

l’acquisizione e lo sviluppo delle competenze etiche all’agire riflessivo del manager,

nell’ambito della propria pratica professionale, e al suo relazionarsi all’interno dei

contesti sociali di appartenenza.

Nella ricerca viene inoltre tratteggiato un possibile “orizzonte” comune di senso nella

professione del manager sociale, cioè un’etica condivisa, all’interno della quale sono state

individuate tre componenti: l’etica dell’ente pubblico, l’etica del servizio e l’etica del

management.

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Abstract(English version)

The present dissertation aims to shed light on the ethical competences of welfare services

managers and on how they are acquired and developed in the practice of the profession.

The first part defines the epistemological framework underlying this research, which is

informed by a constructivist approach. It also illustrates some models of situational

learning which have been referred to in order to elaborate the research hypotheses. To be

precise, the theoretical framework is provided by Wenger’s social theory of learning, the

model of reflexive inquiry developed by Schön, and the concept of organised learning put

forward by Schön and Argyris. The first part subsequently describes some essential

notions which pave the way to the study of professional ethics and of welfare services

management.

The second part of the dissertation explores the empirical research which has been

conducted on semi-structured interviews with a group of 12 managers of Public

Institutions for Assistance and Charity (“Istituzioni Pubbliche di Assistenza e

Beneficenza”, Ipab) in the Veneto Region. It details the profile of social managers’

ethical competences as emerging from the reference group’s experiential knowledge and

highlights their “acted theories” in the ethical field.

The findings of the investigation basically confirm the hypothesis that the acquisition and

the development of the managers’ ethical competences are related to their reflective

behaviour in the practice of the profession and to their ability to establish relations with

other people within the social contexts they belong to. The research also outlines a

hypothetical common “horizon” of meaning for the profession of the social manager, that

is, a shared ethic, of which three components are identified: the ethic of public

organisations, the ethic of service and the ethic of management.

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Introduzione

Il tema del management non dispone di ampia trattazione all’interno della letteratura

pedagogica, rimanendo principalmente appannaggio di altre discipline, come la

psicologia del lavoro, la sociologia dell’organizzazione e l’economia.

Eppure molte sono ragioni che reclamano una specifica attenzione, da parte della

pedagogia, nei riguardi di questo soggetto e molti sono i possibili campi di ricerca

educativa in tale ambito.

Innanzitutto, per quanto attiene alla figura del manager in generale, un fruttuoso ambito

d’indagine per le scienze pedagogiche si ritrova nella problematiche inerenti la sua

formazione: quali sono i saperi del manager? Come si acquisiscono? Come si sviluppano?

Un altro campo in cui potrebbe spaziare la ricerca educativa è la dimensione pedagogica

del manager. Un manager che non è solo soggetto educativo (o di autoeducazione), ma

che è anche – o almeno dovrebbe essere – un “educatore-formatore”. Può sembrare,

questa, un’affermazione distante dalla maggior parte delle realtà organizzative nelle quali

operano i manager, al cui centro spesso non v’è la persona e la sua crescita umana, ma la

produzione e il profitto. Eppure sempre di più le organizzazioni vengono definite come

ambiti di espressione e di sviluppo personali e sempre maggiore enfasi viene data al ruolo

di guida e di sostegno – o, come si dice, di coaching – che, in tali contesti, deve riuscire

ad assumere il manager. Quali sono, quindi, le competenze pedagogiche che questa figura

dirigenziale deve possedere? Ma, soprattutto, qual è (se esiste) la funzione pedagogica

implicita del manager nella creazione di ambienti lavorativi promozionali per i

lavoratori?

Ulteriore segmento di interesse pedagogico, rispetto al management, potrebbe essere

rappresentato dalla dimensione relazionale: il lavoro del manager è essenzialmente quello

di intessere, mantenere, alimentare e sviluppare relazioni. È indubbiamente, questa, una

tematica che ha trovato ampio spazio nell’ambito delle scienze pedagogiche, le quali

potrebbero fornire apporti davvero considerevoli alla crescita professionale del manager

su questo fronte.

Sono tutti aspetti, quelli sopra richiamati, che verranno in qualche modo toccati nel

presente studio, il quale però ha chiaramente l’esigenza di restringere il campo, di

delimitare il più precisamente possibile un’area d’interesse.

Il primo restringimento che credo opportuno operare riguarda il soggetto in esame.

Pertanto, dopo aver dato un inquadramento generale del management, lo studio si

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focalizzerà su una categoria specifica di manager: il manager sociale e, ancor più

precisamente, i dirigenti di Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza (Ipab) del

Veneto, che gestiscono in maniera prevalente servizi residenziali o semiresidenziali per

anziani.

Questa focalizzazione rimanda alla questione della specificità dei profili manageriali. Si è

infatti andata man mano ad affermare, nel corso della storia del pensiero organizzativo,

l’idea che il manager rappresenti una variabile dipendente del proprio contesto aziendale.

Il profilo del manager, cioè, cambierebbe in base al tipo di organizzazione in cui opera, la

quale può richiedere l’esercizio di ruoli differenti, come pure l’esercizio differente dei

medesimi ruoli. Ciò che l’organizzazione è e ciò che l’organizzazione produce per il

mercato (beni o servizi) rappresentano un elemento fondamentale per comprendere la

cultura che essa esprime e, quindi, anche la tipologia di manager che di questa cultura è

chiamato ad essere interprete.

I servizi alla persona hanno una loro filosofia, il più delle volte implicita, che coniuga il

mandato istituzionale con i vincoli e le risorse del contesto e che raccoglie il continuo

stratificarsi di conoscenze legate alla propria storia, nonché al portato di quel complesso

corpus teorico conferito dalle diverse professionalità che in essi operano.

Si tratta di competenze (traducibili, secondo la fin troppo abusata espressione, in sapere,

saper fare, saper essere) che formano il bagaglio professionale del singolo operatore, ma

che entrano anche a far parte, più in generale, della cultura organizzativa, con la quale il

manager deve necessariamente sapersi confrontare e alla quale egli deve riuscire ad

attingere.

Un secondo restringimento del campo che ho voluto operare è quello di focalizzare lo

studio su una dimensione specifica della professionalità manageriale, la dimensione etica,

che ritengo fondamentale per la formazione di un “buon manager sociale”.

L’agire del manager dei servizi alla persona, così come ogni altro agire, è eticamente

orientato: non esiste un agire manageriale – ma, più in generale, non esiste un agire

sociale o un agire in senso lato – che si possa dire “neutro” rispetto a tale dimensione.

Risulta allora importante indagare quali siano i principi-valori che ne ispirano e ne

guidano la pratica professionale. Non tanto quelli dichiarati, quanto piuttosto quelli agiti

nella pratica quotidiana. Accanto a questi “saperi” dell’etica, vi sono anche dei “saper

fare” e soprattutto dei “saper essere” che sostengono l’agire morale dell’individuo e che

assieme ai primi strutturano il concetto di competenza etica.

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La prospettiva epistemologica, da cui muove tale ricerca, si richiama ad un approccio

costruttivista. Si postula quindi che i principi morali della professione manageriale siano

almeno in una certa parte immanenti, cioè siano socialmente situati e che vengano in

qualche misura costruiti e appresi anche all’interno della pratica lavorativa.

Il primo quesito a cui la presente ricerca si propone di rispondere è quali siano le

competenze in ambito etico-deontologico del manager. Il secondo quesito è come queste

competenze si acquisiscano e come si sviluppino all’interno della stessa pratica

professionale.

Il framework teorico è dato dai modelli di apprendimento situazionale ed in particolare

dalla teoria sociale dell’apprendimento di Wenger, dal modello dell’indagine riflessiva

sviluppato da Schön e dal costrutto dell’apprendimento organizzativo proposto da Schön

e Argyris. Si tratta di tre modelli che affondano le proprie radici in importanti

background teorici – in particolare il pensiero di Dewey, ma anche di Vygotskij e di

Polanyi – e che possono considerarsi, per molti versi, non alternativi, bensì

complementari.

Questi tre modelli – ciascuno a suo modo – ci aiutano a comprendere come il manager

“impari” a fare/essere manager attraverso il dialettico confronto con la propria

esperienza, da un lato, e con gli altri soggetti che abitano lo stesso contesto organizzativo-

culturale, dall’altro.

Da tali riferimenti teorici derivo le due ipotesi di ricerca, che vanno intese

necessariamente come “ipotesi deboli”. La prima collega l’acquisizione/sviluppo dei

principi morali professionali all’agire riflessivo che il manager realizza nel corso della

propria pratica lavorativa. La seconda collega lo sviluppo di tale dimensione etica alla

partecipazione, da parte del manager, ad un contesto organizzativo e ad una comunità di

pratica.

La ricerca si propone quindi di perseguire i seguenti obiettivi:

• delineare il quadro concettuale di riferimento rispetto al contesto di ricerca;

• problematizzare la dimensione etica del manager dei servizi alla persona;

• evidenziare il percorso generativo delle competenze etiche all’interno della pratica

professionale del manager;

• tematizzare un possibile “orizzonte” comune di senso nella professione del

manager sociale;

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• raccogliere indicazioni e suggerimenti per orientare possibili percorsi formativi,

finalizzati allo sviluppo delle competenze etiche.

Il disegno di ricerca integra, secondo una logica circolare, due diversi modi di procedere:

quello argomentativo-critico e quello empirico.

Per quanto riguarda l’indagine empirica, in considerazione dell’oggetto di ricerca, ho

ritenuto opportuno adottare un approccio di tipo qualitativo. Il presupposto che ha guidato

questa scelta è infatti il convincimento che esista una scissione tra le “teorie dichiarate” e

le “teorie-in-uso” dei manager, tra i valori professati e i valori concretamente agiti. Per

fare emergere i secondi – generalmente impliciti – ritengo quindi sia indispensabile

procedere a quel lavoro in profondità, che solo la ricerca qualitativa consente.

Attraverso l’utilizzo, come strumento di ricerca, delle interviste semi-strutturate, si

intende infatti mettere in luce il sapere esperienziale, le teorie agite dal manager, le

competenze etiche colte nel loro confrontarsi con la pratica professionale. Le domande-

stimolo intendono non solamente far emergere i principi-valori a cui i manager si

riferiscono, in termini meramente dichiarativi, ma si propongono anche e soprattutto di

sollecitare il racconto di storie personali e organizzative, in cui gli intervistati si sono

trovati ad affrontare situazioni “eticamente sensibili”.

Un riferimento forte, dal punto di vista metodologico, è rappresentato dal modello

dell’indagine narrativa – Narrative Inquiry – il quale tuttavia viene integrato con

l’utilizzo di strumenti e di metodiche che si richiamano alla Grounded Theory. L’analisi

dei dati – che si avvale del software Atlas.ti – si pone, infatti, l’obiettivo di costruire “dal

basso” una rappresentazione delle “teorie agite” dai manager sociali in ambito etico.

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1Alla ricerca di un metodo (di ricerca)

Viandante, sono le tue orme la strada, nient'altro;Viandante, non sei su una strada,la strada la fai tu andando.Mentre vai, si fa la stradae girandoti indietrovedrai il sentiero che mai più calpesterai.Viandante, non hai una strada, ma solo scie nel mare.

Antonio Machado

1.1 Il paradigma di riferimento

Iniziare una tesi di dottorato sui manager dei servizi alla persona, parlando dei paradigmi

di ricerca, potrebbe sembrare un voler prendere molto “alla larga” la questione oggetto di

studio. Chiaramente, una trattazione approfondita del tema non si concilia con l’economia

generale del presente lavoro, né rientra negli obiettivi proposti. Ciò nondimeno, ritengo

indispensabile affrontare per prima cosa tale argomento. Questo, se non altro, al fine di

dare conto delle letture, ma anche dei confronti e delle riflessioni, che hanno impegnato i

primi, travagliati mesi di avvio del mio percorso di ricerca. Giacché, essendo questa la

mia prima significativa esperienza di ricerca, dopo l’elaborazione della tesi di laurea, il

processo di definizione del suo disegno si è accompagnato ad una serie di interrogativi su

che cos’è la scienza, su come procede la conoscenza scientifica e su come rendere

“scientifico” il mio modo di approcciarmi alla realtà (alla specifica realtà del

management dei servizi alla persona e alla sua dimensione etica). Domande che credo

debba prospettarsi (e riproporsi costantemente) ogni ricercatore. Mi sono formato il

convincimento che diventare ricercatori significa padroneggiare metodi e strumenti, ma

soprattutto coltivare un atteggiamento di ricerca, cioè una disposizione a fare domande, a

mettere in discussione, a mettersi in discussione. Ciò a partire dai fondamenti stessi del

nostro conoscere il mondo e noi stessi.

È questo il motivo principale per cui ho deciso di partire con una riflessione sul

paradigma all’interno del quale collocarmi e collocare il mio percorso di ricerca, poiché

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penso che questo posizionamento (questa “scelta di campo paradigmatico”) stia in realtà

a monte rispetto non solo ai metodi e agli strumenti d’indagine, ma anche alla stessa

definizione dell’oggetto di ricerca. Partire da chi è il manager dei servizi alla persona, da

quali sono le sue competenze etiche, da come le acquisisce, dagli studi al riguardo di

questo o quell’autore (lo “stato dell’arte”), significherebbe – a mio avviso – entrare già

nel campo della ricerca senza la necessaria chiarificazione delle premesse, che reggono la

scientificità di un tale procedere.

A questo proposito, Luigina Mortari in Cultura della ricerca e pedagogia osserva come

ogni ricercatore, che voglia situarsi con consapevolezza all’interno del proprio campo

d’indagine, debba partire dall’analisi degli elementi costitutivi della struttura

paradigmatica che fa da sfondo al proprio lavoro di ricerca. La mancanza di una tale

operazione preliminare di analisi pone il ricercatore in una posizione di “chiusura

epistemica”. Infatti,

«una ricerca è generativa di nuove pratiche quando il ricercatore, sapendo risalire ai

fondamenti dell’ambiente discorsivo in cui opera, può metterli in discussione. La

disamina critica dello sfondo paradigmatico in cui si agisce è un tratto

fondamentale di quell’atteggiamento che viene definito come mindful inquiry per

indicare un modo pensoso di stare dentro la ricerca»1.

Il riferimento doveroso (e fin pure scontato), nell’affrontare la questione del paradigma, è

Thomas Kuhn e la sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche2. Secondo il

filosofo americano, il paradigma è la “struttura concettuale” attraverso la quale gli

scienziati guardano il mondo.

Come ben sintetizza Piergiorgio Corbetta, il paradigma è una struttura teorica condivisa

da una certa comunità scientifica che definisce quali siano i fatti e i problemi da studiare

e come vadano approcciati.

«Cosa intende Kuhn per paradigma? Con questo termine egli designa una

prospettiva teorica: a) condivisa e riconosciuta dalla comunità di scienziati di una

determinata disciplina; b) fondata sulle acquisizioni precedenti della disciplina

stessa; c) che opera indirizzando la ricerca in termini sia di c1) individuazione e

scelta dei fatti rilevanti da studiare, sia di c2) formulazione di ipotesi entro le quali

1 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, Roma, Carocci, 2007, p. 20.2 Kuhn Th. (1962), The structure of scientific revolutions, Chicago, University of Chigaco Press, trad. it.

La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969.

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collocare la spiegazione del fenomeno osservato, sia di c3) approntamento delle

tecniche di ricerca empirica necessarie»3.

È importante, a mio avviso, sottolineare la funzione “generativa” che un paradigma

svolge all’interno del processo euristico. Come ci insegna lo stesso Kuhn, i paradigmi

veicolano assieme modelli, teorie, metodi e criteri in una “mescolanza inestricabile”, che

si alimenta ed autoproduce4.

Secondo Mortari5, ogni ricerca si colloca necessariamente all’interno di un determinato

paradigma ed è questo che performa le azioni epistemiche, codificando la ricerca, cioè

guidandola mediante un insieme di convinzioni e di sentimenti sul mondo e sulla

conoscenza del mondo. Il paradigma determina la tipologia dei quesiti che il ricercatore si

deve porre e che rappresentano una sorta di “guida” nel processo di indagine, oltre ad

identificare le procedure epistemiche che egli deve seguire.

Il paradigma per Corbetta è qualcosa che sta prima anche delle stesse teorie...

«La categoria kuhniana […] non va banalizzata, identificando paradigma con teoria

o corrente di pensiero. Rimane infatti fondamentale nel concetto di paradigma il

suo carattere pre-teorico, in ultima analisi metafisico, di “visione che orienta”; di

immagine del mondo»6.

Corbetta individua tre questioni fondamentali e strettamente connesse fra di loro, a cui un

paradigma deve dare risposta: la questione ontologica (la realtà esiste?), la questione

epistemologica (è conoscibile?) e la questione metodologica (come può essere

conosciuta?) 7.

Si tratta di tre questioni fortemente intrecciate fra di loro, tanto che risulta materialmente

arduo tracciare tra esse linee definite di confine. Non è agevole, ad esempio, separare le

concezioni sulla natura della realtà dalle riflessioni sulla sua conoscibilità e queste dalle

modalità con le quali può essere conosciuta. L’intreccio è tale per cui le risposte date a

ognuna di esse determinano e nello stesso tempo vengono determinate dalla risposte date

alle altre.

3 Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 18.4 Kuhn Th. (1962), The structure of scientific revolutions, Chicago, University of Chigaco Press, trad. it.

La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969, p. 138.5 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 20.6 Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, cit., p. 20.7 Ivi, p. 22.

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Le tre questioni sollevate da Corbetta ricalcano le tre “premesse basilari” che

definirebbero un paradigma di ricerca secondo Egon Guba e Yvonna Lincoln8.

Un diverso inquadramento del paradigma viene fornito da Mortari nel suo già richiamato

Cultura della ricerca e pedagogia. Secondo l’Autrice, il paradigma sarebbe costituito da

presupposizioni di tipo ontologico (la natura della realtà che si intende indagare),

gnoseologico (in che cosa consiste la conoscenza), epistemologico (le vie per cercare una

conoscenza “vera”), etico (quali responsabilità ha il ricercatore) e politico (quale tipo di

ricerca è bene condurre) 9.

Dichiaro fin da ora la mia preferenza per quest’ultima impostazione. Innanzitutto perché

distingue il piano gnoseologico da quello epistemologico, molto spesso confusi in

letteratura. Poi, perché inquadra il rapporto paradigma-metodo e, ancor più, quello tra

paradigma e tecniche di rilevazione, in termini più mediati. Si avrà modo di approfondire

questo punto più avanti.

È utile, invece, definire ora quanti e quali siano i paradigmi.

Ciò che Kuhn chiama “scienza normale” può essere inteso come un processo lineare e

progressivo di accumulazione del sapere attorno ad un determinato paradigma. Esistono

però momenti di rottura, di forte discontinuità paradigmatica, definiti appunto da Kuhn

“rivoluzioni scientifiche”, in cui tutto viene stravolto e si inizia la fondazione di un nuovo

paradigma, che potrebbe essere visto – riprendendo una metafora utilizzata da Corbetta –

come l’edificazione di una nuova struttura. La scienza in tempi “normali” procederebbe

attraverso processi di tipo cumulativo, per aggiunte e adeguamenti, come una casa che

viene ampliata, aggiungendo una nuova ala o sopraelevando di un piano. Le singole

invenzioni e scoperte si aggiungerebbero quindi al “corpo di fabbrica” esistente. Tuttavia

«esistono anche dei momenti “rivoluzionari” nei quali il rapporto di continuità col

passato si interrompe e si inizia una nuova costruzione, così come – per proseguire

nella metafora edilizia – viene di tanto in tanto fatto saltare in aria un vecchio

8 Guba E. G., Lincloln Y.S., Competing paradigms in qualitative research, in Denzin N.K., Lincoln Y.S., Handbook of Qualitative Research, Thousand Oaks, Sage, California, 1994. Di questo testo è stata pubblicata nel 2007 per gli stessi tipi una seconda edizione, che riporta diverse modifiche rispetto alla precedente. Su questo specifico punto tuttavia gli autori confermano l’impianto originario, facendo rimando alla precedente edizione.

9 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., cap. 1. L’Autrice fa riferimento al contributo dei due studiosi americani Guba E. G., Lincloln Y.S., Competing paradigms in qualitative research, contenuto nella prima edizione della raccolta Denzin N.K., Lincoln Y.S., Handbook of Qualitative Research, cit., e che viene rispetto a questo punto sostanzialmente confermato nella seconda edizione del 2007.

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palazzo in mattoni per fare spazio ad un edificio strutturalmente diverso, ad

esempio un grattacielo in vetro e alluminio»10.

L’immagine della rivoluzione scientifica come demolizione di un “vecchio edificio”, pur

suggestiva, rischia tuttavia, a mio avviso, di risultare fuorviante. Perché in realtà il

“vecchio edificio” può continuare a rimanere in piedi (magari con qualche

aggiustamento) in contrapposizione ad uno nuovo, che va ad affiancarvisi. Lo stesso

Corbetta, riprendendo il pensiero di Friedrichs11, parla di discipline multiparadigmatiche,

intendendo modalità di vedere il mondo che possono coesistere all’interno della stessa

disciplina.

Come sostiene Mortari, l’elezione del nuovo paradigma non avviene sulla base di

evidenze empiriche; è un terreno di argomentazione più che di dimostrazione. Cioè non si

sceglie un paradigma in base a prove scientifiche, né i presupposti su cui esso si fonda

discendono necessariamente da procedimenti dimostrativi incontestabili. Viene scelto,

semplicemente scelto, e tale opzione si basa forse più su un “sentire”, che si viene a

determinare attraverso l’esperienza di ricerca e la sua rielaborazione teorica12.

Aderire a un nuovo paradigma, abbandonando i vecchi schemi mentali, con i quali veniva

visto il mondo, non è cosa semplice. Gregory Bateson ci mette in guardia sulla difficoltà

di tale operazione, in una delle più eloquenti pagine del suo Verso un’ecologia della

mente13, in quanto un paradigma è una premessa epistemologica che pervade tutto il

nostro stare nel mondo. Anche le più semplici asserzioni, come ad esempio le

proposizioni “Io vedo te” e “Tu vedi me”, contengono in sé ciò che Bateson chiama

“epistemologia”. Contengono cioè al loro interno ipotesi su come ricaviamo le

informazioni, su che cosa sia l’informazione, sulla natura della conoscenza, sulla natura

dell’universo e su come veniamo a conoscerlo. Per quanto universalmente condivise,

molte di queste asserzioni sono in realtà false. Sono false ma funzionano, per tale ragione

conviviamo serenamente con questi errori, almeno fino ad un certo punto. Quando si

arriva però a capire che c’è bisogno di cambiare questo paradigma, si scopre che è

un’operazione tutt’altro che semplice:

10 Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, cit., p. 22.11 Friedrichs R.W., A sociology of sociology, New York, Free Press, 1970, come citato da Corbetta P.,

Metodologia e tecniche della ricerca sociale,cit., p. 20.12 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 19.13 Bateson G. (1972), Steps to an ecology of mind, trad. it. Verso un'ecologia della mente, Milano,

Adelphi, 1980.

15

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«se uno si porta dietro gravi errori epistemologici, a qualche stadio o in certe

circostanze si accorgerà che quelle premesse non funzionano più; e a questo punto

scoprirà con orrore che è tremendamente difficile liberarsi dall’errore che ci sta

appiccicato addosso. È come se avessimo toccato del miele. Come il miele, la

falsificazione si propaga: ogni cosa con cui si cerca di sbrattarla diviene

appiccicosa, e le mani restano sempre appiccicose»14.

L’idea di abbandonare un paradigma per sceglierne un altro, cercando di liberarsi di tutte

quelle “tossine” che ci si porta dietro in questo passaggio, rimane comunque una

questione controversa. Secondo alcuni interpreti dell’epistemologia kuhniana, infatti, i

vari paradigmi non sarebbero necessariamente in competizione tra di loro, rimanendo su

piani differenti.

A questo riguardo, si può intravedere nel discorso di Kuhn stesso e dei suoi più autorevoli

interpreti l’idea che esista in un certo qual modo una “incommensurabilità” tra i

paradigm15i. Più che alternativi fra di loro, i paradigmi sembrerebbero infatti riferirsi a

diversi piani di realtà e configurare entità e fenomeni differenti.

Se esiste un pressoché assoluto consenso nell’individuare nell’approccio positivista il

paradigma “dominante” (quello, cioè, all’interno del quale è nata e si è affermata l’idea

moderna di scienza) e se c’è accordo sul fatto che si sia effettivamente prodotta una

“rivoluzione scientifica” rispetto a tale paradigma, numerose e divergenti risultano essere

invece le posizioni riguardo a quanti e a quali siano i paradigmi “emergenti”.

Corbetta16 sostiene che al paradigma positivista, nelle sue diverse versioni (il positivismo

classico, ottocentesco, il neopositivismo dei primi del ‘900 e infine, a partire dagli anni

’60, il post-positivismo) si sia contrapposto un unico paradigma, che egli definisce

interpretativista, anch’esso articolato nelle sue diverse versioni.

Si tratta di una visione sostanzialmente dissimile da quella prospettata da Mortari, la

quale ritiene che dal paradigma positivistico, figlio della razionalità moderna, si sia

passati ad una pluralità di opzioni paradigmatiche, espressione della razionalità

postmoderna, tra le quali individua e teorizza quello che viene da lei denominato, in

ossequio al pensiero di Gregory Bateson, il “paradigma ecologico”.

Fornirò qui di seguito una presentazione, seppur sintetica, dei presupposti di questo

paradigma, al cui interno intenderei collocare il mio percorso di ricerca, facendo

14 Ivi, p. 497.15Sorzio P., Struttura e processi nella ricerca qualitativa in educazione, Padova, Cleup, 2002, p. 35.16 Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale,cit., cap. 1, par. 3.

16

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comunque rimando, per ogni necessario approfondimento, al testo richiamato e alla

bibliografia indicata dall’autrice.

In primo luogo, rispetto ai presupposti ontologici (la realtà è…), il paradigma ecologico

postula il “primato della relazione”.

Il paradigma positivistico sviluppa il proprio procedere scientifico partendo da una

visione deterministico-meccanicistica e atomistico-disgiuntiva, in base alla quale la realtà

viene concepita come una macchina che è governata da proprie leggi immutabili e che

può essere conosciuta attraverso la conoscenza analitica dei singoli enti di cui si

compone, indipendentemente dal contesto e dalle relazioni che esistono fra di loro.

Proprio all’interno delle scienze naturali, in cui era nata e si era sviluppata questa

concezione della realtà, si è venuta a consolidare la consapevolezza dei limiti di questa

impostazione ed è emersa una nuova concezione della realtà, strutturata secondo logiche

immanenti, che evolvono nel tempo. Si è scoperta quindi l’importanza della

interconnessione presente fra le diverse realtà, in cui il tutto non è conoscibile attraverso

l’analisi delle singole parti, in quanto la realtà è anzitutto relazione.

«Questa ontologia della relazionalità ha come implicazione epistemica quella di

porre come compito primario del ricercatore l’andare in cerca delle relazioni che

strutturano il fenomeno indagato; da qui l’importanza che viene attribuita alla

ricerca di tipo sistemico, la cui direzione di senso è efficacemente esplicitata nel

principio batesoniano dell’andare in cerca della struttura che connette»17.

A tale proposito, di si può parlare di una ontologia “relazionale” o “ecologica”, che deve

informare il pensiero del ricercatore18. Aderire a questo tipo di visione ontologica,

significa concepire la realtà come un insieme strutturato di relazioni, in cui l’essenza di

ciascun ente è data dalle relazioni dinamiche nelle quali esso è implicato e che

contribuisce contestualmente a strutturare. In questa visione ecologica, cioè, ogni

elemento è connesso agli altri in modo sostanziale: l’auto-organizzazione di ogni singolo

organismo, quindi, si lega a filo doppio con l’eco-organizzazione del sistema in cui esso è

inserito.

Si tratta di un cambio di prospettiva a mio avviso non semplice, perché va contro quello

che è il senso comune. Il senso comune, infatti, ci dice che esistono (prima) le cose e gli

individui e che questi (dopo ed eventualmente) si mettono in relazione tra di loro. Che

esiste ad esempio il manager, che esistono i collaboratori, che esiste l’organizzazione e 17 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 19.18 Ibidem.

17

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che esistono relazioni tra queste entità. Nella prospettiva ecologica, invece, non ha alcun

senso parlare delle singole entità, non ha alcun senso – per calarci nel nostro oggetto di

ricerca – fare l’identikit del manager dei servizi alla persona, senza inquadrarlo in un

contesto di relazioni, non solo, ma senza concepire egli stesso come relazione. A questo

proposito, così afferma Hannah Arendt:

«Proprio perché l’essenza di quell’ente che è l’essere umano è l’essere-in-relazione,

la ricerca che si occupa del mondo umano richiede che come oggetto d’indagine si

assuma l’intreccio delle relazioni. È, infatti, tale intreccio a costituire quello spazio

in cui ciascuno rivela il suo “chi”, la sua soggettività»19.

In secondo luogo, dal punto di vista gnoseologico (conoscere significa…), se la

razionalità moderna inseguiva il mito del “realismo”, del rappresentare cioè la realtà così

come essa è (rappresentazione isomorfa del reale), nel paradigma ecologico si rinuncia a

tale velleità, ritenuta inattuabile. I concetti in uso non devono perciò essere intesi come

una sorta di “rispecchiamento” esatto della natura delle cose che esistono “là fuori”,

quanto piuttosto come “modi convenienti di descrivere i fenomeni” 20. Ciò non significa

negare la realtà, cedendo così ad una sorta di “deriva nichilista”, ma semplicemente

dichiarare l’impossibilità di conoscerla, se non tramite delle valide rappresentazioni.

Pertanto, la conoscenza è “vera” non tanto perché ci dice il mondo così come esso è in

realtà, ma perché resiste meglio al “banco di prova dell’esperienza”, consentendoci di

fare previsioni più attendibili e dunque risultando più funzionale.

Si tratta di una concezione della conoscenza propria del costruttivismo21, ma che

possiamo ritrovare anche nella teoria pragmatista della verità di Richard Rorty:

«Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo,

nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun

canone di razionalità che non si richiami ad un tale criterio, nessuna

argomentazione rigorosa che non sia l’osservanza delle nostre stesse

convenzioni»22.

19 Arendt H. (1978), The life of the mind, Harcourt Brace Jovancovich, New York – London, trad. it. La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 134.

20 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 38. Nel testo l’autrice fa rimando alle tesi sostenute da Sheldrake R., The presence of the past, London, Harper Collins Publishers, 1994, p. 174.

21 Significativa è l’affermazione di Heinz von Foerster “L’ambiente come noi lo percepiamo è una nostra invenzione”, richiamata da Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit , a p. 38, che può essere assunta come una sorta di “manifesto” del costruttivismo.

22 Rorty R. (1978), Consequences of pragmatism, Oxford, Blackwell, trad. it. Conseguenze del pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 37.

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In questo stesso orizzonte si riconoscono l’approccio gnoseologico costruzionista, per il

quale la conoscenza è un processo di costruzione sociale mediata dal linguaggio, nonché

il connessionismo (o ipotesi enattiva), secondo cui la conoscenza è un processo circolare

e ricorsivo di “accoppiamento strutturale” tra soggetto e oggetto.

Tali visuali introducono un attributo di complessità alla conoscenza che non si dava nel

realismo. Complessità che è destinata ad accrescere quando, come nel nostro caso,

aumentano i piani della conoscenza. La presente ricerca, infatti, si propone di conoscere

un “ente” – il manager – e come questi a sua volta conosce se stesso, il proprio ambiente,

il senso che egli stesso dà alle cose che fa… È tuttavia una complessità che va accettata e

gestita, sfuggendo a tentazioni semplificatorie.

In terzo luogo, anche rispetto alla questione epistemologica (le vie per cercare una

conoscenza “vera” sono…), il paradigma ecologico introduce delle svolte sostanziali

rispetto all’approccio positivista, abbandonando l’idea che esista un unico modo per

conoscere la realtà, per abbracciare una pluralità di opzioni epistemologiche. In questo

pluralismo si possono riconoscere alcuni tratti distintivi:

l’attenzione al qualitativo, cioè l’interesse per tutti quei caratteri della realtà che

sfuggono ad una logica quantificatoria (e che attengono molto spesso al mondo dei

significati);

la predilezione per gli approcci di tipo “naturalistico”, che non tendono ad isolare

sperimentalmente il fenomeno, ma a studiarlo nel suo modo ordinario di apparire;

il rifiuto di modelli analitici, dando la preferenza invece ad approcci di tipo olistico,

che non vadano a sezionare artificialmente la realtà, ma che riescano a trovare in essa,

come direbbe Bateson, la “struttura che connette”;

la rinuncia a schemi esplicativi di tipo lineare (causa-effetto) a favore di spiegazioni

di tipo circolare-ricorsivo;

il passaggio da una visione del mondo di tipo deterministico ad una di tipo stocastico;

la rinuncia a possedere tutte le risposte, lasciando spazio anche al dubbio e

all’indeterminazione;

l’abbandono di una pretesa di “oggettività”, di distacco e di impersonalità della

conoscenza, per cogliersi in “unità dinamica” con il mondo;

la valorizzazione della dimensione emotiva e della partecipazione empatica, quali

strumenti di conoscenza.

19

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Da questa concezione della conoscenza, intesa non come corrispondenza del reale, bensì

come costruzione di “nuovi mondi”, si impone la questione etica, quale forte istanza di

responsabilità del ricercatore rispetto alle proprie scelte.

«Se attraverso la creazione di vocabolari noi costruiamo mondi, allora ogni

descrizione della realtà è un atto dalle forti implicazioni performative e come

tale va criticamente presidiato. Proprio per l’attenzione rivolta al problema

di garantire una qualità etica alla ricerca, nel paradigma ecologico è

possibile far confluire tutte quelle riflessioni mirate ad individuare quei

principi che farebbero da guida ad una ricerca che assume come imperativo

qualificante quello del rispetto e della cura dei soggetti implicati in

un’indagine»23.

Non solo, ma tale potenza generativa fa sorgere nel ricercatore la questione della

responsabilità politica delle sue ricerche, cioè la responsabilità di produrre una scienza

utile per l’uomo.

«Nel paradigma ecologico […] l’utilità della scienza – afferma Rorty – non è

calcolata in funzione della capacità di previsione dimostrata dagli enunciati

scientifici, ma in relazione alla sua capacità di indagare le questioni rilevanti per la

vita umana e di fornire strumenti per lo sviluppo non solo di una “buona

tecnologia”, ma soprattutto di nuove e migliori politiche sociali. La ricerca sociale

viene concepita al servizio della solidarietà»24.

1.2 La questione metodologica e il pensiero riflessivo

Nel primo paragrafo avevo lasciato in sospeso la questione relativa alla metodologia, che

intendo qui riprendere, a partire dal controverso rapporto che essa mantiene con i

paradigmi di riferimento.

È indubbio che i metodi impiegati nei percorsi di ricerca cambiano in base al paradigma

all’interno del quale il ricercatore si colloca. Ciò discende – come abbiamo visto - dal

portato del concetto kuhniano di paradigma.

23 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 57.24 Rorty R. (1978), Consequences of pragmatism, Oxford, Blackwell, trad. it. Conseguenze del

pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 37.

20

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Problematica risulta tuttavia la modalità con la quale i diversi metodi si “legano” ad un

paradigma e – prima ancora – la stessa definizione precisa di ciò che si debba intendere

con il termine “metodo”.

Un approccio è quello che fa corrispondere il metodo alla strumentazione tecnica di cui si

avvale il ricercatore.

«Questione metodologica in quanto ha a che fare con i “metodi” della ricerca

sociale, intesi come corpo organico di tecniche. Avremmo anche potuto chiamarla

(forse più correttamente) “questione tecnologica”, in quanto ha per oggetto le

tecniche, ma abbiamo preferito evitare questo termine, in quanto ha assunto nel

linguaggio comune un altro significato»25.

Al paradigma positivista corrisponderebbe per Corbetta il metodo quantitativo mentre al

paradigma interpretativo farebbe capo il metodo qualitativo. Si tratta, come egli stesso

ammette, di due “tipi ideali”, così definiti per finalità didattiche, ma difficilmente

riscontrabili nella pratica quotidiana di ricerca.

«Riconosco che fra i due estremi (o comunque fra i due tipi “puri”) esistono

molteplici posizioni intermedie e che, soprattutto all’interno dell’approccio

quantitativo, è possibile innestare ampie porzioni di tecniche qualitative»26.

Dei due diversi approcci viene data nel testo esemplificazione concreta, presentando due

distinte ricerche sulla devianza giovanile: Crime in the making di Sampson e Laub e

Islands in the street di Jankowski. In realtà, comparando i due casi, si comprende quanto

sia restrittiva l’equiparazione tra metodi e tecniche. Ciò che rende sostanzialmente diversi

i due lavori, infatti, non è solo l’utilizzo di tecniche di tipo quantitativo nella prima e di

tipo qualitativo nella seconda, ma l’intero impianto di ricerca: il rapporto con la teoria,

l’opzione deduttivo Vs. induttivo, il ruolo del ricercatore, il ruolo del soggetto studiato, la

generalizzabilità dei risultati, ecc.

A tale proposito, Massimo Baldacci fa osservare che il discorso sul metodo (la

metodologia) è estremamente complesso, perché intreccia varie dimensioni, oltre a quella

delle tecniche di rilevazione.

«Tenere conto della polisemia della nozione di “Metodologia della ricerca

pedagogica” significa affrontare il problema a diversi livelli: quello della logica

della ricerca, quello delle sue forme sintattiche e quello delle sue tecniche di 25 Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, cit., nota 4, p. 22.26 Ivi, p. 44.

21

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indagine, evitando un’impostazione parziale, che trascuri anche solo uno di questi

piani e le relative categorie metodologiche»27.

In questa impostazione, quindi, la contrapposizione tra tecniche quantitative e qualitative

riguarda solo un aspetto della complessità del discorso sul metodo, all’interno del quale ci

sono diversi livelli e, per ciascuno, differenti opzioni. Baldacci chiama queste opzioni

“antinomie metodologiche”, mutuando questo concetto dal pensiero di Antonio Banfi28.

«Avanziamo l’ipotesi che tali categorie possano essere stabilite, sia pure a titolo

convenzionale e provvisorio, in riferimento ai vari livelli semantici della nozione di

“metodologia di ricerca”, con una integrazione concernente l’ambito

dell’identificazione degli scopi dell’indagine. Perciò:

- al livello della logica della ricerca, individuiamo l’antinomia tra la categoria

dell’induzione e quella della deduzione;

- al livello delle forme sintattiche della ricerca, poniamo convenzionalmente

come fondamentale l’antinomia tra ricerca teorica e ricerca empirica, ovvero tra metodo

speculativo e metodo empirico;

- al livello delle tecniche di indagine, identifichiamo l’antinomia tra la categoria

della quantità e la categoria della qualità;

- infine, per quanto attiene al piano degli scopi della ricerca, individuiamo

convenzionalmente come fondamentale l’antinomia tra ricerca orientata alla conoscenza e

ricerca orientata alle decisioni»29.

In questa prospettiva, non si devono concepire tali antinomie come opzioni di tipo aut-

aut ma come polarità che possono comunque trovare innumerevoli possibilità di

conciliazione30.

In linea con la concezione sviluppata da Banfi nel quadro del razionalismo critico, i

termini antinomici contengono un aspetto oppositivo, per il quale essi si distinguono e si

contrappongono tra loro in forma “idealtipica”, ma contengono anche un aspetto

conciliativo, per il quale si danno posizioni intermedie, di superamento delle unilateralità

polari originarie, senza per questo addivenire ad una sintesi hegeliana31. In questo senso

27 Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, Milano, Bruno Mondatori, 2001, p. 10.28 Banfi A., Principi di una teoria della ragione, Roma, Editori Riuniti, 1967, come citato da Baldacci M.,

Metodologia della ricerca pedagogica, cit., p. 11.29 Ivi, p. 13.30 Ibidem.31 Il concetto banfiano di “antinomia” è per molti versi assimilabile a quello guardiniano di “opposizioni

polari”. Cfr. Guardini R. (1925), L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Brescia, Mocellana, 1997. Per una considerazione pedagogica delle teoria guardiniana, si veda Orlando Cian D., Le polarità pedagogiche nei grandi modelli del passato, in “Studium Educationis”, n. 2/1999,

22

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va considerata secondo Baldacci l’antinomia quantità/qualità: da un lato marcando le

differenti peculiarità e le reciproche opposizioni delle due categorie, dall’altro

evidenziando lo spettro di infinite gradazioni che insistono tra i due poli estremi. È

pertanto possibile individuare delle posizioni di conciliazione tra le istanze di cui sono

portatori questi due poli, rinvenendo forme plurali e parimenti valide di rigore

metodologico.

Quello che Baldacci postula non è il superamento del problema (in quanto problema)

quantità/qualità nell’indagine pedagogica attraverso una formula risolutiva che

rappresenti una soluzione del problema e quindi lo sopprima come tale, cioè in quanto

problema. Il suo intento è semmai quello di problematizzare tale rapporto, attraverso un

approccio critico e antidogmatico, sempre pronto a nuove e diverse conciliazioni.

Secondo Alberto Trobia, la contrapposizione tra quantitativo e qualitativo “viene da

lontano”, cioè affonda le sue radici in quella divisione tra cultura umanistica e cultura

scientifica che egli definisce “diabolica”, richiamandosi a quanto sostiene al riguardo

Pierpaolo Odifreddi.

«L’unità del divino viene frantumata nel momento in cui esso si scinde e si lascia

invadere, letteralmente, dal diabolico: in greco diabolé significa infatti

semplicemente “scissione”. Dal punto di vista intellettuale, la scissione diabolica si

manifesta nell’opposizione delle due culture: la scientifica che esalta il razionale e

atrofizza il sensoriale, e l’umanistica che recupera il sensoriale e argina il

razionale»32.

La stessa distinzione tra quantitativo e qualitativo è considerata priva di fondamento

scientifico, dato che si tratta di una classificazione non esaustiva33. Esistono, infatti,

approcci e tecniche di ricerca che risultano difficilmente catalogabili in una di queste due

categorie (significativi, a tal proposito, gli esempi della ricerca su base logica e del

metodo simulativi), le quali non soddisfano il criterio di mutua esclusività. Non pare

possibile insomma definire un criterio distintivo unico.

pp. 232-249 e Toffano Martini E., Ripensare la relazione educativa, Lecce, Pensa Multimedi, 2007, p. 100.

32 Odireddi P., Antropitechi e teopitechi, in “La rivista dei libri”, n.7/8/1996, p. 36-38, come citato da Trobia A., La ricerca sociale quali-quantitativa, Milano, Franco Angeli, 2005, p. 11. Ciò che il diavolo ha scisso può però – continua Odifreddi – essere riunito, letteralmente, nel simbolico: symbolé significa infatti semplicemente “riunione”. E il simbolismo che impregna forma e contenuto dei linguaggi dell’umanesimo e della scienza (che sono, rispettivamente, l’arte e la matematica) mostra appunto che esistono presupposti comuni per la fusione delle due culture in una sola”.

33 Trobia A., La ricerca sociale quali-quantitativa, cit., p. 11.

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Tale contrapposizione, nata principalmente per comodità didattica, secondo Troia, ha

prodotto nel tempo più svantaggi che vantaggi, in quanto ha sostanzialmente diviso la

comunità scientifica: da una parte vi sono ricercatori che dispongono di una approfondita

conoscenza dei metodi qualitativi, ignorando completamente i metodi quantitativi, e

dall’altra studiosi che conoscono e praticano solo metodi quantitativi, ignorando quelli

qualitativi.

Egli sottolinea quindi la necessità di un superamento di tale distinzione, proponendo una

integrazione dei metodi di indagine da perseguire sulla base di un superiore principio di

adeguatezza metodologica, secondo il quale

«la buona ricerca sociale, dunque, non è né qualitativa, né quantitativa. La buona

ricerca sociale è quella che riesce a dotarsi dei metodi, delle tecniche e degli

strumenti più adeguati per conseguire un determinato obiettivo conoscitivo,

cercando al contempo di affrontare alcune dimensioni critiche che riguardano lo

spazio (problema micro/macro, campionamento), il tempo, la validità e

l’attendibilità. Rispetto a tali dimensioni critiche, la questione qualità/quantità non è

che uno scomodo “angolo” di visione fra i tanti, dal quale esaminare la ricerca

sociale»34.

Sulla stessa linea d’onda si pongono diversi studiosi di metodologia della ricerca, come

ad esempio Roberto Trinchero35, il quale parla dell’utilità di strategie di “triangolazione”

nel campo della ricerca educativa. Egli osserva una crescente tendenza ad abbandonare la

visione della ricerca classica, divisa tra metodi qualitativi e metodi quantitativi, a

vantaggio di una ricerca multimetodo, nella quale la strategia di ricerca tende a combinare

in maniera eclettica le diverse metodiche, in funzione della realtà oggetto di studio,

nonché degli specifici obiettivi conoscitivi che ci si pone. Infatti,

«adottare una strategia di ricerca significa definire con precisione intenti e obiettivi

del ricercatore e utilizzare metodi in modo combinato, per giungere all’obiettivo

conoscitivo che ci si era prefissi»36.

Questa integrazione dei metodi d’indagine, che supera gli steccati storicamente posti tra il

qualitativo e il quantitativo, sembrerebbe porre in questione la corrispondenza biunivoca

tra metodi e paradigmi. Mentre i paradigmi sono visioni del mondo, difficilmente

34 Capecchi V., Analisi qualitativa e quantitativa in sociologia, in “Quaderni di Sociologia”, vol XII, n.2/1963, p. 173, come citato da Trobia A., La ricerca sociale quali-quantitativa, cit., p. 44.

35 Trinchero R., I metodi della ricerca educativa, Roma, GLF Laterza, 2004, p. 12.36 Ibidem.

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conciliabili tra loro37, i metodi possono (e debbono) conoscere una mescolanza. Il metodo

è perciò qualcosa che sta dentro al paradigma, ma che sta anche fuori e che comunque

non può essere considerato una “premessa basilare” del paradigma, come sostengono

Guba e Lincoln38.

Chiarito questo punto, ritengo opportuno riprendere, problematizzandolo, il concetto di

metodo scientifico. Se è corretto declinarlo, come abbiamo visto, al plurale, intendendolo

come un termine polisemico, che racchiude polarità antinomiche, è possibile comunque

rintracciare un’unità nella molteplicità o, per dirla alla Bateson, percepire una “struttura

che connette” i diversi metodi?

Baldacci individua tale sintesi nell’idea regolativa che caratterizza l’intero campo della

ricerca scientifica, ossia il rigore metodologico, inteso però come “idea trascendentale”.

«Che una procedura di ricerca per essere considerata “scientifica” debba risultare

rigorosa è un’affermazione che appare scontata; pertanto, sembra che il rigore

dovrebbe rappresentare un attributo essenziale di una metodologia di ricerca

scientifica»39.

Va però precisato che tale rigore non dev’essere inteso in termini univoci, come ad

esempio sostengono le filosofie della scienza di matrice neopositivista, facendolo

coincidere con l’esattezza matematica o la consequenzialità logica. Se, infatti, questi

criteri risultano pertinenti rispetto alle discipline fisico-matematiche, malamente invece si

attagliano alle cosiddette “scienze umane”. È chiaro che se si ha in testa questo concetto

di rigore metodologico, che prende come modello il metodo delle “scienze esatte”, ogni

raffronto con il modo di procedere delle scienze umane risulta essere a svantaggio di

queste ultime. Rispetto a tali parametri, infatti, le scienze umane e sociali non possono

che dirsi scarsamente “rigorose”. Vanno quindi assunti diversi criteri per definire il rigore

metodologico di tali discipline, criteri che ne rispettino le peculiarità sintattiche.

«Affinché ciò risulti possibile, occorre effettuare il passaggio dal concetto di

“rigore” all’idea trascendentale di rigore metodologico. Si tratta di definire la

37 Questo almeno è ciò che accade nella pratica di ricerca, in cui ogni scienziato si riconosce in questo o quel paradigma; si potrebbe però, a mio avviso, pensare anche in questo ambito a quella che Hans-Georg Gadamer chiama una “fusione di orizzonti”, da cui potrebbe nascere un diverso paradigma. Cfr. Gadamer H.G. (1960), Wahrheit und Methode, trad. it. Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983.

38 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 20. L’Autrice fa riferimento al contributo dei due studiosi americani Guba E. G., Lincloln Y.S., Competing paradigms in qualitative research, contenuto nella prima edizione della raccolta Denzin N.K., Lincoln Y.S., Handbook of Qualitative Research, cit., e che viene rispetto a questo punto sostanzialmente confermato nella seconda edizione del 2007.

39 Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, cit., p. 12.

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categoria del “rigore” non come un’ipostasi concettuale determinata che cerchi di

fondare “dal di fuori” le pratiche della ricerca piegandole alla propria logica, ma

come pura esigenza razionale, in sé formale e “vuota”, che va posta come

immanente a ciascuna di esse e che consenta di comprendere “dal di dentro” la

peculiarità secondo cui viene soddisfatta, o dovrebbe essere soddisfatta, da ogni

singola metodologia»40.

Ogni metodo di ricerca rappresenterebbe per Baldacci un differente “gioco linguistico”41

a cui corrispondono differenti regole. È chiaro che esistono giochi più “regolati” di altri,

ma la questione del rigore non sta solo in questo, ma nella capacità di giocare

correttamente quel determinato gioco (secondo le sue proprie regole), oltre che nella

capacità di scegliere il gioco più adeguato rispetto agli scopi che si intendono perseguire.

«In questo quadro, la pluralità delle forme di rigore viene allora a essere collegata

alla molteplicità dei “giochi linguistici” […]. Il significato del rigore viene almeno

in parte a corrispondere a un principio generale che prescrive che ogni “gioco

linguistico” deve essere giocato in accordo con le regole proprie di quello specifico

gioco, in altre parole, “rigore” vuol dire anche “giocare in modo rigoroso”: si

devono compiere soltanto le “mosse” inerenti al gioco in questione»42.

Un ricercatore commetterebbe una violazione delle regole del gioco, non agendo quindi

in termini rigorosi, se facesse una mossa che appartiene ad un altro “gioco linguistico”.

Così è, per esempio, per chi svolge uno studio di caso, avvalendosi di tecniche qualitative

(come i colloqui), attribuendo poi ai risultati ottenuti un carattere probatorio e

generalizzabile. La mancanza di rigore corrisponde nell’introdurre all’interno di un gioco

(come, ad esempio, la ricerca idiografica) una mossa che appartiene ad un altro gioco (la

ricerca nomotetica).

I diversi giochi linguistici apparterrebbero comunque ad una medesima “famiglia”43,

giacché è possibile rintracciare nei vari metodi di ricerca, anche se in termini molto

generali, dei tratti procedurali analoghi. Questo fil rouge è individuabile per Baldacci nel

“pensiero riflessivo” di cui parla John Dewey.

40 Ibidem.41 Espressione mutuata da Ludwig Wittgenstein: cfr. Wittgenstein L. (1952), Philosophical Investigations,

trad. it., Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 2009.42 Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, cit., pp. 22-23.43 Anche questo un concetto mutuato da Wittgenstein: cfr. Wittgenstein L. (1952), Philosophical

Investigations, trad. it., Ricerche filosofiche, cit.

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«Il pensiero riflessivo mira a trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza

di un’oscurità, un dubbio, un conflitto o un disturbo di qualche sorta, in una

situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa»44.

Questo percorso si articola in cinque fasi:

1. si fa esperienza di oscurità, dubbio, disturbo o conflitto (suggestione);

2. si definisce il problema (intellettualizzazione);

3. si esamina analiticamente la situazione e si formulano delle ipotesi (idea guida);

4. si sviluppano le ipotesi di lavoro nelle loro conseguenze (ragionamento in senso

stretto);

5. si controllano le ipotesi mediante l’azione (controllo).

Come precisa lo stesso Dewey, la successione delle cinque fasi non è rigida e alcune fasi

possono essere maggiormente enfatizzate rispetto alle altre. Si tratta comunque di uno

schema di pensiero che si ritrova nella ricerca empirica così come nell’investigazione

speculativa di tipo filosofico e che, più in generale, è comune a tutti i metodi di ricerca.

Esso potrebbe essere inteso come una postura mentale, un atteggiamento critico, un modo

di porsi in termini investigativi di fronte alle situazioni caratterizzate da confusione e

ambiguità.

Di fronte a queste situazioni, dunque, le persone che assumono tale approccio riflessivo

disinseriscono il “pilota automatico”, rappresentato dalle abitudini, dalle risposte scontate

e irriflesse, suggerite dalla consuetudine o dal pregiudizio, sospendono il giudizio,

inibiscono l’azione spontanea, avviando una riflessione sulla natura del problema da

affrontare e sulle possibili opzioni. Non si tratta solo di fare congetture, ma di

sperimentare concretamente, cercando nell’esperienza una conferma o una confutazione

delle proprie ipotesi di lavoro.

Il pensiero riflessivo non è caratteristica solo del procedere scientifico o filosofico, ma

viene spesso impiegato nell’affrontare in maniera rigorosa problemi pratici di tutti i

giorni. Dewey contrappone questa forma di pensiero al “pensiero di senso comune”, in

base al quale generalmente si agisce acriticamente, in base a schemi abituali, fermandosi

al livello delle suggestioni45.

Baldacci fa osservare come, nel nostro modo quotidiano di porci di fronte alla realtà, non

esista un confine netto fra le due modalità di pensiero. Se è vero che il “pensiero

riflessivo” si distingue dal pensiero di senso comune per accuratezza, coerenza e rigore,

44 Dewey J. (1910), How we think, trad. it. Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 172.45 Ibidem.

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nel quotidiano confronto con la realtà le due forme di pensiero vengono generalmente ad

intrecciarsi e a contaminarsi reciprocamente.

«Si danno molto raramente il senso comune e il “pensiero riflessivo” allo stato

puro; non si esce mai del tutto dalla gabbia del senso comune e non se ne è mai del

tutto dentro»46.

Quello del pensiero riflessivo è un concetto su cui si incardina un po’ tutta la presente

tesi, dato che esso non rappresenta solo lo “strumento” ma anche, in qualche misura,

l’oggetto stesso della mia ricerca. Ciò che mi propongo di fare è, infatti, studiare come il

pensiero riflessivo venga esperito all’interno di una pratica professionale e della sua

dimensione etica e come questo possa divenire dispositivo di costruzione di senso, di

autoformazione e di cura.

Mi propongo di riprendere questo punto più avanti, soffermandomi adesso sul concetto di

pensiero riflessivo, inteso come una sorta di “meta-metodo” della ricerca.

Esso rappresenta, come sostiene Baldacci, lo schema dal quale si può far discendere

l’intera “famiglia” dei metodi di ricerca, ma costituisce, a mio modo di vedere, anche il

processo di pensiero attraverso cui il ricercatore “ricerca il proprio metodo”. Questa

espressione potrebbe avere diversi livelli di lettura.

Un primo livello potrebbe essere che il pensiero riflessivo sostiene la scelta del singolo

metodo. Posto che i metodi sono molti, la scelta del metodo migliore, rispetto alle finalità

che ci si propone, è un problema la cui soluzione non può essere lasciata a delle

“suggestioni”, ma dev’essere a sua volta ricercata rigorosamente. Questo è lo spazio

proprio della metodologia della ricerca scientifica: essa non è semplicemente un

repertorio di tecniche e strumenti, ma è lo spazio per la riflessione rispetto ai metodi più

opportuni da adottare nella situazione specifica.

Un altro livello di lettura potrebbe però essere che il pensiero riflessivo, una volta che è

stato individuato un metodo, debba sorreggere e guidare la sua “applicazione” ragionata.

Giacché applicare un metodo non può essere una procedura meccanica, ma rimane un

processo profondamente riflessivo e che richiede un certo grado di expertise.

«In merito a tutto ciò, si deve inoltre precisare che le regole a cui si fa riferimento a

proposito della nozione di “gioco linguistico” (e quindi di “metodologia di ricerca”)

non rappresentano degli algoritmi, ossia delle norme da seguire meccanicamente

che portino invariabilmente a un certo risultato, ma dei principi metodologici, ossia

46 Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, cit., p. 27.

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delle “massime” procedurali, dei criteri-guida la cui applicazione ai contesti

particolari richiede un’interpretazione caso per caso. Perciò solo un “esperto” del

gioco sa utilizzare effettivamente queste regole»47.

In questo senso si potrebbe asserire che il metodo non rimane mai uguale a se stesso, ma

dev’essere fatto “proprio” dal ricercatore. Senza contare il fatto che, come abbiamo visto,

si afferma sempre più la tendenza a combinare ed integrare i metodi (mixed methods),

ampliando così i margini di personalizzazione metodologica.

Ricercare il proprio metodo è, inoltre, un’operazione che non si fa una volta per tutte, ma

che si deve necessariamente rifare ogni volta. La posizione di Mortari su questo punto è

ancora più spinta: il ricercatore ricerca il proprio metodo man mano che fa ricerca.

«Nessun metodo efficace è qualcosa di predefinito in anticipo; una vera ricerca non

è mai applicativa di un metodo, ma inevitabilmente mette in atto processi di

riconcettualizzazione più o meno radicali […]. Il metodo può essere inteso un

pensare che va appresso al camminare, che prende forma lungo il percorso. Dunque

apprendere un metodo non significa applicare qualcosa di già codificato, si tratta

invece di intraprendere un cammino, ossia mettersi in viaggio disegnando la mappa

che deve fare da guida. Un metodo può essere pensato come una guida che orienta

nel percorso della conoscenza, quindi non è una strada già segnata, ma una mappa

che ci costruiamo a partire da un’accurata analisi del territorio»48.

Per certi versi, il metodo, contrariamente a quanto ci suggerirebbe l’etimologia (dal greco

Meta odos, strada attraverso cui) non va inteso come una strada ben tracciata, ma

qualcosa che assomiglia di più alle “scie nel mare”49.

Non ci sarebbero strade, pertanto, ma delle rotte da seguire e adattare man mano che si va

avanti. Personalmente credo che questa apertura al nuovo, alla casualità, “all’atteso

imprevisto”, come si esprime Paolo Perticari50, sia assolutamente un fattore vitale per il

progresso della conoscenza. A tale proposito, Lucisano e Salerni osservano come ci sia

spesso uno scollamento tra ciò che viene dichiarato essere il metodo scientifico e come

poi concretamente si fa ricerca.

47 Ibidem.48 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 147.49 Il riferimento è qui alla poesia di Antonio Machado, Viandante, riportata all’inizio del capitolo.50 Perticari P., Atesi imprevisti. Uno sguardo ritrovato su difficoltà di insegnamento/ apprendimento e

diversità delle intelligenze a scuola, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Tale espressione è utilizzata anche da Rossi-Doria M., Di mestiere faccio il maestro, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2000, pp. 92 e 98.

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«Infatti a dispetto del rigore metodologico costantemente invocato dagli studiosi la

conoscenza si sviluppa in molti casi anche in ragione della creatività, degli errori e

del caso. In questo caso si parla di serendipità. Il termine è stato coniato dallo

scrittore inglese Horace Walpole (1717-1797) che, ispirandosi a un antico racconto

persiano, Viaggi e avventure dei tre principi di Serendip, gli ha attribuito il

suggestivo, quanto prevedibile, significato di “capacità di trovare ciò che non si sta

cercando»51.

Si tratta di concezioni molto problematiche, in quanto scompaginano quelle poche

certezze che si possono avere rispetto al fare ricerca. È chiaro che concepire il metodo di

ricerca come una procedura standard da applicare è molto più rassicurante. Credo anche,

però, che una prospettiva di questo tipo rappresenti una sfida interessante, tutta da

giocare, avendo comunque alcuni punti fermi, alcune idee-guida.

In conclusione di questo primo capitolo, ritengo opportuno tracciare, a grandi linee,

queste idee, alle quali intendo attenermi nello svolgimento della mia ricerca:

- la scelta di campo rispetto al paradigma ecologico e quindi la forte attenzione

alla dimensione relazionale;

- il confronto con approcci epistemologici di tipo costruttivista;

- l’opzione multimetodo: cioè una ricerca che combini riflessivamente il metodo

teoretico-argomentativo e quello empirico (di marca qualitativa);

- la formulazione di ipotesi “deboli”, permeabili e l’audace apertura

all’imprevisto.

51 Lucisano P., Salerni A., Metodologia della ricerca in educazione e formazione, Roma, Carocci, 2002, p. 49.

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2Alla ricerca di un modello (di apprendimento)

Non puoi insegnare qualcosa ad un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprire qualcosa che è già dentro di sé.

Galileo Galilei

2.1 La costruzione della conoscenza attraverso la pratica riflessiva

Chi sa, fa. Chi non sa, insegna. È un’espressione che ho sentito fin troppo spesso e che

mi ha sempre fatto riflettere su quanto diffuso sia, in determinati contesti, un certo

pregiudizio “antipedagogico” o, se non altro, nei confronti della classe docente. Non è

mia intenzione condurre qui una difesa d’ufficio della categoria. Evidentemente esistono

insegnanti più preparati ed altri meno, persone per le quali l’insegnamento è una

professione e altre per le quali è un ripiego, ma non è questo il punto. Ritengo che il

pregiudizio vada smontato nelle sue “premesse teoriche”, capovolgendo i termini della

questione. Non, quindi, Chi sa, fa, ma Chi fa, sa.

Secondo Schön esiste un’epistemologia della pratica che si rifà al paradigma

positivistico. In base a questa epistemologia, che egli chiama “Razionalità Tecnica”,

l’attività professionale consisterebbe nella soluzione strumentale di problemi, attraverso

l’applicazione di teorie scientifiche e di tecniche rigorose. I saperi, secondo la visione

tradizionale, stanno quindi prima e determinano l’agire professionale. “Chi sa, fa”52.

Per Schön53 l’epistemologia positivistica della pratica si fonda su tre dicotomie: la

separazione fra il conoscere e il fare, la separazione della tecnica dalla pratica

professionale e la separazione dei mezzi dai fini. In sostanza, quindi, tale approccio

postula che l’azione del professionista è solo un’applicazione ai problemi strumentali che

52 Si utilizza qui il termine “fare” in senso lato, comprendendo sia l’operare rivolto alla realizzazione di cose (facere) che l’agire immateriale (agere). Allo stesso modo viene qui inteso il concetto di pratica, riferito tanto al lavoro manuale che a quello intellettuale. Tali distinzioni verranno riprese e tematizzate nel cap. 3, parlando della dimensione etica.

53 Schön D.A. (1987), Educating the reflective practitioner. Toward a new design for teaching and learning in the professions, trad. it. Formare il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva della formazione, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 181-182.

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incontra di teorie e tecniche generati “altrove” e cioè nel contesto della ricerca e

dell’elaborazione disciplinare. Il processo di lavoro si limita ad un’implementazione

rigorosa della decisione tecnica e ad una verifica dei risultati. Risultati che sono misurati

in base alla loro aderenza rispetto ad obiettivi stabiliti preliminarmente.

Nonostante il credito di cui ha goduto in passato e di cui tuttora gode, tale approccio

epistemologico descrive solo un aspetto tutto sommato marginale della pratica

professionale: il nucleo centrale della professione, ciò che fa più o meno competente un

professionista starebbe altrove.

«Nella variegata topografia della pratica professionale, vi è un terreno stabile, a

livello elevato, che sovrasta una palude. Nella parte superiore si collocano problemi

che si prestano ad essere facilmente risolti attraverso l’applicazione di una teoria e

di una tecnica basate sulla ricerca. Nella parte paludosa sottostante, problemi

disordinati, indeterminati resistono a qualsiasi soluzione di tipo tecnico. L’ironia

dei questa situazione è che i problemi dello stato superficiale tendono ad essere

relativamente poco importanti per gli individui e per la società nel suo complesso,

per quanto grande possa essere il loro interesse al livello tecnico, mentre nella

palude si trovano i problemi di maggior interesse umano»54.

Esiste, cioè, tutto un mondo di questioni – fondamentali nella pratica professionale – che

sfuggono alla logica della “razionalità tecnica” e che rischiano di rimanere, appunto, una

“palude” inesplorabile.

La razionalità tecnica, ad esempio, aiuta il professionista nella risoluzione di problemi.

Ad essere “problematica” però non è tanto la soluzione del problema, quanto la sua

determinazione. Il problema, infatti, non è qualcosa che esiste in natura e che s’impone a

noi in tutta la sua evidenza. Ciò su cui “s’inciampa” è quella che Dewey chiama la

“situazione problematica”, che è qualcosa di confuso, di nebuloso, dai contorni indefiniti.

Il problema va quindi “costruito” e questa è un’operazione che trascende la mera

applicazione di teorie e tecniche, è un’operazione che sfugge alla razionalità tecnica.

Infatti, come ci fa osservare Schön55, per quanto la definizione e l’impostazione del

problema sia una condizione necessaria per la soluzione tecnica dello stesso, essa non è di

per sé un problema tecnico. Nel definire ed impostare il problema, infatti, delineiamo il

perimetro d’attenzione, selezioniamo quelli che verranno processati come gli “oggetti”

54 Ivi, cit., p. 31.55 Schön D.A. (1983), The reflexive practitioner, trad.it, Il professionista riflessivo. Per una nuova

epistemologia della pratica professionale, Bari, Dedalo, 1993, p. 68.

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della situazione, ricerchiamo e, se necessario, costruiamo una coerenza interna tra gli

elementi del problema, andiamo ad individuare le incongruenze – cioè ciò che è sbagliato

– e stabiliamo una direzione di marcia, ossia in che modo vogliamo modificare la

situazione data. Si tratta di un processo interattivo, attraverso il quale individuiamo gli

oggetti di cui ci occuperemo e strutturiamo il contesto dell’azione.

L’impedimento tecnico a determinare un problema sta molto spesso nel possibile

conflitto fra le finalità verso cui orientare l’azione professionale. Come ci avverte

Schön56, infatti, la Razionalità Tecnica dipende dal consenso sui fini: quando questi si

presentano in termini chiari e definiti, allora la decisione di agire si presenta essa stessa

come un mero problema strumentale. Quando invece essi si presentano in termini confusi

e contraddittori, allora è chiaro che non c’è ancora un “problema” da risolvere, ma questo

va costruito. In tal caso il semplice utilizzo delle tecniche derivate dalla ricerca applicata

non può essere risolutivo. È qui, appunto, che si rende necessario intraprendere quel

percorso (non tecnico) di strutturazione della situazione problematica, finalizzato a

“sistemare” e chiarire tanto i fini da raggiungere quanto i mezzi utili per il loro

conseguimento.

Ma quand’anche fosse stato definito il problema, questo può ugualmente sfuggire ad una

logica di mera razionalità tecnica, ad esempio perché non è contemplato nei “manuali”,

cioè si presenta – come spesso accade – nei suoi caratteri di unicità e/o di instabilità.

Come ci dice infatti Schön, risolvere un problema, mediante l’applicazione di teorie o

tecniche esistenti, presuppone che un professionista debba essere in grado di applicare

quelle categorie ai problemi che caratterizzano la situazione affrontata nella pratica. Vi

possono essere però un’infinità di “casi unici”, per i quali non si può far affidamento su

tali categorie.

«Un medico non può applicare tecniche standard a un caso che non è nei libri. E un

nutrizionista che tenti un intervento nutrizionale programmato presso una comunità

rurale dell’America Centrale può scoprire che l’intervento fallisce perché la

situazione si è trasformata in qualcosa di diverso rispetto alle previsioni»57.

Al fine di districarsi da questa “palude” occorre disporre di quella che Schön chiama

“Artistry” (tradotta come “abilità artistica”), che si sviluppa proprio attraverso l’agire

concreto. L’abilità artistica che deve avere un medico, un insegnante o un manager, non è

56 Ibidem.57 Ibidem.

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un dono che riceve dall’alto, né qualcosa che impara sui libri, ma è una capacità che egli

acquisisce attraverso la pratica.

«Sembra corretto affermare che il nostro conoscere è nella nostra azione. […] Sia la

gente comune sia i professionisti spesso riflettono su ciò che fanno, a volte persino

mentre lo fanno. Stimolati dalla sorpresa, tornano a riflettere sull’azione e sul

conoscere implicito nell’azione. […] È questo processo complessivo di riflessione

nel corso dell’azione che è fondamentale nell’«arte» mediante la quale i

professionisti a volte affrontano bene situazioni connotate da incertezza, instabilità,

unicità e conflitti di valore»58.

Viene evidenziata da Schön una strabiliante similarità nel modo di procedere di

professionisti che esercitano professioni fra loro assai differenti. Emerge in queste

differenti professioni una sorta di abilità artistica nel gestire situazioni incerte, instabili e

uniche, abilità che sembra soggiacere ad una condivisa “grammatica”. È questo il

modello di riflessione nel corso dell’azione che prende la forma narrativa del dialogo e

che Schön definisce «conversazione riflessiva con la situazione»59.

In questa nuova epistemologia vengono superate le tre dicotomie tanto care all’approccio

positivista: la separazione tra ricerca e pratica professionale, tra fini e mezzi, tra il

conoscere e il fare.

«La pratica è una sorta di ricerca. Nell’impostazione del problema, fini e mezzi

sono strutturati in maniera interdipendente e l’indagine è una transazione con la

situazione nella quale il conoscere e il fare sono inscindibili»60.

La riflessione nel corso dell’azione è un po’ come un gioco agli scacchi: il professionista

apre con una mossa e aspetta di vedere come “risponde” la situazione, per riformulare e

testare man mano i propri schemi di gioco. Queste “mosse” rappresentano per Schön dei

veri e propri esperimenti, cioè azioni fatte per esplorare la situazione o per verificare

l’efficacia di quella stessa mossa o per verificare eventuali ipotesi.

Questo processo si snoda come una spirale attraverso fasi di apprezzamento, azione, e

nuovo apprezzamento. “La situazione unica e incerta viene a essere compresa attraverso

il tentativo di trasformarla, ed è trasformata attraverso il tentativo di comprenderla”61.

58 Ivi, p. 76.59 Ivi, p. 275.60 Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 117.61 Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 152.

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Il punto d’avvio di questa indagine62 riflessiva, il “meccanismo di innesco”, sta in uno

stato d’animo: la sorpresa, che può essere lo stupore, la meraviglia, la confusione o

perfino l’ansia per una situazione minacciosa.

«Gran parte della riflessione nel corso dell’azione dipende dall’esperienza della

sorpresa. Quando una prestazione intuitiva, spontanea, non produce altro che i

risultati attesi, allora tendiamo a non rifletterci sopra. Ma allorquando una

prestazione intuitiva porta alla sorpresa, piacevole e promettente, o non voluta, è

possibile rispondere con una riflessione nel corso dell’azione»63.

Non esistono copioni già scritti, in quanto queste “conversazioni riflessive”; si tratta di

una sorta di improvvisazione, come quella che si produce nella musica Jazz.

«Quando dei bravi jazzisti improvvisano assieme, anch’essi manifestano una

“sensibilità per” il loro materiale ed elaborano adattamenti improvvisati ai suoni

che ascoltano. Ascoltandosi reciprocamente e ascoltando se stessi, sentono in quale

direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il proprio modo di

suonare»64.

Lo possono fare, innanzitutto perché lo sforzo collettivo verso l’invenzione musicale fa

uso di uno schema. Inoltre, ognuno dei musicisti dispone già di un repertorio di motivi

musicali, che può proporre al momento opportuno. L’improvvisazione consiste nel

variare, combinare e ricombinare un insieme di motivi all’interno dello schema che

definisce i limiti dell’esecuzione e le dà coerenza.

La capacità d’improvvisazione musicale collettiva dei jazzisti si avvale infatti di alcune

“costanti” (uno schema metrico, melodico e armonico conosciuto da tutti i partecipanti),

in base alle quali il pezzo si sviluppa comunque secondo un ordine “imprevisto”, ma che

si rende man mano prevedibile. Così, ogni professionista competente dispone, nel proprio

approccio riflessivo alla pratica, di alcune “costanti”, cioè di alcuni punti relativamente

fermi, attorno a cui fa girare la propria “conversazione riflessiva”.

Innanzitutto un patrimonio professionale di mezzi espressivi, di linguaggi specialistici e

di repertori di casi a cui attingere.

62 Il termine traduce il vocabolo inglese inquiry che Schön mutua da Dewey. Per entrambi i filosofi americani l’indagine rappresenta una combinazione di pensiero e azione: fare ragionando, ragionare facendo.

63 Ivi, p. 152.64 Ivi, pp. 81-82.

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Poi un sistema di apprezzamento, ossia l’insieme delle norme, dei principi e dei valori

attraverso cui vengono formulati gli obiettivi e determinata l’accettabilità o meno di una

determinata condotta professionale.

Inoltre può esserci (ma anche no) una teoria dominante, cioè una particolare prospettiva

che, senza fornire regole da applicare, suggerisce dei temi attraverso i quali sviluppare

particolari interpretazioni e ipotesi.

Infine, una struttura del ruolo, come cioè ogni singolo professionista intende i propri

compiti e il rapporto con il proprio contesto istituzionale 65.

Il termine “costanti” può trarci in inganno, facendoci ritenere che esse siano immutabili

nel tempo e omogenee nei diversi ambiti di pratica.

«Ma le costanti – mezzi espressivi, linguaggio, repertorio, sistemi di

apprezzamento, teoria dominante e struttura del ruolo – sono anche soggette a

mutamento. Esse tendono a mutare in lassi di tempo più ampi di quanto non

avvenga per un singolo episodio della pratica professionale, sebbene particolari

eventi possano innescarne il mutamento. E talvolta sono trasformate attraverso la

riflessione del professionista sugli eventi inerenti alla sua attività pratica»66.

La “reflection-in-action” non è l’unico dispositivo attraverso cui “chi fa, sa”. Molto

importante è pure ciò che Schön definisce “reflection-on-action”, ovvero la “riflessione

sull’azione”. È la riflessione ex-post, che cioè lo stesso professionista può fare in un

secondo momento, al fine di acquisire nuova conoscenza professionale. Ovviamente

l’oggetto di questa riflessione può essere l’azione stessa (la sequenza cioè delle diverse

“mosse”) ma anche la riflessione che ha accompagnato tale azione. Si tratta di un

dispositivo metariflessivo che Schön chiama “reflection on reflection-in-action”.

«La riflessione sulla nostra passata riflessione può indirettamente dare forma alla

nostra azione futura. Le riflessioni del lunedì di un quaterback potrebbero essere

ricche di significato se la persona che sta riflettendo è colui che giocherà – e

giocherà diversamente grazie al suo quaterbacking del lunedì – la partita del sabato

successivo. […] Se faccio questo, la mia presente riflessione sulla mia precedente

riflessione nel corso dell’azione avvia un dialogo tra il pensare e il fare attraverso il

quale io posso diventare più esperto»67.

65 Si veda, al riguardo, Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 66.66 Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 282.67 Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 65.

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Per ritornare allora alla questione iniziale, ritengo che una delle possibili chiavi

interpretative per quel pregiudizio rivolto ai docenti possa proprio essere rappresentata da

quel più ampio fenomeno chiamato da Schön “crisi di fiducia”68. Un vicolo cieco nel

quale si sono infilate nell’ultimo secolo tutte le professioni, proprio per la loro pretesa di

fondarsi su di un paradigma di tipo positivistico.

La crisi di fiducia nelle professioni, come pure il declino dell’immagine che il

professionista ha di se stesso, sembrerebbe secondo Schön affondare le proprie radici nel

crescente scetticismo rispetto al loro effettivo contributo al benessere della società.

La svolta riflessiva, oltre a rifondare epistemologicamente le professioni, è indispensabile

secondo Schön per la ricostruzione di questo rapporto fiduciario. All’interno di questa

nuova prospettiva epistemologica, si potrebbe quindi riformulare il nostro adagio in

questi termini: Chi fa, sa. Chi insegna, impara. L’insegnamento, cioè, come ogni altra

pratica, costruisce riflessivamente il proprio sapere. Ed è credo questo che intendeva

Pierpaolo Pasolini quando diceva che: “Non si può insegnare se al tempo stesso non si

apprende”69.

Su questo punto si potrebbero aprire interessanti e ampie analisi. Come pure sarebbe

interessante approfondire il rapporto fra il sapere che nasce dalla pratica degli insegnanti

con il sapere pedagogico che è, in un certo senso, il prodotto di un’altra pratica, quella

della ricerca educativa. Mi interessa però mantenere qui il discorso sul piano generale

delle pratiche e di come queste producano conoscenza.

Ritengo che il modello euristico proposto da Schön, pur valido e ricco di implicazioni

feconde, non sia esaustivo. Esso, infatti, circoscrive il proprio focus d’attenzione sulla

“conversazione riflessiva” che il professionista, nel corso della propria pratica, ingaggia

con la situazione che si trova ad affrontare. Vi sono però anche altre “conversazioni”, che

sono indispensabili per costruire conoscenza e che vedono coinvolti i diversi

professionisti in quella che viene definita la “Comunità di pratica”. Di tali conversazioni

(e di ciò che ad esse è implicato) si occupa la teoria dell’apprendimento sociale di

Wenger.

68 Si veda al riguardo il 1° cap. di Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit.69 Pasolini P.P., Lettere Luterane. Il progresso come falso progresso, Torino, Einaudi, 1976, p. 42.

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2.2 La teoria dell’apprendimento sociale di Wenger

Il nome di Etienne Wenger è inevitabilmente associato al concetto di “Comunità di

Pratica”, concetto che ha conseguito, da una decina d’anni a questa parte, una notevole

affermazione. Va detto, però, che il costrutto “Comunità di Pratica” rappresenta solo un

elemento di un più ampio modello teorico relativo all’apprendimento. È un elemento e

nello stesso tempo una prospettiva, attraverso la quale si può osservare tale modello in

azione.

«Quando uso il concetto di “comunità di pratica” nel titolo di questo libro, lo

utilizzo in realtà come punto d’accesso ad uno schema concettuale più vasto di cui è

un elemento costitutivo»70.

Possiamo, infatti, pensare al modello di Wenger come ad una sorta di prisma, che può

essere guardato da varie angolature.

Il presupposto fondamentale da cui egli parte è che l’apprendimento non è un processo

individuale; non è neppure propriamente un processo, inteso come un insieme coordinato

di passaggi, con un inizio ed una fine. Non è solo, né necessariamente, il prodotto di un

intervento di insegnamento e non può concepirsi in modo separato rispetto al resto delle

attività quotidiane. L’apprendimento è qualcosa di naturale e di necessario, come il

respirare, che avviene senza che vengano implicati per forza atti d’intenzionalità.

Si tratta di un’affermazione contro-intuitiva: tutti noi abbiamo saggiato quanto costa

imparare, quanta fatica, quanti sforzi, quanti sacrifici questo richieda. In realtà, come ci

dice Wenger, tali sforzi sono legati alla volontà di orientare, di dirigere e, a volte, anche

di contrastare il naturale processo di apprendimento.

«Noi sviluppiamo dei programmi scolastici nazionali, degli ambiziosi piani

formativi aziendali, dei sistemi educativi complicati. Vogliamo indurre

l’apprendimento, assumerne il controllo, indirizzarlo, accelerarlo, esigerlo o anche

solo smettere di ostacolarlo, in ogni caso vogliamo agire in qualche modo su di

esso»71.

L’apprendimento è – oltre che naturale – imprescindibile, perché è ciò che rende la nostra

esperienza del mondo e la nostra interazione con esso qualcosa di significativo. Il fine

ultimo dell’apprendimento è, infatti, l’attribuzione di significato.

70 Wenger E. (1998), Communities of practice. Learning, meaning and practice, trad. it. Comunità di pratica, Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 12.

71 Ivi, p. 16.

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Per Wenger72, il significato – il significato delle cose del mondo, da quelle più minute

fino ai massimi sistemi – non è reperibile nelle cose stesse, né possiamo inventarcelo

seguendo il nostro guizzo creativo, ma scaturisce e continuamente viene a ridefinirsi

all’interno di un processo di negoziazione. Negoziare un significato significa attuare un

processo produttivo, che chiaramente però non pretende di costruirlo partendo da zero.

Esso non è preesistente, ma nemmeno inventato. Non è dentro di noi, né nel mondo, ma

nel nostro dinamico relazionarci con il mondo.

Questa negoziazione di significato, poi, secondo Wenger, non ha niente a che vedere con

le disquisizioni filosofiche: essa infatti si realizza attraverso il concreto e quotidiano

confronto con la pratica.

«I nostri tentativi di capire la vita umana aprono la porta a una valanga di

interrogativi sull’argomento: dall’origine dell’universo ai meccanismi del cervello,

dai dettagli di ogni singolo pensiero al senso della vita. In questo vasto spazio

affollato di interrogativi, il concetto di pratica si rivela utile per affrontarne una

parte specifica, per mettere a fuoco l’esperienza della significatività. La pratica è,

anzitutto e soprattutto, un processo mediante il quale possiamo dare significato al

mondo e al rapporto che intratteniamo con esso»73.

Per pratica, Wenger intende non semplicemente il “fare”, ma il fare inserito in una

struttura di significato, storicamente e socialmente determinato. L’esercizio meccanico e

ripetitivo di chi, ad esempio, “fa pratica” di uno strumento musicale non è il tipo di

pratica a cui si riferisce Wenger. Quando Wenger parla di pratica, si riferisce alla pratica

sociale, cioè ad un fare che viene necessariamente ad inscriversi (non potrebbe darsi

altrimenti) in un contesto sociale, che dà struttura e significato a questa attività. Tale

contesto è, appunto, la comunità di pratica: il luogo dove naturalmente si produce

apprendimento, cioè si negozia significato.

«Tutti noi abbiamo le nostre teorie e i nostri modi di intendere il mondo, e le nostre

comunità di pratica sono luoghi in cui li sviluppiamo, li negoziamo e li

condividiamo»74.

La comunità di pratica è il particolare tipo di comunità che nasce proprio dalla

condivisione di quel “fare significativo” che è la pratica. Essa si distingue dagli altri tipi

72 Ivi., pp. 66-67.73 Ivi, p. 63.74 Ivi, p. 60.

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di comunità (pensiamo ad esempio alla comunità locale di un piccolo paese) in quanto

caratterizzata da un impegno reciproco fra i suoi componenti, che è orientato alla

realizzazione di un’impresa comune, attraverso l’impiego di un repertorio condiviso di

risorse (linguaggi, storie, artefatti, ecc.).

Attraverso questo incessante significare le cose del mondo, si va a definire e ridefinire

continuamente la nostra identità, che può essere intesa come la direttrice lungo la quale si

sviluppa il nostro apprendimento nel suo divenire.

«In quanto traiettorie, le nostre identità incorporano il passato e il futuro nel

processo di negoziazione del presente, danno significato agli eventi in relazione al

tempo inteso come estensione del Sé. Mettono a disposizione un contesto in cui

stabilire quali cose, fra tutte quelle potenzialmente significative, si trasformano in

apprendimento significativo. La percezione di trovarci su una traiettoria ci permette

di stabilire cosa conta e cosa non conta, cosa contribuisce alla nostra identità e cosa

rimane marginale»75.

Due sono i dispositivi che, all’interno del modello euristico di Wenger, generano

apprendimento: la partecipazione e la reificazione.

La partecipazione è alla base dell’apprendimento così come – girando il nostro prisma –

essa è all’origine della comunità, dell’identità, della pratica e della negoziazione del

significato. Con il termine “partecipazione” non ci si riferisce ad un semplice

coinvolgimento in una determinata attività svolta contestualmente ad altre persone,

quanto piuttosto al divenire parte attiva di una comunità sociale, che è accomunata dalla

medesima pratica. Si tratta, quindi, di qualcosa che riguarda il “fare” ma soprattutto

l’“essere”, cioè che contribuisce a costruire l’identità della persona in relazione a queste

comunità. Partecipare ad una comunità di pratica condiziona quello che si fa, quello che

si è, come pure l’interpretazione che viene data a ciò che si fa. A tale riguardo Wenger 76

evidenzia come la partecipazione ad una banda di ragazzi di strada, piuttosto che un

gruppo di lavoro, implica tanto un “agire”, quanto un “appartenere”.

La partecipazione è in buona sostanza il nostro modo di essere nel mondo: un esserci, un

esserci con gli altri, anche quando si è soli, che dà significato a ciò che facciamo.

«Starsene da soli in una camera d’albergo a preparare una serie di lucidi per una

presentazione che si terrà la mattina dopo non appare di certo un evento carico di

valenze sociali; eppure il suo significato è fondamentalmente sociale. Non ci sarà 75 Ivi, p. 180.76 Ivi, p. 11.

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solo il pubblico a cui dovrete illustrare in modo chiaro e comprensibile le vostre

idee; ci saranno anche dei colleghi che vi terranno metaforicamente sotto tiro, in

quanto simboleggiano per voi l’obbligo di rispettare gli standard professionali della

vostra comunità. […] I significati di ciò che facciamo sono sempre sociali»77.

Per reificazione, invece, Wenger78 intende quel processo mediante il quale nostri

significati vengono proiettati nel mondo, assumendo per noi una realtà loro propria. Se

attraverso la partecipazione i componenti della comunità di pratica mettono in atto un

riconoscimento reciproco, attraverso la reificazione essi proiettano se stessi sul mondo.

Ciò che viene proiettato però assume vita propria, indipendente dai nostri significati.

Il prodotto della reificazione gioca un ruolo fondamentale nel processo di negoziazione di

significato: una volta “materializzato” (in un concetto, in una norma, in un simbolo o in

una storia), quel significato diviene qualcosa di trattabile, attraverso il quale i membri

della comunità di pratica possono negoziare altri significati.

«Scrivere una legge, creare una procedura o produrre uno strumento sono processi

analoghi. Si dà forma a una certa idea. Questa forma diviene poi un centro di

riferimento per la negoziazione di significato, visto che la gente usa la legge per

sostenere una tesi, usa la procedura per sapere cosa fare o impiega lo strumento per

fare un lavoro. Intendo dire che il processo di reificazione così costruito è

fondamentale per tutte le pratiche. Qualunque comunità di pratica produce

astrazioni, strumenti, simboli, storie, termini e concetti che reificano un qualche

aspetto di quella pratica in forma consolidata»79.

Partecipazione e reificazione sono intimamente intrecciate fra loro nella pratica: non può

esistere l’una senza l’altra. Pensiamo ad esempio ad una conversazione di lavoro tra due

colleghi, nella quale l’aspetto della partecipazione alla stessa comunità di pratica si fonde

con la reificazione, data dall’uso di un linguaggio condiviso, per produrre nuovi

significati.

«Partecipazione e reificazione abbisognano l’una dell’altra e si rendono

vicendevolmente possibili. Da una parte, occorre la nostra partecipazione per

produrre, interpretare e usare la reificazione. Dall’altra, la nostra partecipazione

richiede l’interazione e quindi genera scorciatoie che conducono a significati

77 Ivi, p. 70.78 Ivi, p. 80.79 Ivi, p. 72.

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coordinati, i quali riflettono le nostre iniziative e le nostre visioni del mondo;

dunque non c’è partecipazione senza reificazione»80.

Come dichiara lo stesso Wenger81, il modello sopra rappresentato non ha la pretesa di

fornire altro che una prospettiva sull’apprendimento, prospettiva che ne evidenzia il

carattere di “costruzione sociale”. Esistono, infatti, come ci ricorda Wenger, diversi

modelli teorici dell’apprendimento. Egli ritiene che essi non debbano necessariamente

ritenersi in contrasto fra di loro, né tanto meno reciprocamente escludentisi. Ciascuno in

effetti enfatizza alcuni aspetti diversi, mette in luce una particolare sfaccettatura del

poliedrico processo in esame e quindi può essere impiegato in termini complementari

rispetto a specifiche finalità euristiche. La teoria sociale dell’apprendimento di Wenger, il

cui focus è centrato sull’apprendimento come partecipazione sociale, si propone in

termini complementari rispetto alle altre teorie dell’apprendimento che inquadrano lo

stesso oggetto da punti di osservazione differenti.

In questo sta il carattere “costruzionista” del modello di Wenger: nel ruolo che gioca la

dimensione sociale nella costruzione della conoscenza.

Non è che questa dimensione sia assente nella prospettiva costruttivista di Schön, come

testimoniano le sue stesse parole.

«Una pratica professionale è l’attività di una comunità di professionisti che

condividono, secondo le parole di John Dewey, le tradizioni di un mestiere. Essi

condividono convenzioni di azioni che includono mezzi, linguaggi e strumenti

peculiari. […] Il conoscere nel corso dell’azione di un professionista è collocato in

un contesto socialmente e istituzionalmente strutturato condiviso da una comunità

di professionisti»82.

In entrambi i modelli la conoscenza viene intesa come conoscenza strutturalmente situata.

La differenza sta nella caratterizzazione dell’apprendimento come processo cognitivo, nel

caso di Schön, e come processo sociale per Wenger.

Due prospettive che ritengo di dover considerare nell’inquadrare l’oggetto della mia

ricerca, unitamente ad altri utili contributi teorici, a cui farò riferimento qui di seguito.

80 Ivi, p. 80.81Ivi, pp. 10-11.82 Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 66.

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2.3 La dimensione tacita della conoscenza

Il modello di Wenger – così come, del resto, quello di Schön – è un modello di

apprendimento situato, secondo il quale la conoscenza è dentro la pratica. Questo implica,

di conseguenza, che molta parte di questa conoscenza rimane il più delle volte inespressa,

tacita83.

«Questo concetto di pratica include sia l’esplicito sia il tacito. Include ciò che viene

detto e ciò che non viene detto; ciò che viene rappresentato e ciò che viene assunto

in ipotesi. […] Naturalmente, il tacito è ciò che diamo per scontato, che tende

perciò a rimanere sullo sfondo. Se non viene dimenticato, tende a rimanere nel

subconscio individuale, nella sfera di ciò che sappiamo istintivamente, di ciò che ci

viene naturale»84.

Secondo Wenger, la conoscenza tacita e la conoscenza esplicita rappresentano una dualità

di interazione85. Come la partecipazione e la reificazione non possono essere considerate

separatamente ma “operano in coppia”, così tacito e implicito abbisognano l’uno

dell’altro e si rendono vicendevolmente possibili. Non si può esplicitare sempre ogni

cosa, e quindi annullare la dimensione del non detto, come neppure si può pensare di

rendere tutto formale, sopprimendo l’informale. Quello che ci è dato di fare è

semplicemente modulare quanto di tacito e quanto di esplicito, quanto di formale e

quanto di informale far coesistere assieme.

Si tratta di una coesistenza necessaria, dato che non esistono le conoscenze in tacite e le

conoscenze esplicite in termini assoluti, in quanto ogni conoscenza possiede sempre

qualcosa dell’uno e dell’altro carattere.

«Classificare la capacità di andare in bicicletta come una conoscenza tacita è

improprio, perché le persone non sono esattamente incapaci di descrivere il

processo. Possono dirvi, per esempio, che bisogna pedalare e sterzare, tenere

saldamente il manubrio e non oscillare troppo o non sedersi in posizione arretrata,

se non si è dei professionisti»86.

83 La prima formulazione del concetto di “conoscenza tacita” si deve al filosofo della scienza Michael Polanyi (1966), The tacit dimension, trad. it. La conoscenza inespressa, Roma, Armando, 1979, per il quale “noi possiamo conoscere più di quello che possiamo esprimere” (p. 20). Egli riporta a sostegno di tale tesi una serie di esempi di azioni che svolgiamo quotidianamente e rispetto alle quali non riusciamo (o riusciamo in maniera del tutto approssimativa) a dare ragione: riconoscere un viso o delle espressioni facciali, utilizzare una sonda o un bastone per camminare, ecc.

84 Wenger E., Comunità di Pratica, cit., p. 59.85 Ivi, p. 82.86 Ivi, p. 83.

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L’esplicitazione del tacito rappresenta, dunque, “un’operazione di confine”87. È in quel

luogo sociale, ai margini delle pratiche e delle comunità, il posto in cui si origina il

cambiamento e dove si esplicitano i saperi taciti. Uno spazio di confine è quello che ad

esempio si crea nella relazione tra i membri della Comunità di Pratica e un nuovo

apprendista.

Per Schön, invece, questo processo di esplicitazione trova il proprio ambito di

realizzazione della dimensione riflessiva che si sviluppa all’interno della pratica.

Attraverso la “reflection-in-action”, le comprensioni implicite integrate nelle azioni

vengono fatte emergere, quindi vengono criticate, risignificate e incorporate nell’azione

successiva.

La dimensione tacita, secondo Schön, è per prima cosa presente in tutte le forme di

“know-how”, per le quali la conoscenza sta tipicamente nel fare88.

«Il nostro conoscere è normalmente tacito, implicito nei nostri modelli di azione e

nella nostra sensibilità per le cose delle quali ci occupiamo. Sembra corretto

affermare che il nostro conoscere è nella nostra azione»89.

Generalmente siamo portati a misurare la distanza tra il “dire” e il “fare”, tra le nostre

altisonanti dichiarazioni e le nostre misere realizzazioni. Schön ribalta in qualche modo la

questione, evidenziando la distanza tra il “fare” e il “dire”: possiamo, cioè, fare tante cose

che non riusciamo convenientemente ad esprimere a parole. E ciò dipende, per Schön, dal

carattere situato della nostra conoscenza90. Il know-how è incorporato indissolubilmente

nell’azione e solo attraverso l’agire può emergere. L’esempio proposto è quello di un

acrobata: il suo know-how non è qualcosa che esiste in astratto, bensì esso consiste

proprio nel modo in cui egli riesce a camminare lungo il filo. Il camminare sul filo è il

know-how e la sua dimostrazione.

