Costantino a Milano - Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, maggio 2013

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La Newsletter dell’Ambrosiana del maggio 2013 riassume le iniziative svolte dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano nelle celebrazioni a più voci del XVII° Centenario dell’Editto di Milano. Il ruolo dell’Ambrosiana è stato quello di cogliere la portata di quell’evento e codificarlo in sede scientifica alla luce dei dati e delle ricerche sin qui condotte.

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*« [...] tutto quello che c’è di divino

nella sfera celeste potrà riconciliarsi e cooperare con noi [...] »

[Costantino Augusto e Licinio AugustoMilano, 313 d.C.]

AMBROSIANIC O L L E G I ID O C T O R E SA. D. M D C I V

*

Newsletterdella Veneranda Biblioteca Ambrosiana

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Newsletter della Veneranda Biblioteca Ambrosiana

Direttore responsabile Franco Buzzi, PrefettoCuratore Fabio Trazza, GiornalistaCon la collaborazione del Collegio dei Dottori

[email protected]

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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana

La breve citazione in copertina:

« [...] tutto quello che c’è di divino nella sfera celeste potrà riconciliarsi e cooperare con noi [...] »

è tratta dalla lettera del 313 d.C. di Licinio Augusto al Governatore della Bitinia, riferita da due fonti storiche, una in latino [Lattanzio, DMP 48] l’altra in greco [Eusebio, St. Eccl. 10,5]ed è qui riportata nella traduzione italiana fattane comparativamente da M. Spinelli nel 1905.

La lettera dispositiva è comunemente nota come Editto di Milano.

_____________________________________________________

L’immagine in copertina — ingrandita rispetto all’originale,ma le sue dimensioni reali sono di seguito indicate —

riproduce il francobollo emesso dalle Poste Italiane e dedicato alla Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana

con un apposito comunicato, che qui si riporta:

“ Poste Italiane comunica l’emissione, per il giorno 21 settembre 2009, di un francobollo appartenente alla serie tematica

“Il patrimonio artistico e culturale italiano” dedicato alla Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana di Milano,

nel IV centenario dell’apertura, nel valore di € 1,40. Il francobollo è stampato

dall’Officina Carte Valori dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A.,

in calcografia, su carta fluorescente, non filigranata; formato carta: mm 48 x 40;

formato stampa: mm 44 x 36; dentellatura: 13¼ x 13;

colore: uno; tiratura: quattro milioni di esemplari;

foglio: venticinque esemplari, valore “€ 35,00”.

La vignetta raffigura a sinistra una facciata del palazzo sede della Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana di Milano

e a destra un particolare del dipinto Ritratto di dama [*], ivi conservato.

Completano il francobollo le leggende “BIBLIOTECA PINACOTECA ACCADEMIA AMBROSIANA”

e “MILANO”, la scritta “ITALIA” e il valore “€ 1,40”. Bozzettista e incisore: Antonio Ciaburro.

A commento dell’emissione verrà posto in vendita il bollettino illustrativocon articolo a firma di Mons. Franco Buzzi,

Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano.” * Tale ritratto è espressamente citato nell’Atto di Donazione

del Fondatore dell’Ambrosiana:“Ritratto di una Duchessa di Milano..., di mano di Leonardo”

(Card. Federico Borromeo, Atto di Donazione 1618)

Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana

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Sommario

Premessa del Curatore____________________________________p. 7

1. Il Convegno____________________________________________” 9

2. L’apertura________ __________________________________” 10

3. Cornice del Convegno_______________________ _________” 11

4. La mostra diffusa__________________________ _________” 12

5. Le due grandi mostre:

A. Milano ________________________________ ________” 18

B. Roma __________________________________________” 19

6. Elena _______________________________________________” 20

7. Saluto del Cardinale _________________________________” 22

8. I temi del Convegno ___________________________________” 25 L’Editto di Milano Ricadute ed effetti dell’Editto Approcci specialistici

9. Lectio a 2 Voci_____________________________________” 126 1 - il Cardinale Angelo Scola 2 - il Patriarca Bartolomeo I

10. La Celebrazione ecumenica__________________________” 146

11. Appunto bibliografico: libri, incisioni, manoscritti, medaglie e monete : _________” 152

Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano

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su Costantino in Ambrosiana___________________________” 73

«Chrismon»Il Chrismon, cristogramma, risulta dall’incrocio delle due lettere iniziali greche di Cristo, χ ρ. Fu scelto da Costantino come simbolico signum crucis in sostitu-zione della croce, segno infamante della crocifissione degli ultimi della società, dei non cittadini romani e degli schiavi. Emblema della svolta costantiniana, sostituì gli antichi simboli imperiali sulle insegne e gli scudi, sui monumenti civili e religiosi. Raffigurato sulle monete ebbe circolazione capillare, fino a divenire tema di raffinatissimi preziosi monili in oro o di oggetti d’uso comune.

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Fine IV secolo d.C. bronzo Celije, Celije Regional Museum © Tormaz Lauko

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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano

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Premessa La Newsletter dell’Ambrosiana del maggio 2013 riassume le inizia-tive svolte dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano nelle celebra-zioni a più voci del XVII° Centenario dell’Editto di Milano. Il ruolo dell’Am-brosiana è stato quello di cogliere la portata di quell’evento e codificarlo in sede scientifica alla luce dei dati e delle ricerche sin qui condotte. La Newsletter, però, non ha compiti scientifici. Si limita ad informa-re sui passi che si fanno per realizzare un risultato, in questo caso non solo scientifici, ma con ricadute essenziali per la comunità tutta, per i risvolti so-ciali e politici, religiosi e culturali. Per offrire il contributo di studio e di rac-cordo tra le università, i consigli, gli enti coinvolti, la Veneranda Biblioteca ha finalizzato a questo evento l’attività scientifica di cinque delle sette classi di studio che costituiscono l’Accademia Ambrosiana. La documentazione che qui si raccoglie costituisce un semplice strumento divulgativo, disponi-bile solo in rete internet, quindi rivolto ad un pubblico potenzialmente ster-minato e culturalmente eterogeneo. Con la divulgazione e con il supporto scientifico l’Ambrosiana farà focalizzare meglio le ragioni che hanno spinto il Cardinale di Milano, Angelo Scola, a definire l’Editto di Milano Initium libertatis, l’inizio della libertà. Molti organi di stampa si sono interrogati su questa affermazione. Qualcuno ha immaginato fosse utile commentare il più rapidamente possibile questa definizione. Ma non sempre le decisioni più rapide si rivelano le più sagge. E anche su questo il Lettore della New-sletter troverà sommaria informazione. Il rapporto che si vive nella società tra politica e religione dovrebbe edificare la pace, ma è un rapporto ancora incandescente in ogni parte del mondo, dalle persecuzioni aperte e disumane in Oriente, alle limitazioni anche subdole in Occidente. In ogni luogo c’è bisogno di riflessioni respon-sabili per diminuire il grado di fragilità che la coscienza religiosa patisce. E non si tratta solo di luoghi geografici. Il luogo della coscienza individuale e quello del potere statale sono i luoghi concreti in cui precipita o si esalta il bisogno umano di ricercare la verità. Questa Newsletter ha la pretesa di preparare il terreno alla considerazione che alcuni elementi di libertà an-drebbero rivisitati. Ad esempio, e per gli stati: non si può procedere alla de-penalizzazione, anche se graduale, di quei reati, che, connessi alla religio-ne, offendono la civiltà di una determinata comunità, ma non hanno come corrispettivo una sanzione solo civile, sconfinando nella sanzione penale, fino alla morte del corpo? Altro esempio, e per i singoli: non si potrebbe aver coscienza che qualche capanna di una setta o di un gruppo ateo, ha costitutivamente una diversità radicale con un edificio sacro e un tempio e, che se lo stato ne compie l’equiparazione, produce un paradosso violento, sino alla morte dell’anima? Semplici interrogativi, per suscitare l’attenzione e la curiosità alla lettura. Il Curatore

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Dal «chrismon» alla «croce». In seguito alle sem-plificazioni stilisti-che elaborate sul “segno costantinia-no”, il Chrismon si esplicita compiu-tamente e, anche in ragione dell’ac-quisita dignità e piena cittadinanza dei cristiani nella società, l’essen-zialità del signum crucis si svela pro-gressivamente e assurge a piena testimonianza re-ligiosa manifesta-bile pubblicamen-te. La derivazione della «croce» dal «chrismon» è evi-dente se si osserva il braccio verticale della croce, che conserva la curva-tura della lettera ρ, presente nel «chrismon», forma-to dall’incrocio del-le due lettere iniziali greche di Cristo, χ e ρ appunto. Si compie un processo che, da una parte, lascia sullo sfondo la connotazione della crocifissione come segno infamante della pena capitale riservata agli ultimi nella società, schia-vi e non cittadini romani, e dall’altra consente il superamento dei precedenti simboli usati nella clandestinità, rico-noscibili solo dai cristiani, irriconosci-bili dagli altri, come la colomba, ma, soprattutto, il pesce, che nella versione greca del nome —ιχθυς— contiene tut-te le iniziali di un’intera espressione: “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Mentre nell’età romana il simbolo della «croce», come mezzo e luogo di suppli-

zio finale, era per-fettamente noto all’esperienza dei contemporanei, ignoto restava quello del «chri-smon». Secondo la tradizione, a Co-stantino, che osser-vava il cielo prima della battaglia di Ponte Milvio, era apparso nel cielo quel segno. Dopo la battaglia e la vittoria quel segno venne dipinto su-gli scudi dell’eser-cito. Così il «cae-leste signum Dei», di cui aveva dato notizia lo scrittore latino Lattanzio, diveniva da allo-ra il simbolo non della vittoria di un capo militare cristiano contro uno pagano, ma della vittoria del Dio cristiano sulla morte, del princi-

pio sulla fine, α e ω - Eusebio di Cesa-rea ne descriverà nella Vita di Costan-tino la genesi calligrafica come disegno stellato. Un disegno però che, più che a un sogno, appare legato allo sviluppo di un simbolo solare o astrale, partico-larmente invalso nella società romana del III secolo e assunto dal simbolo astrale del Sol Invictus, divinità militare e a cui era particolarmente votato Co-stanzo, padre di Costantino, e Costan-tino stesso prima della sua conversione. Come un «chrismon», apparso in cielo, dal cielo aveva rimandato alla «croce», piantata nella terra, così questa, ora, rimandava dalla terra al cielo, quel cielo che aveva ispirato Costantino.

Croce con α ω — IV-VI secolo Aquileia, bronzo, Wien Kunsthistorisches Museum

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1. Convegno “ Costantino a Milano L’editto e la sua storia — 313–2013 ” 8-11 maggio 2013 Milano

patrocinato da:— Pontificio Comitato di Scienze Storiche— Ministero per i Beni e le Attività culturali— Arcidiocesi di Milano— Biblioteca Apostolica Vaticana— Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere— AICC Associazione Italiana Cultura Classica Delegazione di Milano— IULM Libera Università di Lingue e Comunicazionee si è articolato in quattro giornate.

Nella prima giornata, mercoledì 8 maggio 2013, svoltasi in Università Cattolica, Aula Pio XI, Largo Gemelli, 1, è stato affrontato il tema

L’Editto di Milano

Nella seconda giornata, giovedì 9 maggio 2013, svoltasi nell’Università degli Studi di Milano, Sala Napoleonica - Palazzo Greppi, Via S. Anto-nio, 12, il tema affrontato è stato

Ricadute ed effetti dell’Editto

Nella terza e quarta giornata, venerdì 10 e sabato 11 maggio 2013, in Biblioteca Ambrosiana, Sala delle Accademie, Piazza Pio XI, 2, sono stati operati tutti i più opportuni

Approcci specialistici

Nel corso del Convegno è stato anche possibile accostarsi ai luoghi in Milano che più da vicino hanno segnato, o custodiscono, la memoria della storia rievocata in quelle giornate di studio. Così nel corso della prima giornata è stato visitato il Civico Museo Ar-cheologico, nel corso della seconda la basilica di S. Nazaro e la chiesa di S. Antonio, nel corso della terza il teatro e il foro romano.

Un contributo decisivo alle quattro giornate è stato offerto dalle sette Classi di Studi che compongono l’Accademia Ambrosiana, presieduta dal Prefetto dell’Ambrosiana, Mons. Prof. Franco Buzzi, e la cui istituzione consolida ed accresce il rigore scientifico e la valenza culturale di tutta l’Ambrosiana, Pinacoteca e Biblioteca.

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2. L’apertura Il Convegno è stata la conclusione scientifica di una vasta e diffusa preparazione culturale, che ha interessato Milano e Roma, con due spe-cifiche mostre a Milano e a Roma, coinvolgenti pubblico e autorità civili. Ma il Convegno di Milano è stato anche il più solido sostegno ac-cademico perché le autorità religiose sperimentassero un nuovo fermo passo di avvicinamento tra Roma e Costantinopoli. L’apertura, infatti, augurale e inaugurale, è stata tenuta dal Cardinale di Milano Angelo Scola e la chiusura ideale, quale atto con-clusivo, è stata sancita proprio da una Lectio magistralis a due voci nella Sala delle Cariatidi in Palazzo Reale a Milano il 15 maggio 2013 tra il Patriarca di Costantinopoli e l’Arcivescovo di Milano e celebrata il 16 maggio 2013 con la Celebrazione Ecumenica della Parola in Sant’Am-brogio dall’Arcivescovo di Milano e dal Patriarca di Costantinopoli. Non è dato oggi sapere quanto le Autorità Civili sapranno co-gliere da questa esperienza di studio, di incontro e di pubblica manife-stazione, per consolidare le tutele della libertà religiosa di tutti, le cui basi giuridiche risiedono proprio nelle disposizioni del 313 emanate dall’imperatore Costantino e dal suo omologo in Oriente Licinio. In questo senso le quattro giornate sono state

uno studio intenso al cuore della libertà. Infatti, in ogni epoca e in qualsiasi parte del mondo, quando la libertà religiosa, individuale e collettiva, privata e pubblica, viene intaccata o compromessa, allora diviene molto concreta la propensione politica a non tutelare e a ridurre tante altre libertà. E questa è anche l’esperienza odierna dei popoli, in Europa e nel mondo. Quel che invece oggi è dato sapere e conoscere è che le Autorità Religiose hanno saputo compiere la loro esperienza di studio, di in-contro e di pubblica manifestazione, per progettare e realizzare strade sicure al necessario e salutare cammino ecumenico dell’umanità.

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3. Cornice del Convegno Prima per la prepazione delle mostre, poi per tutta la loro durata sono fiorite varie iniziative didattiche, per motivare docenti e studenti di ogni città a confluire nei luoghi della mostra, Milano e Roma. Percor-si calibrati per gradi, dalle primarie alle secondarie, fino ad addentrarsi nella selva delle sculture in Duomo, alla ricerca di ritratti, immagini, allegorie, riferentesi ad Elena e Costantino e rintracciare origini e mo-dalità del radicamento del cristianesimo a Milano. Da qui le visite a San Giovanni in Conca, San Nazaro, San Lorenzo e Sant’Eustorgio. Le Università hanno promosso approfondimenti, dai sostegni bibliografici alla diretta osservazione delle fonti documentali. Al centro la Milano imperiale, i ruoli di Elena e di Costantino, la genesi e gli effetti della tol-leranza introdotta dall’editto sulle pratiche religiose e nella vita sociale. Laboratori interattivi hanno permesso ai partecipanti di misurarsi con la costruzione del “chrismon”, magari utilizzando le stesse iniziali del proprio nome, oppure di lavorare al conio, su piccole lamine metalli-che, di monete riecheggianti i temi costantiniani. Proposto anche uno “scrigno”, da cui estrarre i documenti sugli eventi evocati dal 313 d.C., ma anche le leggende fiorite nei secoli per nutrire il ricordo di Costan-tino, esaltandolo, e a cui oggi è necessario accostarsi per la conoscenza non solo dei nuclei storici, che ogni leggenda racchiude, ma anche delle aspirazioni che gli autori e le società che le hanno espresse nutrivano.

Qui una delle più affascinanti opere generate proprio da quelle leggende: Piero della Francesca (1412-1492), Ritrovamento delle tre croci e verifica della croce, (1458-1466), affresco, cm. 356 x 747, Basilica di San Francesco, Arezzo

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4. La mostra diffusa Milano fu scelta come sede imperiale per la posizione, la storia, le idee qui circolanti. Molti sono ancora i luoghi che rimandano alla funzione svolta da Costantino per l’ampliamento della libertà religiosa. La stessa memoria delle reliquie della croce ritrovate da Elena e il culto connesso in tutti i secoli successivi con il ciclo delle sue storie e le statue dedicatele dalla città, le stesse statue di Costantino all’esterno del Duo-mo, tutti i riferimenti preziosi presenti in altre chiese, tutto costituisce una presenza diffusa, su cui il dibattito delle idee cerca di far luce. Un dibattito aperto dal Cardinale di Milano con il suo discorso alla città nei primi vespri della solennità dell’ordinazione di sant’Ambrogio, ve-scovo e dottore della chiesa, il 6 dicembre 2012:

« L’editto di Milano: initium libertatis »1. Il XVII centenario dell’Editto di Milano«L’Editto di Milano del 313 ha un significato epocale perché segna l’initium libertatis dell’uomo moderno». Quest’affermazione di un illu-stre cultore del diritto romano, il compianto Gabrio Lombardi, permette di evidenziare come i provvedimenti, a firma dei due Augusti Costantino e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni contro i cristiani ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa.In un certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella

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storia le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e “laicità dello Stato”. Sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione della società politica.Un’interessante conferma di questo dato si può trovare in due significativi insegnamenti di sant’Ambrogio. Da una parte l’arcivescovo non esitò mai a richiamare i cristiani ad essere leali nei confronti dell’autorità civile, la qua-le, a sua volta - ecco il secondo insegnamento - doveva garantire ai cittadini libertà sul piano personale e sociale. Veniva così riconosciuto l’orizzonte del bene pubblico a cui sono chiamati a concorrere cittadini e autorità.Non si può tuttavia negare che l’Editto di Milano sia stato una sorta di “ini-zio mancato”. Gli avvenimenti che seguirono, infatti, aprirono una storia lunga e travagliata. La storica, indebita commistione tra il potere politico e la religione può rappresentare un’utile chiave di lettura delle diverse fasi attraversate dalla storia della pratica della libertà religiosa. La situazione cambiò profondamente con la promulgazione della dichia-razione Dignitatis humanae. Quali sono le novità fondamentali dell’inse-gnamento conciliare? Il Concilio, alla luce della retta ragione confermata e illuminata dalla divina rivelazione, ha affermato che l’uomo ha diritto a non essere costretto ad agire contro la sua coscienza e a non essere impedito ad agire in conformità con essa. In questo modo, con la dichiarazione conciliare venne superata la dottrina classica della tolleranza per riconoscere che «la persona umana ha il di-ritto alla libertà religiosa», e che tale diritto «perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa» (DH 2). A dire di Nikolaus Lobkowicz, già rettore della Università di Monaco di Baviera e presidente dell’Università cattolica di Eichstätt, «la straordinaria qualità della dichiarazione Dignitatis humanae consiste nell’aver trasferito il tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona umana. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato» . [...] [...] [...]5. L’anniversario dell’Editto, opportunità per MilanoLa città di Milano e le terre lombarde sono e saranno sempre più abitate da tanti nuovi italiani (immigrati di prima, seconda e terza generazione). Saranno chiamate a fare i conti con il processo storico (sottolineo processo storico e non progetto sincretistico) di meticciato di civiltà e di culture, a mostrare la capacità di rispettare la libertà di tutti, di edificare il corpo ecclesiale e un buon tessuto sociale trasmettendo fede e memoria.Le nostre terre sono e saranno obbligate a confrontarsi con lo sviluppo di

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una società civile dai contorni molto più variegati e a rischio di sempre maggior frammentazione per la presenza di interessi corporativi, i cui centri effettivi di potere sono e saranno sempre più dis-locati “altrove”, in Europa e nel mondo; poteri, mai neutri, che vedranno sempre più accresciuta la loro capacità di presentarsi come attori sociali e gruppi di pressione.La celebrazione dell’anniversario dell’Editto di Milano cade in un momen-to storico in cui la Chiesa ambrosiana, insieme a tutte le Chiese del nostro paese, è chiamata ad un’opera di trasformazione della propria presenza nella società plurale. Superati i decenni della contestazione che annuncia-vano la fine di ogni forma pubblica del cattolicesimo (negli anni ’70 anche a Milano molti pensavano così), i cristiani possono testimoniare l’importan-za e l’utilità della dimensione pubblica della fede. Il cattolicesimo popolare ambrosiano - che non è privo di profonde fragilità sia nell’assunzione del pensiero di Cristo che nella pratica sacramentale e del senso cristiano della vita - si mostra tuttavia capace di risorse innovative per il vivere sociale, inimmaginabili nelle previsioni di qualche decennio fa. Il concreto tessuto ambrosiano di vita cristiana, forse in modo culturalmente minoritario, sta infatti cercando nuove forme per mantenersi capillarmente radicato nel-l’esteso territorio della diocesi. Lo fa attraverso reti di solidarietà, di acco-glienza, di costruzione di risposte ai bisogni fondamentali, di gestione del legame sociale, di educazione alla fede e alla cultura, che va dall’annuncio esplicito della bellezza, della bontà e della verità dell’evento di Gesù Cristo presente nella comunità, fino alla proposta di tutte le sue umanissime impli-cazioni antropologiche, sociali e di rapporto con il creato. [...] [...] [...] » . Il dibattito aperto dal Cardinale con il discorso alla città si è subito animato con interventi, precisazioni, distinguo, che hanno con-tribuito a focalizzare tanti frammenti di tutta una mostra diffusa sul-l’Editto di Costantino. Tra i primi richiami alla realtà storica, anche per sottolineare la dimensione scientifica entro cui si sarebbe svolto il convegno, è stato un Dottore della Biblioteca Ambrosiana, Marco Navo-ni, con un articolo sul portale della Chiesa di Milano (10 dicembre 2012) : « L’ultima grande persecuzione contro i cristiani nell’antica Roma pagana porta il nome dell’imperatore Diocleziano, ma fu in realtà suscitata da Galerio, suo collega nell’impero: era il 303, una data che nella Chiesa antica verrà ricordata a lungo come l’inizio della cosiddetta «epoca dei martiri». Sembrerà un paradosso, ma fu proprio lo stesso Galerio che il 30 aprile 311, a Nicomedia, con un editto di tolleranza, pose fine alla persecu-zione contro i cristiani e restituì a loro i beni confiscati in precedenza.Questa iniziale apertura nei confronti del cristianesimo verrà confermata in maniera ufficiale e definitiva di lì a due anni, nel 313, con l’accordo tra

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i due imperatori Licinio e Costantino, proprio a Milano, che a quel tempo era sede della residenza imperiale: è quello che comunemente viene definito l’Editto di Milano, [...]. Purtroppo non possediamo il testo originale di tale Editto (o accordo), ma il riassunto che di esso ci hanno lasciato gli autori antichi è sufficientemente preciso.Ci viene detto innanzitutto che i due imperatori si accordarono di conce-dere anche ai cristiani, come a tutti gli altri cittadini dell’impero, la liber-tà di seguire la loro religione, nella convinzione che quella che noi oggi chiameremmo «questione religiosa» (il testo dell’Editto parla letteralmente di «questioni concernenti il culto della Divinità») ha un riferimento espli-cito e una ricaduta pratica sul bene comune della società. Il concetto viene poi ribadito una seconda volta al negativo, nel senso che i due imperatori presero la «salutare decisione» di non vietare a nessuno la libera facoltà di aderire, sia alla fede dei cristiani (che fino a qualche anno prima erano stati oggetto di esplicita persecuzione), sia a quella religione che ciascuno ritenga più adatta a se stesso. È interessante che venga usato l’aggettivo «salutare»: anche in questo caso si voleva esplicitare che i reggitori dello Stato intervenivano in tal senso su una questione di carattere religioso nella convinzione che ciò avrebbe avuto un riflesso «positivo» (per l’appunto: salutare) sullo Stato stesso.Gli storici hanno discusso a lungo e a lungo discuteranno sulle motivazioni che portarono Costantino e Licinio a prendere questa decisione: se si tratta di semplice tolleranza, condita da un po’ di opportunismo, nei confronti di qualsivoglia religione, fino ad arrivare a un atteggiamento di «indifferenti-smo», o se davvero il 313 può essere considerato l’inizio di una «svolta» [...] . Intanto, ai fini della nostra, di storia, va registrato che la storia s’interseca sempre con l’attualità e incontri e convegni avrebbero ani-mato da subito gli eventi appena trascorsi e animeranno i prossimi:

•— una mostra divulgativa itinerante in tutta la Diocesi milanese, per spiegare l’Editto e il suo significato ancora oggi;

•— la ripresa in tutti i Centri culturali del Discorso del Cardinale alla città, per svolgerne ogni possibile implicazione e giungere ad ottobre a interrogare, in un grande evento europeo, i testimoni del dialogo tra le religioni su come la libertà religiosa permette la costruzione del futuro della società;

•— la firma della Carta Milano 2013 lanciata dal Forum delle religio-ni, gruppo autogestito in cui sono rappresentati cristianesimo, ebrai-smo, islam, induismo e buddismo;

•— l’incontro ecumenico tra il Patriarca Bartolomeo e il cardinale Sco-la per una lezione ecumenica sull’attualità dell’Editto;

•— la presentazione dell’Enciclopedia Costantiniana, edita da Treccani;

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•— il Convegno 8–11 maggio su «Costantino a Milano, l’Editto e la sua storia» della Biblioteca Ambrosiana in collaborazione con le Università Cattolica e Statale;

•— il suggerimento della Diocesi alle Autorità Civili [Comune, Provin-cia, Regione] per far incontrare tra loro le città che hanno avuto rapporti istituzionali con l’imperatore Costantino [Gerusalemme, Istambul, Mila-no, Nis, Roma, Treviri, York];

•— l’iniziativa ecumenica a Nis, città natale di Costantino, in Serbia il 23 giugno, dove ancora rimangono aperte le ferite tra serbi e croati, risa-lenti agli eccidi del regime ustasha nella Seconda Guerra mondiale;

•— un confronto aperto sulla politica e il rapporto di Costantino con il mondo ebraico, con il contributo documentato e ragionato di mons. Fumagalli, voce autorevole dell’ecumenismo e Vice Prefetto dell’Am-brosiana, sede del più meditato confronto su, e tra, autori e studiosi ebrei, cristiani, musulmani, per la riscoperta comune di comuni “nuovi classici per il III Millennio”;

•— “il grande alfabeto dell’umanità”, mostra ricercatissima sulla Bibbia, che, della Bibbia, riunisce in Ambrosiana, dal 26 Marzo al 30 Giugno 2013, gli esemplari più belli al mondo e le interpretazioni più suggestive di Marc Chagall, anche con incontri pubblici di approfondi-mento sul “grande alfabeto”, dono ebraico al mondo;

•— una mostra in San Sepolcro dei dipinti di Georgios Oikonomoy sul-la fede di Costantino: un cammino che interroga.

•— “Costantino il Grande alle radici dell’Europa”, convegno Interna-zionale di Studio del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, in occa-sione del 1700mo anniversario della Battaglia di Ponte Milvio e della conversione di Costantino, presso la Città del Vaticano-Roma, 18-21 aprile 2012. Risulta evidente come il Convegno di Milano su «Costantino a Mi-lano, l’Editto e la sua storia» risulti incastonato in un processo di inizia-tive, che, partendo dal Discorso alla città, mira a verificare, oggi, un’idea antica: quanto le religioni possano giovare all’insieme delle società che le hanno espresse e continuano a esprimerle e viverle. E di questo processo il Convegno ambisce ad essere il supporto scientifico. Dall’esame degli Atti del Convegno — appena saranno disponibili — potranno aversi elementi utili a stemperare qualcuna delle ragioni alla base delle prese di posizione di intellettuali che apparentemente disquisiscono sul ruolo della religione nella società, ma in realtà preferirebbero osservarne i resti nelle teche di qualche mostra, quale oggetto di studio e di ammirazione, e non vederla animarsi per sospingere l’umanità verso un’inesauribile ricerca di verità.

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Al Discorso alla città, “Initium libertatis”, di annuncio dell’anno costantinia-no sono seguiti commenti, che non è possibile qui ripercorrere, né dettagliatamente, né esaustivamente. Ci si limita perciò a dei brevi cenni sui più rilevanti, per dare almeno la sensazione del clima del dibattito diffuso che si è sviluppato sui media che si autoprocla-mano baluardo di tolleranza. Su “La Stampa” Gian Enrico Rusconi con l’articolo “Caro Scola, la laicità dello Stato non è nichilismo” subito sentenzia che “è deplorevole che la laicità dello Stato sia identificata tout court con una idea di secolarizzazione che sconfina di fatto con il nichilismo”. Per il “Corriere della Sera”, in prima pagina “Scola contro la laicità dello Stato”, ma, continuando a pag. 20, lo stesso articolo di Paolo Foschini è rititolato: “Il cardinal Scola e la laicità: No a uno Stato senza Dio”. Su “la Repubblica”, cronaca di Ida Dazzi: “Lo Stato laico minaccia la libertà religiosa”; intervista al sindaco Pisapia: “Nes-sun credo va privilegiato, rivendico l’autonomia della politica”; commento di Vito Mancuso: “Scola, lo Stato laico e la libertà religiosa”: “La storia insegna che si dà libertà religiosa solo nella misura in cui lo Stato non si lega a nessuna religione particolare, solo se si pone di fronte ai suoi cittadini con l’intenzione di rispettare tutti, minoranze comprese, solo se pratica quella forma di neutralità così esplicitamente criticata dal cardinal Scola nel suo discorso di ieri”. Su “l’Unità” “La laicità del cardinale Scola tra diritto e morale”, 10 dicembre, è chiosata così da Nicola Colajanni: “il dibattito sulla laicità [...] risulta intriso da una visione in fondo pessimistica sul contrasto tra cultura secolarista e fenomeno religioso, che certamente non rende i tanti contatti provocati dal camminare insieme”; [identificare il diritto alla libertà religiosa con il dovere di ricercare la verità] “significa confondere due sistemi normativi, il diritto e la morale, con la conseguenza o di retrocedere il diritto positivo a diritto morale o di innalzare l’obbligo morale ad obbligo giuridico”. Per “L’Huffington Post” a firma Massimo Faggioli, 7 dicembre, “Il cardinale Scola tra il Medioevo e l’America”: Scola vor-rebbe un neo-americanismo con uno Stato aconfessionale che promuova una “laicità positiva” non neutrale rispetto al fatto religioso. Modello in crisi negli Usa: la “religione ci-vile” risulta di scarso valore e incidenza e, comunque, modello inapplicabile in Italia. Su “Il Fatto quotidiano” Furio Colombo, 9 dicembre, “I ‘cattolicisti’: quando la fede serve al potere” si cimenta col neologismo ‘cattolicista’ per accusare quanti, “cardinali e no, usano la religione e la fede come strumento per governare”. Anche la Chiesa evangelica valdese, sul proprio sito, con Paolo Naso: “La guerra fredda del cardinale Scola”, pare allarmarsi: “l’obiettivo polemico dei vertici cattolici era il relativismo, da Milano è partito uno strale anche contro la ‘neutralità’ [...] la Chiesa ambrosiana rivendica una sua anomala idea di laicità, distinta e distante da quella del pensiero liberale tradizionale [...] fondata pro-prio sulla neutralità dello Stato riguardo alle questioni religiose”. Liquidatorio Roberto Escobar, “Scola di laicità”, sull’on-line de “Il mulino”: La libertà – quella religiosa, e non solo, – all’Occidente è stata data non dalla Chiesa, ma dai suoi avversari, o se si preferisce dai movimenti politici e culturali comunemente detti laici”. Roberto Beretta, giornalista su “Avvenire” e altri giornali cattolici, il 9 dicembre, tenta una difesa: “Scola ha ragione (nell’esigere che lo Stato “apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune [...] . È il difetto della democrazia quantitativa: destra o sinistra, il sistema perpetua se stesso con l’esclusione delle posizioni «di coscienza», le quali sono spesso le uniche da cui potremmo aspet-tarci una vera attenzione al bene comune e non agli interessi, alle lobbies, alle caste”. Chissà se uno stuolo così acuto di giornalisti sfoglierà anche le risultanze del Convegno dei più insigni studiosi dell’età costantiniana e con quelle vorrà misurarsi. Noi intanto, prima di darne ampio resocon-to, da una mostra così diffusa ritorniamo un momento a Palazzo Reale e rientriamo brevemente nel Colosseo, passando per l’Arco di Costanti-no, per ammirare i segni della bellezza e per ricordarci che, nel dibatte-re sulle altrui opinioni, non si dovrebbe prescindere né da un essenziale ancoraggio documentale né da un minimo di mediazione accademica.

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5. Le due grandi mostreA. Milano

Nel Palazzo Reale dal 25 ottobre 2012 al 24 marzo 2013 è stata allestita una Mostra celebrativa dell’anniversario dell’emanazione del-l’Editto di Costantino a Milano nel 313 d.C.. È stata progettata e ideata dal Museo Diocesano di Milano, promossa e prodotta dal Comune di Milano con la collaborazione del Ministero per i Beni e le Attività Cul-turali, della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, dell’Arcidiocesi di Milano e dell’Università degli Studi di Milano, è stata patrocinata dal Presidente della Repubblica Italiana e dalla Segreteria di Stato del Vaticano. Documentata l’importanza di Milano nel IV se-colo e il suo ruolo per l’unificazione dell’Europa e l’innalzamento del livello culturale e artistico di tutto l’Impero nell’età di Costantino. Pre-sentati anche molti risultati inediti degli ultimi scavi effettuati a Milano.

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Articolata in sei sezioni, ha mostrato gli aspetti più significativi 1. di Milano capitale imperiale dal 286 d.C.; 2. del passaggio dalle per-secuzioni contro i Cristiani alla vittoria di Costantino; 3. dei simboli di fede, il Chrismon; 4. del tempo della tolleranza, dalla persistenza del paganesimo alla ricerca del dio unico; 5. dei protagonisti nell’età di Costantino: esercito, chiesa, corte; 6. di Elena imperatrice e santa.

B. Roma La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma ospita al Colosseo, dal 11 aprile al 15 settembre 2013, la mostra “Co-stantino 313 d. C.”, reduce da quella a Palazzo Reale di Milano, ma ar-ricchita da una sezione interamente dedicata a Roma. Si chiude infatti con la sezione dedicata ai monumenti costantiniani di Roma: le resi-denze, le terme, le basiliche, i mausolei e le straordinarie decorazioni.

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6. Elena Elena, madre di Costantino rappre-

senta una delle figure femminili più straor-dinarie della storia. Di Elena ci parlano gli scrittori cristiani a lei vicini come Eusebio di Cesarea e Ambrogio che la descrive come il modello della donna cristiana, virtuosa e umi-le davanti a Dio sia nella vita modesta della sua gioventù, che nella gloria di imperatrice.

All’origine delle scelte e delle decisioni dell’imperatore romano Costantino, di operare una nuova translatio im-perii, non geografica, ma culturale, verso le nuove terre della libertà religiosa per tutti

« [...] tutto quello che c’è di divino nella sfera celeste potrà

riconciliarsi e cooperare con noi [...] »

vi è la figura e il ruolo di sua madre, Elena. Un suo contemporaneo, lo scrittore greco Eusebio di Cesarea (265 - 340 circa), ne ha esaltato la per-manenza in Palestina alla ricerca dell’origine più autentica dell’espe-

rienza cristiana e l’impulso dato al fi-glio, l’imperatore Co-stantino, a costrui-re grandi basiliche perché il culto fosse realmente garantito e libero.

Solo alla moglie di Giulio Cesare Ot-taviano Augusto, primo imperatore romano, il senato romano tributò il ti-tolo che ad Elena fu riservato: Augusta.

FL HELENA AVGVSTA

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Un appellativo che nel suo etimo —da augēre— indica la funzione di accrescere gli spazi di liber-tà, di benessere. Si deve alla testimonianza della grande guida religiosa di Milano, Ambrogio (340 – 397), la venerazione che nei secoli, e senza divisione tra Occidente ed Oriente, le venne tributata: san-ta. Santa, perché seppe ritrovare la vera croce nel suo pellegrinaggio in Terra Santa. Ma anche nella sua epoca fu celebrata oltre misura: le fu dedicato, per ritrarla, il rifacimento del volto di una scultura del secolo precedente, dell’età degli Antonini, dedicata alla fe-condità dell’amore, ad Afrodite. La divinità cui nel suo De rerum natura Lucrezio dedica l’invocazione per il suo stesso poema: Alma Venus. E anche alma contiene, nel suo etimo, il significato di nutrire, ălĕre, so-stenere, far crescere, allevare. La santità, cioè l’esemplarità, di Elena fu quella, riconosciuta da subito, di aver saputo accrescere e nutrire la libertà religiosa. Un’impresa suggellata dagli atti istituzionali del figlio Costantino. Anche il ritratto di Elena entra perciò in queste giornate di cele-brazione del 313 d.C., fisicamente mosso dalle sale dei Musei Capitolini in Roma, ma proveniente idealmente dalle sale della corte imperiale, per mostrarsi oggi in mezzo al pubbli-co, come in un gioco di specchi e riman-di pensierosi per le movimentate piazze della nostra società, divenendo elemen-to di ammirazione nelle mostre di Mi-lano e Roma e di studio nelle giorna-te delle università statale e cattolica di Milano e della Veneranda Biblio-teca Ambrosiana.

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SECVRITAS REIPVBLICE

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7. Saluto del Cardinale mercoledì, 8 maggio 2013

Università CattolicaAula Pio XI – Largo Gemelli, 1

MilanoAngelo Card. ScolaArcivescovo di Milano

Magnifico Rettore,Eccellenza Reverendissima,Illustrissimi Presidi,Chiarissimi Professori,Cari Studenti,

con piacere ho accettato l’invito a rivolgere una parola di aper-tura in occasione della prima seduta del Convegno Costantino a Milano. L’Editto e la sua storia (313-2013), promosso dalla Biblioteca Ambro-siana, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dall’Università degli Studi di Milano. Dico con piacere perché diverse sono le ragioni che, fin dal pri-mo momento, mi hanno fatto apprezzare l’iniziativa. Innanzitutto il fatto che si tratti di un Convegno scientifico pro-mosso da tre istituzioni culturali di prim’ordine nella storia e nel pre-sente della nostra città: la Biblioteca Ambrosiana, espressione istituzio-nale della cura che la Chiesa ha sempre avuto nel favorire lo sviluppo dei saperi e delle arti; l’Università Cattolica, nata dall’impegno libero e appassionato di un gruppo di cattolici come luogo di elaborazione del sapere a beneficio non solo dei cattolici italiani e l’Università degli Studi di Milano, polo di grande rilevanza in ambito accademico. Mi sembra che l’iniziativa che ci vede convenuti manifesti il “bene pratico dell’essere insieme” e le possibilità di lavoro comune in ambito acca-demico e culturale sempre più necessari alla vita pubblica della nostra città e della nostra nazione. In secondo luogo, il Convegno affronta lo studio particolareg-giato del cosiddetto “Editto di Milano” (forse come gli storici insegnano sarebbe meglio parlare di “Accordo di Milano”), le sue conseguenze sto-riche e la sua rilettura nelle diverse tradizioni europee. Basta scorrere il ricco programma di queste tre giornate per farsi un’idea della comples-sità insita nell’argomento. Infine, il mio interesse per questo Convegno nasce anche dal fatto che ho voluto porre all’attenzione di tutta la società milanese, e re-centemente anche al grande pubblico attraverso un breve saggio, il tema

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della “libertà religiosa”, emblema e culmine della libertà di coscienza, come uno dei principali argomenti, se non il primo, che mi sembra richiedere seria riflessione e rinnovata pratica nelle nostre odierne so-cietà occidentali. In occasione del Discorso alla Città, la vigilia di Sant’Ambrogio, ero partito dalla considerazione che non si possa negare all’Editto di Milano un qualche significato epocale, in quanto inizio di quella che, col tempo, avremmo potuto denominare “libertà religiosa”. Pur tenendo in debita considerazione le diverse riletture storiche che hanno soprav-valutato di volta in volta, o sottovalutato, il peso dell’Editto, mi sembra che si possa continuare ad affermare, ovviamente nel quadro della spe-cifica e ben delimitata teologia politica di quel momento storico, che con l’Editto di Milano emergono per la prima volta le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e, in maniera indiretta, quella che secoli dopo verrà chiamata “laicità dello Stato”. Sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione della società politica. Tuttavia, come ben sappiamo, l’Editto fu una sorta di “inizio mancato”. Basti pensare alla svolta di Teodosio. Tuttavia il tema della libertà religiosa e della laicità dello Stato hanno continuato a pesare lungo la storia ed è assai significativo che ai giorni nostri tale travaglio, nonostante i non pochi guadagni, è lungi dall’essere concluso. Parlare oggi di libertà religiosa significa infatti affrontare un’emergenza sempre più globale: guardando verso Oriente il problema si pone non di rado in termini di vera e propria persecuzione violenta su base religiosa di tutti coloro che professano una fede diversa da quella “ufficiale”, ma anche in Occidente non mancano limitazioni, talora non di poco conto, della libertà religiosa. Nei Paesi in cui domina ancora la religione di Stato, dove an-cora non si è scoperto il valore di una “sana laicità”, tutelare la libertà religiosa significherà primariamente incoraggiare il pluralismo religioso e l’apertura a tutte le espressioni religiose, per esempio eliminando le le-gislazioni che puniscono anche penalmente la blasfemia. In Occidente, invece, è urgente superare la latente diffidenza verso il fenomeno reli-gioso insita nell’ambiguità di alcune concezioni della laicità che gene-rano un clima non certo favorevole ad una autentica libertà religiosa. Al dato di una fragile pratica della libertà religiosa si aggiunge la necessità di riconoscere che si tratta di un tema assai complesso, e che laddove si parli della natura e dei “limiti” di tale libertà, nonché della sua coesistenza con l’imprescindibile dovere della persona di cercare la verità, come fa la Dignitatis humanae, si mettono in campo una serie di fattori il cui equilibrio non è mai dato una volta per sempre. Il tema

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della “libertà religiosa”, sulla cui bontà sembrerebbe facile, a prima vista, trovare vasto consenso, possiede in realtà un contenuto tutt’altro che ovvio e si impiglia in un nodo in cui s’intrecciano gravi problemi. Taluni potremmo definirli “classici”. Citerò: a) il rapporto tra verità oggettiva e coscienza individuale, b) la coordinazione tra comunità re-ligiose e potere statale e c), dal punto di vista teologico cristiano, la questione dell’interpretazione dell’universalità della salvezza in Cristo di fronte alla pluralità delle religioni e delle visioni etiche “sostantive”. Queste decisive questioni si ripresentano oggi con varianti assai cruciali. Penso: a) al rapporto tra ricerca religiosa personale e la sua espressione comunitaria; b) al potere dell’autorità pubblica legittimamente costitui-ta di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è; c) al rap-porto religioni/sette; d) all’acuto problema della libertà di conversione; e) all’equilibrio tra libertà religiosa e pace sociale. Tutti temi che hanno assunto una particolare configurazione nelle società plurali. Toccherà al Convegno filosofico-teologico che il Comitato dio-cesano per la celebrazione dell’anno costantiniano ha progettato per il prossimo autunno affrontarli di petto. È tuttavia decisivo che alla base di quel lavoro sia posto quello della rigorosa ricostruzione storica che voi vi apprestate a compiere. Esso, anche solo guardando al programma e ai relatori, si presenta unitariamente ben articolato. L’augurio per il vostro Convegno è che lo studio rigoroso del-l’Editto, della sua recezione e delle sue differenti interpretazioni possa illuminare la pratica della libertà religiosa che costituisce una vera e propria cartina di tornasole del grado di civiltà di una società.