Ciò che si è detto per il know-how vale anche per l’artistry del professionista. Per quanti

sforzi si facciano non è possibile produrre manuali d’istruzione adeguati alla trasmissione

di tali conoscenze. Tacito non corrisponde, quindi, solo e semplicemente a “non

esplicito”, ma vuol dire in molti casi anche “non esplicitabile”, qualcosa che rimane

87 Il concetto di confine risulta estremamente importante nel discorso di Wenger. Per un approfondimento al riguardo, si veda Wenger E., Comunità di Pratica, cit., cap. 4.

88 Schön si rifà qui alla distinzione tra know-how e know-that, sviluppata da Gilbert Ryle (1949), The concept of mind, London, Hutcheson. Secondo il filosofo britannico, il “sapere come” è altro rispetto al “sapere cosa”: i due saperi non necessariamente si implicano a vicenda.

89 Schön D.A., Il professionista riflessivo, 1983, p. 76.90 Ivi, p. 76.

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avvolto da uno schermo di opacità e di indicibilità. L’unico modo per acquisire questo

tipo di conoscenze è quello di conoscerle in azione.

A questo proposito, Schön riporta un esempio tratto da Chris Alexander91. Il caso citato è

quello della tessitura degli scialli da parte dei contadini slovacchi. La loro tradizionale

abilità nel produrre dei bei disegni sarebbe legata alla capacità di riconoscere e non

ripetere quelli brutti. Per Schön, quindi, in questa come in altre situazioni, noi saremmo

in grado di riconoscere e correggere l’inadeguatezza di una forma rispetto al contesto ma

non riusciamo ad esplicitare davvero le regole in base alle quali la giudichiamo corretta o

sbagliata.

Ma la dimensione tacita non riguarda solo il “know-how” o l’artistry; essa riguarda anche

ciò che Schön chiama “sistema di apprezzamento”, ossia quell’insieme di conoscenze

attraverso il quale avvengono l’impostazione dei problemi e la conversazione riflessiva. E

riguarda altresì la struttura del ruolo, attraverso cui vengono a definirsi i compiti

professionali, nonché la cornice istituzionale all’interno della quale questi vengono a

collocarsi. Si tratta di strutture che risultano determinanti rispetto alla pratica

professionale, ma operano il più delle volte in maniera recondita. È importante per Schön

far emergere queste conoscenze tacite, confrontandosi con la problematicità di cui sono

portatrici.

«Quando i professionisti sono inconsapevoli delle strutture che essi definiscono per

ruoli o problemi, non avvertono l’esigenza di scegliere fra di esse. Essi non

prestano attenzione ai modi in cui costruiscono la realtà nella quale agiscono; per

loro, si tratta semplicemente della realtà data»92.

È importante quindi per il professionista esplicitare anche la cornice, cioè divenire

consapevole delle strutture che utilizza per inquadrare la realtà nella quale opera. Questo

infatti consente di acquisire consapevolezza dei possibili modi alternativi di strutturare la

realtà della sua pratica. Esplicitare la cornice significa esplicitare i principi e i valori in

base ai quali opera e la gerarchia che esiste tra tali principi e valori, facendo anche

emergere possibili dilemmi, a esempio, quando si opera in base ad un valore a discapito

di qualche altro.

91 Alexander C. (1968), Notes toward a Synthesis of form, Cambridge, Mass., Harvard University Press, trad. it., Note sulla sintesi della forma, Milano, Il Saggiatore, 1978, come citato in Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 79.

92 Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 314.

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Questa presa di coscienza, realizzabile attraverso ciò che Schön chiama “ricerca

riflessiva”, dà la possibilità di confrontarsi con il pluralismo professionale rappresentato

dalle diverse scuole di pensiero, in maniera critica, non ideologica, per pervenire magari

anche ad un eventuale “eclettismo sistematico”93. Considerare cioè le diverse scuole non

come recinti che imprigionano ma come territori aperti, su cui si può spaziare, attingendo,

in base alle specifiche caratteristiche del caso che si deve affrontare, le risorse più utili,

che possono essere modelli, teorie, tecniche o strumenti operativi.

Il concetto di struttura tacita sviluppato da Schön ne Il professionista riflessivo richiama il

discorso che egli affronta, assieme al collega Chris Argyris94, in merito alle “Teorie-in-

uso”, le quali rappresentano, in un certo senso, il punto di snodo tra l’indagine riflessiva

del singolo individuo e una dimensione più ampia: l’apprendimento organizzativo.

2.4 L’apprendimento organizzativo

L’introduzione nel dibattito accademico del concetto di apprendimento organizzativo da

parte di Argyris e Schön, agli inizi degli anni Settanta, non è stata esente da contestazioni.

L’accusa rivolta ai due studiosi americani è in buona sostanza quella di aver voluto

“antropomorfizzare” le organizzazioni, attribuendo loro facoltà tipicamente umane (o

comunque esclusive degli esseri viventi)95. La questione non è priva di una sua

problematicità: si può difatti parlare, in senso proprio, di organizzazioni che apprendono

o sono piuttosto gli individui che apprendono in nome e per conto delle organizzazioni?

Chiaramente l’apprendimento organizzativo è strettamente intrecciato con

l’apprendimento individuale, il quale – come abbiamo visto – trova la sua più compiuta

modalità realizzativa in quella conversazione tra azione e pensiero che è l’indagine

riflessiva. Ma l’apprendimento del singolo individuo, quando questi opera come agente

dell’organizzazione, interloquisce con l’organizzazione stessa, attraverso una serie di

continui feed-back e interazioni tra le conoscenze e i cambiamenti dell’individuo e quelli 93 Ivi, p. 317. Schön cita, a tale riguardo, l’analisi in merito all’eclettismo sistematico in ambito psichiatrico

fatta da Leston Havens, Approches to the mind, Little, Brown, Boston, 1973.94 Si veda in particolare Argyris C. e Schön D.A., Theory in practice. Increasing professional effectiveness,

San Francisco, Jossey-Bass, 1974; Argyris C. e Schön D.A., Organizational learning: a theory of action perspective,Reading, Mass., Addison-Wesley, 1978; Argyris C., Schön D.A. (1996), Organizational learning: theory, method and practice, Reading, Mass., Addison-Wesley Longman, trad.it. Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, Milano, Guerini e Associati, 1998.

95 La metafora dell’organizzazione come sistema pensante ha generato comunque un filone molto prolifico di studi, i quali attingono al ricco ed interessante ambito di ricerca della cibernetica. Per un approfondimento di questa e di altre metafore sull’organizzazione, si veda Morgan G., (1986) Images of organization, Sage Publications, trad.it. Images. Le metafore dell’organizzazione, Milano, Franco Angeli, 1998.

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dell’organizzazione. Quindi il processo di apprendimento individuale alimenta e viene

modificato da quello dell’organizzazione.

«Quando l’indagine individuale e quella organizzativa s’intersecano, la prima

alimenta e contribuisce a plasmare la seconda, che poi retroagisce per plasmare

l’ulteriore indagine realizzata dagli individui»96.

Quando Argyris e Schön parlano di apprendimento organizzativo, si riferiscono non solo

al processo, ma anche al prodotto che da tale processo scaturisce97. Anche in questo caso

la conoscenza dell’organizzazione si collega a quella degli individui che la compongono,

pur rimanendone distinta. Vi possono essere, secondo i due studiosi, casi in cui le

organizzazioni sanno meno dei loro membri. È una condizione di fragilità organizzativa,

in cui la conoscenza è un patrimonio personale degli individui piuttosto che

dell’organizzazione. Vi sono però anche situazioni in cui è l’organizzazione che sa di più

dei suoi membri e tutta questa conoscenza, incorporata nelle regole, nelle procedure, nella

prassi amministrativa, può supplire in una certa misura alle carenze professionali degli

operatori. L’esempio portato, a tale riguardo, è quello delle organizzazioni militari o di

altre organizzazioni complesse, come le compagnie telefoniche, fortemente strutturate,

che in molti casi riescono a garantire buone prestazioni anche con personale non

particolarmente “brillante”.

L’organizzazione, infatti, ha una propria memoria, che si affianca quella dei suoi membri,

dove conserva il proprio patrimonio di conoscenze. E questa memoria è l’organizzazione

stessa, con i suoi regolamenti, con i suoi codici di comportamento non scritti, con i suoi

artefatti, ecc.

«In primo luogo le organizzazioni fungono in vari modi da ambienti che preservano

la conoscenza, compresa la conoscenza ottenuta con l’indagine organizzativa. Tale

conoscenza può essere conservata nelle menti dei singoli membri. […] Tuttavia la

conoscenza può essere conservata anche negli archivi di un’organizzazione, che ne

documentano azioni, decisioni, regolamenti e politiche, oltre che nelle mappe,

formali e informali, con cui le organizzazioni si rendono comprensibili a se stesse e

agli altri»98.

96 Argyris C. e Schön D.A., Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, cit., p. 25.97 Ivi, p. 19. Gli autori utilizzano infatti il termine inglese “learning”, il quale designa non solo il processo

dell’apprendere ma anche a quanto si è appreso.98 Ivi, pp. 25-26.

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Ma la conoscenza organizzativa viene custodita anche negli artefatti organizzativi, cioè

quegli oggetti fisici che hanno una funzione strumentale per lo svolgimento del lavoro,

ma che possono avere anche una funzione simbolica.

Oltre ad essere immagazzinate, tali conoscenze organizzative vengono rappresentate dalle

stesse organizzazioni, attraverso la creazione di routine organizzative, più o meno

formalizzate, più o meno esplicite, che rappresentano in qualche modo degli schemi

comportamentali predefiniti per situazioni ricorrenti. Cioè, la conoscenza organizzativa è

incorporata al sistema di routine e di prassi che rappresenta un set di risposte codificate a

domande ricorrenti, nonché un pacchetto di soluzioni standard a problemi ordinari. Si

tratta di schemi che i singoli membri dell’organizzazione mettono in atto, talvolta però

senza riuscire a spiegarne compiutamente il senso.

Alla base di queste routine esisterebbero delle vere e proprie “teorie dell’azione”, le quali

non solo definiscono le strategie d’azione (cosa fare in caso di…) ma sanciscono anche i

valori e gli assunti che danno fondamento a tali strategie. Le teorie dell’azione, infatti,

«hanno il pregio di includere le strategie d’azione, i valori che ne governano la

scelta e gli assunti su cui si fondano. Una teoria dell’azione si definisce in base a

una situazione particolare S, a una particolare conseguenza intesa in quella

situazione C, e a una strategia d’azione A finalizzata a ottenere la conseguenza C,

nella situazione S. La forma generale di una teoria dell’azione è: se hai l’intenzione

di produrre la conseguenza C nella situazione S, allora metti in atto A»99.

In questo schema generale della teoria dell’azione proposto dai nostri autori, un ruolo di

estrema importanza viene giocato dai valori attribuiti alle finalità che si intendono

perseguire con l’azione, che sono in sostanza ciò che rende desiderabili le conseguenze

attese. Notevole importanza hanno anche in tale modello gli assunti sottostanti, cioè il

presupposto di causalità in base al quale riteniamo che l’azione A produrrà la

conseguenza C nella situazione S. Si tratta di presupposti e che hanno a che fare con la

nostra visione del mondo e con le nostre aspettative su come esso debba funzionare.

È, questo, il punto cruciale del discorso di Argyris e Schön: dietro ad ogni azione

organizzativa ci sta una “teoria dell’azione” 100. A confondere le cose, però, c’è il fatto che

la teoria dell’azione del singolo individuo è generalmente diversa rispetto a quella della

sua organizzazione. Non solo, ma per entrambe esistono due diverse versioni: la “teoria

dichiarata” (o professata) e la “teoria-in-uso”. Con l’espressione “teoria dichiarata” si 99 Ivi, p. 26100 Ivi, p. 27.

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riferiscono alla teoria dell’azione che l’organizzazione o il singolo esplicitano come

motivazione di un dato schema d’attività. Per “teoria-in-uso” invece intendono la teoria

dell’azione implicita che sta dietro all’attuazione dello schema stesso. È chiaro che il

conoscere la teoria-in-uso richiede un’osservazione degli schemi di comportamento in

atto e soprattutto un processo ermeneutico che “costruisce” ipotesi alternative da

verificare con i dati osservativi.

A differenza della “teoria dichiarata”, la “teoria-in-uso” è generalmente inespressa.

Questo perché comprende tutta una serie di conoscenze tacite e quindi, come abbiamo

visto nel paragrafo precedente, inesprimibili. Ma anche quando raggiunge un certo livello

di consapevolezza, la teoria-in-uso può rimanere inespressa per ragioni di opportunità, in

quanto confligge con la teoria dichiarata. Questo è ciò che rende alquanto difficile

l’apprendimento organizzativo che, secondo gli autori, consiste appunto nel cambiamento

delle teorie-in-uso dell’organizzazione attraverso una “indagine organizzativa”.

«L’apprendimento organizzativo si verifica quando gli individui all’interno di

un’organizzazione sperimentano una situazione problematica e, nell’interesse

dell’organizzazione, la indagano. Essi esperiscono la sorpresa della mancata

corrispondenza tra i risultati attesi e i risultati effettivi dell’azione, reagendo con

un processo di pensiero e di nuovi corsi d’azione che conducono a modificare le

immagini dell’organizzazione o il modo di intendere i fenomeni organizzativi, e a

ristrutturare le attività così da allineare risultati e aspettative, modificando, in

questo modo, la teoria-in-uso organizzativa»101.

Affinché l’esito dell’indagine organizzativa rappresenti davvero un apprendimento

organizzativo, esso deve modificare l’immagine che ciascun membro ha della propria

organizzazione. È necessario inoltre che vengano a modificarsi gli artefatti cognitivi (le

mappe, le memorie e i programmi) di quella organizzazione.

Se l’apprendimento consiste nella modificazione delle teorie-in-uso, non tutte le

modificazioni delle teorie-in-uso costituiscono apprendimento. Ci possono essere, infatti,

degli eventi “patologici” all’origine di tali modifiche: una crisi di mercato, un

deterioramento del clima interno, un calo motivazionale, ecc.

Esistono poi degli apprendimenti organizzativi che non sono “produttivi”, nel senso che

producono cambiamenti delle teorie-in-uso negativi piuttosto che positivi. Ciò può

imputarsi a degli errori che vengono commessi nell’attribuire un nesso di causalità tra

101 Ivi, p. 30, in corsivo nel testo.

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un’azione e una conseguenza solo perché l’una segue temporalmente l’altra

(apprendimento superstizioso). Oppure per il fatto di perseverare nell’azione che in

passato si era rivelata efficace, anche quando sono mutate le condizioni esterne (trappola

della competenza)102.

Esistono infine delle modalità che l’organizzazione ha appreso nel corso del tempo e che

ostacolano l’apprendimento. Pensiamo ad esempio alla tendenza molto diffusa in alcune

organizzazioni (che gli autori correlano ad una specifica tipologia di organizzazione,

invero molto diffusa, da loro definita “Modello I”) in cui si tende ad occultare le

difficoltà e gli errori, a dissimulare le reali intenzioni, a mantenere interdetti e tabù, ad

addossare responsabilità al capro espiatorio di turno, ecc.

Come ci fanno presente Argyris e Schön103, il cambiamento della teoria-in-uso può essere

solo parziale, cioè interessare soltanto le strategie d’azione e gli assunti, senza modificare

i valori che ne stanno alla base. In questo caso si parla di apprendimento a circuito

singolo (single-loop), in quanto il sistema di apprendimento dell’organizzazione si

comporta come un circuito cibernetico semplice – pensiamo ad un termostato – che rileva

e corregge l’errore in ordine a norme operative prestabilite (e quindi, nel caso del

termostato, la differenza tra temperatura rilevata e quella impostata).

Le organizzazioni si comporterebbero, in buona sostanza, come dei termostati: nel

continuo interscambio con il proprio ambiente, esse mettono generalmente in atto

meccanismi di autoregolazione attraverso continue azioni di verifica e correzione

dell’errore. Spesso risulta sufficiente una correzione minima, limitata cioè alla modifica

delle strategie e gli assunti organizzativi, che lascia inalterati i valori e le norme di

riferimento. È questa la situazione dell’apprendimento single-loop. Si tratta di un

apprendimento di tipo strumentale, che punta ad incrementare l’efficacia del sistema.

Quest’ultimo infatti riesce a conseguire gli obiettivi prefissati, all’interno del quadro

definito delle norme e dei valori dell’organizzazione.

Ma l’organizzazione può attivare in parallelo un secondo circuito di retroazione, andando

a riflettere ed eventualmente a ristrutturare anche i valori e i criteri attraverso i quali viene

definita la prestazione efficace (e quindi l’errore). È il caso dell’apprendimento a doppio

circuito (double-loop). Questo però risulta piuttosto difficile da realizzarsi, per una serie

102 I concetti di “apprendimento superstizioso” e di “trappola della competenza” vengono mutuati da James March (cfr. Levitt B. e March J.G., Organizational Learning, in “Annual Review of Sociology”, vol. 14/1988, pp. 319-340.

103 Argyris C., Schön D.A., Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, cit., p. 36.

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di motivi principalmente legati alle caratteristiche del sistema di apprendimento

dell’organizzazione.

Dobbiamo infatti intendere l’organizzazione come un sistema (fatto di canali

comunicativi, strutture informative, meccanismi di incentivazione, ecc.) che può risultare

più o meno facilitante rispetto al processo di indagine organizzativa. Di qui l’importanza

di un di apprendimento di “secondo livello” che gli autori chiamano, in ossequio al loro

maestro Gregory Bateson104, Deuteroapprendimento.

«Un tipo di apprendimento organizzativo double-loop di fondamentale importanza

è perciò l’apprendimento del secondo ordine, attraverso il quale i membri di

un’organizzazione possono scoprire e modificare il sistema di apprendimento che

condiziona gli schemi egemonici di indagine organizzativa»105.

2.5 Le competenze

Il discorso sulle competenze, a mio avviso ineludibile in questa fase di delineazione del

quadro teorico-concettuale di riferimento, risulta quanto mai difficoltoso, dal momento

che non esiste neppure una definizione condivisa del termine stesso106. Un aspetto che

però contraddistingue e accomuna le diverse posizioni al riguardo – e che avvicina questa

tematica a quanto si è andati sinora dicendo rispetto alle conoscenze – è il carattere

“situato” della competenza. Nel senso che la competenza è qualcosa di intimamente

legato all’agire, che viene riconosciuto a partire dall’azione concreta. Quello delle

competenze non può essere, cioè, un discorso in astratto, ma deve partire necessariamente

dall’analisi di performance d’eccellenza, di comportamenti efficaci, di prestazioni

superiori. Deve partire quindi dalla pratica107.

104 Cfr. Bateson G. (1972), Steps to an ecology of mind, trad. it. Verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1980, pp. 195 e segg.

105 Argyris C., Schön D.A., Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, cit., p. 45, in corsivo nel testo.

106 Il dissenso riguarda non solamente il significato di “competenza”, ma anche il termine in sé. Per alcuni autori, infatti, sarebbe più corretto tradurre l’inglese competency con il termine “capacità”. Si veda al riguardo Capperucci D., La valutazione delle competenze in età adulta. Il contributo dell’experiential learning e dell’approccio riflessivo, Pisa, Edizioni ETS, 2007, p. 189. l’Autore fa riferimento agli studi di Carretta A, Dalle risorse umane alle competenze, Milano, Franco Angeli, 1992 e Cocco G., Un modello semplificato delle competenze, in “Sviluppo&Organizazione”, n. 164/1997.

107 E dalla pratica professionale nasce la stessa teoria delle competenze, dato che viene sviluppata a supporto delle attività di consulenza organizzativa svolte, all’interno dell’agenzia McBer, da David McClelland e successivamente da Lyle Spencer, Signe Spencer e Richard Boyatzis.

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David McClelland, il padre riconosciuto del movimento delle competenze, ricorda come

il procedere a ritroso, partendo dalla pratica, avesse rappresentato per quel tempo (si era

agli inizi degli anni Settanta) una sorta di rivoluzione copernicana.

Prima dell’introduzione di questo approccio, infatti, gli psicologi del lavoro procedevano

effettuando prioritariamente un’analisi della mansione, per poi dettagliare i compiti da

questa richiesti. Proseguivano quindi con la costruzione e la validazione di test che

misuravano le skill necessarie per svolgere questi compiti e cercavano, infine, di

associare i punteggi dei diversi fattori al successo della mansione.

Tale procedimento, basato su analisi separate della mansione e della persona, si

dimostrava efficace nel valutare il rendimento scolastico, mentre si rivelava del tutto

inadeguato quando si trattava di valutare, in ambito lavorativo, l’attitudine a gestire le

mansioni più qualificate.

«Il movimento delle competenze ha fatto compiere un bel passo avanti agli

psicologi impegnati nel loro tradizionale compito di mettere la persona giusta nella

posizione giusta. […] Nel metodo delle competenze, l’analisi comincia con la

persona già nella mansione e non presume quali caratteristiche siano necessarie per

svolgere bene un certo lavoro; poi determina, attraverso le interviste sui

comportamenti esplicitati in situazioni non strutturate, quali caratteristiche

personali sono associabili al successo nella mansione»108.

Anziché, quindi, partire da speculazioni teoriche, l’approccio introdotto da McClelland

prende in considerazione le caratteristiche e i comportamenti di chi, già inserito in quel

lavoro, lavora in modo eccellente.

A muovere le ricerche di McClelland era l’insoddisfazione per le modalità al tempo

utilizzate per la selezione del personale, le quali non solo erano del tutto destituite di ogni

efficacia predittiva, ma anche risultavano spesso viziate da etnocentrismo e quindi

discriminavano le persone appartenenti a minoranze culturali.

Egli studiò in particolare, su incarico del Dipartimento di Stato americano, il sistema di

reclutamento degli addetti culturali delle ambasciate USA, che allora si basava su test di

cultura generale. Il punteggio ottenuto in questi test – a cui difficilmente si qualificavano

i membri di minoranze etniche – non era però in alcun modo correlabile al futuro

successo nella mansione. Per questo decise di mettere a punto un diverso set di parametri

108 McClelland D., Il concetto di competenza: introduzione, in Spencer L.M., Spencer S.M. (1993), Competence at work. Models for superior performance, trad. it. Competenza nel lavoro. Modelli per una performance superiore, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 29.

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di valutazione, analizzando l’esperienza di quelli che erano – a giudizio dello stesso

Dipartimento di Stato – i migliori performer. Tale esperienza veniva successivamente

raffrontata con quella degli addetti culturali giudicati meno bravi.

«Originariamente avevamo pensato di osservare direttamente sul lavoro i funzionari

dei due differenti campioni, per scoprire che cosa facessero i migliori di più e/o di

diverso dai mediocri. Questa soluzione si rivelò troppo costosa e poco pratica. Così

pensammo di chiedere a quei funzionari di raccontare dettagliatamente che cosa

avevano fatto nelle situazioni più critiche incontrate nella loro mansione»109.

Ne risultò un set di caratteristiche che distinguevano i migliori dai mediocri e che non

aveva nulla a che vedere con nozioni di cultura generale, né con il quoziente

d’intelligenza. Si trattava di qualità come la sensibilità interpersonale, l’interesse per le

altre culture, l’atteggiamento positivo nei confronti degli altri, ecc.

Una volta definite tali caratteristiche, fu facile mettere a punto delle prove selettive che

mirassero ad accertarle in modo obiettivo e libero da pregiudizi culturali.

«La selezione basata sulle competenze predice la performance superiore nella

mansione e la sua continuità – entrambe di significativo valore economico per le

organizzazioni – senza pregiudizi di razza, sesso o di altro genere»110.

Quello delle competenze rappresenta, per McClelland, un approccio che può essere

sviluppato non solo per la selezione, ma anche per la formazione del personale e la sua

valutazione ai fini della progressione in carriera.

In questa direzione si sono adoperati Lyle e Signe Spencer, considerati i prosecutori

dell’opera di McClelland. A loro si deve una delle definizioni più accreditate del termine

competenza.

«Per competenza intendiamo una caratteristica intrinseca individuale che è

causalmente collegata ad una performance efficace o superiore in una mansione o

in una situazione, e che è misurata sulla base di un criterio prestabilito»111.

Le competenze, anche per questi due autori, non sono qualità astratte, ma sono ciò che

concretamente determina, in una situazione reale, il riuscire o meno a raggiungere un

certo risultato e a raggiungerlo in termini più o meno soddisfacenti. Si tratta di

“caratteristiche intrinseche” – nel senso che sono integrate piuttosto stabilmente nella 109 Ivi, p. 25. 110 Ivi, p. 25. 111 Spencer L.M., Spencer S.M., Competenza nel lavoro, cit., p. 30.

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personalità dell’individuo – in base alle quali è possibile “predire” il comportamento del

soggetto nelle diverse situazioni di vita e/o di lavoro, in cui questi si venisse a trovare.

Ciò in quanto esiste un nesso di causalità tra queste caratteristiche e il comportamento del

soggetto.

Tali caratteristiche vengono classificate in cinque tipologie:

1. le motivazioni, ossia le spinte interiori che inducono il soggetto ad agire;

2. i tratti, che possono essere fisici – come l’acutezza visiva – ma anche disposizioni

comportamentali, come l’autocontrollo o lo spirito d’iniziativa;

3. l’immagine di sé, gli atteggiamenti e i valori personali;

4. le conoscenze disciplinari, che per essere predittive rispetto alle prestazioni non

devono essere intese come nozioni immagazzinate, ma come cognizioni

concretamente attivabili e “spendibili” nella pratica.

5. le skill, cioè le abilità nell’esecuzione di un determinato compito intellettivo o

fisico.

Spencer e Spencer rappresentano questo insieme di competenze utilizzando l’immagine

di un iceberg: nella parte emersa vi sono le conoscenze e le abilità, facilmente verificabili

e che si prestano più agevolmente ad essere riprodotte e modificate. Le motivazioni, i

tratti e l’immagine di sé costituiscono invece la parte sommersa dell’iceberg, rispetto a

cui rimangono più ardui l’analisi e lo sviluppo. A differenza però di conoscenze e abilità,

queste ultime fornirebbero indicazioni predittive non solo in merito a quello che

l’individuo è in grado di fare, ma anche rispetto a quello che, con ogni probabilità, farà

concretamente.

Le cinque tipologie comprendono quelle che gli autori chiamano “competenze di soglia”,

le quali sono solitamente le conoscenze e le abilità elementari – indispensabili per essere

anche minimamente efficaci – nonché le “competenze distintive”, che fanno la differenza

nella qualità delle performance.

L’insieme delle competenze di soglia e delle competenze distintive necessarie o

auspicabili per una determinata mansione viene definito “profilo delle competenze” e

viene utilizzato per creare degli strumenti di misurazione, finalizzati alla valutazione del

personale di tutti i livelli, anche quello direttivo, sia in sede di primo reclutamento che per

gli avanzamenti di carriera e per l’assegnazione dei compensi incentivanti.

Riprendendo la metodologia di lavoro utilizzata per primo da Boyatzis, Spencer e

Spencer costruirono, un “Dizionario delle competenze”, cioè un repertorio delle 21

competenze più ricorrenti, suddivise in sei categorie:

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1. Competenze di realizzazione e operative (orientamento al risultato, accuratezza,

spirito d’iniziativa, ricerca delle informazioni);

2. Competenze di assistenza e servizio (sensibilità interpersonale, orientamento al

cliente);

3. Competenze d’influenza (pesuasività, consapevolezza organizzativa, costruzione

di relazioni);

4. Competenze manageriali (sviluppo degli altri, assertività, cooperazione,

leadership di gruppo);

5. Competenze cognitive (pensiero analitico, pensiero concettuale, capacità

tecniche/professionali/manageriali);

6. Competenze di efficacia personale (autocontrollo, fiducia in se stessi, flessibilità,

impegno verso l’organizzazione, altre caratteristiche e competenze personali).

Il Dizionario fornisce, per ciascuna competenza, una o più scale di indicatori

comportamentali dai quali si inferisce il livello di competenza posseduto dai soggetti112.

Il movimento delle competenze ha conosciuto negli ultimi decenni un notevole successo,

principalmente dovuto al profondo cambiamento che hanno subito il sistema aziendale e

le organizzazioni in genere. L’esigenza di avere organizzazioni sempre meno

gerarchiche, sempre più flessibili, infatti, ha spostato il fuoco d’attenzione dalle mansioni

definite ed incardinate nella struttura al contributo personale ed autonomo che sono in

grado di apportare i collaboratori.

«Recentemente si è delineata, nella gestione delle risorse umane, la tendenza a

focalizzare l’attenzione alla persona piuttosto che al job, alle capacità di sviluppo

potenziali, anziché alle sole prestazioni. L’elemento fondamentale per una azienda

è assicurarsi di avere al proprio interno persone che sappiano fare determinate cose,

non già di descrivere che cosa le persone debbano fare in una data posizione»113.

Questo cambiamento di prospettiva si combina con la trasformazione dei sistemi

organizzativi, sempre più contraddistinti da una crescente variabilità dei compiti, nonché

dall’indefinitezza dei ruoli e delle posizioni. A fronte di organizzazioni sempre meno

“organizzate”, a job sempre meno definiti, viene richiesta una sempre maggiore

112 Gli indicatori sono complessivamente 286. Essi vengono articolati, per ciascuna competenza in 2-3 scale, ordinate in funzione dell’intensità o la complessità del comportamento, ma anche in alcuni casi in base alle dimensioni dello sforzo prodotto e degli effetti raggiunti.

113 Civelli F., Manara D., Lavorare con le competenze, Milano, Guerini, 1997, pp. 28-29. A questa posizione si rifà anche Fertonani M., Le competenze manageriali. Dalla valutazione delle prestazioni e del potenziale alla valutazione delle competenze manageriali, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 135.

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competenza da parte dei lavoratori. L’attenzione nelle nuove organizzazioni, quindi, si

sposta dal profilo professionale alla persona che ricopre quel determinato ruolo, a ciò che

sa e a ciò che può ecletticamente fare. Si accorciano infatti le distanze tra le competenze

professionali e quelle personali, destinate via via ad intrecciarsi e a confondersi

maggiormente.

Le esigenze del mercato impongono che le organizzazioni si basino sempre meno sulle

mansioni e sempre più sulle persone, sulla loro multiforme capacità di adattamento ai

cambiamenti e sulla loro capacità di autosviluppo personale.

L’approccio per competenze può infatti essere un dispositivo a servizio

dell’organizzazione. In questo caso funziona in una logica “top-down”, che parte

dall’organizzazione, dall’analisi dei suoi bisogni di competenza per poi selezionare e

costruire tali competenze nei collaboratori.

Ma può essere anche uno strumento a servizio della persona e quindi, in una dinamica

“bottom-up”, partire dal soggetto e dalle sue competenze per progettare percorsi possibili

di formazione e di valorizzazione. Ed effettivamente la questione della competenza

costituisce uno dei temi principali sui quali si sta incentrando, al momento attuale, il

dibattito pedagogico.

Non mi addentrerò in questi aspetti114. Ritengo invece utile soffermarmi sul concetto di

competenza, come sopra indicato, e sul rapporto tra competenze e conoscenze.

Nel modello delle competenze rappresentato da Spencer e Spencer, le conoscenze

occupano un posto tutto sommato marginale: la punta dell’iceberg. E come punta

dell’iceberg, esse sono “visibili” agevolmente e si possono raggiungere con facilità. Si

tratta, come è facile intuire, di un’accezione ristretta del termine “conoscenza”.

Accezione assolutamente limitativa rispetto alla portata che lo stesso termine ha in Schön

e in Wenger, per i quali – come si è visto – la conoscenza non sta soltanto in superficie,

ma sta anche nel sommerso delle conoscenze tacite. La conoscenza è dal loro punto di

vista il “know-that”, ma anche il “Know-how” e quindi è intimamente collegata alle skill.

Conoscenze per Schön e Wenger sono anche i valori e ciò che nel tempo si viene a

stratificare come l’immagine di sé.

Chiaramente il concetto di competenza soprarichiamato non può essere assorbito nella

sola componente cognitiva: esso comprende anche caratteristiche – parimenti legate alle

prestazioni da nessi di causalità – che attengono a dimensioni psicodinamiche della

114 Per un approfondimento sul punto si veda Capperucci D., La valutazione delle competenze in età adulta. Il contributo dell’experiential learning e dell’approccio riflessivo, cit., pp. 193 e segg.

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personalità o a tratti costitutivi del singolo individuo. Nondimeno, credo che anche qui la

conoscenza giochi un suo ruolo nel delineare tali caratteristiche. Del resto, anche le

motivazioni più profonde hanno una loro base cognitiva: come potremmo infatti

desiderare ciò che non conosciamo? E persino molti dei tratti individuati da Spencer e

Spencer hanno a che fare con la conoscenza, dato che operano generalmente sulla base di

schemi cognitivi appresi115.

La conoscenza non rappresenta, quindi, solo una parte – e una parte tutto sommato

minore – della competenza, essa ne costituisce – come sostiene Davide Capperucci – un

aspetto fondamentale:

«la nozione di competenza, pertanto, non può sussistere autonomamente senza

collegarsi a quella di conoscenza. Non vi sono competenze senza conoscenze»116.

Da tutto ciò si può dedurre che anche le competenze, come le conoscenze, non siano

qualcosa di preesistente all’azione ma che si debbano – almeno in gran parte – costruire

facendo, attraverso l’indagine riflessiva e la negoziazione di significato che avviene

all’interno e tra le comunità di pratica.

Parleremo più avanti di un particolare tipo di competenza, la competenza etica. Credo

però opportuno evidenziare come nel concetto stesso di competenza vi sia una

dimensione etica.

Enrico Berti ci ricorda, infatti, come la ricerca dell’eccellenza – costitutiva del concetto

stesso di competenza – corrisponda all’ideale aristotelico di uomo virtuoso117. La virtù

corrisponde alla realizzazione piena delle proprie potenzialità. Il citaredo è virtuoso

quando raggiunge l’eccellenza nel suonare la propria cetra. Nella virtù, cioè nel

perfezionamento delle proprie competenze, l’uomo persegue il fine etico della propria

felicità, che consiste appunto nel realizzare compiutamente se stesso, le proprie

potenzialità, il proprio ideale professionale, la propria umanità.

115 Si pensi, ad esempio, a tratti come l’autocontrollo o lo spirito d’iniziativa e all’influenza che su questi hanno conoscenze personali, esperienze pregresse, valori interiorizzati, ecc.

116 Capperucci D., La valutazione delle competenze in età adulta. Il contributo dell’experiential learning e dell’approccio riflessivo, cit., pp. 201.

117 Berti E. , Alle radici del concetto di capacità: la Dunamis di Aristotele , in Xodo C., Benetton M. (a cura di), Che cos’è la competenza? Costrutti epistemologici, pedagogici e deontologici, Lecce, Pensa Multimedia, 2010, pp. 31-44.

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3La dimensione etica

Itaca devi avere sempre in mente.Giungervi è la tua meta.Ma non affrettare mai il viaggio.Meglio se dura tanti annie vecchio ormai ormeggi nell’isola, ricco di quanto hai guadagnato strada facendo,senza aspettarti che Itaca ti dia ricchezze.Itaca ti ha dato il bel viaggio.Senza di lei non saresti partito.Nient’altro ha da offrirti.

Costantino Kavafis

3.1 Etica e filosofia morale

Delineare il campo d’indagine dell’etica risulta impresa tutt’altro che agevole, dal

momento che esso comprende innanzitutto quello sterminato dominio di conoscenze

generato dal pensiero filosofico in oltre duemila anni di storia118. La filosofia morale

rappresenta un sapere complesso e problematico, assolutamente impossibile da

compendiare all’interno di un capitolo. Oltretutto, occuparsi di etica significa travalicare i

confini della filosofia morale, poiché il concetto di etica ingloba e nello stesso tempo

supera la riflessione filosofica, andando ad interessare anche altri campi del sapere, come

la psicologia, la sociologia e, non ultima, la pedagogia, ma soprattutto perché designa –

come bene fa osservare Aldo Masullo – la stessa esperienza vitale della praxis.

«L’etica […] è la forma stessa, necessaria, della vita umana. Si può vivere da

uomini, senza che si debba essere artisti o scienziati o mercanti o guerrieri o politici

o religiosi, ma non lo si può senza essere “morali”, senza cioè trovarsi sempre ad

agire al cospetto di norme e obblighi e incontrandosi o scontrandosi con altri.

118 Conformemente alla maggior parte della letteratura, utilizzo i termini “etica” e “morale” come sinonimi. Anche l’etimologia delle due parole – la prima dal greco ethos e la seconda dal latino mos, moris – sembrerebbe suggerire tale assunto, riferendosi in entrambi i casi al concetto di comportamento, costume, modo di agire degli uomini. Segnalo comunque che per alcuni autori non c’è perfetta identità semantica fra i due vocaboli: la morale si situerebbe più al livello soggettivo delle scelte e delle azioni individuali, mentre l’etica designerebbe il punto di vista sovra-individuale, oggettivo.

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L’etica è la vita stessa nella sua immediata umanità. Come tale essa è il fatto della

“prassi” (in greco vuol dire “azione” e anche il risultato dell’azione, il “fatto”), cioè

l’intervento volontario a modifica della realtà data»119.

Secondo quanto sostiene Aristotele nell’Etica Nicomachea, la morale ha a che fare con la

saggezza, ossia con quella “disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che

dirige l’agire, concernente cose che per l’uomo sono buone e cattive” 120. Essa, quindi, è

l’oggetto delle speculazioni del filosofo ma anche delle deliberazioni quotidiane di ogni

altro uomo, anche dell’uomo comune; essa è patrimonio – per usare l’esemplificazione

aristotelica – tanto di Socrate, quanto di Pericle.

Non esiste necessariamente continuità né sempre c’è coerenza tra l’etica delle

speculazioni filosofiche e quella agita concretamente nella vita di tutti i giorni. Stanno,

per così dire, su due piani distinti e spesso separati. Di questa separazione si trova un

esempio storico, tratto dalla biografia di Marco Aurelio. L’imperatore romano si

comportò sempre da governante giusto e sollecito, nonostante aderisse al più ortodosso

stoicismo, una dottrina che aveva in spregio le cose del mondo e considerava l’ingiustizia

e i soprusi del potere un’opportunità per accrescere la virtù morale nei sudditi121.

Innumerevoli sono i casi che si potrebbero riportare di tal genere di incoerenza. Il piano

del pensiero morale e quello dell’azione molto spesso non sono congruenti. La ricerca

empirica che intendo condurre riguarderà in particolare la morale agita e quindi si porrà

in prima istanza un obiettivo di tipo descrittivo. Mi propongo però anche di andare al di là

della mera descrizione, cercando di indagare le riflessioni che i soggetti della ricerca

elaborano all’interno della propria azione sul piano dei valori, dei principi, degli ideali;

sul piano del dover essere: quella dimensione interpretativa e prescrittiva che è il portato

fondamentale della filosofia morale. Per tale ragione credo indispensabile confrontarmi

con tale sapere, senza pretese di esaustività, ma con il proposito di individuare, all’interno

della storia del pensiero morale, uno “strumentario concettuale” che possa tornare utile

per la mia analisi.

Nei primi due paragrafi, quindi, tenterò di tracciare non già una mappa dettagliata, ma

quantomeno delle coordinate, per orientarmi in tale territorio sconfinato, introducendo e

problematizzando anche alcune tematiche particolarmente vive del dibattito filosofico

attuale e tratteggiando un quadro generale delle teorie morali in filosofia.119 Masullo A., Filosofia morale, Roma, Editori Riuniti, 2005, pp. 11-12.120 Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, Rizzoli, 1993, VI, 5, vol. 2, p. 597.121 Cfr. Russell B. Un’etica per la politica, in Magno M., Etica Politica Economia nel Novecento, Roma,

Ediesse, 2006.

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Nel terzo paragrafo, invece, mi addentrerò nel sentiero (per continuare la metafora

topografica) battuto da John Dewey. Si tratta del pensiero pragmatista122, recentemente

ripreso da filosofi come Richard Rorty e Hilary Putnam, che ritengo interessante

approfondire, in quanto corrispondente alle “scelte di campo” paradigmatiche ed

epistemologiche argomentate nel primo capitolo, nonché in linea rispetto ai modelli di

apprendimento descritti nel secondo capitolo.

Passerò poi a gettare lo sguardo oltre il campo della filosofia morale, nel terreno della

psicologia morale e delle neuroscienze.

L’ultimo paragrafo verrà dedicato al tema dell’etica delle professioni e allo sviluppo del

concetto di competenza etica.

Inizio allora da una definizione del concetto di etica, tra le molte disponibili, che ho

mutuata da Carla Xodo e che sintetizza ed integra il pensiero di tre grandi filosofi morali:

Kant, Moore e Frankena.

«La morale è conoscenza (Frankena) che attiene al retto uso della nostra libertà

(Kant), tale non solo quando è guidato dalla ragione (Kant), ma anche è direzionato

al bene (Moore)»123.

Dire che l’etica è conoscenza non significa chiaramente ritenere – come sosteneva

Socrate – che basta “conoscere” ciò che è morale per volerlo124. Non basta poi volerlo per

agire in modo retto: si può conoscere e volere il bene e nondimeno fare il male. È un

tema, questo, che è stato affrontato in modo magistrale da Sant’Agostino nelle sue

Confessioni125.

La conoscenza morale, come ogni conoscenza, apre semplicemente possibilità ed essa

pertanto si deve combinare con la nostra libera volontà, che però è spesso divisa in se

stessa (voglio-e-non-voglio).

122 Il “pragmatismo” (dal greco “pragma”, che significa azione) vede nell’uomo un essere agente impegnato a migliorare l’ambiente all’interno del quale egli agisce. In tal senso tutto ciò che trova in questo suo agire non ha “valore di verità”, ma “valore di utilità”, in funzione dell’azione stessa. Cfr. Brezinka W. (1992), Morale ed educazione, cit., p. 48.123 Xodo C. (a cura di), Educazione morale, Brescia, La Scuola, 2001, p. 42.124 Tale posizione socratica, come riportata da Platone nei dialoghi giovanili (in Alcibiade primo e

soprattutto nel Menone) viene definita “intellettualismo etico”. 125 Agostino, Confessioni 8.10. Si vedano, a tal proposito, le bellissime pagine di commento di Arendt H.,

(2003), Some questions of moral philosophy, trad. it. Alcune questioni di filosofia morale, Torino, Einaudi, 2006, pp. 82-86.

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Certamente la conoscenza non esaurisce tutta quanta la dimensione etica, la quale è fatta

anche di componenti psico-affettive, legate alla personalità del soggetto e alle sue

motivazioni interne. L’etica è quindi conoscenza, ma non è solo conoscenza126.

Definire l’etica come (anche) conoscenza dischiude una serie di altre questioni.

Innanzitutto l’utilizzo del termine “conoscenza”, anziché quello di “sapere”, sembrerebbe

suggerire una prospettiva che coglie l’etica nel suo stare all’interno della persona127. Fuori

dall’individuo esistono i saperi morali, le teorie, le usanze, i codici deontologici, i codici

etici, ma l’etica è qualcosa di diverso, è conoscenza personale, è esperienza di pensiero

personale.

Che l’etica non stia nell’ossequio di saperi e norme esterne, ma risieda altrove, è

dimostrato secondo Russell dalla capacità che le persone hanno di sottoporre a giudizio

critico gli stessi codici morali a cui esse aderiscono.

«Noi tutti, in pratica, sosteniamo che un codice morale può essere preferibile

ad un altro. […]. Una volta ammesso questo, ne deriva che nell’etica c’è

qualcosa di superiore ai codici morali e che essi vanno giudicati per mezzo

di questo qualche cosa. L’etica, pertanto, non può essere racchiusa

nell’unico precetto: «fa ciò che la tua comunità approva ed evita ciò che

disapprova»128.

L’etica non sta, quindi, nel codice morale, ma all’interno di quella coscienza129 che sa

anche prendere le distanze da quello stesso codice morale, che ne sa trascendere la datità

storica.

Xodo distingue la vera tensione etica, intimamente radicata nell’essere umano, dal

“moralismo di facciata”, che è in fondo il risultato di un’educazione morale inautentica.

«Non c’è vera scienza, soprattutto in ambito morale, se non ci si sforza di andare

oltre la convenzionalità ed inevitabile storicità delle regole, per attingere a quella

126 A questo riguardo Michele Pellerey evidenzia come vi sia una crescente attenzione a queste componenti del sé morale che trascendono la conoscenza o la capacità di compiere giudizi morali e deliberare, e che interessano invece gli aspetti volitivi. Cfr. Pellerey M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, Roma, Cnos-Fap, 2007, p. 75.

127 In merito alla distinzione tra sapere e conoscenza, si veda in particolare Lichtner M., Esperienze vissute e costruzione del sapere, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 16-20.

128 Russell B. Un’etica per la politica, in Magno M., Etica Politica Economia nel Novecento, cit., p. 252.129 Il termine coscienza derivato dal latino cum scire, “conoscere con” rimanda a qualcosa che non si

confonde con la conoscenza, ma le sta accanto, l’accompagna.

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più profonda verità che sta all’interno di noi e che, paradossalmente, proprio nella

sua singolarità certifica l’universalità dei nostri principi morali»130.

La morale, in quanto conoscenza, è qualcosa che si apprende. Ma non per semplice

trasmissione. Straordinariamente nitido rispetto alla logica argomentativa e carico di

implicazioni pedagogiche risulta essere, su questo punto, il Menone131. Nel dialogo

platonico, Socrate arriva a convenire con il proprio interlocutore che l’etica si acquisisce

dall’esterno ma è anche una componente innata della nostra natura. Entrambe le ipotesi di

partenza sono vere: un’aporia, quindi, che non chiede di optare per una verità a scapito

dell’altra, ma che apre ad una mai paga ricerca del bene. Qui ritroviamo la polemica di

Platone contro i Sofisti, i “professionisti del sapere”, i quali concepiscono l’educazione –

in questo come negli altri campi – in termini di trasmissione di tecniche e di nozioni.

L’educazione morale secondo la lezione socratico-platonica è cosa ben diversa, è un

processo di scoperta che parte dal “Conosci te stesso”.

Il discorso sull’etica come conoscenza trascina con sé, inevitabilmente, anche la

questione dell’oggettività di tale conoscenza. Si tratta di una delle problematiche più

dibattute in metaetica132, rispetto alla quale una posizione di predominio è stata

tradizionalmente occupata dal realismo metafisico. Chi si riconosce in questa prospettiva,

concepisce i valori e i principi morali come qualcosa che esiste prima ed

indipendentemente dai soggetti che li pensano. I giudizi morali possono pertanto essere

sottoposti ad una valutazione di vero-falsità ed un’etica universale può trovare il suo

fondamento nell’adesione all’unica verità. La rinuncia a tale realismo non implica però

necessariamente, secondo John Rawls133, la resa al nichilismo o al relativismo etico.

Riprendendo, in chiave costruttivista, il pensiero di Kant, Rawls ritiene che l’oggettività

dell’etica risieda nella possibilità di un accordo sulla base di procedure di ragionamento

affidabili. Ricorre qui il concetto di ragione, citato nella definizione di etica sopra

riportata, che viene posto da Kant a fondamento del pensiero etico134.

130 Xodo C., L'occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, Brescia, La Scuola, 2001, p. 28.131 Platone, Menone, Torino, Einaudi, 2009.132 Per metaetica si intende la riflessione sul linguaggio, sul metodo e sui fondamenti della morale. Mentre

l’etica normativa definisce ciò che è bene e ciò che è male, la metaetica disquisisce sul significato della parola “bene” e “male”. Si veda il paragrafo 3.2.

133 Cfr. Rawls J., Palminiello P., Herman B. (2000), Lectures on the history of moral philosophy, trad. it. Lezioni di storia della filosofia morale, Milano, Feltrinelli, 2004.

134 Secondo il filosofo tedesco, la ragione pratica dispone di procedure attendibili attraverso cui può accertare la moralità delle singole azioni e quindi giustificare la conoscenza morale. Cfr. Kant I. (1785), Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, trad. it. Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1997, p. 49.

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L’oggettività della morale non ha quindi basi ontologiche ma logiche. La conoscenza

morale, al pari di qualsiasi altra conoscenza, non è per Rawls una rappresentazione

isomorfa del reale, bensì qualcosa che viene costruito all’interno di ciascun soggetto. Al

pari delle altre conoscenze essa tuttavia può essere sottoposta a verifica, può essere

validata attraverso l’uso della ragione.

«Affermare l’oggettività della conoscenza scientifica equivale a dire che le

proposizioni espresse nel suo ambito possono essere provate come vere da un

metodo ragionevole e affidabile, cioè dalle regole e procedure di quella che

potremmo chiamare “logica induttiva”. E analogamente, per stabilire l’oggettività

delle regole morali e delle decisioni basate su di esse, dobbiamo esibire una

procedura decisionale che possa considerarsi, almeno in alcuni casi, ragionevole e

affidabile, per decidere tra regole morali e linee di condotta che da queste

dipendono»135.

L’oggettività della conoscenza morale può quindi conciliarsi con posizioni diverse

rispetto al realismo metafisico, così come all’interno di una prospettiva costruttivista può

trovare giustificazione il principio dell’universalità dei valori.

Quello dell’universalità dei valori è, a mio avviso, uno dei punti di maggiore attualità nel

dibattito etico. Tradizionalmente il pensiero filosofico attribuiva alla norma morale una

valenza astorica ed una cogenza erga omnes, mentre sempre più frequentemente la

filosofia contemporanea contesta tale assunto. L’obiezione fa leva sulla necessità di

rispetto delle differenze culturali, che dovrebbero esser poste tutte sullo stesso piano.

Queste differenze non sono state certamente mitigate dal processo di globalizzazione

della società contemporanea, che semmai sembrerebbe aver innescato meccanismi di

radicalizzazione e di scontro. Di fronte a tali diversità culturali, però, la risposta fornita

dal relativismo etico, secondo Enricomaria Corbi136, può al più alimentare l’indifferenza

verso chi è diverso, ma certamente non fa crescere lo spirito di comprensione e di

tolleranza. Per Corbi, è possibile invece pensare e perseguire un’etica universale,

superando le differenze contingenti.

«I valori, tuttavia, per quanto legati attualmente alla concretezza delle situazioni

storico-culturali, rivelano una loro vocazione universalistica. Sembrano insofferenti

135 Rawls J., Uno schema di procedura decisionale per l’etica, cit., p. 2.136 Corbi E., La verità negata. Riflessioni pedagogiche sul relativismo etico, Milano, Franco Angeli, 2005,

p. 18.

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dei limiti imposti da una rigida interpretazione contestualista e tendono a

manifestare processi di disseminazione su scala globale»137.

Molto spesso, se si va a ben vedere, le differenze che si ritrovano nei diversi contesti

culturali stanno semplicemente nelle modalità attraverso le quali quello stesso valore

viene espresso e vissuto. Pensiamo, ad esempio, al valore della democrazia, che secondo

Amartya Sen non è patrimonio solo dell’Occidente, dato che può essere rintracciato, in

forme diverse, anche in altre culture e civiltà138. Esso rappresenta un valore universale

non in quanto dato di partenza ma proprio perché è un punto a cui l’umanità deve tendere.

Riprendo qui brevemente i concetti di libertà e di bene contenuti nella definizione di etica

sopra riportata. Bene e libertà rappresentano, secondo Santino Cavaciuti139, dimensioni

fondamentali della filosofia morale, strettamente legate fra di loro, che attengono

all’essere.

«Il bene e, con il bene, la felicità, è principio e fine del tutto, in quanto si identifica

con la libertà, intesa come creatività, cioè creatività in atto, oltre la sua originaria

“possibilità” o “potenzialità”»140.

Certamente non si dà questione morale senza la libertà. Il problema etico si pone quando

l’agente morale è libero di scegliere e quindi ha la necessità di soppesare le proprie

opzioni, scegliendo responsabilmente. La libertà è quindi la conditio sine qua non

dell’agire etico. Nella riflessione filosofica così come nel senso comune c’è pressoché

unanime convergenza nel ritenere che la responsabilità morale si commisuri al requisito

della libera determinazione.

Analoga convergenza si ritrova sull’importanza del concetto di bene rispetto a qualsiasi

riflessione etica. Esso è però un concetto estremamente problematico, come ci dice

Antonio Da Re, perché si presta ad una certa ambiguità semantica. Il termine “bene”

infatti ha assunto frequentemente nel pensiero filosofico antico e medievale valenze

ontologiche, di bene assoluto, di sommo bene, mentre nel pensiero moderno è venuto ad

assumere prevalentemente l’accezione di bene particolare. Avere una visione

particolaristica del bene, cioè porsi la domanda “Bene, per chi?”, non significa comunque

cadere di necessità nel relativismo etico:

137 Ivi, p. 12.138 Sen A., La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Milano,

Arnoldo Mondatori, 2004139 Cfr. Cavaciuti S. (2005), Il bene e la libertà, in Botturi F. (a cura di), Le ragioni dell'etica, Milano, Vita

e Pensiero, 2005, pp. 3-28.140 Ivi, p. 27.

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«sul piano filosofico sostenere la tesi della particolarità del bene non significa

necessariamente abbracciare una concezione relativistica, in base alla quale il bene

sarebbe qualcosa di esclusivamente relativo al soggetto al quale si riferisce, e

quindi come tale non confrontabile con il bene che si riferisce a un altro

soggetto»141.

La problematicità del termine bene risiede anche nel fatto che esso ha assunto di volta in

volta, nella storia del pensiero morale, forme e specificazioni diverse: la virtù, la felicità,

la “vita buona”, l’utilità, la giustizia...

Non ho modo, è chiaro, di analizzare tutte queste declinazioni del concetto di bene. Mi

soffermerò brevemente sul rapporto tra bene e giustizia, che è un tema centrale rispetto

alle riflessioni del già citato Rawls142. Egli ritiene, infatti, che la struttura delle teorie

etiche si possano comprendere in base al modo in cui si definiscono e si mettono in

relazione tali elementi. Le teorie di tipo teleologico, infatti, contrariamente a quanto

fanno le teorie deontologiche, definiscono il bene indipendentemente dal giusto. Per i

filosofi che si riconoscono in un’impostazione di tipo teleologico (Aristotele, in primis),

esiste il bene e sulla base di questo bene viene definito il giusto, inteso come ciò che

massimizza il bene. Nell’approccio deontologico (Kant, per intenderci), si parte da ciò

che è moralmente giusto (il dovere, l’imperativo categorico) per giungere al bene.

Riprenderò questo concetto nel paragrafo seguente, in cui mi addentrerò nella

presentazione delle teorie morali.

Credo utile ora fare un seppur breve accenno alle concezioni filosofiche di Hannah

Arendt, per la quale la morale è pensiero. La postura etica richiede, infatti, di pensare

innanzitutto se stessi, la propria storia, ciò che si è e ciò che si fa. Il pensiero e la

memoria dei nostri pensieri e delle nostre azioni sono delle funzioni fondamentali per

l’agire etico: senza essi, infatti, non potremmo avere coscienza del male e del bene.

«I peggiori malfattori sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non

hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli dal fare ciò

che fanno. […] Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza

radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti. Proprio per

141 Da Re A., Filosofia morale, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 59.142 Rawls J. (1971), A theory of Justice, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2008, pp.

37-42.

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questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo

intero»143.

Pensare e ricordare sono i modi attraverso i quali gli uomini riescono a mettere radici nel

mondo, in un mondo in cui essi fanno la loro comparsa come “stranieri”144.

È proprio il pensiero, secondo Arendt, la facoltà precipua dell’uomo morale. Il pensiero è

lo stato in cui la mente è attiva, costruisce i propri significati.

Conoscere e pensare si trovano su piani differenti. Richiamando le categorie kantiane, la

conoscenza attiene all’intelletto, mentre il pensiero attiene alla ragione. L’una ricerca la

verità, l’altro il significato. La fallacia delle fallacie, per Arendt, consiste nel confondere i

due piani, finendo per interpretare il significato secondo il modello della verità145.

La conoscenza va alla ricerca della verità, per quanto non si tratti mai, neppure nelle

“scienze esatte”, di una verità assoluta e permanente, ma sempre relativa e provvisoria. Il

pensiero, specie quello che trova spazio nei quesiti etici, così come in quelli esistenziali,

ricerca il significato e con ciò si sottrae ad ogni tentativo di verificabilità. Il senso della

vita, il senso della mia vita per me, il mio sentirmi “designato ad essere”, non possiede

alcuna validità, dato che non può essere soggetto a vero-falsificazione, ma è

estremamente carico di significato146.

Al traguardo di questo arduo ma vitale cammino che è il pensare morale, raramente

troviamo un rifugio sicuro. La morale, come ci avverte Bauman è “inguaribilmente

aporetica”, raramente ti regala solide certezze, e quando lo fo è generalmente in problemi

di poco conto. Per le grandi questioni, il dubbio è la norma.

«L’io morale si muove, sente e agisce nel contesto dell’ambivalenza ed è lacerato

dall’incertezza. Perciò, una situazione morale priva di ambiguità esiste unicamente

come utopia. […]. Nonostante tutti gli sforzi in senso contrario, l’incertezza è

destinata ad accompagnare per sempre la condizione dell’io morale»147.

Questa condizione di costante incertezza in cui è gettato l’io morale è certamente fonte di

notevole frustrazione, ma rappresenta anche, secondo Bauman, un guadagno per la

morale.

143 Arendt H., Alcune questioni di filosofia morale, cit., pp. 54-55. Rispetto a tale concetto si veda anche Arendt H. (1963), Eichman in Jerusalem, trad. it. La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2010.

144 Arendt H., (2003), Some questions of moral philosophy, trad. it. Alcune questioni di filosofia morale, Torino, Einaudi, 2006, p. 61.

145 Arendt H. (1978), The life of the mind, trad. it. La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 97.146 Ivi, 1978, p. 145.147 Bauman Z. (1993), Postmodern ethics, trad. it. Le sfide dell’etica, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 18-19.

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«Non il genere di guadagno che desidereremmo, forse, e che abbiamo cercato, ma il

maggior guadagno che si possa ragionevolmente sperare di ottenere restando

persone morali»148.

3.2 Le teorie morali

Una teoria, secondo l’accezione etimologica (dal greco theoròs, cioè “colui che dà uno

sguardo”), rappresenta una prospettiva da cui si inquadra una determinata realtà; uno

sguardo, appunto, che abbraccia le varie dimensioni di cui essa si compone.

Una teoria morale, come precisa Mordacci, si articola in tre dimensioni149.

Innanzitutto una dimensione metaetica, che è la dimensione dei fondamenti della morale,

della sua natura, del suo significato, del suo modo di procedere e, soprattutto, del suo

linguaggio.

C’è poi una dimensione normativa, fondamentale per un sapere che non si vuole limitare

ad essere descrittivo del reale, ma si assume una responsabilità di tipo prescrittivo. È la

dimensione che indaga ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è

male, ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare.

Vi è infine una dimensione di tipo “applicativo” della teoria morale, detta casistica, che si

cala nella riflessione sui casi controversi e sulle situazioni critiche, come ad esempio le

questioni di bioetica.

«Una teoria morale è costituita dalla riflessione critica sulla moralità, in termini sia

di analisi del linguaggio morale, sia di ricerca di criteri normativi generali per

orientare l’azione, sia di riflessione normativa su problemi particolari»150.

Si tratta, come precisa l’Autore, di dimensioni distinte ma non indipendenti, essendovi fra

di loro una stretta connessione. In particolare se si può condurre una riflessione metaetica

senza spingersi a formulare tesi normative151, queste ultime non si possono concepire

senza avere, almeno a livello implicito, un riferimento di tipo metaetico. E neppure,

chiaramente, si può argomentare un discorso sulla casistica senza avere definito un

assetto normativo e, conseguentemente, un quadro di riferimento metaetico.148 Ibidem.149 Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, Milano, Feltrinelli, 2003,

p. 19.150 Ibidem.151 Viene osservato dallo stesso Mordacci (ivi, p. 21) come anzi gran parte della ricerca in filosofia morale

svolta nella prima metà del Novecento si fosse incentrata prevalentemente sulla dimensione metaetica lasciando pochissimo spazio all’analisi della dimensione normativa.

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Certamente lo studio del linguaggio morale occupa un posto rilevante all’interno della

metaetica, specialmente quella che fa capo alla filosofia analitica; ma non è l’unico

ambito di interesse che essa esprime. Monique Canto-Sperber e Ruwen Ogien152

evidenziano come la metaetica trascenda la mera analisi linguistica, impegnandosi in

questioni concettuali più complesse, che si propongono di dare risposta a quesiti del tipo:

• È possibile ricavare dei giudizi di valore a partire da giudizi di fatto?

• Come si possono giudicare i nostri giudizi morali?

• Qual è il significato di “bene”?

• I nostri enunciati morali possono essere veri o falsi?

• I nostri giudizi contengono necessariamente una motivazione all’azione?

• Le proprietà di valore morale esistono solo nella nostra mente?

Il dibattito filosofico contemporaneo nel campo della metaetica si articola in un quadro

piuttosto complesso, al cui interno possiamo comunque riconoscere con Mordacci le

seguenti polarità concettuali153:

• Cognitivismo Vs. Emotivismo. Si riferisce alla natura del linguaggio morale. Nel

primo gli asserti morali come buono, giusto, bene, hanno un contenuto cognitivo,

soggetto quindi ad analisi di vero-falsità, il quale può derivare da proprietà

naturali delle cose (naturalismo) o da principi primi (intuizionismo). Nel secondo

invece essi esprimono emozioni e sentimenti.

• Realismo Vs. Antirealismo. Si riferisce all’ontologia dei valori. Nel primo

versante i valori sono dotati di una realtà loro propria (come ad esempio l’idea

platonica del bene), mentre nel secondo versante si trovano concezioni come

quella costruttivista, che nega tale realtà esterna ai soggetti stessi.

• Fondazionalismo Vs. Coerentismo. Riguarda il piano epistemologico. Nel primo

caso il discorso morale si fonda a partire da uno o più principi autoevidenti,

mentre nel secondo la giustificazione dei giudizi morali dipende dalla loro

coerenza interna.

• Universalismo Vs. Particolarismo. Si riferisce alla validità degli asserti morali. Il

primo assegna all’agente razionale la capacità di riconosce la validità universale

152 Canto-Sperber M., Ogien R. (2004), La philosophie morale, trad. it. La filosofia morale, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 57.

153 Si veda, per un approfondimento, Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., pp. 22-29.

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dei criteri normativi dell’agire morale, mentre per il secondo tali criteri sono legati

a caratteristiche individuali e correlati al contesto.

• Sentimentalismo Vs. Razionalismo. Fa riferimento all’origine della normatività,

attribuita nel primo caso al sentimento morale (Hume) e nel secondo caso alla

ragione (Kant).

• Internalismo Vs. esternalismo. Attiene alla motivazione morale. Nel primo caso i

giudizi morali sono di per sé idonei a spingere il soggetto all’azione, mentre nel

secondo caso c’è necessità di un movente esterno (pulsione, sentimento,

persuasione, ecc.).

• Sostanzialismo Vs. Funzionalismo. Riguarda lo statuto antropologico. Nel primo

la persona è tale per le caratteristiche sostanziali della sua essenza, mentre nel

secondo essa si identifica con l’esercizio effettivo delle funzioni che le sono

proprie.

Se la metaetica è il presupposto necessario ad ogni riflessione sul bene e sulla vita buona,

l’etica normativa rappresenta il nucleo centrale di una teoria morale, tanto che quando si

parla di teorie morali spesso si fa riferimento in realtà alle tesi normative in senso stretto.

Mordacci definisce la teoria normativa come “un insieme strutturato di proposizioni

definito dai requisiti della giustificabilità, della coerenza e della normatività” 154.

A differenza dei resoconti sugli usi e sulle credenze morali, a differenza dei discorsi

mitologici e delle narrazioni, la teoria morale, per essere realmente teorizzazione, deve

cioè essere in grado di garantire la giustificabilità dei propri asserti.

Un tratto distintivo di una teoria morale è quindi la ricerca di una giustificazione rispetto

ai giudizi che esprime, a prescindere dal tipo di fondamento su cui essa viene poggiata

(sull’evidenza empirica piuttosto che su verità rivelate). La giustificabilità è un requisito

fondamentale per ogni teoria, tanto in ambito filosofico, quanto in ambito scientifico.

Il secondo requisito, anch’esso necessario alle teorie filosofiche come alle teorie

scientifiche, riguarda la coerenza, cioè il rapporto di non contraddizione che deve

sussistere al loro interno. In una teoria, cioè, i principi generali non devono essere in

contraddizione tra loro; da tali principi devono derivarsi correttamente delle conclusioni

particolari, le quali devono essere anch’esse coerenti fra di loro.

Coerenza e giustificazione non sono disgiungibili e concorrono a far sì che una teoria sia

una teoria e non qualcos’altro:

154 Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., p. 30.

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«la sola coerenza non distinguerebbe una teoria da una narrazione, che potrebbe

presentare una piena compatibilità reciproca delle proprie proposizioni; ma

soprattutto in assenza della giustificabilità, un insieme di asserti semplicemente

coerenti fra di loro potrebbe generare un sistema falso, o più precisamente, in

termini popperiani, non falsificabile. In etica, ciò significa che una teoria morale

non mira soltanto a formulare giudizi coerenti con i propri principi, ma sostiene che

tali principi siano, in un modo o nell’altro, giustificati e che perciò lo siano anche i

giudizi particolari correttamente derivati da essi»155.

L’intreccio fra questi due criteri di coerenza e giustificabilità rappresenta un nodo

fondamentale per comprendere le diverse teorie morali. Essi sono infatti alla base di

quella polarità epistemologica tra Fondazionismo Vs. Coerentismo di cui facevo cenno

sopra. Il Coerentismo, in particolare, rifiuta ogni forma di giustificazione esterna da un

fondamento ultimo, trovando la propria giustificazione nella stessa coerenza interna, da

perseguire attraverso quello che Rawls chiama “equilibrio riflessivo” 156.

Ciò che secondo Mordacci caratterizza le teorie morali, differenziandole da quelle

scientifico-teoretiche, è la normatività, il loro carattere normativo, ossia il fatto di voler

rappresentare una norma per l’azione. Questo terzo requisito è presente anche nelle teorie

giuridiche (che si differenziano però da quelle morali per la diversa sanzione prevista in

caso di infrazione delle norme) e nelle teorie politiche (che però si riferiscono a gruppi

sociali piuttosto che ai singoli individui).

«Una teoria etica intende anzitutto fornire una guida per individui che

agiscono da soli o all’interno di una comunità o società complesse. La teoria

morale dovrebbe fornire loro ragioni in grado di giustificare e orientare le

scelte, anche in vista della realizzazione di un ideale di vita (o almeno in

modo non incompatibile con esso)»157.

Il requisito della normatività è saldamente connesso agli altri due: per soggiacere

all’imperativo pratico che reca in sé, una teoria morale dev’essere sufficientemente

giustificata (deve cioè rendere conto del fondamento su cui basa la propria forza

prescrittiva) e sufficientemente coerente (e quindi credibile).

155 Ivi, p. 31.156 Rawls J., Una teoria della giustizia, cit, p. 57.157 Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., p. 31.

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«Una teoria morale in senso stretto (cioè come teoria normativa) è un

discorso costituito di asserti normativi giustificabili e coerenti. Un discorso

che non presenti queste caratteristiche non è ovviamente falso o insensato,

ma non costituisce una teoria morale»158.

Come ho anticipato nel paragrafo precedente, si suole distinguere in filosofia morale due

modelli teorici portanti: l’etica teleologica e l’etica deontologica. Va comunque precisato

che non esiste piena convergenza nella classificazione tassonomica delle diverse teorie

morali159.

Le teorie etiche che si richiamano al modello teleologico sono caratterizzate da una forte

tensione finalistica: l’etimo greco, télos, significa, infatti, fine, scopo. Questo fine può

avere diverse facce: la felicità, che per Aristotele corrisponde alla “vita buona”

(eudaimonìa) o, per gli utilitaristi, al raggiungimento della massima utilità complessiva.

In tale modello, come ricorda Da Re, la qualità morale di un’azione dipende dalla bontà

delle conseguenze che ne scaturiscono. Per questo è chiamato anche modello

consequenzialista160.

«Secondo l’impostazione teleologica, un’azione deve essere giudicata in base alle

conseguenze che essa può produrre e sarà moralmente giusta quando il bene che

può risultare da quel determinato modo di agire supererà il male»161.

Il modello deontologico (dal greco tà deònta, che significa dovere, ciò che va fatto), trova

la sua paradigmatica espressione nella filosofia kantiana e fa dipendere la qualità morale

di un’azione dalla sua corrispondenza con il dovere, fondato sulla ragione universale. È

sulla ragione che si fonda per Kant la legge morale che è inscritta nell’uomo e ne

determina la mirabile grandezza:

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e

crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo 158 Ivi, p. 32.159 Ad esempio Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., individua

tre grandi tipologie di etica normativa:· Teorie aretaiche (dal greco areté, che significa virtù), che si fonda sulla prospettiva del carattere del

soggetto agente, l’uomo saggio teorizzato da Aristotele nell’Etica Nicomachea. · Teorie deontologiche, la cui prospettiva sono le azioni e le intenzioni dell’agente.· Teorie consequenzialiste, in cui il focus non sono le intenzioni dell’agente ma le conseguenze

dell’azione.160 Cfr. Da Re A., L’etica tra felicità e dovere, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1986, pp.15-43. In realtà

altri autori distinguono le teorie teleologiche da quelle consequenzialiste, concependole come modelli distinti. Si veda a tale proposito Mordacci (cfr. nota precedente) o anche Xodo C. (2001), L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, cit.

161 Da Re A., L’etica tra felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, cit., pp. 29-30.

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sellato sopra di me e la legge morale in me. Il primo spettacolo di una quantità

innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale. […]

Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come valore di una

intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una

vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile»162.

Vi è una sostanziale convergenza nel riconoscere l’esistenza di questi due modelli

contrapposti, che assumono però differenti denominazioni. Max Weber parla di etica

della responsabilità e etica della convinzione163; Franz von Kutschera definisce il primo

Etica dei valori e il secondo Etica del dovere164; Giovanni Fornero parla di etica dei fini

ed etica dei moventi165; altri autori parlano di etica del desiderio ed etica della regola166.

Fondamentale punto di distinzione fra i due approcci è rappresentato, come fa notare

Rawls167, dal rapporto fra il concetto di “giusto” e quello di “bene”. Nell’etica teleologica

il bene è definito prima e indipendentemente dal giusto, il quale viene ad essere

qualificato come ciò che massimizza il bene. Nell’etica deontologica, il giusto viene

definito a priori, prescindendo dalla conseguenze, e non deriva da altro che il dovere per

il dovere. Si può parlare, a tal proposito, di “primato del giusto sul bene” 168.

Entrambi i modelli presentano luci ed ombre. Da Re avverte come l’adesione acritica ad

un modello di tipo teleologico porti all’assoluta indeterminatezza morale: far dipendere,

infatti, il giudizio su “cosa devo fare” dalle conseguenze future (prossime e remote)

dell’azione, che sono al lato pratico sempre gettate nell’incertezza del particolare e del

contingente, apre al rischio di far prevalere, nel dubbio, la scelta più “conveniente”

rispetto agli interessi egoistici del singolo o del gruppo sociale di riferimento169.

Il modello deontologico è certamente più rigoroso nella definizione di ciò che è giusto

fare, che – come si diceva – viene determinato a priori a prescindere dalle conseguenze

(fiat justitia, pereat mundus). Ma tale rigore può a volte portare a scelte aberranti. Celebre 162 Kant I. (1788), Kritik der praktischen Vernunft, trad.it. Critica alla ragione pratica, Bari, Laterza,

1977, pp. 197-198, come citato da Arendt H., Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 23.163 Weber C.M., Il Lavoro intellettuale come professione, 1917, così citato da Da Re A., L’etica tra

felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, cit., p. 32.164 Kutschera F. (1982), Grundlagen der Ethik, trad. it. Fondamenti dell’etica, Milano, Franco Angeli,

1991.165 Fornero G. (1998) voce “Etica” in Abbagnano N., Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1998. Tale

riferimento viene richiamato anche da Loro D., Formazione ed etica delle professioni. Il formatore e la sua esperienza morale, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 177-180.

166 Vigna G. (1990) La verità del desiderio come fondazione della norma morale, in Berti E., Angelici G., Zecchinato P. et al., Problemi di etica: fondazione, norme, orientamenti, Padova, Gregoriana, 1990, e Xodo C., L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, cit.

167 Rawls J., Una teoria della giustizia, cit., pp. 37 e 42.168 Kutschera F., Fondamenti dell’etica, cit., p. 75.169 Da Re A., L’etica tra felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, cit., p. 31.

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è a tal proposito la posizione di condanna espressa da Kant senza se e senza ma nei

confronti della menzogna, anche se in gioco ci fosse una vita umana170.

Teleologismo e Deontologismo sono quindi, come ci suggerisce Da Re, visioni parziali

che vanno necessariamente integrate fra di loro.

«Considerate in se stesse, le teorie argomentative puramente deontologiche e

puramente teleologiche appaiono essere delle idealizzazioni, difficilmente

sostenibili a livello teorico, pena il rischio di sfociare in esiti contraddittori e

assurdi, così come avviene in Kant e in Moore, e non applicabili isolatamente sul

piano pratico, a meno di non scadere nel fanatismo e nel cinismo»171.

La distinzione tra etiche deontologiche e etiche teleologiche richiama per certi versi

quella tra etica della giustizia e etica della cura, introdotta dagli studi di genere agli inizi

degli anni ’80, anche se va chiarito che non esiste piena sovrapposizione tra le due.

Il concetto di etica della cura Vs. etica della giustizia nasce dalle osservazioni introdotte

dalla psicologa americana Carol Gilligan, la quale evidenziava come gli studi sullo

sviluppo morale svolti da Lawrence Kohlberg fossero viziati da un pregiudizio di

genere172. I risultati delle ricerche di Kohlberg, infatti, mettevano in luce una superiorità

di livello di giudizio morale dei maschi rispetto alle femmine. Ciò però sarebbe legato,

secondo la Gilligan, al modo stesso in cui è stata strutturata la teoria stadiale di sviluppo

morale di Kohlberg, che si fonda appunto su un’etica “maschile”. Esisterebbero infatti

due modi di approcciarsi ai temi etici e in particolare ai giudizi morali: una “voice of

justice”, fortemente connaturata al modo di pensare maschile, ed una “voice of care”,

espressione più affine all’eticità femminile.

Gilligan precisa comunque che la “voce della cura” non è biologicamente programmata

né è esclusivamente presente nelle donne.

A partire da tale considerazione, è stata sviluppata all’interno del dibattito filosofico,

come ci ricorda Mortari, una riflessione sull’esistenza di due distinte etiche: l’etica della

giustizia e l’etica della cura.

170 Ivi, p. 33. L’Autore sottolinea come per Kant la menzogna è infatti la peggiore ingiustizia che possa esser fatta all’umanità. La veridicità costituisce un dovere formale a cui l’uomo non può venire meno, qualunque sia il danno che da ciò possa derivarne a sé o agli altri.

171 Ivi, p. 36.172 Gilligan C. (1982), In a different voice, trad. it Con voce di donna, Milano, Feltrinelli, 1987. A Gilligan

rinvia anche Mortari L., La pratica dell'aver cura, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 153-173. Su Kohlberg si veda più avanti (paragrafo 3.4).

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«La prima è delineata come un pensare astratto, tendente a formulare principi dal

valore universale, che hanno come riferimento il concetto di un essere umano

autonomo, indipendente dagli altri e massimamente impegnato a difendere i suoi

diritti; la seconda si presenta come un’etica attenta alle situazioni particolari, mossa

dall’intenzione di promuovere il benessere della singola persona senza preoccuparsi

di formulare giudizi imparziali»173.

Non si tratta però di posizioni antinomiche, che si escludono vicendevolmente, ma in un

certo senso, per mutuare l’espressione guardinana, di “opposizioni polari”174, le quali

possono (devono) coesistere ed anzi si richiamano e si sostengono vicendevolmente.

Proprio perché diverse nei presupposti e nei valori che implicano (da una parte

l’imparzialità di giudizio, l’uguaglianza di fronte alla norma, l’aderenza a regole generali

e astratte, ecc. e dall’altra parte l’attenzione all’altro, alla sua unicità singolare, ai suoi

propri bisogni, alla sua storia personale, ecc.), si evidenzia la necessità di un loro

compendio e di una loro dinamica integrazione.

Se la pratica dell’aver cura, secondo Mortari175, sembrerebbe richiamarsi alla tensione

finalistica del perseguire una “vita buona”, promovendo il benessere dell’altro, questa

visione teleologica non contrasta con il senso della giustizia, che secondo Aristotele è

appunto la virtù di tenere in massimo conto il bene dell’altro.

Prendersi cura dell’altro significa perseguire la propria felicità attraverso la realizzazione

della felicità altrui (o l’alleviamento delle altrui sofferenze) e questo fa in qualche modo

decadere la critica che Kant rivolgeva alle teorie della felicità,

Non si tratta pertanto di scegliere astrattamente un’etica della cura al posto di un’etica

della giustizia, ma di contemperare e far coesistere nell’agire concreto, nella pratica,

l’ossequio alla norma generale assieme all’attenzione per la situazione personale, l’amore

per la giustizia con il sentimento della compassione e della misericordia.

Quest’ultimo passaggio ci porta ad aprire una riflessione sul rapporto tra teoria e pratica,

fondamentale in ogni disciplina, ma direi ancor più importante per l’etica in quanto

aristotelicamente scienza della praxis, scienza della pratica.

Teoria e pratica assumono spesso nel linguaggio comune un significato contrapposto,

dove il teorico finisce per essere inteso come astratto e distante dal reale. Esiste quindi in

qualche misura un pregiudizio antiteorico che trova spazio anche nella stessa riflessione

etica. Mordacci presenta, a tal proposito, una serie di posizioni che definisce 173 Mortari L., La pratica dell’aver cura, cit., p. 157.174 Guardini R., L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, cit.175 Mortari L., La pratica dell’aver cura, cit., pp. 175-177.

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“antiteoriche”, per il fatto che rifiutano, appunto, teorizzazioni sistematiche in ambito

morale. Secondo i filosofi “antiteorici” come Bernard Williams e Annette Baier176, la

filosofia può fornire contributi critici per comprendere la vita etica, ma non deve proporre

teorie normative. Le critiche mosse alle teorie morali riguardano in particolare la loro

pretesa normatività e il fatto di riferirsi a principi generali, cosa che non si concilia con la

natura dell’azione morale, che è sempre calata in una situazione concreta e particolare.

Per Mordacci la critica al requisito normativo dell’etica è destituita di fondamento, in

quando la normatività è alla base stessa del giudizio morale ed è pertanto irrinunciabile, a

meno che non si voglia cadere nello scetticismo più assoluto.

«Mostrare che un certo governo, pur dichiarandosi democratico, tiranneggia i suoi

cittadini equivale a criticarlo solo e solo se abbiamo già stabilito che la tirannia è

ingiusta. Se invece lo smascheramento significa solo dire che quel governo è

diverso da ciò che dice di essere, al limite l’accusa è semplicemente quella di

mentire (ma bisognerebbe poi dire perché mentire è sbagliato)»177.

Egli tuttavia conviene sulla fondatezza di alcune critiche degli antiteorici in merito ad

un’impostazione “astrattamente teorica”, nella quale vi è un eccessivo formalismo e

spersonalizzazione; come pure concorda che molte teorie morali cadono nell’errore di

confondere il piano della giustificazione ultima dei giudizi etici con quello dell’effettivo

esercizio della scelta, che va calibrato sul contesto e sull’unicità del soggetto178.

Il nesso tra teoria e pratica in etica, come peraltro in pedagogia, è fondamentale. Nel

paragrafo 3.1 si è definita l’etica come una “conoscenza” particolare, cioè come un sapere

incarnato, ma si è anche detto che l’etica è qualcosa di più. Più precisamente, come ci

insegna Dewey potremmo dire che l’etica è una conoscenza nel suo costruirsi, è il

pensiero che accompagna l’azione, è la riflessione che nasce e cresce nel confronto con

l’esperienza, cioè in quel terreno dove teoria e pratica si incontrano.

Ho ritenuto opportuno rivolgere le riflessioni del prossimo paragrafo proprio a questo

autore, in quanto rappresenta un riferimento imprescindibile per le teorie

dell’apprendimento situazionale che ho richiamato nel secondo capitolo, come del resto

costituisce un rimando fondamentale rispetto alla stessa riflessione metodologica sul

procedere scientifico.

176 Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., p. 35.177 Ivi, p. 45; i corsivi nel testo.178 Ivi, p. 43.

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Le pagine che Dewey dedica all’etica, che conservano intatto tutto il loro straordinario

fascino, collocano l’esperienza morale perfettamente all’interno di questa visione unitaria

dell’uomo e dei suoi processi di apprendimento.

3.3 La fondazione dell’etica nel pensiero di John Dewey

La concezione dell’etica nel pensiero di Dewey è fortemente collegata alla sua

prospettiva antropologica, che vede l’uomo e la sua condotta come prodotti dell’unione

tra natura e cultura.

Nella visione deweyana, natura e cultura sono due forze costitutive dell’uomo che si

contendono il campo della pratica umana, combinandosi fra di loro in forme e modi

storicamente dati. Una natura e una cultura mai uguali a se stesse, in quanto in continua

evoluzione.

Si tratta di una concezione che ha ovviamente conosciuto interpretazioni esplicitamente

favorevoli o più o meno critiche, ma che si ritiene utile presentare, perché da essa si

possono trarre elementi comunque utili ai fini del nostro lavoro.

Nella prefazione alla seconda edizione di Natura e condotta dell’uomo179, egli fa presente

come in tutto il corso della storia del pensiero morale vi sia stato e continui ad esservi una

persistente contrapposizione fra quanti enfatizzano il predominio di una natura umana

originaria e quanti invece puntano tutto sull’ambiente sociale.

In particolare, secondo Dewey, è la dimensione naturale che nel corso della storia del

pensiero morale ha avuto la peggio. La moralità è stata spesso intesa, infatti, non come

espressione (anche) della natura umana, ma come strumento di controllo, di contrasto, di

coartazione degli istinti naturali. Questo atteggiamento si correla ad una concezione

negativa della natura umana, assunta come fragile, instabile, corrotta, incline al male e

alla depravazione. È da qui che sorge la necessità del controllo, il quale, però, non ha

fatto altro che confermare ricorsivamente il pregiudizio antinaturale.

«Si è supposto che la moralità sarebbe stata affatto superflua se la natura umana

non fosse stata per sua essenza così debole e proclive a depravarsi. […] La moralità

ha in gran parte il compito di controllare la natura umana. Quando tentiamo di

controllare qualche cosa siamo particolarmente sensibili alle resistenze che

incontriamo. Forse è così che i moralisti sono stati condotti a stimare cattiva la

179 Dewey J. (1922), Human Nature and Conduct. An Introduction to Social Psychology , trad. it. Natura e condotta dell'uomo, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 8.

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natura umana, a causa della sua riluttanza a sottomettersi al controllo, del suo

ribellarsi al giogo»180.

Questa visione negativa della natura umana sarebbe all’origine dello sviamento che ha

conosciuto il pensiero morale occidentale, nel postulare l’idea di un uomo in guerra con

se stesso. Dewey parla a tal proposito di “suicidio” dell’etica quando essa, per esaltare il

valore dei propri principi, finisce per degradare la natura umana181.

Analogo sviamento si è prodotto, però, anche allorquando la filosofia s’è inoltrata nella

celebrazione della bontà incorrotta dello stato di natura. Il problema per Dewey non è,

infatti, idealizzare o demonizzare la natura umana, ma l’intenderla come qualcosa di

separato dalla morale. È sbagliato cioè per Dewey pensare alla morale come a qualcosa di

esterno, di estraneo, di superiore all’uomo; è sbagliato collocarla in una dimensione

sovrannaturale. Essa deve essere intesa come parte integrante della natura umana,

assieme alle altre sue componenti. Il rischio, altrimenti, è quello di creare due mondi:

quello ideale, dei bei principi e dei bei sentimenti, e quello reale dell’umanità decaduta,

con le sue brame e le sue meschinità. Due mondi che, ovviamente, risultano inconciliabili

e condannano l’uomo ad un’insanabile frattura:

«Così, in un modo o nell’altro, gli uomini finiscono per vivere in due mondi, l’uno

reale, l’altro ideale; alcuni sono tormentati dal senso della loro inconciliabilità, altri

oscillano fra l’uno e l’altro, compensandosi dei sacrifici e delle rinunce, che sono

impliciti nell’appartenere al mondo ideale, con piacevoli escursioni nelle delizie del

mondo reale»182.

La divisione tra natura e morale implica, tra l’altro, anche la scissione dell’azione morale

dal suo contesto situazionale, da ciò che si incontra nel qui ed ora.

Dewey, in sostanza, critica una morale prodotta altrove e semplicemente fatta calare, in

modo più o meno aderente, sulle situazioni concrete183. Egli propugna la fondazione di

una scienza della natura umana che, com’è stato per la scienza fisica, possa affrancare

l’uomo da visioni irrazionali, che di fatto precludono la via verso la soluzione dei

problemi reali nel quotidiano. Una scienza, quindi, e non una speculazione astratta su

mondi ideali; scienza che guardi alla concreta esperienza umana e che abbia dirette e

180 Ivi, p. 9.181 Ivi, p. 10.182 Ivi, p. 14.183 Ivi, p. 15.

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produttive applicazioni alla vita reale. Che si “sporchi le mani”, che assuma su di sé la

responsabilità del confronto con i problemi che affiggono l’umanità.

«È impossibile dire quanto della non necessaria schiavitù esistente nel mondo sia

dovuto alla concezione che le questioni morali possan essere risolte nel puro ambito

della coscienza del sentimento umano, lungi da ogni concreto studio dei fatti e

senza applicarne la conoscenza specifica nel campo industriale, giuridico e

politico»184.

Dewey propugna una scienza morale fondata sullo studio dell’esperienza, che dialoghi

con le altre scienze umane, ma anche con le scienze naturali, abbattendo gli steccati

artificiosamente posti all’interno del campo della conoscenza. Una scienza morale

fondata sui fatti e guidata dalla conoscenza che superi finalmente la pretesa di vivere in

due mondi separati.

Una scienza morale che non voglia per forza avere ricette preconfezionate e valide per

tutti e in tutte le situazioni, al pari della scienza medica, che non può fondare la sua

pratica di cura costruendo un quadro clinico generale, ma deve calarsi nella realtà

concreta del singolo paziente.

Una scienza morale che non insegua pretese di esattezza, alle quali neanche le cosiddette

“scienze esatte” ormai credono più, per accettarsi nella sua incertezza.

«Non […] vorrebbe rendere la vita morale una faccenda semplice come il

passeggiare lungo un viale ben illuminato. Ogni azione è un’irruzione nel futuro,

nell’ignoto: conflitto e incertezza ne sono i caratteri ultimi»185.

Una scienza che si riconosca anche nella sua fallibilità, ma che veda appunto nell’errore

una via per il proprio progresso. Essa infatti non deve darci la rassicurante illusione di

riuscire a risolvere automaticamente i problemi etici, ma dovrebbe semplicemente

metterci nelle condizioni di agire per la ricerca, nella situazione esperienziale, della

soluzione. Questo, facendo tesoro dell’esperienza passata, fonte importantissima di

apprendimento, anche e soprattutto quando si lega all’idea di fallimento.

È poi fondamentale per Dewey che in tale approccio scientifico all’etica non venga mai

disconosciuto l’intimo legame che unisce la morale alla natura umana e entrambe al

contesto socio-culturale.

184 Ivi, p. 17.185 Ivi, pp. 17-18.

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«Soltanto un intelligente riconoscimento della continuità esistente fra natura umana,

uomo e società assicurerà lo sviluppo di una morale che sia seria senza essere

fanatica, nutrita di aspirazioni senza sentimentalismi, adatta alla realtà senza esser

convenzionale, sensata senza però riprendere la forma di un calcolo dei vantaggi,

idealistica ma non romantica»186.

Dewey postula una scienza morale che non si dica mai arrivata, che sia in continua

ricerca, puntando a traguardi che si rinnovano continuamente. Del resto, per essere vera

scienza, la morale non può pretendere di avere la verità in tasca, di aver già visto tutto, di

sapere già tutto. La scienza per definizione è in divenire, com’è in divenire l’oggetto che

essa studia.

«La morale, se vuole essere davvero una scienza, deve essere una scienza in

continuo sviluppo, non semplicemente perché la verità non è tutta quanta

conquistata dalla mente umana, ma perché la vita è una realtà in movimento e nella

quale la vecchia verità morale cessa di trovare applicazione»187.

Come ogni altra scienza, la morale deve trovare il proprio oggetto non in qualcosa di

astratto e indefinito, ma in ciò che di più concreto attiene alla vita dell’uomo: la sua

esperienza. Il concetto di esperienza è il portato fondamentale della riflessione deweyana,

attraverso il quale il filosofo americano si propone di superare in un colpo solo

quell’antinomia che per secoli ha impegnato il pensiero filosofico: la contrapposizione tra

realismo e idealismo. Per Dewey l’esperienza è un tutt’uno tra soggetto e oggetto, tra

mente e natura. Come un Giano bifronte, l’esperienza avrebbe quindi una “doppia

faccia”188. Un unicum che ha da un lato il mondo naturale, con i suoi eventi, e dall’altro

l’uomo, con i suoi vissuti interiori.

«Così il valore della nozione di esperienza per la riflessione filosofica è che essa

denota insieme il campo, il sole, le nuvole e la pioggia, i semi, il raccolto, e l’uomo

che lavora, che pianta, inventa, soffre e gioisce. L’esperienza denota ciò che è

esperimentato, il mondo degli eventi e delle persone; e denota il mondo compreso

nello sperimentare, la carriera e il destino del genere umano»189.

186 Ivi, p. 18.187 Ivi, p. 254.188 Espressione che l’autore riconosce mutuata da William James, cfr Dewey J. (1925), Experience and

Nature, trad. it. Esperienza e natura, Milano, Mursia, 1973, p. 5.189 Dewey J., Esperienza e natura, cit., p. 14.

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L’esperienza non è conoscenza: essa può divenire conoscibile allorquando venga

sottoposta ad un processo riflessivo che la porti ad un livello di consapevolezza190.

Dewey richiama l’importanza di “prendere” l’esperienza tutta intera, senza riduzionismi

che pretendano di analizzare solo ciò che è computabile, né idealizzazioni che guardino

solo agli aspetti più “nobili” del reale. Ciò di cui si fa esperienza è qualcosa di

estremamente composito, al cui interno c’è anche l’incertezza, la precarietà, il non

razionale. L’esperienza – tutta intera – è ciò che costituisce l’oggetto della conoscenza e

ad essa spetta la prima e l’ultima parola all’interno del processo del conoscere.

Cambiando il punto di osservazione, potremmo dire che la conoscenza per Dewey, come

spiega bene Vincenzo Milanesi, è “un ponte dall’esperienza all’esperienza”191.

A garanzia del suo rigore scientifico, Dewey ritiene che questa nuova scienza umana

debba adottare il medesimo metodo da lui proposto per le cosiddette “scienze esatte”, il

già citato metodo dell’indagine (inquiry). Procedere cioè, attraverso una serie di passaggi

strettamente collegati all’esperienza concreta, da una situazione confusa e indeterminata

ad una determinatamente unificata.

«L’indagine è la trasformazione controllata o diretta di una situazione indeterminata

in altra che sia determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in

modo da convertire gli elementi della situazione originale in una totalità

unificata»192.

È importante a mio avviso sottolineare la centralità del metodo nell’approccio deweyano

all’esperienza umana e alla costruzione della conoscenza, tanto nel campo delle scienze

fisiche quanto in quello delle scienze umane. Ma il metodo non è qualcosa che riguarda

solamente gli scienziati; esso riguarda (o dovrebbe riguardare) anche il normale

procedere dell’uomo nel suo fare esperienza del mondo, perché ogni persona si imbatte in

situazioni problematiche che richiedono l’attivazione di un processo riflessivo. Nel

campo dell’etica più che in altri settori. Chiaramente non è che tutto venga sempre

analizzato attraverso l’inquiry. Generalmente le persone procedono tramite quelle che

Dewey193 definisce “abitudini”, che sono trasmesse fin dalla più tenera età attraverso

l’educazione (intesa in senso ampio). L’abitudine consiste in una predisposizione

190 Esiste invero, per Dewey, anche la possibilità di un accesso diretto e non mediato all’esperienza, che è l’esperienza artistica.

191 Milanesi V., Logica della valutazione ed etica naturalistica in Dewey, Padova, Liviana, 1977, p. 142.192 Dewey J. (1938), Logic: The Theory of Inquiry, trad. it. Logica, teoria dell'indagine, Torino, Einaudi,

1949, p. 157, corsivo nel testo.193 Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., pp. 48-49.

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acquisita ad un determinata modalità di risposta rispetto a determinati stimoli. Una

predilezioni o un’avversione costanti, che orientano la volontà del soggetto.

L’uomo procede per abitudine non perché semplicemente ripete azioni, ma perché ha

acquisito una disposizione, un orientamento ad agire in determinati modi. Ha, per usare

una tipica espressione informatica, un set prestabilito di “opzioni di default”.

Anche ciò che viene comunemente definito “virtù”, altro non è che un’abitudine, una

disposizione, che viene giudicata “morale” per antonomasia, ma che sostanzialmente non

si distingue dalle altre disposizioni, se non per il fatto di essere in qualche modo

“centrale” e in quanto da essa discendono altri atteggiamenti valutati positivamente194.