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8. I temi del Convegno Costantino a Milano L’ Editto e la sua Storia

( 313 - 2013 ) 8 -11 Maggio 2013 Milano

I vari temi hanno avuto il più approfondito esame all’interno delle quat-tro giornate, in cui si è articolato il Convegno, diviso in tre sessioni :

L’Editto di Milano (8 maggio, in Università Cattolica, Aula Pio XI, Largo Gemelli, 1)

Ricadute ed effetti dell’Editto (9 maggio, nell’Università degli Studi, Sala Napoleonica di Palazzo Greppi, via S.Antonio,12)

Approcci specialistici. (10 e 11 maggio, in Biblioteca Ambrosiana, Sala delle Accademie, Piazza Pio XI, 2)

I Protagonisti

della prima Sessione, L’Editto di Milano, sono stati i professori Noel Lenski, Carlo Maria Mazzucchi, Arnaldo Marcone, G. Zecchini, B. Stolte, V.M. Minale;

della seconda Sessione, Ricadute ed effetti dell’Editto, I. Tantillo, M. Caltabiano, R. Cacitti, L.F. Pizzolato, F. Braschi, I. Gualandri, P.F. Moretti, A. Rossi, G. Pelizzari, C. Alzati;

della terza Sessione, Approcci specialistici, P. Chiesa, L. Rossi, M. Petoletti, R. Marti, A. Dell’Asta, S. Bellomo, G. Frasso, M. Regoliosi, F. Zuliani, A. Rocca, A. Bentoglio, P. Vismara, A. Džurova, V. Zhivov, E. Bressan,

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Il giusto punto di partenza per la valutazione più approfondita possibile oggi della rivoluzione costantiniana non poteva che essere affi-dato a Noel Lenski, esponente della fioritura contemporanea degli studi costantiniani negli Stati Uniti. N. Lenski, dell’Università di Princeton dal 1995, è presidente del Dipartimento di Classics, in Colorado, che studia tutte le epoche della storia romana ed è specializzato nella tarda antichità. I suoi libri, Valente e l’Impero del IV secolo (California 2002), e The Cambridge Companion all’età di Costantino (ed., Cambridge 2006), insieme agli oltre trenta articoli e recensioni sulle questioni legate alla storia politica, militare, sociale e giuridica del mondo romano, lo hanno portato ad essere naturalmente uno dei tre curatori di Costantino prima e dopo Costantino (ediz. italiana e inglese, Edipuglia, 2012). L’opera propedeutica all’apertura del Convegno di Milano. Infatti nel testo Co-stantino prima e dopo Costantino sono raccolte le relazioni presentate al-l’Università degli Studi di Perugia e nel Palazzo Comunale di Spello - di fronte al Rescritto di Costantino - tra il 27 e il 30 aprile 2011 nel 1700° anniversario dell’Editto dell’imperatore Galerio, poiché il 311 d.C. è stato effettivamente l’anno spartiacque che ha inaugurato la politica costantiniana, che ha avuto quindi il suo sbocco naturale nell’Editto di Milano dell’anno successivo. Ne è emerso un ritratto complesso di Costantino, inquadrato da due panoramiche di Lellia Cracco Ruggini e di Andrea Giardina e presentato in più di trenta contributi, raggruppati in tre grandi sezioni che coprono i preludi di Costantino, l’apice del suo potere e la sua influenza fino al mondo moderno. Se Lenski ha potuto distintamente tratteggiare il valore del-l’Editto, Carlo Maria Mazzucchi ha fornito ogni dettaglio circa le fonti primarie che documentano il testo dell’Editto, sviluppando un’analisi filologica dei testi, greco e latino, che Eusebio di Cesarea [265—340] e Lattanzio [210 ca.—303/317 ca.] ci hanno fatto pervenire. È singolare notare come il Mazzucchi, per sostenere l’analisi dei testi e della tradu-zione, abbia costruito delle tavole di raffronto, giustapponendo i testi in colonne, per poterne seguire le concordanze semantiche. Singolare, per-ché questo fu proprio il metodo usato dallo stesso Eusebio di Cesarea nel suo raffonto sul testo del Vangeli. Del resto era del tutto prevedibile ed atteso che Carlo Maria Mazzucchi, espertissimo proprio in nuove ri-cerche sui manoscritti greci dell’Ambrosiana, svolgesse una relazione ma-gistrale e testuale. Si è incaricato invece Arnaldo Marcone di fare il punto storio-grafico sulle analisi del dato storico dell’Editto di Milano. Marcone indica

N. Lenski,Il valore

dell'Edittodi Milano

C. M. Mazzucchi,

L'Edittodi Milano

e il testo di Eusebio e di Lattanzio

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come iniziale tappa degli studi costantiniani moderni in Italia il 1892, anno in cui lo storico Amedeo Crivellucci [1850–1914] vi introduce i ri-sultati di Otto Seeck [1850–1921], Die Anfänge Constantins des Großen [pubbl. in: Deutsche Zeitschrift für Geschichtswissenschaft 7 (1892), S. 41–107 u. 189–281]. L’articolo di Crivellucci uscì in Studi Storici, aprendo già in esposizione in italiano con le conclusioni formulate in Germania: L’anno 313 Costantino con l’Editto di Milano accordò ai cristia-ni nell’Impero Romano tolleranza legale. Così tutti abbiamo imparato sui banchi di scuola. Eppure in tutto questo non vi è una parola di vero, poiché tolleranza legale ottennero i cristiani non nel 313 ma nel 311. Autore di tale atto non fu Costantino, ma Galerio e un Editto di Milano, il quale si occupasse della questione cristiana, non vi è mai stato. Un documento cui suole darsi questo nome ci fu per vero conservato testualmente, ma esso pri-ma di tutto non è un editto, in secondo luogo non fu promulgato a Milano, in terzo luogo non fu promulgato da Costantino, infine, esso non concede a tutto l’Impero la tolleranza legale che i cristiani già da un pezzo godevano ed è nel suo contenuto di una importanza assai limitata. Un giudizio così lapidario fu il risultato dell’assunzione della versione di Lattanzio, conservata nella forma della lettera affissa dal collega di Costantino, Licinio, a Nicomedia il 13 giugno del 313, con cui si riconosceva ai cristiani di Bitinia di Oriente, quanto quelli di Oc-cidente godevano già, mentre in quella conservata da Eusebio lo stesso testo, con qualche modifica, viene pubblicato poco dopo a Cesarea. In entrambi i casi si fa riferimento all’accordo raggiunto nelle trattative fra Costantino e Licinio a Milano, nel febbraio del 313, e all’estensione alle Provincie dello sconfitto Massimino dei risultati di tale accordo. È comprensibile quindi che Crivellucci d’ora innanzi critichi chiunque continui a parlare, come lo storico francese Gaston Boissier, di Editto di Milano, invece di Rescritto di Nicomedia. Tale polemica è comprensibile per la forte contrapposizione presente in Italia all’indomani del compi-mento del Risorgimento tra laici e cattolici. Ma non mancarono figure equilibrate, che giunsero ad interpretazioni peculiari dell’Editto, come quella del sindaco di Milano, di parte liberale: il poligrafo Gaetano Ne-gri, in un libro del 1901. Egli interpreta l’Editto come una concessione della piena libertà di culto perché, spezzato ogni legame tra lo stato e una religione particolare, ciò che premeva davvero allo stato e all’Impe-ratore non era che i sudditi pregassero un determinato dio, ma soltanto che pregassero. Addirittura, secondo Negri: “Il decreto di Costantino è nel suo principio l’ispiratore primo degli atti più razionali che siano mai usciti dal potere legislativo. Anzi, si può dire che la legislazione di tutti i tempi e di tutti i popoli non è mai andata più in là”.

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A. Marcone,L'Edittodi Milano:dato storico erielaborazione storiografica

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Tuttavia, per Negri, Costantino tradì lo spirito dell’Editto, per-ché alla fine al cristianesimo fu dato quel valore di religione di stato che ebbe la sua sanzione con Teodosio. Al di là della polemica resta il fatto che il Crivellucci sia stato in Italia un precoce interprete della tendenza storiografica che riconosce attendibilità all’Eusebio nella Hi-storia ecclesiatica, mentre presuppone una propensione da parte sua ad adulterare i documenti nella Vita Costantini. Si apriva così la polemica nei confronti dei negatori dell’attendibilità dei documenti riportati da Eusebio nella Vita. Ma, per Casamassa sono i documenti ad imbarazza-re quanti vorrebbero presentare la figura dell’Imperatore Costantino in una luce nuova, originale, che contrasta nella maniera più stridente con quella che emana dai documenti di Eusebio e di altri storici ecclesiasti-ci. La questione finì con l’essere riassorbita all’interno delle polemiche tra cattolici e laici e l’essere proiettata nel nostro paese con l’agitarsi di un anticlericalismo, che il ’900 ereditò e di cui ci si servì nei primi decenni per farne acritico strumento di lotta politica. Anche violenta. Nella ricostruzione di Marcone, la cosa risulta particolarmente evidente esaminando gli studi del giubileo dell’Editto, quello del 1913. Il clima non era quello più idoneo per una pacata riconsiderazione storica della questione. Basterebbe scorrere gli interventi raccolti nelle Letture Co-stantiniane, promosse dal Consiglio Superiore e dal Comitato Romano per i festeggiamenti commemorativi del XVI, centenario della procla-mazione della pace della Chiesa [vedi: Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie, vol. 63, Fasc. 252 (31 Dicembre 1913), pp 541-546]. L’Editto era associato all’idea di tolleranza religiosa di cui Costantino veniva identi-ficato come campione. Una prospettiva, questa, che prescinde dal dato storico fattuale. Anche la voce Costantino nel Dizionario Epigrafico non si discosta da questa lettura, fatta non per la ricotruzione coerente e veritiera dei documenti, ma per una ragione estranea agli studi storici: assecondare gli indirizzi politici contingenti nella definizione dei rap-porti chiesa–stato. E la storiografia italiana della prima metà del ‘900 rimase inchiodata a una tale lettura. Invece la storiografia anglosassone approfondiva le sue analisi e giungeva alla conclusione che nel febbraio 313 l’incontro di Milano tra Costantino e Licinio, oltre al matrimonio di quest’ultimo con la sorellastra di Costantino, produsse un accordo per una politica di piena libertà religiosa e la chiesa cristiana, o meglio ciascuna chiesa cristiana, fu riconosciuta come persona legale. Que-st’accordo fu alla base di un Rescritto che fu messo in pratica da Licinio al suo ritorno in Oriente. Questo Rescritto è il testo che si indica ge-neralmente come Editto di Milano. Altri avanzamenti furono proposti dalla storiografia francese e uno strumento utile a ripercorrere in modo

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sistematico tutta la bibliografia su questo evento storico fu un saggio del 1967, contenuto nella Revue des études bizantines. Una ripresa significativa degli studi in Italia si ebbe con la pub-blicazione di una monografia di Salvatore Calderone, Costantino e il cat-tolicesimo, nel 1962, ristampato da il Mulino nel 2001. Calderone esalta la lettura di Eusebio da Cesarea e sostiene un’interpretazione originale dell’opera di Costantino e del significato della sua conversione. Secon-do Calderone già un mese dopo la battaglia di Ponte Milvio, Costantino diede l’avvio alla realizzazione del suo programma politico–religioso, avendo idee già ben chiare sulla cattolicità della chiesa. Mentre Licinio avrebbe voluto aprire ad una libertà religiosa assoluta per tutti i cri-stiani, Costantino pensava sin dall’inizio a concessioni solo per alcuni gruppi di cristiani, quelli che potessero rientrare in una cattolicità accet-tabile dalla funzione universale imperiale e degna di un nuovo impero romano cristiano. La posizione di Calderone ha alimentato l’interesse degli studi negli ultimi due decenni sul tema della tolleranza religiosa nel mondo antico e specificamente in età costantiniana. Recentemente lo storico Zecchini ha però messo in guardia dall’applicare il concetto di tolleranza al mondo antico. In effetti la sua applicazione è proble-matica, trattandosi di un concetto ricollegabile ad epoche molto più tarde, come l’Illuminismo, e alle specifiche elaborazioni del pensiero occidentale, così diverso dalle concezioni statuali della res publica ro-mana. Piuttosto, proprio dal testo dell’altra fonte, Lattanzio, andrebbe riscoperto lo scopo della sua opera testimoniale, le Divinae istitutiones: lo scopo era privare le autorità romane delle giustificazioni, filosofica e legale, per perseguitare i cristiani. Oggi, comunque, è la storiografia tedesca a ripristinare la premi-nenza del 313 sul 311, anno della tolleranza di Galerio. Sulla stessa scia si muoverebbe anche quella italiana, se è vero, con Valerio Neri, che non bisogna solo tener conto delle analisi della storiografia moderna e con-temporanea: bisogna prima o poi fare i conti direttamente anche con la striografia antica e tener conto delle relative implicazioni. Ad esempio, il libro IX di Eusebio rappresenta un cambiamento fondamentale di prospettiva storica che identifica ormai come momento decisivo nella storia della chiesa dell’Impero romano, non più l’editto di tolleranza di Galerio nel 311, ma il successo dei due imperatori teophileis con-tro la coppia di sovrani illegittimi Massenzio e Massimino, vale a dire l’anno 313. Il libro IX presuppone cioè un cambiamento di prospettiva fondamentale in Eusebio, che, perciò, sposta nell’anno del successo di Costantino e Licinio il vero momento di svolta fondamentale. In conclusione Arnaldo Marcone, che per l’avvio della sua ri-costruzione storiografica era partito dal saggio di Otto Seeck, ritorna

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proprio su quel saggio nella riproposizione che ne ha fatto Timothy Bar-nes [Constantine and Eusebius, Cambridge, MA Harvard University Press, 1981], liquidando la questione con una formulazione molto netta: — i due imperatori incontrandosi a Milano, concordarono, pro-babilmente senza nessun atto pubblico, di estendere al resto dell’Impe-ro la libertà di culto e la restituzione della proprietà confiscata nel 303, di cui già profittavano i cristiani dell’Occidente, ma non in Oriente. Barnes in sostanza prende di mira quella tradizione storiografi-ca, profondamente radicata, di usare il termine di Editto di Milano anco-ra con tante cautele ormai del tutto ingiustificate che di fatto ripudiano il concetto stesso di Editto di Milano. Resta da sottolineare che il dibattito storiografico, così esausti-vamente ripreso da Marcone, non si esaurisce nella ricostruzione del passato, ma ha una ricaduta vitale nell’orientamento da assumere oggi nel confronto tra i movimenti delle popolazioni e gli atteggiamenti che assumono gli stati e le religioni, come è parso abbiano voluto dimo-strare sia il Convegno di Perugia e nel Palazzo Comunale di Spello del 2011, già citati, sia quello di Graz in Austria sempre dell’aprile del 2011 in coincidenza con l’anniversario dell’Editto di tolleranza di Galerio, che merita comunque di essere considerato il vero momento di svolta, premessa delle scelte decisive immediatamente successive. È innegabile che l’Editto di Galerio determinò il quadro politico e normativo rispet-to al quale si definì la svolta costantiniana, ma, specie il dibattito nel Convegno in Austria [ora, nel 2013, pubblicato dalla Universität Innsbruck: Jürgen Nautz, Kristina Stöckl, Roman Siebenrock (Hg.), Öffentliche Religionen in Österreich, Po-litikverständnis und zivilgesellschaftliches Engagement] avrebbe dimostrato la sua positiva ricaduta sul dialogo interreligioso d’oggi con ebrei e soprattutto con mussulmani, letto in controluce rispetto alle prime dichiarazioni di tolleranza reciproche pagane e cristiane all’inizio del IV secolo. Il giudizio conclusivo di Marcone è netto: se il termine di Editto di Milano può prestarsi ad equivoci al-meno sul piano strettamente storico-giuridico, forse lo è soprattutto per quelle implicazioni a vasto raggio sulla tolleranza religiosa che l’Editto, in qualsiasi forma sia stato emanato, probabilmente non poteva pre-supporre. È per altro da ribadire l’importanza dell’incontro di Milano per il futuro dell’Impero, per il suo assetto organizzativo istituzionale e per il ruolo che in essa vi avrebbe trovato la chiesa cristiana. Milano era già stata la sede di importanti incontri tra i tetrarchi [i due Augu-sti e i due Cesari] nel riorganizzato impero di Diocleziano. Nella città nel gennaio del 291 si erano incontrati i due Augusti, Diocleziano e Massimiano. Ora, nel 313, l’intesa apparentemente solida, sancita tra

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Costantino e Licinio, doveva essere percepita come un nuovo momento di partenza per un Impero ormai organizzato e diviso in due parti e in cui la parte orientale acquisiva un’identità propria, sancita, di li a poco, dall’istituzione di una nuova capitale, Costantinopoli, concepita non per soppiantare Roma, ma come sua duplicazione ed emanazione per l’Oriente. Se si vuole rispettare la realtà storica possiamo usare un minimo di cautela nel parlare di Editto di Milano, ma, comunque sia, gli accordi di Milano, tra Costantino e Licinio non furono per questo meno importanti e resta non meno vero che una vulgata storiografica è essa stessa un dato storico, quanto meno lo diventa e con questo si devo-no poi alla fine fare i conti.

Subito dopo l’Editto di Milano del 313, nell’agosto del 314, fu convocato un Concilio ad Arles. Il suo studio si rivela quindi estrema-mente promettente per comprendere anche l’evento che lo ha precedu-to. Se ne è incaricato Giuseppe Zecchini, grande studioso del pensiero politico romano e anche di Costantino il Grande. Secondo Zecchini, il Concilio, tenuto ad Arles nell’agosto 314, presenta non poche questio-ni di rilevante interesse.

Prima di seguire la disamina delle questioni presentate dal professor Zecchini, e per meglio seguirle, si apre qui una breve nota storico-esplicativa del Curatore. L’importanza dell’esame del Concilio di Arles risulta evidente, se si con-sidera che fu il tentativo più alto e più concordato tra autorità civili e auto-rità religiosa per ottenere una duratura pace sociale e religiosa, arginando, sedando e reintegrando i seguaci del donatismo, un vasto movimento sci-smatico che squassava la chiesa africana, e non solo, a cominciare dal sec. IV. Durante la violenta persecuzione di Diocleziano [303], tanti furono i cri-stiani che scelsero di immolarsi, facendosi trucidare dalle armi romani. Una vera e propria era di martirio collettivo, che aprì un fossato profondissimo tra chi considerava quell’eredità di sacrificio solo uno zelo eccessivo e chi invece un esempio fulgido per la ricerca di una purezza di vita individuale e collettiva. Una lotta, dottrinale e fisica, asperrima, tra chi, i donatisti, vo-levano imporre una Chiesa modellata come una società di santi, puri e per-fetti, e quanti avversavano questa volontà fanatica di modellare la società e, chiedendo moderazione, consideravano essenziale la massima prudenza in ogni giudizio morale e il più scrupoloso rispetto per ogni pur travagliato, e sempre insondabile, percorso di vita verso la perfettibilità, più che verso un’irraggiungibile perfezione di vita. Lo scontro era violento e prolungato. La divisione aperta sulla dottrina si faceva eresia. La ricerca ossessiva di novità disciplinari e liturgiche si faceva scisma. Cristiani contro cristiani. Si giungeva a dissacrare gli stessi edifici religiosi per riconsacrarli con nuovi riti. Persino il superamento di un peccato individuale richiedeva il rito di un nuovo battesimo pubblico. La ferita si approfondiva ed ampliava. Epi-centro Cartagine. Durò fino all’espansione islamica, che rapidamente fago-citò l’intera costa africana, incorporando ogni dissidio, ogni violenza, ogni aspirazione. In quell’antico crogiuolo era nato, cresciuto e fiorito lo spirito

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G. Zecchini,Costantino e il Conciliodi Arles

NotadelCuratore

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religioso e filosofico del grande Agostino. Da quel crogiuolo era arrivato il segnale a Costantino di credere che un Concilio, in zona neutrale, nella Gal-lia, ad Arles, avrebbe potuto portare alla riconciliazione e avrebbe potuto misurare sul campo l’efficacia della recente libertà religiosa garantita anche per tutti, anche per i cristiani.

Una prima questione è il carattere del Concilio stesso. Se si ec-cettua il ben più limitato Sinodo romano dell’ottobre 313, esso è il primo Concilio posteriore all’Editto di Milano e alla conferma di una libertà religiosa del tutto nuova per i cristiani. È inoltre un Concilio a composizione esclusivamente occidentale, ma di ampiezza senza prece-denti. In che misura potrebbe considerarsi, almeno nelle intenzioni dei suoi promotori, ecumenico? Una seconda questione è data dai contenuti dei canoni conci-liari a noi fortunatamente noti con un discreto margine di certezza, infatti i primi 22 canoni sono certamente autentici e solo i canoni 24 e 29 devono ritenersi spuri. Da questo punto di vista il confronto con il precedente Concilio di Elvira del 302 è significativo, giacché tra gli 81 canoni attribuiti a quest’ultimo assai difficile distinguere il testo autentico dalle eventuali interpolazioni successive. È noto che i canoni riguardano la disciplina ecclesiastica, ma alcuni riflettono anche i rap-porti con le istituzioni imperiali, ormai avviate ad essere poste su basi diverse. Una terza questione, che qui ci riguarda più da presso, è il ruo-lo di Costantino riguardo alla ideazione, alla convocazione, allo svol-gimento del Concilio e soprattutto riguardo alle sue attese che egli si aspettava dal Concilio stesso. L’indagine su tale ruolo non può prescin-dere da considerazioni preliminari sulla documentazione disponibile. Tale documentazione non comprende nessuna fonte storiografica, ma è sostituita soltanto da quattro lettere: — la prima è una lettera di Costantino al vescovo di Siracusa, Cresto, che ci è trasmessa dalla Storia Ecclesiastica di Eusebio e che contiene alcune notizie sulla convocazione, organizzazione e scopo del Concilio; — la seconda è la lettera di Costantino al vicario d’Africa, Elafio, conser-vataci in appendice all’opera Contro i Donatisti e dal contenuto analo-go alla precedente; — la terza è la lettera con cui i Padri conciliari informarono il vescovo di Roma, Silvestro, sulle misure approvate durante il Concilio; la quarta è una lettera di Costantino ai Padri conciliari dopo la fine del Concilio stesso;— com’è noto la quarta epistola è la più significativa perché in essa Co-stantino si esprime riguardo alla propria fede religiosa, alla capacità che

G. Zecchini,Costantino

e il Conciliodi Arles

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ha Dio di leggere nel cuore degli uomini, alla propria attesa del Giudizio di Dio su di sé, ed infine il rapporto tra Imperatore e vescovi che devono ricordarsi di pregare per lui affinché Dio ne abbia misericordia. Essa è di autenticità ancora oggi contestata, soprattutto da studiosi tedeschi che ne attribuiscono il testo a un rielaboratore di estrazione clericale. I dubbi nascono dall’evidente influsso di Lattanzio sui contenuti dottri-nali della lettera che mal si concilia con una cronologia tarda sia della stesura del De divinis istitutionibus, sia dalla presenza di Lattanzio come precettore dei figli di Costantino, di intellettuale capace d’influenzare l’Imperatore stesso. L’innalzamento della composizione dell’opera tra il 310 e il 313 e del soggiorno lontano di Lattanzio già dal 310, han-no però, a giudizio di Zecchini, risolto persuasivamente la questione e permettono di attribuire la lettera, nella sua totalità, a Costantino come peraltro è ammesso da tutti i più recenti biografi dell’Imperatore, soprattutto americani, ma non solo, anche italiani e tedeschi. Più in generale, i dubbi sulla paternità costantiniana della lettera sono paral-leli a quelli sulla paternità costantiniana dell’Oratio sanctorum, oggi del tutto caduti. In entrambi i casi la diffidenza era figlia di un pregiudizio: che Costantino fosse un politico rozzo e spregiudicato, incapace di una personale e anche appassionata ricerca sui contenuti della religione da lui appena scelta o per taluni addirittura non ancora scelta. Se invece si situano gli inizi di un avvicinamento di Costantino al cristianesimo già nel 311 in Gallia e se si tiene conto dell’influsso di Lattanzio e di alcuni vescovi gallo-romani, allora il livello di consapevolezza raggiunto nella lettera del 314, non dovrebbe più stupire. La mancanza di una fonte storiografica costringe lo studioso moderno a un’opera ex novo di contestualizzazione dei documenti sud-detti, solo in parte supplita da alcuni dati contenuti nella lettera a Cre-sto e in parte riprodotti nella lettera ad Elafio. Scrivendo a Cresto, Costantino collega il Sinodo di Arles a quel-lo che lui aveva convocato a Roma nell’ottobre 313, alla presenza del vescovo di Roma, di alcuni vescovi gallici e ovviamente delle due con-troparti africane per risolvere la controversia donatista, o meglio, deci-dere sulla correttezza della elezione di Ceciliano a vescovo di Cartagine. L’imperatore riconosce che la decisione di quel Sinodo non aveva po-sto fine alla controversia, ormai degenerata in conflitti personali e che dunque egli riteneva di dover sottoporre di nuovo la questione ad un numero più grande di vescovi. Perciò aveva ordinato a parecchi presuli di varia provenienza, di riunirsi ad Arles, alle calende di agosto. Dopo aver avvertito Cresto che gli concedeva il privilegio di viaggiare con due presbiteri e tre servi a spese del cursus publicus, Costantino ribadiva la

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sua speranza nella saggezza del nuovo sinodo, che portasse finalmente a una definitiva composizione della vicenda e riportasse nella chiesa, seppur tardivamente, una fraterna concordia. Risulta evidente che è C. a promuovere il Concilio, egli vi im-pegna la sua autorità, la sua capacità di dare ordini e mette a disposi-zione il servizio pubblico di trasporto che equivale a uno stanziamento finanziario direttamente proporzionale al numero dei partecipanti. La sua preoccupazione esclusiva è quella di porre fine alla controversia do-natista e di riportare la pace nella chiesa. Nessuna altra intenzione può essergli attribuita, per questo egli ritiene che i vescovi giudici debbano essere quanti più possibile e in ogni caso ben più dei membri del Sinodo romano del 313. Proprio il Sinodo romano è lo sfondo o il punto da cui bisogna partire. Come si evince da un’altra lettera di Costantino conser-vata sempre da Eusebio, la lettera è rivolta a Milziade vescovo di Roma e a un, non meglio noto, Marco. L’Imperatore aveva inteso sottoporre la questione donatista al giudizio del vescovo di Roma, Milziade, e di tre vescovi gallo-romani. Si trattava di tre ecclesiastici, provenienti da quel-la parte dell’Impero che Costantino controllava già da qualche anno, con ogni probabilità a lui già noti e ritenuti degni della sua fiducia. Mil-ziade però, aveva cambiato le carte in tavola facendo affluire a Roma altri 15 vescovi italici e assicurandosi così un’ampia maggioranza. Su questo dovettero insistere i Donatisti per contestare il verdetto e su que-sto trovarono in Costantino un ascoltatore benevolo, perché egli stesso si era sentito, se non proprio ingannato, almeno scavalcato da Milziade. Allora si capisce: 1. — la collocazione del nuovo Sinodo nell’area corrispondente al dominio di C. stesso, prima del 312 e alla futura prefettura delle Gallie; 2. — la scelta di Arles, invece di Lione, perché forse ad Arles Co-stantino stesso era stato proclamato Augusto il 25 dicembre del 307 e soprattutto perché la presidenza poteva essere affidata, quasi come na-turale conseguenza, al vescovo di quella città, Marino, di cui appunto Costantino si fidava; 3. — l’altrettanto conseguente maggioranza di partecipanti che, data la vicinanza alla sede conciliare, fu sempre gallo-romana: ad Arles risultano rappresentate 44 chiese di cui 16 galliche, solo 10 italiche e presenti 32 vescovi di cui 12 gallici, mentre gli altri sono sparsi, d’altra parte l’assenza del nuovo vescovo di Roma, Silvestro —nel frattempo Milziade era morto—, che inviò, a sostituirlo, due presbiteri e due dia-coni, ha un po’ l’aria di una risentita protesta, per la sfiducia mostrata da Costantino verso il suo predecessore.

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Riaprendo la questione dopo neanche un anno, l’Imperatore rivelava di ritenere la decisione del Sinodo di Roma, per lo meno, ri-vedibile o comunque bisognosa di un’ulteriore sanzione. Per altro il confronto numerico tra i due sinodi, di Roma e di Arles, ci fa compren-dere meglio di ogni altra considerazione come Costantino intendeva il carattere del Concilio stesso. A Roma su 19 vescovi, solo 4 erano di scelta imperiale, gli altri 15 erano invece stati di scelta del vescovo di Roma, 3 erano gallo-romani e 16 erano italici. Si trattava quindi di una media assemblea di vescovi del tutto sproporzionata, sbilanciata nella sua composizione e non certo corrispondente alle scelte iniziali di Co-stantino, che prevedevano una giuria di 4 presuli —una giuria non un sinodo. Il sinodo, occorre ribadirlo, si era trasformato per iniziativa di Milziade e come tale appariva prevalentemente italico, così come per esempio il precedente di Elvira, era stato iberico, poiché i suoi parteci-panti, 19 vescovi e 26 presbiteri, erano tutti provenienti dalla Spagna. D’altra parte i Donatisti avevano insistito sul loro diritto di appellarsi all’Imperatore e quindi sul diritto di quest’ultimo di porsi come istanza superiore rispetto al Sinodo. Ora da un lato Costantino respinge vigorosamente, nella sua let-tera ai vescovi riuniti ad Arles, questo ruolo che i Donatisti volevano imporre —egli stesso è in attesa del giudizio di Dio, che sulla terra è rappresentato dal giudizio dei vescovi e non può certo sostituirlo, quin-di—, dall’altro lato egli rivendica a sé, in quanto Imperatore, il ruolo preliminare di promotore di Concilio. I Sinodi anteriori, promossi da ecclesiastici, erano stati tutti limitati e parziali e anche solo per questo motivo, suscettibili di riserve, di ricorsi in appello, come avevan fatto i Donatisti, invece un Concilio, il più numeroso possibile, poteva a buon diritto rappresentare l’insieme dei vescovi e quindi della Chiesa e le sue decisioni diventavano così inoppugnabili. Di conseguenza era necessa-rio che l’Imperatore si assumesse il compito di rendere possibile tale Concilio, sollecitando i vescovi e mettendo a loro disposizione il Cursus publicus, le risorse economiche, per facilitarne gli spostamenti. L’esito dell’iniziativa fu un Concilio rappresentativo di ben 44 chiese con una solida maggioranza gallo-romana, con presenze africane, iberiche, britanniche, italiche e persino illiriche. Tutta la pars occiden-tis fu ad Arles, tutte le chiese che Costantino poteva raggiungere, perchè erano ormai sotto il suo governo. L’assenza della pars orientis dipese dal fatto che la controllava Licinio, cioè da un fattore politico. Se dunque da un punto di vista ecclesiastico, per così dire tecnico, non si può par-lare di Concilio ecumenico, da un punto di vista profano Costantino intese convocare la riunione di vescovi la più ampia possibile, quindi

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di fatto, la più ecumenica. Nelle sue intenzioni il Concilio di Arles può dirsi allora ecumenico e costituisce l’immediato precedente e modello del Concilio di Nicea. L’ulteriore questione, se Costantino abbia presenziato ai lavori del Concilio oppure no, è importante non per giudicare il suo carattere, ma per conoscere come lo interpretò. La maggior parte degli studiosi moderni opta per la presenza dell’Imperatore, di cui però non c’è trac-cia sicura nelle fonti antiche. Può darsi che Costantino sia passato per Arles dirigendosi verso il Reno, dove già si trovava il 29 ottobre e magari che abbia inaugurato il Concilio, però la lettera da lui scritta ai Padri conciliari sembra implicare una rispettosa lontananza e la volontà di non ingerirsi. Ancor più a Nicea Costantino doveva essere presente, per-ché non c’era una personalità a lui nota, cui lasciare la direzione dei lavori. Ad Arles, Marino era il suo uomo di fiducia in possesso di una solida maggioranza e dunque non c’era bisogno di controllare diret-tamente la situazione. Infine, lo stesso contenuto dei Canoni di Arles, sembra prescindere dalla presenza del sovrano. Il Concilio di Arles, com’è noto, confermò il giudizio del Sinodo di Roma riguardo alla contesa fra Ceciliano di Cartagine e i Donatisti, colse però l’occasione per occuparsi di molti altri argomenti concernenti la data della Pasqua, la disciplina ecclesiastica, i sacramenti, la conver-sione dei malati e il reintegro degli scomunicati nella comunità ecclesia-le, la morale sessuale, il prestito a usura da parte di membri del clero, le false lettere di raccomandazione e la falsa testimonianza. Molti di questi temi erano stati trattati ad Elvira e Arles si limitò a confermarli. Tra le novità si segnalano, invece, i Canoni 3 e 7, il primo senza alcuna corrispondenza ad Elvira, il secondo contenente un importante cambia-mento rispetto al canone 56 di Elvira. Nel canone 3 si è soliti vedere una manifestazione della volontà di venire incontro alle attese, alle esigenze dell’Impero e di compiacere Costantino. Di fronte al nuovo stato, ormai cristiano nel suo rappresentante supremo, i vescovi avrebbero voluto chiarire che non c’era alcun impedimento per il cristiano a svolgere il servizio militare, ma lasciava aperta la possibilità dell’obiezione di coscienza in caso di guerra. Giuseppe Zecchini, a questo punto, propone di esaminare il con-tenuto del canone 3. Molto breve, affronta un caso particolare e tace su problemi generali che evidentemente non avevano bisogno di essere regolati, perché su di essi c’era un accordo unanime. Si parla solo di coloro che abbandonano il servizio militare e disertano in tempo di pace, non è perciò lecito inferire alcuna disposizione che riguardi il ser-vizio militare in genere o il servizio militare in tempo di guerra, quando

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esercitare il mestiere di soldato poteva ovviamente implicare l’uso della violenza sino all’uccisione del nemico. Zecchini crede che la liceità del servizio militare non fosse oggetto di discussione. Però sotto comandan-ti pagani, che imponevano ai soldati l’obbligo di assistere ai sacrifici agli dei, poteva esserci incompatibilità fra cristianesimo e milizia, altri-menti il problema non si sarebbe posto. I dubbi sulla liceità di uccidere in guerra affiorano già in pensatori del IV sec. Si tratta di pensatori orientali, in particolare Basilio, ma è da dimostrare che fossero oggetto di riflessione ad Arles; oppure di Ambrogio, di due generazioni dopo. Ma resta da dimostrare che ad Arles i vescovi occidentali, lì riuniti, la pensassero diversamente, ma nulla di tutto ciò trapela dal canone, il cui scopo è molto più preciso e determinato. Il canone esclude dalla comu-nità ecclesiale i desertores in tempo di pace, cioè coloro che si davano alla macchia, alimentando il banditismo. Il fenomeno dei desertores era una piaga sociale che affliggeva tutto l’occidente, ma in particolare le Gallie, almeno dai tempi di Commodo. Un fenomeno a metà tra la pro-testa sociale e la semplice criminalità, abbastanza frequente e diffusa nell’inquieto occidente tardo antico, che si alimentava naturalmente dei disertori dall’esercito. In quest’epoca i militari erano pur sempre mercenari, abili a maneggiare le armi, desiderosi di arricchirsi, inclini al saccheggio, per i quali il passaggio dallo stato di militari a quello di banditi era un salto di qualità neppure eccessivo. Allora la decisione dei vescovi di escluderli dalla comunità ecclesiale non è che la meccanica conseguenza del loro autoescludersi dalla comunità civile. Vagabondi e banditi sono trattati, si noti, alla stessa stregua degli aurighi e degli attori dei canoni 4 e 5, cioè di categorie di uomini dediti ad attività ri-tenute immorali e dannose per la società e quindi esclusi a communione fidelium. Dall’esame di tutti gli altri canoni, in particolare il 7 e l’8, si evince che si è entrati in una nuova era per i cristiani e per la loro presenza nella società civile. I vescovi incoraggiavano, seppur indiret-tamente, la carriera civile dei cristiani e la loro partecipazione alla ge-stione dell’Impero. Non bisogna però cadere nella tentazione di leggere tra le righe dei canoni quello che non c’è scritto e di trarre conclusioni di ampia portata che andrebbero ben al di là delle intenzioni dei Padri conciliari. Zecchini crede che a questi ultimi stesse a cuore essenzial-mente la disciplina sacramentale: bisognava stabilire se un funzionario pubblico fosse nelle condizioni di accostarsi all’eucarestia e chi dovesse deciderlo. Proprio questo è allora il punto fondamentale. Solo il vescovo nella cui giurisdizione agiva il funzionario, aveva il compito di sorve-gliarlo e quindi d’intervenire per eventualmente negargli l’eucarestia.

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Perciò il vescovo era tenuto ad emettere un giudizio di buono o cattivo comportamento del funzionario. Naturalmente tale giudizio riguardava il comportamento del funzionario in quanto cristiano, non come pub-blico ufficiale, ma in concreto la distinzione non era così ovvia e facile. Il funzionario veniva a dipendere dal vescovo che si trovava in uno stato di soggezione psicologica e di subordinazione davanti a lui. Poteva non sentirsi libero di assumere decisioni e provvedimenti non graditi al ve-scovo in questione. La conseguenza più immediata e visibile del canone 7 di Arles, di mera disciplina sacramentale, è che l’autorità religiosa cristiana è portata a interferire nell’attività governativa e che i vescovi cristiani a differenza dei sacerdoti pagani, possono condizionare il com-portamento dei funzionari imperiali, almeno per certi aspetti. Risulta quindi chiara la superiorità dei vescovi sui funzionari, che ormai non rispondono solo all’Imperatore, ma anche al vescovo. Ultima questione. Il ruolo di Costantino. Si è visto che egli lo ideò, convocò, ed organizzò, ma che con ogni probabilità non vi assistette. Ab-biamo inoltre la sua Lettera ai padri conciliari con cui egli salutò la fine dei lavori. Questo scritto, al di là delle pure interessanti manifestazioni della propria fede, ruota intorno al problema donatista e alle modalità con cui Costantino volle assicurare che le decisioni del Concilio sarebbe-ro state attuate. Gli importa stabilire l’unità e la concordia nella chiesa e quindi nell’Impero. In questa prospettiva la decisione di Arles ribadi-va, grazie al numero dei vescovi lì convenuti e alla loro unanimità, che i Donatisti erano i cattivi, i perturbatori della religione, pazzi e malvagi servi del demonio. Di conseguenza l’Imperatore sapeva ora come agire e contro chi agire con la sua autorità e se necessario anche con la forza. Arles piacque a Costantino, perché faceva chiarezza e semplifi-cava il suo compito di sovrano, gli forniva la base giuridica per risolvere lo spinoso problema sorto in una diocesi importante come l’Africa, ap-pena pervenuta sotto il suo controllo. Da notare che nella Lettera non c’è alcun accenno ai canoni fis-sati dal Concilio e ai loro contenuti. Egli parla solo della questione do-natista. Se il canone 3 fosse stato stabilito per fare un favore a Costan-tino e promuovere il servizio militare dei cristiani sotto le sue insegne, o se viceversa, avesse lasciato spazio all’obiezione di coscienza in tempo di guerra, come giustificare questa assoluta mancanza di reazione da parte di Costantino, il suo indifferente silenzio? A Zecchini sembra quindi chiaro che la lettera è la controprova dell’interpretazione del canone proposta sopra, secondo cui esso concerne specificatamente i desertores, non il servizio miliare in genere. Per quanto riguarda i canoni 7 e 8, dove si delinea la subordina-

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zione del funzionario al vescovo, oltre che all’Imperatore, è impressione di Zecchinni che i padri conciliari avessero steso il testo nella consape-volezza che Costantino non ne sarebbe stato urtato. Non bisogna incor-rere nell’anacronistico errore di attribuire al 314 la successiva sensibi-lità di tempi in cui l’interferenza e lo scontro tra i due poteri religioso e profano avrebbero manifestato tutta la loro pericolosità. Nel 314 si è alla “luna di miele” fra il nuovo Impero cristiano e la Chiesa. E poi, di funzionari cristiani, sottoponibili al controllo del vescovo, ce n’erano ancora pochi. Inoltre Costantino si apprestava a conferire ai vescovi i poteri giuridici tra il 313 e il 316, e quello giudiziario tra il 318 e il 321, che li avrebbe resi quasi una magistratura parallela, e nutriva una profonda fiducia nel ruolo del clero cristiano, che affiancasse quello dei funzionari civili nella gestione dell’Impero. Perciò che un vescovo con-trollasse il comportamento di un funzionario cristiano e lo giudicasse consono o meno alla sua fede, poteva essere letto come un aiuto, non come una visione d’interferenza. La reazione di Costantino al Concilio di Arles dimostra che egli era, in quel momento, concentrato sulla questione donatista. Non si aspettava nulla dai vescovi in tema né di servizio militare, né di servizio civile e tanto meno esercitò pressioni perché si prendessero provvedi-menti miranti a una maggiore collaborazione fra Impero e Chiesa, in un momento in cui la Chiesa veniva vista dall’Imperatore come un’alleata e ancor più come una surrogatrice di “servizio” che l’Impero faticava a fornire. Non c’era spazio per alcun timore che la Chiesa potesse ergersi a rivale o a concorrente dell’Impero. Ciò certo sarebbe accaduto, di lì a poco, con i passaggi dallo stato curiale a quello ecclesiastico e i lasciti di interi patrimoni alla chiesa provocarono negli Imperatori cristiani legittime preoccupazioni soprattutto riguardo la stabilità del ceto dei curiali, cioè dei ceti dirigenti cittadini. Zecchini tuttavia non crede si possa rimproverare ai Padri conciliari di Arles, o a Costantino, di non aver intuito le conseguenze profane, di medio e lungo periodo, derivanti da canoni adottati per rispondere a ben determinati problemi religiosi sorti in quel momento. Era allora molto più urgente per Costantino affermare il proprio diritto-dovere di convocare un Concilio, piuttosto che tutelare l’autonomia dei suoi funzionari dal controllo dell’autorità vescovile. Naturalmente l’indagine sui testi, in particolare su quelli di ordine giuridico, ha comportato anche una riflessione di merito sullo stesso vocabolario dell’Editto di Milano, di cui si è occupato il prof. B. Stolte, interrogandosi sulla natura delle lingue del diritto. Data l’estre-ma specializzazione dell’argomento, per una sua puntuale conoscenza,

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B. Stolte,Due lingue del diritto?Osservazioni sul vocabola-rio dell’Edit-to di Milano.