L’agire dell’uomo è sottoposto generalmente a questa sorta di “pilota automatico” che

sono le abitudini. Tutto procede liscio fino a che non ci si imbatte in una situazione

problematica, che come abbiamo visto è il “momento zero” dell’inquiry. Da qui parte il

percorso di conoscenza empirica, che si conclude nella fase in cui l’abitudine verrà

modificata e di conseguenza la situazione problematica verrà ricomposta.

Conoscere per Dewey è conoscere-in-siutazione, pertanto valori e disvalori, bene e male,

giusto e sbagliato possono essere distinti soltanto attraverso la logica dell’indagine.

Secondo Dewey, questo procedere empirico del pensiero etico comporta la rinuncia

all’invocazione di principi universali e immutabili. Le situazioni cambiano

continuamente ed ogni volta si deve testare la validità di quei principi e quei valori su cui

– provvisoriamente – poggia la scienza morale.

«I valori sono così instabili come le forme delle nuvole. Le cose che li posseggono

sono esposte a tutti i casi dell’esistenza e sono indifferenti alle nostre preferenze ed

ai nostri gusti»195.

Ciò non significa disconoscere l’utilità di principi e valori. Essi sono infatti il risultato di

una sorta di selezione darwiniana delle abitudini che, nel corso della storia dell’umanità,

sono invalse come buone pratiche, come azioni opportune ed efficaci nell’affrontare un

determinato genere di situazione. Abitudini valide fino a prova contraria.

I principi sono degli strumenti che, per essere utili, vanno continuamente validati, affinati

e, nel caso, sostituiti. Questo loro carattere sperimentale non implica necessariamente che

essi siano completamente soggetti ad una assoluta indeterminatezza e fluidità.

194 Dewey J., Democrazia e educazione, cit., p. 456.195 Dewey J., Esperienza e natura, cit., p. 151.

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«I principi esistono come ipotesi con cui fare degli esperimenti. […] Trascurarli

con leggerezza è il colmo della stoltezza. Ma la situazione sociale si muta; ed è

altresì stolto il non osservare come i vecchi principi agiscono attualmente in

condizioni nuove, ed il non modificarli in modo da renderli strumenti più efficaci

nel giudicare i nuovi casi»196.

Dire che i principi sono strumenti significa porli non come realtà astratte, ma come fattori

immanenti rispetto alle situazioni concrete. Come strumenti, essi non sono qualcosa di

separato dall’esperienza ma di intimamente ad essa associato.

I principi sono dentro all’azione così come dentro all’azione – e non al di fuori di essa –

si trovano i fini.

Tutta la contrapposizione che ritroviamo nella filosofia morale tra mezzi e fini è per

Dewey un modo sbagliato di vedere le cose. Mezzi e fini, infatti, non possono essere

valutati se non in stretto rapporto fra di loro (mai il fine giustifica i mezzi). Non solo, ma

i fini per Dewey devono essere intesi tipicamente come fini intenzionali o – come egli

dice anche – “fini-in-vista”, che svolgono la funzione di fattore organizzativo per

l’attività umana e quindi rappresentano essi stessi un mezzo per orientare le nostre azioni.

Quando cioè non si agisce sulla base di un’abitudine o di un riflesso condizionato, ma ci

si trova a dover deliberare riflessivamente su una determinata azione da intraprendere, ciò

che ci motiva e ci guida è l’individuazione di un obiettivo concreto da perseguire. Questo

– il fine – rappresenta un mezzo che porterà ad innescare un processo, il cui epilogo – la

fine – potrà essere più o meno coincidente con quanto proposto197.

«La finalità intenzionale dell’uomo che si vede un’automobile venirgli addosso è

raggiungere un posto al sicuro, non la salvezza stessa. Quest’ultima (o il suo

contrario) è fine in senso di conclusione. […] Se il fine esistenziale nel senso di

risultato o conclusione fosse un termine in una proposizione, lo si tratterebbe come

qualcosa di già compiuto. Soltanto se il fine compare come un mezzo per dirigere

l’azione con cui si giunge all’effettiva conclusione, esso si salva dal vanificarsi da

solo»198.

Dewey richiama l’importanza di considerare il fine nella sua accezione di fine

intenzionale – e quindi fine intermedio rispetto ad una serie di altri fini ulteriori –

196 Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., p. 254.197 In lingua inglese esiste una polisemia del termine “end” che traduce sia il concetto di finalità (il fine) che quello di termine (la fine). Per tale ragione Dewey preferisce parlare di “fine intenzionale” o “fine-in-vista” (end-in-view) nel primo caso e di “compimento” (fulfillment).198 Dewey J., Logica, teoria dell’indagine, cit., p. 233.

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piuttosto che come conclusione. Il fine intenzionale è qualcosa su cui “s’inciampa

casualmente” durante l’azione e vengono assunte per dare un significato e una direzione.

Può sembrare un paradosso, ma per Dewey l’azione esiste prima dell’obiettivo: l’azione

di tirare con l’arco sta prima dell’individuazione di un bersaglio da colpire.

«I fini sono conseguenze previste che sorgono nel corso dell’attività e che sono

impiegate a dare all’attività un significato aggiuntivo e a dirigere l’ulteriore corso di

essa. Essi non sono in nessun caso fini dell’azione»199.

In principio c’è l’azione. Gli uomini sparano e scagliano e questo rappresenta un fatto che

acquisisce in corso d’opera un suo proprio significato, proprio nel momento in cui se ne

osserva il risultato. Da allora gli uomini nel lanciare e nello sparare iniziano a pensare in

termini di risultato; agiscono intelligentemente, ossia si pongono un fine. L’avere un fine

o scopo è il mezzo con cui l’azione assume un significato, cessando quindi di

rappresentare un mero esercizio meccanico.

«Gli uomini non tirano perché esiste un bersaglio, ma mettono dei bersagli affinché

il loro tiro e il loro lancio possano essere più efficaci e significativi»200.

Posta così, la cosa può sembrare – come dicevo – effettivamente paradossale, dato che

nella nostra comune esperienza l’azione segue l’obiettivo. Ma se usciamo dagli schemi

consolidati, allora la cosa assume un suo senso. Pensiamo ad esempio alle prime

esperienze di scoperta del mondo, a come i primi suoni del bambino vengono riempiti di

significato dagli adulti e quindi “vanno a segno”, trasformandosi in linguaggio.

Dewey sostiene quindi il primato dell’azione: l’attività rappresenta l’unico vero valore

per l’uomo. L’uomo è un essere attivo per sua natura e non perché c’è qualcosa o

qualcuno che lo spinga ad agire. I fini semmai intervengono dopo, fornendo motivazione,

costruendo significati, determinando risultati.

Il procedere dell’azione attraverso l’individuazione di fini intenzionali assomiglia, come

suggerisce lo stesso Dewey con una delle sue suggestive metafore, al cabotaggio delle

navi.

«Un marinaio non naviga verso le stelle, ma osservando le stelle è aiutato nel

condurre la sua presente attività del navigare. Il suo obiettivo è uno scalo o un

porto, ma lo è solo nel senso che deve raggiungerlo, non che debba prenderne

199 Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., pp. 239-240.200 Ibidem.

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possesso. Il porto sta nel suo pensiero come un punto significativo nel quale la sua

attività avrà bisogno di avere un’altra direzione, quando il porto sarà raggiunto non

cesserà l’attività ma soltanto la presente direzione dell’attività. Il porto è con

altrettanta verità l’inizio di un altro modo di attività quanto esso è la conclusione di

quella presente»201.

È un procedere, questo, in cui il percorso è più importante della meta, la quale dev’essere

considerata come punto d’arrivo ma anche come punto di partenza per altri viaggi.

«Se è meglio viaggiare che arrivare, ciò avviene perché il viaggiare è un costante

arrivare, mentre l’arrivo, che preclude viaggi ulteriori, si ottiene nel modo più

semplice andando a dormire o morendo»202.

Esistono per Dewey anche dei fini-in-sé, come i valori etici della bontà e della verità o

quello estetico della bellezza, ma si tratta di ipostasi, cioè concetti astratti che vengono

estrapolati dai fini-in-vista, una volta che se ne è constatata empiricamente la validità.

Questi fini-in-sé sono proiezioni in forma più ampia e piena di quanto è già stato esperito.

Essi svolgono una loro funzione euristica nella misura in cui non vengono assunti come

altro che astrazioni di esiti empirici, rimanendo essi stessi esposti alla finitudine e alla

mutevolezza.

«Le concezioni astratte e generalizzate di verità, bellezza e bontà hanno un valore

genuino per l’indagine, la creazione e la condotta. Esse posseggono, come tutti i

veri ideali, una forza capace di correggere ed indirizzare. Ma perché possano

esercitare la loro genuina funzione debbono venir considerate come rammentatrici

delle condizioni ed operazioni concrete che occorre soddisfare nei casi reali»203.

E quindi verità, bontà e bellezza per Dewey non possono essere intesi come assoluti

ontologici, ma come entità storicamente date204.

Nel pensiero morale tradizionale il fine-in-sé finisce spesso per diventare qualcosa di

distante, di irreale. Diviene un sogno, ma un sogno che – a differenza di quanto avviene

in altri ambiti scientifici – non apre la via ad un processo costruttivo. Un vagheggiamento

sterile, chiuso in se stesso.

201 Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., p. 301.202 Ibidem.203 Dewey J., Logica, teoria dell’indagine, cit., p. 248.204 A questo riguardo Dewey fa osservare quanto l’introduzione dei metodi di indagine sperimentali abbia

contribuito a mutare il concetto di verità sia (cfr. Dewey J., Logica, teoria dell’indagine, cit., p. 248)

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«Senza dubbio molti uomini hanno sognato la possibilità di godere della luce

nell’oscurità senza la noia dell’olio, delle lampade e dello sfregamento. Le lucciole,

il lampo, le scintille dei conduttori elettrici interrotti suggerirono una tale

possibilità. Ma la visione rimase un sogno fino a che Edison non studiò tutto ciò

che si poteva scoprire su tali casuali fenomeni luminosi, e non si mise quindi al

lavoro per scoprire e raccogliere insieme i mezzi di riprodurre l’azione di quelli. Ma

tutto ciò che passa per fine morale e per ideale ha la gran disgrazia di non andare

oltre il piano del vagheggiamento fantastico di qualcosa di piacevole e desiderabile

fondato su di un desiderio emozionale; molto spesso, poi, non si tratta neppure di

un desiderio originale, ma del desiderio di qualche capo, che è stato reso

convenzionale e trasmesso attraverso gli organi dell’autorità»205.

Riprendendo la metafora deweyana del marinaio, si potrebbe quindi concludere che

perseguire i fini-in-sé è come “navigare verso le stelle”, mentre essi dovrebbero semmai

aiutarci a trovare la strada per raggiungere i porti, che sono in realtà solo degli scali, dei

fini-in-vista.

Dall’azione emergono i fini intenzionali e il senso dell’azione stessa. Ed è proprio in

questo emergere che si rinviene la dimensione morale dell’agire umano, il divenire

umano dell’essere umano, il suo più alto compimento.

«Morale vuol dire arricchimento della condotta nel suo significato; per lo meno

significa quel genere di ampliamento di significato che è conseguenza

dell’osservare le condizioni e l’esito della condotta. Essa è un tutt’uno con il

crescere […]. La morale, nel senso più vasto della parola, è educazione. Vuol dire

imparare dal significato di ciò che si sta facendo e impiegare tale significato

nell’azione. […] E la tragedia delle nozioni morali sulle quali maggiormente insiste

chi è preoccupato moralmente, è di relegare l’unico bene che può pienamente

impegnare il pensiero, vale a dire il significato presente dell’azione, al rango di

aspetto subordinato di un bene remoto, sia che il bene futuro venga definito come

piacere, o come perfezione, o salvazione, o raggiungimento di un carattere

virtuoso»206.

Se la dimensione morale è qualcosa che attiene all’agire e al dare senso all’azione, essa

allora riguarda tutti gli uomini, il probo come il malfattore.

205 Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., p. 249.206 Ivi, pp. 299-300.

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«In un senso vitale, che non è quello convenzionale, tutti gli uomini pensano

secondo una direttiva e un interesse morale, l’uomo così detto immorale

come l’uomo perbene; giacché l’uomo giusto e il peccatore sono

caratterizzati da inclinazioni verso specie differenti di cose o di beni»207.

Semmai vi possa essere un imperativo categorico, questo dovrebbe essere per Dewey

quello di accrescere il senso dell’esperienza umana nel “qui ed ora”. Un imperativo, come

egli si affretta a precisare, che però ha senso solo nella misura in cui non viene assunto

come un principio astratto ma rimane come una bussola per orientarci nella situazione

presente.

«Se la storia mostra un progresso, esso non lo si può trovare se non in questo

complicarsi ed estendersi del significato trovato dentro l’esperienza. È chiaro che

un tale progresso non porta alcuna stasi, non immunizza dalla perplessità e dai

fastidi. Se volessimo trasformare questa generalizzazione in un imperativo

categorico, dovremmo dire: “Agisci in modo da accrescere il significato

dell’esperienza presente”. Ma anche in tal caso, per ottenere un insegnamento circa

la qualità concreta di un simile accrescimento di significato, dovremmo piantare in

asso tale legge e studiare i bisogni e le possibilità alternative relative ad una

situazione singolare e localizzata. L’imperativo, come ogni altra cosa assoluta, è

sterile. Finché gli uomini non lasceranno andare la ricerca di una formula generale

di progresso non sapranno dove guardare per trovarlo»208.

La morale, per Dewey, è conoscenza situazionale. Essa non può disquisire sul bene e sul

male, ma deve limitare il proprio discorso a ciò che sia meglio o sia peggio nella specifica

situazione. Il giudizio morale non può essere qualcosa di astratto ma dev’essere

concretamente contestualizzato, il valore emerge dal fatto ed il bene è, alla fin fine, ciò

che “funziona” in quello specifico caso.

«Osservando che la morale è a casa propria dovunque siano implicate

considerazioni circa il meglio e il peggio, siamo obbligati a notare che la moralità è

un processo continuo, non un risultato fisso»209.

207 Dewey J., Esperienza e natura, cit., p. 16.208 Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., pp. 301-302.209 Ivi, p. 299.

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Come si diceva, nella concezione deweyana si possono individuare punti di forza, come

evidenzia autorevolmente Aldo Visalberghi210, ma forse anche qualche punto di

debolezza. Mi limito qui alla critica espressa da Gino Corallo già a fine anni Cinquanta:

«Per il Dewey non esiste un “bene generale” e cioè assoluto, come norma o misura

di tutti i “beni particolari” ma esiste solo il “bene della situazione”, interno e

particolare ad ogni situazione, e mutevole quindi di volta in volta; non esistono fini

assoluti da raggiungere, segnati agli uomini come termini propri del loro sviluppo e

della loro vita, ma i fini sono solo circoscritti, anch’essi, come “fini-in-vista”, nello

stretto ciclo che si compie dal sorgere di un problema alla sua soluzione; la vita non

sa indicare alcuno scopo di se stessa»211.

Il rischio è quello di un’etica solo basata sul contingente che deriva da una concezione

che si può definire di relativismo ontologico.

3.4 Psicologia morale e neuroetica

Importanti apporti alla conoscenza dell’esperienza morale ci vengono dagli studi condotti

nell’ambito della psicologia fin dalle sue origini. Pensiamo ad esempio alle teorie di

Sigmund Freud sulla moralità e su come questa si ponga, nel contrasto tra il “principio di

piacere” e il “principio di realtà”, alla genesi stessa della civiltà212.

Per ragioni di spazio e di opportunità, mi limiterò qui a sintetizzare i principali contributi

conferiti in questo campo dalla ricerca sperimentale, ponendo attenzione soprattutto ad

alcune tematiche di particolare interesse.

In primo luogo, notevole rilevanza rivestono, a mio avviso, le ricerche che concorrono a

definire e circoscrivere l’ambito della norma morale, studiando i rapporti intercorrenti tra

la moralità e gli altri sistemi di normazione sociale. Nel processo di socializzazione,

dunque, l’individuo si trova ad acquisire, fin dalla sua prima infanzia, una serie di

prescrizioni: non si devono picchiare i compagni, non si devono dire le bugie, ma anche

non si devono mettere le dita nel naso, non si deve fare baccano, si deve stare seduti

composti a tavola, ci si deve vestire in un certo modo, ecc. Non tutte queste regole,

evidentemente, corrispondono a norme morali: gran parte di esse rappresentano piuttosto

delle semplici convenzioni sociali.

210 Visalberghi A., John Dewey, Firenze, La Nuova Italia, 1951.211 Corallo G., La pedagogia di John Dewey, Brescia, La Scuola, 1957, p. 172.212 Freud S. (1930), Das ubehagen in der kultur, trad. it. Il disagio della cività, Torino Boringheri, 1971.

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Gli studi empirici, come ci dice Larry Nucci213, hanno dimostrato che la distinzione tra

queste due tipologie di norma (quella morale e quella convenzionale) è presente in età

straordinariamente precoce (2 anni e mezzo).

Dai diversi esperimenti condotti è emerso che le questioni morali si caratterizzano per la

loro generalizzabilità a contesti sociali e culturali differenti e la loro stabilità temporale,

mentre le convenzioni sono fondamentalmente legate al sistema sociale che le esprime e

quindi possono mutare nel tempo e tra i diversi ambiti socio-culturali. Non solo, ma è

netta anche la differenza tra le giustificazioni alla base dei due complessi normativi: le

norme morali trovano giustificazione nel danno o nell’ingiustizia che causerebbe l’azione

interdetta, mentre le norme convenzionali vengono giustificate con l’esistenza di una

regola e/o con le aspettative dell’autorità.

In sostanza verrebbero pertanto assunti implicitamente nel pensiero comune i medesimi

criteri che ha elaborato la filosofia morale per contraddistinguere la norma morale: la

prescrittività e generalizzabilità.

Si tratta di due requisiti strettamente intrecciati fra di loro. Le prescrizioni morali sono

tali non sulla base di un’opinione individuale, ma trovano in sé una prescrittività che si

può definire oggettiva. Poiché “oggettive”, tali norme vengono ritenute valide in senso

generale, per tutti.

Un precetto che ad esempio è stato ritrovato in tutti gli studi cross-culturali, che

coinvolgevano bambini anche molto piccoli, è quello di non picchiare i compagni. Tale

precetto non dipenderebbe dal fatto che è sancito dall’autorità, bensì dalla conseguenza

oggettiva intrinseca del picchiare: non si può picchiare senza far male e per ciò stesso

picchiare è sbagliato.

«La forza prescrittiva dello standard morale “Picchiare è sbagliato” è oggettiva nel

senso che gli effetti dell’azione sono indipendenti dall’osservatore, è prescrittiva

nel senso che la qualità di “sbagliato” deriva dalle caratteristiche oggettive

dell’azione e generalizzabile nel senso che gli effetti dell’azione si manifestano in

qualsiasi persona, a prescindere dal suo background»214.

La moralità, secondo tali studi, si consoliderebbe attorno ad alcuni precetti di base che

avrebbero natura non arbitraria, ma necessaria e valore non particolare, ma universale.

Ciò non significa che l’ambito della moralità e quello delle convenzioni, pur distinti, non

213 Nucci L.P. (2001), Education in moral domain, trad. it. Educare il pensiero morale, Trento, Erickson, 2002, pp. 19-36.

214 Ivi, p. 23.

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conoscano sovrapposizioni. Anzi, la nostra esperienza quotidiana ci pone di fronte ad una

continua commistione tra i due ambiti. Pensiamo ad esempio a quando ci mettiamo in fila

per accedere ad un servizio pubblico, come l’Anagrafe o l’ufficio postale: è chiaramente

una convenzione sociale, generalmente condivisa, ma che può anche cambiare in alcuni

contesti (ad esempio in Inghilterra ci si mette in fila anche alla fermata dell’autobus,

mentre in altri Paesi questa regola non esiste). Al fondo di tale convenzione sociale c’è, in

tutti i modi, un principio di giustizia distributiva, che è un principio morale, come pure si

possono ritrovare dei principi di solidarietà umana nelle regole di “cortesia” del dare

precedenza a determinate categorie, come gli anziani o i disabili. Passare davanti a tutti,

saltando la fila, non è quindi solo una violazione dell’etichetta, ma contrasta con il senso

di giustizia, che inscritto in ognuno di noi come principio morale prescrittivo e

generalizzabile.

Il piano delle norme morali si sovrappone e interagisce anche con le scelte personali, lo

status sociale e le convinzioni religiose.

Molte norme morali, ad esempio, vengono veicolate dall’educazione religiosa, che

assume e agisce in questo ambito un ruolo di grande importanza, tanto che norma morale

e norma religiosa finiscono spesso per intrecciarsi strettamente.

Le ricerche tuttavia dimostrano che, sia per i non osservanti che per coloro che non

aderiscono ad uno dei diversi culti studiati215, esisterebbe un nucleo centrale, una comune

moralità, fondata sull’interesse per la giustizia e il benessere degli altri, che si sottrae al

relativismo delle culture e dei valori. L’equità, il rispetto reciproco, la solidarietà

sarebbero quindi, secondo Nucci, principi etici “universali”, che dovrebbero informare

laicamente l’educazione morale delle istituzioni scolastiche, nei loro diversi ordini e

gradi.

Un secondo argomento approfondito dagli studi psicologici è la questione del carattere

morale. Il concetto di carattere, tuttora molto diffuso nel linguaggio comune, è

generalmente contestato dalla psicologia accademica.

«Questa concezione della personalità, di vecchia data, corrisponde alle attribuzioni

di senso comune che facciamo verso gli altri nel tentativo di classificare o di

etichettare le persone in maniera da dare un certo grado di prevedibilità alle

interazioni interpersonali»216.

215 Ivi, p. 69.216 Ivi, pp. 146-147.

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Le ricerche sperimentali condotte, come dice Nucci, hanno infatti dimostrato che non è

possibile individuare in termini generali dei tratti di personalità stabili e definiti, dato che

le disposizioni comportamentali sono fortemente collegate alle situazioni contestuali.

«Anziché occuparsi delle teorie dei tratti, gli psicologi della personalità

contemporanei tendono a considerare la personalità come qualcosa che una persona

fa in determinati contesti piuttosto che qualcosa che una persona ha a prescindere

dalla situazione»217.

Per tale ragione, anziché di carattere morale, si preferisce parlare di Sé morale,

riferendosi al modo in cui la moralità viene ad essere integrata nel senso soggettivo

dell’identità personale.

Su questa linea, studiosi come Augusto Blasi e Clark Power218 individuano la fonte

dell’agire morale non tanto nella conoscenza del bene, quanto nel desiderio di agire

coerentemente con il proprio senso di sé, in quanto essere morale.

Non si deve intendere il sé come un’entità rigidamente definita, quanto piuttosto come un

essere in divenire, come una sorta di narrazione, come la storia di noi che raccontiamo a

noi stessi. Nucci sostiene che il sé è qualcosa che si costruisce nella nostra interazione di

agenti con la realtà che ci circonda:

«Quello che noi siamo emerge man mano che interagiamo con il mondo sociale e

cerchiamo di capire come diamo avvio alle azioni (un senso di iniziativa), chi è

l’agente (un senso di identità) e chi desideriamo che quell’agente sia (una

combinazione di iniziativa e identità)»219.

Un ulteriore tema d’interesse nella ricerca psicologica riguarda l’aspetto evolutivo del

pensiero morale. Si tratta di un filone di studi dominato dalla teoria elaborata agli inizi

degli anni ’60 dallo psicologo americano Lawrence Kohlberg e che riprende la

concezione di sviluppo stadiale di Piaget. Secondo questa teoria, lo sviluppo morale di un

soggetto passerebbe attraverso 6 stadi che, in estrema sintesi220, si possono così

schematizzare:

• Stadio 1 – Moralità eteronoma. L’individuo orienta il proprio comportamento

sulla paura della punizione; non considera il valore intrinseco della norma ma solo 217 Ivi, p. 147.218 Blasi A., The development of identity: a critical analysis form the perspective of the self as subject, in

Developmental Review, vol. 15/1993, p. 404-433 e Power C., Khmelkov V.T., Character development and self-esteem: psychological foundation and educational implications, Notre Dame, Liberal Studies, 1998, p. 150.

219 Nucci L.P. (2001), Educare il pensiero morale, cit., p. 150.

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il fatto che essa venga approvata o disapprovata; non riesce a distinguere il

proprio punto di vista da quello degli altri (egocentrismo).

• Stadio 2 – Individualismo. L’individuo diviene consapevole della diversità dei

punti di vista e che i propri interessi possono contrastare con quelli degli altri,

perciò considera il giusto in termini relativi concreti.

• Stadio 3 – Conformismo e reciprocità. L’individuo conforma il proprio

comportamento alle aspettative degli altri e al rispetto della regola aurea (“Non

fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, ma anche in versione positiva

“Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”).

• Stadio 4 – Legge e ordine. L’individuo assume come proprio il sistema normativo

dell’autorità, parificando ciò che è giusto con ciò che è legittimo.

• Stadio 5 – Contratto sociale e diritti individuali. L’individuo è consapevole

dell’importanza del consenso, alla base delle regole, ma anche della priorità di

alcuni diritti e valori individuali rispetto alla società.

• Stadio 6 – Principi etici universali. L’individuo determina in modo autonomo la

propria condotta, che si basa su principi etici universali, come l’uguaglianza dei

diritti e la dignità umana.

Le indagini sperimentali, condotte in tempi diversi e in differenti contesti sociali ed

etnici, evidenziano come tale percorso stadiale, che procede dall’eteronomia

all’autonomia morale, si sviluppi in modo sostanzialmente uniforme in tutte le culture e

in tutti i ceti sociali.

Uno dei test maggiormente utilizzati dai ricercatori consiste nel proporre,

opportunamente adattato all’ambito culturale di riferimento, un caso problematico

(Moral Judgement Interview), come quello notissimo di Heinz, un signore che per salvare

la vita alla moglie malata è posto di fronte al dilemma morale se rubare o meno una

medicina ad un farmacista senza scrupoli. In base alla risposta (affermativa o negativa),

220 Cfr. Kohlberg L. (1973), Continuities in childhood and adult moral development revisited, trad. it. Le esperienze adulte richieste per lo sviluppo morale, in Manenti A., Bresciani C. (a cura di), Psicologia e sviluppo morale della persona, Bologna, Dehoniane, 1992, pp. 116-119 e Kohlberg L. (1976), Moral Judgement Intereview and Procedure for Scoring, trad. it. Il posto del giudizio morale nella personalità totale: stadio cognitivo, stadio morale e comportamento morale, in Manenti A., Bresciani C. (a cura di), Psicologia e sviluppo morale della persona, Bologna, Dehoniane, 1992, pp. 164-176.Come ogni sintesi, la presente schematizzazione si espone al rischio di un’eccessiva semplificazione. Per un approfondimento del tema è opportuno il rimando in particolare a Kuhmerker L., Gielen U.P., Hayes R.L., Antoni G., Comunian A.L. (1991), The Kohlberg legacy. For the helping professions, trad. it. L'eredità di Kohlberg. Intervento educativo e clinico, Firenze, Giunti, 1995.

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ma soprattutto alle motivazioni addotte, viene così individuato lo stadio evolutivo del

soggetto.

Esisterebbe quindi, secondo quanto rilevato in tali studi, una precisa sequenzialità nello

sviluppo del pensiero morale e un certo sincronismo con le tappe dello sviluppo cognitivo

in genere, a testimonianza del fatto che non si può concepire la moralità come qualcosa di

separato dalle altre facoltà intellettive e pertanto il suo crescere si accompagna al crescere

di queste ultime.

Va precisato che gli studi di Kohlberg e dei suoi collaboratori si interessano solo di un

aspetto della moralità, che è quello del giudizio morale, e lo fanno inquadrandolo

solamente sotto il profilo razionale-cognitivo. È su questa limitazione, come ci ricorda

Michele Pellerey, che si sono appuntate maggiormente le critiche all’approccio di

Kohlberg.

«Si è accennato più volte al contributo di L. Kohlberg sullo sviluppo del

ragionamento morale. A questo proposito c’è ormai l’accordo da parte degli

studiosi che nel passato si è posto eccessivamente l’accento sulla razionalità

morale, cioè sulla capacità di analizzare nella loro formalità i dilemmi morali. A ciò

ha influito da una parte la tradizione formalista e strutturalista della filosofia morale

e la prospettiva esclusivamente cognitiva della psicologia piagetiana»221.

Da questa constatazione sono partiti – agli inizi degli anni ’80 – diversi importanti studi,

che hanno ampliato tale visuale, dando risalto anche a fattori di tipo intrapersonale ed

intrapsichico.

Lo studio della dimensione emotiva implicata nell’esperienza etica è, a tale riguardo, uno

degli altri importanti focus d’attenzione della psicologia morale.

Ciò che definisce come morale un’azione è comunque la sua dimensione cognitiva.

Nessuno, come fa notare Nucci222, considererebbe etico il comportamento istintuale di un

animale che mette a repentaglio la propria vita per salvare i propri cuccioli, proprio

perché lì non viene implicata una cognizione, ma una semplice elaborazione automatica

delle emozioni. Al contrario, viene considerata altamente morale l’azione di chi si

esponga a rischi personali, pur di salvare un altro essere umano in pericolo, superando il

naturale istinto di autoconservazione.

Pensiamo ad esempio al comune cittadino, che si getti in mare per salvare un perfetto

estraneo che sta annegando. Questo suo gesto eroico implica necessariamente un 221 Pellerey M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona, cit. pp. 89.222 Nucci L.P. , Educare il pensiero morale, cit., pp. 20-21.

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elemento di pensiero. Un pensiero che si gioca nella frazione di secondo in cui egli

assume la decisione; l’immediatezza della risposta data alla situazione di pericolo non

significa infatti che essa non sia un prodotto del pensiero, alla stessa stregua della

parimenti tempestiva risposta che possiamo dare alla domanda: “Quanto fa due più due?”.

È un pensiero che sta però anche a monte di quella rapida decisione, ponendosi cioè nel

percorso di crescita morale che lo ha portato a rispondere in tal modo in quel momento

cruciale della sua vita.

L’azione morale, quindi, non può prescindere dalla sua fondante dimensione cognitiva.

Ciò però non significa che in essa non sia presente anche una dimensione emotiva.

Pensiamo, ad esempio, a quanti nel quotidiano si rendono protagonisti di gesti di

straordinario altruismo, anche a rischio della propria vita. Molto spesso, se interrogate al

proposito, queste persone comuni non sono in grado di spiegare razionalmente le

motivazioni che hanno determinato tali atti. Riferiscono semplicemente che “sentivano”

di doverlo fare.

Il sentimento è chiaramente qualcosa che gioca un ruolo imprescindibile rispetto all’agire

morale e che non ha minore importanza rispetto al pensiero razionale.

A ben vedere cognizione ed emozione si intrecciano:

«la moralità non è semplicemente guidata dai “sentimenti”, come affermavano i

filosofi emotivisti […], né è pura e fredda razionalità come la rappresentano alcune

letture che travisano le definizioni cognitive di moralità […]. Emozioni e pensiero

in realtà non si contrappongono, bensì sono in rapporto di interconnessione»223.

In effetti, per lungo tempo ragione e sentimento sono state considerate dalla cultura

occidentale dimensioni umane contrapposte, che solo in tempi relativamente recenti sono

state valorizzate nella loro compenetrazione. Come ci ricorda Piaget224, infatti, non può

esserci cognizione senza affettività (nello stessa misura in cui, viceversa, non può esserci

affettività senza cognizione). Qualsiasi azione, come afferrare una palla, implica

chiaramente l’attivazione di schemi cognitivi che la orientano e la guidano, ma anche

delle emozioni, che rappresentano il “dispositivo d’innesco” per attivare l’azione stessa: è

la gioia nel prendere al balzo quella palla che spinge il bambino ad agire.225

223 Ivi, p. 140.224 Piaget J. (1981), Intelligence and affectivity: their relationship during child development, Palo Alto,

CA, Annual Reviews Monosgraphs, come citato da Nucci L.P. (2001), Educare il pensiero morale, cit., p. 128.

225 In merito agli studi pedagogici che trattano dell’intreccio tra emozione e cognizione, si rimanda ad esempio a Cambi F., Mente e affetti nell’educazione contemporanea, Roma, Armando, 1996, Contini M., Per una pedagogia delle emozioni, Firenze, La Nuova Italia, 1992, nonché a Goleman D. (1995)

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Oltre a tale funzione “motrice”, le emozioni giocano un altro importante ruolo nell’agire

umano, come sottolinea Terrance Brown226, che interviene nel momento decisionale.

Anche in un’attività fortemente improntata alla razionalità, come ad esempio giocare una

partita a scacchi, la scelta delle mosse da compiere – fra le innumerevoli possibili – non

potrebbe venir assunta esclusivamente attraverso procedure logiche, ma è in larga misura

condizionata da valutazioni affettive. I sistemi viventi intelligenti, infatti, sono

programmati non per assumere decisioni astrattamente ideali, ma soluzioni accettabili

nell’infinito spettro delle possibilità, e ciò avviene anche attraverso il “sentire” emotivo.

Se ciò è vero per gli schemi d’azione in generale, lo è ancor più nel caso dell’agire

morale che prende vita nello scambio dei rapporti umani e nella conciliazione dei diversi

bisogni e desideri.

Gli scienziati evoluzionisti hanno individuato significativi punti di continuità tra la

moralità umana e il sistema di regolazione sociale di molte specie animali, che si basa

proprio su un set di emozioni innate, corredato da specifici segnali fisici, come il pianto,

il riso, le espressioni facciali, la postura, le vocalizzazioni, ecc.

Gli studi effettuati negli ultimi decenni sembrerebbero confermare che anche gli esseri

umani siano dotati alla nascita di un repertorio geneticamente dato di schemi affettivi, che

gli consentono di esprimere i propri sentimenti basilari, ma anche di riconoscere quelli

degli altri.

Nucci cita, al riguardo, le ricerche condotte da Irenäus Eibl-Eibesfeld227, nelle quali, è

stata riscontrata la capacità da parte dei bambini che nascono sordi e ciechi di produrre

espressioni emozionali del tutto simili a quelle dei bambini normodotati.

L’Autore fa riferimento anche agli esperimenti realizzati da Martin e Clark228, i quali, per

altro verso, rilevano come i neonati al loro primo giorno di vita reagiscono piangendo al

pianto angosciato di un altro neonato, ma non nel sentire la registrazione del proprio

stesso pianto.

Sono elementi, questi, che danno corpo all’ipotesi di una base neurobiologica innata,

frutto di un processo filogenetico, al comportamento pro-sociale degli esseri umani.

Emotional Intelligence, trad. it. Intelligenza Emotiva. Che cos’è perché può renderci felici, Milano, Rizzoli, 1999.

226 Brown t. (1996), Affective dimensions of meaning, in Reed E. et al. Values and knowledge, Hillsdale, NJ, Lawrence Erlbaum, pp. 167-190.

227 Eibl-Eibesfeld, Ethology: the bbiology of behavior, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1970, come citato da Nucci L.P., Educare il pensiero morale, cit., p. 131.

228 Martin G.B., Clark R.D., Distress crying in newborn: species and peer specificity, in Developmental Psychology, vol. 18/1982, pp. 3-9, come citato da Nucci L.P., Educare il pensiero morale, cit., p. 131.

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Tale ipotesi ha trovato un fiorente terreno di indagine nella Neuroetica. Si tratta di un

nuovo ambito disciplinare, nato dalla confluenza delle riflessioni condotte dalla filosofia

morale con le conoscenze acquisite delle neuroscienze, grazie al loro strumentario di

tecniche di neuroimaging, cioè di mappatura neuronale (TAC, risonanza magnetica

funzionale, Tomografia ad emissione di positroni, ecc.).

La Neuroetica, come spiega Laura Boella229, si occupa della “morale prima della morale”,

cioè di come l’agire etico dell’uomo attinga ad una base biologica, costruita nel percorso

evolutivo di adattamento dinamico all’ambiente – finalizzato alla perpetuazione della

specie – senza però perdere di vista ciò che conferisce a tale agire un aspetto

propriamente umano, che è dato dal significato che egli associa alla propria esperienza

morale.

In un certo qual modo, la competenza etica nel vivere al mondo con gli altri si fonderebbe

su basi neurofisiologiche esattamente come la competenza dell’atleta non potrebbe

sussistere senza il sistema scheletrico e neuromuscolare. Nell’agire morale, così come

avviene nel salto in lungo, è richiesta una predisposizione biologica, quale condizione

necessaria ma – evidentemente – non sufficiente.

Tra i vari filoni di ricerca sui quali si è incentrata la riflessione dei neuroeticisti, uno dei

più interessanti è certamente quello che correla la capacità empatica, che è alla base di

molta parte del nostro agire etico, con quelli che sono stati denominati i “neuroni

specchio”. Si tratta di una particolare tipologia di cellule cerebrali, la cui presenza è stata

riscontrata negli esseri umani e in altri primati, attraverso esperimenti condotti con

tecniche di neuroimaging, da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma guidato da

Giacomo Rizzolatti230. Tali ricerche hanno messo in evidenza come gli stessi gruppi di

neuroni vengano attivati sia quando i soggetti sperimentali svolgono una determinata

attività, sia quando semplicemente la osservano svolgere da altri. Ciò sembrerebbe fornire

una base neurofisiologica alla capacità di apprendimento per imitazione, fondamentale

modalità di acquisizione di conoscenza da parte della specie.

Le prove sperimentali hanno anche evidenziato un funzionamento mirror anche per

quanto riguarda il riconoscimento delle emozioni: espressioni di dolore o di disgusto

osservate in altri attivano infatti il medesimo substrato neuronale.

229 Boella L. (2008), Neurotica. La morale prima della morale, Milano, Raffaello Cortina, cit., p. 42.230 Rizzolatti G., Sinigaglia C., So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano,

Raffaello Cortina, 2006.

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Benché queste ricerche siano ancora allo stato iniziale, le evidenze sinora raccolte – come

ci riferisce Boella231 – sembrerebbero attestare l’esistenza di un sistema di accoppiamento

diretto, a livello neurobiologico, tra l’esperire e il sentire dell’altro e il nostro sistema

cinestetico e propriocettivo, su cui si basa l’empatia, che è appunto la capacità umana di

mettersi al posto dell’altro, condividendone sentimenti e volizioni.

Si tratta di un nodo centrale per comprendere l’agire etico, su cui si è soffermata spesso

anche la filosofia morale.

A tal proposito, Hannah Arendt fa notare che se è vero, come ci hanno sempre detto la

morale e la religione, che l’uomo è tentato dal male e deve sforzarsi di compiere il bene, è

vero anche ch’egli è ugualmente tentato dal bene e deve fare uno sforzo per fare il

male232. A sostegno di tale tesi, ci racconta di quando Kant – contravvenendo alla propria

indole metodica ed abitudinaria – fu costretto a cambiare il percorso della sua consueta

passeggiata quotidiana per sfuggire alla “tentazione” di fare l’elemosina ai mendicanti,

che lo attendevano ogni giorno più numerosi. Per il filosofo tedesco, questa vera e propria

“tentazione al bene” in realtà andrebbe fuggita tanto quanto la tentazione al male. Essa

infatti non è un comportamento etico in quanto contrasta con il principio di

universalizzabilità; non può esserci, secondo Kant, una legge universale che dica: ”Dai

l’elemosina a tutti quelli che te la chiedono”.

Molti e autorevoli sono i contributi filosofici che ci parlano di un uomo “buono per

natura”, a partire dal riferimento – perfino scontato – a Rousseau, il quale fondava la

propria idea sulla constatazione dell’innata ripugnanza che gli esseri umnai provano nel

vedere le altrui sofferenze.

L’uomo è dunque (anche) buono per natura e questa bontà, questa natura

compassionevole, potrebbe avere “sede” nei neuroni specchio, che sembrerebbero poter

spiegare in termini neurofisiologici la sua capacità genetica di “sentire” assieme agli altri.

Zygmunt Baumann, riprendendo il pensiero di Emmanuel Lévinas e quello del teologo e

moralista danese Knud Løgstrup, sostiene l’ipostesi che l’etica nasca come tentativo di

“arginare” questo imperioso movente umano, ed è proprio questa limitazione all’origine

della società.

«La funzione principale della regolamentazione normativa, nonché fonte suprema

della sua inevitabilità, consiste nel rendere l’esercizio della responsabilità

(Lévinas), o l’ubbidienza all’esigenza etica (Løgstrup) un compito realistico per la

231 Boella L., Neurotica. La morale prima della morale, cit., p. 90.232 Arendt H., Alcune questioni di filosofia morale, cit., pp. 37-38

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“gente ordinaria”, che di solito resta ben lontana dai parametri della santità (ed è

necessario che sia così), rendendo concepibile la società»233.

La società, attraverso la sua etica, renderebbe quindi la responsabilità per l’Altro, questo

potente sentimento di compassione che ritroviamo innato in noi – incondizionato e

illimitato per natura – qualcosa di umanamente sostenibile, circoscrivendolo in un

insieme definito di doveri e limitandolo ad una cerchia ristretta di “beneficiari”.

Su questo versante si pongono anche le riflessioni filosofiche di Eugenio Lecaldano, il

quale, rigettando ogni tentativo di fondazione metafisica della morale, individua la sua

radice proprio in quell’originaria e istintiva capacità sentimentale di provare empatia che

contraddistingue gli esseri umani. Tale capacità è una facoltà iscritta nella nostra natura,

che potremmo chiamare sentimento morale, che non si può acquisire attraverso discorsi e

ragionamenti:

«Nessuna elaborazione teorica di un filosofo ha il potere di fare sorgere in un

ascoltatore che ne fosse sprovvisto la capacità morale fondamentale, quella di

reagire partecipando alle sofferenze di un altro essere»234.

Discorsi e ragionamenti semmai sono fondamentali per far emergere e coltivare tale

sentimento morale, il quale poi “fiorisce” proprio grazie al pensiero riflessivo 235.

3.5 L’etica delle professioni

Nel linguaggio sociologico esistono due diversi significati del termine professione. Il

primo designa genericamente “l’attività normalmente svolta per ricavare un reddito”236.

Non è a tale accezione generale, ascrivibile a qualsiasi attività lavorativa, che ci si

riferisce in questo paragrafo, per quanto una dimensione etica sia presente in tutte le

attività umane e pertanto apprezzabili considerazioni potrebbero venirci da una

riflessione sull’etica del lavoro, inteso come spazio di espressione umana, di

realizzazione personale, di costruzione di significati.

Ci riferiremo invece ad un’accezione più circoscritta del termine professione, che

individua un genere di attività lavorativa caratterizzato da sapere tecnico e autonomia

233 Bauman Z., (2008), Does ethics have a chance in a world o consumers?, trad. it. L’etica in un mondo di consumatori, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 48.

234 Lecaldano E., Prima lezione di filosofia morale, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 9.235 Ivi, p. 43.236 Cfr. Bagnasco A., Barbagli M., Cavalli A., Corso di Sociologia, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 518.

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operativa ampi e socialmente riconosciuti. Un’attività che si basa quindi su un elevato

grado di conoscenze (legate non solo al “saper fare”, ma anche e soprattutto al “saper

essere”) e di responsabilità, che – come afferma Daniele Loro – è intimamente legato al

significato etimologico del vocabolo “professione”:

«la dimensione della “responsabilità” emerge già dall’etimologia della parola

“professione”, che dal latino professio-nis (termine derivante dal verbo profiteor-

ers, prefessus sum, pofiteri) sta ad indicare la dichiarazione pubblica, cioè aperta e

fatta davanti ad altri, di ciò che si è in grado di fare o che si intende fare.

Nell’ambito del lavoro il professionista è dunque colui che, di fronte ad un

problema per il quale è chiamato in causa, dichiara apertamente ai suoi interlocutori

di saperlo affrontare e di risolverlo, per quanto possibile, e di questo se ne assume

la responsabilità»237.

Si tratta di un’accezione che trova il suo modello paradigmatico nella tipologia del libero

professionista. La figura del professionista, infatti, origina nell’ambito del lavoro

autonomo, anche se ha via via acquisito, negli ultimi decenni, sempre più spazio

all’interno delle organizzazioni del nostro sistema produttivo. Stiamo assistendo in questi

anni, infatti, ad un importante processo di professionalizzazione del mondo del lavoro238,

in base al quale le attività lavorative all’interno delle organizzazioni assumono i caratteri

di elevato contenuto tecnico e di ampia autonomia, che un tempo erano propri solo della

libera professione e mal si conciliavano con il concetto di lavoro subordinato. Un

cambiamento che, come osserva Carla Xodo, mette al centro della professionalità il

concetto, già discusso, di competenza.

«Il professionista si afferma, dunque, in un’organizzazione del lavoro post-

tayloristica e post-fordista, centrata non più sul concetto di mansione, ma di

competenza. Differenza non di poco conto: la prima risponde alla logica del

minimo, la seconda a quella del massimo; la prima si basa sul lavoratore

dipendente, la seconda appunto sul professionista»239.

Se un tempo le strutture organizzative e, più in generale, il sistema di divisione del lavoro

tendevano alla stabilità, tutto era pre-definito e si privilegiavano attività di tipo esecutivo,

in cui il lavoratore veniva incasellato in una determinata mansione, ora, in quella che 237 Loro D., Etica e professione: quale rapporto, in “Rassegna CNOS”, n. 3/2007, p. 47.238 Si veda a tal proposito Prandstraller G.P., Il lavoro professionale e la civilizzazione del capitalismo,

Milano, Franco Angeli, 2003.239 Xodo C. (a cura di), Deontologia e qualificazione delle professioni educative, Lecce, Pensa Multimedia,

2004, p. 61.

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Baumann240 definisce “modernità liquida”, il lavoratore si trasforma progressivamente in

professionista, assumendo un profilo sempre più indefinito ed un ruolo di sempre

maggiore autonomia e imprenditorialità, chiamato com’è ad alzare incessantemente gli

standard della propria attività, in una logica di miglioramento continuo delle

performance.

Il processo di professionalizzazione in atto, che pare correlarsi alla complessificazione

della società e dei saperi, sta portando alla comparsa e all’affermazione di sempre nuove

professioni, talune caratterizzate da uno statuto ancora piuttosto incerto.

La sociologia funzionalista ha proposto un modello, divenuto ormai classico241, per

spiegare come avviene questo processo di professionalizzazione, modello all’interno del

quale la componente etica assume un ruolo fondamentale.

Questo modello viene rappresentato graficamente con un triangolo ai cui vertici stanno il

sapere tecnico, l’autonomia e, appunto, l’etica242.

Fig. 1 – Triangolo della professione

La nascita di una professione è innanzitutto legata all’affermarsi di un gruppo di esperti

in un determinato sapere tecnico-professionale, a cui viene socialmente riconosciuta una

particolare autonomia nell’esercizio e nella valutazione delle proprie competenze

specialistiche (passaggio I.0). A fronte di tale autonomia, sorge una specifica

responsabilità etica; il professionista e il suo cliente, infatti, sono legati da una relazione

asimmetrica, dato che il primo dispone di conoscenze e capacità che il secondo non ha.

240 Baumann Z. (2000), Liquid modernity, trad. it. Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002.241 Si veda a tal proposito Prandstraller G.P., Sociologia delle professioni, Roma, Città Nuova, 1980 e

Prandstraller G.P. (2003), Il lavoro professionale e la civilizzazione del capitalismo, cit.242 La rappresentazione grafica di questo modello è tratta da Damiano E., L’insegnante etico. Saggio

sull’insegnamento come professione sociale, cit., p. 284.

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Ciò ingenera la necessità di creare un sistema di regolamentazione interno a tale pratica,

cioè un’etica professionale (passaggio II.0), etica che non può che essere una

autoregolamentazione, facendo quindi appello al principio di autonomia professionale

(passaggio II.1). Il circolo si chiude con il collegamento tra etica e sapere tecnico. La

principale istanza etica che attiene alla professione, infatti, è quella di far bene il proprio

lavoro e ciò impegna il professionista a sviluppare il proprio sapere professionale

(passaggio II.2).

Secondo Gian Piero Prandstraller, la maggior parte dei sociologi che hanno studiato il

mondo delle professioni, concorda nel ritenere la presenza di un sistema di

autoregolamentazione interno di tipo etico-deontologico quale attributo definitorio della

professione. 243

L’etica, quindi, non rappresenta solo un aspetto complementare, ma è costitutiva della

professione, tanto che – come sostiene Da Re – non si può parlare dell’esperienza

professionale senza ricorrere a categorie morali, quali onestà, responsabilità, bene,

correttezza, ecc.244

Su tali posizioni troviamo anche Wolfgang Brezinka, per il quale ogni professione ha un

suo contenuto tecnico, fatto di conoscenze e abilità, ed uno morale, che si declina in

obblighi e virtù professionali e poggia in particolare sul principio della responsabilità

personale245.

L’importanza di tale dimensione etico-deontologica, secondo Da Re, è motivata dalla

particolare rilevanza che le attività professionali rivestono, cioè dall’interesse pubblico

che hanno le funzioni esercitate: la salute nel caso del medico, l’informazione per il

giornalista, la difesa dei diritti per l’avvocato, ecc. A ragione di tale rilevanza, queste

attività sono soggette ad un doppio sistema di disciplina e di controllo: quello esterno,

dettato dalle norme del diritto civile, e quello interno, prescritto dal codice deontologico.

Mentre il primo si fonda sulla presunzione di simmetria nel rapporto contrattuale tra

professionista e cliente, il secondo assume e regola invece l’asimmetria, che di fatto si

viene a creare quando una persona affida nelle mani di un “esperto” un bene così prezioso

come la salute o come la propria libertà personale.

Il codice deontologico, cioè quel complesso coordinato di regole di condotta, di norme

deontiche (che si devono osservare, che sono obbligatorie) attinenti ad una determinata

243 Ibidem. L’Autore si riferisce in particolare a Talcott Parsons e Ernest Greenwood.244 Da Re A., Vita professionale ed etica, in Semplici S., (a cura di), Il mercato giusto e l'etica della

società civile, Milano, Vita e Pensiero, 2005, p. 97.245 Brezinka W. (1992), Morale ed educazione, cit., pp. 162-163.

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professione, rappresenta, quindi, una sorta di bilanciamento di questa relazione

asimmetrica, ponendo come contrappeso alla parte che ha più potere – il professionista –

una responsabilità e un sistema di controllo aggiuntivi.

Remo Danovi sottolinea la natura giuridica delle norme deontologiche, che assumono per

le professioni legalmente riconosciute un proprio rilievo all’interno dell’ordinamento

giuridico246. La giuridicità delle norme deontologiche è confermata peraltro

dall’applicabilità di sanzioni disciplinari, che hanno rilevanza giuridica, da parte degli

organi professionali, nonché dal riferimento che ad esse viene fatto anche in sede di

giurisdizione ordinaria, per valutare la diligenza professionale all’interno dei rapporti

contrattuali.

Vantare un proprio codice deontologico può rispondere in qualche modo al bisogno di

avere un “bollino blu”, come una sorta di certificazione di qualità ISO, ma certamente ciò

non può bastare per l’esercizio moralmente responsabile di una professione247.

La deontologia, così come le norme del diritto positivo, infatti, sarebbero per Da Re,

requisiti necessari ma non sufficienti per un buon professionista. Infatti,

«un professionista, affidandosi alla guida del diritto e della deontologia, può

individuare con sufficiente chiarezza quelli che sono gli obblighi e le responsabilità

alle quali dovrebbe attenersi nell’esercizio della sua attività. […] E tuttavia,

nell’esperienza professionale, quando si tratti di stabilire concretamente quali siano

le decisioni e i comportamenti più consoni da adottare, sorgono a volte degli

interrogativi e dei veri e propri dilemmi, che non sembrano trovare un’adeguata

risposta nella deontologia professionale e tanto meno nel sistema giuridico»248.

Questa inadeguatezza è legata proprio alla natura normativa dei precetti giuridici e

deontologici e quindi al loro carattere di generalità ed astrattezza, nel rispetto del quale

essi non possono chiaramente prevedere e disciplinare ogni possibile situazione.

Si pensi all’obbligo del segreto professionale, previsto dal diritto e che trova ulteriori

specificazione e articolazione nei diversi codici deontologici, i quali però non riescono

neanch’essi a declinare l’infinita variabilità dei casi e delle circostanze che possono

imporre una limitazione a tale obbligo. È questo un terreno su cui solo la riflessione etica,

con il suo strumentario concettuale, può inoltrarsi.

246 Danovi R., Codici deontologici, Milano, Egea, 2000, p. 7.247 Si veda al riguardo anche Benetton M. (2010), Costruire le competenze etico-deontologiche, in Xodo

C., Benetton M., a cura di (2010), Che cos’è la competenza? Costrutti epistemologici, pedagogici e deontologici, cit., p. 145.

248 Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 112.

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Un secondo argomento, che mette in luce la parzialità e l’inadeguatezza di una visione

solamente di tipo giuridico-deontologico rispetto alla complessità dell’esperienza

professionale, è dato dalla riflessione sul fatto che a volte i problemi in cui si imbatte il

professionista trascendono il rapporto duale (asimmetrico) tra lui e il cliente, investendo

anche competenze e responsabilità che, non di rado, travalicano i confini della singola

professionalità. È questo il caso, ad esempio, delle tematiche che attengono alla bioetica o

all’etica economica o a quella ambientale, che sarebbe estremamente riduttivo

rinchiudere all’interno del recinto di una deontologia professionale, e che perciò vengono

opportunamente affrontate mediante la costituzione di “comitati etici”, nei quali sono

rappresentate diverse competenze e diverse professionalità.249

I limiti di una visione strettamente giuridico-deontologico si manifestano soprattutto

nell’incapacità di cogliere la dimensione vitale di una pratica professionale, la

dimensione del senso (il senso dell’uomo, il senso di ciò che fa e il senso del suo

esistere), che è propriamente etica:

«rientra a pieno titolo in questa dimensione anche il riflettere, da parte dei

professionisti, sulla qualità della propria prestazione, e di seguito il porsi alcuni

interrogativi squisitamente morali, che spaziano dalle domande originarie sul senso

e sul valore della propria attività, alle domande su come agire in condizioni

problematiche e moralmente conflittuali»250.

A fianco della deontologia professionale trova legittimamente spazio, quindi, l’etica

professionale, che anzi la giustifica e la concretizza, inquadrandola in un orizzonte di

senso.

Richiamandosi alle riflessioni svolte da Alasdair MacIntyre251 e riprendendo la

terminologia aristotelica, Da Re inquadra le attività professionali come praxis.

L’esercizio di una professione, infatti, pur prevedendo abilità tecniche, si sostanzia in

qualcosa di molto superiore rispetto alla produzione tecnica (poiesis), ossia in quello che

è appunto la praxis, il cui fine non è esterno (fare qualcosa) ma interno all’uomo

(agire)252.

249 Ibidem.250 Ivi, p. 98.251 MacIntyre A. (1981), After Virtue, trad. it. Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli,

1988.252 Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 101.

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Nell’accedere all’esercizio di una pratica professionale, come ad esempio la pratica

medica, un individuo può acquisire i “beni esterni”253 che tale professione in genere

comporta: denaro, successo, prestigio sociale, ecc. Ma egli partecipa anche dei “beni

interni”, che sono i valori specifici di quella stessa professione esprime e che risultano per

loro natura – a differenza dei “beni esterni” – beni comuni e inclusivi, nel senso che

arricchiscono non solo l’individuo ma l’intera comunità professionale.

Esercitare una pratica professionale significa, infatti, inserirsi inevitabilmente in un

determinato contesto socio-culturale, prendere cioè parte ad una comunità di

professionisti, con la sua identità, la sua storia, le sue tradizioni, le sue norme, ecc. La

pratica professionale quindi trascende la concreta individualità dei singoli professionisti,

ciascuno dei quali ne proporrà una propria personale interpretazione.

«Tale diversità appartiene alla realtà stessa della pratica professionale così come

nell’esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven si può dare una pluralità di

interpretazioni, ciascuna delle quali è in qualche misura legittima»254.

In realtà, il fatto che non vi sia un’unica interpretazione legittima della pratica, bensì una

pluralità virtualmente infinita, non significa che tutte queste modalità di esercizio della

pratica siano ugualmente valide. Il problema è però che non risulta per niente agevole

definire il discrimine tra un’interpretazione corretta, anche se ardita, ed un travisamento

della pratica, posto, inoltre, che tale confine può mutare nel tempo e in funzione delle

diverse circostanze e situazioni. Per tale ragione viene postulata l’autoregolazione da

parte di chi aderisce alla comunità di pratica, il quale certamente più di altri dispone degli

strumenti idonei a tale valutazione. Valutazione ovviamente che mantiene come costante

punto di riferimento i “beni interni” della pratica professionale, che sono ciò che viene

spesso smarrito nelle “cattive pratiche”. È il caso, ad esempio, del “free rider”, cioè del

professionista che sfrutta il contributo degli altri rifiutandosi di fornire il proprio,

impoverendo tutti, quindi anche se stesso255.

Cruciale rispetto alla dimensione etica della pratica professionale, risulta essere, per Da

Re, il concetto aristotelico di virtù etiche. Secondo la lezione aristotelica, esse

rappresentano delle qualità umane, acquisite attraverso l’abitudine (dall’etimologia greca, 253 L’autore traduce letteralmente il vocabolo inglese “goods” con il termine “beni” e non “valori”, come

riportato nella versione italiana del testo di MacIntyre A., After Virtue, cit. Cfr. Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., nota n. 6, p. 99.

254 Da Re A. (2005), Vita professionale ed etica, cit., p. 104.255 Cfr. D’Andrea Th., MacIntyre e il problema della pratica malvagia, in Da Re A., De Anna G. (a cura

di), Virtù, natura e normatività, Padova, Il Poligrafico, 2004, come citato da Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 107.

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éthos). Non sono doti naturali, anche se per natura l’uomo viene fornito della capacità di

coltivarle e farle “fiorire”256, sviluppando un carattere morale. Le virtù sono disposizioni

in base alle quali ci atteggiamo positivamente di fronte alle passioni; al contrario, i vizi

sono disposizioni in base alle quali ci atteggiamo negativamente. Le virtù etiche stanno

nel giusto mezzo, i vizi agli estremi, siano essi per eccesso che per difetto. Pensiamo ad

esempio alla virtù del coraggio, fondamentale per professioni d’azione, come quella del

soldato, ma anche quella dell’insegnante o del manager sociale. Non è il singolo atto di

coraggio che rende coraggioso (e quindi virtuoso) quel professionista, ma l’abitudine

consolidata ad agire con coraggio nelle difficili situazioni che si presentano nel corso

della sua pratica professionale. Il coraggio non sta nel non provare la paura, ma nel

reagire in modo positivo, non per difetto – e quindi non comportandosi in modo vile – ma

neppure per eccesso, dimostrando temerarietà e sconsideratezza.

La prospettiva delle virtù (aretaica) punta quindi l’attenzione non tanto sulle regole e

sulle norme, quanto piuttosto sulla personalità del soggetto morale: allorquando questi

verrà a trovarsi di fronte a problemi o a dilemmi morali, egli potrà risolverli più o meno

agevolmente, facendo affidamento sulle virtù che avrà saputo coltivare nel tempo.

L’abitudine virtuosa pone il soggetto non solo nelle condizioni (potere) ma anche nella

disposizione d’animo di scegliere (volere) il bene, in quanto essa contiene in sé anche una

componente motivazionale, cosa che una morale fondata solo su regole e norme

deontologiche di per sé non ha.

«Le regole, le norme non bastano; anche le regole del codice deontologico, pur

importanti, rimangono vuote se non traggono alimento da significati e motivazioni

adeguati. La cura del soggetto, dei tratti virtuosi del carattere, è indispensabile per

poter rendere effettive le regole»257.

L’esercizio delle virtù etiche rappresenta la strada attraverso cui il professionista

attualizza il proprio ideale professionale, cioè diventa il medico, l’insegnante, l’operatore

sociale, il manager che vuole essere. Esse sono anche lo strumento mediante il quale egli

riesce a raggiungere i beni che sono interni alla pratica.

Se è vero che le virtù vengono evocate e si sviluppano attraverso l’abitudine, all’interno

della praxis, allora possiamo ritenere che le diverse pratiche, le diverse professioni,

richiedano/sviluppino virtù differenti. Ciò è quanto si sostiene quando si parla di virtù

256 Il concetto di fioritura delle virtù mutua l’espresso inglese flourishing, cara al filosofo scozzese, cfr. MacIntyre A., After Virtue, cit.

257 Da Re A., Il professionista tra deontologia ed etica, cit., p. 427.

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interne alla pratica. Questo concetto può venire ben spiegato portando l’empio di due

professioni giuridiche: il giudice e l’avvocato. Entrambe le pratiche professionali hanno

come riferimento costitutivo il medesimo bene interno, che è la giustizia. Per la loro

diversità, tuttavia, tali ruoli si differenziano per alcune virtù specifiche: al giudice è

richiesta la virtù dell’imparzialità, che dovrà perfezionare essendo egli tenuto a trattare

tutti in maniera equanime; l’imparzialità non rappresenta invece una virtù per l’avvocato,

cui si chiede al contrario di porre al centro della propria azione gli interessi del proprio

assistito258.

Esistono delle virtù comuni, che sono richieste e che devono essere sviluppate all’interno

di tutte le pratiche professionali, come la competenza, la responsabilità e soprattutto la

saggezza pratica, cioè la phronesis aristotelica, virtù dianoetica259 della pratica per

eccellenza.

«È il phronimos, ovvero l’uomo saggio, colui che sa ben deliberare nella

concretezza delle situazioni, è il medico saggio, l’avvocato saggio e via dicendo,

che all’interno delle rispettive pratiche sanno interpretare al meglio il significato

della propria esperienza professionale e che dispongono delle risorse necessarie per

affrontare situazioni difficili e complesse»260.

La saggezza pratica è la virtù che unisce la conoscenza dell’universale con quella del

particolare e da cui dipendono anche le altre virtù interne. La saggezza è, ad esempio,

quella facoltà che ci permette di discriminare, nella situazione concreta, l’atto di coraggio

da quello velleitario e che ci aiuta a discernere la scelta più giusta nei dilemmi che si

possono incontrare nella vita, come ad esempio quello rappresentato da Dietrich

Bonhoeffer in Resistenza e Resa.

«Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e

l’altrettanto necessaria resa davanti al “destino”. Don Chisciotte è il simbolo della

resistenza portata avanti fino al nonsenso, anzi alla follia […]; Sancho Panza è il

rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato. Credo

che dobbiamo effettivamente por mano a cose grandi e particolari, e fare però 258 Ibidem. L’Autore qui va riferimento all’opera di MacIntyre A., After Virtue, cit. In merito al dibattito

sulla “moralità dei ruoli” e la contrapposizione tra “tesi separatista” e la concezione di un’etica generale delle professioni si veda, inoltre Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 116 e Canto-Sperber M., Ogien R. (2004), La philosophie morale, trad. it. La filosofia morale, Bologna, Il Mulino, 2006 pp. 91-92.

259 Le virtù dianoetiche (dal greco dìa nous, cioè attraverso la mente), quali la sapienza (sophia) e la saggezza pratica (phronesis) per Aristotele afferiscono all’anima razionale, non sono soggette al principio di moderazione e non si sviluppano con l’esperienza ma mediante lo studio e l’esercizio.

260 Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 116.

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contemporaneamente ciò che è ovvio e necessario in generale; dobbiamo affrontare

decisamente il “destino” […] e sottometterci ad esso al momento opportuno»261.

Il concetto di virtù rappresenta un importante snodo per comprendere la natura dell’etica

che non può ridursi ad un complesso di conoscenze (di norme, di regole, di valori, ecc.),

ma costituisce, come afferma Xodo, una vera e propria competenza.

«La competenza etica, alla maniera di ogni altra competenza, coincide non solo con

conoscenza, ma con un processo di apprendimento che trasforma il sapere oggettivo

in un modo di essere del soggetto»262.

Formare una competenza etica significa cioè acquisire innanzitutto conoscenze (sapere),

ma significa anche sviluppare abilità (il saper fare, legato appunto alle virtù) che da

habitus diventi un modo d’essere per la persona, al punto da caratterizzarne l’identità

(saper essere).

Elio Damiano intende la competenza etica come una “competenza trasversale” assai

complessa, che si compone tra le altre cose della capacità di discernere i valori in gioco

nelle scelte, grandi e piccole, che si devono assumere nel contesto quotidiano,

formulando giudizi morali a cui conformare le proprie azioni, ma anche la capacità di

“dire”, cioè di argomentare tali scelte263.

Tale competenza, però, non può essere una competenza professionale come le altre: essa

rappresenta il “principio integratore” dell’esperienza professionale, dato che riesce a

coniugare teoria e pratica, razionalità tecnica e pensiero riflessivo, “dover essere” della

professione e “saper essere” del professionista264.

La competenza etica, intesa come pensiero critico che accompagna l’azione e che genera

se stessa nel dialettico suo porsi di fronte all’esperienza, è più in generale una

metacompetenza, sia nel senso che è una competenza che crea altre competenze, come

l’apprendere ad apprendere, sia nel senso che è qualcosa che sta “oltre” la competenza,

261 Bonhoeffer D. (1970), Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, trad. it. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo, Mi, Edizioni Paoline, 1988, p. 289.

262 Xodo C., L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, cit., p. 232. Si veda anche Porcarelli A. (a cura di), Formare per competenze. Strategie e buone prassi, Lecce, Pensa Multimedia, 2010, p. 118.

263 Damiano E., L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione sociale, Assisi, Cittadella, 2007, pp. 321-322. Il concetto di “competenza trasversale” viene mutuato da Rey B. (1996), Les compétence trasversales en question, trad. it. Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco Angeli, 2003. Si veda anche Damiano E., La competenza etica degli insegnanti, in Xodo C., Benetton M., (a cura di), Che cos’è la competenza? Costrutti epistemologici, pedagogici e deontologici, cit. pp. 151-161.

264 Damiano E., L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione sociale, cit. p. 326.

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che la qualifica e in qualche modo ci permette di definire come competenza ciò che

chiamiamo competenza. Non si può, infatti, parlare di prestazione eccellente senza

rispondere, anche implicitamente, alla domanda: “Eccellente rispetto a che cosa?”. È in

ultima analisi l’etica, con il suo portato assiologico, che permette di valutare, cioè

appunto dare un “valore” alla prestazione, alla competenza che esprimo con la mia

prestazione e, più in generale, alla pratica in cui tale prestazione si inserisce.

Abbiamo bisogno dell’etica, come ci avverte Da Re, per distinguere le pratiche buone,

come la cura nei confronti degli altri, da quelle malvagie, come ad esempio la tortura o lo

sterminio di massa265. Pensiamo ad esempio alle “fabbriche della morte” che ha saputo

creare la follia nazista, approntando un imponente apparato organizzativo, impiegando

tecnologie all’avanguardia, attuando strategie sofisticate di manipolazione delle

coscienze, ecc.266. Certamente possiamo parlare in tal caso di efficienza, ma come

potremmo parlare di vera competenza, quando saperi e tecniche sono orientati a finalità

così disumanizzanti?

Ma anche la pratica buona in sé ha bisogno dell’etica per non perdersi e chi opera

all’interno di tale pratica deve confrontare la propria competenza con questo metro di

misura. La pratica, infatti, se viene lasciata a se stessa, se non è guidata dalla competenza

etica, è fortemente esposta al rischio di smarrire il proprio senso, imboccando

l’inesorabile deriva della “tecnicizzazione”.

265 Cfr. Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., pp. 120-122.266 Il riferimento qui va alle acute e sconvolgenti pagine scritte al riguardo da Arendt H., La banalità del

male, cit.

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4

La figura del manager

Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; questo è comandare.

Italo Calvino

4.1 Le funzioni del manager

L’autore che per primo ha sviluppato in modo sistematico il tema del management e delle

sue funzioni è Chester Barnard267. La sua riflessione si colloca storicamente nel periodo –

i primi decenni del ’900 – in cui inizia ad affermarsi la figura del manager professionale

in modo distinto e, a volte, in qualche misura anche contrapposto alla proprietà. Su questa

distinzione e sulla dialettica tra manager e proprietario/azionista si sviluppa la sua visione

cooperativistica dell’organizzazione aziendale e la stessa fondazione etica della funzione

dirigenziale. Giovanni Bonazzi, a questo proposito, sostiene che:

«in contrasto con chi ritiene che per comandare occorrano spregiudicatezza e

cinismo, Barnard sottolinea che le doti di comando consistono in una complessità

morale e in un senso si responsabilità superiore alla media»268.

Barnard tratteggia un identikit di un “dirigente in grigio”269, un manager che dispone di

forti capacità di mediazione, alla ricerca del consenso e dell’accordo, piuttosto che un

autocrate e un risoluto decisionista. Proprio per “essere in mezzo”, per doversi cioè

equilibrare fra proprietà e dipendenti, il dirigente ricerca una sua legittimazione e la trova

proprio nel perseguimento dei fini organizzativi, distinti dai moventi personali dei vari

soggetti che fanno parte dell’organizzazione.

«La raffinata arte di decisione del dirigente consiste nel non decidere

problemi che non siano rilevanti ora, nel non decidere prematuramente, nel

267 Barnard C. (1938), The functions of the executive, trad. it. Le funzioni del dirigente. Organizzazione e direzione, Torino, Utet, 1948.

268 Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 93.269 Espressione mutuata da Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, cit., p. 92.

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non prendere decisioni che non possano essere prese efficacemente e nel non

prendere decisioni che altri potrebbero prendere»270.

Le funzioni dirigenziali, per Barnard, sono principalmente tre:

- garantire il funzionamento efficace ed efficiente del sistema di comunicazioni

all’interno dell’organizzazione e con l’esterno;

- provvedere al reperimento delle risorse necessarie per il funzionamento

dell’organizzazione, intese come risorse strumentali, umane e finanziarie;

- individuare i fini dell’organizzazione e orientare l’azione aziendale non in modo

soggettivo e velleitario, ma in stretta relazione con quanto emerge dall’interno del

sistema cooperativo.

Poiché, quindi, le decisioni devono nascere da processi complessi e sistemici, nella

caratterizzazione della “personalità dirigenziale” non prevalgono aspetti di decision

making, quanto piuttosto quelli comunicativi e di mediazione.

La questione della funzione dirigenziale viene affrontata da Henry Mintzberg in maniera

più pragmatica, andando ad analizzare la pluralità dei ruoli in cui si articola tale

funzione271.

I ruoli interpretati dal dirigente all’interno di un’organizzazione, secondo Mintzberg,

possono essere catalogati in tre grandi macro-categorie:

a. ruoli interpersonali, in particolare il ruolo di riferimento simbolico per i propri

collaboratori, il ruolo di leader nell’assumere la responsabilità rispetto al lavoro

dei subordinati e nel conciliare finalità e bisogni dell’organizzazione con le

finalità e i bisogni dei singoli, ed infine il ruolo di collegamento intraorganizzativo

e con l’esterno;

b. ruoli informativi, come il ruolo di monitor nella raccolta e catalogazione delle

informazioni, il ruolo di disseminatore di tali informazioni a quanti ne abbiano

270 Barnard C., Le funzioni del dirigente, cit., p. 174.271 Mintzberg H., The structuring of organizations, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1979. Il concetto di

ruolo, che va ben distinto da quello di posizione, risulta centrale nel discorso sul management. A questo riguardo Cesare Kaneklin precisa che: “La posizione è una categoria o collocazione in un sistema di classificazione sociale più o meno formalmente riconosciuto da una organizzazione sociale. Essa è descritta in termini di contributo che deve fornire agli obiettivi organizzativi. Il ruolo è invece l’insieme dei bisogni, scopi, convincimenti, sentimenti, atteggiamenti, valori ed azioni che i membri di una comunità si attendono che caratterizzi l’occupante tipico di una posizione. Quando un individuo assume un ruolo all’interno di una organizzazione ha necessità quindi di cogliere non solo il sistema di diritti e doveri che caratterizzano la posizione alla quale il ruolo è associato, ma anche di cogliere quegli attributi di ruolo che vengono solo dalla lettura della realtà specifica in cui interviene.” Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, in Bontadini P. (a cura di), Manuale di organizzazione, Milano, Isedi, 1978, pp. 14-10.

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utilità e il ruolo di portavoce, nel diffondere informazioni e richieste all’esterno

della propria unità di comando:

c. ruoli decisionali, come il ruolo di innovatore, nel promuovere il continuo

cambiamento reso necessario dal mutare delle condizioni interne ed esterne, il

ruolo di assorbimento di eventuali fattori destabilizzanti, il ruolo di allocatore

delle risorse, dei carichi di lavoro e degli incentivi e il ruolo di negoziatore, inteso

come mediatore dei conflitti e promotore del consenso.

L’articolazione della funzione dirigenziale in più ruoli ben si concilia con una visione del

management non di tipo indistinto e accentrato, ma differenziato e diffuso lungo tutta la

struttura organizzativa.

La distribuzione del potere all’interno delle organizzazioni, poi, non è mai omogenea. Vi

possono essere organizzazioni in cui il potere è concentrato nel vertice aziendale (top

organizations) e organizzazioni in cui è diffuso su tutta la linea gerarchica (line

organizations), dove si possono originare conflitti e lacerazioni. Vi è, infine, una

tipologia di organizzazioni – rank organizations – in cui il potere è detenuto dalle

posizioni gerarchiche intermedie. È il caso, ad esempio, di alcune burocrazie

professionali, in cui viene assegnata un’importanza centrale alle competenze scientifiche

e culturali, anche se nell’organigramma dell’ente possono essere formalmente

subordinate agli organi amministrativi.

L’assunzione dei ruoli dirigenziali può poi avvenire in termini formali, esplicitamente

previsti e ufficialmente riconosciuti, o in termini sostanziali.

Questo può essere visto, in modo particolare, nel ruolo di leadership, ossia nell’esercizio

del potere di influenzare e motivare le persone.

Amitai Etzioni272 sostiene che vi sono due distinte fonti di legittimazione di tale potere: il

ruolo formale, ricoperto all’interno del sistema gerarchico, e le qualità personali del

leader. I due fondamenti, ufficiale e personale, possono ritrovarsi nello stesso individuo o

generare due strutture parallele di leadership, che potranno confliggere fra di loro come

pure convivere senza grossi problemi, spartendosi gli ambiti di competenza. È il caso, ad

esempio, di organizzazioni coercitive come le carceri, in cui c’è un livello di potere

gestito dal direttore, dai funzionari e dai secondini, legato a norme e regolamenti, ed un

altro livello di potere, interno al gruppo degli stessi detenuti, legato a caratteristiche

personali, a codici informali e a sottoculture organizzative. Generalmente i due ambiti si

tollerano e addirittura spesso si legittimano vicendevolmente.272 Etzioni A., Complex organizations, New York, Free Press, 1961.

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Secondo Etzioni, nelle organizzazioni di tipo normativo, proprio per la partecipazione

volontaria da parte dei membri e per la forte connotazione ideale che le pervadono, le due

fonti di legittimazione tendono ad integrarsi nella stessa élite formale. Questo grazie

anche al fatto che il carisma, qualità propria del leader, non è secondo questo Autoreuna

dote straordinaria e innata, come la intendeva Weber – Autore su cui ci si soffermerà

oltre – ma è una caratteristica che può essere in una certa misura acquisita, con

l’esperienza, all’interno della stessa organizzazione.

Etzioni individua due tipologie di leadership: strumentale, ossia rivolta al dominio delle

tecniche e delle procedure, ed espressiva, volta cioè ad influenzare il sistema dei valori,

degli ideali e delle convinzioni morali. Fra queste, quella espressiva è senz’altro la più

caratteristica del vero leader e quella che si accompagna al concetto di carisma.

La distinzione e i rapporti fra i concetti di management e di leadership non risultano

avere, però, una definizione univoca.

Nel pensiero di Philip Selznick, ad esempio, il concetto di leadership assume

un’accezione in parte diversa: è sempre una funzione che viene svolta dal manager e che

può essere assunta informalmente anche da altre persone, che all’interno

dell’organizzazione non sono investite ufficialmente di particolari incarichi. Si tratta però

di una funzione di tipo “politico”, che ha a che fare non tanto con la più efficace ed

efficiente gestione tecnica aziendale, quanto piuttosto con i rapporti esterni, con il lavoro

di governance, con processi di cooptazione, ecc.

Il leader è colui il quale riesce a “trasformare un gruppo neutrale di individui in un

sistema politico impegnato”273.

Per Selznick la leadership non è necessaria: un’organizzazione può vivere ugualmente

con dirigenti che non sono dei veri leader, limitandosi ad una semplice sopravvivenza

adattiva alla realtà circostante.

La leadership è una attività creativa, ha a che vedere con decisioni critiche e fa assumere

all’organizzazione il ruolo di istituzione, di soggetto attivo, artefice dei cambiamenti del

contesto.

Le funzioni della leadership, secondo Selznick, sono quattro:

a. definizione della missione e del ruolo dell’istituzione;

273 Selznick P. (1957), Leadership in administration. A sociological interpretation, trad.it. La leadership nelle organizzazioni”, Milano, Franco Angeli, 1976, p. 89.

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b. incorporazione istituzionale dello scopo, cioè far sì che gli obiettivi

dell’istituzione vengano compresi e interiorizzati dai membri e influenzino modi

di agire e di pensare;

c. difesa dell’integrità dell’istituzione, dei suoi valori e della sua identità;

d. composizione dei conflitti interni, attraverso la mediazione e la ricerca del

consenso.

4.2 Esercizio del potere e disposizione all’obbedienza

Il rapporto fra manager e organizzazione è certamente complesso e si presta a diversi

piani di lettura. Uno di questi è certamente quello che si potrebbe definire “legame

gerarchico”, all’interno del quale viene riconosciuta al manager la prerogativa di dirigere

il lavoro delle persone che da lui dipendono.

L’esigenza di “far lavorare”, di controllare le prestazioni e la produttività, di ottenere

dagli operai la “giusta giornata di lavoro” è, del resto, l’elemento centrale del Taylorismo,

così come delle teorie post-fordiste.

La questione della gerarchia, rispetto all’esercizio legale del potere, assume un ruolo

centrale anche nel pensiero di Max Weber e negli studi che l’hanno seguito.

Esistono, per Weber, tre tipi ideali di potere legittimo: il potere carismatico, legato alla

personalità del leader e destinato a morire con lui, il potere tradizionale (di tipo

patrimoniale o feudale), caratteristico delle società premoderne, e il potere legale, che si

basa sul principio di equità delle leggi274.

La dinamica dell’autorità, del potere, è un tratto fondamentale nella costruzione teorica di

Weber: il complesso “castello” di norme e regolamenti costruito dalla burocrazia è lo

strumento attraverso il quale si esercita il potere, ma, al tempo stesso, il sistema attraverso

il quale ci si difende dal potere, lo si argina e contiene, attraverso la creazione di vincoli e

di contropoteri. La stessa funzione delle leggi e dei regolamenti è, da un lato, di difesa dai

possibili arbitri di chi è sovraordinato, ma è anche un espediente per spersonalizzare il

rapporto di potere, nascondendolo dietro la neutralità affettiva – sine ira et studio – di

disposizioni generali e astratte.

Il presupposto implicito è che l’esercizio del potere rappresenta un elemento necessario

per un’organizzazione, ma estremamente delicato, irriducibilmente conflittuale,

potenzialmente distruttivo.

274 Weber M. (1922) Wirtschaft und gesellschaft, trad. it. Economia e società, Milano, Comunità, 1961, pp. 55-68.

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«Il potere è la base della dinamica sociale degli individui tra loro, dei gruppi tra di

loro: esso è invisibile così come è invisibile la forza di gravità esistente nei corpi

che tendono al basso senza che si possa vedere la forza che li spinge»275.

È qualcosa dal quale ci si deve anche difendere e molti aspetti della burocrazia (il

formalismo, la rigidità, la spersonalizzazione dei rapporti, ecc.) si spiegano appunto con

l’esigenza, da parte dei burocrati, di gestire questo “materiale pericoloso”.

Weber fa notare, ad esempio, come questo “gioco di potere” si avvantaggi spesso di

asimmetrie cognitive. Questo avviene all’interno dei rapporti gerarchici: il sottoposto può

non trasmettere alcune informazioni importanti al suo superiore o, se messo alle strette,

può occludere la linea gerarchica con una valanga di informazioni inutili.

Ma avviene anche nel rapporto con gli organi politici: il burocrate si può avvantaggiare

del fatto d’essere detentore di una conoscenza specialistica che il politico (specie se alle

prime armi) non ha.

«Un Parlamento male informato, e perciò impotente, è naturalmente gradito alla

burocrazia – nella misura in cui quella ignoranza sia compatibile con i propri

interessi»276.

Weber precisa comunque che questo problema non riguarda solo le democrazie

parlamentari; nei regimi di tipo autoritario, il dispotismo e la corruzione degli apparati

burocratici aumenta anziché diminuire. Egli ritiene semmai che proprio la formazione di

una classe politica professionalizzata assieme agli strumenti di controllo democratico, tra

cui la stampa, sono i maggiori antidoti a questa distorsione del potere legale.

Per comprendere tuttavia il legame gerarchico in chiave “ecologica” non ci si può

fermare al manager, ma bisogna arrivare fino all’ultimo anello della catena di comando,

cioè a chi subisce il potere, analizzando la disposizione ad obbedire e collaborare più che

l’attitudine a comandare.

Lo stesso Weber dà del potere una definizione “rovesciata”, descrivendolo come “la

possibilità per specifici comandi (per qualsiasi comando) di trovare obbedienza da parte

di un determinato gruppo di uomini”277. È essenziale, quindi, la legittimazione al

comando, la quale per mantenersi nel tempo non può basarsi sulla coercizione, ma deve

trovare altri fondamenti su cui il rapporto di potere riesca a reggersi.275 Spaltro E., Direzione e delega delle decisioni, in Il Sole 24 Ore, Milano, 25/03/1965, p. 5, come citato

da Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-4.276 Weber M., Economia e società, cit., p. 305.277 Ivi, p. 207.

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Per Barnard questo fondamento è il punto di equilibrio tra contributi e incentivi, tra costi

e benefici, così come vengono valutati dal lavoratore, a collaborare al perseguimento dei

fini dell’organizzazione. Un punto di equilibrio che varia nel tempo e che dipende da

molti fattori.

Secondo Barnard, l’organizzazione nasce attorno a un obiettivo che è troppo “alto” per le

forze dei singoli (come spostare un grosso masso) e che richiede l’attivazione di un agire

cooperativo. Si devono però tenere distinti i moventi personali di quanti cooperano

all’impresa rispetto ai fini dell’organizzazione:

«ciò che qui è importante non è quello che muovere il masso significa per ciascun

uomo personalmente, bensì quello che egli pensa significhi per l’organizzazione nel

suo complesso. [...] Ciò che ha significato per lui è la relazione fra lui e

l’organizzazione – quali sacrifici gli impone, quali benefici gli assicura»278.

Il contributo fornito da un membro dell’organizzazione può cioè aumentare o diminuire

all’aumentare o diminuire degli incentivi che ne riceve in cambio o del valore che

soggettivamente attribuisce loro.

Si tratta di gratificazioni materiali, come quelle di tipo monetario o come le condizioni

fisiche generali del posto di lavoro, e di gratificazioni non materiali, fondate sulla

dimensione morale dell’agire cooperativo.

Queste ultime sono per Barnard fondamentali:

«Secondo me, quando le necessità minime sono soddisfatte, la pura forza degli

incentivi materiali è per la maggior parte degli uomini estremamente debole e un

suo aumento dipende quasi interamente dalla persuasione. [...] Anche in

organizzazioni strettamente economiche, in cui meno si suppone sia vero, il denaro

senza distinzione, prestigio, posizione, è così chiaramente inefficace che è raro che

si possa anche temporaneamente usare come stimolo un maggiore guadagno se

accompagnato da perdita di prestigio»279.

È una conclusione a cui erano pervenuti anche Elton Mayo e la sua Scuola delle

Relazioni Umane negli anni ’20-’30, notando che l’aumento della produttività delle

operaie negli stabilimenti di Hawthorne della Western Electric non dipendeva da fattori

ambientali (come la maggiore o minore illuminazione), ma dall’essere oggetto di

278 Barnard C., Le funzioni del dirigente, cit., pp. 85-86.279 Ivi, pp. 132-134.

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attenzione da parte degli studiosi, dall’integrazione raggiunta dal gruppo e dal tipo di

rapporto instaurato con i supervisori.

Gli studi in questa direzione sono molti ed estremamente interessanti.

Per Abraham Maslow280, ad esempio, questi incentivi, le motivazioni cioè a contribuire in

modo positivo ai fini dell’organizzazione, sono legati al soddisfacimento dei bisogni

personali. Tali bisogni possono essere così articolati:

1. bisogni fisiologici;

2. bisogni di sicurezza;

3. bisogni sociali;

4. bisogni dell’ego;

5. bisogni di autorealizzazione.

Fra questi bisogni esiste una rigida “gerarchia”, in base alla quale, soddisfatto un ordine

di bisogni se ne presentano altri di livello superiore. Questa gerarchia rispecchia

l’evoluzione psicologica dell’individuo e della società, per cui l’organizzazione dovrebbe,

secondo Maslow, modificare gli incentivi che fornisce in base allo stadio evolutivo a cui

è giunto il lavoratore.

Questo percorso di crescita della personalità, secondo Chris Argyris281, può essere

rappresentato come un passaggio dallo stato di infanzia a quello di maturità. Fenomeni

molto comuni nei contesti organizzativi come apatia, disinteresse, conflittualità

esasperata sono causati proprio dall’incapacità dell’organizzazione di assecondare questa

naturale tensione evolutiva.

Per Frederick Herzberg282, invece, la tensione a sviluppare la propria personalità

nell’ambito lavorativo non è una caratteristica universale, ma è ristretta ad una particolare

categoria di persone, che egli definisce “ricercatori di motivazione”. Si tratta di una

minoranza, che vede nell’organizzazione un ambito in cui può realizzarsi come persona e

non semplicemente come un mezzo per soddisfare i propri bisogni materiali.

Contrariamente all’impostazione gerarchica della piramide dei bisogni di Maslow, i

ricercatori di motivazione possono tollerare dei margini anche notevoli di insoddisfazione

riguardo ad aspetti di ordine materiale.

Pensiamo, ad esempio, a molti operatori dei servizi, sottopagati e socialmente “poco

considerati”, che fanno con soddisfazione un lavoro di grande responsabilità e impegno.

280 Maslow A. (1954), Motivation and personality, trad. it. Motivazione e personalità, Roma, Armando, 2002

281 Argyris C., Personality and organization, New York, Harper, 1957.282 Herzberg F., The motivation to work, New York, Wiley, 1959.

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Secondo Herzberg, infatti, soddisfazione e insoddisfazione non rappresentano i poli

estremi di un continuum, come comunemente si crede, ma stanno su due piani differenti.

L’insoddisfazione è legata alla carenza di quelli che Herzberg chiama “fattori igienici”,

come ad esempio un salario basso, elementi di disagio ambientale, ecc.

Se migliorano i fattori igienici diminuisce l’insoddisfazione, ma non per questo aumenta

la soddifazione.

Questa è correlata ad altri fattori, i “fattori di motivazione”, che sono ancorati ai contenuti

stessi del lavoro, cioè alla prerogativa della mansione svolta di:

- stimolare l’ampliamento delle conoscenze professionali e la ricerca continua di nuovi

collegamenti tra le conoscenze già acquisite;

- sviluppare la creatività e il pensiero divergente;

- sperimentare ampi margini di autonomia decisionale;

- favorire la crescita globale dell’individuo come persona.

Come ci spiega Bonazzi, per Herzberg è necessario che il manager nel rapportarsi ai

propri collaboratori tenga conto di questa esigenza di crescita professionale.

«L’obiettivo del nuovo management diventa quello di dare ai ricercatori di

motivazioni mansioni ed incarichi tali da permettere loro di realizzarsi e di

progredire. Un uomo che cessa di progredire continuamente nella sua vita e che non

apprende nulla dal suo lavoro si limita a vegetare ed è psicologicamente “un

moribondo”. Il progresso dei singoli interessati sarà maggiore se le loro

realizzazioni vengono socialmente riconosciute. Ed il miglior riconoscimento è

quello di assegnare ai soggetti compiti nuovi e più complessi e che esigono ancora

più impegno. Il premio più ambito per un lavoro ben fatto – sostiene Herzberg –

non è tanto un aumento retributivo (anche se ovviamente non è da disprezzare…)

ma è il passaggio ad un nuovo lavoro che richiede più talento del primo»283.

La questione della compliance, ossia della disposizione all’obbedienza da parte dei

membri di un’organizzazione, assume un ruolo centrale nel pensiero di Etzioni284. Nella

sua impostazione, a differenza di quanto sosteneva Weber, ha scarso peso la

legittimazione o meno del potere; la compliance, può assumere infatti tre diverse

tipologie: quella fondata sulla forza (modello coercitivo), che genera alienazione e

risentimento in chi la subisce, quella fondata su remunerazioni materiali (modello

utilitaristico), che ingenera atteggiamenti opportunistici e ispirati al calcolo personale, ed 283 Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, cit., p. 109.284 Etzioni A., Complex organizations, cit.

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infine quella fondata sulla condivisione di valori etico-culturali interiorizzati dagli

individui (modello normativo), che può indurre comportamenti di forte impegno da parte

dei membri.

Per quanto quest’ultimo sia da preferire in termini generali, Etzioni ritiene preminente

l’analisi della congruenza tra il modello di disposizione all’obbedienza e gli altri aspetti

dell’organizzazione, come le finalità e i vincoli organizzativi.

«Così, ad esempio, alcuni ospedali mentali […] hanno una struttura

compliance/scopi che è incongruente. Ci si attende che mantengano l’ordine (che ad

esempio i ricoverati non possano fuggire né suicidarsi) ma che per fare ciò

ricorrano a mezzi soprattutto normativi […]. Questa incongruenza genera pressioni

ad ottenere e ad aumentare il permesso sociale a usare la coercizione, oppure a

educare il pubblico in modo che sia consentito a quegli ospedali di valutare il

proprio successo non in base alla mancanza di evasioni ma in base alla percentuale

delle guarigioni, cioè ad adattare gli scopi alla struttura della loro compliance»285.

Quindi, per Etzioni la condivisione dei valori etici dominanti non è un requisito

essenziale per la sopravvivenza di un’organizzazione, ma essenziale è la congruenza tra

fini istituzionali e tipologie di compliance: se le finalità dell’organizzazione sono il

mantenimento dell’ordine, risulta più funzionale il modello coercitivo; se lo scopo è

invece perseguire vantaggi economici, il modello più indicato sarà quello utilitaristico,

mentre se le finalità sono etico-culturali, è preferibile il modello di tipo normativo.

Secondo Daniel McGregor286, esistono due distinte e contrapposte concezioni del

rapporto uomo/lavoro, che sono sottese alle culture aziendali e che orientano gli stili

direzionali.

La prima, che egli chiama “Teoria X”, vede l’uomo come un essere pigro, che se può

evita di lavorare e di assumersi responsabilità; pertanto dev’essere diretto, controllato ed

eventualmente spronato con incentivi economici o con la minaccia di sanzioni. Per la

seconda, la “Teoria Y”, l’uomo invece ha una disponibilità naturale al lavoro, che è, anzi,

uno dei più importanti ambiti in cui egli riesce ad esprimere e sviluppare le proprie

capacità e la propria personalità.

Aderendo a questa seconda visione, McGregor ritiene che il controllo e la minaccia di

punizioni non sono il solo mezzo per indirizzare gli sforzi verso gli obiettivi aziendali e

285 Ivi, pp. 334-335.286 McGregor D. (1972), The human side of enterprise, trad. it. L'aspetto umano dell'impresa, Milano,

Franco Angeli, 1986.

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che si dovrebbe invece ricercare e promuovere quella naturale disposizione al lavoro e

alla realizzazione personale.

4.3 Leadership: una questione di stile.

I primi studi sulla leadership erano orientati alla ricerca dei tratti caratteristici che

consentono a un individuo di distinguersi e di assumere una posizione di prestigio e di

comando presso altri, presupponendo che un capo, per essere tale, dovesse essere

investito di particolari doti e qualità superiori a quelle di tutti i suoi “seguaci”.

V’è un’ampia letteratura in questa direzione287, che ha cercato di individuare i fattori

associabili al comando sia in termini di qualità individuali (intelligenza, dialettica,

originalità, autostima, ambizione, ecc.) che come status (livello di istruzione, classe

sociale, censo, popolarità, ecc.).

In realtà è stato osservato come:

«il comando non è uno stato passivo e non è attaccato al solo possesso di una certa

combinazione di tratti. Sembra essere piuttosto un rapporto tra i membri di un

gruppo, in seno al quale il capo ottiene il suo rango, grazie alla sua partecipazione

attiva e dimostrando che egli è capace di condurre in porto dei compiti cooperativi.

Gli aspetti più significativi di questa capacità di organizzare e di facilitare lo sforzo

collettivo sembrano esser l’intelligenza, la sensibilità ai bisogni e alle altrui

motivazioni e la comprensione delle situazioni, rinforzati da atteggiamenti quali

quello di responsabilità, di iniziativa, di perseveranza e di confidenza in sé»288.

A partire dalla seconda metà del ’900 si afferma un approccio “situazionale” alla

leadership, che punta l’attenzione sulle circostanze sociali, sulle caratteristiche

dell’organizzazione, sulle aspettative e sulle dinamiche dei collaboratori più che sugli

attributi di personalità del capo.

«In questo senso quindi la funzione di leadership, e cioè l’insieme degli atti volti a

consentire al gruppo di raggiungere i suoi obiettivi, è vitale in ogni gruppo anche se

evidentemente il modo secondo il quale ogni gruppo tutela questa funzione può

essere molto diverso, riflettendo gli attributi personali e professionali dei membri,

la natura del gruppo e dei suoi compiti, i vincoli e le opportunità storiche e

287 Si veda al riguardo Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-12.288 Stodgil R.M., Personal factors associated with leadership. A survey of litterature, in “Journal of

Psichology”, vol. XXV/1948, come citato da Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-6.