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si rimanda alla pubblicazione degli Atti del Convegno. Pure, qualche nota pare opportuna. La questione giuridica non era se le parole dell’Imperatore, in qualunque forma enunciate, fossero leggi o meno, bensì quale fosse la loro portata. Così, ad esempio, nel VI sec., nel Codex Iustinianus [raccolta di leggi imperiali in dodici libri, compilata su incarico dell’imperatore Giustiniano da dieci giuristi, tra cui Triboniano e Teofilo, e pubblicata nel 529. Con essa Giustiniano si propose l’unificazione legislativa dell’Impero. Insieme al Digesto, alle Istituzioni e alle Novelle, il codice compone il Corpus iuris civilis, l’opera che raccoglie i testi fon-damentali del diritto romano], figura ancora una costituzione di Teodosio e Valentiniano del 426 che stabilisce quando una legge abbia validità universale o quando, invece, sia applicabile al solo caso singolo partico-lare. Accanto ai criteri di ordine formale, ne vengono anche formulati di ordine contenutistico e Stolte ha l’impressione che il dibattito riguardo all’Editto di Milano sia viziato dal fatto che i due ordini di criteri non sono stati distinti in maniera adeguata. Ponendo i testi di Lattanzio ed Eusebio a confronto, questo pro-blema appare avere inizio già dalla fonte e non è azzardato affermare che Eusebio prediliga la variatio letteraria alla precisione giuridica. Sot-to il profilo formale saremmo dinanzi ad un’epistula, non a un testo giuridico, così come ha dimostrato Stolte. E quel che vale nel caso di Eusebio, vale probabilmente per Lattanzio che dice, lui stesso, di non essere mai stato un avvocato. C’è chi riconosce espressioni giuridiche nel lavoro di Lattanzio, ma questo vale solo per poter assumere che, dove Lattanzio ha semplicemente trascritto tutti i documenti ufficiali a sua disposizione e non aveva motivo di interpolare ciò che tornava a vantag-gio dell’intendimento del suo lavoro, egli sia una fonte affidabile per il testo originale latino e con ciò per la terminologia giuridica di quei testi. Stolte è convinto che gli abitanti dell’Impero romano, come Lattanzio e Eusebio, fossero interessati agli effetti di quei provvedimenti che tra-mandavano, ma non si curassero eccessivamente della natura giuridica di questi. In questo senso, per loro, è senza meno esistito un Editto di Milano, giacché non a tutti sarà sfuggito che all’origine dei testi che comparivano nei capoluoghi di provincia, vi era l’incontro a Milano dei due personaggi più potenti dell’Impero. E questo doveva avere valore giuridico di per sé. Teniamo presente, ricorda Stolte, che la differenza tra diritto formale e diritto materiale appartiene ancora oggi al linguaggio criptico dei giuristi. Ciò non toglie che anche nelle due versioni del no-stro testo c’erano senza dubbio alcune questioni che meritano la nostra attenzione. A volte è necessario decidere se lo stesso vocabolo è usato nella sua accezione comune, generica o, invece, in quella specialistica

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giuridica. E Stolte qui ha costruito gli esempi, mettendo a confronto il testo di Eusebio con quello di Lattanzio. E infine si chiede: due lin-gue del diritto? E lascia la risposta sfumata. Tutta una serie di segnali indicano che accanto al latino, la formulazione greca si era affermata come seconda lingua del diritto dell’Impero. Tuttavia non è dato trova-re linguaggio giuridico nella traduzione di Eusebio. Eusebio è piuttosto un rappresentante dell’intellighenzia non giuridica greco-loquente, più che un esperto nel comprendere i proclami latini e tradurne la por-tata. Questo potrebbe valere anche per Lattanzio. Ma, per Stolte, noi possiamo parlare di due lingue del diritto: quella degli specialisti della Cancelleria imperiale e quella dell’uomo di cultura, ma non giurista. Quella forma di bilinguismo esisteva, naturalmente, allo stesso modo tra la popolazione di lingua latina. Osserviamo dunque il bilinguismo su due livelli, quello del latino e del greco, quello del giurista e del pro-fano. E il cosiddetto Editto di Milano ci offre una bella istantanea di questo bilinguismo all’inizio del IV secolo.

Ritornando alla iniziale commistione tra clero e funzionari civi-li, non poteva sfuggire in questo Convegno l’analisi dello studio fonda-mentale di Gibbon. Basterebbe una citazione a convincerci dell’impor-tanza di accostarsi alla sua opera The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, A. Strahn and T. Cadell, London, 1776-1789 [peraltro disponibile in trad. italiana di G. Frizzi, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, Einaudi, Torino, 1967, da cui, qui, viene ripresa la citazione da p. 1327]: “l’inseparabile connessione degli affari civili ed ecclesiastici mi ha costretto e confortato a riferire i progressi, le persecuzioni, lo stabilimento, le divisio-ni, il trionfo definitivo e la graduale corruzione del cristianesimo. Ma ho differito di proposito l’esame di due avvenimenti religiosi, interessanti per lo studio della natura umana e importanti per la decadenza e caduta del-l’impero romano: I) l’istituzione della vita monastica e, II), la conversione dei barbari settentrionali”. Se ne è incaricato Valerio Massimo Minale, riconosciuto esperto dell’opera del Gibbon, che ha sviluppato alcune riflessioni sul cap. XX della ‘History of decline and fall The Roman Empire’. Nella ricostruzione della figura di Costantino e della sua opera Gibbon intravede, nell’avvento e nell’affermazione del cristianesimo, l’autentico elemento di cambiamento di traiettoria della vicenda del-l’Impero romano. L’Editto di tolleranza verso i cristiani, promulgato a Milano, nel 313, dall’Imperatore insieme al collega Licinio, occupa una posizione assolutamente centrale, ma Gibbon rimane prigioniero delle categorie storiografiche degli storici di cui si serve e in particolare degli

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V. M. Minale,

Gibbon su Costantino. Alcune riflessioni sul cap. XX della ‘History of decline and fall The Roman Empire’.

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storici classici, Lattanzio ed Eusebio e anche di una certa storiografia protestante. Ovviamente, non poteva conoscere tutto il dibattito moder-no sull’Editto. L’History di Gibbon, comunque, è una miniera d’infor-mazione e di spunti e all’interno di questa miniera l’Editto di Costan-tino è addirittura una vena aurifera, il punto centrale e di partenza per le considerazioni sul cristianesimo e l’Impero romano e sul mondo bizantino che proprio da Costantino parte. Il XX cap., e in parte il XXI, della History con la descrizione dell’avvenimento e le relative conside-razioni rappresentano una chiave di lettura davvero imprescindibile. Entrambi rappresentano anche un formidabile momento di emersione delle convinzioni religiose dell’illuminista inglese, sospeso tra un aristo-cratico ateismo e la fede protestante, professata in gioventù. Nel capolavoro la parte dedicata all’epoca costantiniana è sud-divisa in maniera piuttosto curiosa, perché non segue la cronologia. Nel-la prima parte vi è la narrazione dello sfacelo dell’ordine tetrarchico, con un interessante inciso sulla legislazione del nuovo sovrano; due se-zioni dedicate alla storia del cristianesimo, una sulla chiesa primitiva e l’altra sull’evoluzione delle persecuzioni; la digressione riguardo la fondazione di Costantinopoli contiene, insieme con lo studio sull’ap-parato amministrativo dell’Impero, sospeso tra l’ipertrofia di una buro-crazia pletorica e l’indulgenza sempre maggiore alla maestà imperiale, qualche considerazione sulla storia del diritto; nell’ulteriore racconto trovano spazio l’ultima fase del regno di Costantino, quindi la guerra contro i Goti, la guerra contro i Persiani, la successione violenta tra i figli, senza dimenticare la descrizione della personalità attraverso un ritratto in chiaro-scuro con un paragone a Eliogabalo e infine la crudele morte del figlio. Sono tutti topoi storiografici che Gibbon utilizza, fino al resoconto della conversione e all’emanazione dell’Editto di tolleranza e quindi le lunghe controversie dello scisma donatista. Valerio Massimo Minale ha inteso soffermarsi sul racconto della fondazione di Costantinopoli. Costantino è legato alla sua città e Gib-bon considera tale fondazione come lo spostamento del baricentro del-l’Impero ad oriente e come l’inizio di una nuova storia, non solamente del cristianesimo, ma anche di una nuova città. Si tratta di una linea storiografica illuministica continua sino ad oggi. Basta pensare che il più diffuso manuale di storia bizantina fa iniziare la storia bizantina dalla fondazione di Costantinopoli, considerando Costantino il primo imperatore bizantino. Circa la conversione e il battesimo di Costantino Gibbon propende a sottolineare una certa ambiguità del personaggio, fondandosi su due leggi, quella istitutiva della festività della domeni-ca e quella sulla possibilità concessa di consultare entro certi limiti gli

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Auspici. Due nature che convivono, dal punto di vista della storia del diritto, nello stesso personaggio. Rivolgendosi all’Editto. Minale riporta le parole del Gibbon: l’Editto fu accolto come una legge generale e fondamentale del mondo romano; la saggezza imperiale ordinò la reintegrazione di tutti i diritti civili e religiosi dei quali i cristiani erano stati così ingiustamente priva-ti; fu stabilito che i luoghi di culto e i beni patrimoniali confiscati do-vessero essere restituiti alla Chiesa senza contestazioni, senza indugi e senza spese. — Quest’ultimo severo comando andrebbe però accompagnato dalla graziosa promessa che se alcuno dei possessori ne avesse sborsato un giusto e adeguato prezzo, ne sarebbe stato indennizzato dal tesoro imperia-le. — I salutari regolamenti che riguardavano la futura tranquillità dei fedeli sono fondati sul principio di un’ampia e uguale tolleranza e tale uguaglianza dev’essere stata dalla nuova setta come una vantaggiosa e onorevole distinzione. I due imperatori proclamano al mondo di aver concesso la libera, assoluta, facoltà ai cristiani e a tutti gli altri di segui-re la religione che ognuno crede di preferire, ma aveva dato il suo cuore a quella ritenuta più adatta al proprio uso. È chiaro che Gibbon segue il testo di Lattanzio e di Eusebio. Però in una delle sue note Gibbon ci dice che lui ha seguito anche considerazioni di tipo storiografico desun-te dalla storia ecclesiastica protestante. Gibbon è molto analitico, perché affronta, seppur in modo con-ciso, ogni punto della prescrizione normativa. L’Editto appare in tre luoghi del XX cap. della History, luoghi utili all’inquadramento stori-co e ideologico, quando Gibbon lo pone in relazione con la conquista dell’Italia e la successiva sconfitta di Licinio. Dobbiamo calarci nella mente di Gibbon. Egli segue categorie storiografiche superate, quando crede l’Editto come la scaturigine dell’attività missionaria che avrebbe propagato il cristianesimo per ogni dove e, infine, quando lo considera l’iniziatore della formazione delle proprietà ecclesiastiche e delle loro rendite. La storia laica viene separata da quella ecclesiastica ed inve-ce Stato e Chiesa convivevano a cavallo delle due stesse realtà, perché Gibbon sembra più interessato a rivolgersi alla religione cristiana e ai suoi sviluppi nella società romana. Gibbon affronta i problemi sempre incentrando l’attenzione sulla figura di Costantino: — dalla dottrina di matrice paolina, secondo cui ogni potere costituito discenderebbe da un’origine divina, alla celeberrima visione che fu in-sieme sogno e segno nel cielo; — dalla riflessione sulla conversione, se sincera o meno, all’incontro tra antiche e nuova cultura, anche in riferimento al famoso acrostico con-tenuto negli oracoli sibillini;

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— dall’ attività missionaria del sovrano, il quale viene definito per que-sto motivo apostolos, alla divisione tra potere spirituale e potere tempo-rale; — dall’istituto vescovile, con l’elezione popolare e l’ordinazione del cle-ro, sino al patrimonio, alla predicazione e ai privilegi delle assemblee legislative. Tutto questo corrisponde ad un preciso intento di Gibbon, per descrivere Costantino e l’ordinamento che la conversione crea. Ma l’Editto appare pure nel XXI capitolo con cui si chiude anche la vicenda costantiniana. L’atto normativo di Costantino e Licinio viene definito in modo significativo come la Magna Carta della Tolleranza. Gibbon tut-tavia passa subito a criticare profondamente l’epilogo dell’esperienza costantiniana che, come sappiamo, fu all’insegna della più feroce in-transigenza religiosa. Ecco allora che sorgono i problemi e una visione altamente chiaroscurale di Gibbon nei confronti di Costantino: “La chiesa, riconoscente a un principe che ne favorì la passione e ne promosse gli interessi, ha consacrato con le sue lodi la memoria di Co-stantino. Egli le diede sicurezza, ricchezza, onori e soddisfazione e conside-rò la difesa della fede ortodossa come il più sacro e importante dovere di un magistrato civile. L’Editto di Milano, la Magna Carta della Tolleranza aveva confermato a ogni individuo del mondo romano il privilegio di sce-gliere e professare una propria religione, ma quest’inestimabile privilegio fu ben presto violato . L’illuminista inglese continua evocando l’Editto emanato con-tro le sette degli eretici. Le misure emanate, una volta conquistata la parte orientale, dopo il 324, sono il divieto di riunione e la confisca dei beni, nell’intento di ottenere la dispersione dei soggetti ostinati. Quindi, a un tempo, Costantino è rappresentato come personaggio della tolleranza e insieme dell’ intolleranza religiosa, perché ossessionato dal-l’unità dell’Impero, anticipando quello che sarà, sempre per Gibbon, il personaggio di Teodosio, che emanerà un atto di supremazia, e quindi di grande intolleranza, La sottolineatura dell’intolleranza era funzionale per il Gibbon all’evocazione del clima di violenza in tema di religione. L’occasione gli veniva dai monaci mendicanti legati al partito donatista che semi-navano il terrore nelle campagne africane. Gibbon paragonava simili personaggi invasati, ma eroici nelle loro scelte definitive e tragiche ai protestanti francesi che condussero l’ultima resistenza armata ai tempi di Luigi XIV, il quale il 18 ottobre 1685, emanando l’Editto di Fontai-nebleau, pose nel nulla l’Editto di Nantes. Agli occhi di Gibbon l’Editto di Fontainebleau potrebbe ricordare l’atto di supremazia di Tessalo-

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nica del 380. Con questo flusso di rapporti, Gibbon concludeva il suo racconto con la controversia trinitaria, mostrando di considerare assai negativamente entrambe le parti in lotta tra di loro, colpevoli per motivi religiosi di aver dissanguato l’Impero. E subito di seguito invoca invece l’esempio della tolleranza del paganesimo che mai sarebbe giunto a simili enormità, inserendosi così in una polemica a lui contemporanea, animata anche dal Montesquieu sulla legislazione costantiniana che avrebbe soppresso del tutto il culto pagano, una delle cause principali della decadenza di Roma. Questa lettura illuministica degli eventi da parte di Gibbon se-gue un approccio tipico del pensiero riformato, così come appare nel capitolo XXV con il discorso sui primi cristiani. Le cinque cause che starebbero alla base della diffusione della nuova religione furono: — lo zelo derivante dalle origini ebraiche, anche se mitigato; — la speranza nella vita eterna, quindi la concezione dell’immortalità e dell’eternità dell’anima; — la fama quasi mitica dei poteri taumaturgici in capo ad apostoli e discepoli; — la mediazione per la rigida e incorruttibile condotta di vita; e infine— la forza di una comunità autonoma. Cadendo sotto l’osservazione di uno storico protestante di for-mazione razionalista, tutte queste cause subiscono ognuna un colpo demolitorio. Fu l’eresia dello gnosticismo che costrinse i primi cristiani ad elaborare una dottrina precisa, per potersi distinguere dagli gnostici stessi. Sul materialismo degli antichi, a cui fungeva da specchio l’em-pirismo dei moderni, quindi degli inglesi, lo sguardo non poteva essere che scettico. Sulla fine dei miracoli, provocatoriamente veniva evocata la conversione di Costantino, in quanto, per i protestanti del tempo, Costantino si converte e finisce la chiesa dei miracoli, non si possono più compiere i miracoli. Sul fatto, infine, che la virtù proveniva dall’ac-cumulo di esperienze di travaglio, come sul valore letterale, senza inter-mediazione, della Bibbia, la lezione di Lutero appariva risolutiva. La stessa descrizione dello sviluppo della chiesa era palesemente orientata a vederla come organismo umano della storia, connotata da una parte da una capacità di penetrazione indiscriminata, al di là di ceti economi-ci, classi sociali, frontiere geografiche, e dall’altra da un indebolimento della visione conciliare, un accumulo di potere nelle mani dei vescovi, successori degli apostoli e padroni dell’arma della scomunica. Il tono fortemente polemico e critico del Gibbon ha a lungo con-dizionato il dialogo con il mondo protestante. Ancora oggi si discute del tema della sincerità o meno della conversione di Costantino.

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In sostanza, sostiene Valerio Massimo Minale, il Gibbon, co-struendo un periodo molto affascinante nella sua entrinseca ambiguità, giudica Costantino tanto pressato dalla brama della gloria terrena da arrivare a provare un sincero afflato spirituale per una divinità che lo avrebbe designato come supremo vincitore nella storia. Lungi dall’ap-parire semplicemente come una estrema avanguardia di una fazione in guerra con un’altra, per il conseguimento del potere, in un contesto di mero scontro religioso, Costantino avrebbe emanato l’Editto di Tolleran-za, o sarebbe addivenuto alla decisioni degli Accordi di Tolleranza con Licinio, non tanto per cercare il punto d’incontro che avesse stabilito uno status quo, quanto piuttosto perché seppe scorgere nel cristianesi-mo un formidabile instrumentum regni che avrebbe donato all’Impero romano, stanco e disfatto al termine dell’esperienza tetrarchica, altri secoli di vita, inaugurando la storia del mondo bizantino. Solo in ciò, secondo la lettura illuministica venata di protestantesimo del Gibbon, consisterebbe la grandezza di Costantino e l’importanza del punto di vista della storiografia dell’Editto di Milano, di cui si celebra ancora la pluricentenaria ricorrenza.

Avendo constatato che il primo vero banco di prova per valutare l’efficacia delle nuove disposizioni sulla libertà religiosa era costituito dalla tormentata situazione sulla costa africana del Mediterraneo, diven-tava naturale interrogarsi sul lascito africano dell’epoca costantiniana. Un lascito sostanzialmente epigrafico. E solo un maestro come Ignazio Tantillo, perfetto conoscitore della trasformazione di tutto il ‘paesaggio epigrafico’ nelle città dell’Africa romana, con speciale riferimento a Leptis Magna (Tripolitania), poteva offrire al Convegno un contributo nel me-rito delle tracce di Costantino emerse nell’epigrafia africana. I Lettori potranno facilmente intuire che la più opportuna e migliore ricostruzio-ne della sua testimonianza di studi epigrafici potrà venirci direttamente dalla pubblicazione degli Atti del Convegno.

Un altro banco di prova per valutare la durata e la tenuta delle nuove disposizioni costantiniane sulla libertà religiosa è costituito dal-l’esame delle tormentate vicende che seguirono la morte di Costantino. Ne è stata incaricata Matilde Caltabiano, una studiosa che già da tempo aveva potuto scorrere l’Epistolario di Giuliano imperatore, costruendone un saggio storico e traducendolo con note e testo in appendice, per M. D’Auria editore. Anche per la comparazione con Costantino, fatta da Caltabiano, rimandiamo necessariamente agli Atti del Convegno.

I. Tantillo,Costantino

nell’epigrafia africana

M. Caltabiano,Giuliano

l’Apostata e Costantino:

rottura o continuità?

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Per usare un’espressione di Remo Cacitti, tutta l’età costanti-niana dovrebbe essere intesa come un’officina, l’officina della teologia politica. Proprio a Cacitti è stato affidato il compito di ripercorrere la sacralizzazione imperiale, un processo che trova in Eusebio di Cesarea e nella sua opera il vero forgiatore. Cacitti ha portato tutti a comprendere il senso di una nuova apologia, sintetizzata nella celebre espressione “In hoc signo” e a ripercorrere gli snodi del passaggio dalla teologia del-la storia a una politica teologica. Centrale, e critica, nella sua riflessione è l’analisi della conversione: dal cristianesimo alla Chiesa imperiale. Remo Cacitti ha inteso presentare la figura e la teologia del ve-scovo di Cesarea, Eusebio, testimone e principale esponente della corte ecclesiastica costantiniana; nello specifico, ha preso in considerazione le ragioni e la profonda discontinuità che caratterizzarono il pensiero di questo Autore rispetto alle diverse tradizioni cristiane a lui prece-denti. Grazie alla sua opera, infatti, l’inedito sodalizio inaugurato da Costantino tra corte ed episcopato ottenne una propria giustificazione “ideale”, tesa a riscattare il ruolo dell’Impero nell’economia della teo-logia cristiana, ma sfociata effettivamente in una perdita radicale dello slancio escatologico dei primi tre secoli e in un sostanziale asservimento di buona parte dell’episcopato al trono. Molto utili si sono rivelate le sue indicazioni bibliografiche per studiosi e studenti. Lo saranno anche per i Lettori che scorrono queste pagine: — “Bibbia di Gerusalemme”, EDB— Edizione critica del Nuovo Testamento (preferibilmente ed. c.d. “Nestle-Aland”). — W. Weren, Finestre su Gesù, Torino, Claudiana — C. Moreschini - E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica

greca e latina-1: Da Paolo all’età costantiniana, Brescia, Morcelliana — Eusebio di Cesarea, Elogio di Costantino, a cura di M. Amerise,

Novara, Paoline— Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, a cura di L. Franco,

Milano, Rizzoli— V. NERI, Medius Princeps. Storia e immagine di Costantino, Bologna, Clueb— H. Weder, Metafore del Regno, Flero (BS), Paideia— E. Percivaldi, Fu vero editto? Costantino e il cristianesimo,

Milano, Ancora Libro X della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea

nell’edizione Roma, Città Nuova

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R. Cacitti,L’officina della teologia politica. I materiali escatologici per la forgia-tura dell’idea-le imperiale nell’opera di Eusebio di Cesarea

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Spesso si è portati ad idealizzare alcune epoche della storia e a ritenere i giudizi, maturati in quel clima, come assoluti, degni di esistere e resistere anche al di fuori del contesto che li ha determinati. È il rischio che corre an-che il giudizio illuministico che attribuisce a Costantino la furbizia di aver usato il cristianesimo come formidabile instrumentum regni per tonificare un Impero romano stanco e disfatto e proiettarlo indefinitamente per altri se-coli di vita. Un giudizio che corrispondeva più ad un proprio convincimento ideologico che non alla complessa realtà storica dell’evento che si voleva giu-dicare. Un giudizio che, anche se sotto forme diverse, persiste ancora in mol-ti settori della cultura anche scientifica. Uno dei meriti di questo Convegno, che stiamo sommariamente presentando — anche per colmare un naturale vuoto informativo in attesa della pubblicazione degli Atti, che consentiranno a tutti gli interessati di tirare con ragione le proprie somme —, è proprio quello di compiere ogni tentativo oggi possibile per ricostruire, senza paraventi ideo-logici, le dinamiche più persistenti che hanno circondato quel primo evento cruciale che ha fatto apparire la libertà religiosa come nuova forma entro la quale ottenere uno svolgimento politico più alto e dignitoso per l’orga-nizzazione sociale. E tra i tentativi più riusciti e fruttuosi è senza dubbio il recupero di una dinamica essenziale, che potremmo anche considerare vera e propria categoria storica, e non solo per il mondo antico, la dissimulatio. Con la consueta profondità che contraddistingue l’analisi storica di Luigi Franco Pizzolato, questa categoria viene colta nel suo svolgersi e declinarsi proprio in prossimità di quell’evento che questo Convegno celebra.

Lo storico della letteratura cristiana antica Luigi Franco Pizzo-lato, per meglio far comprendere la funzione della dissimulatio e la sua permanente presenza nel mondo imperiale romano, sin dal suo gene-rarsi dall’età repubblicana, dopo le lunghe guerre civili e sino all’asse-stamento attuato da Ottaviano Augusto [63 a.C.–14 d.C.] e dal suo succes-sore Tiberio [42 a.C.–37 d.C. – governò dal 14 al 37 d.C.], evoca la figura di un’antica collega, maestra di tanti studiosi presenti al Convegno, Marta Sordi, per ricordare che tra Tiberio soprattutto e Simmaco [340 d.C. ca.–402/403 d.C., il più grande oratore del suo tempo, considerato il padre della filologia] la dissimulatio fu un atteggiamento ritenuto virtuoso. Fu anche grazie all’uso della dissimulatio che Tiberio potè conservare immutata la sua autorità di principe e mantenere formalmente salda la legalità repubblicana. Anche in fatto di disciplina militare il suo comportamen-to era equidistante, dice il grande storico Tacito [certo non tenero con chi aveva trasformato la repubblica in principato], equidistante: medium, tra un’assai più frequente plurima dissimulatio e una qualche repressione. Medesima equidistanza, ma in politica religiosa, attribuiva lo storico Ammiano Marcellino [330 d.C. ca.–dopo il 397 d.C.] all’imperatore Valenti-niano I [321 d.C.– 375, imperatore dal 364]. E fu Simmaco a chiamare questa riconosciuta equidistanza, appunto, dissimulatio. La religione tradizionale e l’Editto di Milano, che non ne scalfi-va la logica, garantivano, secondo Simmaco, la conservazione di tutte

L.F. Pizzolato,Dall’Editto di Milano

all’Impero cristiano: Ambrogio

nel regime della

dissimulatio.

Notadel

Curatore

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le singole religioni, perché preservavano i luoghi simbolici deputati e questi significavano nel loro insieme l’unità del divino. Tra questi figu-rava l’Altare della Vittoria — [un’ara, altare, antichissima, che i Romani avevano sottratto ai Tarantini dopo la vittoria conseguita su Pirro nel 272 a.C., posta nella Curia Iulia, voluta da Ottaviano Augusto per celebrare la fine delle guerre civili, dedicata alla memoria di Cesare e utilizzata per i sacrifici e per il giuramento dei senatori], quel-l’altare contiene in sé la concordia di tutti. A quell’altare mette capo la lealtà dei singoli. Esso è simbolo non di una religione, ma dell’insieme religioso di ciò che tutti adorano, come dice Simmaco, che supera e as-sorbe le religioni chiamate sette. È insomma segno della religione della tradizione che si avvale di vari culti. Simbolo. Al culto di questo modello religioso unificante si deve prestare onore almeno con la dissimulatio, cioè fingendo di non appartenere a una particolare setta e collocandosi nell’atmosfera omnicomprensiva del divino. Del resto, era stato proprio Quinto Aurelio Simmaco nella sua Relatio de ara Victoriae a sostenere che « Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande. ». Ma la polemica sull’esistenza di quell’altare era divampata, quando i senatori cristiani, ormai numerosi, non intendevano comportarsi come i senatori pagani, che giuravano su quell’ara. I poli alti della polemica furono pro-prio Simmaco e il cristianissimo Ambrogio [Treviri 339/340–Milano 397]. L’atteggiamento religioso di Simmaco non rispondeva al cano-ne del sincretismo, perché il suo senso religioso non era costruito con pezzi di varie religioni. La sua era una religione olistica, cioè universo divino che crea le religioni, le sparge nel mondo e le contiene, riepiloga tutte come sue diverse possibilità. Dice Simmaco: « è la mente divina che distribuisce alle città i culti protettivi diversi. ». Su questo sfondo prende il sopravvento in Simmaco lo spirito romano che non ha alcuna mira neo-platonica di reditus, ritorno, al divino e che al posto dell’universo di sim-boli intellegibili del platonismo, pone una serie di riti e di fatti religiosi a valenza civile più che filosofico-ideale. Si può pensare che Simmaco abbia rappresentato la sua visione religiosa proprio tenendo presente la lettera dell’Editto di Milano, anche se con qualche restrizione mentale avversa agli sviluppi che aveva avuto in età post-costantiniana. Quando Simmaco permetteva a ciascuno, anche ai cristiani, la facoltà di se-guire la religione —ma Pizzolato preferisce tradurre meglio: il culto— che ciascuno avesse voluto in ossequio alla divinità presente in sede celeste e alla summa divinitas. Nell’Editto, infatti, si parla sempre di un divino unico, inteso come culti, sicché esso concede non tanto di onorare in

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particolare la divinità in cui ciascuno crede, ma di onorare il divino come ciascuno crede. Non i divini, ma il divino. Si tratterebbe insomma di una libertà di culti, all’interno di un mondo interreligioso, misterioso, che non può raggiungere il divino per varie strade indifferentemente, secondo il relativismo politeistico, ma nel senso che una sola strada non consente di arrivare al divino: bisogna praticarle tutte e tutte rispettarle. Questo è chiamato olismo religioso, il tutto degli strumenti parziali di accesso a un divino la cui complessità è altrimenti impossibile attingere e resta, per così dire, mutila. In tal senso essa caratterizza la spiritualità della così detta reazione pagana del tempo, così icasticamente espressa nell’epitaffio dove una sposa romana dice al marito « Tu sei testimone della mia iniziazione a tutti i misteri ». Simmaco può invocare la tradizionale condizione di libertà di culto, estesa poi al cristianesimo e, prendendo atto del mutato credo religioso degli imperatori regnanti, chiede il mantenimento di quel-l’atteggiamento attraverso la dissimulatio, che tenga insieme adesione personale al nuovo culto e rispetto per il culto tradizionale dello stato, secondo un regime che prenda atto dell’evoluzione religiosa degli impe-ratori, ma che non smentisca quello che era stato lo spirito, se non la lettera dell’Editto di Milano. Possiamo in sostanza dire che tra Milano e Tessalonica sotto gli imperatori cristiani sia invalso il regime della dissimulatio. Sulla dissimulatio grava comunque, insiste, la condanna originaria che l’etica generale rivolge a questo atteggiamento. Il termi-ne dissimulatio, anche nel secolo IV, in ispecie negli autori cristiani, ha quasi sempre valore negativo, perché ricade sotto la categoria della menzogna, la fictio. Ma essa, la fictio, era stata nobilitata già in parte dalla concezione retorica della simulatio, tipica della eironeia socratica —dal greco “eironeia”, ironia, letteralmente “dissimulazione”, “finzione”, svalutazione eccessiva, reale o simulata, del proprio sapere. Socrate ne fa l’inizio del suo metodo: interroga, finge di non sapere e, di domanda in domanda, svela la contraddizione del-l’interlocutore. Da qui, poi, la maieutica socratica e la dialettica, socratica e platonica—, e dal senso ciceroniano di urbanità, di paziente tolleranza. E negli storici politici, per di più pagani, come Ammiano Marcellino, la dissimulatio ha un valore neutro di tecnica interna alla real-politik. Essa è presente an-che negli atti dell’imperatore Giuliano, portato ad esempio di modera-zione proprio perché a volte fingeva di non essere toccato dall’illegalità, per non essere costretto a punirla severamente. Può esser facile, quindi, il passaggio al significato di tolleranza, che però in Simmaco comporta la necessità per il principe di estraniarsi dal proprio convincimento per-sonale per far vivere qualche valore oggettivo che rischierebbe di essere smarrito o espulso dal panorama del religioso che invece l’Editto di

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Milano con nitidezza preservava. Ambrogio è con Ammiano l’utilizzatore forse più frequente del termine dissimulatio nel IV secolo, quasi che esso toccasse un suo nervo scoperto. Per lui è una finzione che contrasta oggettivamente col disegno di verità che è Dio, il quale non ha lasciato nulla di dissimulato, cioè qualcosa che celasse la sua consapevolezza. Ma anche il fare verità sog-giace al giudizio del discernimento etico, in forza del quale non sempre la dissimulatio è atto contrario alla verità. Ambrogio adduce varie cir-costanze al proposito. La dissimulatio è uno dei mezzi con cui la verità, senza negare sé stessa, si nasconde parzialmente o temporaneamente, perché altrimenti non sarebbe storicamente capita. Questa è addirit-tura, dice Ambrogio, una consuetudo della scrittura, che Dio finga di non conoscere qualcosa che sa, in questi casi essa diventa, testualmente, quell’absurdum, quel credo quia absurdum, che stimola l’interpretazio-ne più profonda della scrittura e che colloca quell’apparente negatività dentro un progetto che ne modifica il significato. La dissimulatio diventa una finzione pedagogica, quasi come quella socratica che è stimolo al miglioramento e alla comprensione. La dissimulatio non è però compa-tibile solo col regime dell’Antico Testamento, sarebbe facile. La si ritro-va anche nell’orizzonte cristico, se è vero che Gesù stesso ha preferito dissimulare, cioè fingere di non avere il diritto di disporre di qualcosa, piuttosto che rifiutare ai suoi discepoli un atteggiamento di carità, come gli richiedevano. L’esempio che Ambrogio porta è quello degli apostoli che gli chiedono « Chi sarà che porrai alla sinistra, e chi alla destra nel Regno ? ». Risposta: « È dato al Padre mio conoscerlo, io no lo so ». Finge di non conoscerlo, perché vuole che loro si comportino secondo carità. Quindi: si dissimula una verità per tutelare meglio il valore che essa protegge, cioé una verità più comprensiva. Ambrogio, però, per storia personale e per rigore logico e spi-rituale non può accettare l’interpretazione che dall’Editto di Milano traeva la rigida coerenza di Simmaco, cioè la necessaria pluralità di culti, in quanto esigita dall’unico insondabile mistero che li contene-va tutti singolarmente. Se la religione pagana nella sua indefinitezza teologica può essere soddisfatta dalla varietà libera di culti che come nuvole di frecce sono lanciate in varie direzioni, il culto cristiano invece è misurato da una fede e non può accettare direzioni estranee, perché conosce il bersaglio. La fede, con i suoi contenuti, non la religio era del resto centrata esplicitamente nelle scelte [contestate dall’illuminismo sino ad oggi] di Teodosio. Ma, sottolinea Pizzolato, è vano pretendere che, a quel tempo, il discorso fosse impostato sulla dignità della coscienza che sola dirimerebbe in radice la questione.

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Ambrogio continuò sempre a pensare che la dissimulatio fosse un ingrediente del lealismo. Ma l’Ambrogio che aveva redatto il De officis si accosta al principio che anche dissimulare è peccato, specie se si è in causis dei, dove non è più permesso dissimulare, né tacere. Ambrogio in virtù della sua formazione politica romana, per la sua spiccata spiritua-lità, è più di un testimone, spesso tormentato, dei passaggi dal clima del’Editto a quello della religione di stato. Per primo prese di petto il rapporto così moderno tra libertà e verità, senza eluderlo, come faceva la mentalità pagana corrente che, sulla scorta dello spirito dell’Editto di Milano e poi della religiosità filosofica, declinava la libertà religiosa secondo le disimpegnate strade del sincretismo o dell’indifferentismo. Era inevitabile però, sottolinea Pizzolato, che, con il progredire della cristianizzazione dell’Impero, ormai alla causa dei fossero ricondotti tanti ambiti, soprattutto la politica religiosa, impedendo perfino quella distinzione fondamentale tra Cesare e Dio, il cui indebolimento sarà ragione non ultima di derive clericali dell’Occidente cristiano. Certo non era ancora chiaro il legame tra diritti delle coscienze e diritti del divino. Questo si affaccerà molti secoli più tardi. Forse non prima del giusnaturalismo moderno.

Della visione che Ambrogio ha di Costantino si è occupato Fran-cesco Braschi, Dottore dell’Ambrosiana, conoscitore approfondito del-l’opera di Ambrogio. Il fatto che l’Editto di Milano potesse risultare una presenza scomoda data la prospettiva d’incipiente cristianità che si andava deli-neando, la presenza di Costantino nel De obitu Theodosii di Ambrogio, riveste un ruolo ben più importante di quello che potrebbe far pensare la brevità della menzione che di lui viene fatta. Il nome e la figura di Co-stantino compaiono nel De obitu Theodosii al paragrafo 40, nel contesto della descrizione dell’arrivo di Teodosio, là dove Ambrogio tratteggia, cristianizzandolo, quello che nello schema consueto della Laudatio fune-bris imperiale, era il momento dell’accessĭo del sovrano defunto al mon-do sovra celeste. Nella formulazione ambrosiana dopo che Teodosio ha già sostenuto, prima di arrivare all’incontro con i suoi sodali, una sorta di giudizio–interrogazione, nel quale vengono tratteggiati la confessione della dīlectĭo nei confronti del suo Signore e Dio e il conseguente amore del suo prossimo [vuoi parenti, vuoi amici], egli ha finalmente accesso al luogo in cui vi sono lux perpetua e tranquillitas diuturna, per ottenere i frutti della divina remuneratio.

[Lungo la disamina del De obitu Theodosii, Braschi cita, a questo punto, il passo A, paragrafo 32 del De obitu, nella versione del De obitu consegnata agli studiosi convenuti. E così per ogni altra citazione successiva. La natura

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Francesco Braschi,

Costantino in Ambrogio:

Appunti di contenuto e

di metodo dalla lettura

dei testi.

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divulgativa di questa pubblicazione non consente, però, una lettura dei rimandi puntuali operata dal Braschi. Per questa caratteristica scientifica si rimanda agli Atti del Convegno di prossima pubblicazione].

Proprio in questo luogo, dove si effonde una lux perpetua e la tranquillitas diuturna stabilmente dimora, avviene l’incontro di Teodo-sio con Costantino. Un incontro che Ambrogio descrive in un passo di particolare rilevanza sia in sé, per la struttura letteraria, che per la no-stra riflessione. Se guardiamo all’economia generale dell’orazione que-sto incontro si colloca in apertura di un’ampia sezione che Ambrogio dedica alla narrazione dell’Inventio crucis, del ritrovamento della Croce da parte di Elena e al suo significato. L’appartenenza di tale sezione all’impianto originario del De obitu Theodosii è stata sovente contestata, tuttavia, basandosi su motivazioni di coerenza interna dell’opera, per Braschi, al seguito dei più recenti studi, pare necessario assumere che l’Inventio crucis sia parte del tutto essenziale del De obitu Theodosii e perciò non avrebbe potuto esservi aggiunta successivamente. Del resto il tema centrale dell’orazione era l’Ereditas fidei e la storia del ritrova-mento della croce si adattava benissimo ad esso. Anche altri studiosi, seguendo l’insegnamento di Marta Sordi, che in numerosi suoi studi ha messo in evidenza l’unità testuale del De obitu Theodosii e il suo valore per la comprensione del pensiero teologico, politico ambrosiano, giun-gono alla medesima conclusione. Nei cap. 39 e 40, Braschi fa notare in primo luogo la complessità compositiva operata da Ambrogio, che intreccia due tipi di strutture: una costruzione concentrica del brano per l’incontro di Teodosio con la moglie Facilla e un’altra struttura dedicata all’incontro prima con Graziano, poi di Costantino con Teodosio. Proprio in questo luogo av-viene l’incontro di Teodosio con Costantino. Un incontro che Ambrogio colloca dopo l’incontro con Graziano, predecessore di Teodosio, ucciso tragicamente, cristiano convinto, amico di Ambrogio, con i figli morti in tenera età, con la moglie, con il padre ucciso perché caduto in disgrazia. L’ordine degli incontri è interessante per due serie di considerazioni. Da un lato perché vediamo messa al centro la cerchia familiare di Teo-dosio, dall’altro perché, ai due estremi, troviamo la menzione dell’in-contro con due persone con le quali sussistono legami non di sangue, bensì di colleganza. Fermiamoci sui legami familiari. Al centro trovia-mo la menzione della moglie fideli anima deo della quale si sottolinea unicamente la fede mentre prima e dopo, ai due estremi, troviamo la menzione dei figli e del padre accomunati dalla sottolineatura negativa della perdita ingiusta o prematura. Ai due estremi del brano, i paragrafi dedicati a Graziano e Costantino mostrano un’ampiezza di sviluppo che li differenzia da quelli centrali e nello stesso tempo rivelano un’im-

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pressionante affinità di struttura. Infine l’enunciato. Scrive Ambrogio che Teodosio: « ora si sente veramente re, poiché non si separa da Co-stantino. E sebbene a costui la grazia del battesimo abbia rimesso tutti i peccati solo in punto di morte, tuttavia, siccome fu il primo imperatore a credere e lasciò dopo di sé ai suoi successori l’eredità della fede, otten-ne un posto degno dell’insigne suo merito ». Ciascuno dei due brani si conclude con una citazione vetero testamentaria: nel primo caso il Salmo 36 e nel secondo Zaccaria 14.20, che funge da chiave interpretativa e da realizzata anticipazione del sen-so di quanto accaduto. Ora questi due temi costituiscono in effetti, l’an-ticipazione di quanto segue nell’Orazione funebre. Con l’ultima frase del cap. 41 si fa menzione dell’esito del chio-do della croce di Cristo forgiato nel freno del cavallo imperiale e questo, per Braschi, funge da aggancio con la sezione successiva dedicata alla narrazione dell’Inventio crucis. Ma al termine di questa narrazione, cap. 51, 52, ritroviamo un passo nel quale ricompaiono Graziano e Teo-dosio, posti in posizione preminente rispetto agli altri principes e vie-ne nuovamente messa in luce da Ambrogio proprio la loro comunione nella pratica della fede. Si forma, dunque, durante questa menzione, una sorta di cerniera sul limitare della sezione relativa alla leggenda dell’Inventio crucis, che appare esattamente parallela a quanto avviene nel cap. 41 relativamente a Costantino ed Elena e tutto si combina con una inclusione della stessa sezione nel segno del rapporto tra Graziano e Teodosio. Possiamo quindi riconoscere nella struttura letteraria e nei contenuti dei cap. 39 e 40 una ulteriore conferma della piena coerenza della sezione dedicata all’Inventio crucis con quanto la precede e la se-gue. Questa conferma tuttavia non riguarda solamente l’aspetto forma-le, ma deve estendersi anche all’individuazione dei temi fondamentali dell’orazione. A questo punto Francesco Braschi richiama espressamente quanto Marta Sordi scriveva nel 1993, affermando: « Il significato di tutto l’escursus ambrosiano è la redenzione dell’Impero e degli imperatori, il chiodo trasformato in corona diventa il chiodo dell’Impero romano che regge l’intero mondo e non insolentia ma pietas. ». Pur condividendo pienamente il giudizio di Marta Sordi, Braschi ritiene tuttavia che si possa compiere un passo ulteriore nella comprensione di questo testo e conseguentemente del significato della figura di Costantino, nel pen-siero del vescovo milanese. Fa quindi notare che i temi dell’Ereditas fidei e della Redemptio non sono presenti anche all’interno della sezione sulla Inventio crucis unicamente in connessione alla tematica del potere imperiale, ma si estendono ad un ambito più ampio e capace di com-

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prendere tutta l’esistenza umana in una prospettiva, che non tralascia gli affetti familiari, fino a trovare il suo punto di approdo e compimento nei motivi dell’Imitatio Christi. Braschi documenta queste affermazioni richiamando i riferimenti testuali nei cap. 39 e 40, 49 [con la menzione non solo della redenzione degli imperatori, ma anche del pieno ricono-scimento della potenza salvifica della croce]. In questo passo la seconda resurrezione di Cristo —intendendo con questa ardita espressione il fatto che nella vita dei Cristiani si riproponga la vita stessa di Cristo, rinvenibile in una rinnovata umanità ad imitazione della Sua — viene chiaramen-te identificata con il dispiegarsi della potenza della sua resurrezione, non soltanto nella vicenda degli imperatori, ma tout court nella vicen-da dei cristiani. In sintesi, afferma Braschi, i termini della fede e della redenzione vengono declinati da Ambrogio nelle orazioni funebri per gli imperatori, sempre seguendo un duplice registro, tanto istituzionale quanto affettivo. Ambrogio non si limita mai a fredde considerazioni di tipo istituzionale, politico o moralistico, connota sempre la salvezza di una tonalità sinceramente affettiva. Ciò avviene tanto per Teodosio, quanto per Costantino ed Elena, poiché è l’ansia di una madre per la sorte del figlio, prima ancora della sorte dell’Impero romano, ad essere indicata da Ambrogio quale causa prossima della ricerca delle reliquie della passione, come si può leggere ai cap. 41, 42, nei quali anche l’uti-lizzo del termine stabularia, “locandiera”, per definire Elena, permette ad Ambrogio di paragonare il suo operato a quello del buon samari-tano, icona di Cristo preoccupato della salvezza non solo dell’Impero romano bensì di tutta l’umanità, simboleggiata nel ferito lasciato al margine della strada. È Ambrogio stesso a compromettersi e coinvol-gersi in questa visione soteriologica. Gli imperatori sono allora immersi a pieno in un processo di redenzione che è il rinnovamento completo dell’umanità e questo spiega anche l’insistenza, nel De obitu Theodosii, sulla completa ridefinizione delle quattro virtù imperiali che dai tempi di Augusto connotavano la figura dell’Imperatore romano. Un processo, questo, del rinnovamento dell’umanità che nella visione di Ambrogio ha la sua condizione di possibilità nel riconoscimento della corretta figura di Cristo. Ambrogio afferma chiaramente questo principio in una famosissima pagina del De Fide, libro II, cap. 13 paragrafi dal 108 al 119. Non è un caso che proprio al cap. 49 del De obitu Theodosii si trovi, nell’ambito della reprimenda contro i giudei che vedevano con disdoro la scoperta della croce, la menzione di fotiniani e di ariani. Francesco Braschi apre a questo punto un’altra finestra: la co-struzione di Ambrogio di un vivace dialogo tra i rappresentati delle va-rie eresie cristologiche e Cristo stesso. L’imperfezione della conoscenza

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della figura di Cristo da parte loro viene continuamente rimandata al-l’esito di un’impossibile salvezza e dunque l’ortodossia nella fede viene vista innanzi tutto dal punto di vista soteriologico, come la necessaria conoscenza che sola permette il dispiegarsi della potenza salvifica di Cristo nei confronti di chi lo invoca. Questa menzione dei fotiniani e de-gli ariani indica che anche il De obitu Theodosii si muove lungo la linea di confermare la possibilità che la fede di Teodosio sia veicolo di una corretta comprensione della figura di Cristo. Ecco che, al fondamentale motivo dell’Ereditas fidei per i sovrani e della redemptio del potere —ri-condotto grazie alla croce di Cristo dalla libidine alla ragione— Braschi ne affianca un altro altrettanto pervasivo, ovvero quello della costruzione di una umanità rinnovata nella seminazione a Cristo. Questo pone, ad avviso di Braschi, un problema fondamentale da approfondire: il riferimento al giudizio sulla figura di Costantino e una corretta ermeneutica dei testi ambrosiani. La visione di Ambrogio relati-vamente alla fede chiaramente cristocentrica e alla inclusione in essa, perno della sua azione pastorale, della teologia politica, nella quale la figura dell’Imperatore non può essere guardata staccandola dal pro-prio destino personale e dunque mantenendo la chiave soteriologica di lettura. La prospettiva soteriologica si rivela la chiave fondamentale di lettura e mette in parallelo Costantino e Cristo. Non è una cosa strana, perché è la stessa prospettiva che Ambrogio propone a tutti i cristiani, quando afferma che ogni anima, che accoglie Cristo, concepisce e gene-ra in sé il Verbo. Questo il giudizio finale su Costantino, che a Braschi sembra emergere dal De obitu Theodosii, ben più ampio di un solo giudizio dettato da una volontà di preminenza nell’ambito politico. Si tratta di una prospettiva appena abbozzata da approfondire, tenendo fermo il significato metodologico della fede di Ambrogio come criterio ermeneutico da assumere per una corretta interpretazione del-la sua posizione anche in campo teologico-politico. Non è un caso che proprio nel De obitu Theodosii si trovi un passo, paragr. 36, nel quale Ambrogio stesso, in chiave autobiografica, descrive quale sia la preoc-cupazione di un vescovo per la salvezza del suo gregge. Ed è del tut-to significativo, che in questa preoccupazione pro omnibus sia inserito Teodosio. Non è insomma da escludere che in Costantino la fede possa essere stato realmente un motore ideale, ma dagli effetti assai concreti per la sua vicenda di uomo e di reggitore dell’Impero. Molto suggestiva, infine, la conclusione di Braschi, con la cita-zione di uno storico francese di scuola marxista, Paul Veyne, applica-bile —con i dovuti aggiustamenti— anche allo stesso Ambrogio: « Non si può continuare ad avere una visione così limitata di Costantino. Questo principe cristiano di eccezionale statura aveva concepito un vasto progetto,

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in cui non mancavano né devozione né potere: dare vita a un vasto insieme totalmente cristiano e che fosse, per questo, uno solo sul piano politico e re-ligioso; questo ideale millenario dell’impero cristiano farà ancora sognare ai tempi di Dante. Costantino l’ha realizzato deliberatamente, mosso dalla devozione e non per interesse o distrattamente” [Paul Veyne, Quando l’Eu-ropa è diventata cristiana (312-394), Garzanti, 2010, p. 81]. Francesco Braschi sottoscrive del tutto questa opinione, che ri-scatta Costantino (e, conseguentemente, Ambrogio) da letture troppo anguste ancora troppo diffuse. E aggiunge: « Si può essere o meno d’ac-cordo con la concezione politico-religiosa di Costantino o con quella di Am-brogio. Ma penso sia importante e necessario riconoscere che una lettura metodologicamente corretta dell’agire di simili uomini —capaci di segnare profondamente la loro storia— debba essere disponibile a riconoscere loro un animo e un cuore capaci di lasciarsi muovere a mete ideali con più gene-rosità e realismo di quanto capita sovente a noi stessi. ».

Successivamente un approfondito tratteggio della nascita di un’epoca cristiana è stato inserito da Isabella Gualandri, già libera do-cente in Filologia greco-latina nel 1971, una studiosa che ha sempre studiato la politica, la cultura e la religione nell’impero romano (secoli IV–VI) tra oriente e occidente. Su questo omonimo argomento, insieme a Fabrizio Conca e Giuseppe Lozza, sarà negli Atti del II Convegno del-l’Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli, M. D’Auria, 1993. Ordinaria di filologia classica nel Dipartimento di Scienze del-l’Antichità nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, è stata Direttore dell’Istituto di Filologia Classica della stes-sa Università Statale nel periodo 1983-1985 e e 1990-1996. Aveva già affrontato la Letteratura cristiana e pagana proprio relativamente a Gli aspetti dell’impero romano cristiano da Costantino a Giustiniano. Esperta dell’interazione fra cultura pagana e cultura cristiana fra IV e V sec. d.C., ha studiato Ambrogio, Simmaco, Ammiano Marcellino, Claudia-no, Prudenzio, Avieno, Draconzio, e aspetti generali della letteratura dell’epoca, restando una guida indiscussa per le generazioni che si sono formate alla sua scuola. Per il suo dotto intervento si rimanda agli Atti ufficiali del Convegno.

Paola Francesca Moretti prende le mosse da una una stele fu-neraria frammentaria, conservata nella città di Autun, l’antica Augu-stodunum, proveniente dal cimitero di Saint Pierre, nella quale si sono conservati i piedi di due figure ormai irriconoscibili e un testo anch’esso frammentario: la dedica di un marito alla moglie defunta, piissima e

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8 maggio - 1.3

I. Gualandri,La nascita di un’epoca cristiana.

P.F. Moretti,Le “Laudes Domini”

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castissima. Due sposi cristiani originari della regione degli Edui, presu-mibilmente Augustodunum o la regione circostante, e morti in momenti diversi e alla morte del marito sepolti insieme, forse proprio in questo cimitero da cui proviene questa stele. Un’immagine, questa, del tutto pertinente con l’esame di un testo, le Laudes Domini, primo vero testo di poesia cristiana, come sostiene il Bardi nel suo studio del ’33- ’34, se si prescinde da un’altra opera, di Commodiano, però, di incerta da-tazione. Il testo negli ultimi anni ha conosciuto una discreta fortuna. Ora è anche disponibile in italiano con introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Aniello Salzano, Laudes Domini (poemetto di un anonimo del IV sec), per i tipi dell’Arte Tipografica, Napoli, 2001. Il suo titolo è Laudes domini cum miraculo qui accidit in eduico, quindi un miracolo che accadde nella regione degli Edui. Breve riassunto del testo. 148 esametri di buona fattura, metrica-mente corretti. Potrebbe trattarsi di un poeta allievo delle celebri scuole di retorica di Augustodunum, capitale degli Edui. Il carme è costituito da tre parti di lunghezza piuttosto ineguale. La prima parte contiene il racconto del miracolo. La seconda è una parte innica a Cristo. Nella terza parte è chiamato in causa Costantino. La prima parte abbraccia i primi 31 versi. In esordio la doman-da fondamentale a cui il testo intende rispondere: Chi si lamenta che sia data tardiva ricompensa della virtù, chi si lamenta che le promesse di Dio procedano con passo lento, chi misura l’urna del Giudice eterno con una misura umana e ritiene troppo lento ciò di cui i secoli sono debitori ? La nobile gloria di un fatto grandioso testimonia come si avvicini velocemente il giorno che dia la ricompensa ai meriti. Un esordio trionfante. Poi la narrazione del miracolo: Là dove quasi stagnante l’Arar lento dispiega a fatica il suo corso che a lungo resta pigro, là dove nasce la stirpe degli Edui fratelli a Remo, là io ricordo un’unione coniugale di somma pietà e fede e la legge divina accresceva il merito dell’amore e il desiderio comune a en-trambi di precedere l’altro nella morte e di affidare al pio dolore dell’altro la cura del sepolcro. Per primo il decreto divino scelse la moglie. Allora l’uomo desolato ordina che dopo la morte si scavino con ampia aperture rocce che diventino ospitali per le membra, affinché coloro i quali da vivi un solo letto aveva accolto secondo il comando di Dio un comune tumulo li consoli e accolga ciascuno al suo giungere unendoli con un patto eterno. La sposa presaga comprese il desiderio del marito e conquistò un grande miracolo per quei tempi casti, infatti, mentre le braccia vengono congiunte alle membra defunte e vincoli ripetuti stringono le mani al tronco, affinché non accada che essendo separate quelle membra da cui sono stati compiuti i compiti della vita si verifichi scomposto movimento, in questo momento

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allora, prodigioso a dirsi, nel tempo in cui la sua vita è compiuta e il marito è da unire alla compagna nella sede prevista, dopo che per la morte del marito si è riaperta la porta della morte e una luce sgradita ha scoperto l’or-renda dimora, la donna è sorpresa mentre tende la mano sinistra invitando il compagno con un gesto di vivo amore. Questa la narrazione del miracolo. Poi, fino al verso 142 un lungo inno a Cristo che viene chiamato in causa con una serie di inter-rogative: quale autore di questo miracolo e artefice di questa temporanea resurrezione della sposa. Una prima parte fino al verso 85, descrive l’ope-rato di Cristo nella creazione affianco del Padre, poi i versi 86–88 con il topos delle mille lingue segnano funzionalmente il passaggio a un altro tema. I versi successivi, fino al 142, toccano l’incarnazione di Cristo, i suoi insegnamenti e miracoli; in particolare la resurrezione di Lazzaro, la resurrezione di Cristo, la sua discesa agli Inferi, l’Ascensione, il Giu-dizio finale. Il tutto in un numero piuttosto contenuto di esametri. L’ul-tima parte, vv. 143–148, una preghiera rivolta a Cristo per Costantino: Ma tu, ora, Cristo quel Costantino che è signore per meriti, padre per pietà, clemente nell’esercitare il comando, maestro della legge nel vivere, equo per i suoi provvedimenti che la legge da Te stabilita sancì, quel Costantino possa tu farlo vincitore e lieto. Migliore di questo frutto nulla tu desti alle terre, né darai. Possano i suoi discendenti eguagliare il padre. Per la datazione di questo carme si è detto molto, ma Paola F. Moretti, riassumendo ogni ipotesi, opta per un tempo antecedente la definitiva sconfitta di Licinio, perché ci si augura un Costantino victor, quindi prima del 323–324 e sicuramente anche prima del 326, che è la data in cui Costantino elimina il figlio Crispo, perché chiamarlo pro-prio pietatis parens dopo la morte del figlio, sarebbe stato un po’ imba-razzante. La struttura argomentativa del carme, composito, è molto orga-nica e intessuta da fili tematici tutti costantiniani in senso lato:— elogio degli Edui, popolazione che nel 311 si stringe in legame con Costantino durante la sua visita ad Augustudunum con la fioritura del-la leggenda che qui il vescovo, Rettcio, aveva insegnato a Costantino i fondamenti della fede cristiana; — morale matrimoniale, benché in sé tema non specificamente cristiano, perché l’elogio dell’unicità del matrimonio è anche romano, pagano, è però tema consono all’età costantiniana ed esegetico dello spunto nar-rativo con cui il carme si apre. — parallelismo Cristo–Costantino: Dio–dominus, Costantino–dominus, entrambi padri pietosi e maestri di vita; da qui la sacralizzazione della figura imperiale, niente di più costantiniano.

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Il testo nel suo complesso resta però piuttosto sfuggente circa il genere di appartenenza e di destinazione: la liturgia? la corte? e letto a chi ? Una studiosa ha ipotizzato che il destinatario implicito del carme sia proprio Costantino, ma le Laudes Domini appaiono più in generale come il tentativo del cristianesimo di appropriarsi e di adattare ai propri scopi, ai propri propositi, l’eredità letteraria e retorica del passato pa-gano. Non sono mancati studi per provare il rapporto con Lucrezio, con Virgilio e soprattutto con Ovidio. Ipotesi quest’ultima particolarmente cara a Paola F. Moretti. Qui, infatti, trovano corpo e l’appropriazione e l’adattamento. In questa direzione andrebbero le immagini del lento corso dell’Arar e del popolo degli Edui fratelli di Remo. Il lento Arar, il fiume e la fraternitas fra Edui e romani sono due topoi letterari attestati in Giulio Cesare e nei panegirici latini, ove si arriva a sottolineare l’or-goglio patriottico gallico, fratello, però, dei romani. Anche all’interno del miracolo ci sono molti elementi che richiamano a un sostrato cultu-rale gallico: per esempio il fatto che la moglie saluti il marito sollevando la mano sinistra. In più, il miracolo di quei due sposi assomiglia molto da vicino a una storia raccontata nel cap. 74 del De gloria confessorum di Gregorio di Tours [538 ca.–594], attribuita da Gregorio alla vicenda biografica di Reticio, il vescovo prima ricordato. Secondo questa storia, Reticio, pri-ma di essere vescovo, era un giovane nobile e colto di Augustodunum. Aveva sposato una donna, con cui viveva castamente le nozze. La moglie morì prima di lui, dopo avergli chiesto che lui poi si facesse seppellire con lei al momento della morte. Dopo la morte della moglie Reticio fu eletto vescovo. Giunto al termine della sua vita, preparato il feretro per essere deposto nella tomba, il feretro risultò inamovibile: non fu cioè possibile per i cittadini trasportarlo dove pensavano loro, in un posto diverso dal sepolcro della moglie. Il feretro resisteva immobile. Alla fine, un anziano che aveva presenziato alla morte della moglie e ricordava, fa presente che quel feretro doveva essere sepolto insieme a quello della moglie. Allora finalmente il feretro si mosse. Quando il corpo del marito raggiunse il sepolcro, il marito si svegliò temporaneamente, salutò la moglie e si riaddormentò. Con lei fu sepolto. Altro elemento ricorrente: nel De gloria confessorum di Gregorio di Tours ci sono altre due storie che ricordano questa stessa vicenda.1. — La prima, ambientata a Clermont-Ferrand al tempo del vescovo Ne-poziano, sarebbe accaduta intorno agli anni 80 del IV sec.. Il protago-nista si chiama Iuniuriosus, senatore della città. I due sposi sono nobili e ricchi. Vivono le nozze castamente. Quando lei muore lui le rivolge un discorso funebre nel quale rivela a tutti che i due hanno vissuto le noz-

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ze castamente. A quel punto lei si sveglia e, sorridendo, lo rimprovera amabilmente dicendogli: « Ma perché hai svelato a tutti questo che era un nostro segreto? » e si riaddormenta. Lui muore poco dopo e anche allora accadde un miracolo. I due che erano stati sepolti a breve distanza, ep-pure, presto, i due sepolcri miracolosamente vennero ritrovati riuniti. Questa storia dei due amanti è raccontata da Gregorio una volta nella Historia Francorum e un’altra volta nel De gloria confessorum. 2. — Nella seconda storia, sempre raccontata nel De gloria confessorum, è il marito a premorire alla moglie. Dopo un anno muore anche la sposa e, all’arrivo di lei nella tomba, lui si risveglia e la abbraccia con la mano destra Si tratta di quattro storie dalle indubbie affinità, che racconta-no di sposi casti ricongiunti dopo la morte. È parso dunque fondato a Paola Francesca Moretti ipotizzare la cristianizzazione di una leggenda gallica, molto diffusa localmente e per la quale le Laudes Domini segna-no solo l’inclusione nella tradizione cristiana. Controprova: se nel De gloria confessorum appaiono molti elementi narrativi di origine gallica, presenti sono anche tanti tratti linguistici gallici, come le molte glosse galliche conservate da Gregorio. Una di queste glosse è il nome del ci-mitero dove Reticio e altri vescovi sono stati sepolti, e del cimitero di St. Pierre. Paola Francesca Moretti ritorna dunque alla citazione di quella stele funeraria frammentaria iniziale, per ribadire il carattere dominan-te della cristianizzazione inclusiva testimoniata dalle Laudes e propone di proseguire gli studi in rapporto anche al processo di scardinamento dei generi tradizionali con il De mortibus di Lattanzio in un’area cul-turale e geografica dell’Impero, in cui fu determinante la presenza e il ruolo di Costantino.

Con l’intervento di Aldo Rossi, ...ἐν τῇ καθολικῇ ἐκκλησίᾳ, ᾖ Καικιλιανὸς ἐφέστηκεν (Eusebius, H.E. 10, 7, 2): le ripercussioni africane dell’opzione cattolica di Costantino, le coordinate spazio temporali ci fanno ritornare in Africa, nelle provincie dell’Africa romana, a seguito dei provvedimenti presi da Costantino in materia di politica religiosa nelle immediate vicinanze della vittoria di Ponte Milvio. Dopo il 28 ottobre del 312 e prima del 15 aprile del 313. Se il terminus post quem è di immediata evidenza, in quell’inver-no che fa da ponte tra il 312 e il 313, è da quella data che Costantino diventa Signore anche delle Provincie d’Africa prima governate da Mas-senzio. Il terminus ante quem, il 15 aprile del 313, è determinato dalla

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A. Rossi,... ἐν τῇ καθολικῇ ἐκκλησίᾳ, ᾖ Καικιλιανὸς ἐφέστηκεν(Eusebius, H.E. 10, 7, 2):le ripercus-sioni africane dell’opzione cattolica di Costantino

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Relatio Anullini, con cui il nuovo Proconsole d’Africa, nominato da Co-stantino per attuare la nuova politica religiosa, riferisce all’Imperatore le conseguenze delle applicazioni di questi suoi primi provvedimenti e allega a questo suo rapporto la cosiddetta Supplica dei vescovi Donatisti, che chiedono di ripensare i termini di questa politica. Le comunità cristiane d’Africa avevano subìto con particolare durezza le persecuzioni dioclezianee, avevano già sperimentato tensioni laceranti. Il frutto avvelenato ne è la contemporanea consacrazione di due vescovi concorrenti sulla cattedra più importante, per storia e per prestigio, dell’intera Africa, cioè la cattedra di Cartagine. Non siamo in grado di ricostruire quanto questo scisma interno alla Chiesa di Cartagine potesse aver proiettato i suoi laceranti effetti all’interno delle comunità nel resto dell’Africa. Né può essere ricostruita quale fosse la cognizione della situazione sul terreno che potessero aver-ne l’amministrazione di Massenzio o la Cancelleria di Costantino alla vigilia di Ponte Milvio. Rossi fa questa distinzione perché nel momento in cui Costantino decide di prendere in mano la situazione africana, e questo momento è precedente all’invio di Anullino come Proconsole in Africa, dimostra di avere già elaborato un suo progetto di politica religiosa africana. Ma noi non sappiamo cosa Costantino sapesse della situazione africana. Nei provvedimenti di Costantino di quell’inverno fra il 312 e il 313 ci sono tracce che ci permettono una prima approssimativa rispo-sta. In primo luogo le tensioni interne alla Chiesa cartaginese sono co-nosciute da Costantino, che vi fa esplicito riferimento. In secondo luogo le istruzioni di Costantino sono indirizzate al Proconsole Anullino, la cui autorità si estende su Cartagine e sulla Provincia proconsolare, ma anche al vice-prefetto del Pretorio per l’Africa, la cui autorità si estende su tutte le altre provincie africane. Le tensioni, quindi, si erano propa-gate lontano da Cartagine. L’oggetto dei primi provvedimenti imperiali in materia di cri-stianesimo riguardano la concessione di donativi o benefici ai vescovi africani con la precisa e chiaramente delineata volontà di limitarne il godimento soltanto a quei vescovi che fossero chiaramente riconducibi-li a una Chiesa che l’Imperatore, a più riprese, definisce esplicitamente ‘cattolica’ e il cui paradigma viene individuato, non nella semplice co-munione con uno dei due contendenti sulla cattedra cartaginese, Ceci-liano, ma nella sottomissione a lui. Si noti che un destinatario di uno di questi provvedimenti non sta nella comunione con Ceciliano. Rossi ha tratto da una frase di Costantino, conservata in traduzione greca da Eusebio, il titolo della sua relazione: la Chiesa cattolica che è sottoposta

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a Ceciliano o di cui Ceciliano è capo. Altri provvedimenti di Costantino utilizzano definizioni simili. Le istruzioni contenute in una di queste lettere erano state impartite al Proconsole e al Prefetto del Pretorio in presenza dell’Imperatore prima della partenza per l’Africa. Anullino era stato nominato alla vigilia di Ponte Milvio, Praefectus urbis da parte di Massenzio, conserva questa carica fino al 28 di novembre del 312. La sua entrata come Proconsole di Cartagine è posteriore a questa data, la fine di novembre, tempo in cui la navigazione per l’Africa è già normal-mente interrotta. Lo troviamo sulla scena quando scrive la sua relazio-ne il 15 aprile del 313; l’arco di tempo nel quale può avere ricevuto le istruzioni va dalla fine del novembre del 312 al 18/19 gennaio del 313, ultima data di permanenza di Costantino a Roma. Le modalità d’intervento sono dunque decise da Costantino pri-ma dell’arrivo in Africa dei suoi funzionari a Cartagine, sede d’inizio dello scisma. Nel momento in cui il proconsole Anullino prende posses-so della propria sede, sono già in carica due vescovi contendenti, Ceci-liano, con cui si schiereranno la Chiesa di Roma e le chiese transmarine —la Chiesa in comunione con lui in Africa prenderà la denominazione di ‘cattolica’— e Maggiorino, rapidamente sostituito da Donato il Gran-de, che diverrà l’eponimo della Chiesa che a lui fa riferimento, la chie-sa donatista. Le gerarchie religiose di Cartagine sono irrimediabilmente sepa-rate. Due comunità concorrenti esprimono le proprie strutture organiz-zative, con le proprie cattedre episcopali e le proprie basiliche. Le let-tere di Costantino dimostrano che egli fosse chiaramente a conoscenza non solo del conflitto intra-ecclesiale africano, ma anche dell’esistenza ormai assestata di due gerarchie concorrenti. La lettura gerarchizzante della realtà ecclesiale africana nella particolare situazione di quell’anno corrispondeva non solo al progetto costantiniano, ma anche a una tendenza presente nelle chiese d’Africa. Prima di questa fase le informazioni che abbiamo risalgono al mondo che ruota attorno a Cipriano di Cartagine alla metà del III secolo e con una felice immagine la chiesa africana è stata definita una federazione di chiese con a capo, per prestigio ma non per autorità, per autore-volezza ma non per autorità, il primate di Cartagine. Da qui a fare del primate di Cartagine, come fa Costantino, il capo a cui i sottoposti devono dare asseverazione di fedeltà, il passo è decisamente forte. La conferma più esplicita di questa interpretazione è offerta dalla risposta di Anullino del 15 aprile del 313, nella quale il proconsole, dopo aver riunito Ceciliano e i vescovi a lui sottoposti, ottiene da loro formale as-sicurazione del rapporto di comunione mantenuto con Ceciliano stesso.

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Asseverazione inserita nei verbali della riunione, che Anullino trasmet-terà all’Imperatore. Nella sua relazione Anullino inserisce anche altre informazioni. Pochi giorni dopo, accompagnati da gran moltitudine, si sarebbero presentati al suo cospetto alcuni individui che egli non specifica ulteriormente. Li chiama quidam. Dai documenti allegati alla relazione, però, risultano essere vescovi della parte di Donato. Chiedo-no che una serie di documenti siano inoltrati all’Imperatore. Anullino non qualifica questi soggetti, ma la supplica, che viene allegata a questo documento —e che a noi è trasmessa da Agostino— specifica quale fosse il problema sul campo e per quale motivo ci si rivolga all’Imperatore. Vengono richiesti judices terzi, dalla Gallia, perché, in Africa, inter nos sono in corso dei contenziosi legali. In termini giudiziari si conte-sta a Ceciliano la titolarità della basilica episcopale e tutto ciò che ne consegue. All’inizio del IV secolo e nel corso di tutto il IV secolo era in atto una sorta di macchina di costruzione identitaria: chi possiede la basilica è il vescovo titolare. Questo spiega gli assalti alle basiliche, che, in quel secolo, si verificano sia nella Milano ambrosiana sia nella Roma damasiana, sia nell’Alessandria atanasiana. Ora, il fatto che i vescovi presentino questa richiesta specificando le contentiones dimostra che queste contese sono diffuse in Africa e investono l’autorità cittadina con una serie di azioni legali intentate di fronte alle autorità municipali sparse in diverse città dell’Africa. Quello che Rossi fa notare, di speci-fico, è che la richiesta di una condanna o di una comunione è funzio-nale al dibattito interno delle chiese africane, ma non è una richiesta d’intervento dall’esterno. Il salto di qualità nel conflitto fu imposto dal-l’iniziativa imperiale: l’aver individuato in Ceciliano il referente esclu-sivo per gli affari ecclesiastici in Africa, comportò conseguenze forse impreviste, ma in primo luogo il meccanismo dei donativi e la pressione delle autorità compattarono attorno a Ceciliano una solidarietà eccle-siale di cui, forse, fino ad allora non aveva goduto. Non sarebbe stato altrimenti necessario che fosse Anullino a chiedere la dichiarazione di comunione di unità con Ceciliano. In secondo luogo, però, compattano anche l’opposizione donatista che era dispersa nei rivoli dei conflitti a livello locale. La visione cattolica di Costantino dimostra d’interpre-tare le gerarchie ecclesiastiche secondo il modello di quelle secolari; è solo attraverso il filtro del riconoscimento di Ceciliano che è consentito ai vescovi africani di accedere alle regalie e alle donazioni e esenzioni offerte dall’Imperatore. Però l’atteggiamento di Costantino evidenzia anche l’atteggiamento che va ben oltre la mentalità di un tradizionale imperatore romano: non viene richiesta solo una sottomissione di carat-tere gerarchico, ma il riconoscimento di un rapporto di comunione. Si

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parla di unità con un linguaggio che appartiene al linguaggio ecclesio-logico. A quale titolo questo rapporto poteva interessare l’imperatore? La richiesta, di cui Anullino si fece portavoce ed esecutore, denota in primo luogo una conoscenza precisa di questo fondamentale elemento di coesione della chiesa e della sua importanza, ma in secondo luogo di-mostra di quale genere dovesse essere la chiesa con la quale Costantino entrava in rapporto e, infine, dimostra anche una conoscenza abbasta precisa del contesto ecclesiologico in Africa. La contestazione donatista si tradusse nell’invio di prove che avrebbero dovuto dimostrare l’usurpazione di Ceciliano sulla cattedra cartaginese. Tutto contenuto nella supplica che richiedeva gli judices de Gallia. La risposta di Costantino fu la nomina di una commissione episcopale, talora detta Concilio di Roma, dell’ottobre del 313. Quindi non una commissione di vescovi che vada a Cartagine ad esplorare i motivi del contendere, ma un ambito che pretenda di riprendere in esame la posizione di Ceciliano. Tutto finirà con l’assoluzione di Ceci-liano, l’affermazione della comunione delle trasmarine con Ceciliano e la condanna dei donatisti. La scelta di Costantino risponde a un lucido disegno: — nessuna delle dispute locali riceve l’attenzione degli arbitri da lui nominati; — la soluzione del problema consiste nell’individuazione di quale dei due vertici cartaginesi è in comunione con le altre chiese trasmarine;— ai vescovi africani dichiaratisi in comunione con Ceciliano viene rico-nosciuto il possesso delle basiliche. Se nell’aprile del 313, data della Relatio di Anullino, il conflitto si presentava ancora come una questione non solo limitata alle provin-cie locali, ma a contesti africani, già nell’ottobre, dopo il Concilio di Roma, essa s’era trasformata in un problema in cui erano coinvolte le chiese di Gallia e d’Italia. Poi avremo il Concilio di Arles del 314 e poi le inchieste ordinate da Costantino. In conclusione pare a Rossi poter riconoscere nel piano di Co-stantino i tratti di una chiesa che si fa cattolica, non solo per la sua aderenza alla legge o per la sua espansione geografica, ma soprattutto per la sua adesione a un modello universalistico che corrisponde al programma di restaurazione e rinnovamento politico in corso di dispie-gamento. Il modello universalistico spinge Costantino a proporre per lo scisma africano una soluzione che risolva le crisi locali, attraverso un processo d’inserimento e uniformazione in una unità più ampia ga-rantita da una teologia del potere, che dispiega la propria protezione sull’ecumene. Dunque, la chiamata in causa dell’episcopato italico e

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gallico costituisce lo strumento pensato per operare l’universalizzazione della soluzione, sperimentato nella crisi donatista. Con ben altra forza e numeri verrà riproposta ad Arles e soprattutto a Nicea. Il tentativo di universalizzazione in Africa è parzialmente fallito, perché ha avuto una conseguenza imprevista: le dispute di carattere locale, che sino ad allora erano dibattute davanti alle corti cittadine, assurgono a dispute di carattere universalistico, ben colto dalle gerarchie donatiste, già nella supplica del 313, quando venne richiesto un arbitrato complessivo, ben-ché pur sempre di carattere civilistico, che tutte le contempli. Fu merito dell’accelerazione imposta da Costantino se lo scisma africano, ancora frammentato in una serie di conflitti locali, poté saldarsi in un impian-to unitario capace di generare una chiesa alternativa, la cui lunga dura-ta è, tra le altre concause, motivata proprio dalla salda organizzazione che, sia pure in un’ottica fondamentalmente afrocentrica, rapidamente assimila la pretesa cattolica del primo Imperatore cristiano.

L’esser divenuta controversa la politica religiosa di Costantino ha finito per compromettere la continuità delle sue raffigurazioni, tema questo approfondito da Gabriele Pellizzari nella sua relazione: Immagi-ni di Costantino. Il nuovo Impero e la fine dell’iconografia paleocristiana. La storiografia lo ha abitualmente considerato una cesura nella pluri-millenaria storia della Roma antica e questo ha pesato sul rapporto tra Costantino e l’iconografia. C’è una manualistica definizione di rinascenza costantiniana per classificare la propensione dimostrata da Costantino I a proporsi come restauratore del principato augusteo, la cui inclinazione a sfrutta-re il potere delle immagini è un fatto ben conosciuto. Anche Jonathan Bardill, Costantino l’imperatore divino dell’età d’oro cristiana, Cambridge University Press, 2012., pur segnalandosi come uno dei più intelligenti lavori dedicati alla figura di Costantino, ancora si spende nel solco della religio più ancora che della maiestas. La produzione artistica del principato costantiniano, la sua azione e il suo manifesto sono sempre in continuità con la manifestazione dell’ideologia del principato. Il pri-mo imperatore cristiano con al vertice, nel cuore della capitale del suo Impero, la propria raffigurazione in posa e in figura solare, è ben più di un compromesso con la tradizione, se si pensa che nel suo trionfo a Roma si rifiutò di giungere fino alla statua di Giove Ottimo Massimo. La valutazione dell’iconografia costantiniana risente della luce iniziale su quel principato tratteggiata da Eusebio di Cesarea. Il mae-stro di Pelizzari definiva Eusebio testimone tendenzioso, di conseguenza è difficile stabilire se fu Costantino a voler raffigurare la propria reggia

G. Pellizzari,Immagini di Costantino.

Il nuovo Impero

e la fine della iconografia

paleocristiana

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quasi come una basilica cristiana o viceversa fu la basilica cristiana a modellarsi come la casa del primo imperatore cristiano. In effetti Costantino è per noi una sorta di personaggio di co-modo che ci guida lungo una immaginaria cronologia delle origini cri-stiane. Costantino segnerebbe cioè un cambio di passo più che nella storia dell’Impero, nella storia delle origini cristiane e la sua influenza non può essere ricondotta solo al suo arco biografico, ma deve di neces-sità estendersi alla sua pervasività culturale. Il principato costantiniano mutò la cultura cristiana anche influenzando l’arte delle comunità cri-stiana. Con Costantino il cristianesimo diventa un’occasione per scalare le posizioni entro quella burocrazia tardo antica di cui l’Imperatore si serviva. Quell’alleanza, se non conversione, che sicuramente Costantino contrasse con le diverse comunità cristiane si dimostra immediatamen-te vantaggiosa per inserirsi nei ranghi della gestione dell’Impero. Ne abbiamo una testimonianza preziosa: l’Ipogeo della Catacomba della Via Latina, nel quartiere Appio-Latino, di cui le fonti antiche tacciono totalmente e che fu scoperto per caso agli inizi del 1955 durante gli scavi per le fondazioni di un nuovo palazzo. La sua scoperta fu tenuta nascosta fino alla fine dei lavori di costruzione del palazzo sovrastante e questo provocò danni alle pitture e alle strutture della catacomba, causati sia da improvvisati tombaroli che dalle gettate di cemento ar-mato. Solo a novembre di quell’anno l’ingegnere Mario Santa Maria denunciò il ritrovamento della catacomba alla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Fu incaricato padre Antonio Ferrua di visitare gli ambienti e si rese subito conto dell’eccezionalità della scoperta: la cata-comba fu sterrata nei mesi successivi, ed i lavori si conclusero nel giugno del 1956. L’ipogeo, di diritto privato, fu scavato per ospitare le tombe di una o più famiglie imparentate tra loro, i cui membri non erano an-cora tutti passati alla fede cristiana: questo aspetto si evince dal fatto che la catacomba conserva molte pitture con soggetti pagani, e non solo cristiani. La catacomba ebbe una vita breve, circa cinquant’anni, dagli inizi del IV secolo fin verso il 350-360 d.C. Non si conoscono i nomi delle famiglie lí sepolte. La catacomba si sviluppa su un solo livello: due gallerie parallele tra loro, distanti circa 18 metri, attraversate perpendi-colarmente da un’altra galleria, che termina con una serie di cubicoli e cripte interessanti dal punto di vista pittorico ed architettonico. L’an-tico ingresso è oggi ostruito da una sovrastante e recente costruzione; si accede all’ipogeo da un tombino posto nel marciapiede in via Latina. Leonella De Santis riferisce l’affermazione, secondo la quale per molti studiosi dell’arte paleocristiana questo ipogeo, per la ricchezza delle sue decorazioni, rappresenta una vera e propria “pinacoteca del IV sec.”:

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« Nei sotterranei l’atmosfera è magnetica, l’emozione è grande. I colori, luminosi, avvolgono il visitatore con caldi toni rossi, bruni e viola-cei, con chiare pennellate gialle, ocra, arancione e vibranti tocchi azzurri, verdi e grigi: le scene dipinte, oltre un centinaio, rimbalzano da una parete all’altra creando un caleidoscopio variopinto e variegato… A ragion vedu-ta viene definita dagli studiosi la “pinacoteca del IV secolo”… » (De Santis L. - G. Biamonte, Le catacombe di Roma, Newton & Compton Editori, Roma 1997, pp. 281-289). Le pitture ricoprono nella loro totalità le pareti dell’ipogeo, ritraggono scene con temi pagani, che si alternano ad altre tratte dal repertorio cristiano, sia vetero che neotestamentario. L’iconografia che noi qui troviamo è di natura decorativa, cioè non sviluppa un progetto, ma si limita a riempire ogni spazio, questo è segno di quell’accesso nelle comunità cristiane di un gran numero di neofiti che fino al tempo delle persecuzioni, sicuramente non partecipavano ad esse. Questo è un dato di grande rilievo perché segna innanzitutto un cambio di prospettiva interno alla comunità, non tanto ingiunto dall’esterno. Un tema rilevante è la scomparsa della raffigurazione del Buon Pastore nel panorama dell’arte paleocristiana. Se è vero che Costanti-no porta una propria iconografia e con lui s’inseriscono nuovi temi, è anche vero che viene meno ciò che c’era prima. Se la catacomba di via Latina ci permette di vedere il passaggio da un’iconografia codificata, a un’iconografia che decora lo spazio in senso sontuario, allora si osserva non tanto l’ingresso di nuovi temi, quanto l’abbandono dei precedenti.Il Buon Pastore dell’aula sud di Aquileia rappresenta un’evoluzione pe-culiare della grande tradizione iconografica pre-costantiniana, perché illustra anche una particolare declinazione sinottica di questa figura: il Buon Pastore, quando trova la centesima pecora, se la carica sulle spalle e, lieto, fa ritorno alla casa del padre. Qual’è la casa che nella parabola viene sinteticamente richiamata? Il cielo: così vi dico vi sarà più gioia nei cieli per un peccatore che si ravvede et cetera. Quest’iconografia per quanto sovvenzionata, forse anche da Costantino, è il prodotto della comunità e infatti rispecchia una tradizione precedente di marca si-curamente giudeo-cristiana, precedente alla rivoluzione che Costantino portò. Pelizzari passa poi ad illustrare un’immagine meno felice per resa, ma molto importante: il così detto Pastore dall’abito singolare. An-cora nell’alveo del Buon Pastore, ma in abbigliamento non più bucoli-co, perché si avvicina a quello della tradizione imperiale. A Ravenna, poi, si trova una delle ultime permanenze della raffigurazione del Buon Pastore. Qui, del Buon Pastore, rimane solo la posa; l’abbigliamento è quello imperiale: il drappo purpureo, l’abito color oro. Siamo quindi

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arrivati al trasferimento, nel contesto paradisiaco, dell’iconografia im-periale. Un passo ulteriore segna la fine decisiva di questa prospettiva: la cappella di S. Andrea nel Palazzo arcivescovile, in cui del Cristo buon pastore non resta più nulla, ma ormai solo il Cristo, non solo Impera-tore, ma addirittura comandante d’armi. Si richiama qui una cate-goria storica innovativa: la Chiesa con Costantino trasforma se stessa da un’entità che si difendeva ad un entità proiettata a fronteggiare il mondo, per conquistarlo. In origine, invece, il Buon Pastore aveva la funzione di difender un gregge, non di aggredire i ladri. La prospettiva che l’iconografia ci fornisce è quella di un mu-tamento recepito al suo interno, sino in profondità. Ma l’iconografia ci attesta anche la resistenza a questo mutamento, come può desumersi dall’analisi di un ultimo sarcofago, proposta da Gabriele Pelizzari, dove la corte apostolica è raffigurata nell’atto di disporsi ai lati della croce. È un sarcofago del pieno IV secolo e riassume, già a prima vista tutti gli stilemi dell’iconografia imperiale, ponendo un accento che dà la misura di una resistenza e di una permanenza a questo quadro teologico e po-litico. Il Pelizzari insiste a far notate i volti degli apostoli, suddivisi da stelle: dato significativo, perché dettaglio del trasferimento della corte dalla somiglianza con la Gerusalemme terrena, a quella che invece re-sisteva nella coscienza delle comunità cristiane come attesa e speranza della propria fede: la Gerusalemme celeste.