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strutturali proprie del contesto in cui il gruppo è inserito. [...] È assurdo parlare di

comando in astratto poiché non è dato un capo senza collaboratori in quanto il

comando è una delle caratteristiche di ogni situazione di gruppo, pena un discorso

atemporale e aspecifico e quindi astratto»289.

Se è vero, poi, che il leader influenza il gregario, è altrettanto vero che lo stesso gregario

agisce una qualche influenza sul leader. Più in generale, si deve ritenere che ogni

componente del gruppo influenzi gli altri. L’immagine che ne esce è quella di una

leadership diffusa, orizzontale, non verticistica.

«Tutti i membri del gruppo sono, almeno in qualche misura, leader. E ciò

è vero semplicemente perché ogni membro, in qualche misura, deve

necessariamente influenzare le attività degli altri membri del gruppo. La

leadership, in altre parole, è una variabile quantitativa e non un elemento

rigido. Per esattezza non dovremmo parlare di leader in contrapposizione

a gregari, ma di una certa misura di leadership investita in determinate

persone, possono essere convenientemente definiti leader quei membri

del gruppo che cospicuamente influenzano il gruppo»290.

Non dobbiamo pensare a modalità di comando valide in astratto; lo stesso stile

direzionale può avere successo in determinate circostanze ed essere fallimentare in altre.

A decretare successo o insuccesso sono la tipologia e le finalità dell’organizzazione,

nonché gli obiettivi e i bisogni dei singoli membri. Ad esempio, uno dei processi attivati

dalle organizzazioni, che corrisponde ad un profondo bisogno di chi vi prende parte, è

quello dell’identificarsi con il leader, contenendo la diversità e l’alterità fra gli individui,

anche a costo di ridurre lo spazio di espressione e di sviluppo dell’identità personale. È

un bisogno che è alla base di ogni relazione capo-collaboratore, che però è presente in

misura disomogenea nei diversi gruppi ed è variabile nel tempo. È chiaro, quindi, che un

capo deve modulare il proprio stile di leadership in funzione di tale differenza e

variabilità.

Una questione che fin dalla fine degli anni ’30 ha avuto largo spazio all’interno degli

studi organizzativi è il rapporto fra il grado di “democraticità” della leadership e il

rendimento aziendale. Il “ciclo d’attenzione” fu avviato da un’interessante ricerca

sperimentale condotta da Kurt Lewin su tre gruppi di studenti universitari dell’Iowa: uno

289 Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-4.290 Kreck D., Crytcgfuekd R., Ballachey E., Individuo e società, Firenze, Giunti, 1964, come citato da

Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-4.

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condotto con metodi autoritari, uno con metodi permissivi e il terzo con metodi di tipo

democratico e partecipativo. Nell’esperimento di Lewin le migliori performance furono

realizzate da quest’ultimo gruppo291. Una conclusione che ha avuto nei decenni successivi

vari tentativi di conferma empirica, non sempre con esito conforme. Si è cioè visto come

il rendimento non dipenda sempre e solo dal grado di soddisfazione dei dipendenti; dove i

lavori sono ad esempio più semplici e ripetitivi e non c’è alcun modo per modificare la

natura e il grado di autonomia delle mansioni, i migliori risultati si ottengono proprio con

metodi autoritari.

Rensis Likert individua quattro stili di leadership: autoritario-sfruttatorio, paternalistico,

consultivo e partecipativo292. I primi due modelli sono i più indicati nell’ipotesi di lavori

ripetitivi e monotoni. Per quella categoria di mansioni professionali che egli chiama

“lavori variati”, invece, dove c’è un maggior spazio per l’autonomia e la creatività dei

dipendenti, essi riescono a raggiungere alti livelli di performance nel breve periodo, ma

dopo poco la curva del rendimento tende ad appiattirsi e, in alcuni casi, a calare a

vantaggio dei modelli di tipo consultivo e partecipativo.

Secondo Robert Blake e Jane Mouton293, lo stile di leadership può essere rappresentato

come la combinazione di due variabili: l’orientamento alla funzione e l’orientamento alle

persone. Quando il primo è alto e il secondo è basso, lo stile si caratterizzerà come

decisamente autoritario e la motivazione ed il coinvolgimento da parte dei lavoratori

saranno minimi. Ma anche la situazione inversa risulta poco produttiva, dato che gli

sforzi del management saranno rivolti alla conservazione del clima aziendale con un

eccessivo lassismo rispetto ai compiti. Le posizioni in cui un alto orientamento alle

persone si accompagna ad una altrettanto alta tensione verso i risultati, corrispondente a

quello che viene chiamato lo stile partecipativo, rappresentano per questi autori senz’altro

il mix più auspicabile.

La scelta dello stile di leadership, secondo Bernard Bass e Gerald Barrett294, non può

essere assunta a priori, ma dev’essere fatta in ragione di vari fattori:

- le caratteristiche individuali dello stesso leader, come i tratti della personalità o come

la formazione e le esperienze pregresse;291 Riportato da Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, cit., p. 110, che a sua volta cita come fonte

indiretta White R., Lipett R., Autocracy and Democracy, New York, Harper, 1969.292 Likert R. (1967), The human organization: its management and value, trad. it. Il fattore umano nella

organizazione, Milano Esedi, 1971.293 Blake R.R., Mouton J.S. (1969), The managerial grid, trad. it. Gli stili di direzione, Milano, Etas

Libri, 1969, pp. 232-233.294 Bass B.M., Barrett G.V., People, work and organization, Boston, Allyn and Bacon, 1982, pp. 193-

195.

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- lo stile direzionale e i condizionamenti posti in essere dai superiori o dai pari grado

(effetto “a cascata”);

- le funzioni da svolgere e il grado di autonomia richiesta ai collaboratori;

- la maggiore o minore formalizzazione del contesto intra-organizzativo e la maggiore

o minore dinamicità dell’ambiente esterno (mercato);

- caratteristiche dei subordinati, la loro professionalità, le loro motivazioni, il grado di

conflittualità che esprimono.

Rispetto alle caratteristiche dei subordinati e all’adeguatezza o meno degli stili di

leadership in funzione proprio di tali caratteristiche, è doveroso citare Kenneth

Blanchard295, il quale individua quattro tipologie:

S1: stile direttivo, che è orientato ai risultati e lascia poco spazio all’autonomia

personale o ai rapporti umani;

S2: stile moderatamente amichevole, che presta ancora attenzione ai risultati, ma lascia

spazio al valore dei rapporti umani;

S3: stile amichevole, in cui l’attenzione ai risultati e alle capacità professionali è bassa,

mentre è alta l’attenzione al clima del gruppo e al sostegno emotivo dei

collaboratori;

S4: stile della delega, in cui il leader “molla la presa” sul gruppo, lasciando che

cammini in autonomia.

Anche secondo questa prospettiva non esiste un modello valido in astratto, ma la validità

dipende dall’adeguatezza rispetto alla situazione – leadership situazionale – e in

particolare in relazione al grado di maturità dei collaboratori. Così, lo stile S1 sarà

richiesto quando i collaboratori dispongono di scarsa esperienza, di bassi livelli di

motivazione e di poche competenze. Man mano che queste aumentano, verrebbe

progressivamente meno la necessità della direzione e del sostegno e si renderebbe

necessario passare ad altri stili direzionali (S2, S3 e S4).

4.4 Le competenze del manager

295 Blanchard K. (1997), Managing by values, trad. it. Il Manager etico, Milano, Sperlign&Kupfer, 1998.

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Esiste una sterminata letteratura sul tema del management, in particolare quello aziendale, e in merito alle caratteristiche, alle conoscenze e alle abilità del manager. Si tratta, per la maggior parte, di manuali con uno spiccato taglio prescrittivo, che indicano supposti “sapere, saper fare e saper essere” del capo. Una produzione editoriale, che segue l’estrema dinamicità del mercato delle teorie, dei servizi di consulenza e di formazione aziendale e le mode che attraversano questo mercato.

La domanda a cui rispondono è legata a un’esigenza di sviluppo delle risorse umane impiegate in ruoli direttivi, ma anche di valutazione e di incentivazione retributiva.

Marco Fertonani1 fa osservare come si è passati negli ultimi due decenni da sistemi valutativi incentrati sulla posizione, sulle prestazioni e sul potenziale (la “regola delle tre P”) a sistemi che prendono in considerazione un concetto più complesso e articolato: le competenze.

«Nella sua formulazione più recente – che in qualche misura si discosta

dall’impostazione originaria di McClelland, Boyatzis e Spencer – le competenze

diventano un modo di estrinsecazione a livello umano della vision e della mission

aziendale. In altre parole, ciascuna azienda, quale conseguenza dell’elaborazione

dei valori fondamentali che devono improntare l’organizzazione, sia come

impostazione generale (vision), sia come strategia di attuazione di questi valori

(mission), definisce quelle che vengono appunto chiamate, con un termine ormai

entrato nell’uso corrente le “core competencies”, cioè quelle caratteristiche

soprattutto manageriali che uniscono gli aspetti organizzativi agli stili di

conduzione: un mix di competenze, appunto, che devono connotare

l’organizzazione nei suoi comportamenti, nella sua cultura specifica, nel suo stile,

in tutto quello che caratterizza l’azienda nella sua individualità e diversità da altre

aziende, in quello che dovrebbe caratterizzare il suo modo di operare per ottenere il

successo sulla base del suo modo di concepire il business»2.

In tal senso, il movimento delle competenze in ambito manageriale si avvicina ad altri

filoni di studio, che mettono l’accento su aspetti come i principi, i valori, i fondamenti

etici, ecc.

Su questa linea si trova, ad esempio, il “managing by values” di Blanchard3. Il “saper

fare” del manager e le sue competenze sono strettamente correlati ai valori che

l’organizzazione si dà. Per sviluppare le competenze, quindi, è necessario avere chiari e

definiti i valori che devono ispirare l’organizzazione e soprattutto la gerarchia, cioè

1 Fertonani M., Le competenze manageriali, cit.2 Ivi, p. 142.3 Blanchard K., Il Manager etico, cit.

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l’ordine di priorità, fra questi valori, nel caso non infrequente che si crei una situazione di

conflitto fra le diverse istanze.

Tra le competenze manageriali, un particolare spazio occupa il coaching4, cioè la

competenza del capo nel saper coordinare, accompagnare, potenziare i propri

collaboratori. Questo perché sempre più gli obiettivi di natura economico-gestionale si

accompagnano ad obiettivi di sviluppo dell’organizzazione stessa e della sua più grande

risorsa, il personale.

Il termine coaching, frequentemente utilizzato nella letteratura sul management,

introduce la metafora del manager come allenatore, che ha trovato risonanza in molti

contributi, tra cui quello di Giuseppe Negro:

«Sempre più la complessità regola la vita delle organizzazioni: ciò richiede

manager altamente preparati e professionali. Non sono più sufficienti doti tecniche,

conoscenze specialistiche, capacità di comando, abilità di programmazione e

controllo, occorrono nuovi riferimenti che siano prima di tutto culturali e poi

metodologici e strumentali. L’arte, la poesia, lo sport, possono fornire ai manager

nuovi paradigmi che generano spunti, riflessioni e indicazioni interessanti. [...] La

figura dell’allenatore accorpa molte delle dimensioni oggi richieste al buon

manager, per questo il parallelo utilizzato ci sembra esser pertinente»5.

Il successo di questa metafora è legato, chiaramente, ai molti spunti che offre rispetto alle

competenze che deve acquisire il capo: motivare la squadra al raggiungimento dei

risultati, predisporre le strategie e gli schemi di gioco, assegnare i ruoli, stabilire gli

obiettivi, sviluppare le competenze dei giocatori e la coesione del gruppo, ecc.

È una metafora che “piace” ai manager, perché rimanda a contesti organizzativi molto

differenti rispetto all’ambiente d’ufficio o alla fabbrica: rimanda a palestre, a campi di

calcio, a piste di atletica, in cui ognuno è lì per divertirsi e raggiungere assieme risultati

condivisi.

È una metafora, quindi, che in qualche misura avvicina l’organizzazione di tipo

burocratico a modelli organizzativi molto distanti dal punto di vista culturale.

4.5 Il manager sociale

4 dall’inglese “coach” che significa allenatore.5 Negro G., Il manager allenatore., Milano, Guerini e Associati, 2001, pp. 10-11.

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Parlare del manager al singolare può far pensare al fatto che ci troviamo di fronte ad una

realtà omogenea, ad una figura professionale ben definita. In realtà il profilo del manager

risente molto del contesto in cui egli si trova ad operare.

Tra le diverse tassonomie che possono essere prese in considerazione per cercare di

“mappare” tale costellazione di differenti profili manageriali, credo di particolare

interesse quella proposta da Susanna Galli e Mauro Tomè, nella quale si vanno ad

individuare quattro tipologie di manager6. Va chiarito fin da subito che tale suddivisione

nella realtà non è mai netta, ma lascia anzi spazio a delle forme di “ibridazione” fra le

categorie, in relazione anche alle caratteristiche particolari del contesto organizzativo,

nonché alle peculiarità personali del singolo manager.

Queste quattro tipologie nascono dall’incrocio di due dimensioni portanti del lavoro

manageriale: l’oggetto del lavoro, ossia il “cosa”, ciò che si produce, e il “come”, vale a

dire le modalità con le quali quella “cosa” viene prodotta.

Il prodotto di ogni lavoro – il “cosa” – varia in termini di riconoscibilità esterna, cioè può

essere immediatamente riconoscibile ed apprezzabile dagli altri o richiedere un percorso

più o meno articolato di interpretazione e di attribuzione di valore.

Anche le modalità di realizzazione del lavoro variano, in quanto possono risultare più

spinte sul versante relazionale piuttosto che su quello dell’operatività concreta.

Orientamentoalla relazionalità

Manager sociale

Managersanitario

C O S AProdotto riconoscibile

COME

Prodottointerpretabile

Managerfor-profit

Managerpubblico

Orientamentoall’operatività

Fig. 2 – Tipi di manager

6 Galli S., Tomè M., Il manager sociale. Identità e competenze per coordinare e dirigere nel welfare, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 36-40.

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Esisterebbe quindi, secondo gli autori, una prima tipologia, il manager for-profit, il cui

lavoro produce qualcosa di ben riconoscibile e misurabile, ossia il profitto, e che si

orienta principalmente all’operatività.

Vi sarebbe poi la tipologia del manager sanitario, per il quale permangono alti livelli di

riconoscibilità del prodotto – sia in termini di prestazioni erogate che di risultati di salute

– associati ad un consistente investimento sul piano relazionale.

La tipologia del manager pubblico, invece, rappresenterebbe una figura fortemente

orientata alla realizzazione concreta di prodotti – provvedimenti, atti, circolari, ecc. – che

però risultano spesso difficilmente riconoscibili e valutabili dai destinatari finali e in

genere dall’esterno.

Vi sarebbe infine una tipologia di manager, che si ritrova precipuamente nei servizi alla

persona e che viene definito manager sociale, il cui “oggetto” di lavoro – come per il

manager pubblico – risulta difficilmente misurabile ma che, analogamente al manager

sanitario, investe molto del suo tempo e delle sue energie nella relazione. Questo manager

“è definito sociale proprio perché è nel sociale che trova scopo e senso del suo agire” 7.

Si tratta invero, secondo quanto è stato recentemente messo in luce in una ricerca svolta

nella Provincia di Milano, di una figura professionale tuttora in fase di formazione, la

quale ha ancora uno scarso livello di autoconsapevolezza8. Molti dei professionisti che

hanno partecipato alla ricerca, infatti, faticano a riconoscersi quali manager – e in

particolare quali manager sociali – evidenziando un più spiccato senso di appartenenza

alla categoria professionale di provenienza (psicologi, sociologi, assistenti sociali, ecc.) e

soprattutto alla propria organizzazione (sia essa una Pubblica Amministrazione ovvero un

soggetto del cosiddetto “privato sociale”).

Del resto il manager trova la propria qualificazione nel rapporto che egli intrattiene con

l’organizzazione. Il manager non può esistere senza la propria struttura di riferimento e

quindi non si può analizzare tale figura professionale in modo avulso rispetto al suo

contesto.

Credo, questo, un passaggio fondamentale nella costruzione di un discorso sul manager

sociale e sulla sua dimensione etica. A differenza di molte altre professioni di analogo

livello, pensiamo al medico o all’avvocato, i quali possono esprimere i loro saperi

all’interno di un’organizzazione – un ospedale o un’azienda – come pure attraverso la

7 Ivi, p. 39.8 Provincia di Milano, documento conclusivo della ricerca sul manager sociale, paper inedito, come

citato da Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit., p. 40.

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libera professione, il lavoro del manager può svolgersi ed acquista senso solo se si

inserisce in un’organizzazione. Questo legame organico è quindi costitutivo della stessa

identità professionale del manager, che si modifica in funzione dell’organizzazione.

Il profilo del manager sociale – e, conseguentemente il suo sistema etico-valoriale di

riferimento – varia se la struttura nella quale egli opera è un ente pubblico piuttosto che

una struttura privata o se l’istituzione eroga servizi agli anziani piuttosto che ai minori,

ecc.

Ma il profilo del manager sociale può variare anche in funzione del grado di

responsabilità che egli assume all’interno della stessa organizzazione. Vi possono essere,

infatti, specie nelle organizzazioni complesse, più livelli manageriali. Un primo livello è

quello apicale, a più stretto contatto con l’organo politico, che concorre a definire le linee

strategiche dell’organizzazione. Vi è poi, in molte organizzazioni, un livello intermedio,

quello direttivo, che presidia i livelli di efficacia ed efficienza del servizio. Vi è infine un

livello di management operativo, nel quale il “capo” ha la responsabilità del

coordinamento degli operatori e si trova con maggiore frequenza a diretto contatto con

l’utenza9.

Per questo anche dietro l’etichetta “manager sociale” viene ad essere rappresentato un variegato insieme di diverse realtà professionali, che si diversificano in funzione della tipologia organizzativa, ma anche del livello che il singolo professionista occupa all’interno dell’organizzazione.

Si possono individuare comunque alcuni tratti comuni alla “categoria”. Uno di questi viene indicato da Giuseppe Varchetta nella “sfida della cura”, cioè nel doversi misurare con la ricerca del senso di un agire a sostegno delle persone in situazioni di fragilità e sofferenza.

«La sfida della cura contiene la prospettiva di calare il processo di costruzione del

significato delle esperienze di cura all’interno di un universo simbolico capace di

dare, riconoscere valore a un insieme di pratiche sempre più sentite da molti come

essenziali»1.

9 Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit., p. 55.1 Varchetta G., La sfida della cura: le istituzioni che curano, in Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit., p. 72.

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Il manager sociale, infatti, è parte integrante di “un’istituzione che cura” e di questa cura deve trovare e testimoniare il senso profondo.

Quella del sense making, cioè della ricerca e della attribuzione del senso all’esperienza propria e dei propri collaboratori è quindi una competenza particolarmente importante per il manager sociale. Essa presuppone la capacità di connettere azioni e vissuti che si presentano spesso in modo frammentario e disorganico, dando loro una forma. Ciò richiede al manager sociale la disponibilità a dedicare tempo al pensiero riflessivo, la capacità di introspezione e di autoanalisi, l’attitudine all’ascolto, la propensione narrativa a raccontare e raccontarsi1.

1 Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit., p. 138.

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5

La ricerca sul campo

Le avventure capitano solo a chi le sa raccontare.

Henry James

5.1 Ricerca e narrazione (della ricerca).

Riprendo qui quanto espresso nel primo capitolo, in merito al fatto che una ricerca non va

intesa come un processo “meccanico” di applicazione di un metodo predefinito, bensì

come un percorso attraverso il quale si definisce tale metodo. Il metodo, quindi, “emerge”

nel corso stesso della ricerca, quale prodotto di un agire riflessivo.

Un’altra indicazione che richiamo dal primo capitolo è l’opzione per un approccio mixed

methods, cioè per un approccio in cui i metodi, intesi in questo caso nel senso di tecniche

e strumenti operativi specifici, si integrano fra di loro, come dei fili che si intrecciano per

formare un unico tessuto.

Il primo di questi metodi, che ha acquisito via via rilievo, tanto da assurgere alla funzione

di “trama” nella tessitura della presente ricerca, è la Narrative Inquiry.

Questa scelta è scaturita dal progressivo rafforzarsi del mio interesse di ricerca non tanto

verso l’etica “dichiarata”, quanto piuttosto rispetto alle “conoscenze tacite”2 che vengono

ad affiorare nel corso dell’esperienza vissuta dell’agire morale. Tale esperienza non può

essere conosciuta dal ricercatore, se non attraverso il racconto. È attraverso il racconto da

me raccolto come ricercatore, che posso conoscere l’esperienza vissuta da quel singolo

manager sociale nel proprio contesto organizzativo. Non solo, ma è giusto attraverso il

racconto che questi fa tra sé e sé, come sottolinea Mortari, che egli stesso “conosce” la

sua propria esperienza.

«È il narrare che dà corpo all’esperienza. Quando un’esperienza non è raccontata si

dilegua, non assume realtà. […] Quando si deve rendere conto di un’esperienza il

raccontare, a noi stessi e/o agli altri, è il modo linguistico più adeguato. […] Il

2 Polanyi M., La conoscenza inespressa, cit.

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raccontare è attività fondante di un processo epistemico, nel senso che lo struttura

intimamente»3.

Non è l’esperienza, quindi, ciò che faccio oggetto del mio ricercare, ma il racconto che

ricrea tale esperienza, dandovi forma e sostanza. Ed è su questo che si basa la Narrative

Inquiry.

«La ricerca narrativa si fonda sul presupposto secondo il quale alle persone

piacerebbe raccontare la loro esperienza sotto forma di storie e che questo

raccontare contribuisca a creare […]. Il raccontare storie avrebbe infatti una forza

strutturante l’esperienza, poiché raccontando si imprime una forma al vissuto. Si

parla per questo di potere demiurgico del racconto»4.

Il racconto quindi costruisce il proprio mondo. Esso non riproduce, in termini di

rappresentazione isomorfa, una realtà che esiste “là fuori”, ma la crea. Il racconto è

sempre poetico, in quanto attiene al fare creativo, alla poiesis5.

Nel costruire la propria storia, le persone mettono molto di sé, dei propri desideri, delle

proprie paure, delle pre-comprensioni che hanno rispetto alla realtà.

Come sostiene Simonetta Simoni, il problema della verità della narrazione (e, in parte,

della sua veridicità). passa in secondo piano. L’attenzione va posta sulle modalità con cui

viene costruita la “verità” che coinvolge in quel momento narratore e ascoltatore: qual è

la posizione di chi racconta, il suo punto di vista rispetto a quel tema, il suo sforzo di

capire meglio se stesso, il contesto in cui lavora e le relazioni con gli altri6.

Il racconto si rinnova con il tempo e, spesso, varia in funzione dell’ascoltatore per il quale

viene confezionato.

Una creazione che è libera, ma non è mai “anarchica”, in quanto risponde

necessariamente a delle regole. Del resto la creatività necessita per esprimersi di

disciplina, di regolarità e regole. Sono regole non scritte, che definiscono ciò che si può

dire e ciò che non si può dire – perché non tutto è dicibile – e soprattutto regole che

normano come si può parlare di determinate cose7.

3 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 179.4 Ivi, p. 180.5 Il termine “poeta” deriva infatti dal greco poiein, che significa appunto, fare, creare.6 Cfr. Simoni S., Le culture organizzative dei servizi. La sociologia dell’organizzazione e i servizi alla

persona, Roma, Carocci, 2003, pp. 109-110.7 Come vedremo in seguito, nelle narrazioni che ho raccolto nel corso della ricerca ci stanno molti

sottointesi, molte frasi interrotte con i puntini di sospensione, perché su certe cose… ci si capisce.

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Di solito la storia prende avvio da un evento critico e si articola in una serie di vicende,

concatenate fra loro da vincoli causali, che generalmente si concludono con una

soluzione, anche provvisoria.

Un secondo motivo, che mi ha portato a scegliere l’approccio della Narrative Inquiry, è

l’idea, che si è andata man mano chiarificando, di un’etica intesa non come mero

ossequio a delle norme morali, bensì come “costruzione di senso”, come ricerca e

generazione del significato del proprio agire.

Questo significato non sta nell’atto in sé ma nell’agente e quindi solo il racconto da parte

dello stesso può avvicinarvisi. La narrazione permette, appunto, di cogliere il significato

come un oggettivo esame dei fatti non sarebbe in grado di fare, portando alla luce le

intenzioni che stanno dietro all’agire. Le idee, ma anche le emozioni, che di solito

rimangono represse e che proprio la dimensione “controllata” del racconto riesce a far

emergere.

Prendere come oggetto di ricerca la narrazione corrisponde anche ad un altro interesse

specifico del mio studio, che si indirizza alla dimensione dell’apprendimento

situazionale: come il manager sociale “impara” l’etica nel quotidiano confronto con la

sua “circostanza”, con la sua pratica professionale, con le persone che gli stanno

attorno… Il racconto, in questo senso, può davvero aiutarci a cogliere questo processo di

apprendimento nel suo svolgersi.

La narrazione non solo ci dà conto del “farsi” del processo di apprendimento, ma è essa

stessa dispositivo di apprendimento. La narrazione può avere, infatti, la funzione per il

singolo di recuperare vissuti e ripensare alla propria esperienza, mediando quindi nuovi

apprendimenti.

Ma le narrazioni, come afferma Simoni, possono anche avere, all’interno dei contesti

professionali, la straordinaria capacità di trasferire conoscenze e di veicolare

apprendimenti organizzativi. Per i gruppi di lavoro, infatti, esse costituiscono un

materiale prezioso, su cui confrontare e condividere significati, eventualmente anche per

trasmettere valori, soluzioni da adottare e regole che incoraggiano alcuni comportamenti

e ne scoraggiano altri8.

Per l’organizzazione le narrazioni possono essere, quindi, veicolo di apprendimento,

perché trasformano le informazioni in una conoscenza che guida l’operatività, ma anche

in un veicolo di cambiamento, attraverso il confronto tra storie alternative e contrastanti.

8 Cfr. Simoni S., Le culture organizzative dei servizi, cit., p. 107.

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«D’altronde, la narrazione è stata, per millenni, la principale forma di conoscenza e

di trasmissione del sapere da una generazione all’altra ed è tuttora nella vita

quotidiana una delle modalità più diffuse, più naturali e facili per comunicare ad

altri la propria esperienza, quello che ci è successo»9.

Nel narrare comunichiamo non solo “quello che ci è successo”, ma anche e soprattutto

ciò che siamo. Vi è, infatti, un ultimo elemento del mio oggetto di ricerca che

“suggerisce” la scelta della metodologia narrativa, che è l’attenzione, che nella mia

indagine vorrei porre, al sé morale. Nella mia ricerca, cioè, non vorrei limitarmi a

descrivere le norme morali che guidano l’azione del manager sociale, ma intenderei

spingermi a delineare come queste vengano ad essere incarnate nell’identità personale del

soggetto morale. Il racconto in questo senso – come ci dice Mortari – dà la migliore

rappresentazione di questa identità, di questo sé. Un sé che, secondo il paradigma

ecologico, non è oggettivamente dato ma si costruisce nella narrazione.

«Nella prospettiva della gnoseologia realista, il raccontare non farebbe altro che

portare alla luce una realtà sostanziale sottostante, quella del sé che avrebbe già un

suo profilo oggettivamente dato, che attenderebbe solo la parola capace di

nominarlo; invece, con la svolta linguistica, il raccontare diventa un atto costitutivo,

che produce una costruzione retorica del sé»10.

Questa visione dell’identità personale corrisponde a ciò che Nucci ci indica essere il sé

morale, rappresentato appunto dalla storia che raccontiamo a noi stessi su ciò che noi

siamo e soprattutto su ciò che noi vogliamo essere.11

L’analisi delle narrazioni che andrò ad evocare nel corso della mia indagine intendono

appunto disvelare, con il rispetto e la delicatezza dovuti, questa intima concezione del sé.

La narrazione rappresenta per la Narrative Inquiry non solo l’oggetto della ricerca, ma

anche e soprattutto la componente fondamentale del metodo di ricerca, il modo di

procedere e di rendere conto dell’indagine e del suo svolgimento.

Nella letteratura anglofona sull’argomento, infatti, il termine narrative sta proprio ad

indicare la narrazione che il ricercatore fa del proprio processo di ricerca, mentre le

diverse narrazioni che egli raccoglie ed analizza nel corso dell’indagine vengono indicate

con il vocabolo stories12.

9 Ibidem.10 Cfr. Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 180.11 Cfr. Nucci L.P., Educare il pensiero morale, cit., p. 150. Si veda al riguardo quanto detto nel par. 3.4.12 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 177.

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Qualsiasi attività di ricerca, anche quella improntata alla più stretta osservanza del

paradigma positivistico, è costellata di eventi, di vicende, di incidenti significativi. Un

approccio improntato al mito dell’oggettività, della descrizione asettica, chiaramente terrà

questi aspetti sullo sfondo; tenderà a contenerli e ad ignorarli, come delle fastidiose

interferenze.

Negli approcci che si ispirano invece al paradigma ecologico, come la Narrative Inquiry,

questi elementi accidentali diventano parte integrante del procedere scientifico.

Questo tipo di approccio supera il primato di un sapere scientifico guidato dalla logica

della linearità causale, della descrizione analitica, della “spiegazione”, della validazione

secondo il criterio vero-falso. La logica del sapere narrativo, infatti, è prevalentemente

circolare, olistica, mira alla comprensione di quello che accade, ricostruendone i

significati legati al contesto specifico.

Quello che viene postulato non è tanto la contrapposizione di un paradigma rispetto

all’altro, quanto, semmai, il superamento di questa contrapposizione, in modo che l’uno

lasci spazio anche all’altro. Perché il sapere scientifico, nelle sue diverse sfaccettature, e

il sapere narrativo possono coesistere, integrarsi e sostenersi vicendevolmente.

Una ricomposizione sostenuta da eminenti filosofi della scienza, come Jean François

Lyotard, il quale afferma che in realtà il sapere narrativo è una metafora che attraversa

anche il sapere scientifico e che lo scienziato altri non è che un “narratore di piccole

storie”13.

La ricerca è – come ci ricorda Mortari – un’esperienza e come tutte le esperienze può

essere raccontata ed è questo ciò che fa, in buona sostanza, la Narrative Inquiry14.

Il narrare l’esperienza euristica che si compie facendo ricerca fa emerge il significato, il

quale prende corpo nello svolgersi stesso del racconto15.

Ma anche questo racconto rinuncia alle pretese della rigorosa riproduzione del reale. Una

buona narrazione dell’esperienza di ricerca non si pone la questione della verità di quanto

si va raccontando, ma si preoccupa innanzitutto di restituire “orizzonti di senso” 16. Un

senso e un significato che si costruiscono nel corso della ricerca.

Si tratta di un approccio che, come ci indicano Giuseppe Mantovani e Anna Spagnolli,

risulta sempre più accettato nell’ambito della ricerca sociale.

13 Cfr. Lyotard J.F. (1979), La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 108.

14 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 177.15 Ivi, p. 183.16 Ivi, p. 184.

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«La maggior parte dei ricercatori sociali non è più disposta a credere che esistano

dei “dati” da estrarre nelle persone, come diamanti sepolti nelle profondità di una

miniera, da portare alla luce il più possibile puri, integri, intatti. […] Esiste ora nella

ricerca sociale una diffusa consapevolezza del fatto che non ci sono “dati oggettivi”

da “trovare”, ma costruzioni che vengono prodotte nel corso dell’attività di

ricerca»17.

Nell’indagine narrativa il ricercatore analizza le storie mediante un processo di sense-

making, cioè di elaborazione del significato. Il significato non è dunque un “diamante

sepolto”, che va semplicemente dissotterrato e “ripulito”, ma qualcosa che viene

“costruito” dal ricercatore. Il criterio di validazione non è tanto quello della “verità”,

quanto quello della “fedeltà”: l’elaborazione è fedele se riesce a “rendere” il senso di

quello che il narratore intende dire, cosa che si riesce a fare solo se tra ricercatore e

partecipante si crea un autentico rapporto dialogico18.

Di questo processo, il ricercatore deve dare conto attraverso la narrazione di ciò che fa:

da dove è partita la ricerca, come ha reclutato i partecipanti, come si è evoluta nel tempo

la struttura dell’indagine, come sono stati elaborati i dati, ecc.

«Nell’approccio narrativo, come in tutta la cultura ecologica della ricerca, rigore e

precisione non dipendono dall’applicazione di certi dispositivi tecnici, ma dal

rendere esplicito, e quindi sottoponibile al giudizio critico, il processo di

costruzione della ricerca, quello che nei rapporti classici viene tacitato perché tutta

l’attenzione è posta sul prodotto»19.

La narrazione deve esplicitare non solo quello che il ricercatore fa, ma anche e soprattutto

ciò che egli pensa. Deve cioè dar conto dell’esperienza interiore, di quella che è – per

usare un’espressione di Arendt – la “vita della mente”20. Dar voce ai pensieri che

accompagnano la ricerca, raccontare ciò che si pensa, ma anche ciò che si sente. Questo

richiede al ricercatore una postura cognitiva che riesca ad accogliere anche la dimensione

emotiva del fare ricerca.

17 Mantovani G., Spagnoli A., Metodi qualitativi in psicologia, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 23.18 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., pp. 181-182. L’Autrice qui si rifà allo studio di

Blumenfeld-Jones D, Fidelity as a criterion for practising and evalutating narrative inquiry, in “Qualitatives Studies in Education”, n. 8/1995,p. 25-35. Questi parla, a tal proposito, di “betweeness”, per indicare lo speciale legame che deve intercorrere tra i due soggetti. Sul rapporto dialogico si veda in particolare Buber M. (1923), Ich und Du, trad. it. Il principio dialogico, Milano, Edizioni Comunità, 1958.

19 Ivi, p. 188.20 Arendt H., La vita della mente, cit.

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«Il razionalismo dominante con cui interpretiamo la ricerca ci fa stare, invece,

distratti rispetto al sentire. Accade, però, che quando il sentire sfugge alla

riflessione, quando perdiamo una parte di sapere, allora la narrazione si fa neutra e

in questa anestesia del sentire si smarrisce il potere ermeneutico. Elevare il sentire a

sapere e, dunque, elaborare riflessivamente l’esperienza emozionale dà sostanza

vitale alla narrazione»21.

Del resto un racconto non è quasi mai neutro, dal punto di vista emotivo: muove

generalmente dei sentimenti, che possono essere di adesione o di rifiuto. Un buon

racconto è quello che riesce a sollecitare l’interesse e la partecipazione dell’ascoltatore

tanto sul piano cognitivo quanto su quello emotivo, sviluppando elaborazioni concettuali,

ma anche richiamando in lui vissuti personali, ricordi, risonanze interiori.

5.2 Da dove partiamo?

Credo opportuno iniziare il “racconto” della mia ricerca con un riferimento

autobiografico che risale a parecchio tempo fa, al febbraio 1998, quando ho iniziato a

lavorare per il Comune di Schio come responsabile dei servizi sociali. Mi ero laureato già

da qualche anno, avevo continuato il mio percorso formativo post-laurea con due corsi di

perfezionamento e avevo maturato già un’esperienza lavorativa in ambito amministrativo,

ma il bagaglio di competenze che avevo accumulato – per quanto utile – si dimostrava

alla prova dei fatti insufficiente per far fronte alla complessità del compito che dovevo

svolgere. Fu proprio iniziando a “fare” che incominciai ad apprendere il “mestiere”. Sono

stati anni molto impegnativi, in cui mi sono misurato giorno per giorno con numerosi

problemi lavorativi e con i miei limiti e ho imparato molto, grazie anche al sostegno,

all’aiuto e all’insegnamento ricevuto dalle persone con cui ho collaborato.

Da marzo 2010 ho avviato una nuova esperienza lavorativa come dirigente dei servizi

sociali e abitativi del Comune di Vicenza. Mi sono quindi trovato a confrontarmi con un

contesto organizzativo più complesso, con una realtà sociale più problematica e

soprattutto con un ruolo di maggiore responsabilità. Qui, pur beneficiando delle

conoscenze e competenze maturate nel precedente incarico, ho potuto rivivere l’iniziale

sensazione d’inadeguatezza, che solo il tempo e la pratica riescono a far superare.

21 Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 189.

134

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Penso che competenze professionali di chi fa il mio lavoro – così come, del resto, ogni

altra professione – siano sempre perfettibili e che possano essere sviluppate soprattutto

attraverso la pratica, lavorando.

Ciò senza disconoscere ovviamente il valore e l’importanza della formazione “in aula”,

dello studio personale, delle letture e degli approfondimenti teorici, che ho sempre

considerato necessario portare avanti e integrare il più possibile con l’esperienza

professionale.

Ritengo che questa nota autobiografica sia utile per inquadrare il mio interesse personale

rispetto al tema dell’apprendimento in situazione e alla figura del manager sociale.

Una figura professionale, quella del manager sociale, che avevo già fatto oggetto

d’indagine nella mia tesi di laurea specialistica in Politiche e Servizi Sociali, conseguita

nel 2005. In quella occasione avevo condotto una piccola ricerca sul tema del

management nei servizi sociali di un Comune. Il mettermi a confronto con altri colleghi,

rispetto alla gestione dei servizi, ha rappresentato a quel tempo un’esperienza

significativa per la mia formazione personale e soprattutto per il rafforzamento della mia

identità professionale. L’idea di mantenere, anche in questa ricerca, il focus d’attenzione

sul management dei servizi alla persona ha rappresentato quindi una scelta “naturale”.

Credo, peraltro, che il fatto di condividere con i soggetti partecipanti delle esperienze

analoghe sia un aspetto che favorisce la comprensione e la costruzione del significato,

obiettivo a cui tende l’indagine. Sentivo però la necessità di trovare un ambito

organizzativo diverso dai servizi sociali comunali. Questo perché ritenevo che una

differente “ambientazione” potesse fornirmi la “giusta distanza” rispetto al mio oggetto di

ricerca, evitando rischi di eccessiva immedesimazione nelle situazioni rappresentate e

favorendo uno sguardo interpretativo più distaccato, senza avere per questo pretese di

neutralità oggettiva.

Inizialmente mi ero orientato sulle Aziende ULSS, che nel Veneto gestiscono, oltre alla

sanità, servizi socio-assistenziali. Ho però optato per le Ipab 22.

Anche questa scelta è molto legata ai “casi della vita”. Nel 2008, infatti, ho partecipato ad

un concorso pubblico per il posto di dirigente in un’ Ipab del Padovano che gestisce

servizi residenziali per anziani. Ho quindi avuto modo di avvicinarmi a questa realtà

istituzionale, che avevo sempre visto da una certa distanza. Per prepararmi alle prove

22 Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza. Si tratta di enti assistenziali istituiti dalla Legge Crispi del 1890, per le quali la legge-quadro dei servizi sociali – L. 328/2000 – prevede la trasformazioni in Aziende pubbliche di Servizi alla Persona (ASP) o in fondazioni private. Nel Veneto tale riforma non è ancora stata introdotta.

135

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d’esame ho studiato a fondo la normativa e sono venuto a conoscenza dell’attività svolta

dall’ “Associazione Nazionale dei manager del Sociale, tra i Direttori ed i Dirigenti di

Istituzioni Pubbliche e Private in ambito assistenziale, socio-sanitario, educativo”

(Ansdipp).23.

Si tratta di un’associazione professionale che opera a livello nazionale, particolarmente

attiva nel Veneto, la quale ha maturato in questi ultimi anni una specifica attenzione allo

sviluppo delle competenze professionali del manager sociale. Da quanto ho rilevato, si

tratta dell’unica associazione professionale tra direttori esistente in Italia24. Raccoglie

soprattutto direttori di Ipab che gestiscono servizi per anziani, anche se possono aderirvi

anche direttori di istituzioni private o che gestiscono altre tipologie di servizi.

I primi contatti con l’Ansdipp sono iniziati partecipando ad alcuni convegni e seminari.

Pur avendo chiaramente un taglio molto centrato sulla gestione delle strutture residenziali

per anziani, l’offerta formativa dell’associazione proponeva anche dei momenti di

approfondimento sul tema del management in generale, che mi interessavano molto in

termini professionali e di studio.

Fin dal primo anno di dottorato avevo quindi individuato questa realtà come un possibile

“interlocutore” per la mia ricerca sulla figura del manager.

La scelta invece della dimensione etica come ambito di approfondimento è maturata nel

tempo e senza, apparentemente, uno specifico episodio biografico ad orientarla. Andando

a rileggere gli appunti personali e la relazione da me prodotta alla fine del primo anno di

dottorato, osservo come l’interesse di ricerca fosse inizialmente indirizzato verso le

competenze professionali del manager sociale in genere, tra cui ricomprendevo anche

quelle “etico-valoriali”.

Penso che siano state le letture da me compiute, tra il primo e il secondo anno, a guidare

questa progressiva focalizzazione sul tema dell’etica professionale. Un percorso di letture

che parte da due autori, Schön e Wenger, per “risalire” alla teoria dell’indagine di Dewey

e da questa agli straordinari scritti del filosofo pragmatista americano sull’educazione

morale.

È da tale percorso di letture, che ha conosciuto invero ampie divagazioni, nonché dalle

riflessioni che lo hanno accompagnato, che sono nate le due ipotesi di ricerca. La prima

23 La denominazione estesa è:.24 Esistono invece altre associazioni che riuniscono gli enti che si occupano della gestione di questi

servizi. Si cita in particolare l’Unione Nazionale Istituzioni e Inisizative di Assistenza Sociale (UNEBA). A livello regionale si segnala invece l’Unione Regionale Istituti per Anziani della Regione Veneto (URIPA)

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collega l’acquisizione/sviluppo dei principi morali professionali all’agire riflessivo che il

manager realizza nel corso della propria pratica lavorativa. La seconda collega lo

sviluppo di tale dimensione etica alla partecipazione da parte del manager ad una

learning organization e ad una comunità di pratica.

Si tratta di due ipotesi che sono andate man mano chiarendosi nel corso del tempo ma che

rimangono necessariamente – in coerenza con l’approccio epistemologico a cui mi

richiamo – delle ipotesi “deboli”, che non hanno nulla a che vedere con concezioni di tipo

deterministico.

Sotteso a queste due ipotesi vi è il presupposto – che si richiama ad una visione di matrice

costruttivista – che i principi morali siano almeno in parte immanenti, cioè siano in

qualche misura costruiti e appresi anche all’interno della pratica.

Un altro presupposto che ha guidato la ricerca è l’idea che esista nei manager, così come

in ogni persona, una divaricazione più o meno ampia tra le “teorie dichiarate” e le “teorie

in uso”, tra l’etica professata e l’etica concretamente agita.

Per fare emergere la seconda – generalmente implicita – ho ritenuto necessario elaborare

una traccia per un’intervista semi-strutturata che puntasse a mettere in evidenza

l’esperienza vissuta. Si tratta di proporre, quindi, domande-stimolo che sollecitassero in

particolare il racconto di storie personali e organizzative, nelle quali gli intervistati si

fossero trovati ad affrontare situazioni “eticamente sensibili”.

TRACCIA DELL’INTERVISTA SEMI-STRUTTURATA1. Qual è stato il suo percorso formativo e professionale?2. Quali sono i principi etici su cui si basa il suo lavoro? 3. Mi può raccontare un episodio in cui, nel suo lavoro, si è trovato a misurarsi con

decisioni eticamente sensibili? È cioè mai “inciampato” in un problema etico? Come l’ha affrontato? Come è cambiato il suo quadro di riferimento?

4. Ha per caso dovuto mai affrontare un dilemma morale nello svolgimento del suo lavoro?

5. Ricorda qualche episodio in cui ha incontrato un conflitto tra norma giuridica e norma etica?

6. Come ritiene sia cresciuta, nel corso degli anni di esperienza professionale, la sua competenza etica? Quali sono stati gli elementi che hanno contribuito a questa crescita?

7. Quale spazio ha avuto ed ha la dimensione associativa o sociale in genere nello sviluppo di tali competenze?

8. Ritiene che tra i compiti del manager vi sia anche quello di far crescere le competenze etiche dei collaboratori? Se sì, in che modo? Ricorda qualche momento in cui è riuscito o non è riuscito a partecipare tali competenze?

9. Qual è il senso del suo lavoro?10. Secondo lei quali sono le proposte formative utili per sostenere le competenze

etiche del manager?Tab. 1 – Traccia dell’intervista semi-strutturata

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Nel comporre e, in un certo qual modo, “perfezionare” la traccia dell’intervista, sono stati

particolarmente utili i colloqui avuti con Damiano Mantovani, Presidente nazionale

dell’Ansdipp, e con Renzo Zanon, che all’interno dell’associazione è Referente per i temi

dell’etica professionale.

Importante per comporre la scaletta di domande delle interviste e per l’individuazione

degli intervistati è stato poi il contatto con Stefano Guerra, della Direzione Servizi Sociali

della Regione Veneto, a cui devo i dati sulle Ipab.

Da questi dati emerge un quadro piuttosto interessante. La presenza di queste istituzioni

pubbliche nel territorio regionale è infatti numericamente rilevante: in totale ci sono 202

enti, diversamente distribuiti nelle sette province. Oltre la metà di questi gestisce in

prevalenza servizi residenziali, semi-residenziali o domiciliari a favore degli anziani. Le

restanti Ipab operano a favore dei minori d’età – soprattutto gestione di scuole

dell’infanzia e asili nido – o nell’area della disabilità, oppure gestiscono altre tipologie di

servizi (scuole professionali, convitti studenteschi, trasporto dei malati, ecc.). Vi è infine

un gruppo di Ipab, dette “elemosiniere”, che non gestiscono direttamente servizi, ma

amministrano dei patrimoni, con i quali – in maniera diretta o indiretta – intervengono a

sostegno di determinate categorie di soggetti bisognosi.

Area

Provincia anzi

ani

min

ori

disa

bili

elem

osin

.

altr

o

Tot.

Belluno 3 4 0 2 1 10

Padova 17 5 1 2 1 26

Rovigo 7 4 0 1 0 12

Treviso 21 17 1 2 2 43

Venezia 13 5 0 3 3 24

Verona 22 16 2 1 2 43

Vicenza 27 8 1 3 5 44

Tot. 110 59 5 14 14 202

Tab. 2 – Ipab del Veneto per Provincia e attività (Fonte: Regione Veneto).

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La scelta di occuparmi in particolare delle Ipab che gestiscono servizi per anziani, già in

sostanza presa per ragioni di interesse personale, ha trovato pertanto un conforto nei dati

numerici, che attestano l’importanza a livello regionale di questa realtà istituzionale.

Compendiando l’esigenza di lavoro in profondità con la necessità di avere un gruppo di

riferimento sufficientemente ampio, ho fissato a dodici il numero dei partecipanti.

Si poneva quindi la necessità di procedere alla scelta dei direttori a cui proporre

l’intervista. Trattandosi di una ricerca qualitativa, i criteri che hanno guidato questa scelta

rispondono ad istanze non di rappresentatività, bensì di significatività. Significatività che

risulta collegata ovviamente a ciò che si vuole conoscere con l’indagine empirica.

Nella mia ricerca mi interessava innanzitutto studiare l’apprendimento situazionale e il

ruolo che in esso giocano le reti relazionali tra i manager dei servizi alla persona, siano

esse reti formali – come un’associazione professionale – o informali – come le comunità

di pratica. Mi interessava però anche avere un quadro abbastanza variegato e composito

di esperienze di direzione in strutture di diverse dimensioni e a livello abbastanza diffuso

e articolato nel territorio regionale.

Conseguentemente, ho adottato una strategia di campionamento a “scelta ragionata”,

sulla base di criteri di massima variazione25.

Il primo criterio di composizione del campione non rappresentativo è stato pertanto

quello dell’appartenenza o meno all’associazione professionale. Sei dei dodici

partecipanti sono stati scelti all’interno di una rosa di nominativi, che mi sono stati forniti

dal presidente nazionale dell’Ansdipp. Si tratta di soci che aderiscono attivamente

all’associazione, alcuni dei quali ricoprono al suo interno anche ruoli direttivi. le

rimanenti sei persone sono state scelte all’esterno dell’associazione, attingendo

dall’elenco fornitomi dalla Regione. Nella scelta di entrambi i sottogruppi, ho cercato

comunque di mantenere una composizione eterogenea rispetto alle dimensioni dell’ente,

al suo contesto sociale – città capoluogo o realtà provinciali – nonché rispetto alla

distribuzione nel territorio regionale. Per ogni struttura ho individuato il soggetto da

intervistare nella persona del Direttore, che in alcuni enti assume la qualifica di

Segretario-Direttore. Nel caso dell’Ipab di Vicenza, la conoscenza diretta e personale mi

ha consentito di selezionare, oltre al Direttore, altre due figure, con qualifica dirigenziale,

il cui apporto poteva fornirmi una rappresentazione diversificata dell’esperienza

manageriale all’interno di un’organizzazione complessa come quella vicentina. In sintesi:25 Cfr. Sorzio P., Struttura e processi nella ricerca qualitativa in educazione, cit., p. 50. Secondo l’Autore

questo tipo di campionamento si presta in particolare per cercare configurazioni comuni al variare di alcune caratteristiche rilevanti per la ricerca.

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Ipab Comune DirigentiCasa di Riposo di Noventa Padovana Noventa Padovana (Pd). Raffaella Celin

I.R.A. - Istituto di Riposo per Anziani Padova (Pd). Sandra Nicoletto

Casa Albergo Per Anziani Lendinara (Ro). Damiano MantovaniI.S.R.A.A. - Istituti per Servizi di Ricovero e Assistenza Anziani Treviso (Tv). Giorgio Pavan

Casa Di Riposo Guizzo Marseille Volpago del Montello (Tv). Barbara Militello

Antica Scuola dei Battuti - Ente per la Gestione dei servizi per la persona anziana

Mestre-Venezia (Ve). Marino Favaretto

I.R.E. - Istituzioni di Ricovero ed Educazione Venezia (Ve). Lupo Nardi

I.A.A. - Istituto Assistenza Anziani Verona (Vr). Dino Verdolin

Casa di Riposo Serse Panizzoni Camisano Vicentino (Vi). Maddalena Dalla Pozza

Ipab di Vicenza Vicenza (Vi).Franco ZaccariaPatrizia ScalabrinPaolo Rossi

Tab. 3 – Elenco partecipanti

I contatti iniziali sono stati attivati generalmente tramite e-mail, a cui è seguita una

telefonata per raccogliere l’adesione e organizzare l’incontro. Tutti i soggetti individuati

hanno dato la loro disponibilità e pertanto non è stato necessario procedere a sostituzioni.

La ricerca sul campo ha materialmente preso avvio nel mese di aprile e si è conclusa nel

mese di settembre del 2011. Le interviste duravano circa un’ora e venivano documentate

con l’ausilio di un registratore-audio. Ho mantenuto per tutte la domanda di “apertura”

sul percorso professionale, che ho constatato essere un buon modo per mettere a proprio

agio l’interlocutore e “creare” il clima. Per il resto, pur avendo una scaletta di domande,

ho volutamente lasciato gli intervistati molti liberi di spaziare.

In complesso la partecipazione è stata molto buona. Credo che un fattore di successo sia

stato l’aver definito in anticipo, assieme all’interessato, alcuni elementi che potevano

risultare problematici. Ad esempio, fin dalla prima e-mail, ma anche nel contatto

telefonico, ho specificato la durata dell’incontro – aspetto fondamentale per riuscire a

condurre un’intervista narrativa – in modo da poterlo realizzare in momenti di maggiore

tranquillità. Un altro accorgimento utile è stato, nel richiedere l’autorizzazione per la

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registrazione-audio, garantire l’invio delle trascrizioni ai diretti interessati per eventuali

rettifiche o integrazioni.

Un altro fattore di successo credo sia legato comunque all’argomento, al fatto cioè che

nell’intervista ai manager si chiedeva di parlare di loro stessi, del loro lavoro e delle

competenze che questo richiede, specie rispetto ad un ambito così complesso come quello

dell’etica professionale.

5.3 L’analisi con ATLAS.ti

Per l’analisi delle interviste ho ritenuto opportuno avvalermi del software Atlas.ti

(versione 5.0). Si tratta di un programma che consente la codifica dei testi e

l’individuazione – al loro interno – di nessi logici, al fine di elaborare dei modelli teorici

congruenti26. Uno strumento quindi specificamente pensato per analisi di tipo induttivo –

nasce infatti come applicativo a supporto delle ricerche che si richiamano al modello

della Grounded Theory – ma che si presta con grande versatilità anche ad essere

utilizzato in altri tipi d’indagine.

L’impiego che ho fatto di tale software ha sfruttato solo parzialmente le vaste potenzialità

da esso offerte, come pure il ricorso alla Grounded Theory si è limitato solamente alla

fase di codifica e interpretazione dei dati. Va ribadito, infatti, che tale teoria prevede un

procedere radicalmente induttivo, in cui il ricercatore individua solamente l’ambito

d’indagine, mentre ogni teorizzazione nasce dal processo circolare di raccolta dei dati sul

campo, sistemazione, interpretazione27.

Nel mio caso, per una parte degli obiettivi conoscitivi che mi proponevo di perseguire

con la ricerca, avevo già una teoria di riferimento – anzi più di una – e avevo anche delle

ipotesi di ricerca – seppure “deboli” – relative a come il manager sociale in genere

acquisisce le competenze etiche all’interno della pratica riflessiva e nel confronto

relazionale con gli altri. Per questa parte della ricerca non si può certo parlare di

approccio induttivo, visto che si indirizza a verificare ipotesi già costruite a monte.

Ma la ricerca si poneva anche e soprattutto l’obiettivo di comprendere una realtà; di

costruire, partendo dal basso, una conoscenza. Ciò che volevo “costruire” induttivamente

26 Cfr. Chiarolanza C., De Gregorio E., L’analisi dei processi psico-sociali. Lavorare con ATLAS.ti, Roma, Carocci, 2007. Di questo software esiste in commercio una versione più aggiornata – 6.0 – che offre funzioni aggiuntive, tra cui anche la possibilità di codificare documenti non testuali (es. foto, disegni, filmati). Per le finalità della mia ricerca ho ritenuto più che adeguata la versione 5.0.

27 Cfr. Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 150.

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erano in particolar modo le “teorie-in-uso” dei manager sociali in merito alle competenze

etiche e a come queste si apprendono; e tale conoscenza poteva essere acquisita solo

assieme a loro, partendo da ciò che del loro sé morale veniva ad essere disvelato nelle

interviste.

Pur non aderendo pienamente al modello della Grounded Theory, ho ritenuto utile

mutuarne, per una parte della ricerca, il modo di procedere “dal basso”, incrociando

questo approccio con un altro più di tipo ipotetico-deduttivo. Questo nella convinzione

che la ricerca si fa tanto più produttiva quanto più riesce a “meticciare” convenientemente

i metodi”28. Il che significa impostare la strategia d’indagine, nonché scegliere le tecniche

e gli strumenti più indicati rispetto allo specifico obiettivo che la ricerca si pone.

Il lavoro di codifica delle interviste è stato preceduto dalla rilettura delle trascrizioni, in

modo da familiarizzare con i contenuti e riuscire, per quanto possibile, ad avere una

visione d’insieme del materiale raccolto. Ho poi dato avvio all’open coding. Questa

funzione consiste nell’evidenziare una quote, cioè una porzione di testo di senso

compiuto – che in alcuni casi poteva essere una singola parola, ma di norma era una frase

o un brano più o meno esteso – e attribuirvi un code, cioè un’espressione sintetica (una

sorta di “etichetta”), che ne descrivesse in sintesi il contenuto. È stato un lavoro

particolarmente complesso, perché il materiale da trattare era corposo – 12 documenti per

un totale di quasi 200 pagine. Ma la difficoltà è stata soprattutto quella di gestire l’elenco

dei codici, il quale si andava ad allungare man mano che procedevo con il lavoro di

codifica: al termine della prima “lettura-filtro” di tutte e le interviste, ne avevo creati circa

150. Molti di questi differivano di poco fra loro, perché descrivevano con parole diverse

lo stesso concetto. Altri erano troppo specifici; ad esempio, per alcuni avevo ritenuto

inizialmente opportuno utilizzare la funzione code in vivo e quindi riportare come

etichetta la stessa quote. Ho dovuto perciò provvedere ad una generale revisione dei

codici, accostando quelli simili e cercando di capire se si potevano fondere, mediante la

funzione merge del software. Per far questo bisognava riprendere le citazioni collegate ai

singoli codici e verificare che effettivamente potessero essere assimilate. In questa

operazione mi è stato utile procedere man mano ad una progressiva suddivisione dei

codici in famiglie e alla creazione di collegamenti – link – tra i codici stessi, utilizzando a

tal fine gli strumenti di rappresentazione grafica forniti dal programma per visualizzare i

network, cioè le reti di codici che si andavano via via a creare. Da questo lavoro è

scaturito un elenco di 87 codici, e 10 “supercodici”, cioè dei codici che non si collegano 28 Ivi, p. 193.

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direttamente a delle quotes, ma che “tengono assieme” degli altri codici. Con questa lista

ho proceduto ad una rilettura, rivedendo integralmente la codifica delle interviste.

Molto utile in questa seconda “lettura” è stata la funzione memo – che avevo utilizzato

poco all’inizio, forse perché dovevo ancora impratichirmi nell’uso dello strumento – la

quale mi ha consentito di fissare alcuni appunti veloci, in modo da ritrovare i pensieri nel

momento della scrittura del report.

Il programma fornisce varie modalità di rappresentazione dei risultati, tra cui la Codes

Primary Document Table, una tabella a doppia entrata che mette in evidenza la ricorrenza

dei diversi codici in ciascuna intervista (P).

INTERVISTE

CODICIP1

P2

P3

P4

P5

P6

P7

P8

P9

P10

P11

P12 TOT.

accogliere la sofferenza 0 0 0 0 0 0 0 0 3 0 2 1 6appartenenza, fedeltà 0 1 3 2 1 1 1 0 3 1 2 1 16apprendimento esperienziale 0 1 0 5 3 0 0 0 3 3 2 2 19assetto organizzativo 2 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 2associazionismo professionale 7 0 4 1 3 1 1 1 1 1 2 0 22attenzione ai collaboratori 1 1 1 0 1 1 0 2 0 2 2 0 11autodeterminazione dell’ospite 5 0 0 2 1 0 0 0 0 0 1 1 10autorevolezza 0 1 0 0 0 0 0 1 1 1 2 0 6aziendalismo 0 1 0 0 0 6 3 2 0 0 1 0 13bellezza 0 0 0 0 0 0 0 1 0 0 0 0 1benessere dell’ospite 4 1 3 5 2 5 2 2 0 2 0 3 29benessere organizzativo 0 1 1 1 0 0 0 0 0 0 2 0 5buonismo, pietismo, "cuore tenero" 0 1 0 0 0 4 0 1 0 0 0 0 6cambiamento organizzativo 1 0 0 0 2 2 2 2 1 2 2 0 14CAPACITA’ RELAZIONALI 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0capacità di ascolto 0 0 0 0 1 0 0 0 0 1 2 0 4casualità 0 0 1 1 0 1 0 1 0 0 1 0 5centralità della persona 0 1 3 4 2 1 1 2 0 5 0 1 20chiarezza 0 2 0 0 9 3 1 1 0 0 1 0 17coaching 2 1 0 0 2 0 0 0 0 1 0 0 6coerenza 0 1 7 1 3 0 3 0 3 1 0 1 20COMPETENZA ETICA 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0competenze professionali 2 1 1 1 1 2 1 0 3 1 3 0 16COMPONENTE MOTIVAZIONALE 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0comunità di pratica 0 0 1 0 0 0 0 0 0 1 2 1 5condivisione di principi e valori 1 1 2 7 3 1 1 3 2 1 1 3 26conflitto etico interiore, dilemmi morali 2 3 2 0 4 5 2 3 0 1 2 4 28conflitto etico tra persone 3 2 3 2 3 4 2 1 2 3 1 0 26conflitto etico: tra etica e legalità 1 1 4 0 2 0 1 3 0 1 1 0 14confronto con le altre esperienze come 0 0 1 0 0 3 1 0 1 0 1 0 7

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occasione di crescitacoraggio, determinazione 0 1 0 0 2 2 0 1 0 0 0 0 6crederci 0 0 3 0 0 0 0 1 1 0 2 0 7credibilità 0 0 2 1 0 0 1 0 0 0 0 0 4crescita professionale 0 1 7 1 1 2 2 2 2 0 6 1 25cultura organizzativa 0 0 0 2 0 0 0 0 0 0 0 1 3decisione 6 3 4 2 6 5 0 3 0 5 3 1 38delega 0 0 0 1 1 0 0 0 1 0 2 0 5distinzione dei ruoli e delle competenze 1 0 0 0 1 1 0 0 0 0 1 0 4economicità, pareggio di bilancio 1 1 0 0 0 7 1 4 0 0 2 0 16efficienza 1 0 0 0 0 0 0 0 0 2 0 0 3empatia 0 1 0 2 1 0 0 1 0 0 0 1 6ENTE PUBBLICO 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0episodio emblematico 0 8 0 2 4 4 0 0 1 2 0 2 23esempio 0 4 1 1 0 1 2 2 2 1 2 0 16etica professionale 3 0 0 2 1 0 6 4 0 0 0 1 17famiglia 1 0 0 0 7 3 0 1 0 3 0 1 16fermezza, tenacia e rigore 0 1 0 0 0 1 2 5 1 0 0 0 10fiducia 0 1 0 4 3 0 2 0 0 0 1 0 11flessibilità 0 0 0 0 0 2 0 0 1 0 1 0 4formazione dei collaboratori 1 0 1 2 0 0 0 1 0 1 0 0 6formazione del manager 3 0 3 0 1 2 0 1 0 0 0 0 10formazione etica 0 0 0 3 0 2 0 0 1 1 1 2 10gestione dell’incertezza e del rischio 0 0 1 0 2 0 0 1 0 0 6 0 10giustizia, equità, pari opportunità 0 1 0 0 2 1 0 2 0 0 1 1 8imparzialità e trasparenza 0 2 5 0 2 1 6 0 2 0 1 0 19impegno 0 6 12 0 4 0 2 14 1 2 4 3 48laicità 0 0 0 0 0 0 3 0 0 0 0 1 4legalità 4 0 1 1 2 0 2 0 1 0 0 0 11libertà di movimento dell’ospite 4 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 4MANAGEMENT 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0MANAGER 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0manager sociale 1 0 0 1 0 3 0 0 3 0 1 0 9mediazione 0 0 1 1 0 0 0 0 1 0 0 0 3mission dell’organizzazione 0 0 0 1 1 1 1 0 1 2 1 1 9modelli manageriali 5 1 2 3 1 1 0 5 0 1 0 2 21onore 0 0 0 0 0 0 2 0 0 0 0 0 2ORGANIZZAZIONE 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0orgoglio professionale 0 0 0 0 0 0 1 0 2 0 0 1 4orientamento al risultato, efficacia 3 1 2 0 1 3 0 0 0 0 2 0 12pensiero morale 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0pensiero riflessivo 0 0 0 2 5 3 2 0 0 2 1 0 15percorso formativo-professionale 3 0 2 1 2 1 1 2 2 1 1 1 17personalizzazione degli interventi 2 0 1 1 0 0 0 0 0 0 0 0 4piacere del lavoro 0 2 1 0 1 0 0 0 0 0 2 0 6politica 0 0 1 1 1 0 0 2 3 0 2 0 10

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PRINCIPI MORALI 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0pubblica amministrazione 1 0 3 1 3 3 5 3 3 0 1 0 23QUALITA’ PERSONALI 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0qualità del servizio e miglioramento continuo 1 0 8 0 0 1 0 4 0 2 0 0 16

questioni di bioetica 2 0 1 0 0 2 0 0 0 0 0 1 6questioni di senso 0 2 5 1 1 2 2 2 1 1 3 3 23relazionalità 0 2 1 2 2 0 0 1 2 1 0 5 16religione 1 0 1 0 0 1 1 2 0 0 0 1 7responsabilità 6 2 2 4 5 4 0 2 0 1 2 1 29rispetto 2 2 1 0 2 0 0 0 0 0 4 2 13ruolo del manager 1 1 0 8 1 3 1 1 2 0 4 0 22senso del proprio lavoro 0 1 1 1 0 0 0 0 0 0 0 0 3SERVIZIO ALLA PERSONA 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0sé morale 0 1 3 1 2 0 0 1 3 0 1 3 15sfida 0 0 0 1 0 0 0 2 0 0 0 1 4solidarietà e pubblico bene 0 3 0 0 3 0 2 0 0 0 0 1 9solitudine del manager 2 2 1 0 1 0 1 5 2 0 2 2 18standardizzazione del servizio 0 0 5 6 0 1 0 0 0 0 0 0 12stile 1 1 2 0 1 1 0 3 1 2 0 0 12sviluppo delle competenze dei collaboratori 2 4 1 0 0 0 2 0 0 3 2 1 15umiltà 0 1 2 1 0 0 0 1 2 0 0 3 10utilità sociale 0 0 1 0 2 1 3 0 2 0 3 0 12TOT. 89 77 125 93 118 105 75 105 67 61 98 62 1.075

Tab. 4 – Codes-Primary-Documents-Table

L’analisi di questa semplice tabella è stata già di per sé fonte di molte riflessioni, che

hanno contribuito a riformulare ricorsivamente i codici e i loro collegamenti.

Il software offre anche altre funzioni, di cui però non ho fatto utilizzo, come la codifica

automatica o il “Word cruncher”, che conta tutte le parole presenti nei documenti,

evidenziando quelle più ricorrenti. Ho ritenuto, infatti, che ciò non fosse particolarmente

utile ai fini dell’indagine.

Un tool che ho utilizzato invece con profitto, ai fini della creazione dei network, è stata

l’analisi delle co-occorrenze. Il programma consente infatti di individuare possibili

associazioni trai codici, in base alla loro vicinanza all’interno del testo. Il computer, in

buona sostanza, incrocia ciascuno degli 87 codici con gli altri e riporta il numero delle

volte in cui si sono ritrovati all’interno della stessa quote o in quotes diverse ma almeno

parzialmente sovrapposte. Chiaramente, trattandosi di una ricerca di tipo qualitativo, da

tali dati numerici non può essere fatta derivare alcuna evidenza statistica. Essi mi hanno

tuttavia fornito delle semplici indicazioni che sono state poi sottoposte a un’analisi e a un

confronto diretto sui testi. La creazione dei collegamenti tra i codici si è servita dunque di

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tale strumento – per usare un’espressione mutuata da Mortari29 – solo a livello

“indiziario”, dato che la sua costruzione è risultato solamente di un processo d’analisi

teoretico-argomentativa.

Nei prossimi capitoli procederò a presentare le risultanze di questo lavoro di

“costruzione”, illustrando i diversi codici – che verranno evidenziati, riportandoli in

corsivo – e mettendo in luce i collegamenti individuati fra loro. Con ciò cercando di dare

a questo report di ricerca, per quanto possibile, un “profilo narrativo”.

A tal fine, darò molto spazio nell’esposizione alla “viva voce” dei manager intervistati,

riportando stralci delle interviste realizzate. Ogni citazione è contrassegnata con il codice

attribuito automaticamente dal programma Atlas.ti. In tale codice il primo numero si

riferisce al documento primario e quindi è associabile all’intervistato, mentre il secondo

numero individua la singola quote. Per questioni di riservatezza ho omesso o modificato

ogni elemento che potesse rendere riconoscibili gli autori dei singoli contributi.

Nel riportare questi brani ho cercato di mantenermi il più aderente possibile al contenuto

letterale del racconto dei manager, apportandovi – quando l’ho ritenuto indispensabile per

la comprensione del teso – solo lievissime modifiche relative alla forma, mai sostanziali.

29 Ivi, p. 147.

146

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6

I protagonisti della narrazione

Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; e questo è comandare.

Italo Calvino

6.1 Il manager sociale

La narrazione inizia dal protagonista principale, la “figura” che stacchiamo, per un

istante, dallo “sfondo” del suo contesto organizzativo.

Per quanto riguarda la formazione di base, prevale nel nostro campione non

rappresentativo l’indirizzo di studi giuridico-amministrativi; dei dodici dirigenti

intervistati, infatti, 6 sono laureati in scienze politiche e due in giurisprudenza, mentre

due hanno una laurea in psicologia, uno in pedagogia (vecchio ordinamento). e uno il

diploma di maturità.

La casualità sembra essere l’elemento guida che li ha fatti “approdare” alla direzione di

una struttura di ricovero per anziani. Ci si sono cioè ritrovati per caso, senza una precisa

intenzionalità, seguendo i corsi della vita, nei quali però qualcuno intravede una qualche

predisposizione o un qualche “destino”…

«Beh, sono arrivata casualmente a lavorare in ambito case di riposo. Io ho la

maturità linguistica e con questo diploma ho vinto inizialmente un concorso in

Comune. Dal Comune sono arrivata per mobilità in una casa di riposo. È stata una

coincidenza, diciamo, molto, molto casuale: quei treni che si prendono una volta

nella vita e non si sa dove portano» (4:1).

«Un po’ per caso, nel senso che io ho vinto un concorso nel ’98 in realtà come

ragioniere economo di questa struttura. Poi dal 1° gennaio ’98 ho fatto il ragioniere

economo» (5:1).

«Occasionalmente, nel ‘90, avevo appena iniziato, ho deciso di fare un concorso,

così per provare, perché nel settore pubblico sei un po’ più agevolato per poter

studiare e mi è andata bene subito al primo colpo» (6:1).

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«Ho fatto questo concorso perché? Il perché all’epoca è che era stato un semplice

istinto, cioè nel senso che a me la pubblicità e le affissioni, cioè un settore fiscale,

non mi… non lo sentivo soddisfacente, non che non mi piacesse, ma non mi dava

un…no? E ho detto: “Mah, proviamo a fare un salto in questo mondo

dell’assistenza, del sociale”. Ma non avevo assolutamente cognizione di quello…»

(11:2).

«Direi che sono arrivato qua un po’ perché, come tutte le cose di questo mondo,

abbiamo qualcuno che ci indica o ci aiuta a individuare una strada» (8:4).

I percorsi professionali dei 12 intervistati sono estremamente eterogenei, per cui è

difficile individuare un denominatore comune, se non la “matrice pubblicistica” della loro

carriera. Per alcuni, la crescita professionale è avvenuta sempre all’interno della stessa

Ipab, altri invece hanno cambiato più volte ente, provenendo anche da settori diversi,

dall’assistenza anziani e dal sociale, ma generalmente rimanendo nell’ambito pubblico.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, quindi, sembrerebbe più facile – o

comunque più percorribile – il passaggio dalla gestione di settori diversi della Pubblica

Amministrazione rispetto a quello tra la direzione di una casa di riposo privata e la

direzione di una casa di riposo pubblica.

«Io sono dipendente dell’Ipab da oltre 35 anni, ho iniziato come impiegato in

segreteria in una casa di riposo, successivamente ho migliorato la mia posizione e

sono diventato funzionario, poi direttore della sezione amministrativa, poi

funzionario diciamo con compiti specifici nella posizione organizzativa e poi son

diventato dirigente appunto nell’arco di questi 35 anni. Nel corso di questi anni ho

anche avuto modo di prestare la mia opera in vari settori dell’ente, noi siamo un

ente piuttosto complesso e variegato che amministra una serie di servizi per persone

anziane e per giovani e giovani adulti e ha un considerevole patrimonio immobiliare

quindi nel corso della mia carriera ho anche prestato servizio presso l’ufficio

patrimonio. Sono stato responsabile dell’ufficio patrimonio, sono stato responsabile

della segreteria generale; insomma ho un’esperienza abbastanza variegata di questo

ente, che mi ha condotto nella posizione in cui mi trovo attualmente da 4 anni circa»

(7:1).

«Nel ’98 ho iniziato; in un primo periodo mi occupavo della ragioneria, tra l’altro in

una struttura, che è questa, che all’epoca aveva un apparato amministrativo fatto di

nulla. In realtà eravamo il direttore ed io; non c’era assistente sociale, non c’era

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coordinatore, non c’era nulla e questo mi ha messo di spaziare: mi occupavo degli

ingressi, mi occupavo delle rette, mi occupavo dei turni… ho potuto in questo modo

esplorare tutti i settori, dal punto di vista sia amministrativo e contabile, sia

operativo, quello cioè che significava coordinare gli operatori, eccetera» (5:11).

«Ho avuto esperienze in altri enti, oltre al mio, nel senso che sono oltre 20 anni che

sono lì, facendo poi altre esperienze a scavalco in altri enti, ma poi rimanendo

sempre incardinata in questo. Questo è il mio panorama professionale» (9:9).

«Ho di fatto lavorato nell’ambito della pubblica amministrazione e il mio stile è

sempre stato quello di cambiare possibilmente lavoro ogni tot anni, perché ritenevo

e ritengo tuttora che un arricchimento professionale soprattutto una diversa

qualificazione passi anche attraverso l’acquisizione di esperienze che devono

effettivamente darti la possibilità di arricchirti, da una parte, e dall’altra di meglio

conoscerti» (3:1).

Per i direttori che hanno una formazione non strettamente giuridico-amministrativa, in

particolare per i due psicologi, sembra invece prevalere l’interesse professionale specifico

per l’ambito degli anziani, piuttosto che il profilo generico di “manager pubblico”.

Questo si collega a scelte già maturate durante il loro percorso formativo universitario.

«Quindi io ho una costanza di interesse professionale per il problema in generale

dell’invecchiamento e se vogliamo negli ultimi ventidue/ventitré anni ho sempre

lavorato all’interno di strutture pubbliche con funzioni e ruoli di responsabilità,

come organizzatore di servizi e, con questo momento di apice che è stato in questi

ultimi mesi, di direttore di questa struttura. Il futuro vedremo cosa ci riserva. Questo

per sommi capi il mio percorso formativo-professionale» (10:1).

«Allora, mi laureo in psicologia, inizio un percorso con una tesi

sull’invecchiamento, il decadimento cognitivo nell’invecchiamento, una delle prime

dell’epoca, e inizio a lavorare come tecnico, diciamo, come psicologo sul tema degli

aspetti cognitivi dell’invecchiamento» (11:1).

Al di là dell’articolazione dei percorsi professionali di ciascuno, ho colto negli intervistati

una forte identità professionale di “manager sociale”, che è fatta innanzitutto di idealità,

di motivazioni, di ciò che dà senso al proprio lavoro nell’ambito sociale.

«Adesso faccio fatica a dire il manager, un manager in astratto. Io mi sento

fortunato a lavorare in questo settore. Quando sono andato via poi, per vari motivi,

potevo andare anche in altri settori, però mi sarebbe spiaciuto molto e mi sento

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fortunato a lavorare in questo settore, perché ti senti parte della creazione di utilità

sociale… poi, anche l’impresa crea utilità sociale, ma la sento in maniera diversa. È

una motivazione che uno si dà, insomma… sicuramente va benissimo fare il

manager in un’industria però la vivrei comunque diversamente» (6:45).

Un’identità che, come ogni altra identità, si costruisce nel confronto e nella relazione con

gli altri ed in particolare con l’organizzazione. Il manager sociale è un professionista che

sta dentro ad un’organizzazione, intrattenendo con essa un rapporto quasi “simbiotico”.

Egli è chiamato a modificare la struttura organizzativa, venendone a sua volta modificato.

«Per quanto mi riguarda, per la mia esperienza, è il manager che dà l’imprinting, nel

senso che sta proprio a questa figura professionale calcare alcuni aspetti

organizzativi piuttosto che altri» (4:12).

L’organizzazione determina le funzioni e la natura stessa del lavoro del direttore, oltre

che influire inevitabilmente sul modo di interpretare il ruolo professionale.

«Solo un dato, il dato dimensionale. Noi in Veneto abbiamo strutture medio-grandi,

anche grandi. In altre regioni ci sono molte strutture medio-piccole. In molte regioni

è normale avere strutture di 60 posti letto. Lì chi fa il direttore di struttura, fa il

direttore di struttura ma fa un diverso mestiere, perché avrà un diverso contatto,

avrà diverse funzioni…» (6:40).

In molte delle Ipab visitate, il ruolo apicale è denominato “Segretario-Direttore”. Tale

espressione sta ad indicare un cambiamento professionale avvenuto nel tempo, che è

stato vissuto in prima persona da molti degli intervistati e che forse per certi aspetti non è

stato ancora interamente metabolizzato all’interno dei modelli professionali e della

cultura organizzativa.

Esisteva tradizionalmente in questi enti la figura del Segretario, che aveva principalmente

la funzione di garante della regolarità giuridica degli atti amministrativi. A questa

funzione si sono andate ad aggiungere attribuzioni di gestione manageriale. Ne è scaturita

quindi la figura composita del “Segretario-Direttore”, che assomma appunto queste due

differenti “anime”.

«Naturalmente da allora ad oggi la professione ha subito un rivolgimento radicale.

Allora io ricordo bene che il ruolo era veramente strettamente amministrativo, era

molto simile a quello che era il segretario comunale; era fare il segretario della

struttura, non c’erano direttori allora, c’erano i segretari, per cui il ruolo era

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puramente burocratico, diciamo così. L’evoluzione negli anni fino ad oggi è stata

indirizzata verso una diversa formulazione del ruolo in funzione degli obiettivi della

struttura. In quel momento, in cui sono stata assunta io, bastava fare gli atti giusti,

legalmente giusti, oggi bisogna dare dei risultati, che sono dei risultati sia in termini

economici, a cui tengono tanto i nostri interlocutori istituzionali, giustamente in un

momento come questo, difficile, ma sono anche e principalmente dei risultati di

salute per gli ospiti» (1:3).

«Le spiego il significato del profilo di “Segretario Generale” che ho avuto modo di

imparare in una lezione universitaria: segretario perché al di sopra nella nostra testa

c’è la legge. Ricordo che esistono per esempio il Segretario alla Presidenza della

Repubblica, il Segretario generale del Comune o della Provincia, il Segretario della

Fondazione Cassa di Risparmio. L’evoluzione dei tempi e cioè l’accentuarsi del

momento gestionale rispetto a quello del mero rispetto delle leggi vigenti, ha portato

a creare l’immagine del “direttore manager”, come se fossimo una impresa privata»

(9:19).

Si tratta di un cambiamento organizzativo prima che professionale, avviato agli inizi

degli anni ‘90, che tende a introdurre in un sistema chiuso e autoreferenziale come quello

della burocrazia pubblica, tutto rivolto all’ossequio della norma, al rispetto formalistico

della legalità, nuove istanze di efficienza, di efficacia, di economicità. Ciò significa

modificare la cultura organizzativa degli enti pubblici, “contaminandola” con elementi di

tipo aziendalistico, che non sono solamente dati da procedure e strumenti gestionali, ma

anche da nuovi valori, che vanno ad aggiungersi e, spesso, a collidere con i valori di cui è

portatrice la Pubblica Amministrazione. Un passaggio quindi di non poco conto.

«Bisogna ammettere che il passaggio da una gestione prevalentemente giuridica ad

una gestione imprenditoriale ha bisogno di un certo rodaggio, poiché esige un

cambiamento di mentalità di portata epocale» (9:19).

I dirigenti rappresentano il motore di tale cambiamento, in quanto sono chiamati a

riformare la cultura organizzativa, attraverso l’introduzione di nuovi strumenti operativi,

ma anche e soprattutto di nuovi valori. Ciò ha richiesto loro la fatica di rivedersi in

termini di ruolo professionale, mettendosi in gioco, aprendosi al confronto e ripensandosi

come manager sociali.

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«Nel momento in cui tu rifletti su di te come manager, non rifletti solo su aspetti

meramente tecnici, ma anche sul tuo ruolo ed è importante vedere anche altri mondi

perché altri mondi hanno visioni diverse» (6:40).

Una riflessione, questa, che ha coinvolto anche la dimensione etica, dato che si andava a

rifondare una professione e quindi si veniva a porre la questione del senso del proprio

lavoro e del modo più giusto per svolgerlo.

«Per cui questo ha rivoluzionato sicuramente la nostra professione negli ultimi

vent’anni e questo in merito anche al tema che interessa a lei, cioè dell’etica, perché

nel momento in cui c’è stata una presa di coscienza del fatto che dovevamo

rispondere non solo di risultati di tipo economico, ma di salute degli ospiti,

naturalmente abbiamo dovuto iniziare ad avventurarci su una serie di temi che non

sono strettamente di competenza di una funzione amministrativa come può essere la

mia» (1:3).

Questi enti non sono stati privatizzati, conservano la loro natura giuridica pubblica, la

quale prevede che le funzioni di governo siano affidate ad un organo politico. Quindi

sono tenute ad assumere effettivamente un approccio di tipo “imprenditoriale”, ma nel

contempo devono mantenere quel sistema di garanzie tese ad assicurare la trasparenza,

l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Ciò richiede al

manager di svolgere al meglio entrambe le funzioni di Segretario-Direttore.

«….a proposito di questa doppia veste: segretario da una parte e direttore

dall’altra… perché c’è l’organo politico, ecco, per questo è richiesta la doppia

funzione…» (9:19).

Siamo di fronte a un mutamento radicale della natura stessa della professione, che

incontra chiaramente le inevitabili resistenze al cambiamento, che ogni sistema o

organismo mette in atto in queste occasioni.

«C’è ancora una sacca di resistenza che a mio modo di vedere è molto ferma, molto

importante, che reputa che il manager possa essere ancora abbastanza burocrate, e si

occupa delle sue “cartine”, della legalità degli atti e basta» (1:20).

Evidentemente in questo cambiamento emergono le capacità individuali di adattamento al

nuovo, la flessibilità che ciascun dirigente riesce ad esprimere, in misura più o meno

accentuata, nell’acquisire le competenze che gli sono richieste dal mutato profilo

professionale.

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«C’è quello che è più orientato a guardare che tutti gli aspetti amministrativi siano a

posto, ma poi si disinteressa di tutto ciò che viene riversato, in termini di contenuti,

all’interno dell’organizzazione o delega altri a farlo…» (4:12).

Per quanto riguarda i modelli manageriali, nessuno degli intervistati si riconosce – per lo

meno dichiaratamente – nel tipo del “burocrate”, probabilmente anche perché vi è la

consapevolezza che si tratta di un modello non più sostenibile. Ho potuto cogliere

certamente delle differenze di “stile” nell’approcciarsi a questo nuovo profilo

professionale, ma devo dire che emerge in tutte le interviste un’asserita adesione all’idea

di un manager sociale molto “speso” all’interno della gestione. Le differenze sono

semmai nel tipo di gestione manageriale. Per alcuni è declinata più sul versante dei conti,

del bilancio, degli atti gestionali. Per una larga componente del gruppo di riferimento,

invece, riguarda anche e soprattutto gli aspetti organizzativi e quindi si addentra nel

merito della gestione assistenziale e della realizzazione dei risultati di salute dell’ospite.

«Sì, io non sono quel tipo di direttore, nel senso che un giorno sono andata ad un

corso in cui il relatore parlava di walking manager, cioè il direttore che è dentro ai

reparti, che guarda. Io i miei due o tre giretti, non per andare a controllare, ma per

guardare tutta una serie di cose, me li faccio. Mica faccio il topo di archivio qua

dentro, sempre qui dentro, infischiandomene di quello che succede fuori» (4:38).

«C’è una necessità per il direttore, che è il manager del sociale, di entrare nei

processi di lavoro e di avere una conoscenza non dico operativa, perché

evidentemente non è che io sappia “fare un bagno”, però una certa conoscenza da

vicino di quello che succede nei processi di lavoro e comunque un dialogo continuo

con chi lavora in prima linea, in trincea» (17:17).

Questo essere responsabili dei risultati di salute dell’ospite, spinge alcuni manager sociali

a lasciare il proprio ambito originario, fatto di norme giuridiche e di prassi

amministrative, al cui interno si muove con confidenza, per avventurarsi in campi

sconosciuti, in cui è più che mai necessario interloquire con altre professionalità e

soprattutto acquisire nuove conoscenze e competenze professionali.

«Eh, vede, in realtà è proprio questo, perché alla fine siamo sempre noi responsabili,

anche delle competenze mediche. Nel senso che noi siamo i gestori di tutte le

attività, anche sanitarie, per cui quando il medico fa qualcosa, bene o male, noi

siamo chiamati a rispondere per lo meno in vigilando. Per cui nel mio ente, per

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esempio, alcune materie che possono sembrare di stretta competenza medica, per

esempio questa materia dell’alimentazione artificiale o quella della contenzione,

delle spondine (spondine che non possono essere messe se non dietro una

prescrizione medica)… però nel nostro ente in queste materie, che hanno una

connessione con l’etica abbastanza importante, noi abbiamo definito con una nostra

regolamentazione che il medico comunque deve condividere con l’equipe. […] Il

direttore è responsabile nell’aver correttamente costruito dei percorsi decisionali

corretti. E quindi è ovvio che se dopo la spondina decidono di non metterla e

succede qualcosa non sono direttamente responsabile io. Sono responsabile però se

non ho dato loro gli strumenti corretti per lavorare, non ho dato disposizione che

l’Uoi si debba fare, che ci sia il tempo per farla, per discutere, cioè

dell’organizzazione. Io sono responsabile dell’organizzazione» (1:47).

«Il direttore è il responsabile della salute della persona accolte e quindi io, forte di

questo, sono anche diciamo andata oltre a quella che è vista la modalità del

direttore… però all’interno del sistema non siamo pronti, secondo me, a cogliere

questo tipo di spunti… cioè il direttore deve fare il direttore e guardare le carte,

punto. Poi per tutto il resto ci sarà qualcun altro, il coordinatore, il medico,

l’infermiere… cioè nella visione collettiva della persona direttore, le persone, il

sistema, alcuni attori dentro nel sistema, pensano ancora che il direttore debba

essere quello che si preoccupa solo delle carte, punto. Non che le carte sono

propedeutiche al fatto che… se nelle carte ci sono scritte tutta una serie di cose che

abbiamo condiviso prima: abbasso la conflittualità, facciamo tutti lo stesso

percorso, abbiamo tutti una meta da raggiungere, degli obiettivi e che rispetto a

questo dei riflessi positivi sicuramente ci possono essere all’interno di una

organizzazione… no, il direttore deve star chiuso in ufficio e quindi stare là, a girare

le carte…» (4:37).

Per quanto attiene al ruolo, si ritrova la consapevolezza, da parte di molti dei manager

intervistati, di gestire un ruolo di potere nei confronti della struttura organizzativa, in cui

il direttore ha “il coltello dalla parte del manico”.

«Dopo va detta anche un’altra cosa, che è la parte meno nobile del ragionamento. Il

dirigente, il direttore, non deve mai perdere di vista che il coltello dalla parte del

manico ce l’ha… è inutile che si arrabbi, inutile che entri in conflitto. Si entra in

conflitto quando due elementi sono equidistanti allora uno deve per forza dimostrare

all’altro che è più forte, ma quando tu hai il coltello dalla parte del manico, rispetto

agli aspetti formali, decisionali, perché devi andare a irritare un’altra persona,

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perché devi entrare in conflitto… provi a ragionare, provi a fargli capire che forse

c’è un altro pensiero... se non lo vuole capire, va beh, poi tanto decido io (ride).

Però sta però il fatto di non lasciare tracce di irritabilità, di conflitto: è già

importante, perché uno che decide e che fa anche baruffa, eh... crea un clima di

terrore» (10:18).

Si tratta di un potere ed una distinzione del direttore che si rendono materialmente

visibili, anche attraverso segni esteriori, i quali ne indicano lo status e il ruolo di prestigio

all’interno dell’organizzazione. Ciò che può sembrare di primo acchito un insieme di

privilegi ingiusti svolge tuttavia una funzione di riconoscimento sociale e avrebbe anche

ragioni di utilità generale.

«Ho imparato anche che le persone vanno messe nella condizione di rendersi conto

di chi hanno di fronte. Io, ad esempio, ho dovuto fare un lavoro su di me, sul

ruolo… Oggi ad esempio mi vede così, in jeans, perché oggi ho fatto il mio

ragionamento, ho detto: “Ma sì, è venerdì, vado tranquilla, comoda oggi…”. Ma ho

imparato che ci sono dei comportamenti che agiscono in maniera molto più

profonda delle parole per dire chi siamo e per mettere anche gli altri nella

condizione di sapere con chiarezza con chi stanno parlando e di cosa possono o non

possono permettersi. Per cui ho fatto un lavoro anche sul ruolo, sul modo di pormi,

a livello di percorso personale… chi sono a livello di organizzazione e, per esempio,

che io avessi – cosa che una volta io rifuggivo – un ufficio tutto mio, che io avessi

come direttore un apri-cancello che gli altri non hanno, che io come direttore ho

determinate caratteristiche, per esempio che ho l’ufficio arredato meglio degli altri –

“sparo” – non è un’ingiustizia, perché le persone non sono tutte uguali. Ma le

persone devono avere quello che serve al lavoro. Che io abbia l’apri-cancello non

significa che io sia meglio e l’altro è peggio, ma che io ho un certo costo all’interno

dell’organizzazione, ho un certo ruolo, per cui i miei tempi devono essere

razionalizzati, spesi al meglio. Una volta io mi facevo problema a chiedere ad un

collaboratore di farmi una fotocopia, perché mi pareva di umiliarlo e mi pareva che

fosse un segno di… che me lo facessi io. Ma nel tempo in cui mi dedico alle

fotocopie non faccio quella cosa che posso fare solo io, perché sono il direttore e

quindi non consento alla struttura di avere le cose che io le devo dare» (5:54).

Il manager gode quindi di benefici che lo distinguono dagli altri membri

dell’organizzazione. Questi benefici sarebbero giustificati dal fatto che andrebbero ad

ottimizzare l’impiego di una risorsa importante per l’organizzazione.

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L’esercizio del potere come servizio è un concetto che ho ritrovato spesso nelle interviste

realizzate.

«… io mi penso sempre come il prosciutto in mezzo al panino, dove sopra di me ho

delle persone che hanno delle aspettative riguardo a quello che devo portare avanti

io, che hanno delle logiche a volte molto diverse da quelle che hanno quelli che

sono gerarchicamente sotto di me, ma che comunque condividono tutta una serie di

aspetti di gestione interna… se poi andiamo a mettere insieme l’aspettativa

dell’Amministrazione comunale piuttosto che quelle dell’Ulss, piuttosto che quelle

della Regione, piuttosto che quelle dei familiari, lei capisce che tenere insieme tutti i

pezzi e cercare di essere rispondente, per quello che è possibile, rispetto a tutti

questi tipi di aspettative o mediare rispetto al fatto che questa può essere più

conciliante con quella o vediamo di mettere prima questa piuttosto che quella,

diventa un lavoro molto di equilibrismo e credo che all’interno dei servizi alla

persona l’equilibrio sia la strada maestra da percorre» (4:28).

Quello del manager è un ruolo difficile, che esige delle competenze professionali

diversificate e di alto livello. Richiede innanzitutto una conoscenza su un vasto spettro di

saperi, essendo egli all’apice della struttura, a cui fanno capo diversi ambiti professionali.

Il manager, infatti, per poter esercitare il suo ruolo di direzione e di coordinamento, deve

riuscire a entrare nel merito dei diversi contenuti professionali, anche al fine di valutare

l’operato dei propri collaboratori.

«Il direttore deve essere una persona competente. Non sarebbe certo bello sapere

che i tuoi collaboratori dicono: “Non vado dal direttore, perché ne sa meno di

me…”. Questa sarebbe una cosa grave e invece è importante che un direttore

conosca gran parte della materia dei collaboratori, non certo entrare nel dettaglio,

perché sarebbe impensabile, però saper capire qual è il problema, saper anche

giudicare se il proprio collaboratore – nel mio caso sono i “quadri”, cioè le figure

intermedie – hanno risolto i lavori a loro affidati. Questo è importante, perché un

direttore non deve essere ostaggio dei propri collaboratori» (9:36).

Il manager rischia di divenire “ostaggio” dei propri collaboratori se non conosce

sufficientemente i loro diversi ambiti, proprio perché la conoscenza è potere.

Chiaramente una certa asimmetria informativa è inevitabile, perché è il singolo

professionista lo specialista della sua materia, ma il manager deve saper dialogare con

tutte le figure professionali che fanno capo a lui e riuscire anche a dirigere il loro lavoro.

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Ciò implica che il manager deve diventare una sorta di “tuttologo”, cioè deve sapere,

almeno nelle linee generali, un po’ di tutto.

«Diciamo che nella media… lasciamo stare quei pochi enti grossi come questo, a

livello regionale… Nella media degli enti c’è un direttore unico che fa da direttore,

fa da segretario, fa le delibere, le termina tutte lui… quindi, è chiaro che in quella

dimensione lì […] a te chiedono di essere un tuttologo. Non puoi fare il dirigente

che si specializza in un settore, perché non è consentito… quindi, sicurezza del

personale, appalti, legislazione sanitaria, socio-sanitaria, l’HACCP30, di tutto… e

questo ti fa sentire di più il peso… è un lavoro che è bello, perché comunque ti

arricchisce molto, perché ti fa conoscere le cose, volenti o nolenti ti… cioè…te le fa

conoscere tutte, perché ti vengono passate comunque, ti vengono addosso

comunque. Non riesci a essere lo specialista delle norme, della norma del settore,

perché è impossibile, però ti costringe ad avere un certo livello di approfondimento,

ecco. E quindi questo ti arricchisce molto; almeno io ho sentito che questo consente,

anche quando affronti un problema, di mettere assieme possibilmente i vari aspetti,

ti viene naturale nel tempo facendo questo lavoro qua da soli, ti viene naturale,

quando ti metti ad affrontare un tema, pensare ai collegamenti… però ecco questo è

il bello, il rovescio è che sei solo nel momento in cui decidi» (11:53).