Per leggere ed apprezzare i risultati che posson derivare dai lavori di questo Convegno, pienamente disponibili, anche con ogni supporto iconografico, solo al momento della pubblicazione degli Atti, vorrei far presente al Lettore che, specie in riferimento all’ultima relazione appena trascorsa, di Gabriele Pelizza-ri, sia possibile assistere ad un passaggio della stessa impostazione storiografica. Nel vivo della ricerca e a testimonianza di tale mutamento di prospettiva vorrei qui ricordare che è in atto un vero e proprio superamento dei canoni illuministi-ci sinora qui invalsi e relativi alla storia e alla critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo, specie nel punto in cui le arti si intersecano e compenetrano con le manifestazioni e con la coscienza del sacro.

“Il momento costantiniano e le forme culturali cristiane: tra con-tinuità misterica e sviluppo rituale” è stato il tema illustrato da Cesare Angelo Maria Alzati, ordinario nella Facoltà di Scienze della Forma-zione dell’Università Cattolica di Milano, dove tiene l’insegnamento di Cultura e Istituzioni del Medioevo Europeo. Per i suoi studi sullo spazio religioso romeno l’Università “Babeş-Bolyai” di Cluj gli ha conferito il dottorato h.c. in Storia e lo ha nominato Direttore onorario dell’Istitu-to di Storia Ecclesiastica, cui afferiscono, oltre alla Facoltà di Storia e

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NotadelCuratore

C. Alzati,Il momento costantiniano e le forme culturali cristiane: tra continuità misterica e sviluppo rituale.

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Filosofia, le Facoltà Teologiche: Ortodossa, Greco-Cattolica, Riformata, Romano-Cattolica; membro delle Classi di Studi Ambrosiani, di Studi Borromaici e di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana, è inserito nei Comintati Scientifici di diverse riviste, tra le quali la “Rivista di Storia e Letteratura Religiosa” di Torino e “Transylvanian Review” del Centrul de Studii Transilvane di Cluj. Studioso della tradizione ambrosiana, anche nelle sue forme rituali, è membro della Congregazione del Rito Ambrosiano e fa parte del Comitato Scientifico della Collana vaticana “Monumenta, Studia, Instrumenta Liturgica”.

L’analisi di C. Alzati si è sviluppata in ordine al tema, ma anche in ordine alla peculiarità delle celebrazioni costantiniane nel tempo. L’enfasi con cui fu celebrato l’anniversario costantiniano nel 1913, dopo che Otto Seek, nel 1891, aveva autorevolmente contraddet-to l’opinione che nel 313 vi fosse stata a Milano la promulgazione di un Editto, lascia chiaramente intravvedere la dimensione ideologica che nel contesto politico culturale del tempo la rievocazione della figura di Costantino era venuta assumendo e il valore emblematico di cui in tale contesto era stato caricato il discusso Editto di Milano. Nel quadro dell’opera enciclopedica dedicata a Costantino che Alberto Melloni ha curato per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e of-ferta al pubblico proprio in questo stesso mese di maggio [L’Enciclopedia su Costantino è un lavoro di 150 autori in tre volumi, nel tentativo di ricostruire la vita e la fortuna dell’imperatore. Si parte dalla vita familiare, per poi ripercorrere le ragioni della sua fortuna. L’opera va avanti cercando di analizzare il senso del rapporto tra Cristianesimo e potere, argomento oggi ancora molto attuale], Paolo Siniscalco ha esemplarmente ripercorso, in un ampio documentato contributo, l’ap-parire dell’idea di Editto di Milano. e il dibattito che attorno a tale assunto storiografico si è sviluppato. Un secolo è trascorso dagli accesi contrasti che proprio qui a Milano accompagnarono il centenario del 1913 costruito attorno al di-battuto Editto proposto quale modello di libertà religiosa in un’Italia travagliata dalla questione romana e nel contesto di un’Europa che nel 1905 aveva visto in Francia l’instaurarsi della legislazione sulla laïcité. Anche nel presente anno costantiniano l’attenzione si è focalizzata sul disputato Editto e su come quest’ultimo sia stato nuovamente addita-to quale inizio del tempo della tolleranza. In realtà l’enfatizzazione dell’anno 313, nei termini di tornante epocale della storia risulta per molti aspetti problematica. In effetti sia l’anno 313, sia la concezio-ne dell’autorità imperiale e la sua configurazione istituzionale, non risultano configurabili quale svolta. Non rappresentarono una svolta

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nemmeno in rapporto al titolo di Pontifex Maximus che Costantino e i suoi successori continuarono a detenere fino a Graziano. Quanto poi all’anno 313 esso non può essere considerato l’avvio della libertà di culto per i cristiani, se fin dall’Editto di Gallieno nel 260 era stato tri-butato riconoscimento legale alla dimensione istituzionale della chiesa, ratificandone gli ordinamenti gerarchici e il possesso di beni. Ma pure il superamento della persecuzione dioclezianea non prese avvio con l’in-contro milanese di Costantino e Licinio. Già in seguito all’abdicazione di Diocleziano e Galerio nel 305, l’ascesa di Costanzo I alla dignità di Augusto aveva segnato in Occidente la pratica conclusione delle vessa-zioni contro i cristiani, conclusione che poco dopo sembra aver avuto anche precisa formalizzazione, sia nelle Gallie ad opera di Costantino, sia a Roma per iniziativa di Massenzio. Quanto poi all’Oriente la con-cessione della libertà di culto ai cristiani fu l’oggetto dell’Editto deciso a Sirmio da Galerio e da questi fatto promulgare a Nicomedia nel 311. Un aspetto fondamentale delle disposizioni ora ricordate, è la loro formulazione non come riflesso d’istanze espresse in ambito cri-stiano, ma quali iniziative prese da imperatori pagani sul fondamento di principi e idealità, tipiche della tradizione romana. Emblematico il riguardo all’Editto di Galerio, tutto concepito alla luce della preoccupa-zione romana e pagana per la salvaguardia dell’ossequio dovuto a ciò che è divino, principio cui esplicitamente l’imperatore venne subordi-nando anche i propri personali orientamenti. Scrive Galerio: prima di questo momento, in verità, noi avevamo voluto ristabilire ogni cosa in con-formità alle antiche leggi e alla norma pubblica dei romani e provvedere affinché pure i cristiani ritornassero al retto sentire, ma poiché in moltissimi perseverarono nel loro proposito e noi abbiamo constatato che mostravano la doverosa devozione verso gli dei, celebrandone il culto, rendevano osse-quio al Dio dei cristiani, abbiamo ritenuto opportuno accordare loro pron-tamente la nostra indulgenza affinché di nuovo possano essere cristiani e ricompongano le loro comunità in modo tale che il loro comportamento in nulla sia contrario a ciò che è doveroso. A tale proposito merita osservare come la stessa lettera di Co-stantino nel 324 alle popolazioni delle provincie orientali per tutelare nei territori la continuità dei culti pagani, pur evidenziando l’orien-tamento monoteistico cristianamente connotato dell’Imperatore [Dio grandissimo attraverso tuo figlio è ricordata a tutti la tua esistenza], non ha quali argomentazioni fondative enunciazioni di matrice cristiana, ma viene riprendendo le consuete considerazioni della tradizione el-lenistica in merito alla polis, quale ordinamento istituzionale e socia-le destinato a riproporre l’articolata armonia del cosmo. Questi chiari

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indici di continuità, non annullano comunque la percezione che col momento costantiniano, di fatto, una situazione nuova abbia iniziato a svilupparsi nell’ecumene romana. Questo, agli occhi di Alzati, non è una trasformazione programmaticamente perseguita, ma l’inevitabile conseguenza comportata proprio dalla inalterata continuità della pras-si istituzionale romana. Pienamente recepito il Cristianesimo nel conte-sto istituzionale della res publica, Costantino non poté, quale Impera-tore, che integrarne le strutture ecclesiastiche nel quadro dell’Impero, inserendole negli ordinamenti di quest’ultimo. Non fu fatta violenza alle precedenti tradizionali forme di vita ecclesiale, ma si diede a esse una definizione normativa nuova e destinata a stabilizzarsi nel tempo. Si pensi all’istituto della Provincia ecclesiastica e alla regolamentazione che in essa trovarono le consolidate modalità di espressione della colle-gialità episcopale. In tale contesto si istituzionalizzò pure quella prov-vidente cura nei confronti della Chiesa che, una volta organicamente inserita la Chiesa stessa nella compagine dell’Impero, venne indubita-bilmente a costituire una specifica responsabilità dell’autorità imperia-le. Del resto già nel 272 ad Antiochia era stato oltremodo naturale, per l’episcopato della Regione, al fine di dirimere il proprio contezioso con il presule locale, rivolgersi all’autorità imperiale del pagano Aureliano, rimettendo a lui l’assegnazione del luogo di culto cristiano della città. L’espressione più alta di autorità esercitata da Costantino nei confronti della comunità cristiana, fu indubbiamente la convocazione a Nicea del Santo e Grande Concilio, in cui, secondo l’inequivocabile testimonianza eusebiana, fu l’Imperatore a definire la formula dell’or-todossia trinitaria, tutt’ora professata da tutte le chiese di tradizione apostolica. Da questa organica integrazione dell’istituzione ecclesiasti-ca nelle strutture dell’Impero scaturì anche quella peculiare forma di interazione tra magistratura ed episcopato. Questa novità nella conti-nuità vissuta dalla Chiesa Cristiana nel momento costantiniano trova una manifestazione oltremodo eloquente nell’esperienza e nella prassi del culto. Un aspetto che ha fortemente caratterizzato l’esistenza del-la chiesa antica e la sua percezione e auto-percezione quale comunità cultuale. Per la documentazione al riguardo si pensi alle fonti della lettera a Traiano di Plinio il Giovane o alla Orazione di Marco Cornelio Frontone, mentre quanto alle fonti intra-ecclesiali oltremodo eloquenti risultano testi quali la descrizioni della Chiesa nell’Apologia prima del filosofo Giustino e opere nelle quali si può trovare una vivida rappre-sentazione, in una certa misura idealizzata, della vita della comunità. Siffatta percezione, in termini essenzialmente cultuali, della comunità cristiana, ha trovato tra II e III secolo un significativo riflesso anche in

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ambito lessicale. In Clemente Alessandrino e forse anche in Tertullia-no, certamente nella lettera del Clero romano a Cipriano, nonché nella Didascalia in area siriaca, l’edificio di culto cristiano pare designato in greco, non meno che in latino, con la denominazione stessa della comunità: Chiesa. Va preso atto del fatto che tale identificazione non sia venuta meno nelle nuove condizioni giuridico-istituzionali determi-nate dall’inserimento delle istituzioni ecclesiastiche nell’ordinamento imperiale, ma, anzi, proprio allora abbia assunto una diffusione ge-neralizzata. In effetti anche nella mutata situazione la comunità eccle-siale non cessò di configurarsi come la comunità degli iniziati ai divini misteri. Tanto che nell’Illirico il fenomeno lessicale segnalato si viene riproponendo, seppure con dinamiche inverse come comportava la si-tuazione del IV secolo, dalla denominazione latina dell’edificio di cul-to: Basilica. Tale coincidenza terminologica presuppone un’esperienza ecclesiale concreta in cui la chiesa stessa è vissuta quale realtà sociale e istituzionale, che si alimenta al mystherion, ossia all’azione cultuale e alla considerazione del mystherion quale momento qualificante della chiesa che la identifica nel contesto sociale e ne fonda la specificità isti-tuzionale. Se dunque Costantino dotò la Chiesa di maestosi edifici di cul-to, a cominciare dalla Basilica Lateranense, e questi divennero segni destinati a marcare profondamente il paesaggio urbano e la sua mo-numentalità, la comunità che vi si radunava continuò ad essere una comunità d’iniziati, il cui culto era precluso agli estranei ed era reso loro impenetrabile attraverso la disciplina dell’arcano. La collocazione dei penitenti in vestibulo, attestata nella De poenitentia di Tertulliano, opera risalente alla fase cattolica del suo autore protrattasi fino al 207-208, ed ancora l’esistenza del ministero dell’ostiariato per la custodia delle porte d’accesso al luogo di culto, esistenza documentata dal vesco-vo Cornelio, ma altresì il dato concreto offerto dall’aula battisteriale, forse anteriore al 256, suppongono indubbiamente già un’articolazione dell’edificio cultuale in una pluralità di spazi ben distinti inseriti in un insieme di significato marcatamente anagogico, la cui climax simbolo-gica culminava nell’ambiente per il sacrificio puro della fractio panis. Rispetto a tali testimonianze arcaiche i nuovi edifici di culto apparsi in età costantiniana, pur nella loro monumentalità grandiosa, si presenta-no caratterizzati da una coerente continuità. Le modalità di fruizione continuano a qualificarli come i luoghi dei santi misteri. Non soltan-to vengono dedicati solennemente a Dio, ma risultano espressamente strutturati al loro interno come grandi spazi mistagogici, finalizzati alla celebrazione dei misteri e alla iniziazione ad essi dei credenti. Le loro

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porte continuano ad essere presidiate dagli ostiari e la partecipazione al rito resta assolutamente preclusa a chi non appartenga alla comuni-tà c ristiana. Inoltre, come Tertulliano attestava al tempo, anche negli edifici costantiniani, il luogo della celebrazione eucaristica continua ad essere uno spazio interdetto, oltre che ai catecunemi, a chi tra i battez-zati è tenuto ad espiare pubblicamente le proprie colpe, fino alla riam-missione nell’aula. Tracce significative di tale disciplina, relativa alla esclusione dei catecumeni, si sono conservate fino ad oggi nelle chiese di tradizione costantinopolitana, che, al termine della sezione iniziale della celebrazione eucaristica, incentrata sulla lettura delle scritture apostoliche evangeliche, conservano tutt’ora l’intimazione: Catecumeni uscite! Catecumeni uscite! e, dopo l’offertorio, prima della professione di fede, presso tale chiesa ancora risuona il comando: Le porte! Le por-te! originariamente l’ordine dato ai ministri a ciò deputati di chiudere l’aula, perché il sacro mistero stava per compiersi in essa e qualsiasi contatto con l’esterno doveva cessare. Un elemento oltremodo espressivo di tale connotazione mista-gogica del luogo di culto cristiano, che, attestato nel III secolo, ritrovia-mo marcatamente presente in età costantiniana e successivamente, è l’orientamento degli oranti e dell’edificio. Per valutare adeguatamente tale aspetto merita ricordare come già nella tradizione ebraica risulti essere procedura ben radicata l’assunzione di elementi della comune simbologia antropologica-religiosa, sottoponendone il significato a una ridefinizione in prospettiva rigorosamente biblica. Considerazioni ana-loghe possono essere applicate anche alla ripresa in ambito cristiano del differimento rituale al settore orientale della volta celeste, uso ben radicato nelle prassi cultuali dell’antichità come ci attesta lo stesso Vi-truvio. Antropologicamente connesso al ciclo quotidiano del sole e della luce, tale elemento rituale venne riletto dai cristiani in riferimento delle enunciate scritture e si trasformò per loro in un segno squisitamente cristologico. Tale uso di pregare rivolti al luogo donde sorge il sole, come si esprime l’africano Tertulliano, alla fine II secolo, è documentato negli stessi anni ad Alessandria da Clemente che parla di preghiere fatte ver-so il sorgere del sole ad oriente. Quale aspetto caratterizzante la prassi celebrativa del corpo ecclesiano, questa norma dell’orientamento trova quest’azione nella prima metà del III secolo, nella siriaca Didascalia apostolorum, nella quale esplicitamente si prescrive che tutti i presenti debbano disporsi rivolti a oriente. Con gli edifici costantiniani l’uso non venne meno, ma si continuò, riproponendosi successivamente, pur con eccezioni contingenti, presso tutte le chiese. Nell’VIII secolo il Dama-sceno, nella sua grande sintesi dogmantica, compendiò con estrema effi-

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cacia questo tratto della comune spiritualità rituale cristiana: “Quando il Signore fu assunto in cielo —oggi è il giorno dell’Ascensione—, fu portato verso oriente e gli apostoli, mentre così lo vedevano, si prostrarono a lui e così nel modo in cui lo videro entrare nel cielo egli ritornerà, lo stesso Si-gnore lo ha detto: come la folgore viene da oriente brilla fino a occidente, così sarà la venuta del figlio dell’uomo. Essendo dunque noi in sua attesa, ci prostriamo verso oriente. E’ questa una tradizione degli Apostoli, non scritta. Molte cose infatti essi ci hanno trasmesso senza porle per iscritto”. Evidente come da tale elemento rituale emergano immagini di Chie-sa per nulla ripiegata sulle proprie strutture istituzionali o ingabbiata nei propri rituali, nei propri cerimoniali, ma comunità celebrante che escatologicamente si proietta verso colui della cui morte e resurrezione nel misterio compie fedelmente la memoria. La percezione cultuale e misterica della Chiesa, nonché il carattere di struttura mistagogica dei suoi edifici di culto, non si attenuarono dunque con l’età costantinia-na e con l’organico innesto del culto cristiano nel tessuto urbano delle città. Fu nel contesto della vita cultuale, favorita dall’edificazione delle nuove basiliche cristiane, che le tradizionali legittime orationes pote-rono assumere i caratteri di solenni celebrazioni ecclesiali. Con ogni evidenza non si trattò di un’alterazione, ma di una coerente fioritura del patrimonio pregresso che spinse Ilario di Poitiers ad affermare: Lo sviluppo determinatosi nella Chiesa in merito all’accattivante bellezza degli inni mattutinali e vespertini, è il più grande segno della misericordia di Dio. La partecipazione alle officiature era percepita negli anni finali del IV secolo come forma di pietà condivisa da ogni credente laico, non meno che ecclesiastico, come dalle attestazioni di Agostino, di Zenone, di Ambrogio. Si può dunque dire che la vita cultuale cristiana, inserendosi nei nuovi spazi ed edifici di culto, vi si adattò assai naturalmente, ripro-ponendovi le proprie connotazioni misteriche e vi trovò le condizioni per ulteriori ricchi e decisivi sviluppi. Sull’aspetto di tale evoluzione si sofferma a lungo l’Alzati, per ricordare come nei culti si facesse memo-ria del Cristo là dove concretamente quelle azioni, nella loro effettualità storica, si erano compiute.

Pur negli aspetti di continuità segnalati, la ricordata scansione del vivere sociale sul ritmo cristiano messa in atto da Costantino, indubi-tabilmente, conferì alla res publica un discreto, ma antropologicamen-te decisivo orientamento cristiano. Quella scansione divenne elemen-to caratterizzante delle società europee e avrebbe finito per estendersi anche oltre l’ambito strettamente cristiano, con esiti che nemmeno gli

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accentuati processi di secolarizzazione sono riusciti a cancellare. Paolo Chiesa e Laura Rossi hanno condotto un intervento a due voci che, pur non avendo come protagonista Costantino, è ben colloca-to a questo punto del Convegno, perché permette di passare dal piano storico, su cui i lavori si sono mossi fin’ora, a quello letterario sul quale si muoveranno da qui in poi. Laura Rossi ha anticipato qui alcuni esiti del suo lavoro, che, dopo pochi giorni, avrebbe discusso presso l’Univer-sità di Roma3, una tesi di dottorato su due di questi testi: La Passio di Nabore e Felice e La Passio di Vittore Mauro. Per questo il titolo genera-le dell’intervento a due voci è Le ‘Passiones’ dei martiri milanesi: modelli e tradizione agiografica. L’impianto di culti martiriali specificamente milanese si deve ad Ambrogio, che lo realizzò attraverso distinte inventiones [ritrovamen-ti] di due coppie di santi avvenute a una decina di anni di distanza l’una dall’altra: Gervaso e Protaso prima, Nazaro e Celso dopo. Da quel momento la città non sarà più sterilis martirum. Nel contesto in cui usa l’espressione, Ambrogio vuole appunto rimarcare il capovolgimento allora verificatosi rispetto alla situazione precedente. Ma Milano comin-cerà appunto a onorare martiri propri, in piccolo numero, certo, rispet-to a quanti potevano vantarne altre località come Roma, Cartagine o Alessandria, ma non meno importanti come dimostra il fatto che il loro culto ebbe subito ampia diffusione geografica, stante l’autorevolezza propulsiva della sede che li aveva espressi. Molte di queste storie, per quanto diverse, presentano un singo-lare elemento comune nelle tracce di ambientazione africana. Secondo la Passio, Nabore e Felice sono due soldati africani venuti nell’Italia del nord per ragioni di servizio. Di Nazaro, La Passio specifica che è africano e Africanus è il nome di suo padre; Vittore è chiamato Maurus, originario della Mauritania. Ma l’elemento, forse, più sorprendente è la presenza in tutte queste storie di un medesimo persecutore chiamato Anolinus. È lui che tiene in prigione Gervaso e Protaso e che fa uccide-re poi Nazaro e Celso. È lui il giudice che interroga e poi condanna a morte prima Nabore e Felice e poi Vittore Mauro. Questo Anolinus è un personaggio storico, ma non è mai stato giudice o prefetto a Milano. Si tratta di Caius Agnus Anullinus che governava l’Africa proconsularis nel 303–304 e in questa veste si trovò ad applicare i decreti religiosi di Diocleziano nella regione d’Occidente, dove probabilmente i rapporti con i cristiani erano più tesi e dove la persecuzione fu perciò più violen-ta. L’agiografia martiriale milanese perciò, come venne a formarsi nel corso del V secolo, sembra fare ricorso a informazioni provenienti dal-l’Africa, un filone che va a integrare quello che appare il modello preva-

P. Chiesae L. Rossi,

Le «Passiones» dei martiri

milanesi: modelli

e tradizione agiografica.

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lente di tutta l’agiografia italiana dell’epoca, che è invece un modello romano. Romane, del resto, sono in massima parte le ambientazioni delle Passiones martirum prodotte in Italia in questo secolo. Il martirio di Protaso, Gervaso, Nazaro, Celso, Nabore, Felice e Vittore fu rappresentato fin dall’origine in forma di Passio narrativa. Gli agiografi milanesi sembrano aver congiunto un modello letterario romano, con un contesto storico e onomastico africano nella produzio-ne dei testi che riguardavano i loro martiri. Per i martiri ambrosiani tale fenomeno appare piuttosto visibile, ma qualcosa di simile si riscontra, in forma più o meno marcata, anche altrove nell’Italia settentrionale e centrale. Dal martire africano Mauro, venerato a Parenzo, il cui cor-po approda sulle coste istriane, a Fermo e Rustico, venerati a Verona, perché martiri nella città veneta, con una loro traslazione da Cartagine a Verona. È certo africano un martire forse di nome Peregrinus, vesco-vo di una località poco nota dell’Africa proconsolare e reinterpretato più tardi come vescovo martire di Ancona. Teonesto è ugualmente un vescovo africano che giunge nella Venezia dopo un lungo e complesso viaggio nelle varie zone di Europa. La storia di Evasio, venerato come martire a Casale Monferrato, sarebbe il ricalco di un precedente africa-no. Un testo genuinamente africano e particolarmente conservativo è quello che ha per protagonista il martire Gallonio e che è pervenuto a noi come relitto in un passionale di Aquileia che attinge certamente a tradizioni locali tardo antiche. E la lista potrebbe allungarsi con vicen-de non ancora sufficientemente studiate. Le ragioni di questa presenza africana, fatto culturale di notevo-le interesse, non sono ancora indagate a fondo, ma sono probabilmen-te riconducibili a spostamenti di persone, in particolare ecclesiastici e, forse, di intere comunità nel periodo successivo all’invasione vandalica. Spostamenti del genere sono documentati verso la penisola iberica e verso l’Italia meridionale, ma ve ne sono tracce anche verso la Gallia e verso l’Italia centro-settentrionale. Che una simile ricerca possa essere interessante e portare elementi di novità lo mostrano gli studi fatti per i martiri di Aquileia, una chiesa per vari aspetti parallela a quella di Milano. Studi condotti da un’equipe coordinata da Emanuela Colombi che hanno portato alla pubblicazione in edizione critica delle Passiones dei martiri del patriarcato, di cui un primo volume è già uscito, un se-condo è imminente. Le sorprese saranno davvero tante. I testi più antichi relativi a Gervasio e Protaso, a Vitale e Valeria restano da studiare o comunque sono privi di un’edizione affidabile e molto da indagare vi è anche sulle tradizioni più recenti, ormai piena-mente medievali. Il desideratum conclusivo è che si possa avere a dispo-

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sizione, attraverso una convergenza di ricerche diverse, uno strumento simile, che sarebbe di grande interesse per la storia della Chiesa mila-nese e per la storia della letteratura agiografica in genere. Il desideratum di Paolo Chiesa, non può che essere anche quello di Laura Rossi, che nel triennio del dottorato di ricerca ha studiato due Passiones milanesi e si è affacciata a questo panorama geografico pecu-liare e in gran parte inesplorato.

Marco Petoletti, nella sua relazione, Costantino, l’Editto di Mila-no e le enciclopedie medievali, dimostra come, pur non potendo leggere l’Editto di Milano, né nel greco di Eusebio, né nel latino di Lattanzio per oggettive complicazioni o di traduzione o di trasmissione testuale, i cronisti medievali s’impegnarono a ricostruire la figura di Costantino sulla base delle fonti a disposizione, consultate di prima mano o attra-verso la mediazione di qualche altra compilazione storica. In genere è la magnanimità del sovrano a informare il dettato di queste compila-zioni. Gli enciclopedisti tendono a scegliere quelle testimonianze che presentavano nella luce più positiva l’Imperatore, cui unanimemente è riconosciuto il merito di aver restituito la pace ai cristiani e al mondo, dopo anni di persecuzioni. A Costantino, direttamente o indirettamen-te, è attribuita la responsabilità anche di quegli Editti di tolleranza favorevole alla religione cristiana emessi da Galerio e Massimino. Gli spiriti più curiosi o critici non tacquero i problemi: la crudeltà degli ul-timi anni del regno [di cui parla Eutropio], i continuatori, la coesistenza di una duplice versione sul battesimo di Costantino che sarebbe scivolato nella eresia ariana. Anche a costo di respingere la voce solenne dei santi padri Giro-lamo e Ambrogio o della Historia tripartita di Cassiodoro, ora brutalmen-te, ora con il ricorso a qualche espediente parafilologico, è la versione dei diffusissimi Acta Sancti Silvestri a trionfare. Qui peraltro si legge che Costantino, dopo il battesimo, arrestò gli slanci persecutori del popolo e del senato, di fresco convertiti al cristianesimo, seguendo il suo esempio e pronti a scacciare coloro che persistevano negli antichi culti pagani. Con la diffusione capillare di questa compilazione agiografica, quest’in-no di tolleranza penetrò potentemente nella tradizione medievale. Attra-verso questa via un’eco dell’Editto di Milano, pur sradicato da ogni con-testualizzazione cronologica, filtrò nelle cronache latine dell’Occidente.

Roland Marti, nel presentare Costantino il Grande nella Slavia ortodossa, inizialmente precisa che Costantino merita l’epiteto il Gran-de per l’insieme dei motivi emersi ed esposti nel Convegno. Nella sua

M. Petoletti,« Ahi,

Costantino, l’Editto di

Milano e le enciclopedie

medievali

R. Marti,Costantino

il Grande nella Slavia

ortodossa.

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comunicazione si sofferma, invece, sulle diverse forme di venerazione per Costantino che assunsero nel corso dei secoli forti differenze regio-nali. Ha inoltre delineato le particolarità relative all’immagine costan-tiniana nella Slavia ortodossa, alcune delle quali sono tipiche anche per l’intero cristianesimo ortodosso, mentre altre hanno assunto presso gli slavi un’impronta particolare. La Slavia tuttavia non ha una realtà uniforme. Le differenze sono significative fra tradizioni serbe, bulgare e slave orientali. Di questa molteplicità di aspetti ne ha presentati tre che ritiene particolarmente istruttivi:1. — Costantino ed Elena nella prospettiva della Chiesa ortodossa; 2. — Costantino fondatore della seconda Roma, la nuova Gerusalemme; 3. — Costantino regnante ideale. Marti ha voluto riferirsi, giustamente, anche al volume IV della serie Slavica Ambrosiana con l’immagine del Santo Costantino e di sua madre e ha rinviato ai saggi contenuti in questo volume dell’Accademia Ambrosiana. Sul primo punto ha dimostrato come Costantino nella Slavia ortodossa si distingua molto dal ruolo della sua immagine nella Chiesa occidentale e solo poco da quella nell’orbis ortodoxus. È un fatto che nella Chiesa cattolica Costantino non è un santo, come è un fatto che nel mondo ortodosso Costantino sia, per così dire, un mezzo santo, in quanto è santo solo e sempre insieme con sua madre Elena. Qui Marti ha fatto un dettagliatissimo elenco di tutte le date dell’anno liturgico e dell’anno civile, e anche delle ricorrenze turistiche, in cui sono ricordati e celebrati San Costantino e Sant’Elena. Sul secondo punto, Marti ha sottolineato come sia stata e sia molto importante per la Slavia ortodossa la fondazione di Costantino-poli. In slavo la sua denominazione connota la città dello Zar, ma in ogni regione assume un significato particolare e Marti ne ha dato ragio-ne, con illustrazione di argomenti e di immagini. Costantinopoli poi, in generale, raggiunse anche un valore tutto nuovo, sviluppatosi nel-l’ambito della teoria della translatio imperi, che riassorbì, naturalmente, anche la translatio ecclesiae. Vista dalla prospettiva ortodossa, la prima Roma aveva perduto il suo status di città sacra dopo il grande scisma del 1054. La conquista e il saccheggio di Costantinopoli da parte dei la-tini nell’ambito della IV crociata e la fondazione dell’impero latino nel 1204 rappresentavano però la rottura psicologica finale con la Chiesa d’Occidente. La seconda Roma, fondata da Costantino, perse la sua pre-tesa di essere la capitale dell’ortodossia dopo il Concilio dell’unione di Ferrara—Firenze. [Con questo nome si designa il concilio aperto a Ferrara l’8 gen-naio 1438 e che, trasferito l’anno seguente a Firenze, proclamò (6 luglio 1443) l’unione

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fra la chiesa greca e quella latina. L’unione raggiunta dal concilio durò di fatto fino alla presa di Costantinopoli (29 maggio 1453), e fu ufficialmente dichiarata rotta da un con-cilio della chiesa greca tenuto a Costantinopoli nel 1472.] La conquista da parte degli Usmani nel 1453 fu soltanto la giusta punizione per l’apostasia. Si aggiunsero le aspettative escatologiche nel contesto del 1492 e Mosca fu preparata ad affrontare questo nuovo ruolo. Circa il terzo punto: Costantino come regnante, Marti ha evi-denziato come il ruolo più importante di Costantino sia stato quello di incarnare il paradigma di regnante ideale. Una funzione, questa, che si svolse già a Bisanzio e che si conserva anche nella Slavia romana. Esaustive, al proposito, le prove documentali presentate ed illustrate da Marti, che in Germania, nell’Università di Saarbrücken, conduce uno specifico Dipartimento di Slavistica. In conclusione del suo dotto ed acuto intervento, Marti ha sot-tolineato come Costantino sia un personaggio importantissimo non solo nella Chiesa occidentale: nel mondo ortodosso le sue gesta come imperatore romano, a parte lo spostamento della capitale, ebbero un ruolo secondario, mentre le sue azioni nell’ambito della Chiesa sono di grande ed ineliminabile rilevanza. Un breve, ma intenso, passaggio con l’elogio a Costantino ed Elena, è contenuto nel discorso dell’ultimo Patriarca della Bulgaria, prima della sua caduta in mano ottomana.

Oltre al piano storico, un esame su Costantino nel pensiero filoso-fico e teologico russo di Ottocento e Novecento, non poteva che venire da Adriano Dell’Asta, profondo conoscitore dell’anima russa e traduttore in italiano di fondamentali opere di Vladimir Sergeevič Solov’ëv, come Il significato dell’amore, Introduzione e traduzione di A. Dell’Asta per Edilibri, 2003 o Sulla bellezza. Nella natura, nell’arte, nell’uomo, trad. A. Dell’Asta per Edilibri, 2006. Circa il primo testo citato, pagine 144, anche in edizione eBook/Pdf, si spendono qui alcune annotazioni allo scopo di rendere più com-prensibile la sintesi che si farà dell’intervento di Dell’Asta: — sull’autore, Vladimir S. Solov’ëv (1853-1900), può essere considerato, secondo il giudizio di H.U. von Balthasar, accanto a Tommaso d’Aqui-no, come “il più grande artefice di ordine e di organizzazione nella storia del pensiero”. Solov’ëv resta il più importante pensatore russo, sommo teologo e precursore del simbolismo. Nel suo sistema filosofico sono già presenti tutte le idee che saranno all’origine della rinascita spirituale russa dell’inizio del ’900. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordia-mo: La crisi della filosofia occidentale, Sulla Divinoumanità, La Russia e la Chiesa universale, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, La

A. Dell’Asta,Costantino

nel pensiero filosofico

e teologico russo di

Ottocento e Novecento.