Effettivamente non c’è la possibilità, se non magari nelle strutture di grandi dimensioni,

dove ci sono diversi ruoli dirigenziali, di specializzarsi in un determinato ambito. Si deve

necessariamente spaziare, perché è quello che ti chiede il sistema. Se esiste un qualche

“specifico” disciplinare del manager, potremmo forse trovarlo nella scienza

dell’organizzazione. All’interno della nuova visione di manager, molto impegnato sul

campo dell’organizzazione dei servizi, più che sul versante amministrativo, quello è

chiaramente un ambito di saperi fondamentale.

«Devi conoscere un po’ tutte quelle che sono le ramificazioni della gestione degli

enti, quindi e devi occuparti anche, è buona norma occuparsi anche della gestione

dei servizi, perché non puoi fare il direttore solo della parte amministrativa, che già

sarebbe tanto… ciò che qualifica il direttore secondo me è la parte, diciamo,

organizzativa, come facciamo progredire i sevizi, come facciamo a garantire una

frontiera di benessere, quali sono le risorse in campo, come cercare di miscelarle

30 L'HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) è un sistema di autocontrollo igienico imposto a tutte le strutture che erogano servizi di ristorazione ai propri utenti. Esso si basa sul controllo sistematico dei punti della lavorazione e di somministrazione degli alimenti in cui vi sia un pericolo di contaminazione sia di natura biologica che chimica ma anche fisica.

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bene, come… ecco quindi io mi occupo, specialmente in quegli enti, sono tornato a

occuparmi molto in diretta dei servizi…» (11:55).

C’è chiara consapevolezza, da parte degli intervistati, che le competenze richieste dalla

loro professione vanno al di là della mera conoscenza.

«Quindi io direi prima di tutto… chiamiamola competenza: di che cosa è fatta la

competenza di un direttore? Certo, devono esserci delle conoscenze, devi sapere

delle cose, perché questo è importante… Però devi sapere anche relazionarti con gli

altri» (5:7).

In particolare, tra le competenze professionali richiamate maggiormente dagli intervistati,

molta importanza viene attribuita a quelle comunicative e relazionali, ciò in

considerazione dell’elevato “tasso di relazionalità” che ha questo tipo di lavoro.

«Inoltre il nostro lavoro consiste in buona parte nel metterci in relazione con le

persone – dipendenti e ospiti e familiari – persone che evidentemente presentano

anch’esse problemi sempre nuovi. Quindi il nostro lavoro richiede applicazione, ma

anche fantasia e creatività» (9:6).

Alla capacità relazionale va associata la capacità di risposta alle diverse esigenze

collegate alla variabilità di un lavoro che non è un “lavoro di scrivania”:

«Dico sempre che non abbiamo un lavoro di scrivania, cioè un lavoro che si ripete

di mese in mese o di semestre in semestre, come hanno invece i miei collaboratori

dove ognuno ha le proprie competenze e del lavoro ordinario da sbrigare; le proprie

scadenze da rispettare e quindi un lavoro che si ripete. Noi dirigenti o direttori

abbiamo naturalmente una parte di lavoro legato alla nostra funzione, ma dobbiamo

essere pronti ad affrontare e risolvere i problemi nuovi che la vita e l’ordinamento

giuridico suscitano in continuazione» (9:6).

Ed è forse proprio questa variabilità del lavoro, questo essere chiamati ad assumere

decisioni tempestive, a risolvere problemi complessi, che richiede anche competenze di

tipo etico:

«Quando si opera a questo livello bisogna avere una scala di valori […]. Occorrono

quindi doti culturali e intellettuali, ma esse non bastano, bisogna avere principi

etici, che servono a risolvere nel modo più giusto possibile i problemi vecchi e

nuovi che sorgono» (9:6).

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Ma questo è, ovviamente, un argomento che riprenderemo più avanti.

6.2 Il contesto organizzativo

Dal fatto che il manager è un professionista in un’organizzazione, con la quale intrattiene

un rapporto “simbiotico”, consegue che non si possa considerare il primo (il manager)

senza prendere in esame anche la seconda (l’organizzazione), tanto risultano intrecciate le

due entità. Un intreccio e una consonanza che sono insiti nel rapporto organico tra

direttore ed ente: il direttore è un organo dell’ente e quindi ne incarna finalità e mission

dell’organizzazione.

«… c’è comunque una trasposizione dei fini, perché se tu sei in un’organizzazione

come questa, tu ti senti responsabile in prima persona di tutta la filiera e quindi porti

avanti…» (6:3).

«Bisognerebbe lavorare in un’ottica di condivisione, partendo sempre dalla mission.

Allora se io penso alla mia mission: qual è la mia mission? Innanzitutto quella di

fare in modo che le persone che sono accolte qua dentro vengano adeguatamente

tutelate e assistite… stiamo parlando sempre di persone in stato di bisogno e quindi

io mi vedo, tra virgolette, come il garante rispetto al fatto che un’organizzazione

riesca a mettere in atto tutta una serie di percorsi e di processi che vadano a dare,

come risultato, questa cosa e quindi a creare un benessere rivolto all’ospite. Allora,

più io cerco di avvicinarmi a quelle che sono le sue esigenze e più io rispondo alla

mission dell’organizzazione, che è anche la mia mission» (4:16).

Un rapporto che è quasi di identificazione:

«Io sono una struttura che garantisce un servizio ad una comunità ed uno stipendio a

100 e passa famiglie a certe condizioni…» (6:19).

Un’immedesimazione rispetto ad una soggettività plurale, la quale va a costruirsi e a

rafforzarsi attraverso un processo di distinzione e a volte di contrapposizione con

l’esterno:

«… non sono il Comune che ha fondi appositi, non sono l’ULSS che garantisce il

servizio sanitario fino ad un certo livello gratuito per tutti…» (6:19).

L’identità della Casa di Riposo è certamente cambiata molto nel corso del tempo, ma

conserva la sua natura di istituzione a cui non ci si accosta quasi mai molto volentieri.

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«La situazione ci ha portato poi a riflettere, cioè innanzitutto a prendere atto del

fatto che noi, come strutture, siamo l’ultima frontiera e che nessuno ci porta,

accompagna qui, il proprio anziano volentieri e che quando le famiglie arrivano a

fare questa scelta, nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un problema di

relazione» (5:36).

Questa istituzione vorrebbe cambiare, assieme al nome, anche il proprio modo di essere e

di essere percepita, avvicinandosi al modello familiare. Ma in questo incontra

inevitabilmente delle difficoltà.

«Io ho la profonda convinzione che noi stiamo facendo un qualche cosa di

estremamente importante: offrire una risposta assistenziale residenziale alle persone

anziane, ma che è una risposta tanto importante quanto anomala, quanto artificiosa.

Tanto importante quanto contronatura, un po’ artefatta... sì... Voglio dire... noi

stiamo dando delle risposte che sono le risposte di un momento preciso della

persona che è il momento della fragilità, della difficoltà a sostenere e affrontare

l’assistenza, a fronte di una fragilità funzionale, di limiti legati alle malattie, legati a

determinate condizioni di salute... quindi noi dobbiamo cercare di dare una risposta

che sia puntuale rispetto a un bisogno, consapevoli che stiamo offrendo una

soluzione, che non è quella che ognuno di noi si immagina o potrebbe immaginarsi”

(nessuno di noi – né io né Lei – c’immaginiamo che dagli ottant’anni/ottantacinque

li passeremo in una casa di riposo). e quindi dobbiamo essere consapevoli che

questa è una situazione come non voluta, che non può essere assolutamente

omologata a quello che è l’ambiente naturale della famiglia, della casa,

dell’ambiente familiare. Quindi noi dobbiamo perseguire da un lato un obiettivo di

maggior qualità della vita, di salute, di benessere nella consapevolezza che [gli

anziani] qui sono in un luogo che non è quello pensato, immaginato, fantasticato.

Allora c’è lo sforzo a dare il massimo in termini di efficienza, di qualità e servizio,

prestando attenzione a quelle che possono essere le aspettative delle persone,

offrendo elementi di familiarità… Questo pur sapendo che qui è molto difficile…

Qui siamo una istituzione, per quanto ci sforziamo di chiamarci in modi diversi. Noi

siamo sempre un’istituzione, anche se ci chiamiamo Centro Servizi. E questa

dimensione di istituzione è presente nel nostro lavoro. Allora cos’è che noi

dobbiamo fare: dobbiamo, da un lato, perseguire un servizio che sia di qualità, che

sia un servizio con tutti gli elementi, ma dall’altro lato dobbiamo anche tendere – io

uso uno slogan – a far sì che le persone non si sentano "alieni" dal mondo che hanno

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lasciato. Il concetto di mantenere i legami con il contesto familiare, sociale,

affettivo che hanno lasciato a casa» (10:2).

Perché chiaramente non è facile cancellare il passato e cambiare un modo di vedere la

casa di riposo. Ma dire che non è facile, non significa dire che è impossibile e che non si

debba lavorare per questo cambiamento.

«Dirò di più, dirò di più, io sto portando avanti una battaglia sul tema dell’abolire il

termine istituzionalizzazione. Per quanto mi riguarda, io mi faccio in quattro per

non sentirmi dire: “Ho dovuto portarlo in casa di riposo, perché non avevo

alternative”. La casa di riposo ha un suo valore nel momento in cui è la scelta

migliore per quella persona in quel momento, se non è la scelta migliore è giusto

che la scelta sia un’altra, ma se è la scelta migliore, allora diventa la buona scelta,

non la scelta di ripiego, ma la buona scelta. Per me non è indicativo del benessere

dove uno abita, ma come uno sta… è più importante come uno sta…» (12:24).

Si parla spesso, a tale proposito, di umanizzazione dei servizi di cura. La casa di riposo di

un tempo si sta trasformando in un centro di assistenza in cui la componente sanitaria

risulta sempre più predominante. S’innalza l’età d’ingresso in struttura, si aggrava la

tipologia di utenza, aumentano i livelli assistenziali e le case di riposo assomigliano

sempre più ad ospedali di lungodegenza. Ciò va coniugato con l’esigenza, altrettanto

impellente, di umanizzare questi luoghi, renderli uno spazio di vita e di relazione,

all’interno dei quali gli “ospiti” possano sentirsi, per quanto possibile, a casa loro.

«L’Istituto è la loro casa, quindi le nostre convivenze accolgono persone come ho

detto all’inizio gravemente malate, gravemente non autosufficienti e con le quali,

soprattutto quando giro tra i reparti o sono presente per qualche manifestazione, si

instaura anche un rapporto umano. Ne conosco tanti di loro con i quali ho costruito

un rapporto umano, che va oltre l’aspetto amministrativo, gestionale del personale,

dei piani di lavoro, della direzione, dei bilanci, dei consuntivi, degli adempimenti

fiscali, delle relazioni sindacali» (9:44).

Ho rilevato, nel corso delle interviste una diffusa percezione di essere, come strutture di

assistenza agli anziani, all’interno di una stagione di importanti cambiamenti

organizzativi.

«Gli scenari che si propongono nel giro di 3-4 anni sono veramente diversi. Da

strutture chiuse, simil-manicomiali, perché noi siamo tra le strutture considerate

asili all’inizio del secolo, perché prendiamo in carico completamente la persona e

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quindi istituzionalizziamo, come nostro DNA, come nostra matrice. Oggi abbiamo

un DNA che è o dovrebbe essere completamente l’opposto, cioè l’estrema apertura

al territorio, ai nodi della rete e quindi, anche per noi, questo significa fare proprio

una rivoluzione copernicana in tutte le sfaccettature del nostro lavoro» (1:3).

Tali cambiamenti organizzativi sarebbero anche funzionali alla trasformazione dei

bisogni sociali. Un cambiamento che si pone, quindi, come risposta adattiva alle mutate

condizioni ambientali, per non “estinguersi come i dinosauri”.

«Ci sono alcune cose che mi sembrano ovvie, cioè, come puoi pensare di arroccarti

in certe posizioni? Ma sei perdente. Se cioè il contesto attorno a te dice che ti stai

trasformando da casa di riposo in centro di servizio, perché questo è il bisogno,

vuoi perché la Regione taglia le risorse, vuoi perché è questo che emerge dai

cittadini… qualunque sia il motivo, se questo è quello che emerge e tu vuoi stare a

galla, devi gestire quello che c’è. Come puoi pensare che sia vincente la scelta di

arroccarti su determinate posizioni? Cioè, se non avessimo saputo, anche proprio

come specie umana, adattarci alla realtà per come si trasformava, scriveremmo

ancora sulla pietra. Cioè è stata questa la strategia vincente, quella di essere stati

“risposta” ai bisogni. Se cambiano i bisogni dobbiamo cambiare anche noi, da casa

di riposo a centro di servizio. Se il bisogno è meno orientato sulla residenzialità e si

va sul territorio, ti devi trasformare in risposta altrimenti diventi un dinosauro…»

(5:61).

Che le condizioni ambientali e i bisogni sociali mutino nel tempo, non è una novità.

Molte delle Ipab che ho visitato hanno una storia secolare alle spalle, nel corso della

quale hanno cambiato più volte la loro mission.

«…una curiosità che forse è dettata anche dai tempi in cui la costituzione è stata

approvata… l’articolo 31 dice che “La Repubblica protegge la maternità, l’infanzia

e la gioventù”; per quanto riguarda il nostro specifico lavoro, l’infanzia e la

gioventù fanno parte di una linea specifica di intervento dell’ Ipab e da…poco

tempo io…insomma noi abbiamo promosso anche un ulteriore ambito di intervento

che è quello della tutela della genitorialità, intesa come un concetto di maternità un

po’ più articolato e un po’ più esteso non parla però della vecchiaia, curiosamente il

problema della vecchiaia allora non si poneva ancora nelle dimensioni così

incombenti come si pone adesso. Credo che tutte quante queste strutture siano

proprio nate come strutture al servizio dei poveri, come orfanotrofi e poi si sono

convertite in case di riposo… Storicamente il nostro ente è nato dapprima come un

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ricovero per poveri – parlo nel ’500 – dopodiché si è sviluppato come protezione

sempre dei poveri e delle vedove anche, perché c’era anche questa componente di

assistenza alla vedovanza, che è spesso stata presente… io per esempio l’ho

riscontrata in determinate strutture che ho visto ad Amsterdam, in cui c’era

esattamente il parallelo di una delle nostre strutture… la tutela delle vedove dei

marinai… si coglieva facilmente lo stato di debolezza di una moglie che perdeva la

sussistenza anche economica oltre che quella…oltre che il sostegno morale…»

(7:12).

Un cambiamento, quindi, che c’è sempre stato, ma sicuramente ora lo si percepisce più

profondo, ma soprattutto più rapido, perché l’evoluzione sociale ha dei tempi, tutto

sommato, molto veloci.

«…gli interventi sociali hanno sempre una dimensione molto ristretta dal punto di

vista dell’orizzonte cronologico… si esercitano nell’arco generazionale al massimo,

perché nel tempo di vent’anni, sono talmente cambiati i riferimenti… i problemi, le

situazioni… le emergenze sociali che difficilmente si riesce a trovare una

continuità… una continuità, diciamo così, operativa… c’è una continuità ideale,

storica» (7:15).

E quindi l’organizzazione deve correre, se vuole restare al passo con questa realtà in

veloce cambiamento. Le strutture sono sfidate dalla realtà circostante a innovarsi

continuamente, a migliorare le proprie performance e il gradimento da parte degli utenti.

«…perché comunque sei sempre ricerca per cose nuove, perché cambiano… cambia

la qualità dei servizi, cambia il servizio stesso, cambia il materiale, cambiano le

attrezzature, cambiano le esigenze e quindi bisogna sempre stare attenti a non…»

(8:14).

Una sfida, questa, per l’organizzazione, che chiama in causa il manager in prima persona,

richiedendogli la capacità di farsi promotore e artefice di questa innovazione e quindi

innanzitutto la capacità di pensare, di sognare l’organizzazione e come questa potrebbe

essere, per divenire più correttamente “risposta” ai bisogni emergenti.

«Io mi sento una persona che deve far sì che questa realtà si esprima come casa di

risposo nel miglior modo possibile. Cioè, io credo moltissimo al fatto che questa

deve essere una realtà assolutamente innovativa, attuale, assolutamente puntuale nel

rispondere ai bisogni. Deve essere in sintonia con i tempi, con le esigenze delle

persone, con le esigenze degli anziani di adesso, non di quelli di una volta… cioè, io

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sento veramente che dobbiamo svilupparla come pensiero, come immagine, come

efficienza, come produttività, come valore» (10:27).

In tale passaggio, di cui è testimone diretto chi ha lavorato in queste strutture negli ultimi

vent’anni, non sono cambiate solo la logistica, la strumentazione, l’organizzazione, ma

assieme a queste sono venuti a cambiare anche la cultura, i valori e il modo di

concretizzarli. Un concreto esempio si trovanelle modalità e nei criteri di accesso degli

ospiti alla struttura stessa.

«Chi ha iniziato come me, vent’anni fa, ha vissuto tutta la trasformazione, la

rivoluzione, di un settore che prima era definito come un settore marginale. Prima

avevamo le case di ricovero, adesso abbiamo il centro servizi (sorride). E questo

percorso si è realizzato negli ultimi vent’anni. Quindi, quelli di questa generazione

hanno come dire l’esperienza di una trasformazione unica. Prima eravamo quelle

strutture un po’ autarchiche ai confini dell’impero, che decidevano loro chi far

entrare e chi e chi far uscire… beh, far uscire non tanto, ma chi far entrare, sì. E

questo era l’inizio, dove trovavi la lista delle persone che volevano entrare e tu che

eri entrato un secondo prima a far la domanda eh... non c’era verso che entravi

prima dell’altro anche se l’altro aveva tutti i problemi di questo mondo solo perché

eri il primo in classifica. E quindi c’era una visione molto parziale del sistema più

generale. E siamo passati a un sistema di, tanto per dire, che riguarda gli

accoglimenti dove la casa di risposo non decide assolutamente nulla, viene deciso

dal sistema, dalla rete, dalla rete di servizio» (10:32).

Non c’è solamente un’idea di cambiamento di tipo evolutivo. Ho colto in alcune

interviste anche un pensiero, o meglio una preoccupazione, rispetto a un movimento

involutivo, che frena e rischia di riportare l’organizzazione indietro.

«… nell’ultimo biennio i segnali che arrivano da vari livelli fanno crescere un po’

una sensazione di ansia. Una volta si era più liberi, ma non incoscienti, più liberi nel

dire: “Sì, te ghe da fare… fa del tuo meglio…”. Qualche flessibilità per arrivare al

risultato… adesso sai che con la Corte dei Conti è diventato veramente un sistema

che da questo punto di vista non consente più di… essere gratificato…» (11:68).

È la normativa, sono i sistemi di controllo, è il processo di responsabilizzazione che,

fondamentali per regolare l’evoluzione di questo sistema, possono però anche degenerare

e creare rigidità e involuzioni.

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«Adesso sempre più per esempio io vedo che c’è un degrado notevole, negli ultimi

due anni nella normativa, perché adesso è diventato… oltre a essere diventata

confusa, molto pregnante, è molto penalizzante sul piano della flessibilità, perché

ti…ti terrorizza, ti mette paura, cioè ti mette addosso delle responsabilità come se tu

fossi chissà cosa, no? Che ti costringe un po’ a fare un passo indietro su alcune

cose, ti costringe proprio perché ti butta… ti mette in croce …» (11:53).

L’involuzione sembrerebbe in qualche modo ineluttabile. Il sistema assistenziale ha

d’innanzi a sé la stessa questione che si pone di fronte alla nostra civiltà occidentale,

quella della sostenibilità. La crescita, l’evoluzione, che ha caratterizzato le strutture

residenziali per anziani e il sistema di Welfare in genere non possono proseguire

all’infinito; c’è un problema di risorse e di sostenibilità complessiva che richiede ad un

certo momento un “fermo” o addirittura una “marcia indietro”, chiaramente non facile da

affrontare.

«È un momento difficile, non solo sul piano normativo, ma anche su quello delle

risorse, che vanno contraendosi. Quindi, è un sistema che probabilmente dovrà

trovare un altro equilibrio… Siamo in una fase in cui questo sistema passa da un

equilibrio a un altro che sarà inferiore, che comunque sarà inferiore, cioè una

retromarcia in qualcosa va fatta… e quindi a maggior ragione uno che ha esperienza

forse riesce a governare ’sto passaggio e chi non ha esperienza secondo me si

troverà molto in difficoltà perché le ripercussioni te le troverai a vario livello del

malcontento» (11:67).

Una dimensione organizzativa molto importante, fra quelle rilevate nel corso delle

interviste, è quella della natura di Pubblica Amministrazione. Una natura pubblicistica

iscritta nel DNA di questi enti. Infatti, la Legge Crispi del 1871 istituiva le Istituzioni

Pubbliche di Beneficenza (ora Ipab), nazionalizzando gli enti caritativi privati e

assoggettandoli al controllo del nascente Stato unitario, il quale assumeva tra le proprie

funzioni la risposta al bisogno sociale, risposta che a quel tempo veniva intesa come

beneficenza.

«C’è una continuità ideale, storica, che io ritengo di vedere nel nostro ente: è quella

dell’intervento statale, laico, cioè, nel campo dell’assistenza e/o della beneficenza,

perché sono due concetti un po’ diversi» (7:16).

L’essere ente pubblico significa essere al servizio del pubblico, al servizio dei cittadini, in

buona sostanza…

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«Apro un altro discorso un po’ collegato a questo, che è il concetto del pubblico.

Noi non siamo una struttura privata, siamo una struttura pubblica e questo fa sì che,

in fondo in fondo, di passaggio in passaggio, ciò a cui rispondiamo sono i cittadini.

[…] Io come direttore rispondo al mio Consiglio d’Amministrazione, il quale a sua

volta risponde a un Sindaco che l’ha nominato, il quale a sua volta risponde ai

cittadini. Quindi, seguendo la filiera, in fondo – senza tanto in fondo – insomma,

anche noi amministriamo soldi pubblici e ai cittadini rispondiamo. Anche questo

concetto è importante averlo, perché nelle scelte che si fanno non è “Oddio, la corte

dei conti ci controlla…”, ma il cittadino mi controlla nelle scelte che facciamo e in

come spendiamo queste risorse» (5:14).

Accanto alla responsabilità e all’orgoglio di far parte di un ente pubblico, che non lavora

per un seppur legittimo interesse privato d’impresa, ma per il pubblico bene, vi è la

percezione, vissuta a volte con amarezza, di essere ingiustamente bersaglio di un diffuso

sentimento di diffidenza da parte dell’opinione pubblica. Ingiustamente, non perché non

si debbano stigmatizzare le inefficienze e i guasti della Pubblica Amministrazione, ma in

quanto l’attacco generalizzato colpisce anche le persone di buona volontà, che sono

presenti e operano tanto nel pubblico quanto nel privato.

«Però, sai, al giorno d’oggi sempre di più cresce ’sta sensazione che all’esterno vi

sia un meccanismo un po’ punitivo verso la dirigenza pubblica in generale, contro

l’ente pubblico… quindi c’è un po’ una caccia, per cui non è che puoi contare tanto

che chi arriva dall’esterno, poi, sia così comprensivo rispetto alla tua buona fede»

(11:19).

Ciò che caratterizza l’ente pubblico è lo stretto rapporto con la politica, che in questi

anni, al pari della categoria dei dipendenti pubblici, non gode di una buona fama e che

anzi è spesso oggetto dell’indignazione e del discredito popolari, che rischiano di far

perdere il senso vero e alto dell’impegno politico, il valore etico dell’occuparsi della “res

publica”.

La figura del dirigente è, all’interno dell’ente pubblico, il punto di congiunzione e di

snodo tra struttura organizzativa e organi politici.

«Io chiaramente non solo mi raffronto con il personale, ma mi raffronto anche con

l’organo politico in quanto l’Ipab è una istituzione pubblica che viene amministrata

da un Consiglio di Amministrazione di nomina politica e precisamente da parte del

Comune» (9:15).

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È, questo, un aspetto critico, perché è fondamentale il rapporto fiduciario tra dirigente e

amministratore. In questo senso, la recente normativa ha affiancato all’accesso mediante

concorso pubblico, la possibilità di conferimento di incarichi temporanei fiduciari da

parte degli amministratori, un po’ come avviene nell’ordinamento statunitense con il

cosiddetto spoil system.

«Ho fatto un concorso, un concorso pubblico perché le Ipab sono enti pubblici a

tutti gli effetti, per cui, per essere assunti a quell’epoca, allora non c’era lo spoil

system, bisognava fare un concorso» (1:1).

Tale sistema però comporta dei rischi per l’autonomia e l’indipendenza del dirigente

rispetto ad eventuali pressioni, che possono arrivargli dall’organo politico, per finalità

diverse dal pubblico bene.

In qualità di “Direttore”, il manager della casa di riposo, deve seguire gli indirizzi degli

Amministratori. Ma egli è, come abbiamo detto prima, Segretario-Direttore, e in questa

veste è lì a controllare che tutto corrisponda alla legge. Di questo è responsabile.

«Ti dirò questo, questo m’è successo talvolta con qualche dipendente, più spesso

con qualche politico… cioè per esempio nel senso che nella mia storia io ho avuto

nettamente delle esperienze difficili, dove vedevo proprio che io avevo un fine

aziendale nel senso… nell’interesse no, del tuo ente e quindi…e quando sentivo,

avvertivo che magari gli interessi erano altri, magari la visibilità o altri ancora, ecco

io lì andavo, andrei ancora adesso, in crisi… Non riuscirei a reggere… […].

Insomma, io quando uso i soldi degli altri, per me questo è un peso e sto più attento,

quando io devo rapportarmi con le persone in azioni che possono incidere nel loro

futuro o delle loro famiglie, per me è una responsabilità, capito? E invece vedo

persone che son fatte come “macchine da guerra”, che passano sopra a tutto e a tutti

perché mettono al centro se stessi… e i loro interessi e questa è una cosa che per me

è profondamente inconcepibile… E questo tipo di persone le ho riscontrate, più che

nell’ambiente di lavoro, come dipendenza, più nell’ambiente politico dove

l’investimento eccessivo su, su sé, rendeva disponibili alcuni a fare disastri…»

(11:46).

Non vanno fatte, chiaramente, indebite generalizzazioni, ma può capitare che la scelta di

spendersi in politica da parte di qualche amministratore muova da esigenze di tipo

individualistico, che possono non essere coincidenti, ma piuttosto confliggenti, con gli

interessi pubblici.

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«Sono io che sono al servizio della struttura, non che la struttura riempie i miei

vuoti e i miei buchi… E questo lo si vede in certe dinamiche che mi capitano

rispetto a chi ha potere su di me… Mi capita di accorgermi che a volte si vivono

delle dinamiche di potere, dove chi sta al di sopra di me utilizza la struttura per i

propri interessi» (5:12).

Il fatto di che il politico trasponga sull’ente pubblico obiettivi di visibilità personale o di

rafforzamento del proprio partito politico, può interferire anche pesantemente con la

mission istituzionale.

«Poi, molte volte, ci conforta anche con i valori etici legati al proprio datore di

lavoro, il Consiglio di Amministrazione. Se tu hai un CdA che è sensibile ad alcune

problematiche, farai meno fatica a far passare o a condividere tutta una serie di

proposte o di progetti organizzativi che rientrano nella mission dell’ente. Se tu hai

un Consiglio di Amministrazione orientato solo ad un aspetto d’immagine, fai molta

più fatica» (4:24).

La critica che viene posta ai politici non è solo il protagonismo, ma anche il fatto di avere

una visione troppo ristretta ad obiettivi di consenso immediato e quindi un po’ miope,

perché non riesce a pensare in termini di medio-lungo periodo. A questo proposito, risulta

quanto mai opportuno distinguere la figura del politico, che pensa alle prossime elezioni,

da quella dello statista, che riesce a vedere più in là31. Vedere più in là è necessario anche

per gestire meglio l’oggi, perché il vivere alla giornata non è un “bel modo di vivere”.

«Ecco, quello che io rimprovero alla politica in generale è la mancanza di futuro.

Perché la politica è preoccupata di raggiungere il risultato il giorno dopo; se non c’è

risultato diretto e immediato non puoi essere confermato. Viceversa i risultati non

tutti e necessariamente sono raggiungibili il giorno dopo, hanno dei tempi, che

richiedono di essere meglio “spalmati”, meglio assimilati, meglio vissuti e

probabilmente tu riscontri il termine di una certa questione a distanza di qualche

anno, di qualche tempo. E questo non avviene. Una mancanza di visione di futuro

che poi ti limita anche nella visione del quotidiano perché l’agire nel quotidiano ti

richiede delle risorse che spesso non ci sono date, non siamo messi in condizioni di

averle, e soprattutto vanno a limitare il tuo modo di interfacciarti. Non riesci ad

31 La frase attribuita ad Alcide De Gasperi – “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione” – secondo Wikiquote sarebbe stata da lui ripresa dal politico statunitense Paul Clarke (www.wikiquote.org/Alcide_De_Gasperi).

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avere riscontri. Questo sì lo vivo come un limite. Lo dico con te, ma lo direi in

qualsiasi contesto» (3:55).

Quando parliamo qui di politica ci riferiamo non tanto alla politica come riflessione,

come pensiero politico, ma alla vita, all’agone politico, con le sue alte battaglie e con le

sue piccole meschinità. In inglese ci sono due distinti termini per indicare questi concetti:

policy e politics. In quest’ultima accezione, la dimensione politica comporta il reale e

concreto rischio di trascinare l’istituzione in polemiche e scontri, che sono spesso

alimentati da un clima di accesa animosità e di scontro ideologico, che non ha niente a

che fare con il bene dell’ente e dei suoi ospiti.

«Beh, l’altra grande battaglia è stata quando abbiamo avuto qualche hanno fa un

attacco mediatico della stampa: per un anno intero eravamo oggetto di attacchi con

fini secondari e quindi veramente ti sentivi di essere, essere attaccato da tutti

ingiustamente e con motivazioni non certamente finalizzate al bene dell’istituto, ma

a fini, a fini politici…» (8:49).

È una dimensione politica che può a volte interferire in alcuni ambiti gestionali, come ad

esempio nella gestione delle relazioni sindacali, mettendo il dirigente in una situazione di

particolare difficoltà.

«Ci sono inoltre le relazioni sindacali che non sono da poco, considerato che si

tratta diuna componente politica che può far saltare gli equilibri consigliati dal solo

rapporto di lavoro» (9:16).

Non si deve però generalizzare, perché i politici – così come le persone – non sono tutti

uguali e si possono incontrare degli amministratori il cui comportamento esemplare può

costituire un imprinting importantissimo, come ci indica la seguente testimonianza:

«Eh…si, io ricordo in particolare quando ero in Comune e mi occupavo di vendite

immobiliari come capo servizi legali e contratti; l’amministratore di riferimento per

me era il Sindaco. Ricordo che avevamo a che fare logicamente con proprietari

terrieri. […] Mi sono resa conto che il Sindaco dava la stessa identica importanza

all’ultimo dei fittavoli che al grande imprenditore che veniva a richiedere di poter

insediare un’azienda. Questa è una cosa che ricordo con molta, con molta

precisione: mi ha fatto molto pensare. Mi ricordo una volta che c’era un signore

che, proprietario di un minuscolo pezzettino di terreno, non poteva venire nei nostri

uffici perché anziano, così, siamo andati a casa sua a spiegargli le cose, siamo

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andati col Sindaco e un’altra persona, siamo andati a casa sua, e il sindaco ha

preteso di fare una cosa del genere, per me è stato molto illuminante…» (2:10).

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7

Dove si narra dei principi morali del manager sociale

Per quanto mi riguarda, mio caro, preferirei che la mia lira fosse scordata o stonato un coro da me allestito e che una quantità di gente si dichiarasse in disaccordo con me piuttosto che essere io, dentro di me, in disarmonia e contraddizione con me stesso.

Socrate

7.1 Principi morali in pratica

Dopo la presentazione del manager e del suo contesto organizzativo, passiamo ora ad

analizzare quanto rilevato sul campo in merito ai principi morali della professione. Si

tratta di un corpus di asserti morali la cui conoscenza risulta un presupposto necessario,

seppur non sufficiente, per lo sviluppo di una competenza etica.

I principi morali della professione del manager sono il livello in cui i valori, che per loro

natura sono generali ed astratti, vengono concretamente tradotti – come ci ricorda

Elisabetta Neve32 – in una sorta di “linee-guida”, di indirizzi operativi, rispetto ai quali

conformare il proprio agire professionale. Principi, che possono essere articolati a loro

volta in norme prescrittive e manifestarsi in atteggiamenti e comportamenti pratici.

Valori, principi e prassi rappresentano distinti livelli del discorso etico, che spesso nelle

interviste realizzate, così come avviene sul piano del discorso comune, si possono

presentare confusi e difficilmente districabili fra di loro.

Mi riferirò, qui, ai principi morali della professione del manager sociale, limitandomi a

questo livello di analisi, pur sapendo che tali principi rimandano “a monte” a dei valori

universali e si traducono “a valle” in puntuali prescrizioni all’agire e in atti concreti.

Nel paragrafo 3.3 ho richiamato il concetto di etica professionale, postulando che

ciascuna professione richieda e sviluppi dei “beni interni”, suoi propri33. L’interesse della

mia indagine si è rivolto quindi a far emergere dalle interviste, dalle dichiarazioni e dai

racconti, quali siano questi “beni interni” e quali siano i principi che traducono tali “beni

interni” in adeguate “linee guida”.32 Neve E., Il servizio sociale. Fondamenti e cultura di una professione, Roma, Carocci, 2000, p. 146.33 Cfr. Da Re A., Vita professionale ed etica, cit. p. 99.

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Dall’analisi “grounded” delle 12 interviste raccolte, ho ricavato 26 codici, descrittori di

altrettanti principi morali.

Nella presentazione dei dati, ho ritenuto opportuno suddividere questo insieme di 26

principi, distinguendo quelli che potrebbero essere in qualche modo riconducibili allo

specifico profilo professionale del manager da quelli che invece attengono maggiormente

alla struttura organizzativa all’interno della quale egli opera. E tra questi, ho

ulteriormente distinto quanto potrebbe essere legato alla natura di Pubblica

Amministrazione di questa organizzazione e quanto invece sia ascrivibile al suo essere

Servizio alla persona.

Da questa analisi sono scaturite 3 sottocategorie, che corrispondono nell’analisi in

Atlas.ti ad altrettante famiglie di codici:

• Principi morali dell’Ente Pubblico;

• Principi morali dei Servizi alla Persona;

• Principi morali del Management.

È opportuno precisare che tale classificazione, effettuata sulla base di procedimento

argomentativo, corrisponde più a esigenze espositive che a reali distinzioni

fenomenologiche. Ad esempio, principi come la solidarietà e la giustizia, che ho inserito

tra i principi morali dell’Ente Pubblico, appartengono anche ai Servizi alla Persona, come

pure non possono essere considerati estranei al Management.

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Fig. 3 – Mappa dei principi etici del manager sociale

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7.2 Principi morali dell’Ente Pubblico

Tra i principi morali espressi dai manager intervistati, che si collegano strettamente alla

dimensione di ente pubblico delle Ipab, vi è innanzitutto quello della laicità.

Poiché opera in un ente pubblico, il manager è chiamato ad un atteggiamento laico, che

non significa laicista. Il laicismo è esattamente il contrario della laicità, perché muove da

un sentimento antireligioso, contrapponendosi in maniera integralista alla manifestazione

di altri pensieri. La laicità dà invece spazio e pari dignità, sul piano delle libertà civili, ad

ogni espressione di religiosità o di non religiosità.

«L’Ipab è anzitutto un ente pubblico, e allora è prevalente ovviamente l’etica del

funzionario pubblico che è un’etica essenzialmente laica. […] C’è una continuità

ideale, storica, che io ritengo di vedere nel nostro ente ed è quella dell’intervento

statale, laico cioè, nel campo dell’assistenza e/o della beneficenza perché sono due

concetti un po’ diversi» (7:16).

Altro principio etico che si collega all’operare all’interno di una Pubblica

Amministrazione è quello della legalità, che non va confuso con il legalismo, cioè

l’ossequio formalistico della norma. Si può infatti osservare scrupolosamente la norma,

obbedire alla lettera, ma tradirne il senso e lo spirito. Il principio di legalità, invece,

orienta l’azione amministrativa al rispetto autentico (nel senso dell’autore, che è il

Legislatore) della norma stessa. La fonte normativa rappresenta quindi la prima e la

principale sorgente, da cui attingere il senso, le finalità e i modi dell’agire di un ente

pubblico.

«In tema di etica ho come base mia personale quella normativa, quindi la legittimità

e in questo campo ho iniziato a fare dei passi movendo da quello che sapevo e cioè

dalla base normativa per poi avventurarmi sul terreno dell’etica. […] Quando noi

facciamo delle cose all’interno dell’ente, la visione della legittimità in me è sempre

molto presente e quindi il contorno è sempre quello» (1:4).

Ed è innanzitutto alla Costituzione che si rifanno i manager pubblici e, in generale, i

dipendenti pubblici, per conoscere i principi morali che devono guidare il proprio

operare.

«Valgono i principi costituzionali della non discriminazione, per esempio, ma

valgono anche tutti quei principi che afferiscono alla gestione della cosa pubblica

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che sono […] per esempio nell’articolo 98: “I pubblici impiegati sono al servizio

esclusivo della nazione”. […] Quindi a fianco di un’etica personale c’è anche

un’etica codificata proprio da delle norme, delle leggi, prima di tutte appunto la

Costituzione, che noi come impiegati pubblici o come pubblici ufficiali o come

incaricati di pubblico servizio (a seconda di quale sia la fattispecie), siamo tenuti a

rispettare» (7:3).

Ed è sempre nella Costituzione che il manager pubblico può andare a rintracciare il fine a

cui tende del suo lavoro, il senso ultimo, che è il pubblico bene.

«E quindi io dico con tutti sempre che, nel decidere, occorre dare attuazione

all’articolo 97 della Costituzione, dove chi lavora deve farlo, come nel nostro caso,

nell’interesse pubblico. Se questo non c’è come elemento di traino diventa difficile

dire che porti dei valori, li vuoi esprimere e vuoi identificarti in questi valori»

(3:41).

Strettamente collegati con il principio di legalità sono i principi di imparzialità e

trasparenza della Pubblica Amministrazione. Per lo Stato democratico tutti i cittadini

sono uguali davanti alla Legge e per questo presupposto di uguaglianza, la condotta dei

funzionari pubblici deve essere imparziale, cioè non favorire illegittimamente alcuni a

danno di altri. Di questo, gli enti pubblici devono dare conto, agendo in modo trasparente,

cioè dando l’opportuna pubblicità ai propri atti, consentendo l’accesso da parte degli

interessati e favorendo il controllo diretto da parte dei cittadini.

Si tratta di un principio cardine dell’azione amministrativa, che in molti casi appesantisce

e rallenta la gestione degli enti, ma che va tenuto sempre presente, da chi ha

responsabilità direzionali, e coerentemente “praticato fino in fondo”.

«A volte, per forniture per le quali il regolamento te lo consente, fai affidamenti

diretti a ditte per la loro alta professionalità, non certo per connivenza. Se c’è un

aspetto che mi ha molto preso dal punto di vista etico è appunto la correttezza e la

trasparenza negli affidamenti delle forniture di beni e servizi. È un atto dovuto,

articolo 97 della Costituzione, però sai questo non basta dirlo, bisogna praticarlo

fino in fondo…» (3:65).

Un altro principio che emerge dalle interviste è quello di appartenenza e fedeltà

all’istituzione. Si tratta di un principio che non è legato precipuamente alla Pubblica

Amministrazione, ma che si ritrova nelle organizzazioni in genere.

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Far parte, sentirsi coinvolti, condividere le sorti di una stessa organizzazione, a cui si

appartiene, sono aspetti fondamentali dell’identità professionale del manager sociale, che

egli è chiamato a trasmettere ai suoi collaboratori.

«E poi devi creare quindi non solo al livello amministrativo, un po’ dappertutto, un

senso di appartenenza alla tua azienda quindi devi fare in modo che il dipendente si

senta sì dipendente, perché giustamente lo stipendio è l’obiettivo principale, ma si

senta anche partecipe del destino di questa azienda, sapendo che se l’azienda va

bene comunque va bene anche il dipendente» (11:25).

Il manager deve porsi intenzionalmente come attivatore di questo senso di appartenenza,

promovendo momenti di riconoscimento e di condivisione, che possono essere ad

esempio le riunioni periodiche di equipe.

«D’altra parte forse sono stato un po’ rigido con qualcun altro perché ho detto:

“O/o…, o si crede a questo gruppo o si fa a meno a venire a questo gruppo!”. Che

cosa significa questo? Che se tu non stai attento a far crescere certi momenti, che

sono momenti di appartenenza e quindi di crescita del gruppo, possono innescarsi

situazioni di ritorno all’indietro» (3:92).

Far parte di un’organizzazione significa vedere l’organizzazione come un tutt’uno e

quindi concepire il proprio ruolo come quello di una “rotellina” all’interno di un

complesso “ingranaggio”.

«… qua può esserci la tentazione, essendo responsabile di un pezzetto, che gli

obiettivi siano quelli esclusivamente tuoi magari anche a scapito dell’intera altra

organizzazione. Perché questa è la mia fetta di organizzazione per la quale sono

responsabile e quindi non mi interessa niente di quello che succede al di fuori di

questa mia fetta e vado avanti per la mia strada. Questa è una tentazione che c’è

nelle organizzazioni grandi» (6:3).

Appartenere a questa entità collettiva è pure rassicurante. L’organizzazione, quale

sistema cooperativo, arriva a realizzare ciò che i suoi componenti singolarmente presi

non possono fare, riuscendo anche a surrogarne l’assenza o le difficoltà.

«Il fatto che ti allontani per qualche giorno vuol dire che c’è un’organizzazione che

riesce a reggere quello che è il fattore della gestione in maniera buona e quindi c’è

una tenuta del sistema» (3:17).

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Si tratta di un appartenere, di un essere fedeli che si riferisce ad un’istituzione, cioè ad

un’entità astratta, ma che è fatta di persone.

«Quando sono andata a Venezia a trattare l’approvazione del conto consuntivo, in

modo tale che si evitasse il commissariamento ad acta”, mi hanno chiesto come mai

continuavo a lavorare all’Ipab, perché avrei potuto anche andarmene… ma

insomma ho voluto essere fedele all’Ente perché nel frattempo era cambiato il

Consiglio di Amministrazione. C’era una brava persona come Presidente che

meritava rispetto quindi mi pareva brutto lasciare le persone, soprattutto quando

sono oneste» (9:29).

È il gruppo in particolare che crea senso di appartenenza e che riesce a sostenere i singoli

operatori, istaurando un sistema che favorisce l’acquisizione da parte loro di nuovi

apprendimenti, per fronteggiare il difficile compito assistenziale che devono affrontare

quotidianamente.

«Si parla molto di burn-out degli operatori. Il burn-out deriva dal fatto che rispetto

ad una mansione faticosa dal punto di vista fisico e di fronte ad utenti difficili –

d’altronde se non fossero difficili non verrebbero qua – io che cosa metto in gioco?

Cioè, se io ho un’organizzazione che mi sostiene posso mettere in gioco determinate

cose. Se io provo in un modo, provo in un altro e alla fine vedo che non c’è nessuno

che mi dia una soluzione anche parziale rispetto ad un problema che io ravviso, è

chiaro che…» (4:47).

Il sostegno del gruppo non si gioca solo sul versante operativo e dell’apprendimento

sociale, ma anche su quello emotivo. È il fatto di condividere per lungo tempo gli stessi

luoghi lavorativi e un comune impegno, che fa sorgere quei rapporti di fiducia che sono

alla base dell’appartenere. Ed è questo appartenere che fa sentire chi lavora in tali ambiti

meno soli di fronte alle inevitabili difficoltà.

«… di essere sostenuta da un gruppo nel quale si sono costruiti dei rapporti di

fiducia […] e quindi il fatto che ci siamo sentiti tutti sulla stessa barca, cioè non

c’era il più bravo e il meno bravo oppure: “Ah, ma ce l’aveva con lei e quindi…”.

Mi sono sentita sostenuta come ad esempio non mi era mai successo nella mia

famiglia» (4:44).

Altro principio non necessariamente legato alla Pubblica Amministrazione ma che in essa

trova particolare declinazione è quello di giustizia e delle sue declinazioni in termini di

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equità e pari opportunità. In quanto ente pubblico, l’Ipab è chiamata ad operare con

giustizia.

«Ecco, un altro valore che mi sento dentro è il concetto della giustizia, che non vuol

dire dare a tutti in maniera uguale, ma dare a tutti secondo il bisogno. Perché non

c’è niente di più ingiusto di fare parti uguali tra disuguali, come diceva don

Milani…» (5:55).

Il mondo è un mondo di disuguali, per questo il senso di giustizia del manager sociale si

esplicita attraverso la valutazione dei diversi bisogni e la tutela delle situazioni di

maggiore fragilità.

«Mah, io direi di sì, direi di sì, anzi lo dico sempre quando mi dicono: “Ma perché

lei non fa questa cosa?” e io rispondo che non faccio questa cosa perché il costo di

questa azione, di questa iniziativa, magari un’iniziativa che è…stimolata: “Ma sai,

dobbiamo dare una mano a…”. E io dico: “Non posso porre a carico di una persona

in stato di bisogno, magari piagata, porre a carico di questa persona il costo per

aiutare una che magari è più giovane, più sana, più capace, più autonoma…”»

(8:12).

L’agire con giustizia del manager non si riferisce solo agli utenti, ma anche ai

collaboratori e in genere all’attività gestionale.

«Il mio tassello, il mio piccolo contributo per migliorare il mondo in questa

posizione lo posso fare, perché se interpreterò questo ruolo, se vivrò questo ruolo

con giustizia, con rispetto, con… e quindi, non lo so, se riuscirò a realizzare delle

condizioni di lavoro eque e giuste per quei 70 dipendenti, per quei 70 dipendenti

sarà fatto, non avrò cambiato il mondo, ma quel piccolo pezzetto di puzzle…»

(5:74).

Di stretta derivazione costituzionale è anche il principio di solidarietà che viene posto tra

i doveri inderogabili di cui ha da farsi carico la Pubblica Amministrazione.

«Ecco…quali sono gli articoli che sono importanti, partendo proprio dalla Carta

Costituzionale? Nei principi fondamentali: “La Repubblica riconosce e garantisce i

diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di

solidarietà politica, economica e sociale” … Ecco, questo è uno dei fondamenti

dell’azione sociale di un impiegato (non occorre che sia un manager, come si usa

dire adesso), di un qualsiasi impiegato pubblico. Non solo, l’articolo 3 dice che “È

compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che

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limitando di fatto la libertà di uguaglianza impediscono il pieno sviluppo della

persona umana”. Questo, per quanto mi riguarda è una sorta di etica proiettata

all’azione, alla ragione del proprio lavoro…» (7:3).

La solidarietà, che è rivolta al perseguimento del pubblico bene, è un principio iscritto,

prima ancora che nella Costituzione repubblicana, nel nostro statuto di esseri umani,

partecipi cioè di un medesimo destino, che ci lega insolubilmente gli uni agli altri, fin dal

nostro nascere e per tutto il corso della nostra esistenza.

«Ma come puoi pensare di salvarti solo tu? Cioè siamo inequivocabilmente legati

l’uno all’altro… cioè se vado giù io…» (5:60).

Un principio solidaristico, che per il manager dell’ente pubblico si traduce nel fatto che

egli non si può comportare come un qualsiasi operatore economico, ma deve

contemperare gli interessi economici dell’ente con il pubblico bene.

«Normalmente l’Ipab si comporta così: quando nella rivendicazione di un proprio

diritto rischia di causare più danni di quelli che sarebbe chiamata a riparare

dall’altra parte come ente pubblico, normalmente stempera l’esigenza di questo

diritto in considerazione di questo principio. Ad esempio, se un inquilino non paga

l’affitto devo metterlo in strada lui e 5 bambini? Evidentemente, per recuperare o

cercare di recuperare non so, 5.000 euro, creo un danno talmente… un danno

sociale talmente evidente, talmente notevole, che devo assolutamente interrogarmi

se io, sebbene abbia il dovere di proseguire in questo senso, ho poi una convenienza

diciamo così in un bilancio sociale a fare questo. […] Noi siamo tenuti appunto al

buon andamento della nostra amministrazione, ma ripeto contemperiamo il danno

che la precisa esazione di ciò che è nostro diritto potrebbe determinare nei confronti

della società nel suo insieme. In poche parole è la stessa ragione per cui noi, pur

avendo un patrimonio immobiliare che è destinato a sostenere una parte delle nostre

attività assistenziali, partecipiamo alle politiche abitative del Comune… evitando

azioni men che meno speculative ma neanche di punta di mercato con le nostre… In

poche parole affittiamo le case, affittiamo i nostri appartamenti, che pure

dovrebbero sostenere le nostre attività, a un canone concordato, a un canone…

quelli che si chiamano i patti territoriali, insomma a un canone moderato, moderato

per la maggior parte, invece per le attività commerciali… traiamo dai nostri affitti,

dai nostri immobili, il massimo reddito possibile…» (7:19).

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Una principio di solidarietà che si scontra spesso con l’esigenze di bilancio e di azienda

che deve far quadrare i propri conti.

«Mah, parlando dei servizi alla persona succede tutte le volte in cui ti trovi di fronte

ad utenti che hanno effettivamente la difficoltà di pagare… il limite tra… tra

l’impresa per così dire o l’aziendalizzazione di un servizio alla persona e il bisogno

sociale è un limite fragile…» (2:28).

7.3 Principi morali dei Servizi alla Persona

Rispetto ai principi espressi dai manager intervistati, che possono ricondursi al carattere

di “servizio alla persona” dell’organizzazione in cui operano, ritengo opportuno partire

dal quello che definirei accogliere la sofferenza. Ho a lungo pensato alla definizione più

corretta di questo principio, perché la sofferenza è più che altro un dato di fatto

ineluttabile, che si cerca sempre di fuggire e che non ha niente della bellezza e della

desiderabilità di ciò che in noi evoca più di frequente l’etica, intesa come ricerca della

“vita buona”. Ho pensato quindi a definizioni come “alleviare la sofferenza”, “lenire il

dolore”, “aiutare chi soffre”… Riflettendo e andando a rivedere le interviste, ho ritenuto

che il principio morale sia proprio quello di accogliere la sofferenza, che si richiama ad

un valore più grande, che è quello dell’umanità. Forse è proprio questo il senso della

sofferenza, quello di ricordarci la nostra umanità e di ciò che ci accomuna agli altri esseri

umani. È l’esperienza diretta e personale del dolore che ci mette veramente a contatto con

la sofferenza dei nostri simili.

«No, c’è un episodio che mi ricorda ancor più di aver accelerato questa dimensione

ed è stato nel 2005 [… ], dal 2005 al 2010 io ho subito 7 interventi chirurgici, e le

esperienze di profondo dolore e di sostanziale non autosufficienza hanno irrobustito.

Io mi ricordo che quando stavo male pensavo a come… a come si fossero sentiti gli

anziani nelle stesse condizioni, cioè in qualche maniera pensavo al mio male ma

pensavo… io ho un male, spero, temporaneo, transitorio, una persona non

autosufficiente sta così in modo permanente. Allora queste consapevolezze, questi

passaggi… insomma è stato un passaggio che ha ulteriormente rinforzato le

motivazioni, le convinzioni che erano già comunque devo dire forti …» (12:12).

Nella nostra società si tende ad allontanare il più possibile la sofferenza, a nasconderla, a

circoscriverla, a rinchiuderla in posti come, appunto, le Case di Riposo.

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«Cioè, tu sei in un mondo dove sai che in questo mondo per definizione è il mondo

dove c’è sofferenza. Tu… è inutile che vai tanto in cerca di girarci intorno, devi

sapere che questo mondo è un mondo in cui la sofferenza è il primo attore e chi ci

opera non può non tenerne conto. Quindi la sofferenza. Tu puoi cercare di limitarla,

cercare di deviarla, cercare di… – …di accoglierla… – …di accoglierla, di gestirla,

ma non negarla, no. Per cui non si può negare che questi sono ambienti di

sofferenza, per cui questa premessa vuol dire che l’ospite soffre, mediamente, e non

solo sul piano fisico. Il parente mediamente soffre, il dipendente, mediamente,

lavora in questo circuito…allora questa è la premessa dalla quale bisogna partire,

sennò altrimenti si fanno dei castelli in aria rispetto a progetti terapeutici. Sai è tutto

un discorso molto bello, organizzato, dove si danno obiettivi, ma devi sapere da

dove parti e questo è il primo punto» (11:11).

Le strutture residenziali per anziani sono effettivamente luoghi di sofferenza.

«La nostra struttura non è un ospedale, dove si entra per un fatto acuto, o si subisce

un intervento e a seguire si prospetta una dimissione. Qui da noi le persone entrano

e aspettano la morte» (9:43).

Questo è il dato di partenza, di cui non si può non tenere conto. Va però detto anche che

l’impegno di quanti lavorano nella struttura dev’essere quello di farne un luogo di

relazioni e di vita, quello di riempire di vita questa attesa.

Un secondo principio espresso dai manager intervistati è creare utilità, cioè essere utili.

Generare, quindi, attraverso il proprio lavoro, un valore aggiunto, a beneficio della

società.

«Diciamo che il senso di un’attività è quello molto banale di meritarsi il proprio

stipendio, cioè di cercare di meritarsi il proprio stipendio. In che senso? Nel senso

di lasciare almeno quanto ci hanno dato. Di permettere che altri mietano

quantomeno gli stessi semi che tu hai usato per seminare, ecco. Questo come

obiettivo minimo, diciamo così… E quindi diciamo che l’etica dovrebbe aiutarti ad

ottenere questo risultato; ovviamente non è il risultato che ci si pone, ma uno dice:

“Questo è il minimo che io posso fare.” Dopodiché invece la tendenza è

possibilmente lasciare qualche semino in più di quello che si è utilizzato per

seminare…» (7:54).

Un principio di utilità che trova all’interno di queste organizzazioni, che producono

servizi alla persona, una fondamentale declinazione sociale.

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«… mah, ti posso dire che comunque io personalmente, ma penso tutti quelli che

lavorano in questo ambito, si rendono conto di dare molto di più proprio perché la

propria azione è finalizzata non tanto ad un business ma ad un’azione che ha una

valenza sociale, cioè un’utilità sociale molto forte. Io lì personalmente trovo un

senso molto forte. Se avessi dovuto guardare prestazioni rispetto ad aspetti

retributivi, avrei fatto altri discorsi. Sono passato sopra a tante cose proprio perché

dico: “Ma, io sono già appagato per tutta una serie di aspetti del lavoro che svolgo e

quindi posso anche evitare di massimizzare altri aspetti di tipo economico”» (6:43).

È il lavoro nel sociale, con ciò che produce in termini di benessere degli ospiti e

dell’organizzazione in genere, che gratifica il manager sociale.

«Quello che rimane, il tipo di lavoro che facciamo ha un senso perché lo vediamo…

siamo gratificati dalla qualità e dal ritorno che ti danno gli assistiti» (9:52).

Altro importante principio che si rileva dalle interviste è quello della centralità della

persona. È la persona il “primo bene”.

«No, direi che l’attenzione ai miei principi sono quelli dell’attenzione massima

all’uomo e alla persona. Il primo bene in assoluto che abbiamo sono le persone, non

sono le cose» (8:43).

«… l’importanza della persona… della persona, mi verrebbe quasi da dire fisica, se

non… se non fosse un paradosso… della persona presa in tutte le sue componenti,

fisiche e spirituali. Diciamo che questo è quello che guida: l’importanza

dell’individuo, della persona, sia esso cittadino o non cittadino, sia esso giovane,

adulto, grande, piccolo. […] Diciamo i valori della persona sono quelli più

importanti…» (7:28).

Mettere al centro di un servizio la persona significa, però, ridiscutere l’intero impianto

organizzativo e la filosofia che sta dietro all’organizzazione dei reparti.

«Allora, noi abbiamo investito tutto e soprattutto sulle persone. Soprattutto sui

destinatari dei servizi, per cui la persona è al centro sotto tutti i profili, tanto più che

abbiamo avvertito la necessità di rivedere le stesse linee guida dell’Unità Operativa

Interna. Non ci siamo limitati ad avere le linee guide che in genere scandisce la

Regione con qualche provvedimento» (3:18).

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Ma significa anche ridiscutere il lavoro assistenziale, come cioè ci si avvicina all’anziano,

alla persona anziana, trattandola come persona e non come oggetto, non solo come corpo

da lavare, da imboccare, da muovere…

«…Vedere questa persona anziana non come uno che devono lavare, cambiare,

mettere a letto, cioè delle mie cose standardizzate da fare, ma pensare a questa

persona come una risorsa verso la quale io posso ancora dare risposta. [Bisogna] far

passare il messaggio che l’ospite non è mio, l’anziano non è mio, per cui lo metto a

letto quando voglio io, deve mangiare quando voglio io… c’è uno zoccolo duro del

personale che viene già da un percorso di formazione di diversi anni fa… mentre

bisogna avere ben chiaro in testa il fatto che la persona è ancora persona, anche

quando…» (4:41).

Riconoscere l’anziano come persona vuol dire riconoscerne l’identità, unica e irripetibile,

e la storia personale che lo ha portato fin qui.

«Adesso, con questo esempio, le spiego concretamente cosa intendo per

"riconoscere le persone". C’era un signore qua fuori che io ho saputo che è stato

insegnante di inglese. Mi avvicino, lo saluto e gli chiedo qualcosa legato alla sua

vecchia professione. Lei non può immaginare come in un secondo ha cambiato

espressione. Questo qui ha detto: “Ah, qualcuno mi riconosce, sa che sono stato un

insegnante d’inglese”, ha cambiato letteralmente espressione. Allora tu puoi lavarlo

bene, dargli da mangiare bene, offrigli tutte le cose belle legate a un servizio, ma se

non lo riconosci con una sua identità di persona, eh... non stai dando una cosa che

ha valore. Quindi ci devono essere due elementi qua: riconoscere le persone, sapere

che alla fine qui dentro devono essere riconosciute, devono continuare a sentirsi

ancora parte di una società e dargli un servizio che sia il più possibile un servizio di

qualità» (10:10).

È questo un approccio relazionale che non si limita agli utenti o ai familiari, ma che deve

contraddistinguere tutti i rapporti che il manager intrattiene all’interno della struttura,

anche quelli con i collaboratori.

«Rispetto della individualità delle persone, che è vero particolarmente per gli

anziani, ma è vero anche per gli operatori, per i lavoratori. Rispetto assolutamente

dell’individualità, del ruolo, non del ruolo, del valore dei singoli . Cioè, i singoli

non possono essere mischiati nello sfondo di una massa” (non sono numeri

insomma). Io veramente ho sempre in mente questo pensiero, di riconoscere, di

conoscere il valore di ogni singolo: operatore, lavoratore, collega, anziano, utente,

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quello che si vuole. Eh... e non è facile quando hai tanti numeri, però questo deve

essere l’atteggiamento giusto, lo sforzo giusto, perché poi alla fine questo è il modo

più rispettoso di vivere una realtà complessa, che se non la rispetti poi è pronta a

risucchiarti, a mangiarti” (sorride). Cioè, se tu entri – non dico in lotta – ma se tu

hai un atteggiamento di ostilità o di rigidità nei confronti della struttura, perché ti

scoccia uno che ti chiede una cosa, perché è pesante il fatto che un anziano ti chieda

per l’ennesima volta… un familiare… ecco, alla fine non ne esci, non ne esci. Certo

che è pesante essere attento a tutto, però non c’è alternativa, non c’è alternativa.

Ecco. Quindi il mio valore di fondo è veramente la considerazione, il rispetto, la

valorizzazione di ogni singolo per i talenti che ha, che sono uno, mezzo, tre, cinque,

mille, mille, un milione, ma…» (10:11).

Dal principio di centralità della persona discendono una serie di altri principi, come ad

esempio quello della personalizzazione degli interventi, che si collega al concetto di

unicità della persona e al valore della diversità.

«…innanzitutto tutelare l’unicità della persona ma anche, se possiamo guardare

l’altra faccia della medaglia, valorizzare le diversità» (4:10).

Poiché gli anziani sono persone e le persone sono uniche e irripetibili, gli interventi

assistenziali non possono rispondere ad una rigida e fredda standardizzazione, non

possono seguire logiche di produzione in serie, che massimizzano l’efficienza a danno

della qualità delle relazioni. Se la persona è al centro, sono le procedure di lavoro che si

devono adattare, attraverso un progetto assistenziale individualizzato, che viene “tagliato

su misura” per l’ospite.

«Il rispetto della individualità della persona passa attraverso una serie di strumenti

che utilizziamo. Il PAI, ad esempio, che è il progetto assistenziale individuale, è una

cosa un po’ seria, nel senso che significa che la persona viene presa in carico nella

sua individualità e quindi c’è una equipe di professionisti che prende in

considerazione la situazione della persona, specialmente le sue capacità residue, per

rispettarle, prima di tutto, e poi svilupparle, se possibile. Perché rispettarle vuol dire

che, se per esempio lei non è incontinente, perché le devono mettere il pannolone?»

(11:31).

Mettere al centro del proprio lavoro la persona, significa lavorare per il benessere

dell’ospite, che è un altro principio importante per i manager intervistati.

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«Ricordiamoci che al centro del nostro lavoro c’è l’ospite; se noi riusciamo a farlo

stare bene, un po’ meglio di come stava prima noi abbiamo ottenuto un risultato, io

sono, non lo dico tanto per dire, io sono convinta che il lavoro sia di base

sostanzialmente questo…» (2:31).

Un principio, quello di far stare le persone “un po’ meglio”, che si traduce in concreti

impegni per il Direttore di una struttura, a cui competono le azioni finalizzate a creare

condizioni di comfort per gli ospiti, a cominciare dagli aspetti logistici.

«Ad esempio, aver maturato l’idea che le persone per poter vivere in maniera

dignitosa in contesti come questo necessitano di spazi adeguati. Lo spazio sembra

una sciocchezza, ma ti dirò che io sono arrivato qui nel ‘94, che era una struttura

fatiscente, da chiudere, con lo stesso numero di persone che abbiamo adesso. Erano

195 ospiti allora e sono 203 adesso… bene, abbiamo il 60% di spazi in più. Ora,

l’aver lavorato molto su questo non è solo questione di rispondenza agli standard

imposti dalla norma, ma piuttosto lavorare per costruire delle condizioni di

vivibilità, e quindi di spazio, laddove lo spazio e il tempo a disposizione fossero tali

da avere più respiro. Il valore che deve essere dato alla vita delle persone, il rispetto,

richiede che ci siano spazi di agibilità» (3:49).

È bene considerare con la dovuta attenzione le condizioni materiali che creano o almeno

favoriscono il benessere dell’ospite, come ad esempio il decoro e la pulizia all’interno

della struttura, nonché il modo di presentarsi degli operatori.

«Se io dico che l’impegno è quello di dare benessere all’ospite, non possiamo, per

dire una stupidaggine, un giorno mi ricordo quando sono arrivato che c’erano gli

operatori con 2 divise, poi siamo arrivati a 3, adesso a 4, e senza limiti di lavaggio.

Per dire, non possiamo approcciarci all’utente sporchi, con la divisa sporca, con la

divisa che puzza. Dobbiamo avvicinarci all’ospite con uno stile che è piacevole. E

quindi, come deve essere pulita la divisa, deve essere pulito il letto, deve essere

pulita la stanza, deve essere pulita la tovaglia, deve essere pulito… tutto. Cioè è un

modo di essere, no? Allora se tu pretendi questo, pretendi che anche

l’abbigliamento sia uno stile di rapportarsi, uno stile che non deve essere formale

rispetto solo all’abbigliamento ma che si deve tradurre tutto in atteggiamento che va

– dicevo prima – dalla stanza al letto, dalla sala da pranzo al linguaggio, al saluto e

via discorrendo…» (8:31).

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Si persegue il benessere dell’ospite principalmente agendo sulle condizioni immateriali,

legate al clima che si percepisce quando si entra in una struttura assistenziale. Un clima

“di casa”.

«Soprattutto una condizione che ti consenta di vivere ambienti come questo come se

fossero la casa delle persone, il luogo dove la persona deve star bene e sentirsi bene.

Questo è un fattore di tipo valoriale da cui non si può prescindere» (3:34).

Questo lega a filo doppio il benessere dell’ospite con il Benessere Organizzativo che è un

altro principio espresso nelle interviste.

Perché è chiaro che in un servizio alla persona la qualità del prodotto si misura anche sul

grado di soddisfazione dei lavoratori e sul clima organizzativo che si riesce ad instaurare.

È questa una delle differenze sostanziali tra le organizzazioni che producono servizi alla

persona e le organizzazioni che producono beni. Come consumatori, noi non ci

accorgiamo se un determinato bene, ad esempio un paio di scarpe, è realizzato in una

fabbrica che produce malessere organizzativo, in cui gli operai sono sottopagati o esposti

a condizioni di pesante sfruttamento. Nei servizi alla persona come quelli in esame,

invece, proprio per il loro alto profilo di relazionalità, è fondamentale che le relazioni

all’interno dell’organizzazione siano sane, perché da esse soprattutto dipende la qualità di

ciò che viene “prodotto”, che è il benessere degli utenti.

Se è vero che dal benessere degli operatori dipende il benessere dell’ospite, è vero anche

il contrario, che cioè far star bene l’ospite fa star bene anche l’operatore.

«Ed è chiaro che benessere, quindi benessere della persona come destinatario,

significa benessere dei dipendenti» (3:21).

La “partita del benessere”, in questo senso, non è un gioco a “somma zero”, per cui se

uno vince, l’altro perde… si vince tutti o tutti ce ne rimettono, in qualche misura.

Sul benessere vanno fatte delle scelte organizzative importanti, che possono chiaramente

avere anche un impatto economico di un certo tipo.

«Su questo abbiamo insistito molto non solo perché vi sia rispetto degli standard –

noi siamo sopra standard, quindi non ottemperiamo certo al minimo richiesto dalla

Regione –, ma soprattutto che il personale sia orientato, ben improntato, soprattutto

formato ed informato. La formazione è stato uno dei fattori sul quale abbiamo

investito e stiamo investendo. E soprattutto la garanzia del lavoratore sotto il profilo

della sicurezza e anche direi dello stress da lavoro correlato» (3:21).

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Si tratta di un ambito in cui il direttore assume un ruolo fondamentale, essendo una sua

precisa responsabilità quella di creare i presupposti per un benessere organizzativo.

«… nella gestione del personale, è una banalità pensare di doversi occupare solo

della gestione delle pratiche. Quello è un aspetto, ma in realtà riuscire a mediare i

bisogni della persona coi bisogni dell’organizzazione e fare in modo che le persone

vengano a lavorare volentieri e quando vengono si trovino comunque accolte in un

ambiente che gli permette di esprimere la loro capacità professionale, di farle

crescere, in cui stanno volentieri, ecco; quello secondo me è il compito che alla

fine…» (2:32).

«Terzo punto importantissimo per me è la cura del clima, cioè in una struttura che

appunto parte dal presupposto della gestione della sofferenza, come direttore, hai la

responsabilità del clima organizzativo… che è una cosa su cui si deve lavorare, non

è che viene da sola, sul clima organizzativo devi lavorare con varie leve…» (11:20).

Altra declinazione del concetto di centralità della persona è quello

dell’autodeterminazione dell’ospite, principio fondante dei servizi sociali, che discende

dal presupposto che la persona è un essere unico e irripetibile.

«Poi, nel tutelare l’unicità della persona, possiamo metterci dentro tante cose… cioè

garantire che questa persona abbia il più possibile l’opportunità di essere, tra

virgolette, libera di fare le scelte, che possono essere dalla scelta di come

alimentarsi, alla scelta di partecipare ad una attività, alla scelta di poter uscire…»

(4:10).

Il principio di autodeterminazione dà concreta applicazione al valore assoluto della

libertà, espresso nelle scelte quotidiane.

«L’autodeterminazione dell’ospite […]. Cioè, se noi andiamo a parlare

dell’alimentazione dell’ospite, della sua autodeterminazione, a cominciare dalla

banalità proprio di mangiare troppo e di ingrassare, ad esempio… su questa banalità

ci si potrebbe scrivere un libro, nel senso che un individuo, al di fuori della casa di

riposo, può decidere se essere magro o essere grasso, come crede, salvo poi essere

obeso e dover quindi essere curato. In casa di riposo se non si sta attenti, un’ottica

strettamente sanitaria ti imporrebbe di stare a dieta stretta. Per cui l’ambito

dell’etica incomincia proprio dal basso, cioè dalla possibilità di fare le minime

scelte di vita che sono però fondamentali per l’autodeterminazione e anche quindi

per l’espressione della dignità della persona» (1:26).

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In base a questo principio la struttura deve consentire all’anziano di sentirsi libero,

com’era o similmente a quando stava a casa sua. Sentirsi quindi meno “ospite” e più “a

casa propria”, in quella che è la propria vita.

«Se io mi sento un ospite per cui devo chiedere permesso per tutto ciò che faccio, se

io non sono a conoscenza di alcune attività che la struttura potrebbe offrirmi e di

fatto divento proprietà di un’organizzazione, che di fatto mi fa fare quello che vuole

lei, avrò una certa visione di come funziona qui dentro; se invece io mi sento un

attore, rispetto al fatto di dire io avrei bisogno di questo oppure avrei piacere di

sperimentare quest’altra cosa, avrei piacere di vedere mio figlio o quant’altro, è

chiaro che la mia percezione del mondo è completamente diversa. Io credo che

l’organizzazione dev’essere funzionale all’utente e non viceversa» (4:20).

L’autodeterminazione dell’ospite significa che dev’essere lui a voler restare e se vuole

andarsene ed è in grado di farlo: non può essere trattenuto.

«Il diritto all’autodeterminazione della propria vita, che arriva fino al limite che...

beh, l’altro giorno mi chiamano perché uno vuole andare via… ma se è in grado di

intendere e di volere, e vuole andare via, ha il diritto di andare via, gli ho detto:

“Vada via quando vuole, mi faccia una lettera dove dice “io voglio andare via, non

voglio più stare qua”. Verifichiamo le condizioni, che non sia nelle condizioni di

restare su una strada… – questo aveva una casa, aveva soldi – e vai a vivere la tua

vita”; è stato dimesso 15 giorni fa» (12:22).

L’autodeterminazione si traduce a sua volta nel principio di libertà di movimento

dell’ospite, tema molto avvertito dagli intervistati.

«Poi una grossa battaglia, che è ancora sottovalutata negli enti, è quello del

principio del libero movimento dell’ospite. Quindi della limitazione della

contenzione. Perché c’è ancora un’idea del valore della contenzione terapeutica,

cosiddetta, molto utilizzata nelle strutture… beh, se lei va a vedere negli ospedali è

ancora molto utilizzata in certi reparti ospedalieri; dove ci sono anziani è facile che

vengano legati gli anziani, e spondinati – perché anche la spondina è un mezzo di

contenzione – con una certa superficialità ed inconsapevolezza su quelle che sono le

ripercussioni negative di questo sistema di gestione assistenziale, perché non è che

alzare la spondina non voglia dire niente: dietro a quella scelta c’è tutta una serie di

limitazioni delle libertà personali, ma anche proprio della dignità della persona, che

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poi “rotolano” verso delle situazioni di degenerazione in termini di qualità di vita»

(1:29).

Quello della contenzione è in effetti un problema che viene sollevato da molti direttori e

che è fonte a volte di tensioni all’interno della struttura, in quanto in esso si scontrano il

principio di libero movimento con il principio di tutela della salute e dell’incolumità

dell’anziano.

«A volte mi sono trovata a scontrarmi pesantemente con i miei coordinatori su

scelte che riguardavano ad esempio la contenzione, perché naturalmente, nel

contenere la persona, subentra molto la paura di chi assiste e quindi è in contatto

diretto… per tutelare la persona… quindi si lega la persona perché si ha paura che

cada e si faccia male. Arrivando a volte a delle modalità che sono inaccettabili per

me…» (1:53).

Un tema su cui il direttore interviene spesso direttamente, anche per una specifica

competenza, che in alcuni regolamenti interni viene assegnata a questa figura, quale

massimo responsabile della salute degli ospiti.

«… potrei parlare di qualche episodio di contenzione in cui non condividevo

assolutamente…. Le nostre linee guida prevedono che per un certo tipo di

contenzione, la tuta per esempio, dev’esserci un’autorizzazione specifica del

direttore, allora là magari mi è successo una volta di intervenire…» (1:54).

La tensione fra il principio di libertà di movimento e le esigenze di tutela può essere

vissuta internamente dal manager sociale come un dilemma etico.

«Quando scappa una persona affetta da demenza, il primo pensiero è: “Evviva, ce

l’ha fatta! Se era la libertà che voleva, l’ha raggiunta”; dopo dico: “Andiamo a

cercarlo, perché se non lo trovo mi mettono dentro”. Così come abbiamo superato la

questione “Il non autosufficiente può uscire dalla struttura?”. Secondo me se la

persona non autosufficiente è in grado di intendere e di volere, ha il diritto di uscire,

ha il diritto e noi dobbiamo garantirglielo, deve stare ad alcune regole: Quando vai?

Dove vai? Quando rientri? Se hai bisogno mi chiami…» (12:23).

Altro principio legato al concetto di persona che emerge dalle interviste è quello di

famiglia. Valorizzare la famiglia significa ricordarsi che quando un ospite entra, si porta

appresso una storia e dei legami che sono importanti, perché fanno parte inscindibile di

ciò che egli è.

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«Quello che conta è la persona e la sua storia… e qui c’è un altro valore che è la

famiglia. […] Io… o comunque all’interno di questa struttura, insomma, abbiamo

consapevolezza del valore della persona, nel senso che si dà valore a tutto ciò che ci

ha portato fin qui. E quindi quando io e lei ci incontriamo, lei e io siamo frutto di

una storia, di un percorso, eccetera, del quale non siamo interamente responsabili,

nel senso che è anche quello che hanno fatto i nostri genitori e che poi hanno agito

su di noi e che ci hanno portato a essere ciò che siamo… non ne siamo responsabili:

diventiamo responsabili di ciò che ne facciamo, sicuramente sì. Per cui l’integrare

nell’incontro… avere consapevolezza che nell’incontro ha valore tutto ciò che ti ha

portato fino a qui, fino all’incontro con me e che quindi io devo in qualche modo

gestire…» (5:18).

Il rapporto tra la struttura e la famiglia non è mai semplice, come vedremo in seguito, ma

rimane un aspetto importante, da curare con attenzione, a volte anche un po’ mediando

con le esigenze dell’organizzazione.

«Adesso sono andato via da Xxxxx, ma una cosa che mi sarebbe piaciuto fare è un

maggior coinvolgimento della famiglia nel processo di valutazione dell’ospite.

Quindi una partecipazione nel momento dell’Unità Operativa. Avevo già cercato di

introdurlo, questo, ma ho incontrato molte resistenze da parte del personale per cui

avevo detto: “Vabbè, facciamo che diamo la restituzione al familiare subito dopo in

forma più strutturata…”. Però riuscire a fare in modo che qualsiasi decisione

sull’ospite sia presa con piena coscienza da parte della famiglia…» (6:34).

La famiglia è, in fondo, il modello a cui guarda anche la stessa organizzazione del

servizio, al fine di rendersi sempre più consona ai bisogni dei suoi utenti.

«Questo è l’elemento che mi che mi ha guidato in questi anni, il massimo rispetto di

un bisogno e l’attenzione verso qualche cosa che qui dentro difficilmente trovano,

che è quello della dimensione familiare, che è quello della quotidianità, che è quello

dei ritmi normali di una vita familiare. Quindi lo sforzo che tutto sia finalizzato poi

al riconoscimento della identità della persona. Se io riconosco il valore di certe

abitudini, alla fine vuol dire che vado a ragionare sul singolo, sui valori del singolo,

sulla individualità, sulla personalità, sulle esigenze che ha il singolo di essere

riconosciuto» (10:9).

Dare valore alla famiglia, significa dare un valore anche alla famiglia dell’operatore, non

dimenticarsi che anche l’operatore ha una famiglia e quindi degli impegni personali, che

deve conciliare con gli impegni di lavoro.

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«Che cosa vuol dire? Vuol dire esattamente, come nel concetto di prima del

servizio, cioè faccio quello che serve ma nello stesso tempo non posso dimenticarmi

che sei un operatore ma anche una mamma, che per esempio ha dei figli e quindi a

una famiglia e che nelle scelte dei progetti obiettivo, degli straordinari ecc. bisogna

star attenti a non fare delle scelte che mettano le persone in condizioni impossibili,

che non riescono a reggere. Stesso discorso per quanto riguarda i familiari, cioè è

vero che noi siamo i tecnici, che noi ci occupiamo della cura, che siamo noi che

sappiamo fare le cose, ma dobbiamo integrare il nostro punto di vista con quello

della famiglia. Questo non vuol dire che mi devo far dire dalla famiglia quello che

devo fare, ma che la famiglia mi dice tutto quello che è stata la persona prima

dell’incontro con me e che non posso certo dimenticare, ma che anzi diventa una

risorsa per la cura, perché se ci racconta che il suo caro amava fare determinate

cose, che adesso non è più in grado di fare da solo, questa può diventare una leva,

una risorsa nei progetti, in quello che si fa» (5:18).

Molto presente nelle interviste è il principio del rispetto, che si richiama anch’esso al

valore della persona e all’importanza che nelle relazioni umane non si perda mai il senso

della ricchezza che ciascuna parte porta con sé in quanto persona.

«…vediamo un po’ quelli che sono arrivata a maturare… Innanzitutto un concetto

di rispetto, nel senso che quello che ho maturato è il fatto di vivere il rispetto per

l’altro, partendo dal rispetto per se stessi. […] Più si rispetta sé e più si rispetta

l’altro. […] Nella relazione con l’altro è importante questo concetto del rispetto,

della consapevolezza che l’altro è un valore, perché lo sei anche tu…» (5:4).

Si tratta di un principio che il dirigente deve sentire e praticare in prima persona,

vigilando attentamente sui propri atteggiamenti e comportamenti. Questo perché il ruolo

di potere che ricopre lo pone spesso a rischio di perdere di vista tale principio.

«Altro aspetto voglio dire di etica o comunque di comportamento per quanto mi

riguarda è sempre stata quello di cercare di avere rispetto quindi di non utilizzare il

ruolo, che tu ricopri quindi magari un ruolo che ti consentirebbe anche di gestire

determinati rapporti in maniera… autoritaria o comunque… e invece cercare di

avere sempre in primo luogo davanti, che sia il dipendente, che sia l’ospite, che

sia… il rispetto del tuo interlocutore, quello è la prima cosa» (11:42).

E quindi, anche nel momento in cui il dirigente deve essere fermo e deciso nei confronti,

ad esempio, dei suoi collaboratori, non può mai ovviamente scadere in comportamenti

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irrispettosi e di prevaricazione, abusando in qualche modo della sua posizione di

superiorità.

«… cioè, anche quando devi eventualmente richiamare, devi farlo con una forma

comunque di rispetto, cioè… è un’altra persona. Io gli dico quello che devo dire, ma

non devo mica “sbranarlo”, no? Gli dico le cose come stanno e lì a volte, magari

non tutti, hanno questa capacità, non riescono a gestire il rapporto col rispetto che

per me è un punto principale. Lo pretendo anche io nei miei confronti, però prima

devo darlo» (11:21).

Il rispetto nei confronti dei collaboratori è un punto essenziale dell’etica professionale di

un manager. E questo rispetto si deve tradurre in un’attenzione alle singole persone e in

una valorizzazione di quanto queste possono dare.

«Il rispetto, rispetto quindi delle loro esigenze, rispetto delle loro possibilità… che

io esigo a mia volta. Quindi, il rispetto è sicuramente una caratteristica che deve

permeare il comportamento che si mette in campo» (2:7).

Il rispetto va rivolto soprattutto agli anziani ospiti, che devono rappresentare la prima

attenzione del direttore e della struttura che egli dirige.

«… il rispetto anche degli utenti, perché noi lavoriamo per dare loro una risposta e

l’utente è sempre al centro del lavoro…» (2:7).

Il manager sociale deve promuovere questo sentimento di rispetto, cercando di

“contaminare” l’ambiente in cui opera, in modo tale che i propri collaboratori lo

recepiscano e lo trasmettano a loro volta.

«… il rispetto della persona è fondamentale e io ritengo che questo deve essere

profondo in chi dirige una struttura, perché, a caduta, condiziona, orienta. È come…

io uso questa metafora: abbiamo come dei protoni, che escono dalla pelle delle

persone e, quando viaggiano, contaminano. Allora l’aspetto etico è… il rispetto

della persona che è tanto più elevato quanto più compromessa è la persona. Tanto

più la persona non è in grado di essere autonoma, di difendersi, di autodeterminarsi,

tanto più il direttore deve farsi carico del rispetto della dignità umana. Oltre al

principio, c’è l’elemento pratico perché poi dissertare sull’etica e dopo “razzolare”

male non va bene, e allora questo si coniuga con aspetti operativi che sono legati a

piccole cose come i luoghi, gli ambienti e le attività che vengono erogate ogni

giorno… il “tu” e il “lei” all’anziano, il fatto di rispettare, ad esempio, l’intimità

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dell’anziano, il fatto, ad esempio, di informarlo delle cose che si stanno facendo a

suo favore, anche quando l’anziano sembra apparentemente non comprendere le

cose che tu gli dici. Ecco questa è - come dire - la pragmatica di un’etica che

dovrebbe orientare il mio lavoro come direttore, per poi fare in modo che i colleghi,

i collaboratori, eccetera, cerchino di portarlo avanti anche sul piano operativo,

insomma…» (12:4).

Sul mancato di rispetto da parte degli operatori nei confronti degli anziani, ho raccolto

parole molto dure, che fanno riferimento a episodi che suscitano chiaramente sgomento e

indignazione.

«… ma tu non puoi usurpare la dignità della persona, ecco, su questo io divento

intollerante, è un limite per me invalicabile, non ci sono scuse, nessuna scusa…

“Oh, mi è morto il cane, il gatto, il marito, la moglie, i figli…”. Non ci sono scuse,

se stai male, tu stai a casa e ti curi, ma tu non puoi venire qui a usurpare la dignità di

un anziano, semplicemente non puoi e se lo fai paghi a caro prezzo. Su questo devo

dire sono… mi sento in dovere di farlo, perché io devo difendere queste persone, la

loro dignità, la loro non autosufficienza… io credo che paragonabile alla violenza

su un non autosufficiente sia solo lo stupro di una donna o di un bambino, ecco. Io,

io penso questo e quindi io capisco che chi stupra probabilmente è stato stuprato,

ma questo non ti dà il diritto di far star male un’altra persona, insomma» (12:33).

Il principio della centralità della persona si collega anche con quello della relazionalità.

Le strutture residenziali per anziani sono luoghi in cui la relazione è un aspetto

fondamentale. È sulla relazione tra le persone che abitano o gravitano in questo contesto

di vita, che si misura in ultima analisi la qualità del servizio.

«Il tema centrale è sempre stato, per molti anni, la qualità della vita delle persone

anziane che noi assistiamo; questa diciamo era la coincidenza tra l’obiettivo e il

valore. In verità negli ultimi anni questo valore si è espanso e per noi l’elemento

valoriale è la persona e le relazioni, e la qualità delle relazioni all’interno dell’Ipab.

Cosa vuol dire? Che si supera l’idea dell’anziano in senso stretto, che rimane

comunque al centro dell’attenzione dal punto di vista degli obiettivi dell’azienda,

ma viene ampliato, perché si dice che è importante la persona in sé, l’operatore, il

familiare, il volontario, le persone che vivono all’interno dei nostri contesti. E

quindi è la persona in sé, le relazioni tra le persone, che diventano l’aspetto

valoriale della nostra organizzazione…» (12:3).

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Le Case di Riposo sono e devono diventare sempre di più luoghi di relazione, luoghi in

cui il rapporto non è solo “professionale”, che qualcuno malamente intende nel senso di

freddo e impersonale, ma umano.

«L’Istituto è la loro casa, quindi le nostre convivenze accolgono persone come ho

detto all’inizio gravemente malate, gravemente non autosufficienti e con le quali,

soprattutto io quando giro tra i reparti o sono presente per qualche manifestazione,

si instaura anche un rapporto umano. Ne conosco tanti di loro con i quali ho

costruito un rapporto umano, che va oltre l’aspetto amministrativo, gestionale del

personale, dei piani di lavoro, della direzione, dei bilanci, dei consuntivi, degli

adempimenti fiscali, delle relazioni sindacali» (9:44).

Occorre creare un tessuto di relazioni che creano benessere, che fanno cioè star bene,

perché all’interno di queste relazioni le persone si sentono “viste”, riconosciute, accolte,

amate.

«Ai miei collaboratori dico spesso che ogni persona, che sia capo o addetto alle

pulizie, agisce secondo i meccanismi della psicologia umana, cioè siamo persone e

tutte le persone stanno bene se hanno qualcuno che gli dice “Ti voglio bene” o che

gli dà un minimo di gratificazione rispetto al lavoro, che gli dà un minimo di

relazione positiva, che le considera, insomma. E questi sono i meccanismi che

caratterizzano non l’anziano, non il manager, diciamo, il direttore, ma che

caratterizza il genere umano» (12.13).

Creare relazioni, creare legami, è qualcosa che spetta in primo luogo al dirigente, che

deve porselo come obiettivo del suo lavoro, acquisendone le necessarie competenze.

«Inoltre il nostro lavoro consiste in buona parte nel metterci in relazione con le

persone – dipendenti e ospiti e familiari – persone che evidentemente presentano

anch’esse problemi sempre nuovi» (9:5).

«Un valore molto importante per me è quello di sapere lavorare con gli altri e quindi

di garantire le persona, rispetto a tutta una serie di problematiche organizzative, e

costruire rapporti, costruire squadra, costruire fiducia, costruire nuove cose, nuovi

progetti, dare motivazione...» (4:41).

Questa disponibilità costruttiva e progettuale ha luogo partendo dalla capacità della figura

dirigenziale di creare un clima di fiducia e confidenza, all’interno del quale non vi sia

distacco o distanza tra la struttura e chi dirige. Questo si traduce anche in un vantaggio

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per l’organizzazione, in quanto le comunicazioni riescono a passare meglio e a facilitare

il raggiungimento dei traguardi che ci si propone.

«Di queste 50 persone, l’80 per cento mi dà del tu, le altre non mi danno del “tu”,

perché hanno magari 20-25 anni di meno di me e fanno fatica e io non forzo la

mano e va come va, insomma, tanto non è il “tu” o il ”lei”, è l’autorevolezza che ti

porti dietro, questa è la mia convinzione, insomma, per cui ci si da del “tu”… Io

vado con, non so, un coordinatore qualsiasi, un professionista qualsiasi e si sente il

dialogo, è un dialogo sul “tu”, insomma e quindi il dialogo tra persone che sanno e

condividono cose, ecco. Io sono sufficientemente informato su quello che capita

ogni giorno in giro, insomma…» (12:18).

Molto dipende chiaramente dallo stile personale del manager. Ad esempio nel rapporto

con i fornitori, vi può essere un approccio un po’ più distaccato che mantiene la relazione

sul piano dello scambio commerciale e un altro approccio che invece preferisce una

diversa interlocuzione.

«Oggi è venuto qui un rappresentante a vendermi dei prodotti. […] Quello che si è

avviato come un rapporto di tipo commerciale si è risolto in un confronto e nello

sviluppo di un’ipotesi di percorso per cercare di migliorare un certo processo,

entrando nel merito. Se un interlocutore, dall’altra parte, sente che da quest’altra

parte non sei con la testa solo sui conti, sulle delibere, sulle normative – che sono

terribili – e entri nel merito, nella sostanza della cosa… io penso che

quell’interlocutore abbia letto che l’Ipab si presenta in una certa maniera…

Insomma, non è che vieni a presentarti da me solo perché io devo comprare il tuo

prodotto e “buona notte!”… dobbiamo condividere qualcosa di più… L’azienda

deve capire, anche quella che vende qualcosa deve capire, che venendo qua viene a

condividere degli aspetti valoriali, sennò io non la voglio, non la voglio; uno che

“me vende par vendere” non mi interessa…» (12:20).

7.4 Principi morali del management

Nelle interviste emergono anche dei principi che ritengo siano riconducibili in senso

stretto al management e quindi al portato professionale specifico del manager e al suo

ruolo all’interno dell’organizzazione.

Il primo fra questi, è il principio della responsabilità, che evidentemente non è peculiarità

esclusiva del direttore: tutte le figure professionali che operano all’interno della struttura

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sono chiamate a rispondere di ciò che fanno. Il concetto di responsabilità assume però

indubbiamente, nel caso del manager, una rilevanza particolare, essendo egli il primo

responsabile della struttura e dovendo egli essere anche esempio di responsabilità per tutti

i suoi collaboratori.

«La prima cosa è sapere che il direttore è responsabile, pensando a questa realtà, di

un centinaio di famiglie di lavoratori e di quasi 130 famiglie di ospiti. È importante

questo, perché il direttore deve garantire un equilibrio economico, garantire il futuro

lavorativo a chi vi opera e quindi una tranquillità a tutte queste famiglie, però nello

stesso tempo garantire anche le famiglie degli ospiti, in modo tale che la retta non

sia tale da strozzare le famiglie. Questo per me è un principio importante e

fondamentale. Un meta-principio, diciamo così, perché io ho sempre sentito questa

responsabilità molto importante» (6:2).

La responsabilità è legata ad un potere, che è il potere di agire, di cambiare in qualche

misura il mondo o almeno quel “pezzettino di mondo” che è il contesto in cui si opera.

«Sì, credo che il segreto sia proprio questo, assumersi la responsabilità di cambiare

qualche cosa, di fare, pagando ovviamente quello che è….le difficoltà di questa

scelta, insomma, ecco…» (2:38).

«Per cui i grandi ideali vanno poi tradotti… Comunque io ho la possibilità di

cambiare il mondo, anche se pulisco scale… Come direttore questa possibilità è

certamente più ampia della signora che pulisce le scale… in fondo dipendono da me

una settantina di dipendenti, 90 anziani, una serie di collaboratori…» (5:107).

Avere responsabilità nell’agire, significa disporre della consapevolezza che ogni azione è

comunque aperta all’errore e al fallimento e quindi responsabilità significa assumere su di

sé il rischio di sbagliare.

«Le responsabilità, ahimè, sono individuali. Insomma, sono datore di lavoro di 560

persone, sono una persona che ogni giorno deve decidere…30-40 cose; ho 50 mail

al giorno, eccetera, eccetera, e devo dare risposta e la risposta è la risposta che do

io… magari qualcuna giusta e qualcuna che è sbagliata, perché la vita è fatta di

queste cose…» (12:27).

Una responsabilità che pesa, anche perché non si è i soli a pagare per gli

eventuali/inevitabili errori. Questi errori ricadono spesso su tutta l’organizzazione, in

quanto le azioni del manager hanno quasi sempre una ripercussione collettiva.

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«È chiaro che non ci si può buttare senza un briciolo di… cioè proprio sbaglio…

proprio perché il concetto di responsabilità – un altro valore, se vuole aggiungerlo al

mucchio, cioè agli altri – presuppone anche la consapevolezza che non si è soli poi

a portare le conseguenze di determinate scelte. Quindi, se prendo delle decisioni,

poi ne risponde assieme a me, come conseguenza, tutta la struttura che mi sta dietro.

Quindi è chiaro che non ci si può “buttare”…» (5:22).

Una responsabilità che il direttore si deve assumere e che deve pretendere con forza e

costanza dagli altri, siano essi collaboratori o altri soggetti istituzionali, come ad esempio

il Comune di residenza degli ospiti, quando ad esempio non intende integrare la retta di

un indigente.

«Potevo lasciare lì questo anziano […] da questo punto di vista avrei quindi potuto

lasciarlo lì. Però comunque sarebbe stata una scelta sbagliata. Cioè io volevo che ci

fosse una presa in carico da parte dell’autorità competente, perché secondo me

professionalità vuol dire che ciascuno si assume le sue responsabilità…» (6:58).

La responsabilità, per il manager sociale, si declina in primo luogo in una responsabilità

nei confronti dell’azienda che gestisce, cioè in un principio che potremmo definire di

aziendalismo, ossia di attenzione al valore sociale, prima che economico, che l’azienda

ha in sé.

«La prima responsabilità è perché, pur essendo una struttura di tipo pubblico, nulla

è certo, nel senso che oggi, come ha fatto fallimento o quasi una fondazione di

Padova, per dire… una responsabilità prima di tutto nei confronti dei 570

dipendenti. Io vengo anche dal catechismo di san Pio X, dove si diceva che uno dei

peccati che grida vendetta al cospetto di Dio è “non dare la giusta mercé agli

operai”. Nell’etica di un’economia, di un’azienda, vista anche come anche bene

sociale oltre che personale, come proprietà privata… conservare i posti dei

dipendenti credo sia cosa fondamentale. Ma io sono arrivato qua, in questo ente che

aveva 7 miliardi reali di buco e c’era chi aveva tentato… aveva cercato di fare

“spezzatino”… c’è stato invece un impegno di tutti, mio personale, ma anche del

commissario, poi del presidente… abbiamo salvaguardato questi posti di lavoro.