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Sofia, l’eterna Sapienza mediatrice tra Dio e il mondo, I fondamenti spirituali della vita, Islam ed ebraismo;— sul libro, un riferimento costante per i grandi poeti russi del ’900, da Aleksandr Blok a Boris Pasternak, Il Significato dell’amore è una lunga meditazione sul posto che l’amore occupa nell’ordine della creazione. Irriducibile all’istinto o alla passione, esso è per il filosofo russo lo stru-mento privilegiato col quale l’uomo può spiritualizzare la materia e riscoprire l’essenza del cosmo come luogo della manifestazione della bellezza divina. Araldo dell’Eterno Femminino e precursore della “filo-sofia dell’amore” destinata al terzo millennio, Vladimir Solov’ëv pone a fondamento della sua opera la concreta riscoperta dell’amore annun-ciato da Cristo e la vive e la presenta come rinnovata esperienza della fede.— sul curatore: Adriano Dell’Asta, docente di Lingua e letteratura russa dell’Università Cattolica, è il curatore e traduttore delle Opere di So-lov’ëv pubblicate dalla Casa di Matriona (Russia Cristiana). Circa il secondo testo citato, Sulla bellezza, pp. 128, disponibile anche in edizione eBook/Pdf, il processo cosmico, come processo di realizzazione del vero e del buono nella forma concreta del bello, è un processo estetico. Iniziato dalla natura, tale processo prosegue attra-verso l’opera dell’uomo. La bellezza prodotta dall’arte, al pari di ogni altra bellezza, non è né mera materialità né mera soggettività, ma «luce materializzata» e «materia illuminata». L’arte ha dunque la funzione di contribuire attraverso la bellezza alla piena realizzazione del processo cosmico; tuttavia, tale realizzazione è più prefigurata e profeticamente anticipata che non compiuta: luogo di intersezione tra il cielo e la terra, il bello che ci è dato dall’arte apre la via verso la bellezza futura, simile in questo all’altro facitore di ponti, l’amore. Dovrebbe quindi risultare evidente dal riferimento all’opera di Dell’Asta, perché questi, come esordio della propria relazione, utilizzi proprio una citazione di Solov’ëv, autore cristiano, che nel 1896, in tem-pi quindi ben lontani da ogni revisionismo o dubbio sulla superiorità del Cristianesimo, tracciava un confronto diretto —che lui stesso defini-sce naturale— tra Maometto, Costantino il Grande e Carlo Magno: «Tutti e tre legarono la propria politica alla religione. In nome di Dio emanarono leggi, fecero guerre; tutti e tre intesero la religione come un principio pratico, come la base per una unificazione politico-sociale del-l’umanità; tutti e tre si fecero portavoci di ben determinati ideali teocratici e ciascuno di loro lasciò dietro di sé una certa organizzazione teocratica. Per le loro qualità personali, tutti e tre furono uomini sinceramente religiosi, onesti e liberi da vizi indecorosi, ma queste qualità personali non preserva-

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rono nessuno dei tre dalla tentazione di abusare del potere illimitato che gli era toccato in sorte. Costantino il Grande mette a morte la propria moglie, il proprio figlio innocente. Carlo Magno fa massacrare 4.500 prigionieri sas-soni. Questi delitti sono già di per sé più gravi dei delitti di Mohammad, ma non bisogna poi dimenticare che Carlo Magno apparteneva ad un popolo che già da trecento anni si era convertito al Cristianesimo e veniva educato in questa religione, mentre Costantino il Grande si era lui stesso convertito al Cristianesimo e, in più, viveva in un mondo incomparabilmente più civi-lizzato dell’ambiente culturale in cui viveva Mohammad. La comparazione di quest’ultimo con i facitori politico-religiosi dell’Oriente e dell’Occidente del mondo Cristiano, va a tutto vantaggio del profeta arabo. E se i greci hanno canonizzato Costantino e i latini Carlo, tante più ragioni hanno i musulmani per venerare devotamente la memoria del loro apostolo.» Solov’ëv non aveva particolari ragioni di simpatia per l’Islam e, anzi, era pienamente convinto della superiorità del Cristianesimo. Paragonando qui i cristiani Costantino e Carlo Magno al musulmano Maometto, riserva in maniera assolutamente evidente tutta la sua am-mirazione per il musulmano. Altrettanto evidente, perché esplicitamen-te detto, è che questo giudizio non dipende da una qualche superiorità delle qualità personali del Profeta rispetto agli altri due, in quanto tutti e tre furono uomini sinceramente religiosi, onesti e liberi da vizi in-decorosi. Tante evidenze rendono ancora più enigmatico, inquietante questo misterioso primato di Maometto. Ecco allora delineato il senso dell’intervento di Dell’Asta, che mira a cercare di capire perché, pur in presenza del riconoscimento della santità di Costantino e della superiorità della verità cristiana, il confronto con Maometto vada a tutto vantaggio del Profeta arabo. Dell’Asta muove dal tentativo di risolvere questo primo enigma, ponendosi dinanzi a un problema ancora più complesso: che cosa sia propriamente la morale e quale sia il rapporto tra il Cristianesimo e la vita di un paese, di una nazione, di uno stato. Secondo Solov’ëv il van-taggio che l’Islam avrebbe nei confronti del mondo cristiano, ha una spiegazione: «La vittoria dell’Islam che praticamente sradicò il Cristianesi-mo dall’Asia e dall’Africa fu innanzi tutto una questione di forza bruta, ma allo stesso tempo ebbe anche una giustificazione morale. Il musulmano cre-dendo nella sua legge etico-religiosa, che è semplice e non troppo elevata, la osserva coscienziosamente nella vita privata e sociale, giudica gli affari civili e penali secondo il Corano, combatte per ordine diretto del Corano, tratta gli stranieri e i vinti sempre secondo le prescrizioni del Corano e così via. Nella vita sociale del mondo cristiano, invece, il Vangelo non ha mai avuto l’importanza che aveva il Corano nello stato e nella società musulma-

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na. Insomma, avendo una religione più semplice, meno impegnativa, meno alta, il musulmano può essere più facilmente coerente e può essere più ef-ficace e convincente di un mondo cristiano che ha alti ideali, ma che non è mai stato alla loro altezza e che altrettanto frequentemente rinuncia ad applicarli alla vita quotidiana, cadendo preda di un dualismo distruttivo, come ha dimostrato la fine dell’Impero d’Oriente. Infatti, essendosi rivelata miseramente inadeguata alla sua elevata vocazione, essere un regno Cristia-no, Bisanzio perse i motivi interiori della propria esistenza. Infatti, i compiti correnti, normali della gestione dello stato potevano essere portati a termi-ne, e potevano esserlo anche decisamente meglio, dal governo del sultano turco che, essendo libero da quella contraddizione interiore, era anche più onesto e forte. ». Tutto sembra essere chiaro, ma per quanto la cosa possa sem-brare plausibile, dobbiamo resistere alla tentazione d’individuare il cri-terio di giudizio di Solov’ëv, in una questione di pura coerenza, anche se Solov’ëv utilizza questi termini spesso. I passi letti sembrano chiari ma noi non dobbiamo dimenticare che il peso che pare venga dato qui alla coerenza e alla osservanza di una dottrina in assoluta purezza, con-trasta in maniera evidente con la concezione del mondo, con la conce-zione di morale e di Cristianesimo che caratterizza il pensiero e la vita di Solov’ëv. Quando Solov’ëv dice che la fede dei bizantini, quel che fra poco cominceremo a chiamare bizantinismo: « era soltanto l’oggetto di un loro riconoscimento intellettuale e della loro venerazione liturgica, ma non era più il principio motore di tutta la vita », dice qualcosa che a Dell’Asta sembrerebbe troppo semplicistico ridurre ad una banale questione di coerenza e di perdita di purezza spirituale o dottrinale delle origini secondo un perfettismo che contrasta con il modo con cui Solov’ëv in-tende il Cristianesimo, la vita e la storia umana. Per quanto riguarda la questione morale, Solov’ëv condivideva pienamente l’idea che Dostojevskj aveva formulato in uno degli ultimis-simi appunti prima della morte, secondo la quale la morale non può essere ridotta alla semplice coerenza con le proprie convinzioni: « Scusate, ma se io agisco secondo le mie convinzioni, sono forse per questo un uomo morale? Farò saltare in aria il Palazzo d’Inverno e forse che per questo sarò morale? La coscienza senza Dio è qualcosa di spaven-toso e può ingannarci fino a commettere le cose più immorali. Non posso considerare morale chi brucia gli eretici, perché non ammettono la vostra tesi secondo cui la moralità è la concordanza con le proprie convinzioni interiori? Questa è soltanto onestà,, ma non moralità. La coscienza …eh …la coscienza del Marchese de Sade …ma questo è assurdo. L’inquisitore è immorale già per il solo fatto che nel suo cuore, nella sua coscienza, sia po-

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tuta nascere l’idea della necessità di bruciare gli uomini. Versare il sangue non lo ritenete morale ? Ma versare il sangue in base alle proprie convin-zioni, questo sì che lo ritenete morale. Consentitemi, allora, perché sarebbe immorale versare il sangue? » . Questo è Dostoevskij, prima di morire. A questa domanda però Dostoevskij offre una risposta. Un criterio di mo-ralità per lui esiste. È, ad un tempo, oggettivo e universale e, dall’altro, estremamente pratico e personale dall’altro. Dell’Asta cita ancora Dostoevskij, ma avrebbe potuto citare inte-re pagine di Solov’ëv: « Non basta definire la moralità con la fedeltà alle proprie convinzioni, bisogna anche suscitare in sé la domanda: sono vere le mie convinzioni ? Il loro banco di prova è uno solo: Cristo ». Ecco quindi che, sul fatto che questo criterio, radicale come un banco di prova, non debba essere ridotto ad un semplice principio astratto e non possa ser-vire a superare gli esami di catechismo, la lezione che Solov’ëv offre sin dall’inizio della sua attività culturale è molto chiara. Dell’Asta era partito da una condanna di Costantino, addirit-tura rispetto a Maometto, che sembrava motivata da questione di coe-renza e d’inosservanza dottrinale, ed ha provato come questa impres-sione fosse in contrasto con la concezione di morale di Cristianesimo di Solov’ëv. Resterebbe il problema di capire in nome di che cosa positi-vamente questa svalutazione venga pronunciata. E qui interviene un altro testo di Solov’ëv, significativamente del 1896 come la biografia di Maometto, nel quale il bersaglio non è più propriamente Costantino, ma più correttamente —visto che non viene mai messa in discussione la santità personale di Costantino—, il mondo che è derivato da Costantino e che Solov’ëv, chiama bizantinismo, la riduzione cioè della religione a un fatto compiuto, a una formula dogmatica, a una cerimonia liturgica. La parola centrale è il fatto compiuto. In questo senso il bizantinismo è una figura che va ben al di là del fenomeno storico e geografico al quale Solov’ëv si riferisce, diventa una tentazione, un peccato costante nella storia dell’umanità. Il testo di Solov’ëv è con tutta evidenza anche una figura della Russia del suo tempo, ma in generale è la denuncia di un Cristianesimo che cessa di essere il vero movente della vita e diventa una formula inefficace e anche inutile, perché, se la vita è un fatto com-piuto, è evidente che il Cristianesimo nulla ha da apportare, né da sco-prirvi nulla di nuovo e l’uomo non ha da attendersi o da cercare alcun perfezionamento. E l’idea di perfezionamento è un’altra idea centrale. Nel concludere, Dell’Asta in realtà riapre la questione, perché il criterio di giudizio si amplia a un compito di perfezionamento, con-cepibile sulla sequela del Cristo e rispetto ai quali tutto si rimetterebbe in questione, scoprendo uno spazio di una fedeltà o di una incoerenza,

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ma anche di una accoglienza, perché islam e bizantinismo diventano affari interni alla storia cristiana. Affari interni dai contorni molto più sfumati di quanto si creda e, soprattutto, mai decisi una volta per tutti, perché, citando un altro autore russo, Dell’Asta chiude: « il mondo e l’uomo non si ritrovano mai nel solco appositamente preparato ».

Dopo la relazione di Dell’Asta si ha la suggestione di poter credere, che, anche attraverso la mediazione culturale di Solov’ëv —spendibile an-che come terreno risarcitorio di passate velleitarie egemonie—, sia possibile procedere un po’ più speditamente e serenamente sugli accidentati percor-si e dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. E, a guardare lontano, parrebbe che anche le figure di Costantino ed Elena, oltre ad essere ca-paci di animare mostre centenarie, convegni periodici, opere, spettacoli e pubblicazioni discontinue, potrebbero tranquillamente uscirsene dai tanti controversi dibattiti storiografici, per cimentarsi direttamente nel dibattito infuocato della storia e riproporre un nuovo, pacificatore, initium libertatis con la garanzia di una reale libertà, nella parità, di ogni religione e di tutti.

Saverio Bellomo, in rapporto così stretto con l’Alighieri —«L’Ali-ghieri» è la prestigiosa rassegna dantesca fondata da Luigi Pietrobono di-retta da S. Bellomo, insieme ad Andrea Battistini e Giuseppe Ledda con tutto il comitato scientifico: Zygmunt Barański; Teodolinda Barolini; Lucia Battaglia Ricci; Bodo Guthmüller; Emilio Pasquini; Jeffrey T. Schnapp; Luigi Scorrano; John Scott— ha offerto una lezione sui rapporti tra il più grande poeta cristiano e il primo imperatore cristiano, dal titolo: « Ahi, Costantin, »: Dante e l’imperatore. Un titolo tratto dal celebre « Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! » (Inferno XIX, 115-117) Costantino per Dante: tutte le notizie che Dante ha su Costan-tino sono assolutamente leggendarie. Però Costantino è un personaggio assolutamente cruciale nella concezione politica e morale di Dante ed è allo stesso tempo un personaggio estremamente problematico. Anzi-tutto, per Dante, è un santo —e questo non è un collegamento con la Chiesa ortodossa—, infatti è in Paradiso. Dal testo n.1 che proviene dal Paradiso, siamo nel cielo di Gio-ve e le anime disegnano nel cielo un’aquila che parla. È l’aquila della giustizia divina. L’occhio dell’aquila quindi è proprio Costantino, una posizione assolutamente eminente. E l’aquila dice: L’altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fè mal frutto, per cedere al pastor si fece greco:ora conosce come il mal dedutto

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S. Bellomo,« Ahi, Costantin, »:Dante e l’im-peratore.

NotadelCuratore

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dal suo bene operar non li è nocivo, avvegna che sia ’l mondo indi distrutto. (Paradiso XX 55-60) Il contrasto viene fuori, dunque “con le leggi e meco”, meco vuol dire con me, con l’aquila. L’aquila rappresenta la giustizia: è lui [Co-stantino] che ha fatto la famosa donazione, è evidente. Ora, che sia san-to è un dato, non santo ufficialmente, ma la tradizione lo presenta come un uomo degno del Paradiso. Tuttavia, nella Monarchia Dante così si era espresso nei suoi confronti: Non fosse mai nato questo infirmator imperi, questo che ha distrutto l’Impero. In effetti Costantino ha distrut-to l’Impero anche per un’azione improvvida: quella di aver spostato la capitale: “si fece greco”. Nel suo famosissimo discorso l’imperatore Giustiniano, a proposito dell’aquila imperiale, così inizia: Poscia che Costantin l’aquila volse contr’al corso del ciel, ch’ella seguio dietro a l’antico che Lavina tolse, cento e cent’anni e più l’uccel di Dio ne lo stremo d’Europa si ritenne, vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; (Paradiso VI 1-7) Dunque, Costantino ha portato l’aquila imperiale contr’al corso del ciel. Quasi un’azione contro natura, contro la volontà di Dio. In ef-fetti Costantino non ha saputo leggere in questo i segni della volontà di Dio, cosa che invece Giustiniano dice di aver fatto. Se andiamo alla fine di questo brano, il n.3, Giustiniano continua a parlare: Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, [convertitosi dopo l’eresia] a Dio per Grazia piacque d’ispirarmi l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; [alto lavoro: il Corpus iuris]e al mio Belisar commendai l’armi, [Belisar: il generale] cui la destra del ciel fu sì congiunta, che segno fu ch’i’ dovessi posarmi. (Paradiso VI 22-27) Giustiniano ha capito che il fatto che Belisario vincesse le guerre era un segno della volontà di Dio, per indurlo a scrivere il “Corpus iuris”. Giustiniano legge i segni della volontà di Dio, Costantino, evidentemen-te, no! O non li legge bene. La volontà di Dio, se vedete nel testo n. 2:Voluntas quidem Dei per se invisibilis est; [la volontà di Dio che è invisibile]et invisibilia Dei “per ea que facta sunt intellecta [cit. da S.Paolo]conspiciuntur”; nam, occulto existente sigillo, cera impressa de illo quamvis occulto traditnotitiam manifestam. Nec mirum si divina

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voluntas per signa querenda est, cum etiamhumana extra volentem non aliter quam per signa cernatur. [la divina volontà si riconosce dai segni] [De monarchia II ii 8] La divina volontà si riconosce dai segni e qui Costantino ha un difettuccio, ma che non gli ha impedito però di diventare santo. Natu-ralmente, questa è la volontà di Dio, altra è la provvidenza divina (la donazione di Costantino, nonostante tutto, ne fa parte a pieno titolo e per Dante la donazione è stata una nuova occasione per l’uomo, occasione mancata). Bellomo, seguendo le citazioni, fa raccontare la storia della Chie-sa per via allegorica. Siamo nel Paradiso terrestre, è appena comparsa una processione allegorica che rappresenta la Bibbia, il Nuovo e l’An-tico Testamento, c’è un carro trainato da un grifone. Tradotti rapida-mente, senza entrare nei particolari: —il grifone rappresenta Cristo; — il carro rappresenta la Chiesa; il grifone lega il carro a una pianta, mera-vigliosa, che rappresenta la giustizia divina; —quindi, legata la Chiesa alla giustizia, se ne sale al cielo. Da questo punto comincia la storia della Chiesa e, prima di tutto, ecco ciò che vede calare Dante. Dante guarda come in un film tutta questa vicenda allegorica e la interpreta immediatamente: —l’uccel di Giove, cioè l’aquila imperiale che s’abbat-te sul carro, ferisce il carro e rompe la scorza dell’albero. Prima tappa: qui dobbiamo pensare siano le persecuzioni contro i cristiani, l’Impero contro la Chiesa. Seconda tappa: salta fuori una volpe, la quale tradizio-nalmente è interpretata come l’eresia: quindi è il momento dell’eresia e dei vari concili. Dopo la volpe: Poscia per indi ond’ era pria venuta, l’aguglia vidi scender giù ne l’arca del carro e lasciar lei di sé pennuta;e qual esce di cuor che si rammarca, tal voce uscì del cielo e cotal disse: «O navicella mia, com’ mal se’ carca!». [Purgatorio, XXXII, 124-129] Questa è la rappresentazione della donazione di Costantino, perché l’aguglia, che è l’aquila imperiale, lascia le sue penne, si spenna, a favore della Chiesa? E poi si sente la voce:

«O navicella mia, com’ mal se’ carca!». Di questa voce parla la tradizione, perché si diceva che a seguito della donazione di Costantino, si sentì una voce dal cielo che disse:

«Hodie venenum infusum est Ecclesiae!». Dante riecheggia proprio questo luogo comune. Quindi sicura-

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mente questo ‘spennamento’ dell’aquila rimanda alla donazione. Dopo la donazione ecco che salta fuori un drago dalla terra, che sembra aprir-si tra le ruote del carro, ne configge con la coda il fondo, ne trae a sé una parte e con essa si allontana serpeggiando [vv. 130-133]. La restante par-te del carro si ricopre delle piume lasciatevi dall’aquila e si trasforma in un drago dalle sette teste, —drago o serpente è un po’ la stessa cosa e ci rimanda a Satana—, che, avendo divorato il fondo al carro [carro=Chiesa e fondo=i suoi fondamenti morali], lo ha privato di qualsiasi fondamento, basamento. Un drago sbuca, quindi, Quel che rimase, come da gramigna vivace terra, da la piuma, offerta forse con intenzion sana e benigna,si ricoperse, e funne ricoperta e l’una e l’altra rota e ’l temo, in tanto che più tiene un sospir la bocca aperta. [Purgatorio, XXXII, 136-141] Dunque il carro, carico da la piuma [il bene] offerta forse con in-tenzion sana e benigna, si trova ricoperto di gramigna [male]; dopodiché il carro si trasforma in un mostro; un mostro [la Chiesa degenerata], su cui sale una puttana [la curia pontificia, evidentemente] e arriva un gigante [il re di Francia, Filippo il Bello], che prende la puttana, se la porta via [lo schiaffo d’Anagni] e la schiaffeggia anche [ovviamente il passaggio della sede da Roma ad Avignone]. Interessante questa visione della storia della Chiesa per quello che subito dopo dice Beatrice commentando questa vicenda: E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch’è or due volte dirubata quivi.Qualunque ruba quella o quella schianta, con bestemmia di fatto offende a Dio, che solo a l’uso suo la creò santa.Per morder quella, in pena e in disio cinquemilia anni e più l’anima prima bramò colui che ‘l morso in sé punio. [Purgatorio, XXXII, 55-63] L’anima prima è Adamo che ha aspettato, bramato colui che co-lui che ‘l morso in sé punio, cioè Cristo, per cinquemila anni [si pensava che l’origine del mondo e la nascita dell’uomo fosse cinquemila prima]. Dunque: or due volte dirubata quivi [la pianta della giustizia, che è la stessa pianta che è stata diruba-ta comunque da Adamo, è la stessa che è or dirubata due volte]. Quel “or”, secondo alcuni critici, esclude che in queste due volte c’entri anche Adamo, per-ché ora, dice, hai visto ora la pianta dirubata; ora non si rappresenta il dirubamento, cioè la presa del frutto proibito da parte di Adamo, ma, attenzione, or dirubata , non l’hai vista ora dirubare, ora l’hai vista che è

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già dirubata una seconda volta. Altrimenti le volte sarebbero tre. È vero che il tre è perfetto, ma sarebbero troppe, inflazioneremmo il paradosso e neanche da un punto di vista retorico sarebbe bello. In realtà dobbia-mo calcolare che le volte sono due, ma la prima è sicuramente quella di Adamo. Ora, Dante, ha visto un secondo dirubamento. La critica qui si divide, ne hanno dette di tutti i colori. Il se-condo dirubamento è quello del gigante che ruba il carro dalla pian-ta; oppure il secondo è quello della prima aquila che rompe il carro e rompe la scorza; oppure è del drago che rompe il fondo del carro. No! Secondo Nardi, che ci vedeva bene, questo secondo dirubamen-to è la Donatio. Credo che Nardi abbia parzialmente ragione, non del tutto, per una ragione molto chiara. Il secondo dirubamento sarebbe la seconda aquila che lascia le penne, ma in realtà, la seconda aquila dona, dà, non diruba, è una dazione quella dell’aquila, non un furto, per cui dobbiamo intendere che il secondo dirubamento sono le conse-guenze della Donatio, cioè il fatto che il drago-serpente, che è Satana, torni e che induca, dunque, un secondo peccato originale: non essere di nuovo in grado, di fronte all’albero della scienza del bene e del male, saperne distinguere i frutti. E chi doveva indurlo se non Satana!? Ma proprio dalla Donatio deriva questa degenerazione, del tutto. Insom-ma, una seconda tentazione alla quale l’uomo non ha saputo resistere. Ma a questo punto dobbiamo chiederci qualcosa di più chiaro. Cosa sapeva Dante della Donatio. Diciamo che tutte le notizie di Dante provengono dagli Acta Sancti Silvestri, un testo del IV-V secolo diffuso in mille varianti. Per arrivare alle fonti più sicuramente vicine a Dante, dobbiamo citare la Legenda aurea di Jacopo Da Varazze, che riporta am-piamente tutta la storia di Costantino, del battesimo etc. e il Trésor del maestro Brunetto Latini. La Legenda aurea raccontava che Costantino era lebbroso, chiede aiuto ai suoi vari pontefici, i quali gli suggeriscono di farsi un bel bagnetto nel sangue dei fanciulli, a quel punto prendono un sacco di bambini per scannarli e fare il bagno nel sangue. Quando Costantino vede le madri piangenti, dice no!, non è possibile, non me la sento! perché Romanum Imperium de fonte nascitur pietatis, perché l’Impero Romano nasce dal fondo della pietà e io non posso come im-peratore fare questa birbonata! Bellomo cita questa frase perché Dante stesso la cita uguale nella Monarchia. Di seguito va da Papa Silvestro, nascostosi per paura delle persecuzioni. Papa Silvestro [saltando qual-che passaggio irrilevante], lo battezza. A seguito del battesimo guari-sce dalla lebbra e Costantino, tutto contento, fa delle regalie al Papa. Nell’epoca carolingia, un po’ prima di Carlo Magno, forse ai tempi di Pipino, ecco che s’inventa il Constitutum, cioè il documento del-

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la donazione di Costantino che, dice esplicitamente: dona alla Chiesa l’Impero d’Occidente e la dignità dell’Impero. Il contenuto del Constitu-tum viene inserito negli Acta e quindi Dante poteva leggere nella Legenda Aurea, o nel Trésor, che, a seguito di questa vicenda, Costantino avrebbe donato l’Impero d’Occidente al Papa. È interessante vedere cosa scrive esattamente Brunetto Latini: Per innalzare il nome di Cristo dotò [doctà] la Chiesa e gli donò tutte le dignità imperiale. [Notare che la lezione doctà si alterna in altri manoscritti con donà, donò]. Però Dante, sicuramente, si riferisce a questa prima versione perché, infatti, leggendo il testo dantesco:Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!». [Inferno XIX 115-117]la donazione è vista come dote. Cosa vuol dire dote? che è un bene in usufrutto, non in possesso, che è finalizzato al mantenimento della famiglia, quindi non è un possesso vero e proprio. In effetti Dante nella Monarchia deve affrontare il tema della Donatio, perché era un elemen-to fortissimo a favore dei papisti, di coloro che sostenevano la suprema-zia della Chiesa sull’Impero. Dante smonta il principio della Donatio, non già dicendo che il testo è falso, ma sostenendo che l’imperatore non poteva cedere l’Impero, perché il suo compito era quello di mantenerlo unito e quindi avrebbe mancato alla sua funzione di Imperatore. D’al-tra parte il Papa non poteva accettare questa donazione, perché alla Chiesa è impedito di possedere, come recita esplicitamente il Vangelo di Matteo. Quindi né l’uno poteva riceve, né l’altro poteva dare. L’im-peratore poteva solo dare in patrocinium alla Chiesa l’Impero d’Occi-dente, sempre rimanendo invariato il potere imperiale. Il Papa poteva accettare non tam quam possessio, sed quam tam fructus, pro pauperibus. Dunque solo l’usufrutto di questo bene veniva dato dall’Imperatore. La finalità: per i poveri. Dunque, in quanto dote, era stata un’ottima inten-zione quella di Costantino. Ma poteva Dante ricavare queste affermazioni dal Constitutum, dal documento falso che era stato fatto saggiamente da un abilissimo fal-sario? Se andiamo a vedere il testo, diciamo che dal documento Dante non poteva ricavare una cosa del genere, perché il documento dice chia-ro che l’Imperatore cede principatus potestatem, la potestà imperiale. E ancora. Più avanti dice: potestatem et gloriae dignitatem atque vigorem et honorificentiam imperialem. Cioè, non c’è dubbio, il falsario non era un fesso…. È indiscutibilmente la cessione dell’Impero, sia come territorio, sia come potere imperiale. E allora, Costantino che cos’è? È un incom-petente, se ha fatto un testo di questo genere, perché avrebbe mancato alla sua principale funzione imperiale che era, tra l’altro, quella di fare

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e di conoscere le leggi. Allora non le conosceva? È possibile? Sarebbe stato messo Costantino, quanto meno, tra i negligenti in Purgatorio, ma non certo nell’occhio dell’aquila in Paradiso. Ergo, Dante non cono-sce il documento, tanto è vero che quando parla della Donatio, parla di: Dicunt aliqui quod Costantino etc.. Conosce il contenuto del documento, forse, anche dal Decretum Graziani, perché c’erano delle chiose a mar-gine che alludevano al documento e ancora dalla pubblicistica papale che si riferiva al documento, ma nessuno lo riportava letteralmente. Dunque l’intenzione di Costantino era una buona intenzione, era quella di sovvenire e di difendere, e d’altra parte Costantino aveva difeso la Chiesa dalle persecuzioni. È però curioso come la figura di Costantino abbia delle implicazioni molto forti con la Translatio Impe-ri, cioè con la fondazione del nuovo Impero Occidentale. Partendo da Carlo Magno e dal Sacro Romano Impero, si crea, anche qui, un bel problema. Infatti, il collegamento Costantino-Carlo Magno è un colle-gamento già in re, nelle cose. Il Constitutum è un falso fatto proprio in quel periodo, proprio per poter dare licenza al Papa di nominare un imperatore: Carlo Magno. Ma poteva Dante accettare il fatto che un imperatore fosse stato nominato e traesse il suo diritto dalla nomina del Papa? No! La sua posizione era quella della massima divisione dei due poteri. Infatti in un brano del De monarchia dopo la disamina della Donatio, c’è la Translatio. Dice Dante: ai tempi di Carlo Magno, Adriano Papa [in realtà era Leone III] si dice che avesse nominato appunto Carlo Magno imperatore, benché Michele imperasse a Costantinopoli [non era Michele, era Irene]. L’importante è che Dante sostiene che in quella occasione si compì un illecito, perché il Papa non aveva il diritto di nominare l’imperatore e conclude: usurpatio enim iuris non facit ius, l’usurpatione di un diritto non fa un diritto. Dunque: Carlo Magno è stato nominato al di là del diritto dal Papa. Ohibò! Ma da Carlo Magno provengono tutti gli imperatori suc-cessivi, anche se poi le cose cambiano e diventa Sacro Romano Impero Germanico, però è da lì che vengono. E, allora, Carlo Magno da dove ha preso questo potere? Il fatto che non sia stato nominato di diritto non vuol dire che non sia un imperatore. La parte imperiale diceva che Carlo Magno fu acclamato dal popolo: vox populi, vox dei. Dante non ne parla, ma ci dice qualcosa in più. Abbiamo visto che la storia dell’aquila è cominciata con Costan-tino, poi torna indietro, ma tutto il discorso di Giustiniano, cominciato da Costantino, va a finire con Carlo Magno: E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali

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Carlo Magno, vincendo, la soccorse. [Paradiso, VI, 94-96] Qua finisce la storia dell’aquila. Dante, cioè, crea una continuità assoluta tra Costantino e Carlo Magno. Perché ? Carlo Magno, in effetti, era stato salutato dal Papa Adriano come Novus Costantinus, indicando un collegamento anche ideologico tra que-sti due imperi. Per Dante, Costantino ha avuto dunque la funzione di defensor della ecclesia, una funzione inaugurata proprio da Costantino, primo imperatore che va in soccorso alla Chiesa e che inaugura una tipica funzione imperiale. Cioè il fatto stesso che Carlo Magno abbia soccorso è un segno della volontà di Dio, un segno della volontà di Dio che Carlo Magno aveva il diritto di essere imperatore e non per nomina papale. “Che fiducia nel diretto intervento di Dio!”, esclama Bellomo. In effetti, Dante crede che Dio intervenga continuamente nelle cose umane… ma proprio continuamente… ad horas. E, per prova, Bel-lomo invita a guardare il testo n. 11 che aveva predisposto, nel quale risulta evidente che Dante pensa che gli elettori del Re di Gemania —co-lui che veniva eletto prima Re di Germania per poi scendere in Italia e farsi nominare imperatore— non sono da dire “elettori”, ma “denuntiatores Di-vinae Providentiae”, perché è la volontà di Dio che si pratica in quella elezione. Ma Bellomo dubita che così si possa pensare degli elettori odierni!

Giuseppe Frasso, grande filologo e storico della letteratura ita-liana, ha presentato al Convegno i suoi Appunti sulla leggenda dell’in-venzione della croce. Appunti nati da quando, nel vivo della sua attività filologica, s’imbatte in alcune piccole edizioni dedicate alla leggenda dell’invenzione [ritrovamento] della Croce. Tutti libretti pubblicati sot-to il motto « Il più bel fior ne coglie », cioè sotto il motto dell’Accademia della Crusca. Stabilito nella seduta del 14 marzo 1590 quel motto adat-ta un emistichio del Petrarca «e ’l più bel fior ne colse», Canz. LXXIII, 36, e lo sovrappone nello stemma alla figura del buratto, con allusione ai compiti dell’Accademia di vagliare e proporre nella lingua italiana la parte più pura. Sotto quel motto nascevano quei libretti. Frasso non poteva non raccoglierli. Con l’acribìa tipica del filologo, Frasso passa in rassegna tutte le edizioni di quella leggenda e, alla fine, tutti i partecipanti al Conve-gno possono constatare che il nucleo di quella leggenda, come quello di tante altre simili, è antichissimo. A formare le basi di queste narrazioni

G. Frasso,Appunti sulla leggenda del-l’invenzione della Croce.

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hanno contribuito tante storie sacre intrecciate a tante altre profane, le quali, subito erano “entrate in grazia del pubblico”. “Al primo loro apparire avevano già, al momento in cui l’arte tipografica si diffuse, conquistato un luogo importante nel repertorio giullaresco e crescen-do di fama, man mano che erano maggiormente divulgate, trovarono uditori e lettori non nel ’500 e ’600 soltanto, ma nel ’700 altresì e per-fino nell’ ’800.” Insomma, la leggenda della Croce, che ha origini tanto remote, giunge così come veniva pubblicata dal cartaro e stampatore bolognese all’insegna della Colomba nel 1814 e poi a Prato nel 1860 presso Contrucci e a Firenze nel 1891 presso Salani nella Collezione di librettini illustrati. Una collezione ricca di orazioni e fatti religiosi che ha bene rappresentato quella letteratura muricciolaia, venduta sui muric-cioli, come la chiamava Alessandro d’Ancona, che ci trasmette gli ultimi avanzi delle eredità che le antiche generazioni ci hanno tramandato. Trascorrendo, invece, dai muriccioli alle muraglie, erette dal-l’umanesimo per metterci al riparo dall’ignoranza e dalla falsità, ecco l’opera di Lorenzo Valla, che esemplarmente può essere assunta come spartiacque tra un uso della parola per il potere e la sua cura per la ricerca della verità. La presentazione di una delle opere criticamente e ideologicamente più famose dell’età Umanistica, il De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio di Lorenzo Valla [Intorno alla donazione di Costantino falsamente ritenuta vera e inventata in modo menzognero] è stata affidata a Mariangela Regoliosi, che con grande competenza ha spiegato ogni passagio di questo testo così famoso —noto soprattutto per l’acribia filologica mediante la quale dimostra la falsità di un altro testo famosissimo, la così detta Donazione di Costantino— e significativo per la teologia della Chiesa che racchiude. Il contributo di Mariangela Regoliosi s’intitola Lorenzo Valla e la Chiesa ‘costantiniana’. La sua competenza specifica sull’umanesimo in generale e sul Valla in particolare è testimoniata dal suo ruolo di Ordinario di Filologia medievale e umanistica presso il dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze, dalle collaborazioni con le più prestigiose accademie e dalla lunga serie di studi e pubblicazioni pro-prio su Lorenzo Valla. — Qui, e solo esemplificativamente, se ne ricor-dano alcune: La riforma della lingua e della logica [Atti del convegno del comitato nazionale 6º centenario della nascita di Lorenzo Valla (Ediz. naz. opere Lorenzo Valla. Strumenti) A cura di M. Regoliosi, Polistampa, 2010]; Loren-zo Valla e l’umanesimo toscano: Traversari, Bruni e Marsuppini. [Atti del Convegno del Comitato Nazionale 6° centenario della nascita di Loren-zo Valla (2007) (Ediz. naz. opere Lorenzo Valla. Strumenti) a cura di M. Regoliosi,

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M. Regoliosi,Lorenzo Valla e la chiesa costantiniana.

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Polistampa, 2009]; Pubblicare il Valla [Ediz. naz. opere Lorenzo Valla. Strumenti. A cura di: M. Regoliosi, Polistampa, 2008]; Antidotum in Facium di Lorenzo Val-la [Antenore, 2000]; Epistole di Lorenzo Valla [Antenore, 1984]; Che cos’è il Classicismo [Bulzoni, 1998]; Neoclassicismo linguistico [Bulzoni, 1998]. Regoliosi, in apertura, ha fatto riferimento allo scenario in cui si situa l’opera del Valla. Siamo in un periodo di consolidamento del po-tere temporale del papato, in Roma, dopo la crisi avignonese e fiorisce una fitta letteratura che tende ad esaltare la magnificenza del papato, la nuova Roma cristiana erede, a un livello superiore, della Roma im-periale pagana. In questo contesto i documenti giuridici e la tradizione ecclesiale favorevole al potere politico della Chiesa romana riacquista-no vigore ed efficacia e tra questi anche e soprattutto il Constitutum Con-stantini ratificante la donazione che l’Imperatore Costantino, guarito miracolosamente dalla lebbra da Papa Silvestro, avrebbe fatto al Papa di tutti i territori dell’Occidente, trasferendo poi la sede dell’Impero in Oriente. Circa la storia del Constitutum Regoliosi ha ricordato che nel ’400 il Constitutum Constantini fu oggetto, e lungo tutto il Medioevo, di strenua difesa da parte curiale e di contestazione da parte imperiale. Permaneva come fattore di accesa contraddizione: validissimo per talu-ni, scomodo e ostico per altri. Per Papa Eugenio IV era il puntello per sostenere la pretesa di condizionare la vita politica del Regno di Napoli, considerato ‘legittimamente’ feudo della Chiesa e quindi di sceglierne il re, favorendo il più fedele Renato d’Angiò e contrastando, anche mili-tarmente, Alfonso d’Aragona che vi aspirava invece per motivi ereditari. In questo contesto storico nasce il De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio di Lorenzo Valla. Nel 1440 viene affidato a Lorenzo Valla, storico di punta della corte di Alfonso il Magnanimo, il compito di scardinare le rivendica-zioni curiali, denunciando limiti e difetti della Donazione, liberando così la casa aragonese dalla sudditanza papale. Da una committenza politica contingente ha origine un libro rivoluzionario, di grande rilievo storico e teologico. Regoliosi, citando vari contributi d’analisi su questo libro, e in particolare quello del Camporeale, ricorda come tutti abbia-no messo l’accento su un elemento peculiare: l’originalissima critica storico-filologica del documento pseudo co-stantiniano non avrebbe senso separata dalle specifica teologia della Chie-sa che la sostiene e che traspare in ogni settore del testo valliano. Senso, finalità e struttura argomentativa adottata sono dichia-rati dallo stesso Valla. La sua è una Oratio, un’orazione cui ha dedica-to una cura retorica elevatissima ispirata alla tradizione di Aristotele,

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Cicerone e Quintiliano. Addirittura cita il passo di Quintiliano, che più lo ha ispirato: Nei documenti scritti – dice Quintialiano – si trova un’in-tenzione criminosa di chi li ha sottoscritti o l’ignoranza da parte degli stessi sottoscriventi. Le prove argomentative, le probationes, che mettono in di-scussione il documento stesso, possono essere tratte dall’oggetto stesso della causa, se per caso quanto è contenuto nella scrittura è incredibile che sia stato compiuto, oppure, ulteriormente, se colui contro il quale la scrittura è stata sottoscritta o uno dei sottoscriventi era assente o già deceduto, se le circostanze di tempo non comportano tale scrittura, se fatti precedenti o successivi contrastano con le scritture, spesso anche il solo esame diretto, ne fa cogliere la falsità. Questo il modello. Su tale base, Valla costruisce due tipi di argomentazioni rispondenti alle due indicazioni proposte da Quintiliano: —svelare le contraddizioni interne al Constitutum Constan-tini, con un’analisi capillare che ne evidenzi incongruenze linguistiche, stilistiche, fenomenologiche, storico-documentarie e logiche rispetto al periodo in cui sarebbe collocata la sua stesura, il IV secolo di Costanti-no. Questo il tipo di critica che ha reso giustamente famoso il Valla, per il rigore e la novità d’impostazione e per il modo assolutamente strin-gente che lo ha condotto a dimostrare la falsità del documento. Ma anche l’altro tipo d’intervento che caratterizza tutta la pima parte della sua opera, non è, per il Valla, meno, rilevante. Valla cala tutta la materia, motivazioni e fonti, nella forma giuridico-canonistica o logico-sillogistica della trattatistica medioevale di parte imperiale. Re-goliosi è convinta che il Valla sia giunto a questa geniale operazione fi-lologica sperimentale, avendo in mente tutta la lunga catena di giuristi di parte imperiale, ma soprattutto il Dante della Monarchia. Costruisce una sorta di teatro filologico: fa recitare ai soggetti storici implicati nel presunto atto di donazione, principe detentore del potere civile, figli dell’Imperatore Costantino, senato, popolo di Roma e destinatario della donazione [Papa Silvestro], una serie di orazioni fittizie dalle quali e nelle quali risulti appunto l’impossibilità, l’incredibilità, l’inverosimi-glianza storica dell’atto. Un testo apparentemente solo erudito si carica di forza accusatoria e demolitrice del temporalismo della Chiesa reale, mettendo in contrapposizione la logica del potere umano e la logica di Dio. I meccanismi retorici messi in atto sono tutti di straordinaria abi-lità e tutti meriterebbero di esseri presi ad esempio dell’analisi conte-stuale, degli svelamenti, delle incongruenze interne alla pagina, per poi far lievitare, su tutta la meticolosa piattaforma dei termini e delle loro relazioni, la vera posta in gioco: la visione della Chiesa reale e di quella ideale auspicata da Valla. Valla non attacca la Chiesa storica dell’epoca di Costantino. Tra

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le righe emerge chiaramente che egli conosce quelle vicende. Le sue fonti sono Eutropio ed Eusebio. Valla segnala di sapere le vicende che portarono e mantennero al potere Costantino, la situazione del pagane-simo nel IV secolo e la sua avversione al Cristianesimo, il trasferimento a Bisanzio divenuta Costantinopoli, così come affiora un cenno alla tolleranza verso il Cristianesimo, un cenno molto vago, privo di riferi-menti all’editto del 313. Valla però non discute questi specifici elementi storici. La sua critica mira a costruire la difesa dell’autonomia politica di Alfonso d’Aragona rispetto al Papa. Punta tutto su due testi: la co-siddetta Leggenda di Papa Silvestro o Acta Silvestri, diffusissimo testo agiografico della seconda metà del IV secolo, se non degli inizi del V; e il Constitutum Constantini, che dalla Leggenda è anticipato, ma che si articola e formalizza solo successivamente ed è poi in parte sintetizzato e ridotto nel Decretum di Graziano, non però nella versione originale di Graziano della Concordia discordantium canonum. Valla produce la comparazione dei testi, ne rispetta le varianti e ne sottolinea le lacune rispetto al testo completo. La critica moderna non ha ancora risolto il problema dell’ori-gine del Costitutum Constantini, la cui prima apparizione risale ad un codice scritto agli inizi del IX secolo presso l’Abbazia di St. Denis. Chi, dove, perché, può avere inventato un falso così palesemente maldestro? Il chi, forse, non si saprà mai. Circa il luogo e il perché le ipotesi sono due a seconda che prevalga uno dei due cui prodest: o alla Chiesa di Roma, che nei secoli travagliati della lontananza-vicinanza dell’Impero di Bisanzio e della calata dei Longobardi poteva crearsi un’autonomia territoriale; oppure ai Carolingi, che, legittimando l’Impero della Chie-sa, ne ricevevano in cambio la Translatio Imperii da Bisanzio. La cosa che effettualmente avvenne fu questa. Ma la trascrizione del primo testi-mone sopravvissuto in Francia a St. Denis, chiesa cara ai re franchi, non è del tutto risolutiva, per optare per un’origine francese, franca, perché sappiamo che anche Papa Stefano II soggiornò a St. Denis nel 754. Nell’incertezza, comunque, il Valla denuncia apertamente la conniven-za tra re franchi e papato, operata da Papa Stefano II in favore di Re Pipino e dei suoi figli, nel 754, e poi confermata nell’817 tra Lodovico Pio e Papa Pasquale I con un documento che il Valla sottopone a criti-ca subito dopo la contestazione della Donazione, per concludere: «Sono sicuro che questa menzogna è venuta fuori da qualcuno dei papi.». Ma se l’origine è nella Chiesa, per il Valla ne deriva un gravissimo crimine, una gravissima empietas. In questo senso la critica del Valla s’indirizza alla Chiesa costantiniana, perché la chiesa gli appare filtrata attraverso la Leggenda di Papa Silvestro, che il Valla conosce essere per lo meno

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antecedente al V secolo, e quindi riflettente effettivamente i tempi co-stantiniani, e attraverso il suo clone più tardo il Constitutum Constantini. Attraverso questo specchio o filtro La Chiesa appare corrotta, plagiata e condizionata dal potere politico imperiale. Ha abbandonato la sua vocazione messianica e ha sposato progressivamente ideologia e prassi temporalistica. Attraverso le denunce, gli attacchi e le prospettive posi-tive emerge l’immagine della vera Chiesa, che Valla contrappone alla Chiesa negativa. Il messaggio cristiano presenta una indiscutibile novità e speci-ficità, anzi, un’opposizione alla logica del mondo, perché è Cristo il fon-damento della Chiesa, Lui la pietra angolare e nessun altro, nemmeno il Papa, ne può essere fondamento. Anzi, il Papa, se vuole essere vera-mente, non solo formalmente, vicarius Christi, deve rivestire la Persona Christi. Modellarsi sul modello di Cristo. Il Papa è dunque il Buon Pa-store, che svolge nei confronti delle sue pecore una funzione di amorosa protezione e non di comando, né di giudizio, né, tanto meno, come stori-camente si è verificato, di brutale fiscalità. E la Chiesa deve essere inan-zitutto libera. Uno degli elementi di scandalo della falsa Donazione è la pretesa del potere politico di dettare legge alla Chiesa, invischiandola in una protezione utile ma soffocante, secondo un’ottica cesaro-papista che appartiene, più che a Costantino, ai suoi successori e che il Constitu-tum Constantini riflette e fotografa. Libertà politica della Chiesa e libertà nella Chiesa nel nome della originale libertà dell’essere umano, quindi di tutti gli uomini, di tutti i tempi, di tutti i popoli e nel nome del loro diritto all’autodecisione. Su questo aspetto, della libertà umana come elemento costitutivo dell’uomo, le parole del Valla si fanno stupende ed ancorate alla storia originaria della Chiesa, nella quale anche tra Paolo e Pietro il principio di autorità non disconosceva il riconoscimento del-la libertà di parola e di critica, quando sostenuta da retta coscienza, e basata sulla veritas onestamente ricostruita e proposta come conquista dal valore sacrale. Poiché, ripete Valla insistentemente, la verità viene da Dio. Autorità e tradizione della Chiesa non sono dunque in tut-to esenti da errori. Come Pietro è stato giustamente ripreso su alcune questione di dottrina o di morale da Paolo, perché queste riconosciute reprensibili, così anche potranno essere giustamente sottoposte a critica false credenze della tradizione, sia pur portate avanti in buona fede nella convinzione di proteggere il popolo di Dio. Soprattutto potranno e dovranno essere sottoposte a critica, con libera contestazione, quelle verità che, presentate come tali e come tali difese per secoli dalla somma autorità curiale, risultino inficiabili da prove circostanziate ed evidenti, tratte alla luce da competenti. Anche laici. E Valla sta parlando di sé.

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La recezione di Costantino nell’Europa centrale, lacerata dal-le discordie e dalle guerre di religione è stata studiata e presentata al Convegno da F. Zuliani con il titolo Costantino nell’Europa luterana del ‘500. Più che l’imperatore Costantino fu la Declamatio di Valla ad avere una cosiderevole fortuna tipografica nel mondo germanico. La prima edizione di cui si abbia notizia è del 1506 ad opera di Johannes Grüninger di Strasburgo, con una ristampa nel 1520 ad opera di Iacopo Giunta. Curata da Ulrich von Hutten è l’edizione del ’18, er-roneamente considerata la princeps e stampata a Basilea dal tipografo Andrea Cratander e ristampata nel ’19. Un’altra ristampa avvenne a Colonia ad opera di Ortwin Graes. Poi arrivò l’opera omnia del Valla e qui la Declamatio, con il titolo « Contra donationis quae Constantini dicitur privilegium ut falso creditum declamatio » apparve a Basilea nel 1540, concordante con l’edizione di von Hutten. Ancora Basilea nel 1566 con una raccolta di testi curata da Simon Schard. Poi l’edizione di Simon Schard nel 1609 e l’edizione di Leyda nel 1620. Infine la prima edizione critica moderna basata su vari codici è l’edizione teubneriana di Lipsia 1928, curata da Walter Schwahn, preceduta nel 1896 da uno studio dello stesso Schwahn sul Valla: « Lorenzo Valla. Ein Beitrag zur Geschichte des Humanismus ». Una traduzione in tedesco non datata, ma sicuramente apparsa in Germania nel 1526, di fatto fu il monumento dell’anticattolicesimo con l’esplicito accostamento del Papa all’Anticristo, raccogliendo quin-di l’identificazione proposta da Lutero. Le ragioni per un utilizzo del-l’opera da parte del partito protestante in formazione sono facilmente individuabili. Valla offriva uno straordinario esempio di abuso papisti-co ed era un colpo sferrato non da un contemporaneo, quindi taccia-bile di partigianeria, ma un vetus di chiara fama e prestigio. L’opera di Valla, in area tedesca, specie presso quelli che avevano studiato in Italia, godeva della considerazione massima. Era un testimone di verità, un maestro dell’umanesimo, un’autorità filologica indiscutibile. Ma la frattura tra mondo latino e mondo germanico era ormai insanabile. Erano falliti i colloqui cattolico-luterani di Ratisbona del 1541. I cattolici riconoscevano anche la giustezza dell’idea luterana del-la salvezza per grazia, ma alla fine fu l’evoluzione del movimento di Riforma a prevalere, facendosi portatore di un modello di Chiesa che s’intendeva realizzare e che non poteva più essere ricondotta semplice-mente a una richiesta di riforma degli abusi del papato, né tanto meno alla polemica anticlericale, anti romana e anti papale, già tipica del tardo Medioevo tedesco. Nel 1556, con un’edizione a Basilea fu fatto il tentativo di ria-

F. Zuliani,Costantino

nell’Europa luterana del ’500.

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prire gli studi su Costantino Magno. Il testo redatto da un professore di Heidelberg non solo era stampato in territorio di lingua tedesca e nella città elvetica più prossima alle posizioni luterane, ma chiariva la propria intenzione d’inserirsi nei dibattiti presenti in Germania. Il testo è una delle più importanti opere d’ispirazione irenica del ’500, espressione di una via media, che auspicava la concordia tra le diverse confessioni cristiane europee e una reciproca tolleranza e invocava la proclamazione di un Concilio che potesse sanare lo scontro europeo. L’opera riscosse apprezzamento in campo protestante tra i calvinisti e poi tra i filippisti [i simpatizzanti di Melantone], ma non fra i luterani in-disponibili al compromesso teologico sia con calvinisti e filippisti e che erano direttamente passati dall’ideazione alla stesura di una propria Historia Ecclesiae Christi o Centurie di Magdeburgo o Secoli di Magde-burgo, pubblicata la prima volta dal 1559 al 1574. Ispiratore dei “Cen-turiatori” Matthias Flacius e successivamente il vescovo luterano della Pomerania Johannes Wigand. Editore dell’opera l’umanista di Basilea Johannes Oporinus. Ma, spesso, presso il popolo, più di un’opera critica immensa, può un piccolo libretto come i Libri di prodigi, che Melanto-ne, Lutero e gli umanisti scrivono normalmente in tedesco e nel quale spiegano l’avvento della Riforma attraverso prodigi che avvengono sulla terra al momento della morte di Cristo. In questi testi Costantino non compare se non negli anni ’50. Solo in uno viene citata la Donatio. Vie-ne considerata vera e dunque dev’esserci un miracolo: sui muri di Roma appare una scritta: “Il veleno è oggi entrato nella Chiesa”. Costantino, per i lettori di questa letteratura popolare, poteva esser visto solo con ostilità. Quello che colpisce quando si analizzino i dati raccolti non è tanto la conoscenza e l’impiego di Costantino da parte dei luterani tede-schi, che è da ritenersi pacifico per mere ragioni storiografiche, quanto piuttosto la poco rilevanza che la figura dell’Imperatore ebbe per questi. Qualora si guardino i documenti fondativi del luteranesimo, anche poli-tico, si nota che neppure una singola volta l’Imperatore viene citato. Il fatto colpisce, ma non è sorprendente. La Germania cinquecentesca fu presto luogo di scontro teologico e polemico e di confessionalizzazione politica, ma anzitutto teologico-storiografica. L’identità luterana tede-sca, quindi, sebbene per molti versi originale e fondante, fu comunque caratterizzata da una costrizione a confrontarsi con un altro, in primis, il mondo cattolico, che, invece, non conobbero alcune periferie lutera-ne. Il mondo luterano propriamente detto, fu infatti ben più vasto della Germania stessa, comprese ampie parti dell’Europa orientale, dall’Un-gheria alla Polonia, passando dalla Moravia all’alta Slovenia e quindi

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all’area baltica e soprattutto alla Scandinavia. Sarà necessario allargare lo sguardo anche a questi territori. L’allargamento dell’analisi a simili periferie, ci farebbe incontrare La cronaca del regno di Danimarca di Hvitfeld [Arrild o Araldo]. Ffu il testo più importante di una storiografia ricca e ingiustamente poco conosciuta fuori dalla Scandinavia stessa.Proprio all’inizio del primo libro, il sovrano Cristiano III, che nel 1535 introdusse la Riforma nel paese, sorprendentemente, è paragonato a Costantino. Diverso il caso della Germania del ’500: La Germania non conosce nessun Costantino che riuscì a riconvertirsi alla vera fede e che può essere identificato come primo Imperatore cristiano. Al contrario, saranno i cattolici ad impadronirsi presto della figura dell’Imperatore, grazie all’analogia: Costantino, in quanto Imperatore, doveva essere in-tollerante dell’eresia e strenuo difensore della Chiesa romana ufficial-mente riconosciuta. Un modello già espresso in una celebre lettera di Paolo III inviata a Carlo V nel 1544. A metà ’600 gli Asburgo d’Austria faranno di Costantino il ‘progenitore’ della dinastia.

Diverso il caso dell’Inghilterra. Se ne è occupato Alberto Rocca, Dottore dell’Ambrosiana, con il suo intervento Le riforme religiose in Inghilterra e Costantino. Il 25 luglio, data molto importante e significativa per Costantino, del 1998, l’arcivescovo di Canterbury Coggan inaugurò la statua di Co-stantino, collocata all’esterno dell’ingresso meridionale della Cattedrale di York. Opera di Philip Jackson, patrocinata dallo York Civic Trust, il bronzo è accompagnato da questa iscrizione: « Vicino a questo luogo Costantino il Grande fu proclamato Imperatore romano nel 306. Il suo ri-conoscimento delle libertà civili dei suoi sudditi cristiani, la sua conversione alla FEDE [scritto maiuscolo] stabilì le fondamenta religiose del Cristianesimo occidentale. ». Raffigurato seduto, il Generale sostiene con la sinistra la sua spada spezzata, ormai trasformata in croce e, a totale addomesti-camento della belligerante figura, ci induce la scritta: «Constantine, by this signs conquer. », che è la traduzione inglese del motto latino « in Hoc signo vinces ». Questo conquer viene sempre usato in inglese per tradurre vinces; è molto britannico come concetto. Se questo monumento con l’espresso riferimento a Costantino, come garante della libertà religiosa dei cristiani e primo Imperatore cristiano fondatore dell’Occidente cri-stiano, non manca di sorprendere chi sia solo un poco avvezzo al cinico materialismo razionalistico britannico, proprio detto monumento, aiu-ta però a ricordare che, non solo nella Chiesa d’Inghilterra, Costantino non fu mai dimenticato, ma fu un fondamentale punto di riferimento. L’intervento di Rocca desidera mettere in evidenza in che misu-

A. Rocca,Le riforme religiose in

Inghilterra e Costantino.

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ra Costantino fornì un modello preciso per la definizione della “nuova” immagine del sovrano, che si venne formando nel corso del regno di Enrico VIII e come, di questo riferimento, vennero evidenziati aspetti sensibilmente differenti nel corso dei diversi regni successivi allo Scisma del 1534. Ben note sono le vicende dello Scisma enriciano, tuttavia Rocca ritiene utile ricordare che nei lunghi anni che trascorsero dal primo manifesto, il desiderio di Enrico di divorziare da Caterina d’Aragona, sino all’Atto di supremazia, la riflessione su come risolvere la questione del re come si vociferava a corte, “The King’s Great Matter”, si svilup-pò lentamente e comportò la maturazione della concezione del Regno d’Inghilterra come Impero, non senza il concorso di alcuni elementi teologici, tipicamente riformati. L’atto scismatico voluto da Enrico ma-turò nella mente del re e dei suoi stretti collaboratori, a seguito della mancata disposizione da parte di Roma di concedere la Dichiarazione di nullità del matrimonio del sovrano con Caterina d’Aragona, già vedova del fratello Enrico Arturo. Ovviamente non era pensabile che la separa-zione dalla Chiesa romana ideata da Enrico e dai suoi consiglieri con le sue numerose conseguenze, religiose, legali, politiche ed economiche non suscitasse gravi difficoltà anche dal punto di vista del consenso in seno allo stesso regno inglese. Ecco allora la necessità di supporta-re il percorso, che avrebbe condotto alla rottura definitiva con la sede petrina, con giustificazioni di carattere storico, scritturistico, teologico elaborate —ma potremmo dire, confezionate—, da un gruppo di studiosi e prelati nominati da Thomas Cranmer, arcivescovo di Canterbury, e diffuse capillarmente dall’acuta abilità di Thomas Cromwell. La massiccia azione propagandistica mirava a convincere il re-gno e l’Europa che l’Atto di supremazia non conferiva al re nulla che non fosse già di sua competenza, essendo il riconoscimento la risco-perta di quello che da sempre era stata una delle prerogative del re d’Inghilterra. Una chiara presentazione di questo concetto si trova nel De vera obedientia oratio di Stephen Gardiner, vescovo di Winchester, pubblicato nel 1535. Il lancio dell’azione propagandistica, fu metico-losamente preparato e con ricerche storiche e archivistiche coordinate dall’arcivescovo Cranmer, lavoro che fu raccolto in un testo manoscritto destinato al re e con una circolazione limitata alla corte, conosciuto come « Collectanea satis copiosa ex sacris scriptis et authoribus catholicis de regia et eclesiastica potestate ». La raccolta, del 1520, conservata alla British Library con segnatura Ms. Cotton Cleopatra E VI, e recante anno-tazioni autografe del monarca stesso, il quale disegnava delle deliziose manine, là dove gli interessava, costituisce la fonte di gran parte dei

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riferimenti storici, patristici, scritturistici concernenti l’autorità regia e il rapporto del clero con la corona, utilizzati da molti autori enriciani, ricorrenti poi anche nell’apologetica elisabettiana. La silloge fu redatta sotto la direzione di Thomas Cranmer con grande apporto di Edward Foxe segretario del cardinale Wolsey dal 1527 e completata nel 1530. Rocca ricorda qui che fu l’ecclesiastico Cranmer che suggerì ad Enrico VIII di richiedere alle maggiori università europee del tempo l’opinione circa la possibilità di divorziare da Caterina d’Aragona. Nell’intenzione dei suoi redattori i Collectanea volevano forni-re elementi inconfutabili che potessero giustificare una soluzione della King’s matter senza un ricorso esterno al regno, cioè senza ricorrere a Roma e a questo scopo veniva di fatto a porre le basi fondamentali per le dottrine dell’Impero e della supremazia regia. Detto con disarmante semplicità, questo manoscritto provava che i re d’Inghilterra non aveva-no superiori di sorta sulla terra, fossero temporali o spirituali. L’acri-bia dei redattori riuscì a convincere il sovrano che da sempre il monar-ca inglese godeva di autorità imperiale, in virtù della quale era anche Head of the Church and God, titolo che era stato usurpato dal vescovo di Roma. Tale autorità gli consentiva finalmente di porre fine al matri-monio con Caterina d’Aragona. Come ha brillantemente sottolineato John Gay, in un suo scritto: la giurisdizione imperiale inglese veniva così presentata, dai Collectanea, come una verità teologica e come tale non poteva essere ignorata nemmeno dal vescovo di Roma. Non è stato di poco interesse quanto ha fatto rilevare Alberto Rocca circa tre passi riportati in diverse sezioni dei Collectanea, che fan-no esplicito riferimento all’Imperatore Costantino. Seguendo l’ordine di presentazione nella silloge, troviamo:— un passo della Historia tripartita, la cui introduzione fu scritta da Cassiodoro;— una citazione dagli Ozi imperiali di Gervasio di Tilbury, riportata in due sezioni diverse e con delle varianti degne di nota; — e una citazione della Lettera di Ottone vescovo di Frisinga all’Impe-ratore Federico tratta dalla Chronica, la cui versione, meravigliosa, noi custodiamo qui in Ambrosiana. La prima citazione è tratta dal libro III, capitolo VII della Hi-storia tripartita e ci fa ascoltare le parole di rimprovero di Costantino, rivolte ai vescovi divisi da questioni teologiche, in una lettera, nella quale l’Imperatore appare come la prima auctoritas e l’ultimo punto di riferimento anche per le dispute di carattere religioso-teologico. In secondo luogo, dagli Ozi imperiali di Gervasio di Tilbury, giurista e monaco vissuto tral XI e il XII, per due volte in due sezioni

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diverse dei Collectanea, al foglio 61 verso e al foglio 94 verso, è riportato il medesimo passo, che ricorda come Costantino abbia affidato a Silve-stro la parte Occidentale dell’Impero, facendo però capitale dell’Impe-ro quella Orientale con tuttavia un’essenziale sottolineatura: sola sede mutata non dignitate. Interessante notare come lo stesso brano sia più lungo nella seconda citazione per la presenza di questa aggiunta: « Deus auctor imperii et imperator auctor papalis triumphi. Pontifex animarum caput est post Christum, imperator corporum dominus post Deum. ». Come tutti avremo notato, gli estensori della nostra silloge non si preoccupa-no del fatto che il testo di Gervasio consideri autentico l’episodio della Donazione. Questo è uno dei grandi elementi interessanti, ambigui, di questo momento del regno enriciano: da una parte si fa questa silloge e si citano dei testi che danno per scontata la Donazione di Costantino, nel contempo lo stesso governo fa pubblicare nel ’34 la versione inglese di Lorenzo Valla. Interessantissima ambiguità. In terzo luogo la terza citazione, citazione dalla Chronica di Otto-ne di Frisinga, viene introdotta da un titolo ben evidenziato —[le Collecta-nea sono interessanti, anche perché usano diverse grafie, usano il grassetto, il corsivo, il maiuscolo, proprio per evidenziare titoli oppure concetti che a loro stanno particolar-mente cari]— : Donatio Costantini, foglio 101 recto e asserisce che Costantino divise l’Impero tra i figli, affidando al sacerdotium l’Impero, non perché ne fosse il sovrano, ma perché il clero lo sostenesse con l’ausilio spiri-tuale dell’Oratione: « verum imperii fautores Constantinum non regnum Romanis pontificibus hoc modo tradidisse, sed ipsos tamquam summi sacer-dotes ob Domini reverentiam in patres assumpsisse, ab eisque se ac succes-sores suos benedicendos et patrocinio orationum fulciendos contendunt. ». Conoscendo quanto fossero ricettivi gli umanisti inglesi nei con-fronti dei nuovi approcci filologici e linguistici —si pensi alla presenza di Erasmo a Cambridge sostenuta da Thomas More e da John Fisher—, il riferi-mento a queste fonti in un documento redatto dal 1527 al 1530 non man-ca di suscitare un certo interesse. Molto opportunamente Alberto Rocca ha voluto far notare a questo punto che la qualità della preparazione cul-turale dei vescovi enriciani era generalmente superiore a quella di molti vescovi del continente. Questo è un altro dato estremamente interessante. Così confezionata ad arte, questa raccolta tolse ogni dubbio al sovrano: veramente la sua era corona imperiale e dall’autorità impe-riale conseguiva la sua giurisdizione sulla Chiesa. Non va dimenticato che il principio di impero è fondamentale per la dottrina della suprema-zia, che da esso viene fatto derivare. L’affermazione solenne di questa convinzione maturò a partire dal 1530, ma fu formalmente espressa e codificata ufficialmente dal parlamento nel febbraio 1533 con l’Act in

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Restraint of Appeals, che segnò la via dell’iter giuridico e politico, che trasferì la giurisdizione dal pontefice romano alla corona inglese. L’Atto fu fatto passare in gran fretta perché il re, in gennaio, aveva già sposato segretamente Anna Bolena che era incinta. A parere di Rocca, questo testo è più significativo ancora dello stesso Atto di supremazia del ’34. Per questo ne propone la lettura. Dice il testo del ’33: « Poiché in diver-se antiche storie, cronache, è manifestamente dichiarato ed espresso che questo reame d’Inghilterra è un Impero e così è stato accettato nel mondo, governato da un supremo capo e re, che ha la dignità e lo stato regale e porta la corona imperiale, sul quale un corpo politico, formato da ogni sorta e gradi di popolo, diviso in termini e in nomi di spiritua-lità e temporalità [questo è, secondo Rocca, un riassunto fenomenale di quello che era il desiderio dei sovrani medioevali in Inghilterra] sia legato e sia portato in obbedienza davanti [...] et cetera. ». Quello che conta: questa corona imperiale di cui il sovrano in Inghilterra è portatore, l’Act in Restraint of Appeals dichiara proprio questo in maniera molto, molto determinata. I contenuti dell’Atto del ’33 in realtà non erano nuovi, perché nei Collectanea erano stati riportati numerosi passi del giurista Henry de Brighton, il quale aveva scritto che il re d’Inghilterra non habet supe-riorem, applicando a lui quanto la legge romana attribuiva all’impera-tore. L’espressione verrà ripresa anche nell’Atto di supremazia del 1559, all’inizio del regno di Elisabetta, dove si dice: « per la restaurazione e l’unificazione della corona imperiale di questo regno. ». Ancora nel 1583 Thomas Smith ribadirà che l’origine di questa indipendenza d’essere un imperatore, che non ha nessun superiore sul-la terra, è assai antico ed è di diritto divino. Ovviamente la convinzione che la corona inglese sia corona imperiale sarà ulteriormente ribadita agli inizi della monarchia degli Stuart, così come sarà ripresa la concezione di un unico corpo politico composto da clero e da laici, che fa riferimento all’unico capo: il so-vrano. Non è assolutamente fuori luogo affermare che, benché il tutto fosse un lungo e ingegnoso costrutto, iniziato con l’ascesa al trono di Enrico VII al termine della Guerra delle Due Rose, il modello costan-tiniano veniva a formare, se non l’unico, certamente uno degli ottimi paradigmi per i monarchi inglesi. La propaganda ideata da Cromwell al fine di diffondere l’ideologia antipapale, per convincere i sudditi del nuovo, secondo lui, riscoperto ruolo di Enrico VIII nei confronti della Chiesa, si mosse su diversi fronti. Ma Alberto Rocca, proprio sul punto, ha voluto soffermarsi, in particolare, sulle riedizioni. Benché si tratti di materia vastissima e affascinante, ha voluto dedicare poche parole per menzionare due edizioni fondamentali per quel che riguarda

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l’aspetto specifico di questa presentazione. Si è riferito alla Declaratio di Lorenzo Valla pubblicata nel 1534 in inglese e quella del Defensor pacis di Marsilio da Padova pubblicato in inglese nel 1535. L’edizione inglese di L. Valla apparve proprio nel ’34 e c’interessa per provare come il testo dell’umanista italiano fosse ben conosciuto in Inghilterra —noi sappiamo che il livello umanistico del Valla era altissimo, era molto conosciuto, se ne parlava—. L’anno successivo venne data alle stampe una traduzione, curata da William Marshall e patrocinata da Thomas Cromwell, del Defensor pacis di Marsilio da Padova. Un’opera che, concependo la plenitudo potestatis del pontefice come il massimo ostacolo alla pace, scopo primario di ogni buon governo, tornava utilis-sima a Cromwell. Spesso la versione inglese è volutamente libera in al-cune sue parti, per essere adattata al contesto e alle necessità enriciane. È sufficiente leggere la nota del verso del frontespizio, per comprendere immediatamente però come oggetto primario sia di usurped power of the bishop of Rome, otherwise called, the Pope, l’usurpato potere del vescovo di Roma, altrimenti chiamato, il Papa. Per chi leggeva questa traduzio-ne del Defensor, la figura del good emperor dell’imperatore Ludovico il Bavaro, che era il sovrano di riferimento per Marsilio, spariva in dis-solvenza per assumere la fisionomia di Enrico VIII buon principe, che riprendeva possesso della autorità legittima sulla Chiesa, conferitagli da Dio, sottrattagli dai vescovi di Roma. L’apostrofare i sommi pontefici come usurpatori e definire i principi come loro naturali sovrani confer-ma il convincimento, ormai consolidato nel 1535 nell’ambiente della corte, che il re d’Inghilterra gode di una superiorità sul clero che gli è conferita direttamente dall’alto. Acutamente qui Rocca ha sottolineato che nel Defensor scarso rilievo viene attribuito alla Donatio, mentre as-sai rilevante è la convinzione marsiliana che Costantino fosse originario detentore di ogni giurisdizione; del resto non bisognerebbe dimenticare il suo intento precipuo di negare che la giurisdizione pontificia fosse superiore a quella imperiale. Queste erano argomentazioni cardine del progetto della supremazia imperiale e Costantino ne veniva a costituire il modello perfetto. Per amore di precisione va qui detto che non deve sembrare che Costantino sia l’unico e solo exemplar del Godly Prince, cioè del buon principe. Moltissimi sono gli esempi desunti dalla scrittura, dai Padri della Chiesa, dalla storia inglese, dalle vicende dell’Impero. In particolare, e degno di nota: con Edoardo VI salito al trono nel 1547 a soli sei anni e l’instaurarsi di un regno con una reggenza recisamente calvinista, Thomas Cromwell fu portato a salutare il re-bambino più che come Costantino, come il novello Joas, il figlio del re Akhazia, di cui

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si parla nel II libro delle Cronache, inaugurando una retorica dai toni accesamente riformati, —si potrebbe dire: dalle sottolineature più scrit-turistiche che giuridiche, com’era stato sinora—, una retorica che avrebbe però dovuto conoscere una drammatica stasi con la prematura morte di Edoardo e la Restaurazione cattolica di Maria. Una Restaurazione, tut-tavia, che non significò una mutazione di percezione della giurisdizione del sovrano. Questo è un aspetto poco trattato, sottolinea Rocca, ma in realtà, Maria governò in base al principio della supremazia regia e a Roma poco interessò, se non per alcune pratiche da un punto di vista formale. Alberto Rocca desidera concludere questo veloce intervento sul-l’immaginario di Costantino nelle riforme religiosi inglesi, soffermando-si su un autore elisabettiano. La sua scelta è stata motivata per cercare anche di vedere quali differenze ci siano state nell’utilizzo del perso-naggio. Richard Hooker è sicuramente uno dei personaggi, oggi per noi, più rappresentativi del’500: non lo era per i suoi contemporanei. Le sue opere non volevano essere stampate per lunghezza e scriveva in un inglese che i suoi contemporanei definivano “incomprensibile”. Rocca parla di Hooker, ma in realtà non esiste apologista, anche elisabettiano, che non menzioni il nostro imperatore. Si pensi solo alla “Defense of The Apology of the Church of England” di Bp. John Jewel, Vescovo di Sa-lisbury, che era uno dei massimi apologisti elisabettiani. Oltretutto era molto interessante, perché era stato in esilio durante gli anni di Maria. Dunque si era fatto una mentalità riformata sul continente. Quindi è bello vedere come lui proponga una riforma in Inghilterra, dovendo però essere sottoposto al settlement elisabettiano. Però Hooker merita una menzione particolare perché, se da una parte le sue tematiche, i suoi riferimenti sono quelli di tutti gli apologisti Tudor, la sua trattazio-ne si distingue per essere più meticolosa, sistematica, ma anche in un certo senso meno politically correct. Come sappiamo Hooker, che era ma-ster del Temple, la Chiesa dei giuristi, a Londra, fu impegnato per buona parte della sua vita nel difendere le istituzioni e i principi della Church of England del settlement di Elisabetta; e questo non primariamente con-tro le obiezioni cattoliche, quanto piuttosto contro quanto sostenuto dai puritani che avevano conosciuto una notevole diffusione in Inghilterra, nonostante il pugno di ferro dell’arcivescovo John Whitgift. Dopo la decapitazione di Maria Stuart e la sconfitta dell’Invin-cibile Armada del 1588, i cattolici cessarono di costituire un pericolo reale per la monarchia, gli sforzi dell’establishment per il mantenimen-to dell’ordine dovettero concentrarsi sui puritani che negavano veridi-cità al settlement Elisabettiano, mettendone in discussione i principi

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teologici, le modalità d’interpretazione della scrittura, l’organizzazione episcopaliana, persino l’ordinamento monarchico. I primi libri della principale opera di Hooker, Le Leggi della politica ecclesistica, furono pubblicati nel 1593, quando fortissima era la repressione ecclesiastica dei puritani per mano di Whitgift. Rocca si limita qui a fare riferimento a due passaggi nei quali Hooker fa richiami espliciti a Costantino. Entrambi sono tratti dall’ul-timo libro de Le leggi, l’ VIII, quello interamente dedicato alla difesa della supremazia regia contro le obiezioni puritane. In aperta risposta alle posizioni puritane, Hooker fa riferimento a Costantino per difende-re due particolari prerogative regie: — quella di convocare i Sinodi e i Concili; e — quella di legiferare in materia ecclesiastica. Rocca fa notare la mutata situazione: — con Enrico VIII era un momento in cui si ponevano le basi per qualcosa di nuovo; con Elisa-betta I ormai ci si trova a difendere qualcosa che è ormai established, qualcosa che costituisce tradizione per quanto riguarda il regno. In aperta risposta alle posizioni puritane, Hooker fa riferimento a Costantino, appunto, per difendere due particolari prerogative regie: quella di convocare i Sinodi e quella di legiferare in materia ecclesiastica. La prima affermazione nel libro VIII, capitolo IV: « Costantino non solo fu colui che per primo convocò un Concilio generale, ma fu anche colui che determinò come fare queste convocazioni. ». Fa giustamente notare Rocca come l’elemento saliente sia non solo il riferire l’atto della con-vocazione di un’assise ecclesiastica esercitato dall’imperatore, quanto piuttosto l’avere anche definito tale istituzione come necessaria alla vita della Chiesa. L’altro passo citato da Rocca è desunto dal cap. VI del libro VIII, uno di quelli più importanti per la comprensione della supremazia regia in Hooker : « Domandandoci in base a quale diritto da Costantino in poi gli imperatori cristiani si siano occupati degli affari della Chiesa, noi dovremmo o condannare questo fatto come qualcosa oltre modo presuntuoso e arrogante, oppure dovremmo riconoscere che in virtù di una legge che è chiamata regia, il popolo ha conferito all’imperatore il proprio potere di fare le leggi e di far sì che gli editti abbiano valore lega-le e questa autorità essi trasmettono a quanti hanno autorità competente. Cioè gli imperatori, a loro volta, hanno il potere di fare le leggi, anche per le religioni e a beneficio della Chiesa di Gesù Cristo ». Questo è uno dei punti fondamentali de Le Leggi di Hooker, perché per Hooker una delle questioni principali è che il consenso crea il potere, non tanto se-condo le accezioni democratiche odierne, ma quanto che il popolo è il detentore del potere. C’è stato un momento —quello di questa lex regia—,

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in cui il potere è stato conferito dal popolo al sovrano. Come? Hooker questo non lo dice, e però, in virtù di questo passaggio, il sovrano oggi ha un’autorità che giustamente esercita e che può delegare. Questo non soltanto per quanto riguarda il body politic, quanto meno le leggi anche religiose per il body politic. Il body politic è un sinolo di temporality e di spirituality. Queste due cose non possono essere separate. Questo è uno dei punti fondamentali, interessante come una delle affermazioni fondamentali de Le Leggi che vede Hooker porre l’inizio in Costantino. Non tanto Costantino in quanto proprio lui, ma in quanto primo impe-ratore che legifera nei confronti della Chiesa. Al pari di Costantino il sovrano inglese ha diritto sulle convo-cazioni di Canterbury di York, quindi sulle adunanze della Chiesa e ha piena competenza nel governare la Chiesa e nel derimerne tutte le questioni, il testo però contiene un’espressione che non può essere tra-scurata, che è appunto: Avendo il popolo passato all’imperatore il suo intero potere di fare le leggi. É in sintesi il pensiero cruciale de Le Leggi di Hooker: nel popolo risiede il potere di fare le leggi, power, che è stato da lui trasferito al sovrano perché, in unione col parlamento, governi il commonwealth, secondo la volontà divina. La parabola che Rocca ha così approfonditamente presentato è veramente singolare. Si parte da un riferimento all’Imperatore, per sostenere un impero assoluto, per giungere a un altro riferimento al medesimo imperatore, per dire che il potere che il sovrano esercita non potrebbe essere, se non gli fosse derivato da un popolo. Non è un caso che Hooker, benché suddito fedele, non abbia mai raccolto elogi dalla sua sovrana e che la ‘ comprehensivness ’ sia, ancora oggi, il tratto saliente della Chiesa d’Inghilterra.

Alberto BentoglioDrammi, tragedie, musiche e balli per Costantino il Grande Anche a una prima e superficiale ricerca il nostro grande impe-ratore è soggetto di una vastissima produzione teatrale dedicata alle sue vicende pubbliche e private. Basterà consultare la sola raccolta dram-matica Corniani Algarotti conservata a Brera, per censire più di ven-ti libretti per musica, drammi, tragedie dedicate a questo argomento. Questa ricchezza ci attesta subito che la figura di Costantino anche sulle scene teatrali godette di una grandissima fortuna, che cronologicamen-te si confermò soprattutto in Italia tra la fine del XVII secolo e i primi cinquant’anni dell’ ’800. Alla fine del ‘500, 1597, troviamo un esempio importante: il Cri-spus una tragedia latina composta dal padre Bernardino Stefonio della

A. Bentoglio,Drammi, tragedie, musiche

e balli per Costantinoil Grande.

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Compagnia di Gesù da recitarsi nel seminario romano. Questo testo ri-scosse un successo straordinario nel teatro tragico di tutt’Europa. Nel Crispus viene dichiarata esplicitamente l’affiliazione da Euripide come da Seneca. Dalle molte traduzioni italiane che seguono viene anche mo-dificato il soggetto con l’inserimento di Elena, la madre dell’Imperato-re, e con l’inserimento di altre vicende collaterali, al punto che già da queste prime osservazioni si può evincere agevolmente che si creano quasi due vicende differenti, una prima più ricondotta allo schema del-la tradizione classica e una seconda invece dilatata e arricchita. 1653, un secondo esempio. Il Costantino, tragedia in prosa rap-presentata a Roma nel Palazzo dei Pichini. Ghirardelli è l’autore. Gene-re, il sommo Aristotele. Il Costantino è opera destinata a un’eco clamo-rosa, con violente polemiche. Per dirimerla, sarà invocata un’autorità francese: Pierre Corneille. Corneille la inserirà nella sua dissertazione sulla tragedia. Dal 1715, gli esempi moltiplicano. Tra i tanti, Annibale Marche-se con il suo Il Crispo. Altrettanto numerosi gli esempi nell’ ‘800. Due tra i tanti.1. — Costantino il Grande, tragedia di Cosimo Giotti, rappresentata nella Venezia giacobina nel 1801. Singolare che in un repertorio giacobino di sostanziale rifiuto della tragedia classica con un proprio desiderio d’in-novazione e di rottura, il personaggio di Costantino rimanga centrale e mantenga una fortuna indiscussa. 2. — 1833, una tragedia oggi dimenticata, Costantino Magno di Luigi Malvezzi, al tempo clamorosa e motivo di scontro tra classici e romantici. E poi i balli. Costantino è presente nei grandi balli allegorici nelle così dette azioni mimico-tragiche, fortunatissime sui palcoscenici dei teatri fra ‘700 e ‘800. E il teatro musicale, dramma in musica: stessa fortuna di Costantino, che viene letto, riletto, declinato in tutta la sua importanza e in molti casi come personaggio principale, ma anche se-condario. Molte volte entra nella vicenda benché storicamente non fosse assolutamente possibile che ciò accadesse. Fino a un grande compositore, Gaetano Donizetti in un’opera intrisa di grande pessimismo, così vicina alla sensibilità dello straor-dinario musicista e approdata nel ’32 a Milano alla Scala con Fausta, personaggio disperato, la cui passione la divora dalla prima all’ultima scena e che, vedendo il figlio, non può che esclamare: Ecco, il mio bene supremo, ma anche ecco il mio tormento, il mio supplizio estremo. E la figura di Costantino prefigura la temperie moderna del Filippo II o del Don Carlo donizettiani. Le anime romantiche.

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Paola Vismara. Costantino nel ’700 italiano. Interpretazioni storiche e teologico-politiche. Notevolissimo lo spazio che Lodovico Antonio Muratori negli Annali d’Italia riserva al lungo regno di Costantino. Lo storico non ne tace le colpe, ma ne evidenzia il ruolo nel dare felice principio alla più consolante epoca del Cristianesimo. Felice, termine significativo per l’età settecentesca e per Muratori. Ma lo sguardo non è rivolto al passa-to. Muratori si contrappone volutamente e frontalmente a quanti chia-ma sedicenti filosofi del proprio secolo, per affermare che l’adesione alla religione di Cristo da parte di Costantino era così sincera e profonda che l’Imperatore fece di tutto per favorire i progressi della fede cristiana e per distruggere completamente l’idolatria. Poi Giuseppe Agostino Orsi, H istoria ecclesiastica, 1748. Costan-tino è colui che ha reso la pace alla Chiesa dopo un lungo e tormentato periodo di vessazioni e generale persecuzione. Le premesse della pax christiana sono segnalate nell’Editto di Galerio del 311. Poi Costantino insieme a Licinio con l’Editto del 312 e i primi albori della pace. Poi gli studi di Filippo Musenga e Giuseppe Piatti con al centro il 313. Posizione comune: Costantino è l’autore della pace dell’Impero in quanto garante della diffusione del cristianesimo e della distruzione dell’eresia. Elementi inseparabili. In occasione dell’ingresso a Milano dell’arcivescovo Carlo Gae-tano Stampa, nel 1737 , per suggerimento del Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Antonio Sassi, sull’Arco trionfale era raffigurato Costanti-no. Per le cronache dell’epoca colpiva, tra le immagini, quella dipinta in chiaroscuro della historia degli imperadori Costantino e Licinio: l’arci-vescovo entrava a Milano in un clima ancora di prevalente concordia tra autorità civile e autorità ecclesiastica. Nel tardo ’700 lo scenario muta completamente e l’indagine finemente storica passa in secondo piano. Sul fatto che rispetto all’Editto altre e ben più importanti cause fossero in gioco, atte a spiegare il trionfo del cristianesimo, si soffer-ma soprattutto Nicola Spedalieri, siamo nel 1784. Sotto Diocleziano l’idolatria mostrava le sue profonde ferite per una sentenza del cielo. Costantino fu uno strumento all’interno di un progetto divino. Siamo al passaggio dal piano della valutazione storica a una riflessione di natura teorica sulle ragioni provvidenziali che muovono la storia. Alla fine del secolo le letture si fanno politiche e gli autori fa-vorevoli alle rivendicazioni dei sovrani di poter disciplinare la Chiesa vedono l’età costantiniana come l’epoca del felice accordo tra pontefice e sovrano

P. Vismara,Costantino

nel ’700 italiano.

Interpretazionistoriche eteologico–politiche.

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L’ambito dotto, i giansenisti pavesi in testa, con Giuseppe Zola e Pietro Tamburini, consideravano l’età costantiniana l’epoca di un per-fetto equilibrio tra potere civile e potere ecclesiastico. Nella loro rifles-sione avvertono la necessità di una riforma della chiesa e la vogliono attuare ritornando a conferire al sovrano il suo potere giurisdizionale in materia ecclesiastica: solo mediante i provvedimenti e le iniziative delle autorità civili si può attuare una riforma religiosa oggi necessaria. Ma certo i gesuiti non stavano lì a guardare. Tra tutti Gaetano Luigi Del Giudice con La scoperta dei veri nemici della sovranità, del 1794. Così, la figura di Costantino nel XVIII secolo resta il riferimento ineludibile all’interno della storia, in cui segna uno snodo epocale. Nel tardo Settecento, però prevale l’interpretazione politica che distoglie molti autori da fini indagini storiche, per spingerli ad assumere Co-stantino e l’Editto come momenti chiave della storia passata, ma utili a confermare o modificare l’assetto dei rapporti Chiesa–Stato nella storia a loro contemporanea e secondo un’interpretazione della figura di Co-stantino quale prototipo di quel buon sovrano visto nei sogni dell’asso-lutismo illuminato.

Pur nella differenza dei temi dibattuti e dei distinguo determinatisi nell’occidente, anche in oriente era maturata una fedeltà alla presenza di Elena e Costantino, accentuata dalla particolare situazione vissuta con l’oc-cupazione musulmana prima e turca poi. Tutti gli elementi storici hanno sempre un peso nella determinazione delle tradizioni e delle credenze. Nel caso dell’oriente tale maturazione di fedeltà è ascrivibile però anche alle modalità con cui le popolazioni hanno guardato ad Elena prima e a Co-stantino poi. Tali modalità sono tutte riconducibili al tema della ricerca e del ritrovamento della Croce, voluti direttamente e fisicamente dalla madre dell’imperatore. Da qui la gratitudine delle comunità cristiane e il fiorire di tanti riti vissuti con devozione e di tante rappresentazioni alimentate dalla pietà popolare e illustrate nelle tradizioni, nei documenti scritti e nelle ope-re di tanti artisti.

Axinia Džurova. I Santi Costantino ed Elena negli affreschi dei Balcani. Com’è noto il culto di San Costantino è direttamente collegato con l’adorazione della Croce e la sua « invenzione » ad opera di Elena, appassionata sostenitrice del Cristianesimo. Dal IV secolo fino ad oggi questi due santi occupano un posto di primo piano nella memoria dei credenti e nel ciclo liturgico ecclesia-stico, con due date che lo scandiscono: 21 maggio; 14 settembre. Per la diffusione del loro culto è innegabile il merito di Eusebio di Cesarea, biografo di Costantino, il fondatore della prima ideologia politica del cristianesimo. I Santi Costantino ed Elena vengono definiti come pari agli Apostoli, mentre Costantino è detto primo basileus dei cristiani, il

NotadelCuratore

A. Džurova,I SantiCostantinoed Elenanegli affreschidei Balcani.

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nuovo Mosè, il nuovo Davide, l’onnipotente Costantino venerato dal mondo, letizia dei cristiani e incoronato da Dio, signore luminoso come l’aurora, padre dei cristiani. Nella liturgia del 21 maggio viene presen-tato come il nuovo Davide. In Occidente il culto di San Costantino è limitato ed entra nel-l’agiografia cristiana insieme con la leggenda del suo battesimo ad ope-ra di Papa Silvestro. Ben più ricco è il culto di Costantino il Grande nel-la Chiesa Ortodossa che lo unisce alla madre Elena. Com’è noto dalle fonti, la figura di Costantino è collegata alla Croce già durante la sua vita, nella sua visione prima della battaglia con Massenzio, al Ponte Milvio. Se tuttavia cerchiamo riscontro a questo episodio nella storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea vi troveremmo soltanto un parallelo con la battaglia di Mosè e dell’esercito del Faraone nel Mar Rosso.

Tutta la ricca iconografia proiettata e commentata da Axinia Džurova du-rante il Convegno, insieme alla relativa documentazione e spiegazione, sarà rinvenibile negli Atti che verranno pubblicati.

Viktor Zhivov. Constantine the Great in Russia from a comparative european perspective.