Abbiamo perso poi, nel frattempo, qualche posto, perché abbiamo perso centinaia di

posti, però questi 570 li abbiamo conservati. L’ente oggi è sano, ha fatto grossi

investimenti nel tempo e questo è il primo impegno, la responsabilità…» (8:22).

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L’azienda è un “bene sociale”, al quale il manager deve assicurare la conservazione, la

continuità nel tempo, perché da questo dipende anche la prosecuzione dell’utilità sociale

che essa realizza a vantaggio degli anziani, ma anche perché da questo dipende il futuro

dei lavoratori e delle loro famiglie.

«Garantire il futuro lavorativo a chi vi opera e quindi una tranquillità a tutte queste

famiglie, però nello stesso tempo garantire anche le famiglie degli ospiti, in modo

tale che la retta non sia tale da “strozzare” le famiglie. […] Mi devo sempre

ricondurre a quello che è il fine ultimo, che è da un lato dare un servizio adeguato

all’utente e dall’altro […] dare un’adeguata redditività, tale per cui non ci siano

problemi per il futuro dell’azienda» (6:3).

La difficoltà che il manager spesso si trova davanti è proprio nel corrispondere a questa

responsabilità, a fare cioè in modo che si mantenga in piedi l’azienda, sapendo però che è

un’azienda che, per propria mission, non può essere insensibile ai problemi, anche

economici, delle persone.

«Mah, parlando dei servizi alla persona, succede tutte le volte in cui ti trovi di fronte

ad utenti che hanno effettivamente la difficoltà di pagare… il limite tra l’impresa,

per così dire, o l’aziendalizzazione di un servizio alla persona, e il bisogno sociale è

un limite fragile…» (2:28).

Non è un’impresa facile coniugare esigenze prettamente aziendali e istanze squisitamente

sociali, perché i bisogni sono tanti e tante sono le richieste che provengono dalla

collettività.

«A volte ci si sente in difficoltà a dover fare per forza sintesi fra le esigenze di

bilancio: finanziarie quindi quelle che sono le risorse che tu puoi spendere,

investire, e quelle che hai a disposizione, a fronte di una richiesta di aiuto, di

assistenza, che va anche oltre a volte a quello che puoi fare, quindi a volte ti senti in

difficoltà a dire: “Come riesco a far sintesi di tutto questo?”» (11:40).

Certamente i tempi sono cambiati rispetto a qualche decennio fa e se si vuole mantenere

questo “bene”, che è il servizio alla persona anziana, bisogna fare delle scelte, guidate

anche dal criterio della sostenibilità.

«Sì, perché comunque purtroppo le risorse sono scarse. Ragionare come se fossimo

guidati da principi religiosi… la Divina Provvidenza o quant’altro, secondo me…

Una volta le nostre strutture erano al servizio di tante cose, facevano anche da

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“ammortizzatore sociale”. Sia nei piccoli paesi che qui si diceva: “Ma quello,

poverino, lo mandiamo a fare l’operatore di assistenza, perché ha perso il lavoro,

perché non trova lavoro, perché quella ha divorziato…”. Una volta era così. Ora

questa carenza di professionalità non è più gestibile, tant’è che l’operatore di

assistenza non è che entra più così, deve fare il suo percorso… Ma lo stesso noi non

dobbiamo fare più gli ammortizzatori sociali per altre situazioni, sennò poi ci

troviamo in situazioni che non sono splendide…» (6:10).

Va mantenuto fermo, quindi, un approccio anche di tipo aziendalistico e questo spetta in

primis a chi esercita funzioni dirigenziali, al manager sociale, che però non può

interpretare il suo ruolo, complesso e delicato, come fanno i “tagliatori di teste”, ma deve

agire secondo un’etica professionale e umana.

«Tutti quanti sono capaci, sai, di fare i conti, non c’è mica bisogno di gran che per

tenere i conti in ordine, gestire bene un ente. Il difficile è invece mettere insieme,

come dicevo prima, attenzione ai dipendenti, attenzione agli utenti, attenzione

all’ambiente… perché, sa, venire qua e fare come fanno i “taglia-testa”… in sei

mesi “tagliare teste”, non richiede mica tanto di capacità, non è mica… non è un

grande chi è capace di “tagliare le teste” e sanare i bilanci, è un grande chi sana il

bilancio e si ricorda che l’azienda è un bene, è un bene… è anche un bene

sociale…» (8:34).

Vanno fatti certamente dei tagli, perché c’è molto da cambiare, riordinare, correggere, ma

bisogna incominciare tagliando gli sprechi, che nel settore pubblico non mancano

certamente.

«… soprattutto evitando, per quanto è possibile, gli sprechi, perché gli sprechi…

Noi abbiamo sanato l’ente evitando, eliminando gli sprechi… eliminando gli

sprechi: questa è la grossa responsabilità!» (8:34).

Occorre poi anche chiaramente scegliere qual è il profilo dei servizi che si intendono

realizzare, qual è il livello assistenziale e di qualità che si vuole erogare per intercettare in

maniera adeguata la complessa e mutevole domanda di aiuto proveniente da una

collettività.

«Non c’è servizio se non ci sono utenti […] allora qua c’è una grande diatriba tra

quello che vuole l’utente, quello che vuole il familiare, quello che sarebbe giusto

dare e quello che sarebbe possibile dare… metti insieme questi quattro filoni e dai

quello che mediamente per la comunità è giusto dare. Anche qui la grande

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responsabilità è quella di non esagerare né da una parte né dall’altra. Dicevo prima,

non si può esagerare in qualità. Tutti saprebbero dare grandi servizi, ma poi chi li

paga? E poi se la retta invece di essere 50 è 100, quanti sono capaci di accedere a

quel servizio da 100? Ma è buono! Benissimo, ma quanti? Chi può accedere a 100

di servizio, per dire? Allora “responsabilità” nei confronti degli utenti è dare

esattamente quello che è possibile dare col giusto costo di mercato» (8:34).

Non è una cosa semplice. Un progetto aziendale parte dalla definizione del cliente e dei

suoi bisogni. Ma chi è il cliente della Casa di Riposo? L’anziano che ne usufruisce,

ovviamente, ma poi c’è anche la famiglia di questo anziano, la Regione che corrisponde

la quota sanitaria, il Comune, quando è prevista un’integrazione economica, ma anche la

comunità locale dove la struttura insiste e con la quale essa si interfaccia

necessariamente. E anche questi soggetti hanno le loro necessità e le loro attese, che

vanno saggiamente mediate.

«Molte volte questo confronto, questo confrontarsi si scontra con le attese dei

familiari che vorrebbero tutto a un prezzo bassissimo, non vorrebbero inghippi…

non vorrebbero qualche difficoltà; come dicevo prima quello che vuole l’utente e

quello che vuole il familiare sono cose completamente diverse… Beh senta abbiamo

l’aria condizionata qui dentro ed è sempre oggetto di scontro tra l’utente, che tutto

sommato vuole poca aria condizionata, e il familiare, che dice sempre che è caldo,

perché c’è poca aria condizionata… ma in realtà l’utente vuole poca aria

condizionata, cioè poco freddo, per dire. […] Poi l’altra grande responsabilità è nei

confronti comunque di una società, di un servizio come il nostro, un servizio

pubblico nei confronti comunque di una società…» (8:23).

Si tratta di bisogni ed attese che si modificano nel tempo, così come si devono modificare

le risposte che la struttura è tenuta a dare.

«A noi sta il compito di innovarlo, di cogliere le prospettive future, perché la casa di

riposo di 40 anni fa era tutt’altra organizzazione e dava altri servizi, ma anche

quella di 20 anni fa era tutt’altro, perché oggi abbiamo gente con grossi problemi di

salute. E quindi dare delle risposte ai bisogni di questa gente, non della gente che

noi vorremmo, bella, che cammina… quella bella, che cammina, si arrangia da sola,

ecco…» (8:23).

Avere attenzione nei confronti della continuità e dello sviluppo dell’azienda come “bene

sociale”, si collega ad un principio che definirei di economicità. Intendere l’economicità

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come principio morale e concepire le preoccupazioni del manager per il contenimento dei

costi e per il pareggio di bilancio un atteggiamento etico e non solo economico, non è

intuitivo.

«Principi etici particolari non ne vedo, a meno di non considerare il pareggio del

bilancio, il non fare buchi, un’istanza etica… – Potrebbe essere anche quella

un’istanza etica? – Sì, certo, all’interno di un’idea ampia di etica, per carità.

Utilizzare bene le risorse che si hanno… però, ripeto, secondo me è difficile riuscire

a parlare di etica se non si parla di ospiti. Sennò l’etica diventa molto vuota» (1:58).

Va però considerato il concetto di “bene sociale” a cui è associata l’attenzione al pareggio

di bilancio; non si tratta di avarizia, di arida parsimonia, ma di un atteggiamento

propriamente etico, di responsabilità rispetto a risorse che sono limitate e che vanno

impiegate al meglio. Si può quindi, a mio avviso, parlare di etica anche quando si parla di

bilancio e di mantenimento degli equilibri economici e finanziari dell’ente.

Anche rispetto a questo principio di economicità vanno ponderate le scelte da compiere

nel gestire eticamente la struttura, come ad esempio quelle legate alla dotazione organica.

Sapere che assumere una persona in più ha un costo e sapere quanto costa è un

atteggiamento di responsabilità anche etica.

«Torniamo sempre allo stesso discorso… tu, intanto, ogni qual volta assumi una

persona sai che ti assumi un costo al bilancio e sai che questo costo al bilancio

qualcuno lo deve pagare. Ma non lo pagano in senso così ampio lo Stato, la

Regione, no! I soldi per gestire questo ente ce li procuriamo ogni giorno con gli

utenti che abbiamo, con il contributo che ci dà la Regione, ma perché abbiamo un

utente con noi, sennò non abbiamo il contributo… con la retta che ci pagano i

parenti… ma se non abbiamo utenti, non abbiamo una retta, quindi ci procuriamo

ogni giorno i mezzi per fa funzionare questo ente. Io dico che noi siamo veramente i

manager, non come i presidi di scuola, che non sanno quanto costa un insegnante…

noi ogni giorno ci procuriamo i nostri contributi, i nostri mezzi per sopravvivere,

per fare… Allora ogni volta che tu fai una spesa, sai che la poni a carico del

bilancio, bilancio che tu devi… portare a fine anno almeno in pareggio e comunque

questo è proprio uno degli aspetti fondamentali…» (8:40).

Va quindi mantenuto un equilibrio; ci sono dei livelli oltre i quali non si può andare, pena

il rischio di perdere il “bene sociale”, e perderlo per tutti, anche per i lavoratori.

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«…già noi ne abbiamo tante di persone che non sarebbero forse all’altezza di questo

compito, tante nel senso…le famose percentuali naturali, ci crediamo, non c’è

niente da fare, è come la malattia… la malattia sappiamo che un 7-8% delle persone

anziane è in malattia, però, sappiamo anche che non possiamo andare oltre. Perché

poi ci scontriamo con quelle richieste che l’utente ci fa che il familiare ci fa, e non

possiamo anteporre il bene dell’operatore al servizio, perché alla fine non daremmo

servizi e non avremmo nemmeno un lavoro… quindi è un circolo vizioso …»

(8:40).

Collegato al principio di responsabilità è anche quello di efficacia, cioè l’essere orientati

al risultato, che è in buona sostanza il benessere dell’ospite.

«Il manager è responsabile dei risultati e nel momento in cui andiamo a dire che è

responsabile dei risultati di salute, è evidente che nei risultati di salute c’è la qualità

del servizio, il benessere dell’ospite, la qualità di vita dell’ospite, la possibilità per

lui di scegliere e quindi attraverso questa strada noi entriamo direttamente dentro ai

processi assistenziali, sanitari eccetera, dove l’ambito dell’etica è trasversale e

determinante in tante delle nostre decisioni» (1:21).

È necessario che il risultato venga reso visibile e quindi rilevato mediante delle procedure

di monitoraggio costante degli scostamenti rispetto a quanto viene dichiarato nelle Carte

dei Servizi.

«È evidente che anche noi dobbiamo parlare di risultati, il nostro primo obiettivo

dev’essere il risultato di salute e il loro benessere dev’essere verificato, dev’essere

misurato. L’utente deve poter manifestare la propria soddisfazione o meno ed il

fatto che possa non manifestarla, perché riscontra che il servizio non è positivo, è

segno evidente che il servizio mostra le sue carenze e su questo bisogna lavorare…

ecco, io credo che i report che abbiamo introdotto ci aiutano molto… noi abbiamo

dei report di verifica periodici, raccolti semestralmente, coi quali possiamo

monitorare come stiamo lavorando» (3:37).

Collegato ai concetti di efficacia ed economicità c’è quello di efficienza. Le tre “E” sono

entrate nella cultura organizzativa delle Pubbliche Amministrazioni attraverso le riforme

introdotte negli anni ’90, non solo come slogan, ma come veri e propri principi del

management, impegnato a “sburocratizzare” il lento apparato pubblico.

«È per quello che io mi arrabbio tanto con chi vuole ingessare le organizzazioni,

perché l’efficacia e l’efficienza delle organizzazioni si raggiunge anche con la

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velocità delle scelte. Se burocratizzi le scelte chiaramente non riesci più a fare

questo tipo…» (1:41).

Si raggiunge l’efficienza entrando nelle logiche di una produzione standardizzata di

servizi, che deve in qualche modo definire dei profili omogenei.

«Dal mio punto di vista devo essere professionale e arrivare fin dove devo arrivare e

non oltre, perché sennò metterei in discussione alla lunga la stabilità dell’ente nel

suo complesso, perché appunto io devo ragionare sempre che devo garantire un

servizio standardizzato a tutti» (6:53).

La standardizzazione del servizio corrisponde ad un principio di efficienza aziendale, che

va comunque mediato con quanto si diceva prima in merito alla personalizzazione degli

interventi. In buona sostanza, gli interventi assistenziali vanno programmati in termini il

più possibile preordinati, vanno realizzati seguendo precisi protocolli operativi, vanno

monitorati attraverso schede di controllo e quant’altro.

«Ci siamo accorti che troppi sono i cambiamenti durante l’anno, perché fai conto

che noi abbiamo un turn-over, cioè di cambiamento delle persone ospitate, che

arriva al 50%. Quindi vuol dire che in un anno qui gravitano circa 300 persone.

Questo ci ha fatto capire che è fatica pensare ad una programmazione in termini

personalizzati in maniera adeguata e quindi, rivedendo le linee guida, abbiamo

cercato di prevedere dei codici di percorso, tipo quelli ospedalieri, laddove il

significato del colore fosse abbinato al tipo di progetto che tu vai a fare sulla

persona» (3:19).

Questo, però, senza perdere mai di vista il fatto che si ha a che fare con persone e quindi

bisogna avere la capacità di saper adattare tutto ciò a quella singola persona e alla sua

situazione concreta di quel momento.

Tra i principi etici che si collegano all’aziendalismo, porrei senz’altro anche quello che si

potrebbe definire di miglioramento continuo, che è quella tensione incessante a spingersi

sempre più in là, a riformare costantemente, a modernizzare, a ricercare soluzioni

innovative per aumentare la qualità del servizio reso. Il principio del manager è quindi

quello di ricercare, inseguire il nuovo. Non temerlo, ma anzi subirne quasi il “fascino”.

«Anche sul percorso qualità abbiamo inteso profondere diverse energie sia personali

che sul piano delle risorse umane ed economico-finanziarie. Ci siamo certificati in

un percorso che è stato direi interessante, perché quando abbiamo fatto la scelta,

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non abbiamo scelto subito di farla secondo le norme ISO34 e di settore, abbiamo

voluto essere noi elaboratori di un manuale della qualità nel percorso. […] Questo

ci è stato molto d’aiuto anche in sede di percorso sull’accreditamento. Forse altri

potrebbero considerarla come mania del direttore, ma in genere abbiamo voluto

sempre avventurarci seguendo il fascino del nuovo» (3:7).

Una ricerca di miglioramento che traspare, non senza un certo orgoglio, dal racconto che

il manager fa della propria organizzazione:

«Infatti abbiamo fatto l’accreditamento, siamo stati i primi del Veneto, ma perché

abbiamo partecipato alla sperimentazione. Dopodiché, non contenti, abbiamo voluto

fare un altro percorso nell’ambito del sistema qualità, sposando un marchio europeo

[…]. Dopodiché, dopo qualche tempo, abbiamo abbracciato un altro percorso, […]

che si chiama “Marchio qualità benessere”» (3:10).

«Oggi per esempio ci può essere il discorso della musicoterapia o della pet-terapy o

tutta una serie di altre cose: i laboratori innovativi, l’informatizzazione… adesso

abbiamo informatizzato praticamente tutto qui, dal registro delle consegne e tutto il

resto…» (3:53).

Guardandosi indietro, guardando ciò che è stato fatto, ma anche pensando agli obiettivi

che il manager si pone e pone alla propria organizzazione, si può comprendere

l’importanza di questa tensione continua a migliorare. Una disposizione che parte dalla

capacità di mettersi in discussione e di analizzare criticamente la situazione in cui si trova

la struttura, per cercare di far stare tutti meglio.

«Sono cose che di primo acchito potresti non avvertirle nella loro portata, ma che

nel loro insieme sono a dimostrazione di un percorso che è stato fatto e di un

cambiamento. Questo è stato fatto perché ti sei posto domande, ti sei posto

interrogativi, cercando di verificare che cosa significa lavorare per il miglioramento

continuo, non solo per la vita delle persone che qua abitano, ma anche di quelle che

qua ci lavorano e anche del contesto aziendale. Ora, ecco, questo credo che sia un

fattore che nel suo riscontrarsi positivamente ti dà stimoli per andare avanti» (3:53).

Perseguire il miglioramento continuo significa non solo aumentare progressivamente la

funzionalità delle strutture, ma la loro bellezza. La tensione al bello non è solamente un

fatto estetico, ma anche etico. Bellezza intesa come cura per l’ambiente in cui si lavora e

34 Il riferimento è al sistema di certificazione della qualità codificato secondo le norme dell’Organizzazione Internazionale per le Standardizzazioni (ISO 9000).

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dove vivono le persone assistite, ma anche come espressione del proprio gusto e della

propria personalità.

«Ma che deve anche corrispondere a un bisogno che è il bisogno che io dico sempre

nel più ampio termine molto difficile come concetto, per carità, che fa molto

discutere, di bellezza. L’ordine che diventa bellezza e la bellezza che è anche

manifestazione allo stesso tempo di ordine, di creatività e quindi di capacità di far

emergere i bisogni, i piaceri, i desideri delle persone. Questo è il grande impegno di

un manager» (8:33).

Un ultimo principio riconducibile al management che rilevo dalle interviste è quello della

distinzione dei ruoli e delle competenze, che corrisponde ad una esigenza organizzativa

molto sentita.

«Cioè noi dobbiamo essere parte di un tutto. Dobbiamo fare la nostra parte, però

dobbiamo garantire alcune cose. Perciò se io sono professionale nel mio servizio,

questo ricadrà sugli altri. Io sono arrivato all’Ipab quando non c’era il direttore, il

direttore era il segretario comunale e c’era quindi un’autogestione. L’autogestione

comporta che ci si dà dei valori e lì per fortuna c’era una situazione positiva. Però

c’era una confusione di ruoli, c’era interventismo… quando sono andato ad

intervenire su questo, ero visto come il tecnocrate. Però poi il personale ha

introiettato queste cose. Cioè io non è che faccio da qua fino a là, perché sono come

un impiegato ministeriale, ma perché è giusto che su quest’altro aspetto venga

coinvolta quell’altra persona. Non è che io lasci correre la cosa, coinvolgo gli altri»

(6:25).

Un’esigenza innanzitutto di chiarezza, che si traduce anche nella possibilità di far

crescere autonomie e competenze nei collaboratori.

«Primo la chiarezza dei compiti, se tu vuoi lavorare in un buon ambiente, no? E

creare un buon clima organizzativo: devi riuscire a dare a ciascuno i propri compiti

in maniera chiara, trasparente, in modo che ognuno sappia cosa deve fare» (11:22).

Distinguere i ruoli e le competenze non significa però separare gli ambiti professionali,

che anzi devono interagire, intersecarsi, per poter dare risultati. Perché è chiaro che il

singolo professionista deve fare il proprio mestiere e lo deve fare bene, ma per produrre

risultati in contesti di questa complessità, non ci si può limitare ognuno a fare il proprio

pezzetto.

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«Quel tipo di manager [si riferisce al manager “vecchio stampo”] non avrebbe mai

interagito o messo in discussione appunto il modo di lavorare del medico… cioè

una separazione di competenze professionali che implica la non interferenza con

altri ambiti professionali, specie forti, cioè quelli sanitari» (1:57).

Le nuove organizzazioni si reggono sulla capacità di integrazione dei saperi e delle

competenze ed il manager sociale è chiamato a corrispondere a tale esigenza, lavorando

nei “confini”.

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8

Dove si parla della competenza etica del manager sociale

Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà – per se stesso, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere.

Joseph Conrad

8.1 La competenza etica

I principi morali rappresentano delle “conoscenze” e quindi una componente necessaria

per costruire la competenza etica. Necessaria ma non sufficiente. Vanno certamente

conosciuti i principi morali, ciò che è bene fare e ciò che non è bene fare dal punto di

vista etico, ma non basta chiaramente sapere per poi agire conseguentemente. Occorre

dell’altro.

Nel lavoro di analisi effettuato con Atlas.ti ho codificato altri ventuno elementi che a mio

giudizio concorrono a costituire tale competenza, che ho ritenuto di raggruppare secondo

criteri di tipo argomentativo in tre categorie (qualità personali, capacità relazionali e

componente motivazionale), che illustrerò nei paragrafi successivi.

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Fig. 4 – Mappa delle competenze del manager sociale

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8.2 Le qualità personali

Parliamo ora delle qualità personali del manager sociale, che utilizzando un termine

ritornato in auge, potremmo definire anche le “virtù” del manager35.

Possiamo intendere la virtù come un habitus, un’abitudine consolidata ad agire in modo

virtuoso. Non è il singolo atto, come abbiamo già avuto modo di dire, che fa virtuoso un

uomo, ma una disposizione comportamentale consolidata ad agire secondo virtù in

determinate circostanze.

Una delle qualità personali, che ho rilevato dalle testimonianze raccolte, è

l’autorevolezza, che va ben distinta dall’autoritarismo. L’autorevolezza è l’esercizio

“sano” del potere:

«… la capacità di interpretare il proprio ruolo in una maniera corretta, cioè non

l’esercizio del potere, insito nel ruolo, fine a se stesso, ma l’esercizio sano, ecco …»

(11:37).

L’autoritarismo, invece, si esprime quando non c’è piena padronanza del ruolo. È una

sorta di “scorciatoia” che si prende per esercitare il proprio ruolo di manager, cioè il ruolo

di chi deve far fare delle cose ai propri collaboratori. Ma è una scorciatoia sbagliata, che

denuncia non una forza, ma una debolezza del manager, magari di fronte alle pressioni

che gli vengono dagli amministratori, dalle responsabilità di legge o da quant’altro.

«Posso ricordarmi, come dire... un periodo in cui un periodo in cui lo stile era

tutt’altro che rispettoso di queste cose qua. Poi va detta anche una cosa, che talvolta

eh... ci si muove su queste strade, che sono poi delle scorciatoie, che sono

pericolose: non dell’autorevolezza ma dell’autorità. Ci si muove perché magari ci

sono delle pressioni forti da parte dell’organizzazione e tu non sei così lucido nello

spiegare che certe cose non si possono raggiungere (sorride) e ti fai trascinare. A

volte le tensioni, le pressioni, che l’organizzazione pone su un responsabile,

possono portare questo responsabile, se non ha la lucidità, l’esperienza, ad essere

trascinato in comportamenti (sorride) poco lungimiranti, eh…» (10:14).

L’esperienza è importante. Essere autorevoli, fuggendo le tentazioni autoritaristiche, è

questione, in certa parte, di un’attitudine, ma è soprattutto qualcosa che si acquisisce.

«Quindi io credo che sia questo poi il fatto: non è che c’è una formula matematica,

insomma, è un atteggiamento… sicuramente c’è un’attitudine perché ognuno ha il

proprio stile […]. C’è sicuramente un’attitudine di comportamento, di tipo

35 MacIntyre A., Dopo la virtù., cit. Si veda, al riguardo, il paragrafo 3.5.

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caratteriale, mi viene da dire, e poi ci sono dei comportamenti che si apprendono»

(2:37).

Sono certi comportamenti, che si apprendono con l’esperienza, a fare in modo che il

manager riesca a dirigere la propria organizzazione senza imposizioni autoritaristiche.

Si tratta di comportamenti che si declinano in stili manageriali, i quali possono essere più

meno direttivi, senza per questo risultare rigidamente autoritari.

«Il comportamento è importante, perché è un elemento per raggiungere quella

autorevolezza per cui per farsi obbedire non è necessario imporre la propria

autorità» (9:6).

«Io sono piuttosto direttiva, perché non è mica che non lo sia, tutt’altro. Sono

piuttosto direttiva, però nello stesso tempo non sono… non sono autoritaria, ecco

questo non lo sono…» (2:37).

Avere un manager autorevole è fondamentale per una struttura, perché chi prende

decisioni importanti, che condizionano l’andamento organizzativo, chi impartisce

direttive rispetto all’azione dei singoli lavoratori, deve poter dare affidamento.

L’autorevolezza, però, non la si acquisisce perché si ha vinto un concorso pubblico,

perché si hanno “i gradi”, ma la si guadagna sul campo, attraverso il tenace e quotidiano

impegno, nell’ampliare costantemente le proprie conoscenze, nel consolidare le proprie

competenze professionali e nello spendersi concretamente nei problemi lavorativi a

fianco dei propri collaboratori.

«Trasmettere… anche sicurezza, rassicurare i collaboratori. Trasmettere la

convinzione che, così facendo, operano nel giusto. Ecco la sicurezza è anche un

valore… Sì, è un riferimento, se ho problemi so che c’è lui… vado da lui…

trasmettere sicurezza…» (9:53).

«Perché più sai, più dai e più ti viene riconosciuto questo ruolo, però te lo devi

conquistare il ruolo; non è che perché sei direttore tutto funziona bene o comunque

le persone ti dicono “Bravo direttore!”, no! Devi conquistartelo proprio con fatica,

dimostrando che comunque ti stai impegnando per te, per loro, per l’ente…»

(11:29).

Impegnarsi significa “dedicare se stessi” al compito che si è chiamati a svolgere. È

qualcosa che fa parte della persona, che è stata profondamente interiorizzata.

L’impegno non è, però, solo un impegno a “fare”, ma un impegno ad “esserci”.

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«Credo, per certi aspetti, che su questo rientri un po’ la formazione che hai ricevuto,

sul piano culturale, sul piano religioso, sul piano umano, sul piano anche civico»

(3:40).

«Avverti su di te non tanto il peso, anche se a volte è un peso, ma quanto l’impegno

di esserci, di essere disponibile e soprattutto di dedicare te stesso» (3:40).

“Esserci” al fianco dei propri collaboratori, specie nei momenti difficili, perché

sono proprio quelli i momenti in cui è importante avvertire la presenza del capo.

Questo richiede una disponibilità a rispondere anche quando si è “fuori servizio”,

dato che la struttura funziona “24 ore”, cioè è sempre aperta.

«Loro sanno che non sono da soli, che se c’è un problema e loro vengono lo

affrontiamo assieme. […] loro non possono dire che io me ne lavo le mani, ecco,

loro sanno… il mio telefono è acceso di domenica, è acceso di sera… abbiamo

avuto l’episodio di un ospite che voleva buttarsi dal terrazzo, sono riusciti a portarlo

dentro eccetera. Quando mi hanno chiamato io ci sono sempre stata, loro sanno che

io ci sono. Io so che se mi chiamano è perché hanno bisogno, non perché non

vogliono fare una cosa…» (2:34).

L’impegno del manager si traduce in una dedizione quasi completa al lavoro e quindi

comporta sacrifici e rinunce esemplari.

«… vengo qua il sabato anche per studiare. Cioè, è un incarico. Mi porto via la roba

e la leggo anche la domenica, perché quello che devo dare, devo dare. Dopo

miracoli no, ma neanche…» (11:32).

«È un lavoro che se vuoi fare bene… io non so quante ore faccio alla settimana…

faccio ciò che è necessario… se senti il lavoro, se vuoi realizzare cose, devi darti a

questo lavoro, perché ci credi, sei esempio per gli altri, insomma porti avanti…»

(12:31).

Questo significa però sacrificare con la vita privata anche la famiglia, la quale

richiederebbe anch’essa impegno e dedizione. Una doppia presenza, un doppio “esserci”,

che chiaramente non è semplice da conciliare per il manager.

«… e quindi la famiglia… devi avere una famiglia solida, di persone che ti vogliono

bene, di persone che capiscono, che poi sai curare anche queste cose, quando sei

fuori dal lavoro, a casa, insomma, e quindi questo è un elemento morale importante

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perché io sono responsabile secondo mia moglie della crescita di due figli…e

questo è un aspetto importante» (12:31).

L’impegno dev’essere prima di tutto del capo, perché è lui che è chiamato a dare il buon

esempio. È poi un impegno che egli deve esigere anche dai propri collaboratori, perché

essere al servizio significa “fare ciò che serve”.

Occorre precisare che l’impegno non è sono nel dedicare tempo ed energie, non è solo un

“esserci”, ma l’esserci in un certo modo, secondo un certo stile. E questa cifra stilistica,

che il manager dovrebbe avere, dovrebbe anche riuscire a trasmetterla alla propria

organizzazione.

«Se decidiamo di fare un progetto per la limitazione della contenzione

farmacologica e quindi non diamo più la terapia serale al bisogno – e quindi è

necessario che facciamo delle attività per evitare… – e questo significa che si deve

lavorare di sera, si lavora di sera. Se serve che il nostro orario di lavoro sia di un

tipo piuttosto che un altro, si fa quello che serve, perché concetto è che siamo al

servizio» (5:80).

«Un altro grande impegno che è quello dell’educare ad uno stile. Intanto uno stile lo

devi avere innanzitutto tu. […] Il problema di fondo è questo: se tu vuoi che il tuo

istituto, i tuoi operatori, i tuoi capi reparto, i tuoi collaboratori più stretti, abbiano un

modo di rapportarsi, devi darti tu stesso uno stile, che loro devono percepire, che è

uno stile nei rapporti interpersonali, che è uno stile nel linguaggio, nel vestire, nel

comportarsi, nel rispondere, nel salutare, cioè è uno stile che nasce, che non è

formale, ma che è la risposta a un tuo progetto culturale» (8:32).

Una qualità importante per il manager è poi l’umiltà, che nasce dalla consapevolezza di

ciò che egli è. Non si tratta quindi di falsa modestia, non si tratta di disconoscere

l’importanza del proprio ruolo all’interno dell’organizzazione e il valore dell’unicità che

si esprime, ma anche essere consci del proprio peso all’interno del proprio micro-cosmo

lavorativo.

«Ma dobbiamo avere la consapevolezza del nostro limite. Siamo il cosiddetto

“granello di sabbia nel deserto”. Il deserto sono milioni di granelli, miliardi, per cui

non è che noi possiamo incidere per modificare, però il nostro piccolo apporto, il

nostro piccolo impegno si deve manifestare e soprattutto dev’essere ben

riconoscibile rispetto a quelli che sono gli interlocutori» (3:73).

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Umiltà significa, quindi, mettersi di fronte alla propria limitatezza, significa ammettere di

essere fallibili ed essere consapevoli dei propri difetti.

«… e lì io mi sono sentita impotente per il fatto di non riuscire a garantire qualcosa

di diverso a quel povero cristiano…» (4:34).

«So anche di poter sbagliare, perché sbagliare è umano, è umano…» (12:29).

«… io ho un brutto carattere, ad esempio, e questo nega molto di quello che è il mio

modo di fare, perché la mia reazione è spesso impulsiva, porta a bloccare più che a

costruire… questo è un elemento di negatività …» (3:119).

«… quando qualche volta io scado nel mio stile, perché mi arrabbio… un capo è

anche questo, non è che un capo sia sempre freddo, impassibile … a me dispiace,

perché non dovrei mai perdere l’equilibrio, comunque…» (8:85).

Un elemento essenziale consiste anche nel riuscire ad ammettere i propri errori, rispetto a

comportamenti, orientamenti, decisioni, sapendo pure chiedere scusa, quando si sbaglia:

«Io mi sono trovata qualche volta a dover, di fronte a lamentele, di fronte a

richiami, a reclami, a dover chiedere scusa per il comportamento, per qualcosa che

era avvenuta a livello di reparto… perché la persona si meritava che le si chiedesse

scusa, insomma, perché non eravamo magari stati all’altezza della situazione,

all’altezza delle aspettative…» (2:9).

L’umiltà si esprime a volte nel sentire che si ha bisogno dell’aiuto degli altri, che non si

può sapere tutto e che è buona cosa confrontarsi e imparare dall’esperienza altrui.

«…se non ci fosse questa squadra io non andrei da nessuna parte, ma proprio da

nessuna parte…» (12:25).

«Mi confronto con i colleghi dirigenti del Comune o di altre Ipab o della Regione.

Una caratteristica che deve avere un dirigente è quella dell’umiltà; è un aspetto

pregevole perché confrontarsi con gli altri ed essere umili paga nel tempo» (9:33).

Un’altra qualità che emerge dalle interviste è il coraggio, che non significa non avere

delle paure, ma sapersi misurare con esse, non esserne soggiogati. Questo, consci che ci

sono cose che si possono affrontare ed altre che trascendono ogni nostra possibilità di

intervento.

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«… io la domanda me la sono fatta… se uno mi dicesse: “Fammi arrivare primo a

questa gara d’appalto, sennò violento tua figlia”… il mio comportamento quale

sarebbe? Per cui i grandi ideali vanno poi tradotti… […]. Per quello che riguarda

me, credo di essere molto coraggiosa. Cioè, nelle scelte che riguardano me ho molta

fiducia nella vita. Per cui se uno mi dicesse “Se non mi fai vincere la gara d’appalto,

violento te” è un discorso, quando riguardano altri, il marito i figli, le scelte

sarebbero totalmente diverse» (5:75).

Il coraggio che viene chiesto al manager non è comunque, nella maggior parte delle

situazioni, il coraggio che permette di affrontare aggressioni e violenze. Si tratta in larga

misura del coraggio di rischiare dal punto di vista giuridico: subire una condanna, con le

relative conseguenze di tipo economico per sé e per l’Ente, ma soprattutto con il grave

pregiudizio alla propria carriera e con una squalifica professionale, che può rimanerti

addosso come una macchia indelebile. La questione è che la sicurezza totale contro

questo tipo di evenienze non si può avere e quindi il coraggio del manager è quello di

gestire l’incertezza e il rischio.

«Ti piomba addosso di tutto… ti mette in difficoltà, cioè a volte devi, devi forzare

un pochino, no? Per garantire i servizi, non puoi fare solo l’aspetto... insomma poi

lavori in un settore anche tu sociale… Sono quelle aree lì dove se tu pretendi un

discorso di tutela piena sempre e comunque, su tutto, non ti muovi più, quindi devi

capire che c’è un’alea, in cui comunque ti devi buttare e rischiare un po’, ecco

rischiare un po’ vuol dire non certo fare chissà cosa…» (11:17).

Il manager sociale è consapevole del fatto che rischia in proprio, ma che rischia anche per

gli altri, nel senso che le conseguenze delle sue scelte si ripercuotono su tutta

l’organizzazione.

«Quindi, se prendo delle decisioni, poi ne risponde assieme a me, come

conseguenza, tutta la struttura che mi sta dietro» (5:26).

Il coraggio del manager non è buttarsi ad occhi chiusi, ma conoscere bene le possibili

conseguenze delle sue azioni (o delle sue omissioni) e calcolare rapidamente che cosa

conviene fare per garantire anche efficacia ed efficienza all’organizzazione.

«Io nella mia esperienza qualcosina in là sono andato per garantire i servizi, perché

se avessi dovuto seguire, non so, l’assunzione temporanea, coi tempi, nelle modalità

di scorrimento delle graduatorie a tempo non determinato, avrei lasciato reparti

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scoperti, per cui a volte insomma si contemperava l’esigenza con la norma, si

valutava anche il rischio, capito?» (11:51).

Questo richiede che chi svolge funzioni dirigenziali compia, caso per caso, un’analisi del

rischio, il che comporta una valutazione del danno che quella determinata azione

potrebbe arrecare e delle probabilità che quel fatto dannoso si realizzi. Un’analisi che si

fa in situazione, “dialogando” con la situazione: elemento caratterizzante ogni scelta di

carattere etico.

«Quindi è chiaro che non ci si può buttare allo sbaraglio. [...] per cui sono scelte

veramente che vai a fare osservando un po’ gli attori e correndo anche qualche

rischio, perché devi stare anche a guardare la famiglia in che posizione si pone…

[…] Caso per caso. cioè, poi partecipare a tanti convegni, dove ti senti dire… ma è

caso per caso…» (5:26).

Molto di quello che il manager si trova di fronte è comunque imponderabile, perché è

affidato a un insieme di circostanze estremamente complesso o al caso fortuito o perché

comunque non è del tutto in mano al manager, ma dipende anche dai suoi collaboratori,

di cui è “costretto a fidarsi” (12:36).

Si creano a volte situazioni anche molto pesanti anche dal punto di vista emotivo e il

coraggio del manager consiste anche nel dissimulare la paura che prova, per non

trasmetterla a chi gli sta attorno, perché la paura è contagiosa.

«… una grande capacità di resistenza alla paura, di non comunicare paura attorno a

te, alla famiglia che hai a casa… di non comunicare paura… a volte taci su questi

problemi, il che comporta, comporta… comporta il cambiamento della personalità.

Mia moglie qualche volta mi ha detto chiaramente: “Da quando hai cominciato a

fare il dirigente a quel livello, con quella responsabilità, hai cambiato personalità”.

Non è che sono diventato un altro, ho cambiato personalità, ecco. Perché certamente

il sopportare un’accusa ingiusta non è facile e non si risolve dicendo: “Butto via il

tutto e comincio…”, ecco…» (8:37)

A volte la dissimulazione riguarda il dubbio e l’incertezza che rimangono quando il

manager prende delle decisioni che non lo convincono del tutto, ma che nondimeno deve

prendere, riuscendo anche a convincere i propri collaboratori ad andare avanti su tali

decisioni.

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«… la capacità, non la capacità, il dovere di decidere, non c’è niente da fare.

Quando sei in certe posizioni hai, devi decidere e devi decidere comunicando a chi è

vicino a te la certezza della decisione che hai preso. Anche se dentro di te hai molti

dubbi, molte riserve su quello che hai deciso, devi comunicare certezza nella

decisione che hai preso» (8:17).

Una delle qualità personali del manager è in effetti la decisione, l’essere decisi, che la

capacità di ragionare sulle diverse opzioni e di assumere delle decisioni. Capacità che

potremmo definire anche, con sfumature connotative diverse, decisionalità o

decisionismo.

Il lavoro del manager è un lavoro che richiede inoltre di prendere delle decisioni in tempi

rapidi e in modo spesso “solitario”.

«Le decisioni sono sempre solitarie ed è proprio questo che io scrivevo in

quell’articolo. Uno stile di leadership, di condivisione in gruppi di lavoro non

significa che poi alla fine la decisione ultima spetti al manager. Cioè non è che la

condivisione del lavoro significhi che la decisione e la responsabilità conseguente

vengano diffuse. La responsabilità poi è sempre mia alla fine, per cui è evidente che

è mia cura rimanere in costante contatto con i miei collaboratori, per non prendere

decisioni stupide… è uno strumento di lavoro: il gruppo di lavoro, la condivisione,

eccetera. Poi alla fine può essere che io decida conformemente a quello che pensa

tutto il gruppo, può essere, come ho fatto in certi momenti, che decida in modo

difforme, prendendomene la responsabilità, naturalmente. Non è detto che il gruppo

ti dia la risposta che secondo te è corretta, per cui a volte, a volte, anzi, sì, sempre,

quasi sempre, si decide in solitudine» (1:65).

La differenza tra un atteggiamento decisionale ed uno decisionista sta, a mio avviso, nel

fatto che nel primo si valorizza lo spazio di ascolto, soprattutto dei collaboratori, cosa che

spesso mette al riparo dal prendere decisioni azzardate, sbagliate o semplicemente

“stupide”.

«Sì, il capo è solo, è solo perché, quando deve prendere le decisioni, le deve

prendere lui. È solo di fronte alle scelte, perché nel suo ruolo c’è il compito di

decidere…» (2:18).

La decisione è un processo che avviene analizzando la situazione in cui si è inseriti,

vagliando costi e benefici di ogni possibilità che si ha di fronte, cercando di decidere la

cosa migliore, non in senso assoluto, ma per quella singola e particolarissima situazione.

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«…decidere di volta in volta… perché mi è capitato di prendere decisioni diverse…

perché mi è capitato più di una volta …» (5:67).

Questo atteggiamento decisionale espone spesso il manager alla tentazione di accentrare,

di voler decidere tutto lui. La moderazione, il giusto mezzo, che sono le modalità in cui si

esprimono le virtù etiche, richiedono che si faccia crescere un gruppo capace di assumere

anche decisioni autonome.

L’impegno a far crescere la decisionalità del gruppo si scontra però, a volte, con il fatto

che possono mancare nei collaboratori le competenze indispensabili perché si attui questo

processo di responsabilizzazione.

«Il gruppo c’è, la squadra c’è, io vengo a lavorare sempre volentieri, io sto bene con

i miei collaboratori, che siano quelli dell’ufficio, che siano quelli dei reparti, io sto

bene. Certo la solitudine è legata alle scelte, quello sì, perché poi sei tu che ne devi

rispondere, sei tu che hai deciso ad un certo punto di fare una determinata cosa e ne

rispondi. Però, se l’ambiente è di un certo tipo, c’è anche un atteggiamento pro-

attivo e non solamente di attesa delle decisioni del capo, secondo me non c’è questo

peso, ecco, io non lo sento in modo forte…» (2:18).

«Sei solo nel momento in cui decidi… ti confronti col tuo gruppo, ma son gruppi

gracili anche sul piano professionale… e si ha quel che si ha…» (11:77).

Un’altra qualità “celebrata” dai manager intervistati è quella della coerenza, intesa

innanzitutto come coerenza tra i valori e i principi professati e ciò che concretamente si

agisce nel quotidiano.

Tale qualità assume una posizione assolutamente centrale nell’ambito del discorso etico.

È “l’elemento pratico” ciò che contraddistingue l’etica, in quanto sapere prescrittivo, e

quindi è fondamentale rinforzare l’abitudine a far corrispondere ciò che viene dichiarato

con ciò che viene fatto.

«Oltre al principio c’è l’elemento pratico, perché dissertare sull’etica e dopo

“razzolare” male non va bene, e allora questo si coniuga con aspetti operativi che

sono legati a piccole cose come i luoghi, gli ambienti e le attività, le risorse che

vengono erogate ogni giorno…» (12:5).

«Cos’è che mi guida nel lavoro? La coerenza, cioè non ci devono essere cose che si

dicono con la bocca e che poi non vengono tradotte in azioni. Cioè è inutile ch’io di

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fronte a un familiare, di fronte ad un dipendente, di fronte agli anziani mi metta a

riempirmi la bocca di bei discorsi e poi, quando si toglie il “fumo”, la realtà è

diversa da quello che si dice» (5:9).

Questa coerenza è importante anche perché genera rispetto. Si possono anche non

condividere le idee e i valori dell’altro, ma se questi agisce con coerenza, mantiene

comunque la sua autorevolezza, diviene buon testimone della sua verità.

«Penso che una delle doti che più ispirano e più stimolano l’imitazione positiva sia

la coerenza… siano la sincerità e la coerenza. Paradossalmente […] la coerenza nei

valori cristiani […] può stimolare la coerenza nei valori laici […]. Molti di noi –

non io, perché non sono particolarmente… – ma molti amici, colleghi, parenti

eccetera, eccetera, hanno in mente la coerenza del sacerdote cattolico. Loro non

sono per niente praticanti, ma la coerenza di quella persona ha come stimolato la

coerenza verso altri valori… è la coerenza in sé che è un valore, forse, ecco…»

(7:48).

La coerenza, intesa come concreta aderenza ai propri valori, fa sì che non vi sia poi un

così netto scollamento tra sé personale e sé professionale, tra la persona – uomo o donna

– e il direttore.

«Ecco, a mio avviso non si può scindere la scelta valoriale: quello che risulta essere

in termini di vita personale, rispetto a quello che è il contesto del lavoro

professionale, in questo caso “fare il direttore”. Questo non significa confondere

momenti che possono appartenere alla propria vita personale, però spesso sei un

pochino “sopraffatto”… forse non è il termine più appropriato, ma sei così

“immedesimato”…» (3:39).

Ciò attribuisce alla figura del manager credibilità, requisito fondamentale perché egli

possa svolgere il ruolo di guida e, in qualche modo, di “trascinatore” al quale è chiamato.

Per “trascinare” gli altri, per far crescere la propria struttura, è necessario comunicare

determinati valori, non tanto a parole, ma dandone testimonianza attraverso i propri

comportamenti.

«Io credo che un leader è credibile nella misura in cui anche il suo comportamento

di ogni giorno ripropone le stesse modalità… non si può parlare bene e poi

razzolare male… però, dal mio punto di vista, è molto importante l’imprinting che il

manager riesce a dare all’organizzazione rispetto a tutta una serie di valori» (4:67).

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Importanti sono anche le qualità di fermezza, tenacia e rigore. Il ruolo richiede, infatti,

volontà e la capacità perseverare anche nelle avversità.

In più occasioni, nel corso delle interviste, è emersa l’importanza di disporre di questa

forza di carattere, che consente di reggere di fronte alle difficoltà e di non perdere mai la

fiducia in se stessi e nel futuro.

«Cioè per carattere sono fedele a me stessa, nel senso che stabilito un certo

percorso, tenuti presenti i valori della rettitudine, della correttezza, della coerenza e

della fedeltà all’Ente, diventa difficile per me staccarsi dalla strada intrapresa»

(9:17).

«Sono riuscito a superare, insieme con tutti quanti, questa grande battaglia, che ci

ha visto veramente soli e attaccati da tutti. Io credo con la fermezza morale e la

personalità che uno ha, ecco, per cui, convinto che non avevamo fatto del male e

convinti che comunque la giustizia prima o poi prevale, eh! Trionfa…» (8:52).

Ciò comporta talvolta la necessità di imporsi, solo contro tutti, vincendo l’inerzia di

queste organizzazioni, superando le resistenze al cambiamento e l’ostinata chiusura

difensiva di quanti a volte, per conservare i propri benefici particolari, possono perdere di

vista l’interesse generale.

«… quello di sapersi in qualche modo imporre su chi ti sta vicino… imporre nel

senso di saper rompere quelli che sono i piccoli egoismi dei collaboratori, che non

vorrebbero piccole modifiche e ogni modifica, anche lo spostamento da un reparto

all’altro, diventa a volte un problema di assunzione di impopolarità nei confronti del

personale, dei collaboratori stessi che non vorrebbero modifiche, che non

vorrebbero cambiamenti, che vorrebbero mantenere lo status quo, perché così, fa

comunque piacere, fa comodo non essere disturbati insomma…» (8:43).

Ciò comporta anche una certa intransigenza: non può andar bene tutto e il contrario di

tutto, va chiaramente espresso ciò che è accettabile e ciò che non è accettabile in

un’organizzazione.

«No, io per esperienza e per educazione e per maestri che ho avuto… gli amiconi di

tutti sono persone che non vanno bene per nessuno, alla fine… anche perché gli

amiconi è gente che certamente non imposta la vita con un certo taglio etico, per cui

va bene essere di bianco vestiti come di rosso, tanto è il discorso di prima, uno

viene a scuola in pantaloni corti perché gli fa comodo e allora tutti noi facciamo le

cose che ci fanno comodo, questo è l’amicone, l’amicone per essere amico di tutti

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deve accettare da tutti il compromesso. I compromessi, mi creda, ogni volta che

abbiamo fatto un compromesso l’abbiamo pagato in maniera molto, molto, molto

pesante; poi alla fine ci è ritornato il problema più pesante di prima…» (8:27).

Questo significa essere disposti anche a essere impopolari, a fare “la parte del cattivo”,

cioè a porsi in situazioni di rottura, che spesso concorrono a isolare il manager rispetto

alla propria organizzazione.

È, questa, una posizione necessitata spesso dal ruolo che egli ricopre, dalla responsabilità

che ha assunto, dal senso del dovere. Chiaramente ciò comporta ripercussioni anche

emotive. Non fa piacere, ma è una cosa dalla quale egli avverte di non potersi esimere,

pena un danno per l’intero servizio.

«Il personale ti critica, dice che sei un “boia”, perché comandi, perché pretendi,

perché ordini, ecco. Però da parte tua comunque c’è bisogno di questo… è una

responsabilità che è tua interiore. O la senti o non la senti. O ce l’hai o non ce l’hai,

insomma, e questo è prima di tutto, anche se poi paghi il conto molto forte sul piano

dell’immagine e comunque dell’isolamento… però insomma io sento in giro,

girando per la città, che l’istituto oggi ha un’immagine positiva ecco…» (8:22).

«… perché comunque sei additato come, sì, come un cattivo, un ingiusto, quello

che toglie […]. È sempre bello, apparire generosi è una cosa molto bella. “Arriva

un capo nuovo, eccolo qua, è arrivato il direttore nuovo, ci toglie quello che invece

quello di prima ci aveva regalato…”. Insomma non è una bella posizione

sicuramente…» (2:20).

Gli elementi di conflittualità non riguardano solo i rapporti che il manager ha con la

propria struttura organizzativa, ma anche con l’esterno.

Si tratta di una necessaria severità, che va logicamente regolata, come si regola il volume

della radio, perché non risulti eccessiva. Essa può, infatti, sfociare anche nella spietatezza

e nel cinismo, quando l’eccesso trasforma la virtù nel suo contrario. È questione a volte

di sensibilità personale e di un apprezzamento che si può fare – ancora una volta –

solamente calandosi nella situazione concreta.

«Sì, io mi sono trovato in situazioni… la situazione classica della retta non pagata.

Dove va l’ospite? Io ho sempre cercato di forzare. Io minacciavo anche

pesantemente il Sindaco del paese: “Guarda te lo porto in Municipio e lo faccio”.

[…] Però non volevo assolutamente che, per il bene e per la pace, non andavo a

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scontrarmi con il Sindaco, non andavo a scontrarmi con i dirigenti dell’ULSS, non

andavo a scontrarmi con la famiglia» (6:20).

«Cioè, su questo sono stato anche molto pesante, anche in termini di lettere scritte.

[…] Però bisogna essere molto pesanti, molto decisi. […] Il Comune di

appartenenza ti dice “Ma sì, vedremo, casomai facciamo la determina…”. No, si

muovono. Perché se vai dopo, loro ti dicono “Ma ho fatto la determina dal primo

giugno e, per la retta dei giorni precedenti, vai dalla famiglia”, che non ha soldi…»

(6:23).

«E mi è capitato in un caso di un ospite che deambulava e c’era il fratello che

nicchiava, non voleva pagare la retta… una situazione un po’ degradata… ho

minacciato di portare lì l’ospite… il fratello aveva un esercizio pubblico, siamo

andati lì, quindi ha capito che non si scherzava…» (6:13).

Certamente anche l’eccedere, al contrario, nei “buoni sentimenti” trasforma la virtù nel

suo contrario. Buonismo, pietismo, "cuore tenero" sono atteggiamenti che ricevono

riprovazione da alcuni degli intervistati, in quanto non corrispondono all’agire con

professionalità e al “dover essere” del manager.

«Poi un altro valore importante è la professionalità sotto un altro punto di vista,

cioè evitare pietismi. Perché ci sono tante situazioni che magari singolarmente

sembrano pietose, però dal mio punto di vista devo essere professionale e arrivare

fin dove devo arrivare e non oltre, perché sennò metterei in discussione alla lunga

la stabilità dell’ente nel suo complesso […]. Faccio un esempio concreto: “Ma

questo ha problemi a casa per i soldi, la retta…”. Se tu parti da queste situazioni ti

troverai nel giro di cinque anni con un certo tot di rette non pagate, perché

“Poverini, poverini…” e quelle rette non pagate ricadranno su tutti quanti, perché il

bilancio dell’Ente è quello. Perciò io dovrò essere anche pesante e tranchant verso

l’utente che non paga, perché ci sono situazioni in giro che con la storia del

“Poareto…” vengono lasciate lì. Ma siccome nessun pasto è gratis, lo pagano tutti

gli altri utenti. Perché se si crea un buco, anche se piccolo, nel bilancio della

struttura, qualcun altro pagherà. Per cui io devo essere molto professionale, da

questo punto di vista, con gli utenti, così come lo devo essere nei confronti dei

dipendenti che possono avere determinate problematiche» (6:9).

Il discorso sulle virtù trascina con sé a volte anche vocaboli forse un po’ desueti, ma che

conservano ancora una loro attualità ed un significato che va forse precisato. È il caso del

termine onore, richiamato invero da un unico manager, per il quale però esso assume

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evidentemente un notevole valore. Ritengo opportuno riportare pressoché integralmente il

brano di questa intervista, in quanto credo questo il modo migliore di rappresentare come

tale concetto sia andato chiarificandosi – ma direi anche, forse, a costruirsi socialmente –

nel corso dello scambio dialogico.

Dialogo sull’onore

D: «Quali sono, secondo lei, le competenze in ambito etico di un direttore di una

struttura come la sua?»

R: «Cosa significa competenze in ambito etico?»

D: «Le qualità morali del dirigente…»

R: «Allora, l’PAB è anzitutto un ente pubblico e allora è prevalente ovviamente

l’etica del funzionario pubblico […]. A fianco di un’etica personale c’è anche

un’etica codificata proprio da delle norme, delle leggi, prima tra tutte

appunto la Costituzione che noi come impiegati pubblici siamo tenuti a

rispettare. Permetta un momento adesso le trovo esattamente perché è

interessante anche dal suo punto di vista la citazione esatta dell’articolo,

basta che lo trovi… l’articolo che le citavo prima era il 54… che dice: “Tutti

i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica, di osservare la

costituzione e le leggi” – che va beh è assolutamente acquisito e quello che…

mi riferivo è questo – “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno

il dovere di adempierle con disciplina ed onore” questo è il…disciplina ed

onore…non è un concetto anche personale? Cioè…è un concetto che è rivolto

alla dimensione personale dell’adempimento…è il 54 non me ne ricordavo

più…»

D: «Effettivamente è un termine un po’ desueto… il “codice d’onore”, insomma,

questa cosa un po’ forse…

R: «Sì, ma sa… ci sono delle parole che hanno un ritorno ciclico; l’ultima è

quella della patria… quando ero ragazzo io e uno diceva patria prendeva le

botte… prendeva le botte dai comunisti e adesso i comunisti sono quelli che

sono più…»

D: «Legati un po’ a…»

R: «E quindi non mi stupirei che…»

D: «Che a anche disciplina e onore…»

R: «… Disciplina e onore, che fa tanto da moto del cacciatorpediniere ritorni di

moda»

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D: «…sono termini un po’ così… aulici, che comunque… ma parlando un po’

per esempio anche dell’onore, l’onore di un direttore di una struttura come la

sua, ecco, dov’è che risiede… D: quali sono quelle…»

R: «È un po’ difficile, è un po’ difficile, guardi. Quando le persone e le strutture

si misurano con delle necessità contingenti connesse per esempio al mercato

o al…o ad un andamento economico, il concetto di onore è particolarmente,

fra virgolette, difficile da rispettare, perché presuppone un atteggiamento di

fermezza, di coerenza, di… non mi viene… rigidità non è la parola giusta,

diciamo fermezza, coerenza…»

D: «Solidità?»

R: «Fermezza, coerenza, solidità, che è messo continuamente a dura prova da

tutto l’ambiente che ti circonda. Un’istituzione come la nostra si misura

anche tutti i giorni con un “quasi mercato”, quindi lei chiederebbe a un

manager privato del concetto dell’onore che cosa ne pensa? Io non so che

cosa le risponderebbe… non so, non sono sicuro che… non sono sicuro che la

sua risposta sarebbe pienamente coerente a quello che lui pensa… comunque

in ogni caso c’è un onore nella istituzione, fra virgolette. La coerenza ai

propri principi e soprattutto un comportamento tale che crei affidamento,

questo è quello che secondo me è l’onore…»

D: «Rispondo alla domanda, che è retorica certamente, ma secondo me nel

mercato un po’ di onore e onorabilità, soprattutto, credo che ci voglia, anzi è

fondamentale, perché tutto si costruisce sulla fiducia, no? Beh è la fiducia che

fa andare avanti il mercato, perché se tu non hai fiducia, vai a comprarti

neanche un paio di scarpe…»

R: «Sì, ma vede la fiducia è la dimensione esterna dell’onore. È quello che le

dicevo prima, l’onore non è, secondo me… - non vorrei… lungi da me, non

sono argomenti che ho mai affrontato, quindi vado un pochino a lume di

naso… - l’onore è la dimensione interna della onorabilità… Uno può creare

fiducia, può avere fiducia ma non avere onore, tra virgolette, o quantomeno

non avere quello che tradizionalmente si chiama onore…»

D: «…vendere fumo, insomma…»

R: «…nella truffa è normale creare fiducia… certamente il mercato si basa sulla

fiducia, ma l’onore è qualche cosa di diverso, di più… le ripeto è la

dimensione interna dell’onorabilità che…»

D: «È un bel concetto, in effetti, perché è vero che la…»

R: «…per questo le dico… le dicevo prima… è interessante la dizione con

“disciplina e onore”, disciplina è qualche cosa… è esattamente alla metà fra

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l’azione e il modo di essere, l’onore fa parte del modo di essere…

specialmente quando non è codificato in determinati comportamenti… ma

non è il codice d’onore che fa l’onore, l’onore è un’altra cosa, non sta nel

codice, sta in sé…»

8.3 Le capacità relazionali

La competenza etica non è fatta solo di principi morali e virtù personali. È costituita

anche – come già emerso in precedenza – dalla capacità di stare in relazione. Stare in

relazione con se stessi e con gli altri. Se l’etica è quel sapere teorico-pratico fondamentale

per essere nel mondo con gli altri, per entrare in contatto, per creare relazioni, allora la

competenza etica non può non prevedere come fondamentale presupposto le capacità

relazionali.

Mettersi in relazione, prima ancora che scambiare cose o informazioni, significa “sentire”

assieme all’altro. Significa provare empatia, che, come abbiamo visto, è quella facoltà

acquisita nel corso dell’evoluzione filogenetica dell’essere umano, che è alla base di

quello che Lecaldano chiama “sentimento morale” 36.

Provare empatia è una capacità fondamentale per ogni professionista che voglia porsi con

un atteggiamento etico di fronte alle persone, con le quali interagisce nell’ambito della

propria pratica professionale. Ciò implica lo sforzo di “mettersi nei panni” dell’altro,

pensarsi al suo posto, considerare le questioni anche dal suo punto di vista.

«Io dico sempre: “Ricordiamo che siamo noi i prossimi ospiti e vorremmo avere e

trovare qualcuno che ci aiuta…”» (8:15).

«Questa cosa mi ha molto segnato in maniera individuale, perché ho pensato a come

potevano essersi sentiti i familiari […]. E poi pensare alla reazione che avrei avuto

io se fosse successo a mio padre… e poi pensare a lui, come persona, e mettermi nei

panni suoi, di questo signore che si chiama Ettore […]» (4:32).

E soprattutto sentirsi accomunati da un medesimo destino, per cui le gioie o le sofferenze

dell’altro non ci sono estranee, ma concorrono a determinare le nostre gioie o le nostre

sofferenze.

«… per esempio nella nostra struttura ultimamente abbiamo vissuto delle situazioni

parecchio pesanti. Una collega con gravi problemi oncologici e un’altra il cui figlio

36 Cfr. Lecaldano E., Prima lezione di filosofia morale, cit., p. 9.

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ha fatto un incidente. Non posso essere felice da sola. Per quanto non è toccato a

me, d’accordo, ma non sono così felice come sarei stata felice se non fosse capitato

niente. Se cioè sei il figlio di Antonia stesse bene, sarei più felice; se Carla non

fosse malata sarei più felice. Sono felice nella misura in cui sono felici quelli che

sono attorno a me. Felici da soli… Cosa si può costruire appoggiando i piedi sulla

testa di qualcuno e nel cacciarlo sotto per emergere io? » (5:60).

Sentire assieme all’altro, percepirsi come legati gli uni agli altri, è l’atteggiamento

dell’uomo “buono”, vuoi per natura, vuoi per virtù appresa attraverso l’educazione e

l’esperienza. È un orientamento positivo nei confronti del mondo che potremmo chiamare

anche fiducia negli altri.

«Ritengo che la crescita più grande che può dare questo tipo di lavoro, di

professione, sia quella… può sembrare una cosa banale, ma poi spiego… di riuscire

a far crescere all’interno di noi stessi la fiducia negli altri, nel senso che quando io

come direttore mi tolgo dalla visione personale di questo mondo e mi approccio a

tutta una serie di altre persone, pensando che se creo delle regole, se creano una

organizzazione che funziona, la maggior parte delle persone mi restituiscono delle

cose positive, credo che questo sia molto gratificante» (4:25).

Porsi in relazione significa evidentemente anche comunicare. Comunicazione che parte

dalla capacità di ascolto, che è fondamentale per il manager sociale.

Sapersi mettere in ascolto delle persone, specie di quelle che soffrono com’è nel caso

degli ospiti di una casa di riposo, è una capacità che il direttore è chiamato non solo ad

avere ma anche a far crescere nei propri collaboratori.

«Quanto più io so ascoltare chi ho davanti e per ascoltare non intendo solo con le

orecchie, diciamo così, so leggere chi ho davanti, e tanto più saprò gestire» (5:108).

«… devi convincere la gente che deve ascoltare, quindi anche se una giornata è

pressante mi devi ascoltare…» (11:65).

Questo sapendo che non è facile, anche perché i ritmi di lavoro, la necessità di

ottimizzare i tempi, di rispettare le scadenze, pone il direttore in primis nella condizione

di sacrificare l’ascolto in nome di un efficientismo, di un fare per…, che spesso perde di

vista il senso e il valore della relazione.

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«…la capacità di ascolto… perché comunque è difficile… a volte il lavoro ti porta a

fare tanta sintesi e l’ascolto a volte cade, ma non perché non lo vuoi, ma magari

perché devi fare in fretta…» (11:36).

Saper ascoltare, sapersi collocare adeguatamente all’interno del contesto, sono

presupposti fondamentali per l’efficacia comunicativa di un buon manager sociale.

«Devi saper gestire bene il sistema delle comunicazioni. Anche lì la responsabilità

di un direttore è gestire la comunicazione, affinché il clima resti buono. Vuol dire

sapere cosa dire, a chi dirlo e quando dirlo. Può sembrare una banalità, ma quando

tu gestisci bene la comunicazione e quindi dici le cose tenendo conto di chi, quando

e come, crei un bel clima» (11:24).

Un aspetto importante nella comunicazione del manager è la chiarezza. Nel comunicare,

ad esempio, con i collaboratori, il capo deve riuscire a trasmettere messaggi chiari e

inequivocabili. Si tratta, evidentemente, come ci insegna la Scuola di Palo Alto, di una

chiarezza che attiene non solo ai contenuti, ma anche e soprattutto alla relazione, a come

ci si pone di fronte all’interlocutore37.

«Chiarezza, perché do delle risposte, cerco insomma di dare delle risposte sempre

chiare, sia in termini di aspettativa, sia in termini di risultato. Quindi loro sanno,

non faccio promesse che non posso mantenere. Se c’è qualche cosa che non è

andata bene, se c’è un loro comportamento che non è andato bene, ne parliamo

insieme in modo chiaro, la chiarezza…» (2:5).

Un rapporto che si costruisce “posizionandosi” rispetto a determinate scelte, in modo da

consentire all’altro di fare altrettanto, sapendo fino a dove può spingersi…

«… io ad esempio ho visto che se tu sei molto chiaro a mettere certi paletti… il

dipendente… Ad esempio quelli che hanno mal di schiena… io posso individuare

dei posti con contenuto di lavoro meno gravoso, ma non posso inventarmi dei posti

di lavoro ad hoc per quello che ha quel problemino… Facendo così il primo effetto

è che si riducono di molto le richieste, perché tutti i giochi sono chiari. Secondo me

37 Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson (1967), Pragmatics of Human Communications: a study of interactional patterns, pathologies and paradoxes, trad. it. La pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971. Uno degli assiomi che vengono argomentati in questa opera sostiene infatti che ogni comunicazione contiene in sé elementi di contenuto ed elementi di relazione, che vanno parimenti presidiati.

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professionalità da questo punto di vista è anche evitare pietismi che poi portano a

situazioni che alla lunga sono ingestibili, ingovernabili…» (6:9).

Questo va contemperato con un’esigenza che definirei di mediazione, cioè con la capacità

di calarsi nella situazione concreta e porsi con una certa flessibilità di fronte alle

specificità del contingente, all’unicità e all’imprevedibilità dei casi, resi virtualmente

infiniti dalla presenza dell’imponderabile “fattore umano”.

«Però io credo che sia il confrontarsi con la gestione della risorsa umana, che è

sempre una cosa imprevedibile e anche gratificante, che porta delle volte a fare un

lavoro per tentativi, un lavoro di mediazione… ecco, la capacità di mediare era una

cosa che io non avevo assolutamente… Adesso ho imparato, anche in situazioni

diverse dal lavoro a confrontarmi… il pensiero che mi viene ora in mente, anche

nella mia vita personale, è: “Come posso mediare rispetto a questa cosa?”» (4:26).

La capacità di mediare si esercita anche rispetto ai conflitti, sapendosi rapportare in

maniera costruttiva nei confronti delle diverse persone.

Questo non significa rinunciare alle proprie posizioni, derogare da quella chiarezza di cui

si parlava prima, ma portarla avanti con sensibilità e tatto, sapendo che tutto può essere

detto, purché si usi il modo giusto.

«I rapporti con colleghi di pari grado ma non di uguale anzianità devono essere

gestiti con particolare tatto e diplomazia, affinché non sorgano conflitti inutili»

(9:41).

«La mia sincerità è stata ed è spesso poca diplomazia, perché credo che poi le stesse

cose si potrebbero dire in maniera molto più soft, anche con eleganza se vuoi.

Perché spesso me lo dicono, sono l’elefante che arriva nella cristalleria e quindi è

più il danno che altro. Quando poi le cose si sarebbero potute dire, però, sai, c’è

modo e modo» (3:97).

Il capo non deve solo saper “comandare”, deve riuscire a porsi in termini negoziali nei

confronti dei propri collaboratori e in generale rispetto ai soggetti con i quali si rapporta38.

E questo è qualcosa che si impara sul campo.

«Allora io, venti e passa anni fa, non la pensavo così... molto ingenuamente pensavo

che uno, perché aveva i gradi, doveva solo comandare e gli altri erano obbligati a

38 Cfr. Fletcher K. (1998), Negotiation for health and social services professionals, trad. it. La negoziazione nei servizi sociali e sanitari. Guida per dirigenti, coordinatori e case manager, Trento, Erickson, 2000.

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ubbidire, eh... con il tempo ho capito che è un modo ingenuo, infantile, poco

intelligente di intendere e ho capito che alla fine paga di più in termini proprio

concreti, pratici avere un atteggiamento che sia rispettoso del singolo… il che non

vuol dire farsi sempre condizionare dal pensiero dell’altro. Vuol dire riconoscere

l’altro, provare a ragionare, provare a confrontarsi… vuol dire provare a spiegarsi…

quindi io queste cose le ho imparate un po’ sulla mia pelle, con l’esperienza... le ho

imparate strada facendo…» (10:12).

La postura etica del manager dev’essere improntata ad una particolare attenzione ai

collaboratori, che sono importanti risorse per l’organizzazione, ma sono innanzitutto

persone, con i propri bisogni e desideri, di cui il direttore deve tener conto e che deve, se

possibile, conciliare con le istanze dell’organizzazione.

«Faccio quello che serve ma nello stesso tempo non posso dimenticarmi che sei un

operatore, ma anche una mamma, che per esempio ha dei figli, una famiglia… e

quindi nella scelta dei progetti obiettivo, degli straordinari, ecc. bisogna star attenti

a non mettere le persone in condizioni impossibili, che non riescono a reggere»

(5:21).

Un’attenzione non solo a parole, ma concretamente tradotta in iniziative di

riorganizzazione dei servizi, che tengano conto di questo aspetto.

«Perché non è che tu abbia dei risultati così, bisogna che tu faccia degli investimenti

in termini di manutenzione, di benessere organizzativo… noi abbiamo un progetto

che dura da sei anni sul benessere organizzativo, che non vuol dire fare chissà quali

interventi a livello di incentivi o di benefit, nei confronti del personale, ma che

significa più che altro cercare di avere un dialogo continuo con il personale, che ti

metta in grado di capire quali sono le difficoltà, quali sono le esigenze… Le faccio

un esempio pratico. Noi, nella gestione del turno (perché il 90% del personale è

turnista, il turno è uno strumento di lavoro importante, ma ha tutta una serie di

criticità…), ad un certo momento abbiamo fatto una scelta che è stata quella di

centralizzare il turno, in modo da poter garantire dei criteri di equità nella

distribuzione del turno, quindi in termini di quante domeniche fai, quante notti fai,

quanti rientri in servizio, quante ferie, eccetera. Quindi noi ogni sei mesi

rendicontiamo a tutto il personale, diamo a ciascuno un foglietto in cui noi

rendicontiamo quante di queste cose abbiamo chiesto a lui e quanto agli altri del suo

gruppo di lavoro, proprio per dimostrare che vogliamo perseguire un criterio di

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equità nella distribuzione di queste criticità e che il dipendente è guardato con

attenzione su questo» (1:38).

L’attenzione ai collaboratori si traduce anche nella capacità di gratificarli,

riconoscendone e valorizzandone il merito.

Pur conoscendo l’importanza della comunicazione per la crescita delle relazioni, molte

persone – per carattere o per altro – fanno molta fatica ad esternare ciò che provano

realmente. È quindi una sensibilità che occorre coltivare pazientemente.

«Devi riconoscere il buon lavoro, cioè così come a volte devi riconoscere qualcosa

che non va, ma devi, ecco…» (11:24).

«Uno dei limiti che mi riconosco è quello di non riuscire a gratificare gli altri in

maniera adeguata… è un limite che ho qui e che ho a casa… io mi definisco

calvinista, perché pretendo molto da me stesso come pretendo molto dagli altri, però

questo alla fin fine non sono capace di trasformarlo in riconoscimento adeguato

anche in termini di soddisfazione. Ora chi mi conosce e vede le cose sa anche

cogliere che questo aspetto c’è… ma non traspare tanto. Per certi aspetti lo vedo

come un disvalore, che mi fa stare male, perché se tu lavori per essere di esempio in

termini valoriali poi non sai nello stesso tempo saper gratificare, questa mancanza di

riconoscimento ti gioca contro, ti si ritorce. Questo lo vedo come un valore non

praticato, ecco, potremmo chiamarlo un valore non praticato rispetto a quanto

potrebbe essere fatto» (3:82).

8.4 Le componenti motivazionali

Nella competenza etica non può mancare una componente motivazionale. Non basta cioè

conoscere i principi morali, avere delle qualità personali e delle capacità. È necessario

anche volere agire in modo etico. La motivazione è quella spinta interiore che induce il

soggetto ad agire e rappresenta, per riprendere la metafora già citata di Spencer e

Spencer, la parte sommersa di quell’iceberg che chiamiamo competenza39.

Nel corso dell’intervista sono emersi diversi aspetti di tipo motivazionale a cominciare

dal piacere del lavoro che ricorre in molte testimonianze.

39 Spencer L.M., Spencer S.M., Competenza nel lavoro, cit., p. 30

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Un piacere che deriva dal fatto di “riconoscersi” in ciò che si fa, nel risultato del proprio

lavoro. Il piacere di creare con il proprio agire, dell’essere generativi, che è secondo

quanto ci insegna Erik H. Erikson il fondamentale portato dell’età adulta40.

«Il secondo punto, per quanto mi riguarda, è la bellezza del lavoro, no? Il principio

è cercare di dire: “Io sto facendo qualcosa per cui vedo il mio risultato o per lo

meno la parte che io posso incidere”, nel senso che io ho dei parametri, no? Mi

vengono date delle risorse dall’Amministrazione, mi vengono dati anche degli

obiettivi, ecco… ma l’importante, la soddisfazione, è quella che uno trova nel dire:

«Sono riuscito ad aprire un reparto!”. Sento che parte del mio lavoro, del mio

sacrificio, anche delle mie paure…» (11:13).

Il piacere sta nel fare e nel fare bene, nel provare soddisfazione nel lavorare bene41.

«Stiamo facendo questo, facciamolo bene… cioè, lo possiamo fare, ma possiamo

farlo bene. Se lo facciamo bene, siamo soddisfatti e contenti, se lo facciamo e basta,

probabilmente alla fine siamo anche mortificati e non vediamo l’ora di uscire dalla

porta e di andare a casa… e invece così lo facciamo volentieri, ecco… e questo

volentieri, questo stare insieme volentieri, secondo me è anche uno stare insieme…»

(2:39).

Fa piacere soprattutto lavorare con altre persone, sentirsi una squadra che sta bene

assieme, condividendo l’esperienza del lavoro.

«… l’impegno, la soddisfazione di portare a compimento un lavoro… la

soddisfazione che si prova a lavorare in team, a lavorare in gruppo quindi a

condividere il successo e queste sono sicuramente delle motivazioni forti e dei

valori che si trasmettono…» (2:53).

Un piacere di lavorare assieme che permane, nonostante le difficoltà e i vincoli che

sembrano divenire giorno dopo giorno più gravosi: gli elementi di difficoltà e di disagio

nel lavoro in una casa di riposo, in amministrazione o nei reparti, non mancano

certamente.

40 Cfr. Erikson E.H. (1982), The life cycle completed. A review, trad. it., I cicli della vita. Continuità e mutamento, Roma, Armando, 1999.

41 Sul valore della “cosa ben fatta”, si veda Toffano Martini E., La cultura dei diritti umani e l’educazione delle prime età. Indizi di un “prima” e di un “oltre” in Emmanuel Mounier , in Xodo C., Benetton M. (a cura di), Origini e prospettive della Scuola di Pedagogia di Padova, Lecce, Pensa MultiMedia, 2007, pp. 343-345.

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«No, no, no ti preoccupa, adesso aumenta la preoccupazione, ciò nonostante è

comunque ancora un bel lavoro… è un momento difficile […], però ecco, devo dire

quello che io trovo ancora è che c’è ancora voglia e piacere di fare questo lavoro…»

«In ufficio di qua molto spesso sono sulle barricate, perché ci sono momenti in cui,

per le scadenze, per… bisogna veramente, veramente tirarsi su le maniche. Nei

reparti, poi, non ne parliamo... Pensiamo a quando abbiamo i familiari di qualche

ospite che li insultano, abbiamo anche persone che insultano, che mancano di

rispetto, però il personale sa che non è da solo, ci sono…devi dare tu degli esempi

per fargli vedere che non è da solo…» (2:39).

La difficoltà stessa può però costituire un elemento di motivazione, dato dalla sfida, cioè

dall’impegno a superare tali ostacoli, a trovare costruttivamente le possibili vie d’uscita.

Si tratta di una sfida che ripaga non in termini economici, ma di soddisfazione personale..

«…sono convinto che la gestione di una casa di riposo, di un’Ipab, ti dà anche una

sfida con il quotidiano…» (8:5).

«Quando io ho accettato la sfida del cambiamento ho perso il 30% delle mie entrate.

Non mi sono interessato a questo, però devo dire che sono stato fortunato: mi hanno

sempre pagato di più di quello che a me serve, insomma…» (12:39).

Le gratificazioni economiche sono certamente importanti per un manager, così come per

ogni lavoratore, ma non sono essenziali. Essenziale è soprattutto crederci, credere in ciò

che si fa e farlo con passione e altruismo.

Credere convintamente in quello che si sta facendo è qualcosa di fondamentale per poter

andare avanti, anche senza attendere da altri le conferme o gli incoraggiamenti che talora

possono non arrivare.

«Mah, anzitutto, se non ci fosse la convinzione non lo faresti. […] Ci devono essere

delle cose che si aggiungono e io credo che siano quello che riguarda da un lato la

passione, dall’altro la dedizione. Il fatto di credere a quello che stai facendo e

soprattutto una forte motivazione» (3:15).

«Ci son tanti momenti, insomma, in cui ti trovi in difficoltà dal punto di vista

proprio del rapporto e quanto più sei sicuro dentro di te in base all’esperienza, che

stai facendo la cosa giusta, tanto più ti supporti da solo nel fare ’sto percorso…»

(11:44).

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Tra i fattori motivazionali troviamo anche l’orgoglio professionale, legato all’essere parte

di una gloriosa tradizione, di essere inseriti in un’organizzazione può avere una storia

secolare.

«… beh c’è una certa considerazione, un certo orgoglio a far parte di un qualche

cosa che – seppure con le inevitabili fratture che ci sono nel decorso storico… – di

un qualche cosa che risale al 1270 […]. C’è una certa, come posso dire…

consapevolezza, di far parte di qualche cosa… il tutto poi è praticamente incarnato,

concretizzato dal nostro archivio storico nel quale appunto abbiamo le primissime

pergamene fondative delle nostre istituzioni. Quindi si può anche quasi toccare con

mano l’evoluzione…» (7:14).

Istituzioni che hanno un illustre passato, ma che hanno anche un importante presente.

Molte delle Ipab del Veneto costituiscono per dimensioni e fatturato delle realtà

economiche di un certo rilievo, tanto che nel tessuto produttivo in cui si inseriscono, fatto

principalmente da aziende di piccole dimensioni, possono rappresentare un importante

volano per l’economia locale.

«L’istituto è la più grossa Ipab del Veneto come struttura pubblica, perché poi c’è

l’YYYYYY, che però è una struttura privata… quindi la più grande casa di riposo

pubblica del Veneto. Abbiamo attualmente circa 600 assistiti residenziali e poi con

il nuovo centro diurno che verrà aperto a XXXX, avremo un altro centinaio di

persone che verranno assistite con il modello semi-residenziale, cioè arrivano la

mattina e vanno a casa la sera, quindi complessivamente saranno 700 gli assistiti…

e il personale si aggirerà all’incirca sulle 500 unità, che non vuol dire “soggetti”,

perché ci sono anche i part-time…» (9:1).

Ogni organizzazione ha la propria identità, la propria storia, le proprie tradizioni, i propri

valori, i propri punti di forza, come i propri punti deboli. Non è infrequente che il

manager si rispecchi con soddisfatto orgoglio nella propria organizzazione,

evidenziandone gli aspetti caratteristici che gli rendono gratificante il fatto di

appartenervi.

«Una delle cose migliori che a me capitano è vedere persone, amici o conoscenti

italiani, stranieri, che vengono in visita alle nostre strutture. Io non avviso

normalmente nessuno nelle visite, vado dove è giusto, in giro insomma, spesso

interloquisco con chi c’è intorno e i “ritorni” che spesso ho dalle persone, anche a

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distanza, sono la competenza e la qualità delle relazioni. La qualità delle relazioni

che vedono: persone sorridenti, gentili, affabili, ambienti curati…» (12:16).

Il senso di appartenenza, messo in luce dagli intervistati, genera in loro, come si è visto,

un certo orgoglio, che però resta un fattore altamente motivante se si ha anche la capacità

di non prendersi troppo “sul serio”, scherzandoci perfino un po’ su.

«Mi prendono in giro. Mi dicono: “Eh sì, perché noi abbiamo il modello XXXXX,

no?”. Mi dicono questa cosa anche degli amici che sono andati via: “Eh, qui non c’è

il modello XXXX”… intendono proprio riferirsi a questo background, mescolato di

valori, etica, convinzioni, che il vero patrimonio dell’azienda» (12:16).

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Dove si narra di come vengono acquisite le competenze etiche

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne, il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.

Italo Calvino

9.1 Lo sviluppo delle competenze etiche

Dopo aver esposto quanto è stato generato nel corso della ricerca sulle competenze

etiche, passo ora a dar conto degli elementi prodotti, nello scambio dialogico delle

interviste, relativamente ai processi di acquisizione e di sviluppo di tali competenze.

Dal lavoro di codifica effettuato con Atlas.ti ho individuato 17 elementi riconducibili al

tema dell’acquisizione delle competenze, una parte dei quali si riferisce al manager,

mentre la restante parte riguarda l’organizzazione e i collaboratori.

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Fig. 5 – Mappa dello sviluppo delle competenze

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9.2 L’acquisizione delle competenze etiche nella pratica manageriale

Inizio dai processi di apprendimento del manager, di come cioè il manager sociale

acquisisce le proprie competenze professionali ed in particolare la competenza etica.

Nel conseguimento delle competenze professionali da parte del manager, un ruolo di

primo piano viene giocato innanzitutto dalla formazione.

Oltre alla formazione di base, che rappresenta un necessario prerequisito, risultano

indispensabili ulteriori percorsi di apprendimento. La professione, infatti, richiede al

manager conoscenze e competenze ampie e soprattutto diversificate, che egli acquisisce

attraverso degli interventi formativi specifici, i quali possono essere il convegno o il

seminario di aggiornamento, ma anche percorsi più articolati.

La formazione e l’aggiornamento continui sono indispensabili per svolgere correttamente

la professione di manager, tanto che alcuni riterrebbero opportuno che divenissero un

vero e proprio obbligo, analogamente a quanto avviene nelle professioni sanitarie con il

sistema dei crediti formativi (Ecm).

«Nel corso del tempo sono sempre stata meno laureata in legge e più “laureata”

(sorride) nelle varie discipline che sottostanno alla professione. Quindi in termini

gestionali mi sono sempre più allontanata dalla mia formazione iniziale, che rimane

però sempre la base» (1:8).

«… c’è un percorso che è stato avviato, sul quale si insiste, affinché ci sia una

chiara consapevolezza di obbligo di formazione permanente. Obbligo, quindi. Non è

che uno quando si è seduto qui dice: “Oh, ho raggiunto il traguardo!”. No, ha

assunto una responsabilità per cui ogni giorno gli vengono richiesti sviluppo di

competenze, conoscenze e soprattutto quelle capacità che sappiano introdurre

soluzioni innovative» (3:68).

Tra i vari ambiti disciplinari necessari per la formazione del manager sociale, vi è anche

l’etica professionale, rispetto alla quale alcuni intervistati avvertono il bisogno di una

maggiore offerta formativa.

Probabilmente è vero che tale istanza non è ancora entrata pienamente nella cultura

professionale del manager, contrariamente a quanto avviene per altre professioni, come

quella del medico. Ho riscontrato comunque in alcuni degli intervistati un notevole

interesse personale per la materia, che li ha portati ad intraprendere percorsi individuali di

approfondimento.

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«Le proposte formative in questo ambito sono veramente molto poche, nel senso

che è molto diffusa l’idea che questo sia un ambito specifico di professionalità

medica, sanitaria, ma in questo momento, culturalmente, non è previsto che ci sia

uno specifico modulo professionale di etica per i direttori…» (1:56).

«Io sentivo la necessità di approfondire anche le competenze in ambito etico e ho

frequentato un corso di perfezionamento all’Università di Padova, perché sentivo di

dover avere dei punti fissi in questo» (6:33).

Al di là delle inclinazioni e degli interessi personali, l’attenzione per i temi dell’etica si

sta facendo strada nel comune sentire del manager sociale, contestualmente all’affermarsi

di una nuova concezione del ruolo che questi deve assumere all’interno dei servizi alla

persona. Ciò soprattutto per merito del lavoro di promozione culturale svolto

dall’associazionismo professionale, che – come vedremo meglio più avanti – gioca un

ruolo fondamentale per lo sviluppo delle competenze professionali.

«Noi, ad esempio, l’anno scorso abbiamo partecipato ad un seminario sulla bioetica.

Ma bioetica per i direttori, perché è dalle nostre scelte minute, di tutti i giorni, che

passa appunto la qualità di vita dell’ospite. […] Per cui siamo stati noi come

Ansdipp ad organizzare questo corso di bioetica proprio per direttori. È la nostra

associazione che ha fatto emergere, ripeto, all’interno di una proposta di manager di

un certo tipo, l’esigenza che questo manager sia informato anche di etica, altrimenti

nei corsi che lei trova in giro non è considerato… questo tipo di capacità

professionale, è generalmente riferita al medico, all’infermiere professionale»

(1:56).

È la formazione – che riguardi i temi dell’etica o qualsiasi altra disciplina professionale –

a rispondere di per sé ad un’istanza etica, quella di aiutare il professionista a svolgere

bene il proprio lavoro, sviluppando incessantemente le proprie qualità e virtù e

realizzando in tal modo, oltre che traguardi professionali, anche se stesso42.

«Come valore-guida direi prima di tutto la ricerca continua della professionalità.

Questo lo metto come una cosa importante e fondamentale. Noi nei servizi socio-

sanitari – e in particolare quelli residenziali – abbiamo avuto uno stravolgimento

negli ultimi anni e quindi per rendere un buon servizio è importante che ci sia da

parte del manager una sua capacità di evolversi professionalmente. Evolvere

attraverso lo studio, evolvere attraverso la partecipazione ad attività di formazione

42 Crf. Berti E., Alle radici del concetto di capacità: la Dunamis di Aristotele, cit., pp. 31-44.

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ed è una cosa che non ti puoi aspettare all’interno dell’ente, ma dev’essere un tuo

stimolo, guardando quello che fanno gli altri, essere curiosi, in questo senso. E

quindi questa capacità che ha un manager deve tradursi in un valore, cioè se io

voglio rendere un servizio adeguato all’utenza devo essere in grado di cambiare,

perché siamo all’interno di un contesto dinamico. Questo sicuramente è importante»

(6:6).

La formazione si inserisce infatti, come fattore fondamentale, in un complessivo processo

di crescita professionale e, più in generale, di crescita umana. Si tratta di un processo

continuo, di apprendimento, di maturazione e di crescita.

Senza contare che si continua ad apprendere lungo tutto l’arco della vita ed è la vita

stessa, spesso, che ci “insegna”, che cioè letteralmente ci “lascia i segni” del suo

passaggio.

«Quando tu fai un percorso di crescita, è come per l’età evolutiva per certi aspetti,

impari a camminare, impari a scrivere, impari a leggere, la tua conoscenza è

progressiva e soprattutto è evolutiva, fino a che diventi adulto, ma quando diventi

adulto non è che hai raggiunto il livello del top, è sempre un continuo crescere…

Ecco, io ho sempre vissuto questa esperienza come un continuo crescere, un

continuo essere portati nell’ambito della conoscenza per acquisire sempre di più

competenze specifiche» (3:42).

«Non si finisce mai di apprendere e di conoscere. Lo dicevano i filosofi greci che

erano dei sapienti … Socrate diceva: “So di non sapere”. Quindi non hai mai finito

di apprendere. Ci sono le difficoltà che ti portano ad apprendere sempre di più

perché devi risolvere ciò che è stato ignoto per te fino a quel momento. Le

competenze si acquisiscono con l’esperienza. L’esperienza inoltre ti porta a non

prendere di petto tutti i problemi ma a risolverli con abilità» (9:24).

Non è però scontato il fatto che il cambiamento sia sempre un cambiamento positivo. Lo

scorrere del tempo, la routine quotidiana, il confronto con le asperità di un lavoro che a

volte può essere anche alienante, possono portare il manager sociale a perdere il senso del

proprio operare, a chiudersi, a restringere i propri orizzonti.

Sta evidentemente alla capacità del singolo non lasciarsi fagocitare dalla ripetitività e

mantenere continuamente vivi gli aspetti che fanno del lavoro uno spazio di

umanizzazione.

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«Direi che in questo lavoro molte volte si può anche correre il rischio… Perché è

assorbente e quindi ti può anche a volte limitare… La mia fortuna è stata che oltre

al lavoro avevo altri interessi e quindi ho coltivato altri ambienti che mi hanno

aiutato poi nel mondo del lavoro, professionale, ad affrontare lo stesso con un’ottica

estremamente, estremamente diversa, più ampia, direi. Sempre porto all’interno del

mondo del lavoro quanto conosco, quanto vedo fuori… E poi direi che la mia

curiosità mi aiuta, mi stimola a fare qualcosa di più, perché comunque sono sempre

alla ricerca di cose nuove, perché…cambiano» (8:13).

Emerge in alcune interviste l’idea di una “maturazione” professionale ed umana intesa

come cambiamento “naturale”, come evoluzione preordinata del soggetto, che ha forse a

che fare con lo sviluppo cognitivo o semplicemente con lo scorrere del tempo e con il

mutamento della prospettiva dalla quale si vedono le cose.

«Di certo, dall’inizio dei 40 anni, della strada ne è passata, è passata per tutti, è

passata come età, è passata come forze fisiche ma soprattutto è passata come…

maturazione … della persona» (8:13).

«Direi che c’è stata una normale maturazione delle persone… una maggiore

consapevolezza… più che altro della complessità dei problemi…» (7:35).

Il percorso di crescita non prevede solo l’acquisizione di nuove conoscenze e abilità, ma

anche e soprattutto lo sviluppo di una maggiore consapevolezza di sé e della capacità di

stare bene con se stessi e con gli altri, magari facendosi accompagnare in questo percorso.

«…la questione del benessere del manager… cioè se io sto bene rispetto alle

dinamiche che porto qua dentro, posso essere veramente funzionale

all’organizzazione, che è qualcosa di prioritario per il manager… perché non è che

l’organizzazione deve essere funzionale a lui ma è lui che dev’essere funzionale al

fatto di gestire bene l’organizzazione perché poi venga gestita bene l’assistenza. E,

quindi, rispetto al benessere del manager, io credo che chi gestisce persone e quindi

gestisce dinamiche, gestisce gruppi, gestisce aspettative… […] ha la necessità di

attivare anche dei percorsi di sostegno personale, che appunto lo facciano uscire da

una logica attraverso la quale io ripropongo sempre la mia dinamica, che poi è

quella del mio ambiente familiare da cui arrivo, quello che mi sono costruito nel

tempo… per poter poi leggere con un occhio più pulito tutta una serie di dinamiche

e di aspettative delle parti che poi devo gestire qua dentro. Che sono aspettative del

sistema, aspettative dal territorio, aspettative degli amministratori…» (4:28).

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Questo lavoro su di sé è fondamentale quindi anche per migliorare le relazioni con gli

altri. Del resto, l’accettazione, la stima e l’amore di sé sono requisiti indispensabili per

accettare, stimare e amare l’altro43.

«Più ci si conosce, più si lavora su se stessi e meglio si può capire anche l’altro»

(5:5).

Ricorrono anche nello specifico ambito dell’etica le idee di crescita e di “maturazione”,

che si coniugano con il controverso concetto di “carattere morale”. Secondo questa

visione, crescendo la persona rafforzerebbe determinati valori, ma anche imparerebbe a

mediare alcune posizioni, a vedere le sfumature.

«I valori sono molto legati al carattere della persona e questi valori si rafforzano

sempre più nel tempo» (9:23).

«Lei sa benissimo che da giovani bianco e nero sono assolutamente evidenti…

sembra impossibile che qualcuno abbia dei dubbi se una cosa è bianca o è nera, poi

crescendo sembra impossibile che qualcuno non abbia dei dubbi…» (7:35).

Questo aspetto “evolutivo” si intreccia comunque strettamente con quello che è

l’apprendimento e in particolare l’apprendimento attraverso l’esperienza. Il solo scorrere

del tempo non basta, né è sufficiente il “fare”. È necessario accompagnare questo

divenire del tempo e questo fare con una riflessione, che trasformi il succedersi degli

eventi e delle azioni in esperienza che fa crescere. È necessario cioè un processo di

apprendimento esperienziale.

L’esperienza rimane una dimensione fondamentale per l’acquisizione delle competenze

che servono ad un buon manager sociale. “Chi fa, sa”. Cioè, è misurandosi con i problemi

quotidiani che si generano apprendimenti significativi.

«Il più delle volte uno è chiamato ad a essere responsabile di qualche cosa solo

perché ha delle conoscenze in più, ma non delle competenze… te le fai un po’ alla

volta… poi non è detto che tutti quanti a una certa età le acquisiscono. Sono

processi di riflessione che poi maturano stili, convinzioni, valori. Io certe cose non

mi sognerei mai di farle adesso» (10:16).

«In relazione al concetto di abilità per risolvere le situazioni faccio l’esempio delle

“relazioni sindacali” che sono talvolta defatiganti e a volte devo dire logorano la

43 Harris T. A. (1969), I’m OK, you’re OK, trad. it. Io sono OK, tu sei OK. Come risolvere al meglio il problema del rapporto con gli altri, Milano, Rizzoli, 2000.

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salute più dei lavori classificati come “usuranti” Ci sono state in passato delle forti

tensioni per l’erogazione del salario accessorio, quello che dovrebbe essere

destinato a premiare il “merito”. Questa esperienza mi ha insegnato a distaccarmi

psicologicamente dai problemi e dalle persone che li incarnano» (9.24).

È la natura stessa del compito, la sua notevole complessità e la sua ampia imprevedibilità,

che rendono inefficace un approccio “applicativo”, improntato meramente alla razionalità

tecnica, richiedendo invece quella che Schön chiama “artistry”, ossia quella competenza

che non si può acquisire dai manuali, ma mettendosi in “dialogo” con il caso concreto,

con l’esperienza44.

«In questo tema io vedo che è proprio l’esperienza… Ce lo stiamo costruendo

vivendo… Nelle UOI [Unità Operative Interne] non è che esista un libro, un

manuale che ti dice: “Quando hai determinate situazioni…» (5:28).

Le esperienze maturate sul campo risultano fondamentali per la creazione e il

rafforzamento delle competenze professionali del manager. Vi è chi considera importante

soprattutto diversificare tali esperienze e chi mette in primo piano non tanto il cambiare

spesso ente, come invece frequentemente succede nelle aziende private, dove il manager

arriva, sta due o tre anni e poi si sposta, quanto piuttosto il fatto di coltivare un impegno

costante.

«Non ho fatto percorsi formativi per diventare direttore - tra l’altro neanche ce ne

sono - lo diventi sul campo. Certo mi ha facilitato un po’ secondo me il fatto di aver

fatto, prima di diventare direttore, 7-8 anni di esperienze anche diverse. Io ho visto

che poi quando ho fatto il direttore, a me queste esperienze diverse sono state utili

nel cominciare insomma questa attività» (11:3).

«…non ho fatto grandi cambiamenti. Io non sono uno di quelli convinti che un

manager si forma con la flessibilità… un manager si forma con la costanza…»

(8:6).

Il cambiamento più importante sembrerebbe essere quello che si realizza nel quotidiano,

nel trovare sempre all’interno del proprio lavoro degli elementi di stimolo per rinnovarsi

e innovare.

«Direi che è stato un percorso che, a differenza di altre mie esperienze, non mi ha

portato a dire dopo alcuni anni “Cambio”. Questo testimonia che se tu ti dedichi con

44 Cfr. Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 68

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grande passione, con la passione che dev’esserci, con competenza e con dedizione,

in lavori come questo, puoi trovare molti spunti e soprattutto molte novità giorno

dopo giorno. Quindi è vero che puoi anche vivere, come spesso avviene, la

solitudine del leader, è vero che spesso sei pressato dalle carte, ma è altrettanto vero

che puoi trovare spunti di carattere innovativo non indifferenti. […] Forse uno dei

motivi per cui non sono più andato via, a differenza della mia esperienza precedente

in cui ogni tot numero di anni preferivo cambiare lavoro, è perché qui sei

continuamente spinto dalle innovazioni e dal cambiamento e soprattutto questa

continua voglia di fare progettualità, quindi percorsi innovativi…» (3:13).

La consapevolezza di un apprendimento acquisito soprattutto “sul campo”, nel quotidiano

misurarsi con il compito, si ritrova soprattutto quando si parla di competenze etiche, la

cui acquisizione deve combinare teoria e pratica che, solo se unite, riescono a produrre

reale apprendimento.

«La competenza etica… ci sono dei corsi, ma le basi dell’etica si acquisiscono

lavorando con le persone…e sforzandosi di avere effettiva cura del loro benessere

materiale e spirituale. – E questo l’ha imparato proprio … – l’ho imparato sul

campo, esatto» (9:45).

«Allora eh... Gli apprendimenti più veloci sono quelli che uniscono le due cose…

dove noi riusciamo ad avere i maggiori step di miglioramento è dove esiste

l’elemento, come dire, soggettivo e dei percorsi strutturati, dove si passano concetti,

si trasmettono dei valori e via dicendo. Le due cose da sole non producono grandi

effetti. Ovvero, bisogna in qualche modo seminare, nella speranza che qualcuno di

questi frutti poi autonomamente cresca e diffonda riflessioni individuali, che poi

aiutano gli altri a sviluppare le loro. Cioè, la formazione o meglio le proposte

formative strutturate, ci devono essere. Eh, butti là cento, raccogli uno. Ma

quell’uno che raccogli è uno che a partire da questi input poi fa una riflessione, una

elaborazione interiore. Ci sono argomenti che solo così vengono fuori… ci deve

essere un pensiero, non sono nozioni, è un pensiero che cresce. È un pensiero che

deve essere però fatto, strutturato. Bisogna aiutare le persone a discernere le cose

buone da quelle…» (10:26).

L’esperienza non è sempre positiva, ma si impara anche quando le cose vanno male e

forse in questi casi si impara anche di più.

«In realtà noi diciamo sempre che si impara da qualunque caso, sia che la situazione

vada bene, sia che la situazione non vada bene, perché si impara anche da quello

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che non si fa. Non è cioè che solo se ha un esito positivo diciamo che abbiamo

imparato, ma anche quando si fa magari un errore dietro l’altro… anche da quello

che non si fa, si impara» (5:32).

L’esperienza si deve accompagnare al pensiero riflessivo: è riflettendo durante

l’esperienza (reflection-in-action) e facendo l’esperienza stessa oggetto di riflessione

(reflection-on-action), che si sviluppano le competenze in ambito etico45.

Il pensiero riflessivo ha bisogno del confronto diretto con le situazioni. Nel lavoro del

manager viene richiesta frequentemente la soluzione di problemi e l’assunzione di

decisioni e ciò non può essere fatto convenientemente in termini solipsistici, ma entrando

in contatto, “dialogando” – come si diceva prima – con la situazione problematica,

aprendosi ad altri punti di vista e raccogliendo tutti gli elementi che consentono di far

progressivamente chiarezza.

«Come in tutte le professioni, quando si fa esperienza, si maturano anche delle

riflessioni, che crescono nel tempo. Quanto più io acquisisco esperienza e

conoscenza nel mio settore, tanto più sono in grado anche di elaborare dei pensieri,

delle riflessioni, anche di natura etica…» (11:39).

«Le decisioni che prendevo non le prendevo con filtri del tipo: “Lo dico a qualcuno

che lo dice a qualcun altro”. Quindi le decisioni che c’erano di prendere in Unità

Operativa Interna, che non riguardavano ovviamente gli aspetti sanitari, assistenziali

per i quali io ero lì come supervisore, ma per aspetti patrimoniali o quant’altro, le

prendevo assieme […]. Il problema c’è quando si è chiusi nell’ufficio, guardo le

carte, ho un terzo a cui dico… l’essere distanti può essere uno stile, ma per me è

uno stile che non paga, proprio perché siamo in un servizio particolare che ha a che

fare con le persone» (6:46).

L’atteggiamento riflessivo impone al manager l’esigenza di interrogarsi continuamente. Il

suo compito è farsi domande, prima ancora che fornire risposte.

Porsi domande, considerando quelli che sono gli stimoli e le sollecitazioni che vengono

dagli altri, per modificare ciò che si ha il potere di cambiare maggiormente, cioè se stessi.

«…E del perché faccio alcune cose… e soprattutto rispetto a queste cose, le posso

fare meglio? Le posso fare in maniera diversa? Posso dare degli spunti di mio? »

(4:47).

45 Cfr. Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 65.

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«A volte mi dicono: “Ma mi pare che tu sia un po’ più attento a quelle persone

piuttosto che a quella sede …”. Allora mi interrogo… se ho questo ritorno vuol dire

che qualcosa leggono, vero o falso. E’ chiaro, non è… è una percezione e quindi

una percezione è vera, per definizione… magari non condivisibile, ma vera»

(12:21).

Il pensiero riflessivo non è quindi una postura cognitiva di ripiegamento su se stessi, un

gioco che rimane all’interno della mente, ma – come insegna Dewey – è qualcosa che si

deve interfacciare continuamente con il contesto situazionale, dove sono presenti anche

altri soggetti46.

Fondamentale, per lo sviluppo delle competenze professionali e in particolare per quella

etica, è il confronto con gli altri.

Il pensiero riflessivo, per molti versi, si intreccia con l’apprendimento sociale, attraverso

lo scambio che avviene all’interno di ciò che chiamiamo comunità di pratica.

Si tratta, per definizione, di una realtà sociale difficilmente “contornabile”, della cui

esistenza tuttavia ho ritrovato molti indizi nel corso della mia ricerca empirica.

«… una certa positività deriva dai briefing che facciamo con una certa periodicità.

Questo ti aiuta a darti una carica e anche a osservare limiti tuoi e

dell’organizzazione. Anche oggi abbiamo fatto questo incontro e sono emerse

alcune criticità che sicuramente… cioè ti fanno avere un feed-back rispetto a quello

che è il tuo essere, il tuo rapportarti, ma ti danno anche modo di capire meglio come

addentrarti nell’organizzazione» (3:82).

«Allora, esiste una rete di persone, alcuni direttori e alcuni no, che sono quelli della

mia generazione. Esistono un manipolo di persone che hanno, con la stessa passione

mia, continuato in questi anni a lavorare in questo settore e che ci troviamo dopo

vent’anni a confrontarci. Qualcuno è direttore, qualcuno non è direttore, eh... però

c’è un percorso comune. Chi ha iniziato come me, vent’anni fa, ha vissuto tutta la

trasformazione, la rivoluzione, di un settore che prima era definito come un settore

marginale. Prima avevamo le “case di ricovero”, adesso abbiamo i “centri servizi”

(sorride). E questo percorso si è realizzato negli ultimi vent’anni. Quindi, quelli di

questa generazione hanno come dire l’esperienza di una trasformazione unica. […]

Ecco, chi ha vissuto tutte queste trasformazioni è chiaro che rimane in contatto

perché c’è un bagaglio di dati, di esperienze (sorride), di situazioni, che è unico.

46 Cfr. Dewey J., Natura e condotta dell'uomo, cit., pp. 48-49.

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Quindi più che organizzazioni… anche se c’è l’Ansdipp, che è fondamentale… alla

fine rimangono forti i legami di esperienza, di conoscenza, di amicizia…» (10:31).

Il fattore attrattivo, che coagula le persone in questa comunità di pratica, è la pratica

stessa, il fatto di occuparsi dell’organizzazione dei servizi alla persona.

La comunità si basa su dei legami che vengono cementati dall’utilità ma anche – direi –

dal piacere di stare assieme e che si trasformano a volte anche in relazioni d’amicizia.

«Io sono psicologo di formazione, ma i miei legami veri non sono con degli

psicologi. Ovvero, il caso vuole che alcuni siano anche psicologi, ma io ho dei

legami forti con persone che hanno iniziato con me a occuparsi di servizi,

organizzazione di servizi… alcuni erano psicologi, alcuni non lo erano e siamo

arrivati in questi anni a occuparci a vario titolo di questa realtà, ma non per forza

sono legati alla formazione di base, psicologi etc., ma sono legati a un percorso

professionale» (10:31).

«Devo dire che la rete di amicizia, stima e amicizia che abbiamo… le persone che

ha visto, che sono andate via prima… abbiamo dei progetti in comune, ma siamo

amici, insomma. Siamo stati a prendere un caffè e abbiamo continuato a lavorare

attorno a un caffè nel bar, per dire, di un progetto, eccetera, eccetera, e ogni tanto ti

sfoghi, ogni tanto discuti, ogni tanto …» (12:27).

Si tratta per lo più di legami trasversali rispetto alla singola organizzazione, che vengono

generalmente ad intrecciarsi all’esterno dell’ente, tra il direttore e i suoi “omologhi” di

altre istituzioni, ma che possono a volte svilupparsi all’interno della stessa Ipab, tra il

manager e alcuni dei suoi collaboratori.

«Comunque è abbastanza logico... molto spesso questi collegamenti sono al di fuori

dell’ente, non sono all’interno dell’ente... Beh, allora posso dire una cosa, rispetto

all’interno... Io ho fatto qui un’esperienza molto bella, di grande professionalità e di

grande coesione tra il cosiddetto "vertice" e le "seconde linee", che, ad esempio,

nell’altra struttura non avevo trovato. Qui ho trovato gente competente e molto

attaccata e molto in sintonia con il vertice. Diciamo che io non ho fatto niente per

rompere questo, anzi... Ho trovato delle persone naturalmente interessate e

predisposte a collaborare con il vertice e molto competenti, molto competenti. Eh...

quindi io qui all’interno ho trovato delle grandi affinità, grandi intese, grandi

collaborazioni» (10:31).

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Propriamente, la costruzione di una comunità di pratica presuppone rapporti paritari di

mutualità e di reciprocità, che mal si conciliano con la disparità gerarchica esistente,

all’interno di un’organizzazione, tra capo e collaboratori.

Questa differenza gerarchica sembra costituire una pesante ipoteca sulla qualità delle

relazioni che il manager intrattiene all’interno dell’ente.

Sono relazioni spesso minate dal sospetto, dalla diffidenza, perché egli indossa la casacca

del capo e questo inevitabilmente va ad influire sui rapporti personali.

«Io ho imparato che all’interno della struttura i salti gerarchici sono come i salti

generazionali in una famiglia, per cui ogni volta che io cerco un rapporto da pari

con chi mio pari non è, all’interno della struttura, è come se facessi un… “incesto”.

E quindi che il rapporto tra pari va cercato con i pari reali» (5:59).

«Io ho sempre vissuto le relazioni qui dentro chiedendomi: “Ma sarà per me o sarà

per il ruolo?”. Cioè, qualunque cosa, qualunque di loro agisca nei tuoi confronti, ad

un livello profondo parla la paura di fraintendere: “Lo stanno facendo perché sei il

capo, per sviolinarti…”» (5:59).

Un conto, poi, è avere delle relazioni amichevoli con i propri collaboratori, altro è “fare

amicizia”, cosa che può ingenerare serie difficoltà nella gestione dell’organizzazione.

Questo non solo per le gelosie e le invidie che si possono creare negli altri dipendenti, ma

anche per i condizionamenti che possono agire sullo stesso manager. È necessario quindi,

per il buon andamento dell’organizzazione, prestare molta cautela nei rapporti con i

dipendenti, così come in quelli con i consulenti esterni e i fornitori.

«Perché poi ti metti in una condizione di dovere, per cui questo ti aiuta e allora tu ti

senti in dovere… D’altro canto devo anche riconoscere, per quanto riguarda me, che

nelle relazioni che creo io ci metto sempre la parte personale e questa è una cosa

con la quale mi devo confrontare… anche con i consulenti è difficilissimo che io

riesca a mantenere la relazione solamente sul piano professionale. Io devo sempre

metterci qualcosa in più, chissà perché…» (5:59).

Quanto sopra si collega al tema della solitudine del manager, tema che ho incrociato in

maniera assolutamente accidentale nel corso della mia prima intervista e che poi ho fatto

oggetto di una specifica attenzione nel prosieguo della ricerca.

Con l’interessata avevamo combinato di incontrarci a Padova, a margine di un convegno

dell’Ansdipp, a cui lei prendeva parte come relatrice. L’argomento trattato nel convegno

– la riforma delle Ipab nel Veneto – mi interessava e quindi decisi di parteciparvi.

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Durante la tavola rotonda ci fu una veloce battuta, da parte sua, sulla ”solitudine del

capo”, che ritenni di riprendere nell’intervista – forse per le familiari risonanze che aveva

in me – chiedendone spiegazione alla stessa:

«Questa è una storia vecchia, perché anni fa ormai mi è stato chiesto di fare un

intervento sulla solitudine del manager ad un convegno, che poi è stato riportato in

una rivista. Io appunto ho detto tutta una serie di cose, solo che è diventato una sorta

di manifesto, nel senso che moltissimi colleghi mi hanno scritto, mi hanno

telefonato, comunicandomi che l’idea che avevo scritto la condividevano e che

questa solitudine era piuttosto diffusa» (1:49).

Quello del manager è effettivamente un lavoro di relazione: egli ha tantissime relazioni,

ma la quantità rischia – almeno in questo ambito – di andare a discapito della qualità. È la

qualità, a volte mediocre, delle relazioni del manager ad innescare la sensazione di

solitudine. Questo vissuto ricorda molto il senso d’abbandono che si prova in mezzo alla

folla, quando cioè si hanno intorno molte persone, ma non si hanno relazioni qualificate e

qualificanti e si smarrisce anche la percezione, il contatto con se stessi47.

«Io ho mille relazioni quotidiane, ma di pessima qualità, non perché ho pessimi

rapporti, ma perché sono brevi, sono fugaci, sono sempre di corsa e questo elemento

è un elemento disumano… Io ho consapevolezza di perdermi il bello della vita e il

bello della vita sta nelle relazioni… Sto rilasciando l’intervista adesso, ma di fatto

sto sfogandomi di un disagio… no, ma è un disagio interiore, non tutti sanno quanto

soffri, non tutti sanno, sai…» (12:28).

Si tratta di un disagio che è avvertito da molti dei manager intervistati, che si riconoscono

in questa realtà di solitudine. Il consistente investimento rispetto al lavoro può infatti

sottrarre anche molto, in termini di tempo e di energie, alla normale vita relazionale.

«Sì, sì, sì, a volte si è talmente stressati da persone, da telefonate, appuntamenti,

eccetera… però alla fine il direttore è una persona sola, con se stesso e con il

proprio dovere» (9:31).

«Molte volte, sai, quando arrivi a sera, arrivi a sera e non c’è nessuno. Oppure hai il

telefono che suona 20 volte all’ora e che il sabato e la domenica rimane muto, anche

perché nel frattempo tu non hai curato tanto le amicizie, anche perché se torni a casa

47 Cfr. Albisetti V., Il benessere della solitudine. Mille ragioni per stare bene con se stessi , Milano, Edizioni Paoline, 1995, p. 16.

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tardi la sera non è che vedi gli amici… magari ti trovi qualche volta il sabato o la

domenica… non dico di essere proprio solo, ma quasi…» (8:25).

Non si tratta solo di avere poco tempo per coltivare interessi e amicizie all’esterno

dell’ambiente di lavoro.

«Non è questa solitudine che pesa: è quella che senti proprio dentro quando sei nel

tuo ambiente che… che ti salutano quando passi, perché tutti, ti devono salutare, ma

di fondo se possono ti eviterebbero sicuramente, ti eviterebbero ogni volta che fosse

possibile. L’isolamento è un peso che si paga, che pagano un po’ tutti quelli che

hanno il potere: il potere in parte comporta anche isolamento…» (8:25).

Sembrerebbe essere proprio la posizione di potere l’elemento che inficia le relazioni del

manager all’interno dell’organizzazione. Per questo la comunità di pratica si svolge

preferibilmente fuori dall’ente, nella trama delle relazioni che si intessono tra i manager

sociali. Relazioni che nascono e si sviluppano in termini assolutamente spontanei ed

informali, ma che certamente possono essere favorite e sostenute dall’associazionismo

professionale.

È il caso dell’Ansdipp, che ha rappresentato per alcuni un importante ambito di

socializzazione, nel quale superare il senso di solitudine ed isolamento qui evidenziato.

«Per esempio il mio grande antidoto alla solitudine è stato far parte di Ansdipp,

questa è stata la grande cura a questa malattia, a questa sensazione di solitudine»

(5:59).

Occorre però qui distinguere: un conto è l’associazione, altro conto è la comunità di

pratica che ruota attorno all’associazione. Non basta cioè avere la tessera

dell’associazione per appartenere alla comunità di pratica: l’elemento che segna

l’appartenenza – come indica Wenger – è quello della partecipazione attiva48.

«La grande cura è stata appunto quella di partecipare, non solo metterci la quota ed

associarmi, ma il partecipare alla vita dell’associazione. E quindi andare alle

assemblee, quando è possibile, ovviamente, ai convegni… ma lì stai ancora

ricevendo… ma essere partecipe proprio delle scelte dell’associazione, l’avere un

ruolo attivo, quello è stata la cura alla solitudine, l’entrare in un’associazione di

pari, di qualcuno che non è all’interno della tua struttura ma che comunque senti…»

(5:59).

48 Cfr. Wenger E., Comunità di pratica, cit., p. 180.

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Esiste quindi un gruppo ristretto, all’interno dell’associazione, che le modalità di

campionamento a “scelta ragionata” ha consentito di far emergere, il quale non si pone in

posizione di mero fruitore delle proposte associative, ma che investe molto in termini di

attiva partecipazione.

Un gruppo di manager che, grazie al fatto di condividere un impegno all’interno

dell’associazione, ha instaurato rapporti di sostegno reciproco, fondamentali per

affrontare le difficoltà della professione.

«Probabilmente c’è un gruppo che sta trainando, c’è un gruppo che ci sta credendo e

anche dedicando molte risorse ed energie a livello personale. Non altrettanto vi è

consapevolezza da parte di che vi aderisce perché in tutta onestà potrebbe essere

una situazione di comodo, perché hai un’associazione che ti dà una serie di

strumenti per essere aggiornato, per essere formato e questa potrebbe essere una

scelta al ribasso. Sono convinto che più di qualcuno la sta facendo in questi termini,

però abbiamo un gruppo dirigente che sta spingendo, perché crede molto a quello

che stiamo facendo…» (3:75).

«Mi pare questo un principio di solidarietà tra enti pubblici che io ho trovato con

alcuni direttori in Ansdipp, senza i quali non avrei potuto fare il mio lavoro e io

sono profondamente grata. E io mando avanti quello che posso» (5:64).

Il sostegno tra pari è reso indispensabile anche dall’estensione e dalla dinamicità del

contesto giuridico in cui operano i direttori delle case di riposo. Non essendo dei

“tuttologi”, i manager devono poter contare su un sistema mutualistico, che metta in

comune informazioni e competenze specifiche.

«L’apporto dell’Ansdipp rispetto a tutta una serie di tematiche è stato molto

importante, anche perché chiaramente rispetto a molte cose che si devono gestire,

che si devono portare avanti, avere dei supporti anche rispetto alla normativa non è

cosa da poco» (4:27).

«Nel nostro settore le cose evolvono in modo davvero veloce e per allineare la

struttura a quella che è la necessità interna ed esterna c’è bisogno di avere tante

informazioni e quindi le hai sicuramente attraverso l’associazione dei direttori, che

per me è uno strumento di lavoro sicuramente fondamentale, di interscambio, di

sostegno – ci sosteniamo tra di noi – anche informativo» (1:10).

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È in questo gruppo ristretto, i cui confini però non sono nettamente definiti, che hanno

luogo i processi di elaborazione culturale delle proposte formative dell’associazione.

«Per dirti, il conclave stesso, sembrerà una sciocchezza, ma è un modo concreto per

sviluppare nel tempo, consolidandoli, valori e soprattutto idee, conoscenze e

confronto. Quello che facciamo a giugno prossimo è il confronto fra manager in

modo tale che si possa condividere, all’interno dello stesso percorso, alcune scelte»

(3:75).

È sempre all’interno di questo gruppo che vengono pensate anche l’identità professionale

del manager sociale e la funzione che l’associazione deve svolgere per lo sviluppo di

questa professionalità. Una funzione che si indirizza, più che alla difesa corporativa, a far

crescere le competenze professionali di chi fa questo “mestiere”.

«Io credo che l’associazione abbia sgombrato il terreno dalla possibilità di fare

partite equivoche… cioè, è uscita definitivamente dalla logica sindacale e

lobbystica. Questo non vuol dire non farsi carico di un percorso di riconoscimento,

anche a livello nazionale, rispetto ad un’attività intellettuale non riconosciuta…

crediamo anzi, nella certificazione delle competenze, ma non per creare registri o

cosiddetti albi d’élite, come avviene negli ordini professionali, quanto piuttosto per

aver, all’interno di coloro che appartengono ad un certo tipo di managerialità, le

competenze e le conoscenze che vanno in un certo tipo di direzione. L’impegno

dell’associazione è soprattutto sul versante della qualificazione professionale, sul

piano della continua formazione permanente, e soprattutto delle partnership con le

università, perché ci sia la chiara e concreta possibilità di avere persone sempre più

preparate. E su questo stiamo lavorando sia nei tour tematici sia nei momenti

formativi. E anche la questione etica e bioetica rientrano in questo percorso, perché

sono fortemente sentite per come dev’essere il manager di oggi e di domani. Un

manager capace ed attento alle persone, tanto da essere in grado di farsi carico delle

persone a 360 gradi» (3:69).

Le proposte formative e di aggiornamento professionale che fa l’associazione si

inquadrano quindi all’interno di un disegno complessivo, di un più ampio progetto

culturale, che ha al centro un’idea precisa di manager sociale. Tratteggiano cioè il profilo

del “Manager Ansdipp”.

«L’Associazione è nata nel 1994 e quindi un bel po’ di anni fa, ma per molto tempo

non ha avuto una mission, una vision così focalizzata sulla competenza

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professionale come ce l’ha in questo momento. C’è stata una maturazione nel corso

del tempo e specialmente negli ultimi anni della connotazione del “manager

Ansdipp”, diciamo così, cioè del manager che si riconosce nell’associazione. E,

faccio una parentesi: noi non siamo una associazione maggioritaria, cioè non

raccogliamo la maggioranza dei colleghi né a livello regionale né tanto meno a

livello nazionale, e proponiamo un modello di managerialità che non viene

ampiamente condiviso in questo momento […]. Quindi il tipo di direttore, di

managerialità, che propone Ansdipp, si discosta da quello che viene sentito dalla

maggioranza dei colleghi. In questa nostra visione, il tema dell’etica è

fondamentale, perché naturalmente quando noi andiamo a dire che il manager è

responsabile dei risultati e nel momento in cui andiamo a dire che è responsabile dei

risultati di salute, è evidente che nei risultati di salute c’è la qualità del servizio, il

benessere dell’ospite, la qualità di vita dell’ospite, la possibilità per lui di scegliere

[.] di esprimere la propria volontà […]. Ciò fa sì, secondo me, che si possano

raggiungere dei risultati in termini di vita degli ospiti che sono strettamente

collegati all’ambito etico, all’ambito dell’autodeterminazione, alle scelte etiche, e di

bioetica, che è l’ambito in cui noi agiamo di più con le decisioni sulla nutrizione e

quindi il rifiuto dell’accanimento nutrizionale o dell’accanimento terapeutico. Ci

sono ancora molti enti per i quali questo tipo di determinazioni vengono demandati

al medico, alla sanità, alle suore, a chi c’è, insomma. Per Ansdipp, per i manager

Ansdipp, è fondamentale che vengano assunte nella sfera di gestione del direttore.

Questa è la linea di distinzione del manager Ansdipp, che fa anche di questo

ambito delle scelte etiche un ambito forte di professionalità propria» (1:17).

Questa visione del manager sociale sviluppata all’interno dell’associazione, in cui è

fortemente presente l’attenzione ai temi etici, viene poi calata nella pratica professionale,

sperimentando, ciò che viene elaborato sul piano concettuale, all’interno del lavoro

concreto nelle strutture.

«Abbiamo maturato come Associazione – ecco qua il grande pregio

dell’Associazione e quindi di riflesso della mia attività – che non puoi non fare

percorsi formativi anche nel campo della bioetica e quindi anche la questione del

fine vita ha un suo peso. Noi abbiamo introdotto qui un questionario sul fine vita

che in genere sottoponiamo alle persone che vengono ad essere ospitate qui ma

anche all’hospice. […] Ecco, questa è una scelta importante che ho maturato e sto

vivendo, perché siamo in un’organizzazione così pronta, preparata, però questa serie

di spunti, questa discriminante rispetto ad altri momenti mi è stata possibile anche

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grazie al lavoro di approfondimento che stiamo facendo con l’associazione stessa»

(3:43).

Partecipare a una comunità di pratica dà soprattutto l’opportunità di attivare un confronto

con le altre esperienze, che rappresenta un’importante occasione di crescita per il

manager e la sua organizzazione.

«… vedendo un po’ le esperienze condotte altrove, perché, se c’è qualcosa che mi

ha sempre caratterizzato, è stata la curiosità per il nuovo e per le esperienze che,

essendo frutto di buona prassi operativa, sono anche un chiaro esempio a cui

attingere a piene mani. Questo è avvenuto. Posso dire sicuramente che questo

insieme di progettualità ci ha consentito di fare un buon salto di qualità. Anche dalle

esperienze degli altri abbiamo preso molto. Direi copiando, ma copiando bene.

Perché, sai, a volte si fa presto a copiare, copiando male però si corre solo il rischio

di fare degli strafalcioni» (3:6).

Nell’individuazione del campione non rappresentativo della ricerca ho opportunamente

incluso direttori che non fanno parte attiva dell’Ansdipp, per capire come veniva vista

dall’esterno questa realtà associativa.

I rilievi principali che ho colto sono legati al fatto che l’associazione sarebbe poco

“partecipata” e non sufficientemente aperta al confronto a livello nazionale.

«Ci sono delle reti, sono molto deboli però… c’è un’associazione professionale dei

manager del sociale ma non è molto partecipata… Un po’ perché noi siamo un

mondo speciale, abbiamo la caratteristica particolare, noi siamo sostanzialmente un

po’ quasi una nicchia negli enti pubblici, per una serie di ragioni legislative, per cui

non siamo come i segretari comunali, faccio un esempio, che hanno un’amplissima

rete di colleganze, contatti, scambi culturali, notizie professionali… C’è, ma non

particolarmente…» (7.51).

«Credo che sia importante anche perché non c’è granché. Ci sono associazioni che

però rimangono molto a livello regionale mentre credo sia importante uno scambio

più allargato a livello nazionale. Io ho visto situazioni anche molto differenziate da

regione a regione e il confronto fa crescere» (6:36).

Non so dire quanto di queste osservazioni discendano da un’effettiva conoscenza di tale

realtà e quanto questi elementi incidano sulla decisione di non parteciparvi. Aderire o non

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aderire ad un’associazione professionale è chiaramente una scelta individuale, che si basa

molto spesso sulle disposizioni personali di ciascuno.

«No, direi questo, io sono forse per natura un solitario, non ho… molte volte ho

criticato i miei colleghi per le scelte che hanno fatto, soprattutto le ultime leve,

completamente diverse dalla mia formazione, per questo devo riconoscerlo ormai

che sono vecchio, no? La mia formazione… molte volte più impegnati su un piano

puramente finanziario o diciamo nell’impegno di assistenza quindi no, sulla rete

non ho… io poi ho anche rinunciato a iscrivermi all’associazione di categoria

proprio perché non condividevo le loro posizioni… sono quasi un battitore

libero…» (8:47).

Alcuni manager poi non sentono affatto l’esigenza di rompere l’isolamento, di superare la

solitudine cercando rapporti paritari con altri colleghi all’esterno dell’ente, ma ritengono

bastevole la dimensione “verticale” dei rapporti all’interno dell’organizzazione con i

collaboratori, da una parte, e con gli amministratori dall’altra.

«La dimensione sociale e professionale con la quale mi sono sempre misurato è

stata quella nell’ambito dell’ente. Cioè non è una dimensione come posso dire

orizzontale, ma è una dimensione verticale, nel senso verso l’alto e verso il basso»

(7:53).

9.3 Lo sviluppo delle competenze etiche nell’organizzazione

Nel paragrafo precedente ho esposto il prodotto della ricerca relativamente

all’acquisizione delle competenze – ed in particolare delle competenze etiche – da parte

del manager. Passo ora a relazionare su quanto è stato elaborato in merito allo sviluppo

delle competenze etiche dell’altro “protagonista” del nostro racconto, l’organizzazione.

Si tratta di due processi fortemente intrecciati fra di loro: manager e organizzazione

crescono assieme.

L’organizzazione in genere non “nasce” con il dirigente, ha una sua storia pregressa, ha

un suo set di competenze, ha una sua cultura, che dialoga con le realtà con le quali si

rapporta, ricevendone stimoli a cui reagisce nel suo proprio modo49.

49 Cfr. Pipan T., Il labirinto dei servizi. Tradizione e rinnovamento tra i dipendenti pubblici, Milano, Raffaello Cortina 1996, pp. 21-30.

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«… l’organizzazione ha già la sua cultura organizzativa che proviene dalla storia,

dai vissuti, dagli input che le sono stati dati. Anche lì bisogna andare a vedere

quanto questi input sono filtrati all’interno dell’organizzazione» (4:13).

Una parte consistente di questi input, che sollecitano un processo adattivo di modifica

dell’organizzazione, di generazione di apprendimenti organizzativi e di sviluppo delle

competenze, è data proprio dal rapporto che essa intrattiene con il suo manager: un

rapporto di interazione e di reciproco influenzamento, che contribuisce alla crescita delle

competenze etiche dell’organizzazione, soprattutto attraverso la condivisione di principi

e valori.

Non si tratta soltanto di una “trasmissione” unidirezionale – dal manager ai collaboratori

– bensì di un processo circolare, attraverso il quale il manager partecipa i suoi principi e i

suoi valori, ma anche acquisisce e si riconosce in quelli dell’organizzazione.

Si tratta quindi di una vera e propria condivisione, che nasce con il tempo, il confronto

assiduo, la conoscenza reciproca, il vivere assieme le situazioni e i problemi. Cosa che

non si può pensare che il manager riesca a fare su larga scala. Questa condivisione

avviene in genere all’interno del gruppo dei più stretti collaboratori, che a loro volta poi

condivideranno tali elementi con i rispettivi uffici o reparti.

«Per esempio, oggi nella riunione […] ho riconosciuto, in quella che era la

considerazione portata in campo da un collaboratore, la condivisione e quindi il

ritrovarmi in quelle che erano le considerazioni che faceva e quindi viverle come

valori» (3:91).

«Questa Ipab ha 560 dipendenti, inoltre ha circa un altro centinaio di persone che

lavorano con un altro tipo di contratto… in totale 650 persone circa, più o meno…

La squadra sulla quale io posso confidare, quasi ciecamente, diciamo, è almeno una

cinquantina di persone, se non ci fosse questa squadra io non andrei da nessuna

parte, ma proprio da nessuna parte. All’interno di questa squadra ci sono i cerchi,

no? Per dire, c’è un cerchio stretto fatto da una quindicina di persone, alle quali io

potrei chiedere qualsiasi cosa e con le quali condivido gli aspetti … discutiamo di

queste cose… non si discute mai di bilancio senza discutere di qualità della vita.

Non si discute mai di turni di lavoro senza discutere della qualità della vita. Quando

per anni ti trovi a discutere di queste cose, sei naturalmente portato a condividere, a

sentire di condividere un fondo comune…» (12:17).

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La circolazione dei principi e dei valori all’interno dei gruppi di lavoro genera processi di

apprendimento sociale. Più il gruppo si allarga e più le dinamiche interne si complicano;

ma di pari passo aumentano anche le opportunità di apprendimento.

«In questa struttura abbiamo 100 ospiti e ci sono cinque persone che stanno

prendendo in mano tutta una serie di dinamiche organizzative, dove poi

confluiscono dinamiche personali ed è un bel peso… cioè, più tu allarghi la squadra,

con tutte le unicità che ci possono essere rispetto agli apporti individuali, più lavori

su obiettivi comuni e sulla costruzione di rapporti di fiducia e più tutta una serie di

valori etici, che sono propri di questa organizzazione, potrebbero confluire in un

codice, dove ci possono essere tantissime sfaccettature. Per esempio, io ci metterei

dentro delle cose, mentre altri potrebbero metterne altre. Alcune possono essere

simili e altre diverse» (4:42).

Questa partecipazione corale nella costruzione di un orizzonte etico condiviso tra

manager e collaboratori va un po’ a mitigare quanto detto, in precedenza, in merito alla

solitudine del capo e alla difficoltà, che egli può incontrare, nel fare comunità all’interno

della sua stessa organizzazione. In realtà, tale comunità si può rintracciare – almeno in

una certa misura – tra il manager e il “primo cerchio” dei collaboratori.

L’abilità del manager sta nel far convivere questa dimensione “orizzontale”, di confronto

e di scambio paritetico, con la dimensione “verticale”, nella quale egli è il capo

“allenatore” che, secondo il suo compito dirigenziale, deve far crescere le competenze –

anche etiche – della “squadra”.

La relazione tra dirigente e collaboratori è necessariamente asimmetrica, perché spetta al

primo il ruolo di promotore, di propulsore e di guida dello sviluppo organizzativo.

«Mi sembra di poter dire che c’è un dialogo sui contenuti, che ci ha visti

convergere, e il dialogo sui contenuti l’ho portato avanti io, insomma. Io avevo

un’idea di organizzazione, un’idea di funzionamento, un’idea di motivazione,

un’idea di che cosa sia importante dal punto di vista della messa in ordine delle

priorità» (12:21).

In questo dialogo tra manager e organizzazione vi è, da parte del primo, una precisa

intenzionalità, volta a “far crescere” la seconda. Il direttore assume, infatti, tra i

propri compiti anche quello di sviluppare l’organizzazione.

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Per “educare l’ambiente” bisogna innanzitutto creare l’assetto organizzativo giusto e

funzionale, iniziando con il costituire legami stabili, all’interno dei quali possa

effettivamente instaurarsi un discorso “formativo-educativo”.

«Un capo deve educare l’ambiente e i suoi collaboratori, ma l’ambiente ha un certo

stile e quindi deve dare testimonianza di questo stile e pretendere questo stile.

Impegno, quest’ultimo, molto difficile e sul quale alle volte riscontri il tuo

fallimento, perché cambiare mentalità, modi, approccio, stile è molto, molto, molto

duro» (8:86).

«Il servizio si fa con il personale, per cui se effettivamente l’obiettivo è quello di

produrre dei risultati di salute, l’unico modo per farlo è il corretto utilizzo del

personale, che comincia dal fatto di non avere personale “usa e getta”, come quello

delle cooperative. Bisogna appunto avere un sistema di fidelizzazione, diciamo così,

del personale, che passa inevitabilmente – ma questa è la mia esperienza –

attraverso ciò che faccio io nell’ente che dirigo. Passa attraverso l’idea di averlo

come dipendente. Il personale di cooperativa secondo me non consente, per quanto

ci sia una partnership, una condivisione degli obiettivi. La gestione del personale è

il principale strumento per l’ottenimento di risultati di qualità. Se viene

esternalizzato, ci si priva dello strumento principe per farlo e quindi dello strumento

per poter arrivare ai risultati. Quindi la prima cosa, secondo me, è quella di avere

del personale proprio e fare degli investimenti sul proprio personale» (1:37).

Va poi impostato un certo tipo di rapporto con il personale, cercando di consolidare i

legami di fidelizzazione nei confronti dell’Ente e di creare un buon clima organizzativo.

È, questo, un passaggio propedeutico rispetto a qualsiasi discorso formativo-educativo, di

sviluppo delle competenze, con particolare riguardo alla formazione etica.

«Sicuramente per arrivare al tema dell’etica bisogna avere dei prerequisiti di

gestione del personale. […] Se rispetti questi step allora ti trovi con personale che è

idoneo, che è un buon terreno per poter anche fare dei passi successivi in termini di

qualità di vita degli ospiti. Allora puoi iniziare a parlargli di etica, di quello che è

giusto e di quello che non è giusto e che non bisogna mettergli la spondina, che

bisogna fare dei progetti personalizzati… è un percorso… l’obiettivo dell’etica è un

percorso continuo, giornaliero» (1:35).

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Per sviluppare l’organizzazione e renderla, quindi, maggiormente idonea a rispondere alle

sollecitazioni esterne, bisogna poi puntare sulla crescita professionale di chi in questa

organizzazione opera, cioè promuovere lo sviluppo delle competenze dei collaboratori.

«Personalmente cerco sempre di favorire tutte le crescite di carattere professionale,

perché ovviamente sono un arricchimento per la persona e poi parto sempre

dall’idea che, insomma, persone più ricche servano meglio la causa» (7:36).

Lo strumento necessario, anche se non sufficiente, per favorire questo sviluppo è senza

dubbio la formazione dei collaboratori. Nelle interviste ho rilevato un’attenzione

particolare alla formazione degli operatori socio-sanitari (Oss), che rappresentano il

profilo professionale preponderante nelle dotazioni organiche di questi enti e che

soprattutto sono le figure a più diretto e continuativo contatto con gli utenti.

La formazione deve puntare allo sviluppo di tutte le competenze necessarie per svolgere

il lavoro di cura dell’anziano ospite della struttura, ivi comprese quelle etiche, che spesso

vengono trascurate anche nella formazione di base.

«… e poi, naturalmente formazione, formazione che vuol dire aggiornamento

continuo, perché poi le cose cambiano in continuazione anche per il personale. Per

me, aggiornamento vuol dire principalmente aggiornamento esperienziale. Cioè

quando noi parliamo di imboccare l’ospite, finché noi non abbiamo fatto provare

agli operatori cosa significa essere imboccati abbiamo poco da dirgli che devi

rispettare i tempi dell’ospite, devi tagliargli bene…, eccetera. L’operatore si rende

conto solo nel momento in cui un altro lo imbocca e lo soffoca. Per cui tanta

attenzione all’aggiornamento, al tipo di aggiornamento, al tipo di criticità che

vengono evidenziate. In un certo momento ti trovi con tanti ospiti disfagici e allora

devi essere veloce nel dare una risposta» (1:40).

«Mi sono occupata di formazione degli OSS rispetto proprio all’etica. Questa

materia è vista come una cosa così, po’ scontata, perché uno che va a fare un lavoro

in ambito sociosanitario, dovrebbe, nella mentalità comune, avere già tutta una serie

di conoscenze etiche sue personali, cosa che non sempre è» (4:9).

La formazione professionale in genere e quella mirata allo sviluppo delle competenze

etiche in particolare non devono però, come si è visto, risolversi nella mera trasmissione

di saperi teorici. Viene rilevata la necessità di una formazione vicina all’esperienza. È

l’esperienza reale, a partire da quella portata in “aula” dagli stessi operatori, che va fatta

oggetto di riflessione all’interno dei momenti formativi, al fine di produrre apprendimenti

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significativi. E, quindi, la formazione dovrebbe, in qualche modo, abilitare il pensiero e la

capacità di riflettere sulle situazioni che poi gli operatori si trovano ad affrontare nel

quotidiano.

«Io per formazione intendo proprio una formazione di tipo esperienziale, legata alla

soluzione di casi. Perché lì io ci metto dentro del mio rispetto poi all’output di

risultato che do e che quindi si ripercuote su una persona. Avviare quindi un

ragionamento su ciò che si fa: “Io proverei a fare così” oppure “Insieme potremmo

fare questa cosa in questo modo”. Non solo “Sarebbe bello fare questa cosa… ma in

che modo? Come facciamo questa cosa? Andiamo a destra? Andiamo a sinistra?

Che ripercussioni ci sono? Che cosa puoi mettere in gioco tu?”. Perché mica siamo

nati tutti esperti di etica o coordinatori o gestori di risorse… quella secondo me è la

vera formazione vincente, non ce ne sono altre…» (4:43).

L’etica va insegnata, tanto nella formazione di base quanto nei percorsi di aggiornamento

professionale, proponendo dei moduli formativi ad essa dedicati, al cui interno vengano

ad essere articolati i contenuti curricolari specifici di questo insegnamento, ma poi

dovrebbe entrare anche nel cosiddetto “curricolo nascosto”50. Riferimenti all’etica

dovrebbero emergere anche nel corso degli altri insegnamenti professionalizzanti, perché

si parla di agire morale non solo nell’ora di “Elementi di etica e deontologia

professionale”, ma anche quando si affrontano le questioni della cura degli anziani, delle

relazioni con i familiari, del rapporto di lavoro, ecc.

La crescita professionale dei collaboratori, però, non avviene solamente “mandandoli a

fare dei corsi”, per quanto ben impostati, ma si gioca costantemente sul campo,

nell’ambito della stessa pratica professionale.

È nell’immergersi dentro l’ambiente organizzativo, nel confrontarsi con gli altri, nel

misurarsi con i problemi concreti di ogni giorno, che tanto il manager quanto i suoi

collaboratori acquisiscono o migliorano molte delle competenze necessarie alla riuscita

del lavoro.

In questo agire professionale quotidiano, un importantissimo strumento a disposizione del

manager per far crescere le competenze etiche dei collaboratori, rimane l’esempio.

«Dico una cosa che me la ripetevano quarantacinque anni fa le mie insegnanti di

catechismo all’asilo, che è il famoso esempio. Il famoso esempio è fondamentale e

credo che chi svolge funzioni di direzione, di dirigenza in una struttura,

50 Cfr. Paparella N., Il progetto Educativo. Vol. II – Comunità educativa, opzioni, curricoli e piani, Roma, Armando, 2009, pp. 159-160.

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inevitabilmente dà un messaggio attraverso il suo stile, il suo modo di comportarsi,

di muoversi, di salutare le persone… e attraverso l’esempio, la presenza fisica,

passa moltissimo.

Il buon esempio. Sembra una stupidaggine, ma il buon esempio. Che poi il buon

esempio è tante cose, come ti avvicini alle persone, come le saluti, come le accogli,

come affronti centomila problemi... […]. Se tu li accogli con un certo stile, loro si

accorgono che quello è il tuo modo di essere e poi viene apprezzato. Quindi le cose

si trasmettono con gli stili, con l’esempio, quello che mi dicevano le suore tanti anni

fa (sorride)» (10:19).

«Si chiede come corredo di un manager la capacità di essere d’esempio. Diciamo

che dovrebbe essere anche così, dovrebbe essere anche una certa attitudine a

stimolare dei comportamenti per imitazione» (7:45).

La funzione dell’esempio è, appunto, quella di stimolare comportamenti di imitazione. Si

tratta di un dispositivo d’apprendimento fondamentale per molte specie animali e che ha

da sempre rappresentato anche per la specie umana, in tutta la sua storia evolutiva, una

modalità straordinariamente efficace di trasmissione dei saperi.

«Io credo che la guida per ciascuno di noi, lo dico anche riconoscendo i miei limiti,

sia l’esempio. Del resto, se andiamo a vedere la nostra storia, l’esempio sono stati i

nostri padri, che hanno fatto questa Repubblica e per questa hanno dato la propria

vita… l’esempio dovrebbe essere l’elemento che ti caratterizza» (3:82).

Ed è proprio la tipologia di questo sapere “etico” a prediligere tale modalità di

trasmissione. Il temine “etica”, così come il termine “morale”, rimanda etimologicamente

al concetto di usi, di costumi, di comportamenti condivisi e consolidati, che si

acquisiscono fin da piccoli sulla base degli insegnamenti ricevuti, ma soprattutto

imitando attivamente gli altri. Certamente intervengono, lungo la crescita, lo sviluppo

delle capacità di pensiero critico e una sempre più raffinata elaborazione di un’etica

autonoma, ma all’inizio del percorso ontogenetico è quanto mai rilevante

l’apprendimento per imitazione51. Molto spesso accade anche in età adulta che prevalga

un certo conformismo morale, che porta ad assumere una determinata condotta – giusta o

sbagliata che sia – senza particolare convincimento personale o adesione intima, ma solo

perché “così fan tutti” o perché così fanno le persone che si ritiene di dover emulare.

51 Cfr. Kohlberg L, Le esperienze adulte richieste per lo sviluppo morale, cit., pp. 116-119.

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Il comportamento quotidiano del dirigente è comprensibilmente al centro dell’attenzione

dei collaboratori, proprio per il ruolo che egli ricopre all’interno dell’organizzazione.

Anche, ma non solo, per il fatto di avere tanti occhi puntati addosso e di sapere che i suoi

comportamenti non passeranno inosservati, egli dovrà prestare particolare attenzione a

non disconfermare nei fatti quanto con fatica è andato a costruire nel tempo.

«Tu puoi dire quello che vuoi, ma se dopo alla fine c’è una frattura tra il tuo modo

di essere fisicamente, come ti muovi, come saluti, come ti relazioni con le persone,

se non c’è una coerenza tra quello che dici e quello che poi appare, non si va da

nessuna parte. Cioè sembra di dire una stupidaggine, una cosa banale, ma il famoso

esempio è molto efficace, è fondamentale... Se i tuoi colleghi un giorno ti scoprono

– perché tu puoi perdere le staffe – ad avere atteggiamenti di un certo tipo, non se lo

scordano, eh... rimane in mente e hai voglia tu a recuperare…» (10:19).

Ciò non significa chiaramente avere il controllo assoluto sulle proprie reazioni emotive,

che a volte sono comprensibili ed anche necessarie.

«…perché non è detto che tu non debba arrabbiarti, che vuol dire sottolineare

disappunto, insomma. Non è che tu sei chiamato a essere l’angelo perfetto o la

persona immacolata, tu puoi benissimo anche non essere d’accordo» (10:19).

Quello che viene postulato è un atteggiamento di autenticità, di coerenza, è l’impegno a

rispecchiare nelle proprie azioni quelli che sono i principi e i valori professati.

È proprio questa l’immagine che, come in un gioco di specchi, viene proiettata negli altri

e che gli altri ci rimandano.

«Per cui io credo che i valori si trasmettono nel momento in cui li si incarna,

semplicemente vivendoli e le modalità sono nei propri comportamenti. Perché

diventa diverso il modo di porsi, diventa diverso il modo di parlare, ecc. Anche

utilizzando gli spazi… il fatto di avere un ufficio per conto mio fa la differenza.

Con questo simbolo, io comunico delle cose e in maniera molto più potente di

quanto io non comunichi con altre…» (5:54).

«Uno mostra quello che è, intanto. Mostriamo quello che siamo e la struttura poi lo

riflette. E per fortuna non siamo statici, siamo in evoluzione e, che lo si voglia o no,

si trasmette ciò che si è. Il direttore mostra ciò che è e la struttura probabilmente lo

riflette, proprio come uno specchio. Per me è stato un momento duro quando ho

scoperto che la struttura mi rifletteva per il livello in cui ero in quel momento, anche

di non chiarezza, anche di confusione, ecc. Poi ho visto che, via via che mi chiarivo

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io, a cascata, si chiarivano anche gli altri, proprio perché “agivo” delle situazioni

che consentivano agli altri di avere la chiarezza. Cioè, ce l’avevo io e poi nelle UOI

[Unità Operative Interne] la trasmettevo in qualche modo. Però non so dirle come,

probabilmente negli interventi, probabilmente nelle scelte, probabilmente nei modi

di porsi…» (5:54).

Tuttavia, l’esempio da solo non basta. Al manager viene richiesto di porsi attivamente

come “sviluppatore” delle competenze dei suoi collaboratori, esercitando la funzione di

coaching. Si tratta di un ruolo – che definirei formativo, quasi “educativo” –

particolarmente sentito dai manager intervistati – dal quale può derivare loro una certa

gratificazione, perché riconosciuto e apprezzato anche dai collaboratori52.

«Spesso mi sono sentita dire dai miei collaboratori che sono contenti di lavorare con

me perché hanno imparato a lavorare, hanno imparato a comportarsi in un certo

modo. L’anno scorso una persona è andata via da questo ufficio, come succede, ha

intrapreso un’altra esperienza professionale, e mi ha lasciato una bellissima lettera

che mi ha fatto molto piacere e in cui diceva che le sembro molto dura, molto rigida

– è vero che è così – ma in realtà le avevo insegnato tanto. Diceva che era contenta

di aver lavorato con me e mi ringraziava… insomma, non aveva nessun motivo, dal

momento che se ne andava, intendo dire, per cui io credo che fosse assolutamente

sincera, ecco… e non è stato l’unico caso, quindi credo di trasmettere dei valori…»

(2:12).

L’intervento “educativo” del manager nei confronti dei collaboratori si gioca – come del

resto avviene nell’educazione in genere – attraverso la relazione educativa: rapporto che

fa crescere tutte le persone coinvolte, che sviluppa l’intera organizzazione, che crea

indirettamente benessere anche per gli utenti.

In questa relazione il direttore gioca ovviamente il ruolo di leader, ma di un leader attento

all’ascolto dei collaboratori, del loro pensiero, anche se – soprattutto se – critico, perché

le critiche aiutano a far cresce l’organizzazione.

«… un dialogo continuo con chi lavora in prima linea, in trincea. Uno scambio

continuo, perché poi chi lavora a stretto contatto con l’ospite è la persona che può

darti un feed-back in termini concreti, operativi, su quello che altrimenti rischia di

essere il sesso degli angeli» (7:17).

52 Cfr. Negro G., Il manager allenatore, Milano, Guerini e Associati, 2001.

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«Detto con vera modestia, mi dicono che un po’ “trascino”. C’è un po’ di mio in

questa cosa, una sorta di leadership naturale, che aiuta… E c’è il tema di affrontare

insieme sfide, di parlare, di confrontarsi liberamente. Io non voglio “yes-man”

vicino, mi arrabbio quando ho persone che mi dicono “Sì”. Voglio persone che

pensano, che mettono la loro, che costruiscono, che accettano la critica e io stesso

accetto la critica… la chiedo la critica…» (12:21).

L’impegno del manager – come già detto – non è infatti solo quello di produrre un

servizio, ma anche quello di far crescere i collaboratori, favorendo il loro processo di

realizzazione umana e professionale, aiutandoli a trovare, all’interno del loro duro lavoro,

elementi di gratificazione personale e di motivazione intrinseca.

«... offrire ai tanti operatori che sono qui dentro la possibilità di sentirsi gratificati e

appagati nel fare un lavoro difficile, umile e con poche gratificazioni. Quindi aiutare

queste persone ad acquisire una consapevolezza rispetto a una professione, a una

professione che non avrà il riconoscimento economico, ma può avere il

riconoscimento di chi poi beneficia di questi servizi, del cittadino, dell’utente, delle

famiglie, della collettività. E questo favorendo percorsi di formazione, di

professionalizazione, di miglioramento della professionalità e dell’attenzione a

come si lavora, attenzione alla propria professione» (10.30).

Il lavoro di coaching, meglio di formazione del personale, non deve puntare soltanto a

trasmettere conoscenze, ma deve tendere soprattutto a sviluppare pensiero riflessivo, deve

cioè cercare di modificare l’atteggiamento, la “postura”, che i collaboratori hanno di

fronte alla loro pratica professionale. L’attitudine a riflettere sulle cose, a farsi domande,

a confrontarsi con gli altri, a problematizzare alcuni aspetti che sembrano scontati, ecc.

«Se io riuscissi a trasmettere alla mia organizzazione il fatto di riflettere in termini

etici su che cosa sto facendo quando lego un ospite, anche se c’è la prescrizione,

anche se poi lo devo fare, ma riflettere in termini etici, perché questa cosa non deve

diventare una standardizzazione… Se la persona domani non ha più la necessità di

essere contenuta, se io rifletto sul perché lo lego, poi mi porrò il problema: “Ma, ha

ancora necessità di essere legata?”. E quindi possono proporre di fare il percorso

inverso. Se invece io la reputo una standardizzazione, anzi mi facilita la vita, perché

questo sta fermo lì, non si muove… ecco che l’approccio etico alla persona è

completamente diverso. Anche il fatto di fermarsi a riflettere su certe cose, ma che

semplicemente il fatto di dircele. “Ma, oggi c’è successa questa cosa e io mi sono

sentito… ho pensato… ho provato a mettermi dall’altra parte… Come essere

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umano, dal mio punto di vista, si sarebbero dovute fare delle altre cose…”. Cioè,

proprio confrontarci su aspetti che delle volte possono essere molto, molto semplici,

ma che danno degli input importanti, secondo me, rispetto alla dimensione etica del

servizio» (4:45).

Il lavoro formativo-educativo di sviluppo delle competenze etiche non può basarsi su

un’idea di rigido controllo, ma deve mirare alla crescita morale del singolo,

all’acquisizione di una morale autonoma, in base alla quale il dipendente agisce

correttamente, anche se non c’è nessuno a controllarlo e a sanzionarlo53.

Il manager può attivare questo percorso di crescita professionale anche mediante una

corretta impostazione del processo di delega, da cui discende la responsabilizzazione dei

collaboratori, come pure la valorizzazione delle loro competenze.

«Se il mio modello etico di valorizzare la persona viene messo in atto solo finché

sono lì a controllare e quando vado via la gente fa quello che vuole e non recepisce i

contenuti di quello che io voglio trasmettere, allora lì diciamo che siamo fuori

ambito» (4:13).

«Devi avere un processo di delega che entri in funzione…. dai prima le regole, alla

fine verifichi, ma in mezzo devi lasciare che la gente “respiri”, accettando anche il

rischio di qualche errore…» (11:78).

Gli errori, infatti, vanno messi in conto, fanno parte del gioco. Dagli errori si deve

ripartire, come ci si rialza dopo una caduta. Dagli errori si deve anche imparare, perché

sono lezioni preziose54.

Il manager non deve “lasciar correre”, deve anzi rilevare le mancanze, sanzionandole

quando serve. Ma la censura, la “punizione”, non devono mai eccedere, per non inibire –

anziché agevolare – questo processo di apprendimento.

«Devi “colpire”, tra virgolette, l’errore, rilevandolo, ma senza che diventi un

terrore. Cioè lo evidenzi nella maniera giusta per questa persona, che poi è

riconoscente e non lo fa più…» (11:60).

Questo lavorare sullo sviluppo delle competenze produce, con il tempo, un

coinvolgimento da parte dei collaboratori, che non si limitano a fare il “minimo

53 Il riferimento è alla teoria dello sviluppo stadiale di Kohlberg presentata nel paragrafo 3.4. (Cfr. Kohlberg L, Le esperienze adulte richieste per lo sviluppo morale, cit., pp. 116-119).

54 Cfr. Zanato Orlandini O., Educare all’errore, educare al cambiamento. Riflessioni pedagogiche sull’errore nella prospettiva popperiana e oltre, Brescia, La Scuola, 1995.

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sindacale”, ma accettano di mettersi in gioco, di assumere un ruolo più propositivo,

condividendo le responsabilità e collaborando attivamente a supporto del manager.

«Io mi accorgo che molto spesso i miei collaboratori mi difendono dai problemi,

diversamente da quello che si può pensare. Beh, come dire: “C’è una persona che se

ne fa carico, bene glieli buttiamo addosso”. Da parte di molti avviene anche il

contrario: “La dottoressa ne ha già abbastanza, aspetta che vediamo se questa cosa

la riusciamo a risolverla noi”. Ed è un crescendo, è una cosa che capita, che mi è

capitata più di una volta all’interno delle organizzazioni in cui sono stata. […]

Secondo me è meraviglioso quando viene, non so, Eleonora dell’ufficio personale e

dice: “Dottoressa, ci sarebbe questo problema qua e io avrei pensato che potremmo

fare così…”. E fino a un anno fa ciò non avveniva… eh, perché lei ha fatto un

percorso, nel pensare la soluzione, lei ha la soddisfazione di riuscire a pensarci, ma

c’è anche la volontà di non caricarmi delle cose. Ma lei ha bisogno del mio

feedback per essere in sintonia, perché noi siamo in sintonia e per avere la

tranquillità che quella cosa che ha pensato si può fare e la può fare, ma è anche un

modo, anche protettivo nei miei confronti, nel senso che… ce li dividiamo un po’ i

compiti insomma…» (2:33).

I collaboratori però sono persone e le persone sono differenti l’una dall’altra. Ci sono,

come abbiamo visto, i “ricercatori di motivazione”, che investono molto nel lavoro per

una propria crescita personale e ci sono i “ricercatori di igiene”, che aspettano solo la fine

del mese55. C’è pertanto anche chi non vuole condividere le responsabilità, chi si vuole

attenere allo stretto indispensabile, per poca disponibilità o semplicemente per timore. Il

manager deve quindi essere consapevole di questo differente approccio al lavoro, ma

ugualmente deve saper trattare con chiunque, gestendo la diversità e cercando di lavorare

sul coinvolgimento, sulla responsabilizzazione, sulla crescita delle competenze, per

ridurre sempre più il fronte di questi collaboratori “refrattari”.

Gli strumenti per attuare questa modificazione dei comportamenti cambiano in base a chi

si ha di fronte.

«Il metodo non è uguale con tutte le persone… c’è chi viene e dice: “Ho questo

problema…” e vuole assolutamente una risposta, anzi chiede che tu gli mandi la

mail e conserverà per tutta la vita quella mail a riprova che chi ha scelto sei stato tu,

perché non vuole condividere la responsabilità… ci sono anche questi, però sono

55 Cfr. Herzberg F., The motivation to work, cit.

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pochi, e non solo qui. Per me è sempre stato così, sono poche le persone che non

vogliono condividere con te questa cosa, assolutamente…» (2:52).

«Poi è chiaro che questa cosa passa attraverso modalità personali, cioè se io ho il

dipendente che non la recepisce perché fa parte anche del suo modo di vivere dare

più importanza a determinati valori piuttosto che ad altri, mica possiamo qua

“svitare la testa” delle persone. Però attraverso alcuni parametri organizzativi,

attraverso alcune regole organizzative possiamo cercare di garantire il benessere

all’ospite attraverso standard adeguati e dichiarati anche nei confronti del personale.

Se per me tu, dipendente di questa organizzazione, la mattina devi salutare quando

vai ad alzare l’ospite, devi chiudere la porta, devi essere gentile, devi segnalare una

serie di aspetti critici dell’ospite… se questo è il mio standard, prima lo

condividiamo, poi ce lo diamo come modalità che comunque deve essere garantita

qui dentro, poi se non lo garantisci, allora lì andiamo su altri ambiti, voglio dire…»

(4:21).

Chiaramente il manager non può “svitare la testa” dei suoi collaboratori, non può pensare

di cambiare in toto o da un giorno all’altro la modalità che persone adulte hanno di

relazionarsi nei confronti del mondo e degli altri, modalità che sono andate

consolidandosi profondamente nella loro identità personale. Il lavoro educativo che il

manager deve compiere è principalmente su di sé, sulla sua capacità di capire chi ha di

fronte e quali sono le modalità di rapportarsi più funzionali, al fine di ottenere i risultati

che si propone a livello organizzativo, e relativamente al benessere dell’ospite.

«… per esempio, io dico, se mostro ad una persona le cose come dovrebbero essere,

le vedrà. In realtà non è così. Non è che se io mostro le cose alle persone, le persone

avranno occhi per vedere. Si dice che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire

e non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere… per cui anche se mostri loro le

cose e non vogliono vederle non le vedranno. In realtà tu non puoi cambiare l’altro.

Questa è una cosa che ho imparato. Devi semplicemente gestire. Ed è una gestione

che parte da chi ho davanti. Quanto più io so ascoltare chi ho davanti – e per

ascoltare non intendo solo con le orecchie – quanto più so leggere chi ho davanti, e

tanto più saprò gestire. Perché con qualcuno potrò adottare l’arma della paura: cioè,

se tu capisci solo questo linguaggio, è questo il linguaggio che devo usare, se è

funzionale all’organizzazione che tu faccia determinate cose in un determinato

modo. Con altri potrà funzionare qualcosa di diverso. Tanto più ti saprò “leggere” e

meglio saprò poi gestire le situazioni, perché non ci sono energie più sprecate di

quelle dedicate a cambiare gli altri. Non esiste… l’unico cambiamento che puoi

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agire è quello su di te… sugli altri sono veramente energie buttate fuori della

finestra. E lo dice una che ne ha buttate tante di energie fuori della finestra» (5:56).

Questo sapendo anche accettare il limite, ciò che non puoi cambiare, prendendo atto che

esistono dei collaboratori “difficili” e che devi in qualche modo gestire al meglio la loro

attività professionale agendo molto anche indirettamente.

«Bisogna solo gestirli. Fare in modo che un gruppo cresca e che questi diventino la

minoranza… e quindi, sai che devi “trascinarteli dietro”… cercare di arginarli il più

possibile, perché tanto è fiato sprecato. Cioè, loro sono così… Però se hai un gruppo

che è sempre più responsabile e cresce rispetto anche ad un’ottica di valori etici e di

modalità organizzative più orientate alla personalizzazione dell’assistenza, cioè, se

in mezzo a tanti ce n’è uno, vabbè, ce lo trasciniamo dietro, purtroppo, fino a che

non andrà in pensione» (4:48).

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10

Pensiero e sé morale

Bene, quello che stavo dicendo è che costa molto essere autentica, signora mia. E in questa cosa non si deve essere tirchi, perché una è tanto più autentica, quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa.

Pedro Almodòvar

10.1 Il pensiero in azione

La ricerca empirica da me condotta si proponeva anche l’obiettivo di conoscere – per

quanto possibile – le competenze etiche nella loro dimensione dinamica, cercando di

coglierle “sul fatto”, nel momento in cui esse si esprimono attraverso il pensiero morale.

Un pensiero che viene qui “ritratto” nel suo confrontarsi con situazioni problematiche dal

punto di vista etico (dilemmi morali, ma anche conflitti etici con altri soggetti, conflitti

fra dimensione etica e norme giuridiche, nonché alcune questioni di bioetica).

Il discorso sul pensiero morale si incrocia, nelle testimonianze raccolte nel corso

dell’indagine, con i temi dell’etica professionale, del sé morale e della ricerca del senso

delle cose e del proprio lavoro. Argomenti che, come avrò modo di illustrare, ritengo

essere strettamente collegati fra loro.

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conflitto etico interiore, dilemmi morali{28-1}

conflitto etico tra persone {26-1}

conflitto etico: tra etica e legalità {14-1}

questioni di bioetica {6-1}

sé morale {15-3}

etica professionale {17-3}

questioni di senso {23-4}

senso del proprio lavoro {3-1}

pensiero morale {0-7}

Fig. 6 – Mappa dello sviluppo delle competenze

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10.2 La narrazione del pensiero: conflitti morali e bioetica

Inizio ad illustrare quanto è stato prodotto nel corso delle interviste rispetto al tema dei

dilemmi morali, che si presentano allorquando il manager si trova in difficoltà nella scelta

del comportamento eticamente più adeguato da adottare, in una determinata situazione,

per il fatto che due o più norme morali, principi o valori vengono a confliggere fra di

loro.

Si tratta di situazioni che si realizzano con estrema frequenza, più di quanto non si

immagini, ma che a volte non riconosciamo – forse solo perché il termine può essere

distante dal lessico comune – e quindi crediamo che non ci riguardino, come si rileva in

alcune interviste.

«Mmmh, direi di no, direi… direi di no…direi che proprio dilemmi etici non me ne

vengono in mente adesso, così… ci possono essere delle situazioni nelle quali

l’applicazione di una regola appare non del tutto proporzionata all’evento che l’ha

reclamata, ma di problemi etici veri e propri, come quelli con cui magari si potrebbe

trovare davanti qualche altra categoria di professionisti, non ne ho mai trovati.

Insomma, non ho mai avuto questa… come posso dire… Anche perché noi ci

occupiamo di attività che non coinvolgono problemi etici così profondi; non ci

troviamo a discutere della vita o della morte delle persone, in poche parole, non ci

troviamo a discutere del rischio o meno di una determinata operazione… Ci

troviamo in cose per fortuna meno coinvolgenti e meno drammatiche…» (7:33).

Tuttavia i dilemmi etici non sono questioni che riguardano esclusivamente determinate

categorie di professionisti; coinvolgono tutti, ma chiaramente bisogna essere in grado di

riconoscerli. E, “scavando bene”, dilemmi ne saltano fuori di certo.

«Capita, può capitare che avviene un determinato fatto, per cui sei costretto a

prendere determinate misure disciplinari. A me non è ancora successo e spero che

non mi succeda. […] In altri campi purtroppo si è costretti ad agire anche se la

misura in qualche modo si ritiene sproporzionata… il piccolo negoziante che sei

costretto a perseguire dal punto di vista legale per ottenere un determinato

pagamento, che ne so, di un qualche cosa che ti è dovuto, ma che in questo modo

spingi al fallimento, alla chiusura dell’attività, a qualche altro grosso problema…»

(7:29).

I dilemmi morali non si riscontrano propriamente solo quando in gioco c’è la vita o la

morte delle persone, come nel caso della professione medica, ma anche nell’agire di altre

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figure professionale come quella del manager sociale, il quale può imbattersi – come di

fatto avviene – ogni giorno in questioni etiche. Questioni – come nel caso sopra

menzionato, del negoziante che non riesce a pagare l’affitto all’Ipab – che hanno a che

fare contemporaneamente con dei principi che possono apparire in antitesi fra di loro,

come ad esempio la giustizia e la solidarietà. Ed è proprio sul conflitto tra questi due

principi che prendono le mosse molti dei dilemmi morali riportati dai manager nelle

interviste. Un conflitto che potremmo in qualche misura ricondurre alla contrapposizione

tra etica della giustizia ed etica della cura56.

Le situazioni “dilemmatiche” incontrate dal manager riguardano in particolare i rapporti

con il personale.

«… Beh, per me i conflitti più duri ce li hai ogni qualvolta intervieni sul personale,

perché ogni volta che tu adotti anche un provvedimento di licenziamento – e

l’abbiamo fatto – il più delle volte sono persone che hanno grandi problemi sociali

loro, familiari e di salute, anche. O qualcuno che era abituato anche a fare il

furbetto… Io, ogni qualvolta ho adottato un provvedimento di questo genere, mi

sono sempre trovato in un grande dilemma. Oppure quando non hai fatto superare il

periodo di prova a una persona e sai che a casa ha dei grossi problemi o sai che ha

delle scarse capacità, per cui è un problema che ha oggi con te e che avrà domani

con un’altra istituzione, con un’altra cooperativa, con un altro ente, un’altra

società… Questi sono i grandi problemi che si pongono ogni volta che si fanno

delle scelte che coinvolgono la persona» (8:36).

Ad acuire questo conflitto fra la “voce della giustizia” e la “voce della cura” nel manager

sociale potrebbe essere proprio la sua formazione personale e, diciamo così, la sua

“deformazione professionale”. Infatti, essendo egli chiamato a sviluppare, per il lavoro

che fa, una certa sensibilità al bisogno, alle problematiche sociali, alla fragilità umana,

può vivere con maggiore intensità e sofferenza le decisioni che coinvolgono dei “casi

umani”.

«Alle volte hai il dipendente che è tossicodipendente, situazione sociale brutta,

deficit cognitivo importante e fa stupidaggini nel lavoro e allora tu ti trovi qua nella

necessità di dover essere il giudice di questa persona… Il giusto, no? E sei tirato, da

una parte, dall’aspetto umano di questa persona che sta male, perché per via della

mia formazione, insomma, so benissimo come ha reagito… e, dall’altra, dalla

56 Cfr. Gilligan C. (1982), Con voce di donna, cit., e quanto riportato nel paragrafo 3.2.

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necessità di dire: “C’è una giustizia, una meritocrazia, una…”. Cioè, avere una

cultura psicoterapica… quindi tu capisci che c’è un male profondo e con ciò rischi

di essere giustificazionista, per certi aspetti… e il dovere che ho nel mio ruolo di

esercitare il senso della giustizia, cioè di dire: “Chi ha sbagliato, paga”» (12:32).

La complessità dei dilemmi sta anche nel fatto che non è sempre chiaro come agire

secondo il “principio di giustizia” e come agire secondo il “principio di cura”.

«La richiesta che molti dipendenti fanno di avere prestiti… Si affidano spesso a

finanziarie e siccome mi viene richiesta anche una valutazione in termini, come

dire, di solvibilità, se io credo che non ci sia, do parere negativo… pur

comprendendo che per carità in quel momento hanno magari bisogno, però… Ecco,

sì, il rischio è anche che si rivolgano a qualcuno di poco corretto… però, però lo

devo fare, cioè se loro hanno già la cessione del quinto, se lo stipendio è al limite, se

hanno figli piccoli, eccetera, io devo assumermi questa responsabilità: sono io che

devo dire o sì o no ed è capitato in due o tre casi in cui ho detto di no. Ci sono in

gioco parecchie sfaccettature… c’è il bisogno… e non è facile, in qualche caso… in

un caso una persona ho cercato di indirizzarla – non io direttamente, si era aperta un

po’ di più con i colleghi dell’ufficio e quindi attraverso loro abbiamo cercato di

indirizzarla al sindacato – in modo che ci fosse comunque una tutela e che non

finisse a chiedere i soldi a chissà chi. Ma sono sempre scelte difficili, perché, se

hanno bisogno di soldi, qualcosa ci devono fare… Vedi questo circolo vizioso, vedi

queste persone che si stanno rovinando con le loro mani e io non me la sento di far

finta di non averlo visto, insomma ecco… È molto discrezionale, in realtà, perché

potrei anche dire che dal punto di vista, come dire, meramente formale, una persona

ce la può fare a pagare… Se poi gli restano 300 euro al mese per vivere e deve

magiare, ha un bambino… cioè, non so, non so come fa. Potrei anche non

curarmene, ma non ci riesco…» (2:29).

Ci sono delle funzioni attribuite al manager che si presentano piuttosto problematiche,

come quella di promuovere i procedimenti disciplinari. Le sanzioni più pesanti vengono

poi prese da un comitato di disciplina, ma l’avvio delle procedure spetta sempre al

dirigente. A volte può capitare – ma è l’eccezione – che tutto sia chiaro, che le cose si

presentino facili, come quando si tratta di censurare un comportamento scorretto assunto

in modo deliberato e intenzionale, senza che vi siano particolari “profili umani” di cui

tenere conto.

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È, nella fattispecie in esame, proprio l’elemento psicologico del dolo di chi pone in atto il

comportamento sconveniente a sciogliere ogni perplessità in merito all’avvio del

procedimento disciplinare. Le conseguenze del “misfatto” in questo caso, cioè l’entità del

danno che questo comportamento ha arrecato, sembrerebbero secondarie.

«… Beh, a me viene in mente per esempio ogni qualvolta mi trovo a fare dei

procedimenti disciplinari, perché come competenza mia devo anche far questo. A

volte è difficile svolgere questo ruolo. Quando ti trovi di fronte ad un caso in cui hai

la certezza che comunque c’è una persona che ha volutamente fatto delle cose

negative… allora vai via tranquillo» (11:43).

«Ci sono limiti invalicabili. Se uno si addormenta al lavoro è una cosa, se uno dà

una sberla ad un anziano sulla gola è un’altra… Allora nella prima io cerco di

mettere in atto operazioni, diciamo… Nella seconda metto in atto una sola

operazione, dico alla persona: “O tu ti licenzi domani mattina o io domani mattina

vado in Procura della Repubblica…”. Punto e a capo, ecco. Questo è un principio

inderogabile, perché può caderti l’anziano nel lavoro e può fratturarsi e farsi male

peggio, però questo fa parte del lavoro, può capitare… vediamo come risolvere…»

(12:33).

Le questioni però si possono complicare e anche molto. Ci si può trovare di fronte a

situazioni in cui non c’è dolo e non c’è neanche forse una “colpa”, ma ci sono comunque

delle conseguenze che richiedono un provvedimento.

«Mi è capitato e mi capita ogni tanto di trovarmi di fronte a persone che sono

effettivamente in difficoltà, ma in difficoltà di vita, in difficoltà, perché …. Perché

non sempre le scelte che hanno fatto sono state scelte felici e non sanno come

affrontare un bisogno. Mi viene in mente adesso una situazione di questo tipo, per

esempio… ecco, mi sta un po’ tormentando la situazione di una dipendente che si

comporta in una maniera… che ci mette nelle condizioni di sanzionarla ogni tanto,

perché arriva in ritardo al lavoro. Non è rispettosa del turno. Lei è infermiera, quindi

non può fare una cosa del genere e ci tocca sanzionarla, perché mi arriva la

segnalazione da parte del capo reparto e io sono costretta a sanzionarla, quindi farle

partire la segnalazione, poi portarla in commissione disciplina, farle il rimprovero,

eccetera. E questa persona non è assolutamente in grado di cambiare questo suo

comportamento, perché soffre di depressione e quando va a casa, ed è depressa e sta

male, prende una pastiglia e poi non si sveglia la mattina dopo in orario. E più che

farle la predica, più che dirle di andare da un medico, di avere un periodo di

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aspettativa… ma non si può permettere l’aspettativa, perché senza stipendio non

potrebbe stare… io lì mi sento bloccata. Mi sento bloccata, perché vedo proprio la

difficoltà di questa persona, però devo applicare la regola, perché è il mio ruolo e gli

altri, gli altri collaboratori, si aspettano che io faccia e basta… gli altri collaboratori

che poi sono le vittime del suo comportamento, nel senso che lei non è ligia, non è

attenta. Sono le vittime, perché? Perché devono restare in reparto, devono aspettare,

non sanno che… è accaduto in più di un’occasione che il collega prima di uscire dal

turno abbia dovuto chiamarla, lei era addirittura a casa a letto, l’ha svegliata, perché

si era dimenticata di venire, insomma situazioni che sono assolutamente

sanzionabili, non c’è dubbio. La persona deve assolutamente venire a lavorare in

condizioni ottimali… Tra l’altro, c’è il problema anche delle condizioni nelle quali

viene a lavorare, di come faccia a lavorare, per cui la devo mettere a lavorare in un

reparto in cui c’è almeno un altro infermiere, che deve rendersi conto se lei è in

grado quel giorno in cui accade quella cosa, se non è troppo assonnata, se è in grado

effettivamente di svolgere le sue prestazioni e questo denota le sue difficoltà, mette

in luce le sue difficoltà che lei non è assolutamente in grado, in grado di superare,

ecco…» (2:28).

Dopo aver ascoltato questo racconto avrei voluto commentare: “È uno sporco lavoro, ma

qualcuno lo deve pur fare!”. Non sapevo come sarebbe stata presa la battuta, perciò mi

sono autocensurato, limitandomi ad appuntarla nel block-notes.

La dirigente è spinta, per il senso del dovere, a procedere disciplinarmente, anche se

capisce che non è giusto e che poi non serve a nulla, perché non farà certo passare la

depressione alla dipendente. Ma deve procedere, perché il comportamento trasgressivo

crea un danno che va riparato. C’è in questo un’idea espiatoria della sanzione

disciplinare; una sanzione che viene esatta dai colleghi danneggiati dal comportamento

dell’infermiera depressa: questi si aspettano che vengano assunti dei provvedimenti e la

dirigente è in qualche modo “costretta” a procedere, per quanto con difficoltà.

Quindi, la sanzione non sempre viene assunta perché è utile in termini “educativi” a chi è

incorso nell’infrazione disciplinare, ma spesso viene posta in essere in quanto serve per

riparare il torto arrecato, ristabilire l’ordine violato e soddisfare il senso giustizia degli

altri membri dell’organizzazione. È un concetto che si ritrova anche in un’altra intervista.

«A volte ti trovi di fronte magari anche a dipendenti bravi, dipendenti che ci

mettono passione, che hanno sempre messo passione e restano molto male quando

ricevono una lettera in cui tu chiedi conto di un comportamento e giustamente

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dicono: “Come? Ho fatto una vita lavorativa… quella volta che mi capita qualcosa,

lui mi chiama a rapporto e magari mi sanziona…”. E vai in difficoltà, ma tu sai

anche che se tu fai delle eccezioni… rispetto a gruppi di lavoro, lo stesso

comportamento non puoi una volta sanzionarlo e una volta lasciar correre… al

limite puoi pensare a graduare le sanzioni, ma non puoi lasciarlo correre, e questo a

volte qualcuno non lo capisce e ci vede anche qualcosa di personale…» (11:43).

Le decisioni del manager in questo ambito sono certamente un fatto di coscienza, un fatto

personale, ma evidentemente hanno una risonanza esterna anche rilevante. Egli quindi si

pone la questione di come la sua decisione potrà essere interpretata, senza per questo

tuttavia farsi eccessivamente condizionare dal giudizio degli altri, i quali probabilmente

avrebbero qualcosa da ridire in tutti i casi.

«Dopo alla fine chiudi sempre con la serenità di dire, “Ok, ma la cosa importante è

che sei pulito, non hai niente da nascondere…”, ma poi la lettura che viene fatta a

volte dall’esterno non è sempre quella pulita… di certe scelte in cui hai privilegiato

l’esperienza, magari si fanno certe letture…» (5:67).

Alcuni dei dilemmi morali riportati dai manager intervistati rimandano ad un’altra

contrapposizione, quella fra scelte ispirate dl deontologismo e al consequenzialismo. Si

tratta di situazioni nelle quali l’osservanza da parte del manager di determinate norme,

prescritte per dovere d’ufficio, comporta conseguenze che possono magari risultare

contrastanti con gli interessi dell’ente.

«C’è una situazione che mi capita di vivere nei concorsi. Nei concorsi ti trovi anche

ad avere persone che conosci, con le quali non si pone una situazione di

incompatibilità, però magari è un collega che ha lavorato a termine e poi,

finalmente, fa il concorso a tempo indeterminato. Magari riconosci la prova o

magari arrivi all’orale quando è chiaro… tu lo sai, perché ha lavorato con te un

anno e sai che lavora bene, ma magari fa un orale “da schifo”. Una delle domande

è: “Lo valuto sulla base della prova o lo valuto sulla base della conoscenza?”. Se lo

valuto sulla base della prova, dici: “Ma vado a bocciare uno che so che è bravo…”.

E quindi ti domandi se stai facendo quello che serve: “Qual è l’interesse che sto

perseguendo?”. Se invece lo valuti sulla base della conoscenza pregressa, cioè dici:

“Vabbè, faccio finta di non aver sentito la prova che ho sentito e lo valuto sulla base

della conoscenza”, ma come ti poni nei confronti di tutti gli altri che non conosci? E

quindi, questa procedura concorsuale, se da un lato deve garantire dei buoni risultati

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per l’Amministrazione, in maniera imparziale nei confronti dei cittadini… come si

concretizza tutto questo?» (5:65).

Il quesito sulle conseguenze delle proprie azioni, che accompagna ogni scelta di ordine

morale, talvolta – specie quando si devono assumere decisioni incresciose, come ad

esempio quella di licenziare un collaboratore – si pone in maniera molto drammatica.

Drammatica e complessa, perché nel valutare le conseguenze vanno soppesati molti

aspetti che sono in contrasto fra di loro. Mentre nell’approccio integralmente

deontologico, una volta chiarito qual è il dovere da assolvere, “si va avanti dritti”,

nell’etica consequenzialista le cose si fanno complicate.

«Un dilemma di fronte al quale mi sono trovato è stato, ad esempio, il

licenziamento di un dipendente… Io mi sono trovato costretto, per certi aspetti,

perché secondo me non c’erano le condizioni per proseguire il rapporto di lavoro. È

chiaro che ti porta al dilemma di dire: “Ma questo che adesso resta a casa, cosa fa,

cosa non fa? Ha famiglia, non famiglia…”. C’è una causa in corso; io non so come

se ne uscirà, se prenderemo ragione o prenderemo torto. È chiaro che dal punto

strettamente del diritto ritengo di aver fatto la cosa corretta. Sul piano poi di una

scelta strettamente etica, è giusta o non è giusta e, se è giusta, poi che conseguenze

può arrecare… quello che poi mi chiedo anche, a proposito delle domande:

“Sarebbe stato più etico confermare al lavoro una persona che alla fin fine non era

certamente illuminante come esempio per i suoi colleghi, e quindi questo è stato un

modo per recidere il rischio della non sostenibilità o sarebbe stato meglio mantenere

la situazione?” Questo è un dilemma…» (3:56).

L’interrogarsi sulle conseguenze apre effettivamente uno scenario denso di criticità,

perché gli elementi da considerare sono molti – non solo riferiti, come in questo caso, al

dipendente da licenziare, ma anche all’ente e ai colleghi; l’aspetto di imponderabilità

generato da una qualsiasi scelta non è mai del tutto eliminabile57.

La questione è che, di fronte ad un dilemma morale, si deve scegliere: anche non far

niente, non pervenire ad alcuna decisione, è una scelta. Il “possesso” di competenze

etiche dovrebbe appunto consentire al manager di assumere queste scelte – e poi tradurle

in decisioni e azioni concrete – con una certa serenità d’animo.

«Mi sento di dire che non ho grandi dilemmi morali, nel senso che… non lo so, io

anche di fronte ai problemi, anche in gruppo, eccetera, io dico: “Ma qual è il bene

57 Cfr. Da Re A., L’etica tra felicità e dovere, cit., p. 31.

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della persona della quale stiamo parlando?”. E proviamo, nelle soluzioni che

adottiamo, ad avvicinarci quanto più possibile a questo e quindi, quando so che ho

fatto questo ragionamento… so anche di poter sbagliare, perché sbagliare è umano,

è umano…» (12:30).

Quello che consente al manager di sciogliere i dilemmi morali è il fatto di porsi di fronte

alla situazione in termini riflessivi, analizzando gli elementi del problema, a partire da se

stesso – Chi sono io? Qual è il mio ruolo? Di cosa sono responsabile? Quali sono gli

interessi in gioco? Quali principi sono in gioco? Quali alternative ho? – per ricavare

proprio da questa analisi un’ipotesi di soluzione convincente, che va poi “validata” sul

campo.

«Sì, sì. Eh... Pochi giorni fa c’è stata una selezione con un professionista, che

lavorava con noi per un po’ di ore alla settimana… da un bel po’ di tempo, di fatto,

e non è stato confermato… Si è fatta scelta una persona che a giudizio della

commissione era più qualificata. Allora, il problema è dire: “Ma adesso? Questo

qua ha famiglia…”. Questioni di questo genere. E poi ovviamente ero il presidente

della commissione. Ma mi sono dato una ragione. Ho detto: “Ok, io devo

salvaguardare gli interessi dell’Ente, chiaro?”. Interessi dell’Ente è avere i migliori

professionisti per determinate cose. Abbiamo avuto l’opportunità di selezionare un

gruppo di professionisti, pensiamo che ci sia un professionista migliore di questo e

quindi scegliamo il migliore… E mi sono detto: “Ma i problemi di questa persona,

con la sua famiglia, eh?”. Come dire: “È giusto che io mi senta coinvolto?”. E ho

detto: “No, il primo a essere responsabile di questa famiglia è il capofamiglia, è

lui…”. Che vuol dir che cosa? Che vuol dire che se non ha funzionato, se non ha

dato il massimo per poter essere preso, deve guardare lui al suo percorso, al suo

impegno. Deve essere lui responsabile nei confronti della sua famiglia e io sono

responsabile di questa tra virgolette “famiglia”, che è la struttura… non è stato

facile dire: “Eh, in questo momento rispetto a questa decisione non mi faccio

carico… non posso sentirmi io responsabile di quella famiglia, ma deve essere lui

responsabile di quella famiglia…”. Che vuol dire che doveva pensarci prima, che

vuol dire impegnarsi, studiare, far tante cose diverse, alcune cose diverse, essere

pronto per questa occasione, che poi non l’ha saputo dall’oggi al domani, aveva un

anno di tempo per prepararsi. Ecco, è stato un momento di conflitto non

indifferente. Io l’ho risolta dicendo: “Ma c’è un valore, c’è un valore etico rispetto

al mio ruolo di dirigente, di direttore, che è quello anzitutto di guardare agli

interessi di questa struttura nella sua globalità. E l’altra cosa, l’altra questione, non

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posso assumerla io… Sei tu che devi mettere in piedi strumenti, la responsabilità

della tua famiglia ce l’hai tu”. Questo momento, può immaginare, è doloroso, però,

d’altronde... Questo discorso può sembrare in contraddizione con quello di prima…

No, no. C’è un rispetto delle persone, ma c’è anche un valore che deve guidarci, che

è quello di dire questa è un’entità che deve essere gestita al meglio per poter

sopravvivere, per poter sviluppare servizi di qualità, per poter essere qualificata, per

poter essere considerata un luogo dove si può tranquillamente, serenamente portare

il proprio congiunto. Cioè, alla fine, la qualità della struttura si misura con anche

con la qualità di chi lavora dentro e sui prodotti di chi lavora all’interno della

struttura» (10:22).

L’etica del manager sociale ha come perno una responsabilità, che è quella nei riguardi

dell’ente che gestisce. Nell’assumere le proprie decisioni è chiaro che egli tiene conto

delle situazioni personali, dei casi umani, ma la sua responsabilità principale è rivolta

all’organizzazione e a quanti da essa dipendono.

«… un operatore o un capo reparto… a me è successo di non confermarlo in ruolo.

Ricordo il caso di una persona che è venuta da noi, era una persona madre di

famiglia, con 4 figli, compagnia bella, non l’abbiamo confermata in servizio: è stata

una cosa molto, molto difficile, molto dura, molto impegnativa, ma, vede, lì

torniamo sempre allo stesso discorso: tu intanto, ogni qualvolta assumi una persona,

sai che ti assumi un costo al bilancio e sai che questo costo al bilancio qualcuno lo

deve pagare. […] Ma il secondo aspetto, che è il principale forse, è che questa

persona poi comunque si scontra con una realtà del servizio, la realtà del servizio

che è valutata dai parenti, cioè il fatto la mattina che tu hai un operatore non

all’altezza del compito, un capo reparto non all’altezza del compito, una capo casa

non all’altezza del compito, questo poi alla fine si scontra con l’immagine e con la

qualità del servizio» (8:40).

La necessità di definire quella che è la responsabilità di ciascuno rientra a pieno titolo nel

discorso etico, laddove pensiamo all’etica come un sistema che rende sostenibile per il

singolo e la società il sentimento di umana compassione per l’altro58.

Un’istanza che ho ritrovato anche in altre interviste, per quanto non sempre l’attribuzione

chiara e definita delle responsabilità riesce a dirimere tutti i dilemmi etici, perché se

l’altro non si assume la sua di responsabilità, il dilemma rimane in qualche modo aperto.

58 Cfr. Bauman Z., L’etica in un mondo di consumatori, cit., p. 48.

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«Sì, se la situazione non si risolveva, io dal punto di vista meramente teorico potevo

lasciare lì questo anziano che, devo dirti, non era neanche una persona che suscitava

compassione, per una storia di alcolismo, di vita dissoluta… da questo punto di

vista avrei quindi potuto lasciarlo lì. Però comunque sarebbe stata una scelta

sbagliata. Cioè io volevo che ci fosse una presa in carico da parte dell’autorità

competente, perché secondo me professionalità vuol dire che ciascuno si assume le

sue responsabilità. […] Il fatto è che comunque ti senti responsabile della presa in

carico dell’ospite. Non puoi agire il bluff di lasciarlo lì. Ma lo lascio lì, dove?»

(6:13).

I dilemmi morali sono dei conflitti etici interni alla persona; tuttavia si possono ritrovare

spesso, nel corso della pratica professionale, situazioni in cui vi è anche un conflitto etico

tra persone diverse. In ultima analisi, è la diversità delle persone, dei loro sistemi

valoriali, ma anche semplicemente dei loro punti di vista, ad originare situazioni di

contrapposizione conflittuale.

«Sì, e non solo una volta, perché logicamente quando si assume un certo incarico, si

cresce nella gerarchia aziendale, situazioni di questo genere capitano per forza di

cose, perché poi l’interesse che hai tu o anche la visione che hai tu è parziale e non è

magari una visione appunto complessiva o comunque altri hanno una visione

diversa… è un momento sempre molto difficile…» (2:19).

Non di rado i conflitti che si creano nel contesto lavorativo possono essere vissuti con

grande sofferenza personale e generare interrogativi di natura etica su ciò che è giusto

fare, sull’utilità della scelta, ma anche sul senso del proprio agire.

«Io ho avuto qui una guerra sindacale che mi è stata fatta nel 2006 in maniera

pretestuosa, a mio avviso, che alla fine si è risolta se vuoi senza grandi vincitori e

vinti, anche perché la vittoria strappata dal sindacato era forse ciò che io stesso

avevo già acconsentito, però questo mi ha fato star male, mi ha fatto vivere male, mi

ha fatto soprattutto avere dei momenti di tensione notevoli, sui quali – per come mi

sono mosso – ritenevo e riterrei ancora di aver agito correttamente e che però hanno

creato momenti di crisi, perché hanno generato tensioni, hanno generato momenti di

grossa difficoltà nell’approccio stesso… Tu vedevi che nell’incontrarti con alcune

di queste persone non c’era serenità e soprattutto c’era tensione che si poteva

palpare. Questo a me è dispiaciuto perché ne ha risentito il sistema,

l’organizzazione, anche se abbiamo cercato di preservarla. Io credo che gli anziani,

cioè i destinatari del servizio, abbiano avvertito in maniera assai relativa questo

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stato di tensione, però c’è stato, c’è stato e mi ha fatto soffrire non poco e mi ha

fatto vivere questo dilemma anche dal punto di vista etico, perché alla fine qual era

il bene comune da salvaguardare? Era quello che andava in una direzione o

nell’altra? E il cedere in un senso o nell’altro era di maggiore o minore vantaggio?

Queste sono state situazioni pesanti vissute» (3:57).

Molti dei conflitti che si generano all’interno dell’organizzazione muovono da “interessi”

contrapposti e/o da un diverso sistema di valori. Una cosa assolutamente normale, ma che

può a volte però degenerare, perché non c’è la capacità di gestire il conflitto in maniera

corretta.

«…si perché non abbiamo la stessa scala di valori, come ho più volte detto, anche

perché gli interessi sono contrapposti……. e spesso sono difesi con metodi non

corretti…» (9:39).

L’ipotesi delineata nel corso delle interviste è che esisterebbe, all’interno delle

organizzazioni, una normale dialettica, anche accesa, tra le diverse componenti, e questo

sarebbe fisiologico. Il conflitto vero e proprio esploderebbe per il comportamento o

l’atteggiamento più o meno deliberato della singola persona, che eccede nei toni, che

trasforma il confronto in scontro.

«Io non ho ricordi di conflitti nati a prescindere dalla persona. Io ho ricordi di

conflitti maturati in una logica di contrapposizione: direzione invece che lavoratori

o cose del genere. Ma sempre erano alimentati, mediati, incentivati poi da stili

individuali di persone. Quindi, di per sé, l’appartenere a diverse categorie innesca il

conflitto solo se le persone, se gli stili dei soggetti debordano. Voglio dire, a meno

che uno non abbia dei pregiudizi così forti per cui uno, perché ha i capelli… non è

meritevole del mio ascolto… ma nella mia esperienza non ho mai percepito conflitti

solo perché si faceva parte di categorie ben precise. Eh... alla fine se c’erano

conflitti, venivano sempre alimentati dal contributo che dava il singolo. Eh... sì, o

forse sono stato così ingenuo a non vederli nella loro nella dimensione…» (10:20).

La dialettica interna che anima l’organizzazione può discendere da etiche professionali

differenti, pur essendo queste ispirate a medesimi principi. Per esempio, direttore e

coordinatori, pur occupandosi tutti di servizi alla persona, possono avere delle posizioni

differenti, delle prospettive di analisi differenti, dei principi morali differenti, così come

avviene nel caso del giudice e dell’avvocato, professioni che si occupano entrambe di

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giustizia, ma che non presuppongono – com’è stato detto – le stesse specifiche

competenze etiche. 59

«A volte mi sono trovata a scontrarmi pesantemente con i miei coordinatori su

scelte che riguardavano, ad esempio, la contenzione, perché naturalmente nel

contenere la persona subentra molto la paura di chi assiste e quindi è in contatto

diretto… per tutelare la persona… e quindi si lega la persona, perché si ha paura che

cada e si faccia male. Arrivando a volte a delle modalità che sono inaccettabili per

me…» (1:53).

Lo “scontro” può a volte anche vedere contrapposti manager e consigli di

amministrazione, tra cui può non esserci sempre perfetto allineamento sui principi o su

come quegli stessi principi debbano declinarsi nelle scelte gestionali dell’ente.

«... e poi anche con il Consiglio di Amministrazione, quando tu hai fatto delle

proposte in relazione alle rette per cui eticamente credi sia corretto agire in questi

termini… e poi sentirti dire di no, è vissuto anche male, perché vuol dire ridurre o

riconsiderare certi principi…» (3:60).

Il conflitto può anche travalicare i confini dell’organizzazione e interessare due diverse

istituzioni e il modo peculiare di intendere e di perseguire il “pubblico bene”, che

ciascuna può avere.

«… Avevamo degli SVP, cioè degli stati vegetativi permanenti. Una cosa toccante è

stata una ragazza di 42-43 anni che era una vittima del 118, cioè salvata dopo 45

minuti di… in stato vegetativo… con la figlia adolescente, senza marito, coi

genitori, uno di questi malato di tumore… e questi che contavano sempre in un

futuro risveglio… questo ti scatena molte cose… lì c’era un grosso dilemma, perché

in tutte le ULSS lo stato vegetativo permanente è riconosciuto fino al suo exitus. Lì

era solo per un anno, rivedibile… il loro intento era dire: “Dopo un anno passa in

una struttura per non autosufficienti”. Naturalmente negli stati vegetativi hai un

corrispettivo più alto, ma hai anche un investimento in termini di tempo e di azione

sull’ospite che è veramente più alto. Ed era già capitato un paio di volte che gli

ospiti di un SVP, dopo l’anno, erano stati fatti transitare nella graduatoria per non

autosufficienti ed erano stati ricoverati nella RSA al piano di sopra, dove erano

quelli fissi, perché la famiglia comunque gradiva che rimanessero là, ma c’era un

sovraccarico di lavoro in quel reparto, perché potevi decidere o di dare meno servizi

a tutti gli altri ospiti o dare meno servizi a questo, la cui famiglia però era stata 59 Da Re A., Il professionista tra deontologia ed etica, cit., p. 427.

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abituata per un anno a ricevere quel tipo di servizio… oppure, cosa? Chiedere un

corrispettivo in più? Purtroppo io sono andato via e non so come si siano evolute le

cose, perché io mi sono battuto molto, perché non volevo che l’ospite venisse

espulso dal suo status di SVP, perché per vari motivi abbisognava di parecchie ore

di assistenza che io potevo dare in quel reparto, perché mi davano più soldi di

contributo e io potevo mettere più ore di personale. Di sopra, o tagliavo servizi agli

altri o riducevo i servizi per questa ospite… ma non sono arrivato a risolvere il

dilemma perché quando sono andato via l’ULSS aveva comunque prorogato la

SVP, ma io avevo comunque fatto delle mosse, diciamo secondarie, perché

arrivasse alla direzione generale dell’ULSS questo problema. Non so come si sia

evoluta la questione, perché quando esco, esco… però sarebbe stata una cosa che

sarebbe stata pesante, perché effettivamente dopo un anno che una persona è seguita

in un certa maniera… mi sarei dovuto scontrare con la famiglia, ma mi sarei

scontrato malvolentieri, perché secondo me l’aspetto problematico era l’ULSS, che

è famosa per essere sempre a pareggio o addirittura in avanzo, ma bisogna poi

vedere come si raggiunge questo avanzo. Anche con azioni positive, per carità,

perché curano molto la territorialità, ma anche con scelte anche drastiche» (6:35).

Le diversità possono avere anche una base culturale: il confronto tra persone che sono

portatrici di identità culturali e religiose differenti può effettivamente far sorgere dei

conflitti all’interno del contesto lavorativo, che non sono sempre facili da dirimere.

In questo confronto ci sono effettivamente degli aspetti su cui è possibile trovare

un’intesa, un accomodamento, e altri che non sono mediabili, perché si riferiscono a

principi e valori non “negoziabili”.

«Un anno fa avevamo un dipendente egiziano, extracomunitario… alla fine

abbiamo scoperto che era un responsabile religioso della sua comunità. Quindi noi

avevamo notato che – i gruppi sono quasi tutti femminili, lui era un uomo –aveva

delle difficoltà a lavorare con delle donne e alla fine, dopo una serie di episodi

successivi, sempre più gravi, lui è andato fuori dai gangheri e ha quasi picchiato una

collega. Chiaramente nel momento in cui ho dovuto fare il colloquio con lui, lui mi

ha messo di fronte tutta una serie di problematiche legate alla sua religione e ai

rapporti con le donne e a quel punto là, non so se lei lo vuole considerare un

dilemma etico, per me lo è stato, ho dovuto dire: “Guarda, io rispetto la tua

religione, però in questo momento, in questo tipo di lavoro, tu devi stare alle regole

che ci sono e quindi devi comportarti in un certo modo”. Poi è finita che lui si è

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licenziato. Però, dal mio punto di vista, non era tollerabile quel tipo di

comportamento» (1:55).

«Sì, noi abbiamo avuto problemi con stranieri. Avendo 50 posti temporanei per

dimissioni ospedaliere e quando ci arrivavano africani era un po’ difficile per

abitudini della famiglia anche pesanti. Adesso io ricordo un africano che era morto

lì da noi con tutti i parenti in corsia che gridavano, perché faceva parte del loro rito

e fecero la richiesta che stesse in camera mortuaria per una settimana, perché era

previsto… Da un lato dici: “Tra un po’ dovremo attrezzarci anche per queste cose”.

Dall’altro intervieni più facilmente, perché hai lo schermo di dire: “Ma guardate,

per noi questa è l’usanza”. Gli devi far capire che sei comunque più forte… il

servizio è più forte… e poi è un problema igienico…» (6:29).

Non basta la diversità ad innescare il conflitto. Ad esempio le diversità che ci possono

essere tra il direttore e gli anziani ospiti – che credo non siano poche – non generano

particolari conflittualità, probabilmente perché ci si pone su un piano diverso, di

maggiore tolleranza.

«… con gli anziani non ho mai avuto problemi in senso stretto, nel senso che… chi

è anziano ha ragione per definizione, insomma , noi siamo al loro servizio e

dobbiamo metterci nei loro panni…» (12:32).

Anziani che conservano – e a volte acuiscono – i propri modi di pensare, le proprie

chiusure e i propri pregiudizi, che però vengono accettati di buon grado, quasi con

tenerezza.

«Nella realtà della casa di riposo… penso, non dico a conflitti, però ad

atteggiamenti ostili tra ospiti. Eh, è un po’ curioso (sorride), ma è così. Io penso a

come certe persone nate e vissute all’interno del centro storico della città non

riuscivano serenamente a parlare con quelli della campagna, con quelli che erano da

fuori delle mura e la cosa impensabile però è che c’erano alcune persone che con i

campagnoli, quelli che abitavano fuori dalle mura non volevano avere a che fare.

Vabbé, erano persone di una certa età, quindi nati con pregiudizi, con modelli

culturali dove c’erano gli eletti e i meno eletti» (10:21).

I conflitti si innescano invece più frequentemente con i familiari degli ospiti, che tendono

spesso a ingerire su aspetti della cura dell’anziano, di competenza della struttura.

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«A volte il problema è il familiare, perché a volte ha delle idee e deve a volte anche

lui conformarsi a quelle che sono le decisioni dell’unità operativa interna, di questa

equipe che decide di queste cose. Nel momento in cui non è d’accordo, deve

prendere in considerazione che la persona è in gestione alla struttura e quindi è la

struttura che risponde e lui non può decidere» (1:69).

Si tratta propriamente di conflitti valoriali, avendo i familiari delle concezioni differenti

da quelle della struttura in merito al benessere e alla cura migliore per il proprio

congiunto. A volte, però, dietro a questi conflitti con la struttura, si può nascondere un

malessere più profondo: il ricovero del proprio anziano in istituto viene spesso vissuto

con difficoltà e persino con sensi di colpa. Il familiare va quindi aiutato a capire che cosa

è meglio per l’anziano e talvolta anche accompagnato nel percorso di accettazione

dell’ineluttabile esito di un processo che è già in atto.

«Mah, era che per la famiglia sono importanti certe cose marginali, mentre per lo

staff è importante tutt’altro. Per la famiglia è importante che l’ospite sia sempre

alzato, quando invece sarebbe meglio che certe giornate stesse a letto… Lì gli

scontri sono su una diversa interpretazione dei bisogni dell’ospite, specialmente

dell’ospite che non si riesce ad esprimere. E lì la famiglia ritiene che certe cose

siano valori fondamentali, quando invece sono stupidaggini, facendo un’analisi

professionale. E non si riesce a volte a trasmettere certe cose. È una cosa difficile,

perché se uno viene un’ora al giorno… poi c’è questa cosa del senso di colpa… se

tu vieni un’ora al giorno a trovare il tuo anziano, lo vuoi trovare tutto bello, lavato,

pettinato, pimpante, per modo di dire… se lo trovi perso per qualsiasi motivo, puoi

scatenare il finimondo... Ma per i sensi di colpa che hai tu» (6:32).

«… rispetto al percorso finale o comunque rispetto a scelte importanti, come

mettere una peg o quant’altro... Anche su questo della peg abbiamo avuto degli

scontri… perché per l’ospite può essere una liberazione da grossi fastidi, ma la

famiglia pensa: “Con la peg diventa irreversibile la sua non autosufficienza…”.

Perché non capisce, perché non vuole vedere l’evidenza, che è quella la strada…»

(6:34).

Un’altra problematica sulla quale mi sono soffermato nel corso delle interviste è quella

del conflitto tra etica e legge, cioè quel contrasto che si può non infrequentemente

rinvenire tra il sistema personale dei principi e delle norme etiche dell’individuo e il

sistema giuridico della società a cui l’individuo appartiene. Si tratta di una tensione che

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può venirsi normalmente a creare allorquando il soggetto maturi un’etica personale

autonoma, unitamente alla capacità di esercitare anche una coscienza critica, nei

confronti non solo della moralità comune, ma anche del diritto positivo vigente

all’interno della sua stessa comunità in quel determinato momento storico.

Dalle interviste realizzate, risulterebbe comunque un sostanziale rispecchiamento tra il

sistema morale personale del manager e l’ordinamento normativo vigente, per lo meno,

com’è ovvio, relativamente ai principi basilari del rispetto dei diritti della persona.

«No, direi che i miei principi sono quelli dell’attenzione massima all’uomo e alla

persona; il primo bene in assoluto che abbiamo sono le persone. […] No,

sull’attenzione all’uomo non mi sono mai scontrato con la mia coscienza» (8:44).

Anche allorquando si incontrassero delle norme che potrebbero sembrare di estrema

severità, si può infatti sempre trovare il modo, pure rimanendo all’interno

dell’ordinamento giuridico, di stemperarne gli effetti più duri.

La norma, infatti, può essere interpretata in maniera più o meno estensiva, in modo da

avvicinarla maggiormente al contesto in cui la si deve calare.

«Noi eroghiamo un servizio a fronte di una retta; quando non vi fossero più i mezzi

o non vi fosse più l’intenzione da parte degli obbligati di pagare la retta per il

parente, in teoria dovremmo prendere una persona anziana, fragile, ammalata, con

gravi problemi di salute e fare che cosa? Non so neanche io, forse metterla per

strada… Tutto questo in teoria. Evidentemente vale sempre quel principio di… non

so la definirei proporzionalità dell’azione, per cui in nessuno di questi casi mai

l’Ipab fa una cosa di questo genere, né io lo permetterei in ogni caso,

indipendentemente poi anche dall’interpretazione letterale delle regole, che le

regole non sono così “spietate” come sembrano» (7:31).

«Diciamo che nel momento in cui mi si è posto questo dilemma… sì la legge non è

matematica e quindi si riesce secondo me a trovare il modo per… interpretarla»

(1:61).

La critica che si rivolge ad alcune delle norme giuridiche non è tanto il fatto di essere

ingiuste, quanto piuttosto di essere irrazionali e spesso di imporre inutili adempimenti,

che si traducono in maggiori costi per gli enti.

Le norme che reggono la Pubblica Amministrazione, in particolare, impongono

determinati obblighi, determinate procedure, determinati formalismi, che si dimostrano al

lato pratico poco efficienti e poco efficaci.

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«Di certe norme ti domandi a chi o a cosa servono, qual è la finalità…» (5:68).

«Ci sono norme così astruse a volte, che ti dà fastidio dover fare alcune cose, perché

ti rendi conto che spendi tanti soldi, che poi vanno sempre a carico dell’utente

debole, e che magari sono interventi che non hanno grande importanza e che si

potrebbero evitare, ma queste sono incongruenze del piccolo, del peccato… del

famoso peccato originale…» (8:44).

«Poi ho vissuto male gli esiti di certi concorsi, male perché a mio avviso io li ho

condotti correttamente, come la norma richiede, e quindi trasparenti – non bisogna

dimenticare che questo è un ente pubblico – ma poi non ho avuto le risposte che mi

sarei aspettato, cioè le persone che hanno vinto, alla resa dei conti e nel concreto,

non hanno manifestato questo tipo di approccio veramente e sino in fondo

professionale…» (3:59).

Il manager è costretto a misurarsi ogni giorno con un sistema normativo che si fa sempre

più complesso e stringente e che rischia di “ingessare” la Pubblica Amministrazione.

«Sì, spessissimo, come penso tutti i dirigenti pubblici, si maneggia ’sto limite fra la

rigidità del diritto, della norma, e l’esigenza di movimento, che è molto tipica dei

servizi alla persona. Perché è chiaro che se io compro degli arredi, probabilmente

non sorge tanto il conflitto, ma è nei servizi alla persona, dove io nella mia

esperienza qualcosina in là sono andato per garantire i servizi…» (11:50).

«In tutta onestà – però usa bene questo – io ho cercato di fronte a certi vincoli della

norma, di capire come meglio calarla. Caso concreto: la norma ci dice che tu non

puoi fare appalti cosiddetti “frazionati” per eludere la norma… se tu hai una gara

europea devi farla così… allora, di fronte a quelli che erano gli impegni, per dirti, il

rifacimento della cucina: gara europea… mi sono attenuto… Di fronte ad altri

interventi, che se vuoi potevano rientrare in una loro certa dimensione complessiva,

ho cercato di capire qual era il modo migliore di operare dell’ente, per cui senza

frazionare in maniera artefatta – ma qualcuno potrebbe interpretarla così – ho

distinto progetti di minima che ci consentissero di poter operare, perché tu potevi

farlo attraverso l’albo delle ditte che ti eri formato, scegliendone 5, perché l’importo

fino a 500 mila euro te lo consente, però uno poteva anche dirti: “Se l’intervento

complessivo è di un milione e mezzo, lo fai per lotti… fai una gara unica”. Su

questo, per dirti ho bypassato, non per eludere ma per meglio corrispondere rispetto

a quella che era l’esigenza del risultato… la norma bisogna interpretarla rispetto al

risultato… non violarla, ma interpretarla rispetto al risultato, questo sì» (3:63).

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Un nodo problematico sta anche nel fatto che le norme sono molte e a volte in contrasto

fra di loro: per rispettarne una si rischia di venir meno ad un’altra. E quindi al manager si

pone la necessità di operare delle scelte, su cui pesa ovviamente anche il suo sistema

valoriale di riferimento.

«In effetti io ho cercato sempre di essere rispettoso – e tuttora lo sono – della

norma, ma credo che la norma è cogente anche se non deve essere impediente, cioè

non puoi… per dirti, io non ho mai vissuto come orpello o come vincolo negativo

aspetti che derivavano dalla norma come il blocco delle assunzioni. Io non mi sono

mai posto il problema. Perché attraverso l’interpretazione corretta, anche se un po’

ardita, io ho sempre detto che il rispettare gli standard regionali non può porti il

vincolo della norma, per cui tu devi assicurarli e quindi non ci sono patti di stabilità

o elementi che possono in maniera coercitiva farti venir meno… ecco, su questo

non mi sono mai posto il problema, nel senso che la scelta dell’operare doveva

essere al di sopra di qualsiasi altra considerazione. Dopodiché, rispetto a questo, è

anche vero che a volte ho cercato di bypassare le norme» (3:61).

Ci possono essere delle occasioni in cui questo sistema di riferimento impone di prendere

decisioni anche difficili, di aperta disubbidienza alla norma.

«Cioè, in momenti in cui venivano richiesti determinati adempimenti che erano

evidentemente sciocchi, io ho fatto anche delle azioni di disubbidienza civile, per

così dire, e mi sono autodenunciata, facendo però anche notare la stupidità del tutto.

Non mi hanno mai beccato, però uno si prende la responsabilità. […] Diciamo

comunque che l’etica per me prevale sulla legge» (1:61).

Comunque sia, la via della disubbidienza è particolarmente problematica per chi ha scelto

di fare il dirigente in una Pubblica Amministrazione e quindi, per coerenza, è obbligato a

rimanere all’interno delle “regole del gioco”, date dalle disposizioni normative

prescrittive.

«Ci sono delle norme ingiuste... ci sono ci sono delle norme che sono

incomprensibili rispetto a quello che potrebbe essere il pensiero comune o quello

che è il buon senso comune delle cose. Delle norme o delle disposizioni o delle

decisioni e quant’altro, ma nel momento in cui sei entrato nella logica della norma

devi accettarla e raramente io mi trovo a dire: “Va bene la norma non è giusta, noi

facciamo il contrario, perché…”. Cioè nel mio ruolo di direttore posso dire fino a

domani “Questa è una stupidaggine”, però non è che posso fare tanti giri di parole.

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Al massimo inviterò un avvocato a studiare meglio la cosa. Cioè, voglio dire, una

struttura come la nostra – non perché è pubblica, ma perché alla fine ci sono tanti

aspetti che sono normati – ci obbliga ad accettare le norme, ci obbliga a seguirle, ci

obbliga ad essere ubbidienti… ecco, la parola ubbidiente è una parola che si usava

una volta… ubbidienti… è chiaro che a volte capita che ci siano situazioni

paradossali, però com’è che le affrontiamo queste situazioni paradossali? Le

affrontiamo usando gli stessi strumenti, ovvero le norme. Faccio un esempio, così

forse è più chiaro quello che sto dicendo. Noi qui abbiamo una coppia di persone,

marito e moglie... bene, questa coppia entra qua dentro finché qua dentro riescono a

vendere la loro casa, casa intestata a uno dei due coniugi. Succede che questo

coniuge titolare di questo bene sta beneficiando dell’intero valore di questo bene e

l’altro coniuge si trova nella condizione di non avere niente da questa vendita, da

questa operazione, e si trova nella condizione di dover denunciare il marito per una

decisione strana – a dir poco strana – del giudice rispetto alla situazione. Alla fine

noi abbiamo invitato uno dei due coniugi a fare un’azione legale contro l’altro

coniuge per avere quello che gli spetta. Allora non è che noi abbiamo detto a questo

punto: "Ma sì, facciamo finta di niente e tu gli passi metà o altre cose”. No,

abbiamo detto: “Visto che il giudice si è già mosso, dobbiamo usare gli stessi

strumenti”. Ci siamo messi le mani sui capelli, abbiamo sorriso per non piangere

rispetto a una situazione che troviamo illogica, però si usano gli stessi strumenti…

le regole del gioco… sì, perfetto, le regole del gioco... E noi non possiamo andare

tanto fuori dalle regole del gioco. Noi non possiamo uscire dalle regole. Da questo

punto di vista un dirigente, non può inventarsi delle cose, almeno al giorno d’oggi,

non è possibile, non è possibile. Ci sono delle cose che sono delle contraddizioni,

dei nonsenso, però non possiamo neanche inventarcele» (10:24).

Dura lex, sed lex. Talvolta può capitare che sia il manager ad incappare nei rigori del

diritto e a dover accettare quella che viene vissuta, amaramente, come un’ingiustizia della

legge o del sistema giurisdizionale che la deve applicare.

«Qualche volta abbiamo avuto dilemmi morali quando dobbiamo decidere se

denunciare o non denunciare un qualche fatto… sono cose veramente che ti

lasciano… e poi quando tu stesso sei stato denunciato… e quindi l’accettare una

denuncia, denuncia che tu ritieni impropria e ingiusta, eppure l’accetti. Oppure un

rinvio a giudizio, che è immotivato, perché hai fatto tutto quello che era nelle tue

possibilità e previsto per legge, eppure tu hai avuto una denuncia per omicidio

colposo una volta, come ho avuto un rinvio a giudizio, che poi magari è stato

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archiviato. Cioè, anche quando ricevi queste ingiustizie ti senti, ti senti sul piano

morale impotente e ti domandi il perché di quanto è avvenuto, perché può

avvenire…» (8:61).

«Sulla legge in specifico trovi a volte ingiusto quando sei accusato… Io ho avuto

qualche denuncia come RPP, cioè come responsabile della sicurezza… “Ma lei non

le ha insegnato che non si toglie… ? Cioè, lei doveva, come datore di lavoro, come

responsabile della sicurezza, informare l’operatrice che il cestino della lavapiatti

non si toglie mai…”. “Ecco, io so che a casa mia non lo tolgo mai” […]. “Ma, sa,

lei comunque non lo ha insegnato…”. Questo è bastato per… Se poi vedevi il caso

in specie, che era un piano di lavoro alto un metro e dieci, regolamentare, lavapiatti

regolamentare, bastava mettere i piatti all’interno della lavapiatti e lei ha spostato il

cestello e si è fatta male alla schiena… Ecco, questa è stata una delle cose che

veramente mi ha profondamente offeso come persona e mi ha offeso anche

l’applicazione della norma di legge, nel senso non c’era, insomma… “Lei non le ha

insegnato questo…” […]. Lì ho sbottato, perché mi pare che sia una cosa… Queste

sono le cose assurde, ma questa è più insomma, è più l’applicazione della legge… la

famosa battuta: “Non basta aver ragione, ma bisogna trovare qualcuno che te la

dia”» (8:46).

Nel corso delle interviste sono emerse anche alcune questioni di bioetica che, sebbene

non rientranti nell’oggetto specifico della mia indagine, ritengo di inserire, non solo per

“dovere di cronaca”, a conclusione di questo paragrafo, ma perché interpellano con una

certa frequenza le figure dirigenziali Ipab.

Va detto che l’interesse per queste tematiche è riconducibile solo ad una parte degli

intervistati; si tratta in particolare dei manager che aderiscono all’Ansdipp.

L’associazione, come è già stato accennato, si è impegnata molto in questo ambito e ha

promosso dei percorsi formativi proprio su tale argomento, corrispondendo in questo ad

un precisa visione del ruolo e delle competenze che dovrebbe avere il manager sociale.

Uno dei temi emersi nelle interviste è quello dell’accanimento nutrizionale, problematica

che negli anni passati aveva attratto l’attenzione anche della cronaca a livello nazionale e

internazionale.

«Il dilemma etico per antonomasia in questo momento è quello dell’accanimento

nutrizionale, perché anche qua si sono passate varie fasi: da un momento in cui

veniva messo “a nastro” il sondino e la PEG e ci si trovava con una serie di persone

anziane in nutrizione artificiale […]. E allora diciamo che è il dilemma etico più

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importante, perché poi con la contenzione ce la siamo anche cavata bene, in un

certo senso… Con la nutrizione artificiale si vanno a toccare anche degli interessi

forti, non so anche quelli dei medici. Perché l’ospite va in ospedale e poi torna con

il sondino senza che si sia fatta una valutazione a 360 gradi di quelli che possono

essere i benefici o i malefici o l’aspettativa di vita o la qualità di vita della persona.

Appunto da questo […] è nata la necessità di non accettarle e quindi noi abbiamo

fatto un percorso, ci siamo messi in contatto con il comitato di bioetica della nostra

ULSS, ci siamo confrontati, abbiamo cercato di costruire delle linee guida assieme

ai nostri medici e adesso si valuta con molta più cautela il caso, in cui appunto si

presenti la situazione di dover intubare una persona. Ci sono delle cose da fare,

delle accortezze da avere e soprattutto una attenzione molto maggiore alla volontà

della persona, qualunque sia la situazione normativa che in questo momento…

Bisogna sempre cercare, come dire… non di superarla… Però, sapendo che quando

hai messo un sondino non lo togli più, prima di metterlo stai attento…» (1:46).

Collegato al tema dell’accanimento nutrizionale è un altro importante argomento toccato

nelle interviste, che è la questione del fine vita.

«Per dirti, una questione che ci stiamo ponendo in maniera forte, soprattutto

nell’ultimo anno, è quella del fine vita. Cioè parlare di benessere delle persone non

può non impegnarti anche su questo versante. E lo sto avvertendo sempre di più,

perché ho visto in questi ultimi anni come ci possa essere il rischio da una parte del

cosiddetto accanimento terapeutico e dall’altra del voler comunque essere pronti a

dar risposte, quando magari risposte non ci sono. Abbiamo maturato come

associazione – ecco qua il grande pregio dell’associazione e quindi di riflesso della

mia attività – che non puoi non fare percorsi formativi anche nel campo della

bioetica e quindi anche la questione del fine vita ha un suo peso. Noi abbiamo

introdotto qui un questionario sul fine vita che in genere sottoponiamo alle persone

che vengono ad essere ospitate qui, ma anche all’hospice. Non è così semplice né da

somministrare né da gestire… però la riflessione che io sto facendo, che stiamo

facendo, è porsi il problema di quello che la persona vorrebbe per sé, come

desiderio. E quindi se valga la pena o meno di fare una peg o un sondino naso-

gastrico… Chiaro che quindi arrivi anche a scontrarti e anche alla necessità di

mediare con scelte cliniche, scelte che fa il medico, ma devono essere scelte che

devono essere assunte attraverso una condivisione, che se non è direttamente

rinvenibile con la persona interessata, quantomeno lo dev’essere attraverso un

rapporto con i familiari e attraverso un rapporto con l’equipe. Ecco, questa sì è una

scelta importante, che ho maturato e sto vivendo, perché ne avverto i limiti, perché

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siamo in un’organizzazione così pronta, preparata… però questa serie di spunti,

questa discriminante rispetto ad altri momenti mi è stata possibile anche grazie al

lavoro di approfondimento che stiamo facendo con l’associazione stessa. Su queste

questioni, da una parte ti aiuta a rimetterti in discussione come manager e dall’altra

ti aiuta a chiederti cosa tu stesso vorresti per te» (3:46).

Si tratta di tematiche particolarmente attuali e importanti, che il manager sociale deve

affrontare, riconoscendovi dentro una parte di responsabilità professionale propria, ma

anche mettendosi necessariamente in dialogo con le altre figure professionali, perché in

questo ambito, più che in altri, vale molto, oltre alla capacità riflessiva del singolo, il

confronto sociale, per costruire saperi e significati condivisi.

«Poi possono esserci altri aspetti all’interno dell’ente di dilemmi etici sul piano

terapeutico a favore dell’ospite, che ho incontrato partecipando come componente

dell’Unità Operativa Interna. Però lì ho avuto la fortuna di trovare una certa

sintonia. Parlando ad esempio di bioetica, come accompagnare il morente, sono

stato fortunato a non dovermi mai scontrare con medici eccessivamente

interventisti, che sarebbe stata per me la cosa peggiore. Si è sempre cercato di

garantire, e questo perché ho avuto la fortuna di lavorare sempre con geriatri, non

solo come medico coordinatore ma come medici di struttura, e quindi di evitare

sofferenze, e quindi di accompagnare verso la fine, e quindi di evitare accanimenti

terapeutici, sempre condividendo con la famiglia. Devo dire che altri colleghi non

sono stati così fortunati, perché si sono trovati a scontri proprio con il personale

medico» (6:13).

10.3 L’etica professionale, il sé morale e la questione del senso

Mi avvio verso la conclusione del “racconto” di quanto si è andato a generare nel corso

della ricerca sul campo, tracciando un quadro di sintesi rispetto all’etica professionale del

direttore dell’Ipab. Un’etica che risulterebbe non avere una sua propria codificazione,

come neppure una sua strutturazione unitaria, componendosi – come una sorta di puzzle –

di diversi elementi.

In questo disegno, molto spazio occupa la componente dell’etica dell’ente pubblico, della

Pubblica Amministrazione, a sua volta assai composita, con le sue norme e i suoi

principi, a cui molto il nostro direttore si richiama.

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«Diciamo che non esiste una codificazione della professione del direttore, del

dirigente sociale, diciamo che la linea etica, il rispetto della deontologia sta proprio

nell’interpretare assieme, nell’unire assieme determinati principi» (7:17).

«Devo dirle che esiste un mix, una mescolanza, una ….commistione… è brutto da

dire, ma insomma… una sintesi, ecco, una sintesi fra le varie anime, fra le necessità,

fra l’etica del pubblico ufficiale, dell’impiegato pubblico e quella del direttore di

una istituzione pubblica che ha dei fini ben precisi» (7:22).

Un’altra porzione del puzzle è composta da quella che definirei l’etica del servizio, che

deriva dall’essere, il nostro manager, inserito in una struttura che eroga servizi alla

persona e alla persona fragile e bisognosa.

«Cos’altro mi guida nel mio lavoro? Il concetto del servizio e non la logica del

potere, cioè avere sempre ben chiaro che siamo qui per essere a servizio e cioè

siamo qui per essere utili. […] Siamo qui per essere al servizio, siamo qui per essere

utili e non per esercitare logiche di potere o per soddisfare i nostri bisogni, ma per

fare ciò che serve. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che se serve che io sia qua alle

nove di sera, perché i consigli di amministrazione si possono fare solo alle nove di

sera per “X” ragioni, se è questo quello che serve, questo è quello che si fa. […] Il

che però non vuol dire che devo annullare tutta la mia vita e che devo essere qua a

disposizione come un Cristo in croce… non è questo il concetto, ma che sono io che

sono al servizio della struttura, non che la struttura riempie i miei vuoti e i miei

buchi… […] Quello che si fa dev’essere utile. Se non è utile, non si fa… se non

serve a niente, non si fa» (5:11).

Ed infine c’è una dimensione legata alla cultura manageriale, l’etica del management, che

è fortemente orientata all’azione, al cambiamento. In base a questa etica, il manager è

spinto al miglioramento continuo dell’organizzazione e di se stesso, attraverso anche lo

sviluppo di capacità riflessive. Per cambiare egli deve infatti riuscire innanzitutto a

fermarsi e pensare, ponendosi domande di senso, del tipo: “Che cosa significa fare bene il

proprio mestiere? Bene, perché? Bene, per chi? Bene, rispetto a cosa? Bene, come?”.

«Anche i primissimi direttori della Xxxxxxx facevano bene il loro mestiere, anche

quelli che hanno creato danni a persone e a cose, molto probabilmente – anzi, quasi

certamente – senza rendersi conto di quello che facevano. Facevano bene il loro

mestiere? Sì, portavano a casa dei dividendi, portavano a casa dei bilanci in utile,

espandevano la propria attività… Però contemporaneamente inquinavano il mondo,

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creavano problemi di salute ai propri lavoratori…Quindi far bene il proprio mestiere

è qualche cosa di più ampio del riconoscimento formale di questa capacità e delle

manifestazioni pratiche di questa cosa… Diciamo, forse, è far bene il proprio

mestiere secondo i propri convincimenti, la propria etica…» (7:43).

Nel confronto con gli intervistati si è andata anche a “coagulare” l’idea di un’etica

professionale che non si può reggere da sola, ma che trova sostegno e nutrimento nella

dimensione etica personale.

Anzi, più ancora che dall’etica della persona, il sostegno e il nutrimento sono dati

dall’identità stessa della persona.

«I direttori, i dirigenti, i capi ufficio, chiunque… è prima di tutto una persona e i

valori personali si sovrappongono a quelli dell’attività, del lavoro, ai valori

professionali» (7:45).

«Allora, non ci può essere una deontologia professionale staccata dalla tua

formazione morale, io parlo di morale che è, per me, cosa molto più profonda di

etica… non può esserci una deontologia professionale che si stacca dalla tua

personalità. La tua deontologia professionale la fai vivere o meglio la sostanzi nel

tuo essere persona, che è alla base del tuo operato prima ancora di essere un

professionista, questo è il grande, è il grande punto…» (8:55).

Il discorso si sposta, quindi, dal pensiero morale alla persona che pensa questo pensiero,

al sé morale. È la persona, con la sua identità, con la sua storia, che dà unità a questo

insieme di elementi, a questi importanti frammenti che compongono il discorso etico.

L’etica trova un senso ed uno sviluppo in quello che sei stato e sei.

«Io poi sono uno di quelli che non ho abbandonato il paese di origine dove vado

tutte le sere a dormire, nel quale tutti i giorni comunque mi confronto e poi quando

torno nel paese dove abito non sono il “direttore”, ma sono XXX YYY, ecco. Molti

mi chiamano professore, addirittura, per dire qual è il rapporto. Quando arrivi a

casa, l’ambito del direttore lo lasci e ti confronti con la tua realtà di tutti i giorni, coi

vicini di quartiere che quindi conosci da 40 anni, col tuo amico di scuola

elementare, che quando ti trova ti dà del lei e gli dici: “Ma monega, dammi del ti”.

E lui dice: “Ma no, hai fatto strada…”. Tutte le cose prendono forse la giusta

dimensione. Allora, io ho detto questo, perché? Perché il tuo vissuto antropologico

di origine e di base e quotidiano ti dà la dimensione di chi sei e di che persona sei e

dei valori nei quali tu ti immergi e ti rifletti ogni giorno» (8:55).

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Ma l’etica trova linfa anche e soprattutto in quella che è l’idea di sé, cioè in quello che

vuoi essere, in quello che vuoi diventare. Un’idea di sé che è diventata anch’essa adulta e

che quindi si misura con l’analisi di realtà, con la consapevolezza del limite, ma che

rimane comunque un motore importante per il cambiamento.

Essere realmente se stessi significa anche sviluppare una coscienza critica nei confronti

dei modelli culturali imperanti nel nostro stesso tempo storico, i quali possono agire un

condizionamento sul nostro modo di essere.

«Io ho sempre avuto la convinzione non che dovevo cambiare il mondo, ma che

dovevo lasciare il mio segno. Di lasciare un segno, fare la mia piccola parte per

cambiare il mondo. Cresciamo, abbiamo questa grande idealità, quando sei

adolescente, di dire: “Io cambierò il mondo… quando sarò grande io…”. E poi ti

scontri con la realtà e ti ritrovi che questi grandi ideali poi tradotti nella

concretezza…» (5:69).

«Diciamo che un direttore, per quella che è la mia esperienza, si trova a fare una

serie di ragionamenti nella sua testa, rispetto a problematiche etiche che gli derivano

da modalità di pensiero o di visione della vita e del mondo che ci sono nella

società… Io ho lavorato sempre nell’ambito anziani, quindi, se nostro modello

culturale è quello di essere Xxxxxx, “figo” e bello fino a ottant’anni, che si fa i

lifting… è chiaro che il mio pensiero non sarà quello di dire: “Ma io quando sarò

vecchio vorrei che ci fosse qualcuno che mi garantisse alcune cose e che soprattutto

potesse anche recepire tutta una serie di aspetti positivi della mia esperienza di vita

o comunque di quello che io posso ancora dare”. Perché sono funzionale alla società

solo finché funziono io e quindi lavoro, prendo molti soldi e quant’altro…» (4:23).

Essere se stessi significa anche superare se stessi, riuscire a trascendere la datità della

propria storia, dell’ambiente da cui si proviene. Quello che dovrebbe fare il manager per

svolgere bene il suo lavoro è travalicare i confini della sua storia personale o almeno

riuscire a guardare un po’ oltre.

Il monito socratico “Conosci te stesso”, che è alla base di qualsiasi discorso etico, va

quindi inteso non semplicemente come invito a conoscere chi siamo ora, ma anche chi

potremmo essere, chi vogliamo diventare, a chi desideriamo assomigliare. Noi siamo,

infatti, anche i nostri progetti, i nostri ideali e i nostri sogni.

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L’agire morale non corrisponde ad un ossequio alle norme della società, ma è la risposta

all’istanza di essere fedeli a se stessi, di non tradire se stessi. Una risposta che esige

impegno e dedizione.

«Io sono uno di quelli che conosce quanto costa un litro di latte e un chilo di pane.

Io so come vive la gente che prende 1.100 euro al mese e so come vive la gente che

prende 10 o 20 o 30.000 euro al mese, perché frequento anche questi ambienti.

Però, sia nel primo caso che nel secondo, non si può essere bloccati in quella

dimensione e basta, perché sei bloccato… non puoi pensare di vivere solo quella

dimensione, ma devi saper cogliere come dicevo prima, quello che effettivamente la

comunità ti chiede. E allora, deontologicamente, puoi agire quelle iniziative, quegli

atteggiamenti, quei comportamenti, quelle sensibilità, che ti permettono – mettendo

insieme queste varie componenti – di dare una risposta al tuo essere direttore, al tuo

essere manager in questa struttura…» (8:55).

«Il fatto di credere a quello che stai facendo e soprattutto una forte motivazione.

Che sono i valori che ti ritrovi a vivere all’interno del tuo percorso di vita. Per cui

non puoi pensare di poter venire meno, credo, rispetto a questi valori che ti guidano.

Una grande passione che ti fa andare oltre alla questione del tempo, dei limiti che

potresti ritrovare…» (3:24).

Questo sé morale ci viene in qualche misura dato.

In questo chiaramente confluiscono gli apporti formativi: gli incontri fatti, le esperienze

vissute, gli insegnamenti ricevuti. Un ruolo importante nella formazione di questo sé è

svolto, ad esempio, dalla religione o comunque dall’educazione ad una dimensione

spirituale dell’esistenza umana.

«… a me viene naturale, tra l’altro, non è che devo sforzarmi, perché io sono fatto

così, quindi non è che…» (11:31).

«È la storia della mia vita… sono sempre stato impegnato sul versante sociale ed

interessato marginalmente all’aspetto economico, all’aspetto economico personale,

intendo dire…» (12:12).

«Mah io vengo dal mondo cattolico… io vengo dall’azione cattolica, perché sono

stato poi a suo tempo – ero ancora molto giovane – vicepresidente diocesano, già

quando avevo 27 anni. Quindi io vengo da quel mondo, dal mondo dell’azione

cattolica, dal mondo cattolico. Sono cattolico tuttora praticante. lo dico sempre

anche qua dentro, il mio impegno è quello di servire la persona in stato di difficoltà

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di poterle dare il massimo, quanto è possibile dare con i mezzi che abbiamo a

disposizione. Direi che il mio impegno, la mia motivazione, sono motivazioni della

formazione culturale insomma ecco, del mondo cattolico…» (8:7).

Il sé morale viene anche in qualche misura costruito, nel corso della propria vita,

attraverso l’iniziativa personale, l’impegno a coltivare, ad alimentare questo sé.

È la vita stessa che ti insegna a vivere, che ti offre lezioni importanti – se le sai cogliere –

non solo per imparare come fare il manager, ma anche per acquisire umanità, per sapere

ad esempio come porsi di fronte alla sofferenza e al dolore degli altri.

«Ah, sì, io ho una deformazione genetica di mio su questo, nel senso che l’ambito

sociale è da sempre stato il mio interesse, a prescindere dal lavoro. Fuori dal lavoro

continuo diciamo a impegnarmi socialmente su altre questioni che riguardano i

bambini, gli affidi. Io stesso insomma sono all’interno di processi di questo tipo… E

quindi c’è un elemento insomma, dico genetico, ma in realtà non è propriamente

genetico, ma insomma questo è il mio elemento. Però va alimentato e irrobustito.

Come? Attraverso le letture, io l’ultima lettura che sto facendo… [mostra un libro

che tiene nel cassetto: Il Manager Etico]» (12:6).

«Noi abbiamo 160 persone che muoiono ogni anno qui da noi. Il tema della morte è

un tema forse, anche da un punto di vista etico… che pone una serie di questioni. Ti

pone interrogativi sulla vita, sul senso delle cose… e devo dire che da questo punto

di vista ho partecipato direttamente a processi di formazione che hanno contribuito

a cambiarmi come persona, cioè ad aggiungere competenze etiche. Una volta

dicevo: “Muore una persona e non telefono per non disturbare”. Era solo una difesa

mia. Oggi muore una persona vicina, diciamo, e telefono immediatamente. Ma

questo è determinato da un percorso che fai. Quindi, mi viene da pensare che alcune

combinazioni nella nostra crescita ci abbiano portati a interiorizzare valori ed etica,

assumendoli dai contesti che abbiamo frequentato in giovane età. Però poi la

coltivi… e la coltivi leggendo, approfondendo, sperimentando, vivendo, mettendoti

in gioco, insomma…» (12:8).

Ci sono situazioni che più di altre ti sollecitano a metterti in gioco. Ci sono eventi che ti

interpellano prepotentemente, ti inducono a porti degli interrogativi. Interrogativi che

riguardano a volte il senso della vita: questioni di senso ineludibili.

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La postura etica consiste proprio nel porsi domande di senso, chiedersi cosa ci stia dietro

il nostro fare, a cosa debba tendere il nostro agire. Ci invita ad alzare lo sguardo da ciò

che è l’operatività, per rammentarci di ciò che ci motiva ad agire.

«… è importante questo, soprattutto quando ti ritrovi di fronte a questioni che

riguardano persone che stanno morendo. Non bisogna scordare d’altro canto il

destino che ciascuno di noi ha e quindi dovrebbe coinvolgerlo anche rispetto a se

stesso. Ma non tanto per essere macabri, quanto piuttosto per dire: “Cosa sto

facendo della mia vita?”» (3:48).

«Per me il tema dei principi e dei valori è un tema irrinunciabile, irrinunciabile. E

l’etica, di conseguenza, è un tema irrinunciabile, cioè vitale. Quando andiamo a

parlare alle conferenze, ma anche alle riunioni, veleggia sempre l’ideale, veleggia

sempre il principio. Io non finisco mai una riunione se non ricordo a me stesso e

agli altri perché siamo lì, cosa ci stiamo a fare… e qual è il nostro scopo» (12:14).

«Ecco, alle volte dico: “Ma dove sto andando? Ma la mia qualità della vita, dove

va? Che relazioni instauro?” » (12:28).

La questione del senso non deve rimanere un discorso astratto, come se stessimo parlando

dei massimi sistemi, ma deve interpellarci su ciò che quotidianamente facciamo e del

perché lo facciamo. Ad esempio, il senso del lavoro che svolgiamo.

«È un domandone! Qual è il senso? Mi piacerebbe essere come quei personaggi che

se ne escono con la frase del secolo… Provo a dire una cosa che mi viene in

mente… Io ho una convinzione, che io troverei il senso profondo anche se andassi a

pulire scale. Nel senso che mi convincerei del fatto che potrei migliorare la vita

delle persone che passano di là, perché scale pulite e profumate dicono “Ah, la

giornata inizia meglio”» (5:69).

Credo indispensabile, per comprendere l’etica professionale dei manager sociali, tentare

di “inquadrare” la questione del senso, cercando di riflettere sulle finalità profonde di

questa professione. Del resto, un’etica che descrivesse e prescrivesse che cosa deve fare

un buon manager per essere tale, senza però spiegarne il perché, mi sembrerebbe in

qualche modo incompleta.

Il discorso sul senso dovrebbe cercare di illuminare questo aspetto, chiarendo i perché, e

quindi facendoci capire “chi o cosa ce lo fa fare” a comportarci in un certo modo, anche

se è più difficile, anche se è meno remunerativo.

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Il senso del lavoro del manager di istituti come le Ipab è soprattutto quello di essere utili,

di creare utilità sociale, di rispondere ai bisogni delle persone anziane in difficoltà.

«Credo che il senso per me è sentire che sto dando il mio piccolo contributo perché

il mondo cambi, perché il mondo migliori, perché nel mondo si realizzino quei

valori di giustizia di cui ho detto all’inizio. E in questo ruolo ho la possibilità di

farlo» (5:69).

«Il senso… una domanda… Mah, ti posso dire che comunque io personalmente…

ma penso tutti quelli che lavorano in questo ambito, si rendono conto di dare molto

di più, proprio perché la loro azione è finalizzata non tanto ad un business, ma ad

una valenza sociale» (6:43).

L’utilità del lavoro del manager sta poi nel far scoprire anche ai collaboratori l’utilità del

loro servizio, nel promuovere anche in loro la ricerca del senso.

«Parlando dei servizi io dico sempre ai miei collaboratori, quando ci troviamo nelle

riunioni: “Ricordiamoci che al centro del nostro lavoro c’è l’ospite; se noi riusciamo

a farlo stare bene, un po’ meglio di come stava prima, noi abbiamo ottenuto un

risultato”. Io sono, non lo dico tanto per dire, io son convinta che il lavoro sia di

base sostanzialmente questo…» (2:30).

Il manager si sente utile perché offre ai propri collaboratori occasioni di crescita, non

soltanto professionale, ma anche umana.

Si sente utile perché contribuisce a migliorare gli ambienti organizzativi in cui è chiamato

ad operare.

Utile perché contribuisce anche a modificare la percezione negativa che spesso

accompagna, nell’immaginario collettivo, queste istituzioni assistenziali.

«Il senso profondo di questo lavoro è il fare qualcosa per gli altri e il dare messaggi

positivi in termini di rispetto della persona, che possano far crescere gli operatori,

non solo in ambito organizzativo, ma anche nell’ambito umano. Cioè quando io

vedo, ad esempio, che all’interno di un gruppo di lavoro migliora il clima

organizzativo, ma migliora anche la percezione di dove vogliamo andare insieme,

per dare qualità alle persone anziane che sono qui dentro, questo secondo me è un

valore etico… il fatto di aver saputo trasmettere qualche cosa a cui io credo… ed

essere riuscita a farla “passare” ad altre persone» (4:29).

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«Mi piace pensarmi come strumento che produce relazioni positive, che permette la

creazione di relazioni positive» (12:28).

«Eh... io sarei contento se alla fine dicessero che il mio lavoro ha contribuito a

rendere più interessante, più appetibile, più riconoscibile, più bella l’immagine,

l’idea che si ha di una casa di riposo. Cioè farla “passare”, eh. Far sì che questa

struttura, ma la struttura in generale della casa di riposo, come dire, riuscisse a fare

un passo in avanti nell’immaginario delle persone. Perché? Perché sono convinto

che noi come direttori, come responsabili, dobbiamo lavorare anche su sul

contenitore, dobbiamo far sì che la persona pensi in termini positivi e non riduttivi

alla casa di riposo» (10:27).

Il senso del lavoro del manager sta anche nel piacere di lavorare, nella gratificazione che

egli ricava dal fare ciò che fa.

«Mah, guarda, il senso del lavoro io penso che in primo luogo è che lo fai,

nonostante tutto. Nonostante le difficoltà che comunque incontri in questo lavoro.

Perché all’inizio sembra tutto bello, no? Dopo si capiscono le responsabilità che ti

piovono addosso col tempo. Comunque il senso del lavoro è che a tutt’oggi piace, ti

gratifica, quindi è un lavoro che ti dà ancora soddisfazioni…» (11:68).

Il piacere del lavoro, così come il senso, va però ricercato, non si rivela immediatamente.

«Si, bisogna anche un po’ trovarselo, perché se dopo uno pensa magari solo ai

problemi, con tutte le cose, coi sindacati, col Consiglio di Amministrazione, dove

magari devi mediare o ti tocca subire certe cose… Cioè, hai tanti momenti di stress,

no? […] Quindi hai tante situazioni in cui… che se vai a casa solo con quelle, non

lo fai ’sto lavoro. Cioè, è una cosa un po’ da kamikaze, farlo, se uno vede solo

questo. Se dopo invece trova soddisfazione, perché il tuo lavoro comunque si

tramuta in benessere di vita di qualcun altro, perché comunque hai creato delle

condizioni organizzative in cui l’ospite sta meglio, senti anche la gratificazione di

questo lavoro. Se apro un reparto e vedo la gente che ha più comfort di prima…

Ecco, quelle sono soddisfazioni… Se vedi che il personale è contento…» (11:68).

Il piacere del lavoro del direttore sta nella possibilità di realizzare qualcosa, in cui egli si

può riconoscere e che può essere anche riconosciuto dagli altri. Un’opportunità che non

tutte le professioni offrono e di cui egli sembra essere piacevolmente consapevole.

«Difatti, qualcuno, tipo mia moglie, mi dice: “Vedi, nel rapporto che abbiamo

ciascuno con il proprio lavoro, tu fai comunque qualcosa che ti piace o quantomeno,

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anche non dovesse piacerti, lo vedi finalizzato. Io, viceversa, sto facendo un lavoro

meccanico, ripetitivo, irrituale per certi aspetti, anche se è nel rito, e che non trova

riscontro in termini di soddisfazione, perché nessuno è nelle condizioni di

potermelo venire a dire”. Non ha tutti i torti, in effetti…» (3:121).

10.4 Cinque storie sul manager sociale e la sua dimensione etica

In quest’ultimo paragrafo darò particolare spazio alla narrazione degli stessi manager.

Nel corso dell’indagine ho infatti raccolto 23 episodi emblematici, cioè 23 storie – alcune

molto brevi, altre lunghe ed articolate – che raccontano delle vicende di cui i manager

intervistati sono stati protagonisti sociali. Di questi racconti ritengo opportuno riportarne

alcuni tra i più significativi, quelli cioè che più inquadrano la figura del manager sociale,

la sua dimensione etica e il processo di apprendimento esperienziale.

In queste storie si potranno riconoscere molti dei riferimenti che ho cercato di

rappresentare, in modo il più possibile organico, nelle pagine che precedono.

Il primo racconto affronta il tema della contenzione farmacologica e del conflitto che a

volte si può ingenerare, all’interno della stessa struttura, tra due approcci che hanno

dietro di sé non solamente valutazioni di tipo clinico, ma delle impostazioni etiche e

anche delle concezioni della persona contrapposte.

«Una situazione che aveva dei risvolti etici e che mi è girata dentro in termini

emotivi per lungo tempo è stato il fatto che un medico di base, che operava

all’interno della struttura dove lavoravo prima, ha legato una persona

autosufficiente. Le spiego bene. Questa persona era praticamente valutata un

“profilo uno”, quindi completamente autosufficiente, ma con una diagnosi

psichiatrica, che lui praticamente s’è portato dietro per tutta la sua vita. Un soggetto

molto complesso, nella sua unicità, e caratterialmente molto particolare, che era

entrato in casa di riposo con la moglie; li abbiamo accolti tutti e due. Lei un

“Alzheimer conclamato”, lui una persona autosufficiente… Molto credente… L’ho

visto assistere ad alcune messe sempre in ginocchio sul pavimento di marmo…

Lettore della Bibbia e del Vangelo, il quale ovviamente all’ingresso in struttura ha

iniziato a portare tutta una serie di sue problematiche, rispetto alla vita comunitaria.

Ad esempio: “Io non voglio che un maschio vada a cambiare mia moglie; non

voglio che un maschio vada in bagno con mia moglie; sono solo io che posso

toccare mia moglie; devo vedere quando le fate il bagno…”. Nel momento in cui

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l’equipe cercava di mediare rispetto al fatto che purtroppo delle notti c’era anche

l’operatore maschio, perché in altro modo non si poteva fare, lui aveva delle crisi di

ansia, si buttava per terra, iniziava ad avere la bava alla bocca, si metteva ad

urlare… una volta ha dato una bastonata ad un’infermiera… ma erano crisi che noi

abbiamo valutato, insieme ai medici… legate a questa patologia psichiatrica, però

che venivano scatenate da fattori esterni, che lui non riusciva a controllare. Per cui

la modalità comportamentale che c’eravamo dati era quella intanto di lasciarlo là

che si sbollisse e poi gli dicevamo: “Guardi che se lei non sta bene chiamiamo il

118 e la portiamo in ospedale”. Perché lui aveva avuto diversi infarti… Quando gli

dicevamo “Chiamiamo il 118”, lui s’alzava e ci diceva che stava meglio. Nel

momento in cui è cambiato il medico; il nuovo che è subentrato ha avuto un

approccio completamente diverso rispetto alla gestione delle sue problematiche; ha

cominciato a sedarlo fino a quanto lui, da persona autosufficiente, si è visto ridotto

in carrozzina con la bocca a penzoloni, la cintura di contenzione… Alle nostre

richieste di non contenerlo, perché comunque non era una persona aggressiva, la

dottoressa ha prescritto anche la cintura a letto e le spondine a letto, cosa per la

quale io nutro profondo terrore, nonché repulsione, perché provo a pensare a cosa

potrebbe succedere a me se qualcuno mi legasse a letto, senza avere libertà di

muovermi. Una sera, siccome lui aveva il cellulare, ha chiamato suo figlio di notte e

ha detto a suo figlio: “Guarda qua cosa mi hanno fatto, mi hanno legato come un

salame, mi sento un prigioniero, che non può neanche essere considerato come

persona, che può dire che cosa vuole per se stessa”. Ovviamente i figli alla mattina

sono venuti, volevano chiamare i carabinieri… il medico: irremovibile rispetto al

fatto che questa persona è psichiatrica e quindi va sedata e va contenuta… e questa

cosa mi ha veramente toccata dentro, perché come direttore mi sono sentita

impotente a fare in modo che a questa persona non toccasse questa violenza –

chiamiamola violenza – psicologica e fisica. Rispetto a questo poi è stata attivata

una visita psichiatrica che ha confermato che lui non doveva essere legato, ma

nonostante questo il medico si è rifiutato di togliere la prescrizione della

contenzione e lì io mi sono sentita impotente per il fatto di non riuscire a garantire

qualcosa di diverso a quel povero cristiano. Fino a quando non ho suggerito ai

familiari di fargli cambiare medico. È arrivato un altro medico, che ha tolto sia la

sedazione che tutte le cinture che aveva e lui, pian pianino, ha ricominciato a vivere

in una forma più decente rispetto a quello che è successo prima, a come l’avevano

ridotto prima. Per cui questa cosa mi ha molto segnato in maniera individuale,

perché ho pensato a come potevano essersi sentiti i familiari: oggi vieni a trovare

tuo papà e lo trovi che cammina, legge il suo Vangelo e dopo cinque giorni vieni

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qua e lo trovi che ha la cintura di contenzione in carrozzina, ha la testa sbilenca, la

bava alla bocca, la bocca storta, imbottito da farmaci e psicofarmaci e dire: “Ma

qua, cosa stanno a fare questi?”. E poi pensare alla reazione che avrei avuto io se

fosse successo a mio padre… e poi pensare a lui, come persona, a mettermi nei

panni suoi, di questo signore che si chiama E. e dire: “Ma sono venuto qua… ma

sono loro i pazzi, non io psichiatrico…» (4:30).

Questo racconto credo metta bene in luce un meccanismo fondamentale per l’agire etico,

che è quello di “mettersi nei panni”, di provare empatia – nei confronti di Ettore e dei

suoi familiari – ma anche il concetto di responsabilità e di potere. La protagonista di

questa storia sente di essere, come direttore della struttura, la responsabile del benessere

degli ospiti, ma avverte anche il senso di impotenza, perché non sa come fare, fino a

quando non trova con i familiari una via d’uscita.

Anche la seconda storia parla della responsabilità del manager; la responsabilità che egli

ha di farsi carico dei problemi, di agire, di cambiare lo stato delle cose, sapendosi anche

mettere in relazione con gli altri in modo positivo.

«C’era al Centro Diurno un volontario, una persona che collabora con

l’associazione, che ci fa il trasporto, che non si comportava bene, aveva l’abitudine

di essere molto, molto sgradevole con i dipendenti. Li apostrofava, dava ordini: “Tu

vieni qua, porta quello, fai quell’altro, fai così, non avete voglia di lavorare, non

avete nessuna voglia, tocca sempre a me, voi non fate niente…”. Insomma

veramente molto, molto sgradevole e poi aveva addirittura episodi di aggressività

qualche volta con gli ospiti finché guidava: “Dai Mario, sbrigati, sali, smettila, zitti,

mi state infastidendo…”. Un paio d’anni fa, io ero qui da poco, perché sono tre anni

e mezzo solo che sono qua. Ero qui da poco e mi è stata raccontata questa cosa.

Allora io ho detto alle ragazze: “Me la scrivete, me la scrivete e mi circostanziate un

episodio. Accade una cosa e voi me la segnalate”. La prima cosa che loro mi hanno

detto: “È una situazione che va avanti da molti anni, dottoressa… anche chi c’era

prima, il precedente dirigente, aveva detto che avrebbe fatto, ma non è mai

cambiato niente, perché questo signore fa parte di questa associazione…”. Erano

diciamo sicure che non sarebbe cambiato niente. “Vabbé, me lo scrivete e poi

vediamo…”. Questo volontario non c’è più, perché era assolutamente inadeguato.

Ma non ho mica dovuto fare grandi cose. Ho chiamato la presidente

dell’associazione, ne abbiamo parlato un attimo. Una signora gradevolissima e ci

siamo confrontate su questo: “Ma a lei piacerebbe vivere in un ambiente così? Se

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questo signore è così nervoso, non va bene, non va bene neanche per voi, perché

effettivamente anche voi come associazione non fate una bella figura”. Ecco, io

credo che alla fine affrontare le cose in questo modo sia vincente. Che sia vincente

la chiarezza, di cui parlavo prima. Ce lo siamo detti: “È una persona importante e fa

tante ore, ho capito che fa tante ore, era bravo, faceva l’autista, ma se per fare tante

ore insulta tutti e si comporta in questo modo, forse davvero non vale la pena che

rimanga con noi…”. E alla fine è andata così. I dipendenti non se lo sono

dimenticato. Anche recentemente mi sono trovata in una situazione: “… quella

volta, dottoressa, se non ci fosse stata lei…”. Quindi, così come non ti perdonano

niente se fai… Ecco, si ricordano anche, che ti sei impegnata per risolvergli un

problema…… Come accade per tutti noi. Sì, credo che il segreto sia proprio questo,

assumersi la responsabilità di cambiare qualche cosa, di fare, pagando ovviamente

quello che è, le difficoltà di questa scelta, insomma, ecco…» (2:38).

Il terzo racconto è una storia di onestà e coraggio. Un fatto accaduto diverso tempo

addietro, ma che rappresenta per la protagonista un episodio emblematico, una vicenda

che ha segnato una sorta di imprinting fondamentale per la sua condotta morale.

«C’è una cosa che mi è capitata all’inizio della mia carriera lavorativa, il mio primo

lavoro che ho fatto. Lavoravo all’ufficio tecnico erariale, quello che era il Catasto

una volta. Son stata assunta li, avevo 19 anni… Ho iniziato a lavorare e dopo sono

andata all’ufficio volture, l’ufficio dove si fanno i passaggi… i notai portano gli atti,

no? Si fanno i passaggi di proprietà, si registrano le modifiche. Eh, è capitato una

volta, io ero lì da poco, è capitato che è venuto un signore e mi ha portato una

pratica, che era proprio una pratica di voltura… Così, me l’ha consegnata, come

sempre si faceva, perché io controllassi se era fatta bene, poi io dovevo dare la

ricevuta a mano. Quindi io l’ho aperta e dentro c’erano 10.000 lire… ed era bianca.

Io l’ho chiusa e gliel’ho data e gli ho detto: “Geometra, non è compilata la voltura”.

E lui ha detto: “Ma ha visto bene?”. Ed io ho detto: “Sì, ma non è compilata la

voltura”. E lui ha ripetuto: “Ma ha visto bene?”. Io a quel punto ho detto.

“Geometra, io non accetto, compili la voltura”. Lui mi ha risposto: “Stupida

ragazza, perché deve lasciare agli altri quello che potrebbe prendere lei? A me basta

uscire da qui e trovo 10 persone che sono disposte a farmi questa pratica e a

prendere questa mancia…”. Io ho pianto 2 giorni, avevo 19 anni… io ho pianto 2

giorni e non riuscivo a capire perché piangevo, perché… E l’ho capito tanto tempo

dopo: piangevo perché lui si era permesso di pensare che io non avrei obiettato di

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fronte alle 10.000 lire. Il mio stipendio in quel momento era di 175.000 lire, quindi

10.000 lire erano assolutamente significative… Per lui… Ecco, lui aveva dato per

scontato il fatto che io fossi comprabile, questa è una cosa che mi aveva molto

offeso ed è per quello che io piangevo, ma l’ho capito molti anni dopo e…così

come ho capito che quello è stato il momento in cui io ho fatto una precisa scelta, di

cui non mi sono mai pentita. Sono successe altre cose, anni dopo, di persone, di

situazioni insomma, di appalti, anche importanti, che hanno cercato… persone che

hanno cercato, così, di trovare un accordo, di propormi un accordo e non mi ha mai

solleticato questa cosa, mai. E ripeto, non me ne sono pentita, spero di non cambiare

indirizzo, ma insomma è un interesse che non ho, ecco. E quindi, tornando

all’esempio da diciannovenne, certo i miei colleghi lo facevano e forse non era

neanche, dal loro punto di vista, così scandaloso, nel senso che loro dicevano: “Io

gli faccio questa pratica e lui mi paga, che problema c’è?”. Ma dal mio punto di

vista, invece, lo era, perché non aveva i requisiti del rapporto di lavoro. Tu sei lì per

fare un’altra cosa, non puoi durante il tuo lavoro fare… il lavoro per un terzo e farti

anche pagare e diventare suo… suo schiavo, no? Perché poi alla fine, sei

ricattabilissimo, sotto tutti i punti di vista. Ma no, io questi ragionamenti non li ho

fatti, in quel momento non ero in grado, non avevo nessuna informazione mia,

insomma. È stato proprio un discorso a pelle, ecco, non ho voluto, quella è

un’esperienza che mi ha molto segnato… E poi il tono, no? “Stupida ragazza,

perché lasciare agli altri quello che potrebbe prendere lei? Cosa crede?”. Perché,

ecco con questa presunzione, ecco, c’era stata questa aggressività, che mi aveva

molto colpito, questa aggressività… lui aveva dato per scontato che insomma…

avrei assolutamente accettato, dritto… l’ho raccontata anche a mia figlia adesso che

comincia a crescere…» (2:25).

Durante l’ascolto di questo racconto, mi è parso di cogliere ancora una velatura di

commozione. Mi è sembrata una cosa bella. Del resto, l’agire etico ha molto a che vedere

con le emozioni e i sentimenti. L’etica ha infatti una componente “tacita”. La nostra

protagonista “sentiva” che quel comportamento era sbagliato. Le “parole” sono venute

dopo. Dopo è arrivata l’argomentazione morale, dopo è stato dato anche un nome ed una

spiegazione al dolore che aveva provato.

Anche la storia che segue parla di onestà e coraggio, ma anche di attaccamento al lavoro

e di fedeltà all’Ente.

«Invece un altro episodio che mi ha fatto crescere e maturare sotto il profilo umano

e professionale è successo una decina di anni fa. Un dirigente di questo istituto e

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anche una componente del Consiglio di Amministrazione avevano investito una

somma ingente presso un istituto bancario diverso dal Tesoriere e con alea. Poiché

gli investimenti a rischio sono vietati dalla norma, ho dovuto segnalare l’operazione

al collegio dei revisori e ad altre persone, poiché l’investimento stava causando un

danno erariale all’ente. Quando ho segnalato la cosa, l’attività di investimento non

era ancora conclusa, ma era ancora in evoluzione. Per 15 giorni sono stata

un’appestata qui dentro, non mi rivolgeva la parola nessuno, perché ho messo tutti

con le spalle al muro. C’erano ancora le lire, avevano investito 5 miliardi di

liquidità in borsa, in gestione patrimoniale fondi anziché in titoli dello Stato. Io ero

il ragioniere-capo all’epoca e ho visto subito che c’erano delle cose che non

quadravano, perché le registrazioni contabili erano gestite in maniera scorretta. A

distanza di qualche giorno cambiò il Consiglio di Amministrazione. La cosa ha

avuto un’evoluzione pesante, che è durata circa 6 mesi, fintantoché c’è stata la

relazione alla Corte dei Conti e devo dire che per più di un anno, quasi due anni,

quando mi veniva in mente quell’episodio, perché ovviamente mi è stato fatto anche

del male, mi scendevano le lacrime. C’erano i funzionari del Comitato di

Controllo… non so se lei sa cos’è il comitato, c’era fino al 2003 e aveva il compito

di controllare la legittimità degli atti degli enti locali e Ipab… Quando sono andata

a Venezia a trattare l’approvazione del conto consuntivo, in modo tale che si

evitasse il commissariamento “ad acta”, mi hanno chiesto come mai continuavo a

lavorare qui, perché avrei potuto anche andarmene, ma insomma ho voluto essere

fedele all’Ente, perché nel frattempo era cambiato il Consiglio di Amministrazione.

C’era una brava persona come presidente che meritava rispetto, quindi mi pareva

brutto lasciare le persone, soprattutto perché erano oneste. Quell’esperienza mi ha

segnato moltissimo, perché ripeto per molto tempo con facilità mi si riempivano gli

occhi di lacrime, ma questo mi ha anche fatto capire come…si possa facilmente

passare da un momento di serenità a un momento burrascoso» (9:25).

L’ultimo racconto, particolarmente ricco di spunti e di riflessioni, narra principalmente di

un apprendimento esperienziale, di un episodio significativo che ha attivato una serie di

cambiamenti organizzativi, ma soprattutto nel modo di concepire e vivere alcuni valori

all’interno dell’organizzazione. È la storia di un conflitto fra l’istituzione e un familiare

che funge da “detonatore” per far esplodere – ma anche per poi avviare a soluzione –

tutta un’altra serie di situazioni problematiche interne alla struttura e di gestione dei ruoli

direttivi.

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R: «Per esempio noi abbiamo accolto un caso che ha fatto scuola qui da noi, perché

ad esempio ha cambiato il mio modo di vedere la famiglia all’interno della struttura.

È il caso di un anziano, di una coppia, marito e moglie, che ha sempre vissuto…

senza figli… che hanno sempre vissuto in simbiosi una vita… benestanti e

culturalmente preparati; della Venezia bene lei, lui toscano e quindi avevano case di

qua e di là, avevano viaggiato un sacco, una coppia innamoratissima, felicissima…

Poi, ad un certo punto, la malattia… lui aveva una demenza di tipo Alzheimer e lei,

che aveva vissuto prima la fase del tenerlo la casa, poi il centro diurno ed alla fine

l’aveva portato qui. Questa situazione si è conclusa che lei se lo è riportato a casa…

Ma siamo arrivati quasi a parlarci attraverso i rispettivi legali, da quanto la

situazione è arrivata a logorarsi e una sera ho chiamato persino i carabinieri, perché

la signora non voleva andarsene dal mio ufficio… per dire come si era evoluta la

faccenda.

Praticamente, cosa succede? Succede che all’inizio, quando questa signora aveva

portato qui il marito, noi avevamo un concetto, che era quello di cercare di integrare

la famiglia, ma all’epoca non avevamo la chiarezza di quale fosse il ruolo della

famiglia. Noi per primi vivevamo male il nostro ruolo, non avevamo una chiarezza

del nostro ruolo, perché abbiamo consentito alla signora di dirci come dovevamo

fare il nostro lavoro, praticamente. Perché le consentivamo di controllarci, cioè di

venire a verificare il bagno, di fermarsi qui a mangiare, di dirci come dovevamo

pulire… Avevamo iniziato dandole il dito, e poi la mano, e poi braccio… Per

quanto noi continuassimo a cercare di dare una risposta, ad accogliere le sue

richieste, con l’idea che avremmo conquistato la sua fiducia, non ne venivamo mai

fuori… Cioè, sempre di più, sempre di più, sempre di più...

La situazione c’ha portato poi a riflettere, cioè innanzitutto a prendere atto del fatto

che noi, come strutture, siamo l’ultima frontiera e che nessuno ci porta, accompagna

qui, il proprio anziano volentieri e che quando le famiglie arrivano a fare questa

scelta, nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un problema di relazione,

comunque, e perciò tutte le azioni che tengono vicina questa relazione sono

sbagliate. Cioè, quei comportamenti che noi attuavamo, di consentire alla signora di

essere qua in tutti i momenti, erano sbagliati. Perché quando finalmente lei era

riuscita a fare la scelta di portare qua il marito…

Abbiamo capito, ma successivamente, che quando una famiglia porta qui il suo

caro, nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un problema di relazione, cioè è la

relazione tra di loro che ha qualcosa che non va… Questo è supportato anche dai

dati che abbiamo messo a confronto tra noi e il Distretto per l’assistenza

domiciliare… Cioè, generalmente si crede che si mette in casa di riposo un anziano

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quando il carico assistenziale è molto alto. In realtà questa tesi è smentita proprio

dai dati del Distretto, che dice: “Guardate che i casi più gravi sono sul territorio, non

sono in casa di riposo. O comunque non sono distribuiti in maniera così netta, da

dire che in casa di riposo ci vanno i casi gravi e nel territorio rimangono i casi

lievi”. Non è così e questo ci ha portato alla conclusione che è la relazione tra la

famiglia e l’anziano a determinare la scelta. Quando una famiglia arriva a fare la

scelta della casa di riposo è come se… Sa quando uno spinge una carriola su per

una scala? Quella forza che la famiglia ha finalmente manifestato per distaccarsi da

una relazione che comunque è problematica, quella forza va sfruttata, non va

placata. Mentre la nostra precedente politica era quella di consentire… “Ma vieni

qua quando vuoi…”, per rendere più soft il distacco… il distacco non andava reso

più soft, ma andava anzi rafforzato, perché potesse avvenire… un po’ come una

carriola che tu spingi su una scala: se uno è riuscito a fare lo sforzo da fargli fare il

gradino, deve sfruttare quello sforzo, non deve rallentarlo… E quindi abbiamo

capito che erano sbagliate quelle azioni… “E vieni tutte le ore…”, perché in questo

modo si continuava ad alimentare una relazione che è malata, invece la relazione

andava troncata […]. Per cui abbiamo rivisto i nostri progetti di accoglienza e non

abbiamo più fatto i cosiddetti inserimenti in cui c’erano, appunto, queste modalità e

abbiamo rivisto il ruolo della famiglia, modificando gli ingressi e dicendo:

“Famiglia, tu sei importante non perché ti metti a fare al nostro fianco, ma perché ci

dai delle informazioni sulla storia, sui gusti… Cioè il tuo ruolo è di integrare il

nostro punto di vista con quello che ha tu hai visto e fatto fino a quel momento, in

modo che diventi patrimonio di ciò che possiamo fare anche noi”. In tutta questa

esperienza, questa coppia, appunto, c’ha portato a rivedere il modo in cui facevamo

gli ingressi, andando noi a casa, cioè adesso facciamo noi il primo passo. Noi

diciamo alla famiglia: “Tu sei importante per noi ed è importante per noi tutto

quello che tu hai fatto fino a questo momento, che diventa patrimonio che metti

nelle nostre mani, perché adesso tocca a noi, perché stai delegando a noi il lavoro di

assistenza… Adesso che tocca a noi, noi possiamo dare continuità a quello che hai

fatto tu, portando avanti quello che hai fatto tu”. In che modo? Andiamo noi a casa

e quindi la persona la accogliamo a casa sua e quindi facciamo noi il primo passo di

andare lì e ci facciamo dare tutta una serie di informazioni che poi integriamo qui e

questo è nato da quel caso particolare.»

D: «In questo episodio c’è stata quindi una sorta di escalation, in cui la signora

chiedeva sempre di più…»

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R: «Sì, chiedeva sempre di più… cioè per noi all’epoca non era chiaro il concetto

della delega, cioè la famiglia non può mettersi al nostro fianco e fare l’operatore

addetto all’assistenza o fare il fisioterapista… Cioè praticamente questa signora

pretendeva di insegnarci come dovevamo lavarlo, ma dal punto di vista tecnico,

come dovevamo farlo camminare, come dovevamo imboccarlo… Tutte queste cose

che sono competenza tecnica nostra. Lei poteva darci un altro genere di

informazioni, ma noi le abbiamo consentito, l’abbiamo lasciata in bagno, abbiamo

lasciato tutta una serie di cose… Abbiamo lasciato che ci dicesse come doveva

camminare… Abbiamo cioè permesso che facesse il tecnico al nostro fianco. Era la

relazione fra di loro ad essere malata e lei aveva tutto un senso di colpa e una

simbiosi… che invece noi avremmo dovuto agire in maniera diversa, ma da lì poi,

quando abbiamo capito, indietro era impossibile ritornare, la struttura era ormai

ostaggio. Per fortuna che in qualche modo la situazione si è sbloccata, perché io ad

un certo punto ho iniziato capire e ho detto: “Basta, se lo porti a casa… cioè è

impossibile…”. Ho capito che era venuto meno, anzi non c’era mai stato, il rapporto

fiduciario e che lei se lo doveva portare a casa. Grazie all’intervento di una

psicoterapeuta [la signora] è riuscita ad agire la leva. Lei se lo è riportato casa e noi

siamo stati liberi, ma guardi, era un incubo…»

D: «Lei non voleva portarlo a casa, quindi? »

R: «Aveva bisogno di tempo per maturare la scelta, probabilmente, però per noi

quella situazione è stata determinante, perché ci ha aiutato a capire la situazione in

cui c’era questo miscuglio, cioè: “Ma tu chi sei? Chi siamo noi? Qual è il tuo

compito e qual è il nostro?”… Da quel miscuglio siamo riusciti a far chiarezza, cioè

arrivare a capire chi siamo e cosa dobbiamo fare e qual è il compito della

famiglia… Perché all’epoca si aveva una gran confusione. Determinata cosa? Qual

è stato il grande insegnamento che io ho imparato da quest’esperienza? Che a livello

di responsabili della struttura, per lavorare bene, ci dev’essere condivisione di

valori. Se i valori del direttore non sono condivisi anche dal gruppo dei responsabili,

in prima istanza, per poter essere poi diffusi, si litiga continuamente, perché in una

unità operativa, quando io mi trovo di fronte alla scelta se per Mario Rossi, che

magari ha il diabete e vuole mangiare qualcosina di più, c’è una figura, l’operatore

che dice “Ma sì, non importa, lasciamolo mangiare…” e l’infermiere che dice “No,

ha il diabete, deve stare nella dieta, eccetera…”, a quel punto, quando si va a

discutere, non stiamo più discutendo di Mario Rossi e del piatto di pasta, ma sono a

confronto due sistemi valoriali: uno è “Ma sì, meglio un giorno da leone che 100 da

pecora” e l’altro è esattamente il contrario. E dietro alle posizioni che ciascuno

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assume c’è proprio il sistema valoriale e, quindi, ciò che aveva consentito a quella

situazione di diventare esplosiva era stato che il fatto che tra me e il mio

coordinatore avevamo, rispetto alla famiglia e rispetto alla struttura, due punti di

vista molto diversi… che poi si è visto nella situazione…

Un altro elemento, che non so se chiamare valore, ma che per me è importante è la

chiarezza, cioè deve essere chiaro a che titolo e che cosa sto facendo, in ogni

situazione, mentre invece se ciò che ti piace è stare nel torbido… Io sto bene nella

chiarezza, tu stai bene nel torbido, siamo in due situazioni diverse. Quindi, mentre

io andavo con la signora a disciplinare tutto, perché mi interessava fare degli

accordi chiari, cioè da quando a quando, per quale motivo, eccetera, eccetera,

quando li faceva il coordinatore era che: “Mi va bene non mettere in luce tutti gli

aspetti, perché tutto ciò che non è definito poi io me lo tiro a mio vantaggio…”.

Sono due modi di stare nella relazione che si confrontano…»

D: «Quindi c’è stato un conflitto di valori non soltanto tra la struttura e la famiglia

ma all’interno della struttura stessa? »

R: «Sì, tra di noi di sicuro. »

D: «Quali erano secondo lei i valori che si contrapponevano in questa situazione?»

R: «La signora aveva potato il marito credendo che potesse fare come a casa

propria. Cioè la signora non aveva certamente capito o elaborato o non era in grado

di farlo, insomma, che lei portava qui il marito e che portandolo in una struttura

delegava ad altri l’assistenza. Lei l’aveva portato qui credendo… e qui apro una

parentesi – o qualcuno le aveva fatto credere – che avrebbe potuto fare comunque

quello che voleva. Noi gliel’abbiamo consentito. Nei primi tempi, nel lasciarle tutto

quello che… E il bagno, e questo, e quest’altro… Le abbiamo veramente lasciato

credere che lei l’aveva portato qua, ma era lei a decidere delle cose. Invece un

familiare deve comprendere – per cui siamo diventati molto chiari da questo punto

di vista – che quando accompagna qui un anziano, l’assistenza la sta delegando a

dei terzi: sono mie le mani che ti lavano, sono mie le mani che ti imboccano, sono

mie le mani che ti cambiano il pannolone, che ti vestono, che ti fanno camminare,

ecc. Il che non vuol dire che taglio fuori famiglia, cioè, se non c’è disfagia, potete

andare a mangiare fuori, potete mangiare anche qua assieme, potete andare a fare

passeggiate, ecc. Ma se ci sono situazioni di rischio, cioè tipo se il tuo anziano è

disfagico, non lo puoi imboccare tu. Da ciò, da questa situazione, sono derivate

delle scelte che hanno portato, ad esempio, a eliminare l’assistenza privata e a non

concedere ai familiari, in situazioni di rischio, che loro imbocchino i loro cari,

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perché se l’hai portato qui hai delegato ad altri determinate azioni. Se c’è un fattore

di rischio, se questa persona è a rischio di disfagia, devo imboccarlo io. Se invece

non c’è, per carità di Dio… ma sennò devo imboccarlo io. Tu puoi imboccarlo, ma

fuori, cioè io sono disponibile a insegnarti a farlo, ma se è qui, sono io che faccio…

Mentre alla signora è stato lasciato credere – non ce l’avevamo chiaro neanche noi –

che lei potesse mettersi a nostro fianco e quindi fare al posto nostro. Ma tutta questa

situazione ha portato a riflettere, ad esempio, sull’assistenza privata. Perché siamo

arrivati a dire: “Fuori l’assistenza privata”? Perché la struttura, per esercitare

l’attività, ha bisogno di una sorta di patente, l’autorizzazione, l’accreditamento, i

titoli che il personale deve avere per fare quel che fa… L’assistenza privata chi è?

L’assistenza privata si mette a fare cose che dovremmo fare noi, ma senza nessun

titolo. E quindi, in che modo una struttura, che per esercitare la sua attività deve

avere delle patenti, può essere integrata da una figura che non ha nessuna

preparazione al riguardo? Domanda numero uno. Domanda numero due:

l’assistenza privata si legittima quanto più la struttura fa schifo, tra virgolette,

perché l’assistenza privata è qualche cosa che la famiglia mette quando la struttura

non dà tutto quello che dovrebbe dare. Quindi una domanda che dobbiamo fare è

perché uno deve pagare una retta per poi aggiungere degli altri soldi per cose che

dovremmo fare? Quindi io sto autodichiarando il mio fallimento. Altro aspetto:

l’assistenza privata, poiché prende soldi da una famiglia, avrà tutto l’interesse a dire

che la struttura è molto carente e questo farà circolare problemi, cosa che infatti poi

abbiamo visto. Cioè quella situazione è stata veramente maestra per tanti aspetti,

proprio a partire da quello che abbiamo consentito a quella signora…

Quali sono gli aspetti di chiarezza che ci sono venuti? Uno: che quando un familiare

porta un suo anziano in casa di riposo ci sono dei problemi di relazione. Due: che,

quindi, se hanno avuto il coraggio, la capacità, la forza di far qualche cosa che

interrompe quella relazione, noi dobbiamo sfruttare quella forza, non la dobbiamo

attutire e quindi che dobbiamo prendere in carico, con tutte le cose che fa la

psicoterapeuta. È un lutto che avviene e la psicoterapeuta lo prende in carico,

proprio come se fosse un lutto, con gli stessi tempi e quindi a uno, a tre, a sei mesi...

Fa proprio il percorso di elaborazione del lutto, perché questa separazione non va

attutita, ma va vissuta.

Poi abbiamo capito qual è il nostro ruolo: che cioè noi abbiamo ricevuto dai

familiari la delega. Abbiamo capito qual è il loro valore, nel darci informazioni, nel

vivere comunque la relazione con il loro caro, nel darci la storia, tutto ciò che lo ha

portato fino all’incontro con noi e del fatto che siamo noi a dover fare il primo

passo. Cioè non possiamo dire a parole ai familiari e alla persona “Ma, noi ti

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integriamo…”, quando sei già qui e sei già stato costretto ad adattarti. Veniamo

prima casa, raccogliamo lì le informazioni, torniamo in struttura, cerchiamo di

adattare i piani di lavoro, eccetera, e dopo ti accogliamo. E allora ha un senso…

Torno al concetto di coerenza… È inutile che io dica “Adatto la mia organizzazione

a te”, ma tu sei già venuto qui e ti sei già dovuto adattare tu per primo. E quindi

questa è stata una situazione maestra. Lei mi aveva fatto la domanda: “In che cosa

erano diversi i valori?”. I valori erano diversi nel senso che la signora credeva di

poter fare un po’ quello che voleva qui… non era un concetto di diversità di

valori… non era chiaro a lei ma non era molto chiaro neanche per noi, ma questo

percorso ci ha portato a dirle: “Ma guarda che forse tu non volevi portarlo qui,

volevi continuare a prendertene cura come stai dimostrando… Prova a riportarlo a

casa…”. E quindi è stata fatta prima una prova che l’ha portata a dire: “Sì, ce la

faccio”, poi a vivere in maniera definitiva a casa. »

D: «Mentre tra lei e il coordinatore c’era un conflitto di valori o sulla diversa

interpretazione data degli stessi valori…»

R: «La diversità c’è stata sui diversi aspetti. Cioè intanto, come abbiamo detto

prima, la coerenza è qualche cosa che appartiene a me, che sento io, ma che non

apparteneva al coordinatore… cioè il coordinatore prometteva delle cose e poi non

le eseguiva. È come se io adesso, con lei mi impegno… Lei mi dice: “Le manderò

la relazione, lei me la correggerà, io le dico “Sì”, ma poi quando lei me la manda io

non lo faccio. Il coordinatore funzionava così: lui faceva dei colloqui con i familiari,

si impegnava a fare delle cose, poi non era in grado di portare avanti ciò che diceva.

Per cui, se vuole aggiungere un altro valore alla lista: la sostenibilità. Cioè devo

essere capace di rispondere alle cose che mi vengono chieste, perché deve essere il

mio ruolo… devo avere la capacità di rispondere… Cioè, se viene messo sul mio

tavolo qualcosa che non mi compete, devo avere capacità di rinviarlo al tavolo

giusto, cosa che invece lui non faceva. Cioè, per lui, aver detto delle parole

significava solo aver detto delle parole… E poi io mi trovavo i familiari e che

venivano a dirmi: “Ma mi ha detto che mi avrebbe fatto…” e poi non faceva. Ed era

su questi valori… La famiglia era importante a parole, ma che cosa vuol dire che la

famiglia è importante? Per lui significava che la famiglia poteva fare tutto quello

che voleva. Ma non può, si deve conciliare con una responsabilità. L’operatore

aveva vissuto un periodo… La signora, nell’azione di controllare il bagno, che cosa

stava facendo? Stava svalutando l’operatore. Perché se tu metti la moglie a

controllare o a dire all’operatore come deve fare il bagno, stai svalutando gli

operatori. Infatti gli operatori si sentivano veramente svalutati nel loro ruolo, nelle

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loro competenza, perché gli veniva detto da un familiare come dovevano fare… Ma

non un come dovevano fare nel senso buono del termine: “Io a casa gli tenevo le

mani…”. Quindi strategie per tranquillizzarlo… Strategie per cui mi dici: “Se tieni

la musica accesa, o l’acqua tiepida, o questo, o quello…”. Ma proprio là, così, a

controllarli. Tra l’altro, cosa che c’è stata spiegata dopo, che abbiamo capito dopo,

se adesso io e lei stiamo facendo colloquio, un conto è che siamo io e lei, altro conto

è che ci sia uno che osserva. L’osservatore all’interno del sistema altera il sistema.

E quindi anche quella moglie, anche se si fosse messa lì in silenzio, alterava la

situazione rendendola diversa. Anche dal punto di vista tecnico non era cosa da fare.

Per cui erano proprio anche questi gli aspetti nei quali la struttura viveva delle

grossissime lacerazioni.

Cos’è che ha portato certe cose ad andare a posto? Essersi messi come responsabili

a dire: “Quali sono i valori nei quali crediamo e come li realizziamo

concretamente?”. E questo c’ha portato a vedere la diversità e a renderci conto che

effettivamente i valori erano diversi. Se sono gli stessi, va tutto bene, ma se sono

diversi… Cioè, le diversità caratteriali si possono anche reggere, ma le diversità di

valori sono inconciliabili… Su queste non si può derogare e allora bisogna trovare il

modo per integrarli, cioè di convivere con valori diversi… Per fortuna nel caso del

coordinatore il problema si è risolto, perché è andato via dalla struttura, però il

periodo è stato difficile, proprio perché… Cioè, ad esempio, il discorso della

coerenza… Cioè quando ti sei assunto un impegno, devi portarlo a termine, non è

una cosa sulla quale si può tanto discutere. Sei un responsabile. Se dici: “Sì, ti do

questa carta entro il tal giorno…”, poi devi dare la carta entro il tal giorno… Poi

farai tu l’esame di coscienza su come mai non ce la fai, se ti sei preso troppo lavoro,

se hai calcolato male i tempi, per carità, tutte le giustificazioni, però non possiamo

continuare a stare in una situazione in cui tu non rispondi.

Quello che mancava, secondo me, era un concetto di rispetto per tutti gli attori del

sistema. Cioè, nel momento in cui ho stabilito di valorizzare la famiglia non posso,

perché valorizzo famiglia, svalutare gli operatori o viceversa […]. A questi

comportamenti non posso mai scendere, bisogna trovare un modo, una strategia, per

valorizzare uno senza svalutare l’altro. Valorizzare l’uno e valorizzare l’altro.

Valorizzarli entrambi, questo è il concetto… Non lo so se ce l’ho chiaro adesso, ma

sicuramente al tempo molto, molto, meno.

In questo senso quella situazione è stata maestra per dissipare un po’ di caos…

Tenga presente che eravamo una struttura molto piccolina, con 50 posti letto che nel

giro di niente è aumentata, passando a 90 e quindi la crescita è stata brusca:

immagini un adolescente, che fino a ieri era così e poi ti ritrovi a un corpo che non

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sai gestire… Eravamo quindi in quella situazione. Il problema lì era che c’era una

mancanza di chiarezza e poi dei valori professati con la bocca, perché a sentirlo

parlare… Ma poi non agiti nella quotidianità, cioè quelle parole non significavano.

Poi, ciò che mi rendo conto adesso, parlandone, è che in realtà ciò che uno esprime

è se stesso. Io esprimevo il mio stato di quel momento, cioè il mio essere una che

non si valorizzava, anzi… E lui invece le sue caratteristiche, di essere cioè l’uomo

delle parole ma non dei fatti…» (5:42).

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Conclusioni

Al termine di questa presentazione di un’“avventura” di ricerca, credo opportuno

riprendere brevemente le premesse da cui eravamo partiti, gli obiettivi che questa

indagine si poneva.

Innanzitutto si intendeva delineare il quadro concettuale di riferimento rispetto al

contesto di ricerca, contesto che si presentava fin da subito smisuratamente ampio e

complesso. Per questo l’obiettivo era stato indirizzato realisticamente – riprendendo

un’immagine di Bateson1 – non alla riproduzione fedele di un “territorio”, ma alla

creazione di una “mappa”.

In base a tali premesse, è stato tratteggiato un veloce inquadramento epistemologico, che

ho considerato utile non tanto per dare al mio lavoro un “cappello” introduttivo, quanto

piuttosto per una necessaria, preliminare chiarificazione rispetto ad alcune idee di fondo,

che volenti o nolenti, in modo esplicito o implicito, guidano i nostri processi di

conoscenza. Per questo ho ritenuto importante soffermarmi un poco sulla questione di che

cosa sia la realtà e come la si possa conoscere. Realtà che intendiamo in genere come se

fosse necessariamente declinata al singolare, ma che invece dovremmo pensare

soprattutto al plurale: si ha, infatti, a che vedere con le realtà. Fra queste vi è la realtà

dell’etica della professione del manager sociale, che è una realtà a sua volta plurale, la

quale ha un suo proprio modo di essere e di essere studiata, che è un modo di essere e di

essere studiata differente rispetto a quello della fisica dei neutrini, per fare un esempio

dotato di evidenza.

Una prospettiva di marca costruttivista ritengo possa rappresentare un valido punto di

osservazione per questa realtà specifica. Da queste posizioni ha preso le mosse la mia

ricerca, postulando, come si è visto, che i principi morali del manager sociale siano

almeno in parte immanenti alla professione stessa e che vengano appresi anche “in

situazione”.

Nella presente tesi sono stati illustrati brevemente alcuni modelli teorici di apprendimento

situazionale, a cui si è fatto riferimento per l’elaborazione delle ipotesi di ricerca. Si è poi

tematizzata la figura del manager e dello specifico profilo di manager sociale2. Sono state

1 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, cit., p. 57.2 Nell’inquadramento del campo di ricerca è certamente mancato un approfondimento sui servizi socio-

assistenziali per gli anziani, meritevoli di una trattazione a parte.

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inoltre tracciate alcune coordinate essenziali per addentrarsi nell’ambito dell’etica delle

professioni e del management dei servizi alla persona.

Ciò ha consentito di problematizzare la dimensione etica del manager dei servizi alla

persona – secondo obiettivo di ricerca – facendo emergere una serie di questioni, che

sono state poi sintetizzate nella traccia delle domande-stimolo utilizzata per la

realizzazione delle interviste semi-strutturate. Il presupposto attorno al quale ruota

l’indagine è che esista nei manager, così come in ogni altra persona, una divaricazione

più o meno ampia tra le “teorie dichiarate” e le “teorie in uso”, tra l’etica professata e

l’etica concretamente agita. L’interesse di ricerca è andato naturalmente verso

quest’ultima, a come questa etica si configuri, a come si modifichi, attraverso la pratica e

il confronto con gli altri.

La ricerca empirica ha dato poi modo di conseguire l’ulteriore obiettivo di evidenziare il

percorso generativo delle competenze etiche, fornendo sostanziale conferma all’ipotesi

iniziale, secondo cui l’acquisizione e lo sviluppo delle competenze etiche del manager

sociale sarebbero collegati anche all’agire riflessivo nella pratica professionale e alle

relazioni con il contesto sociale d’appartenenza.

Le storie, a cui la ricerca ha dato voce, descrivono bene questo instancabile processo di

apprendimento che avviene nelle situazioni dentro le quali il manager si trova ad agire,

mettendo in luce l’importanza del pensiero riflessivo e del confronto che può aver luogo

nell’ambito dell’associazionismo professionale, delle reti informali o della stessa

organizzazione.

Le narrazioni hanno posto altresì in evidenza il ruolo che il manager svolge nel

promuovere lo sviluppo delle competenze dei collaboratori e nella crescita organizzativa.

La dimensione del racconto, introdotta in aderenza al metodo d’indagine della Narrative

Inquiry, a cui mi sono rifatto principalmente, ha poi favorito il perseguimento di un altro

obiettivo assegnato alla ricerca, quello di tematizzare un possibile “orizzonte” comune di

senso nella professione del manager sociale, cioè di prospettare un profilo identitario di

gruppo, un’etica condivisa per questa categoria professionale.

Il racconto, in quanto poiesis, ha dato in qualche modo corpo ad un’astrazione, perché di

questo parliamo quando ci riferiamo all’etica professionale dei dirigenti delle Ipab che

operano nell’area degli anziani. Ciò non solo perché non esiste – a differenza di altre

professionalità – alcuna espressione formale specifica di tale sapere all’interno di un

codice deontologico, ma in quanto l’etica, per sua stessa natura, tende a sfuggire rispetto

ad ogni velleità definitoria. L’immagine dell’orizzonte è effettivamente quella che meglio

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la rappresenta, suggerendo anche l’idea di qualcosa di inattingibile, di un desiderio mai

pago d’inseguire una meta che non si fa raggiungere.

Il racconto ha dato vita, pertanto, non ad una strutturazione unitaria di questa etica

professionale, bensì ad un’immagine composita, all’interno della quale si è ritenuto di

individuare tre componenti: l’etica dell’ente pubblico, l’etica del servizio e l’etica del

management.

Da questo racconto a più voci emerge, accanto ad un possibile orizzonte condiviso, in cui

tutti si possano riconoscere, il senso che ciascuno dà al proprio impegno lavorativo, che si

radica profondamente nel sé morale, cioè nell’identità personale del singolo soggetto.

L’ultimo obiettivo consisteva nel raccogliere indicazioni e suggerimenti per orientare

possibili percorsi formativi, finalizzati allo sviluppo delle competenze etiche.

A questo riguardo, si è rilevato che tale formazione, di cui si avverte diffusamente la

necessità, dovrebbe avere certamente dei contenuti curricolari specifici, ma soprattutto

dovrebbe, in qualche modo, affinare il pensiero e la capacità di riflettere sulle situazioni.

La formazione etica, quindi, dovrebbe parlare di principi e di valori, di comportamenti e

di virtù, e insieme insegnare a ragionare sulle cose, a discutere, ad argomentare.

Rimanendo vicina all’esperienza. È l’esperienza concreta, a partire da quella portata in

“aula” dagli stessi operatori, che va fatta oggetto di riflessione all’interno dei momenti

formativi, al fine di produrre apprendimenti davvero significativi.

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