[La relazione del Prof. Viktor Zhivov, mancato il 17 aprile, è stata letta da F.Braschi]

(Due immagini di Costantino il Grande nella letteratura storica russa dei secoli XIV e XVIII)

Costantino il Grande fu una figura di primo piano nella let-teratura religiosa del Medioevo russo, in primo luogo come fondatore dell’Impero cristiano e in quanto tale come predecessore di Vladimir il santo che aveva convertito la Russia di Kiev al Cristianesimo nel 988. Gli autori russi dell’XI secolo sostennero infatti la santità di Vla-dimir, paragonandola a Costantino e dichiarandolo pari agli Apostoli. I primi esempi di questa strategia sono già presenti nel Sermone «Sulla legge e sulla grazia» del metropolita di Kiev, Ilarione, scritto nel 1047–1050. Il Sermone contiene l’encomio di Vladimir, che con la nonna Olga, paragonata a S. Elena, dalla Nuova Gerusalemme, la città di Co-stantino, aveva portato la Croce nel proprio paese. Si può affermare che nei testi di origine slavo-orientale del periodo più antico la figura del primo imperatore cristiano viene rappresentata in modo sostanzialmen-te conforme alle fonti greche tradotte in lingua slava, come le cronache bizantine di Giorgio Monaco e di Giovanni Malala. La prospettiva in cui queste e altre fonti descrivono la vita e le opere del grande impera-

V. Zhivov,Constantine

the Great in Russia

from a comparative

european perspective

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tore, si può definire, sostanzialmente, ecclesiastica. Così in un conciso Chronicum attribuito al patriarca Niceforo l’atto più importante di Co-stantino è la convocazione del I Concilio ecumenico. La letteratura antica, in particolare l’innografia, risalta il ruolo di C. come scopritore della Santa Croce che era stata ritrovata dalla ma-dre Elena e alla cui invenzione egli partecipò in modo diretto. Nell’in-nografia dedicata alla festa dell’Esaltazione della S. Croce, la scoperta della Croce poteva essere descritta come legata da un rapporto provvi-denziale con la visione costantiniana del labaro alla vigilia della vittoria sull’empio Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio. La visione di C. come predecessore di Vladimir trovò poi eco nella costruzione di genea-logie teocratiche che collegavano i regnanti moscoviti sia a Vladimir che a Costantino. I primi esempi risalgono alla prima metà del ‘400 ma la realizzazione più ampia si trova nell’annuncio delle Pascalia per l’VIII millennio del metropolita di Mosca Zosima del 1492. L’autore ricorda le principali tappe del progresso della fede cristiana e dopo la venuta di Cristo e la predicazione degli Apostoli cita le imprese « del primo Zar ortodosso Costantino, le cui vittorie erano state precedute dalla visione della Santa Croce » e che aveva « sconfitto tutti i nemici e professato la fede ortodossa di Cristo in accordo con le tradizioni degli Apostoli, respingendo come lupi tutti coloro che avevano fatto crescere eresie contrarie alla fede cristiana. ». In tutte queste imprese, egli era stato seguito da piissimo e cristofilo gran principe Vladimir, il quale aveva sconfitto tutti i nemici e professato la fede ortodossa ed era stato chiamato il Secondo Costan-tino. In seguito il nuovo Costantino era apparso nella persona del piissimo e cristofilo gran principe Ivan Vassilijevic, Ivan III, e anche quest’ultimo aveva professato la fede Ortodossa, che era la fede in Cri-sto Dio e respinto come lupi tutti coloro che avevano fatto crescere ere-sie contro la fede ortodossa di Cristo. L’idea sottesa da simili genealogie è abbastanza semplice e lineare. Costantino è stato il primo imperatore cristiano, i pii principi russi ne hanno seguito l’esempio. Il dominio dei potentati russi su altri territori cristiani è giustificato dalla loro pietà cri-stiana e la devozione alla fede ortodossa è la fonte delle loro vittorie. Col tempo queste idee trovarono un naturale sviluppo nella dottrina nella successione degli imperi, in virtù della quale Mosca divenne la nuova città di Costantino, la seconda Costantinopoli. Alla fine del XV secolo la Moscovia si trovò priva di una conce-zione imperiale. La sua espansione aveva fatto sì che essa fosse l’uni-co principato slavo governato da un sovrano ortodosso e inoltre anche l’unico principato ortodosso sulla terra. La piccola e remota Georgia

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non veniva presa in considerazione. Dopo l’annessione di Nižnij Nov-gorod e Pskov, si rese necessaria una riconcettualizzazione dei destini della storia, che in parte era già stata rappresentata dalla rappresenta-zione di Mosca come seconda Costantinopoli. Il medesimo compito fu svolto dalla teoria di Mosca come terza Roma, in entrambi i casi viene applicata l’idea della Translatio imperi e in entrambi i casi le genealogie imperiali esistenti vengono reinterpreta-te e adattate a questo quadro concettuale. L’idea della Translatio imperi non aveva in sé nulla di specificamente russo, dato che numerosi scritti medievali, sia in occidente che in oriente, proponevano la storia come una successione d’imperi. Ciò che rende russa questa concezione è il suo nesso con l’idea della vera fede. Mosca eredita il legato imperiale non perché i suoi sovrani sostengono lo stato imperiale, ma perché sostengo-no la vera fede ortodossa. La giustificazione religiosa non era del tutto assente nei trattati cattolici o slavo-meridionali, ma nel caso di Mosca essa divenne in pratica l’unico fondamento della successione dell’impe-ro. Mosca era la III Roma, perché le due precedenti erano state incapaci di sostenere la vera fede. La prima era caduta a causa dell’eresia, la se-conda era stata distrutta dagli infedeli a motivo dell’apostasia greca. Il fatto di essere l’unico sovrano ortodosso, comportava una sua maggiore responsabilità: se l’aspetto religioso diveniva centrale, di conseguenza si poneva anche il problema del ruolo del clero cui spettava spiegare e purificare la dottrina ortodossa e realizzarla nella vita della Chiesa. In Moscovia la formulazione delle teorie politiche, qualunque cosa s’intenda con questo termine, fu opera di uomini di chiesa poiché in pratica fino almeno all’epoca di Ivan il Terribile non vi furono au-tori di altro tipo. È naturale dunque che essi attribuissero la massima importanza al ruolo dell’ordine spirituale. Il sovrano era considerato il principale difensore della vera fede, ma per svolgere questa missione aveva bisogno di una guida spirituale e lo status di coloro che dove-vano offrire tale guida era un serio problema concettuale. In questo quadro Costantino diventa il modello da imitare e il testo principale in cui l’idea viene sviluppata è il Racconto del Cappuccio Bianco. La parte iniziale di questa storia deriva dalla Donatio Constantini. Il cappuccio bianco, che era il copricapo degli arcivescovi di Novgorod, viene iden-tificato con la tiara donata da Costantino a Papa Silvestro. Dopo aver descritto la guarigione miracolosa di Costantino e il dono al Papa della corona imperiale della tiara, l’autore o gli autori, narrano come i papi successivi cominciarono a detestare il sacro cappuccio e cercarono di distruggerlo, ma furono costretti dalla volontà divina a spedirla al pa-triarca di Costantinopoli. Di qui, per ispirazione divina, il cappuccio fu

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inviato a Novgorod e solennemente accolto dal clero locale con a capo l’arcivescovo Vassilij. Non ci sono dubbi sul fatto che l’opera fu compo-sta a Novgorod, poiché Mosca non viene mai nemmeno menzionata, e si può ritenere che nella versione originaria il racconto fosse diretto a confermare la relativa autonomia e l’importanza della sede di Novgo-rod anche dopo l’annessione della città allo stato moscovita nel 1478. Quanto alla datazione dell’opera, il parere degli studiosi divergono, ma sembra ragionevole ritenere che il testo originario risalga alla fine del ‘400 e alla cerchia dell’arcivescovo di Novgorod, Gennadi. Accanto a dotti russi questa cerchia comprendeva tra gli altri un monaco do-menicano croato, Beniamino, che era venuto in Russia per realizzare l’unità religiosa e politica degli slavi. Una delle maggiori realizzazioni del gruppo fu la traduzione completa della Bibbia, la così detta, Bibbia Gennadiana del 1499, in cui per la prima volta vennero tradotti dal latino e divennero disponibili alcuni dei libri mancanti nelle traduzioni della Bibbia presenti in Russia. Beniamino conosceva senza dubbio la Donatio Constantini nell’originale latino e la utilizzò nel proprio Sermo brevis. Fu dunque lui, forse, a far conoscere il testo agli altri membri del gruppo. L’arcivescovo Ghennadi era stato nominato da Mosca a capo della Chiesa di Novgorod nel 1484, si appassionò alle tradizioni del-la città e potè diventarne un cultore. I suoi rapporti con i metropoliti moscoviti erano tesi e certamente aspirava a divenire capo spirituale della Russia e il Racconto sul Cappuccio Bianco potè essere elaborato in questo ambito allo scopo di rafforzare la posizione della Chiesa di No-vgorod. Tuttavia la leggenda non bastò a proteggere la città e i suoi ar-civescovi dall’arbitrio moscovita: non solo le ricchezze di Novgorod, ma anche il suo patrimonio culturale e sacrale furono trasferiti a Mosca nel corso del ’500 e anche Il racconto del Cappuccio Bianco fu rielaborato in chiave filo-moscovita. In questa nuova versione gli zar russi ereditavano l’autorità di Costantino il Grande e i capi della Chiesa russa, non di Novgorod, quella di Papa Silvestro. In accordo con questo modello i due poteri, secolare e spirituale, si trovarono in armonioso reciproco equi-librio e si integravano a vicenda. Questo rapporto di complementarietà motivò l’instaurazione nel 1589 del patriarcato di Mosca. I metropoliti moscoviti assunsero il titolo di Patriarca in un nuovo universo imperiale in cui i grandi principi di Mosca diventavano Zar. L’atto fondativo del 1589 attribuiva al patriarca di Costantino-poli, Geremia II, un proclama in cui Mosca era dichiarata la III Roma e la fondazione del patriarcato era in stretto rapporto con l’esaltazio-ne dello Zar in quanto unico sovrano ortodosso dell’universo. Il nuovo paradigma imperiale ammetteva una certa flessibilità, prevedeva due

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autorità complementari fra le quali lo Zar aveva la parte più attiva. Era lui il capo della nazione, governava i sudditi, aveva la responsabilità della loro pietà e della purezza della loro fede, ma in questo compito agiva sotto la guida del suo padre spirituale, il Santo Patriarca della Russia. Su di lui gravava l’impegno di seguire l’esempio del prototipo del sovrano cristiano, Costantino il Grande, e di accostarsi con reveren-za e umiltà al proprio padre spirituale. Questo rapporto poteva essere interpretato a favore sia dello Zar sia del Patriarca e ambedue le inter-pretazioni hanno avuto una certa influenza nella storia del pensiero politico russo. In tutte le versioni del Racconto sul Cappuccio Bianco risulta-va evidente lo status particolare dell’impero moscovita e dello Zar: era scelto da Dio per regnare sull’ultimo stato ortodosso, per difendere la fede ortodossa contro infedeli ed empi, per salvare il mondo dalle poten-ze malvage e demoniache. L’esempio di Costantino forniva dunque al pensiero russo le basi per una sorta di concezione di autocrazia divina, ovvero del potere assoluto dello Zar santificato da Dio. È tuttavia possibile anche un’altra interpretazione. Se lo Zar deve mostrarsi umile nei confronti del potere spiritua-le, almeno in qualche senso quest’ultimo gli è superiore. Alcuni studiosi sostengono che Il racconto sul Cappuccio Bianco sia opera, come altri racconti imperiali, di scrittori ecclesiastici e scritto allo scopo di limita-re, più che espandere, il potere del sovrano. Si può concludere che dalla fine del ‘400 alla metà del XVII secolo Costantino il Grande rappresentò in Russia il modello dello Zar Pio, il cui retaggio consisteva nell’obbligo fatto ai sovrani cristiani di rispettare i propri padri spirituali, capi delle loro chiese. Lo Zar aveva una sua missione spirituale: era eletto da Dio per difendere la vera fede, guidare il popolo lungo le vie della salvezza, ma in questo paradigma teocratico la sua attività doveva essere benedetta dal Patriarca. Via via che l’autocrazia russa si rafforzava, verso la metà del XVII secolo, l’umiltà di Costantino verso Papa Silvestro cessa d’es-sere popolare fra i monarchi russi e il paradigma della doppia autorità entra in conflitto con le ambizioni assolutistiche dello Zar. Il Patriarca Nikon avrebbe aspirato a figurare come reincarnazione di Papa Silve-stro, ma lo zar Alexieij Michaijlovic non era così entusiasta di seguire l’esempio di Costantino, facendo da palafreniere al successore di S. Pietro. Questo conflitto raggiunse l’apice durante il regno di Pietro il Grande. Non stupisce che Pietro, che aspirava ad essere il sovrano asso-luto, che abolì il patriarcato e creò il Santissimo Sinodo come vertice collettivo della Chiesa russa, non amasse l’umiltà e non fosse molto desi-

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deroso di fungere da palafreniere per il Patriarca, ci si sarebbe aspettati, quindi, che respingesse la figura di Costantino come modello imperiale. Le cose invece andarono diversamente e Costantino conservò la propria funzione archetipica anche se in una rappresentazione radicalmente rinnovata. La glorificazione di Pietro come nuovo Costantino ebbe una lunga tradizione durante e dopo il regno dello Zar. Ciò che importa però non è tanto il riferimento a Costantino, quanto la nuova funzione di questo imperatore. Nella propaganda petrina, infatti, l’evento princi-pale non furono il I Concilio ecumenico e la miracolosa guarigione ope-rata da Papa Silvestro, ma la vittoria di Costantino su Massenzio. Archi e porte trionfali innalzate dopo le vittoriose campagne dello Zar erano pieni di riferimenti e rappresentazioni delle campagne militari di Co-stantino e proclamavano in modo esplicito l’analogia fra i due sovrani. Dal rito celebrato dopo la vittoria sugli svedesi a Poltava, ad esempio, si proclamava che il nostro Zar, crocifero e secondo Costantino, ha sconfitto il Massenzio svedese e loda Dio con gratitudine. Altrettanto significativo è che tutti gli stendardi dell’età petrina, o quasi tutti, esibissero la croce di Costantino. Qui però si può cogliere un tratto polemico contro la precedente tradizione. La creazione del regno cristiano non è più il risultato di mi-racoli operati dal papa, ma conseguenza delle sagge azioni e decisioni e delle azioni vittoriose dell’imperatore, nello stesso tempo l’imperatore è in rapporto diretto con Dio, il quale gli invia dei segni per rivelargli che grazie ad essi vincerà. È dunque l’imperatore che stabilisce la reli-gione. Le autorità della Chiesa non vi hanno parte. Per cui l’imperatore assume la supremazia e non deve più fungere da palafreniere del papa. Anche in questo modo viene propagandata la concezione dell’autorità dello zar in quanto potere che abbraccia sia la sfera secolare che quella religiosa. È dunque il monarca il vero capo dei popoli cristiani, mentre il papa, o il patriarca, usurpa la sua autorità. Per questa ragione Feofan Prokopovič, sodale di Pietro, argomenta il diritto dell’imperatore a no-minare i vescovi, appellandosi proprio a Costantino, il vescovo comune al di sopra di tutti. L’impero di Pietro era in tal modo presentato come la vera realizzazione dello stato cristiano modello, creato da Costantino isapostolo [«uguale agli apostoli»], mentre, in seguito, quel modello era stato distorto in Occidente dagli intrighi dei papi e, in Oriente, dopo il regno di Giustiniano. Il riferimento di Costantino in un contesto in cui si affermano i poteri imperiali, la subordinazione della sfera religiosa al monarca, con la riforma della Chiesa che ne consegue, è naturale e trova analogie

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di carattere tipologico, ad esempio, nella politica di Elisabetta I d’In-ghilterra o dell’imperatore Carlo V. Pietro probabilmente non conosce-va questi precedenti, ma essi facevano parte del modello assolutistico europeo, in cui lo Zar russo aspirava a inserirsi. Pietro utilizzò dunque la figura di Costantino, per rafforzare il suo diritto ad adattare il go-verno della Chiesa alle proprie riforme politiche. Per far ciò non solo ridisegnò l’immagine di Costantino, liberandolo dai tratti di umiltà e sottomissione cristiane, ma si adoperò anche per eliminare le tracce del precedente Costantino, che risalivano alla Donatio e al Racconto del Cappuccio Bianco. Fin dal 1697 egli aveva cancellato il rito della processione del-l’asinello che si svolgeva nella domenica delle Palme. Nella seconda metà del ‘600, questo rito era percepito come chiara espressione del rapporto normativo tra Chiesa e Stato. Il patriarca a cavallo dell’asino era l’immagine di Cristo nel suo ingresso a Gerusalemme, mentre lo Zar che lo guidava per le briglie simboleggiava l’umiltà o la subordinazione del potere secolare davanti a quello divino. Pietro detestava questo rito che considerava una forma di papismo. Secondo l’imperatore e i suoi seguaci, al patriarca veniva, in quel caso, un onore che spettava unica-mente al sovrano. Per lottare contro quelle che considerava le pretese del clero, Pietro creò una particolare istituzione blasfema, il così detto Concilio ridicolissimo e ubriachissimo, che aveva lo scopo di screditare il patriarcato e la stessa idea di sinfonia fra l’autorità secolare e quella spi-rituale. Il Concilio era guidato da un principe papa o principe patriarca e dal principe Cesare. Testimoni oculari raccontano che quando il personaggio che rappresentava in modo parodistico il patriarca montava a cavallo lo Zar ne reggeva la staffa come avevano fatto, prima di lui, gli zar col vero patriarca. Si tratta chiaramente di una parodia del servizio presta-to da Costantino a Papa Silvestro, che per Pietro andava associato con le odiose pretese di potere del clero russo e in generale egli eliminò ogni rituale associato al Racconto del Cappuccio Bianco, negando tra l’altro ai metropoliti di indossare un cappuccio bianco. Pietro il Grande modificò in modo radicale il paradigma russo medievale del rapporto tra autorità secolare e spirituale, utilizzando a questo scopo la figura di Costantino e accentuando il fatto che l’impera-tore aveva goduto di una doppia autorità e a questo modello poteva con-formarsi lo Zar russo. In tal modo Costantino rimase attuale durante la prima età moderna in Russia e divenne il modello del sovrano assoluto, la cui autorità giustificava l’espandersi dell’autocrazia anche sulla sfera ecclesiastica.

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Edoardo Bressan. Il centenario del 1913 e la Settimana sociale di Milano su ‘Le libertà civili dei cattolici’.

Accanto ai centenari della storia esiste anche la storia dei cen-tenari e i momenti celebrativi riflettono orientamenti e sensibilità di un’epoca che è utile ricostruire, perché rappresentano una fonte privile-giata per la storia delle interpretazioni e della storiografia in argomento. Nel 1913 la celebrazione, in un rapporto davvero singolare fra passato e presente, si carica di ulteriori significati attualistici e politici, in un momento di particolare rilevanza per il cattolicesimo europeo, direi di svolta. Sullo sfondo c’è una questione romana ancora irrisolta. Come ha ricordato anche Massimo Guidetti nel suo recentissimo lavoro, è per questo che Pio X, anche su suggerimento autorevole di Giuseppe Toniolo, indice un Giubileo universale straordinario, al cui centro non vi è però la vittoria di Costantino su Massenzio, ma quella della Chiesa sulle persecuzioni, con la conseguente rivendicazione da parte sua del-la libertà necessaria allo svolgimento della sua azione soprannaturale sulla terra. Sono le parole del pontefice ai pellegrini di tutto il mondo convenuti a Roma il 23 febbraio 1913. Questo è il filo conduttore di tutte le celebrazioni fino alla Settimana sociale di Milano, ma anche all’Assemblea dei cattolici tedeschi che si tenne a Mess nella Lorena, allora tedesca. Entrambi sulle libertà civili dei cattolici. In questo modo un evento che, ancora nella visione di Leone XIII era stato ricordato in relazione al potere temporale come giustificazione del principato civile del pontefice, assume un significato indubbiamente diverso anche se si rimane in una lettura che ha dei tratti apologetici rispetto all’Editto di Costantino, che solo qualche voce discorde in Germania comincia a mettere in dubbio. Del resto l’importanza del Centenario del 1913, con tutto il dibattito particolarmente ampio e ricchissimo a cui ha dato luo-go, non è da mettere in relazione con un esame filologicamente obietti-vo dei dati storici, come ha osservato in questo convegno Marcone. In Italia si era aperta una nuova stagione in cui i cattolici erano chiamati ad assumere un ruolo sempre più importante in campo sociale e ormai anche politico. Dopo gli accordi clerico-moderati che si erano consolidati a partire dal 1904 e, soprattutto, con il patto Gentiloni che porta, in quello stesso 1913, a un accordo elettorale di vasta portata con i liberali giolittiani, destinato a segnare una tappa fondamentale nell’avvicinamento allo stato e nel superamento, almeno de facto, della questione romana, ma pure ad avere effetti di non poco conto sugli equi-

E. Bressan,Il centenario del 1913 e la Settimanasociale di Milano su “Le libertà civili dei cattolici”.

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libri interni al sistema giolittiano. Le elezioni si sarebbero svolte il 26 ottobre e il 9 novembre, poco prima della Settima sociale, con le note e certo improvvide dichiara-zioni del conte Gentiloni al Giornale d’Italia che l’Osservatore Romano si vide costretto a confermare, sul rilievo determinante che quegli accordi avevano avuto sul risultato elettorale. Più di duecento deputati furono ‘gentilonizzati’, come si disse, e questo innescò la crisi di quegli equilibri politici. Al tempo stesso i cattolici sono chiamati a confrontarsi con un quadro europeo e Mediterraneo in fermento, soprattutto all’indomani della guerra di Libia. Si trattava di misurarsi, al tempo stesso, sia con una diversa politica estera dell’Italia, sia con le istanze nazionalistiche sempre più forti. A Milano, nel solco di quella tradizione guelfa richiamata a suo tempo da Giorgio Rumi, il quotidiano cattolico L’Unione, sorto nel 1907 dalla fusione de l’Osservatore Cattolico e della Lega Lombarda, si era trasformato, nel ’12 , ne L’Italia. e dalle pagine dell’Italia, Filippo Meda aveva resa esplicita una posizione di distacco del mondo cattolico dal nazionalismo, ma certo non dai problemi che esso poneva e non sareb-bero mancate contaminazioni di vario genere, come sappiamo. Dopo l’avvio promettente, d’indubbio successo delle Settimane sociali dei cattolici italiani, l’ottava si celebra non a caso a Milano, dal 30 novembre al 6 dicembre, appunto, su questo tema delle libertà ci-vili dei cattolici e rappresenta il punto d’arrivo di una lunga riflessione, che tuttavia si chiarisce proprio in occasione del Centenario e a questo contribuisce il grande rilievo che viene attribuito al Centenario stesso con la costituzione di un Consiglio superiore per le feste centenarie del-la proclamazione della pace della Chiesa, 313-1913. Il Consiglio pubbli-cava un bollettino dal titolo: XVI centenario della pace della Chiesa, il cui primo numero riportava la lettera d’incoraggiamento di Pio X. L’invito del Consiglio è quello di costituire in ogni diocesi comitati locali, con sottocomitati nei centri più popolosi delle province, che preparassero numerosi pellegrinaggi alla eterna città e promuovessero un vero plebi-scito di tutti quanti i fedeli a questa solenne e pacifica dimostrazione di fede. Lo riporta Civiltà Cattolica che di suo aggiunge un suggerimento: Perché oggi dì sono venute tanto in voga le conferenze popolari con proie-zioni luminose, quale argomento o più splendido o più interessante di que-sto XVI Centenario costantiniano, che può dar campo a mettere sott’occhi al popolo, compare suo diletto e utilità tutto quel periodo fortunosissimo e tanto vario che intercede fra l’ultima persecuzione dioclezianea e l’Editto di Milano. Nel ’13 la celebrazione assume un vero e proprio carattere giubilare, con una indulgenza che si può ottennere dalla Domenica in

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Albis alla festa dell’Immacolata, sia nelle basiliche romane, sia in chie-se opportunamente designate dalle singole diocesi. Si possono ricordare altre significative testimonianze a questo riguardo: la nuova basilica di Santa Croce al Ponte Milvio in Roma, come si scrisse, monumento a Cristo Redentore e al suo vessillo di redenzione che in quei campi della Fla-minia brillava per la prima volta vittorioso al sole di Roma, basilica voluta dallo stesso Pio X, per ricordare il Centenario, ed edificata su progetto di Aristide Leonori; ed anche a Milano fra il ’13 e il ’17 viene edificata la chiesa di Santa Croce affidata ai padri stimmatini, su progetto di Cecilio Arpesani e numerosi in Italia e all’estero sono i monumenti, le chiese eretti in questa circostanza. Accanto al dato religioso, l’obiettivo è quello di riaffermare il ruolo e la centralità della Chiesa nel mondo, denunciando la rinnovata e subdola lotta contro di essa che si traduce nella negazione della sua effettiva libertà. Allora, ai tempi delle persecuzioni, chi non voleva ri-conoscere nello stato e nell’imperatore l’arbitro delle coscienze, era un nemico dell’Impero, oggi, chi non voglia riconoscere questo ruolo della Chiesa e del Papa si vede bollato come nemico della patria. Questo legame fra dimensione religiosa e dimensione civile è presente fin dal-l’inizio in tutte le iniziative che sono davvero moltissime. Tra le tante: le feste costantiniane, promosse dall’arcivescovo di Milano, cardinale An-drea Carlo Ferrari e dal vescovo di Parma Guido Maria Conforti. A Par-ma si susseguono una serie di momenti religiosi, conferenze, proiezioni cinematografiche, con un programma che sembra dei giorni nostri, fino al Congresso catechistico diocesano, concluso dallo stesso Ferrari. Per Conforti, il 29 marzo 1913, al di là di un giudizio sulla figura dell’impe-ratore, l’Editto segna la fine di un’epoca, il tramonto del mondo antico, del Paganesimo e l’inizio di un’era novella e di splendore, di gloria pel cristianesimo. L’episcopato lombardo aveva dedicato la lettera colletti-va del 1912 al XVI Centenario dell’Editto di Milano e la libertà della religione nelle scuole, un documento, come sappiamo, steso da Angelo Giuseppe Roncalli, con un significativo accenno alla libertà delle co-scienze, che gli valse qualche problema. L’ottava Settimana sociale di Milano rappresenta il punto d’ar-rivo di molteplici riflessioni, sintetizzato proprio da Ferrari nella serata inaugurale in S. Ambrogio, intorno alla tomba del grande atleta della libertà della Chiesa. Per Ferrari, senza la difesa del patrimonio sacro della religione e della fede, anche la tutela degli altri diritti e interessi inferiori cadrebbe vuota di ogni effetto per la vera felicità dell’uomo, sia dell’individuo, come della società. Il riferimento alle libertà civili dei cattolici emerge soprattutto

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in due interventi molto noti:— la Prolusione dell’arcivescovo di Udine, Monsignor Antonio Anasta-sio Rossi; e— la Conclusione del presidente dell’Unione Popolare fra i cattolici ita-liani, conte Giuseppe della Torre. Entrambe accennano a una possibile soluzione della questione romana. È la prima volta che viene fatto in questi termini e questo pro-voca non poche discussioni. Nasce una polemica sui giornali laici, mi-lanesi e romani. Civiltà Cattolica se la prende un po’ con tutti, partico-larmente con quelli di Roma, cominciando dalla ufficiosa tribuna, sino all’opportunista Giornale d’Italia, il settario e pornografico Messaggero. Civiltà Cattolica se la prende anche son i giornali del trust, accusati di aver avuto una reazione tiepida rispetto agli attacchi di parte laica. In realtà non era così, perché per esempio Filippo Crispoldi aveva pun-tualmente risposto su L’Italia, su Il Momento, su l’Avvenire d’Italia agli interventi di grandissimo interesse e valore scientifico di Ruffini. Civiltà Cattolica glielo riconosce, ma, dice, è troppo poco e dunque è costret-ta, paradossalmente, a ridurre la portata di quelle stesse aperture. Sì, si è parlato di questione romana a Milano, ma proprio per mettere in evidenza l’insostenibilità della condizione del pontefice. In realtà c’è dell’altro, non solo nei due interventi Rossi e Dalla Torre, ma anche nel complesso dei temi affrontati durante i lavori della Settimana sociale, parlando di libertà civili. Per esempio: il diritto al rispetto del primo articolo dello Statuto; la libertà d’insegnamento tema trattato da Randini Tedeschi, vescovo di Bergamo, in cui si riprende il documento dell’episcopato lombardo dell’anno precedente; la libertà d’associazione; la garanzia della proprietà ecclesiastica; la difesa della famiglia; la libertà delle disposizioni testamentarie nei confronti del-le istituzioni di beneficenza —argomento quanto mai caldo— in fase di applicazione della riforma crispina; e poi, il diritto di rappresentan-za delle organizzazioni cattoliche nei corpi consultivi dello stato; altro tema sensibile di evidenti discriminazioni a danno dei cattolici —erano quasi 6.000 le istituzioni economiche escluse dal Consiglio superiore del lavoro e quindi private del diritto comune e che, in gran parte, erano associazioni cattoliche. Tornando ai due interventi, la Prolusione di Rossi sottolinea maggiormente in maniera più esplicita il legame fra la memoria co-stantiniana e il presente, nel solco di una rilettura del 313 non solo indirizzata a un certo scopo, ma anche in armonia con la dottrina tra-dizionale della Chiesa. Rossi dice che l’Editto non fu di mera tolleran-za, perché non solo concesse libertà alla Chiesa, ma pose le basi per il

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suo riconoscimento ufficiale, così come aveva suggerito in un intervento sulla rivista internazionale di scienze sociali Santucci, perché un regi-me di tolleranza può essere accettato dalla Chiesa stessa quale ipotesi più rispondente alle esigenze della società, invece della tesi dello stato confessionale, dello stato cattolico, che resta però tale in ragione del do-vere, da parte dello stato stesso, di conoscere la verità religiosa e di stare sottoposto all’autorità suprema che governa il mondo e con la sua verità lo illumina. Rossi sottolinea puntigliosamente l’utilità sociale di una so-luzione che assicuri un’effettiva libertà alla Chiesa e al Papa. Una so-luzione riconosciuta anche sul piano internazionale: una soluzione che al chiudersi di questo anno costantiniano dev’essere il voto dei cattolici ita-liani, non solo, ma di quanti di sincero amore amano la patria Italiana. Si prospetta una conciliazione a metà strada fra la internazionalizzazione delle quarentigie e un inedito patriottismo cattolico. L’editto di libertà di Costantino fu alba di nuova era di civiltà, la soluzione del problema dell’indipendenza della Chiesa e del Papa sarà alba di nuova prosperità e grandezza e l’Italia con più sicuro e rapido passo correrà le vie delle civiltà, del progresso, della potenza e della gloria baciata in fronte dagli splendori della Croce di Cristo. L’approdo successivo durante la Ia Guerra mon-diale di Rossi ci fa vedere poi come queste parole s’inseriscano in una sua visione, diciamo, non lontana dalle suggestioni nazionalistiche. Nella Conclusione Dalla Torre opera una lettura diversa, ponen-dosi su un piano più storico costituzionale, quindi ponendo innanzi tutto il problema dello Stato. Dice Dalla Torre: si è voluto confondere la sovranità, la laicità dello stato, lo stato sovrano e laico con la patria. Lo si è fatto sulla base di un voluto equivoco, quello d’intendere la laicità stessa come laicismo, aprendo la strada a una prevaricazione del potere civile su quello religioso. In tal modo l’altro desiderio di vedere lo stato non oblioso della fede del suo popolo, tutore della libertà delle sue manifestazioni re-ligiose, scatena l’accusa di voler attentare ai diritti dello stato laico, dalla quale facilmente si discende a quell’altra dei cattivi cittadini i quali ostaco-lano e compromettono altresì le più pure idealità patrie. Dalla Torre riaf-ferma che è dimostrata coi fatti la fedeltà dei sudditi allo stato da parte dei cattolici e che quindi non è possibile immaginare lo stato stesso estraneo alla volontà del popolo che esso impersona, da potersi arbitrare di misconoscere ciò che fu ed è alla base della sua civiltà, lo spirito vivifi-catore della sua storia e delle sue imprese, il principio informatore del suo costume, il genio della sua arte, il fulgido raggio di tutte le sue glorie. Non lo possiamo e non lo dobbiamo considerare così al di sopra della collettività di cui esso è emanazione da poterle imporre un orientamento nuovo da po-ter sconvolgere nonché riformare la vita nazionale, in nome di un principio

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laicista, —e qui c’è un’aggiunta significativa—, violatore di leggi sancite da consuetudini e patti costituzionali, persecutore di libertà e di diritti naturali che non tollerano menomazioni e non ammettono dissuetudini. Proprio la certezza di amare la patria, per Dalla Torre si colloca più in alto, oltre le lotte e i contrasti politici, dà il diritto di respingere questo tentativo di trasformare la patria e lo stato in altrettante istituzioni ostili. E allora se questa solenne affermazione delle nostre libertà e le libertà dei cattolici, dice Dalla Torre, dignitosa si manifestò tutta la fermezza del nostro caratte-re nella giusta e doverosa intransigenza dei principi; manifestò altresì come noi vi aspiriamo nell’orbita della costituzionalità, facendo anzi appello ai migliori ideali cui s’informa tutta la vita del paese. La rivendicazione della libertà e della indipendenza del pontefice da parte dei cattolici è dove-rosa, ma qui si colloca l’apertura finale di Dalla Torre, quella che fece così discutere, in un quadro che non poteva non essere di dichiarazioni autorizzate, come ha osservato il prof. Giuseppe Dalla Torre, nipote del relatore, in una ricostruzione molto puntuale. Le parole di Dalla Torre senior sono molto esplicite, ebbene se come fedeli non possiamo derogare da questo essenziale principio, il quale direttamente si collega con quello delle libertà delle nostre coscienze: come cittadini pensiamo che la pace fra lo Stato e la Chiesa che l’equa soluzione di un sì essenziale contrasto possa sempre avvenire per costituzionale volontà del paese, da parte dello Stato senza che la sua civile sovranità ne sia compromessa. E tale nostra sincera convinzione è anche legittimo augurio, giacché saremmo giustamente fieri e felici di vedere l’aurora di quel giorno in cui l’Italia nostra, per virtù sua, riconciliata con la Chiesa tornerà ad intrecciare le sue glorie a quelle della sua fede e riprenderà sicura la sua missione di civiltà e di progresso cristia-no nel mondo. Qui manca tutta quella potenza che c’era nella relazione di Rossi. E la figura di Costantino? È Dalla Torre che richiama l’attenzione dei suoi ascoltatori: Signori ancora un pensiero, sedici secoli orsono in Milano, Costan-tino Augusto emanava l’Editto per cui cessavano le persecuzioni e le lotte contro il Cristianesimo e ne veniva sancita la libertà. Il suo popolo, il suo esercito, le sue città avevano ormai nei cristiani i migliori cittadini dello stato, le anime più generose, le menti più aperte alle conquiste nuove della nuova civiltà che ringagliardiva improvvisamente il decrepito Impero. Il Principe pio e giusto si decretava così la gratitudine dei con-temporanei, la gloria nella posterità. Il riferimento di Dalla Torre alla volontà costituzionale del pae-se e a una cittadinanza finalmente condivisa, finalmente di tutti, era importante in quell’Italia, in quel momento storico. Sembra indicare

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una strada diversa rispetto a quella della cristianizzazione di un siste-ma di potere. La Costituzione è il quadro di riferimento a cui non si può, appunto, derogare. E la libertà è un orizzonte, a sua volta, irrinun-ciabile. Dopo la prova della guerra sarebbe venuta la stagione del popo-larismo, spenta però troppo presto da un regime di fronte al quale tutto si poteva far valere tranne la lealtà costituzionale. Dalla Torre, da diret-tore de l’Osservatore Romano, nel 1928, lo avrebbe scritto, ovviamente da solo in quella condizione, molto chiaramente. La lettura dunque dell’evento costantiniano come initium liber-tatis piuttosto che come accordo di potere, tuttavia, non era mancata: stava nella Pastorale della Quaresima del 1914 del cardinale arcivesco-vo di Pisa, Maffi: — In Roma si era affermato e proclamato il diritto delle anime alla libertà. Ecco, si tratta di un seme, che più avanti, e su ogni terre-no, avrebbe dato i suoi frutti.

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9. Lectio a due voci: PATRIARCA BARTOLOMEO I CARDINALE ANGELO SCOLA Milano, Palazzo Reale – Sala delle Cariatidi mercoledì, 15 maggio 2013 – 17,30

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9.1. Lectio a due voci: Patriarca Bartolomeo I Cardinale Angelo Scola

Milano, Palazzo Reale – Sala delle Cariatidimercoledì, 15 maggio 2013 – 17,30

I

«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32)

Angelo Card. ScolaArcivescovo di Milano

1. Cristo è risorto! Christòs anèsti! Santità Vi ringrazio infinitamente per avere accettato il mio invito a venire a Milano in visita alla nostra Diocesi. La Vostra presenza è segno, nello stesso tempo, del forte legame che unisce le nostre Chiese e dell’importanza cruciale dell’anniversario che stiamo celebrando: il XVII centenario del cosiddetto “Editto” di Milano.

2. Sempre Cristo si rivolge alla libertà dell’uomo «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Non sembra esagerato affermare che queste parole del Signore Gesù inter-cettano, in modo immediato e sorprendente, l’anelito più profondo che qualifica da sempre il cuore dell’uomo. Se si tiene conto del contesto in cui il celebre versetto si colloca non sfugge però la sua componente altamente drammatica. Nella storia, tra verità e libertà si dà sempre inevitabilmente una tensione. La Verità in senso pieno si offre, e non può non farlo, come assoluta, totalizzante; la libertà, sua interlocutrice propria, d’altra parte, non accetta coercizioni. Dalla semplice apertura che caratterizza spontaneamente il nostro rapporto con la realtà fino ad arrivare all’atto di fede in Dio che si è comunicato in Gesù Cristo, Veri-tà vivente e personale, i diversi gradi con cui la verità si offre all’uomo sempre richiedono l’implicazione cosciente della libertà. L’uomo, in forza della sua dignità, conosciuta sia attraverso la parola di Dio rivelata, sia attraverso la stessa ragione, «ha diritto alla li-bertà religiosa. Tale libertà consiste in questo: che tutti gli uomini devo-no essere immuni dalla coercizione sia da parte di singoli, sia di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana e in modo tale che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua coscienza,

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privatamente o pubblicamente, in forma individuale associata» . Parlando di “materia religiosa” ci si riferisce alla questione de-cisiva del senso (significato e direzione) dell’umana avventura. Senso che ogni visione sostantiva della vita – religiosa, agnostica o atea che si voglia – mette in campo. L’anelito di libertà proprio dell’uomo, costi-tutivamente orientato alla ricerca della verità, esprime il carattere in-violabile della sua coscienza. Essa è un cardine di ogni forma di ordine sociale a misura d’uomo. Il versetto biblico propone un rapporto dinamico con la persona di Gesù che rende pienamente liberi. Esso “merita” paradossalmente la celebre accusa che il grande inquisitore, nei fratelli Karamazov di Dostoievskij, rivolge a Cristo: «Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai ancora accresciuta!». È vero che l’uomo postmoderno spesso mette in questione la possibilità stessa di accedere alla verità. Eppure le parole di Gesù, «co-noscerete la verità e la verità vi farà liberi», continuano indomite a ri-suonare e sfidano, dopo 2000 anni, ogni preclusione e pregiudizio. La capacità di Gesù di interloquire con ogni uomo, in ogni tempo storico, scaturisce dal fatto che Egli sa parlare “al cuore” della persona. Infatti porre la domanda circa la verità e circa la libertà e stabilire quale nesso debba sussistere tra loro, significa andare al centro dell’io, da cui ogni uomo parte per il percorso che lo porti al compimento di sé, cioè alla felicità, in termini cristiani alla santità. La celebrazione dei 1700 anni dal cosiddetto Editto di Mila-no costituisce un’occasione privilegiata per rimettere a fuoco tali que-stioni in se stesse irrinunciabili, connesse con la dimensione religiosa dell’umana esistenza. Lo riconosce acutamente il geniale scrittore di origine ebraica George Steiner: «Potessi soltanto buttare via la zavorra di una visione religiosa del mondo. Potessi soltanto lasciarmi alle spalle quella ‘malattia infantile’» . L’ordinanza positivista che impone alla mente adulta di chiedere al mondo e all’esistenza soltanto “Come?” e non “Perché?” è una censura fra le più oscurantiste. Vorrebbe imba-vagliare la voce sotto le altri voci dentro di noi. Persino al livello del “Come?” non è affatto certo che le scienze maestose troveranno rispo-ste dimostrabili. Per me esiste la pressione assolutamente innegabile di una Presenza aliena alla spiegazione» . Come non cogliere, in ultima analisi, in questa Presenza la forza stessa della verità che interpella l’umana libertà?

3. L’“Editto” di Milano Non è questa, ovviamente, la sede per dar conto – sia pur breve-mente – delle numerose ed accurate indagini che, anche in questi ultimi tempi, hanno valutato la reale portata storica e il significato sociale e politico dell’accordo tra Costantino e Licinio. Si tratta di valutare se quell’evento possa essere assunto come

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uno dei tasselli utili a comprendere l’autentica natura della libertà reli-giosa, che la nostra fede custodisce e ci comunica e che l’umana ragione riconosce e conferma. Per questo occorre fare i conti con una obiezione che ha attra-versato la storia dell’Occidente cristiano e si è riaffacciata con discre-zione, ma anche con tenacia, in questi mesi. L’obiezione è la seguente: l’“Editto” anziché favorire un’idea di libertà religiosa da far crescere dentro le società, ha invece finito col trasformarsi in uno strumento per un legame e un’alleanza tra cristianesimo e potere politico. Nei fatti, avrebbe indebolito – se non snaturato – la stessa fede cristiana, e avreb-be ingabbiato il funzionamento politico e sociale dentro uno schema sacrale. Avrebbe così condizionato in modo negativo lo sviluppo della stessa idea di uomo, delle culture e delle civiltà. Si dice: la storia della recezione dell’“Editto” di Milano più che operare una maturazione nel modo di pensare il rapporto religione-verità permettendo un equilibrato legame tra le religioni e il potere politico, avrebbe prodotto l’imposizio-ne di una forma religiosa sulle altre (dal paganesimo al cristianesimo). Avrebbe così inibito, invece che favorire, la possibilità della nascita e dello sviluppo del concetto di libertà religiosa. Solamente in un periodo più tardo, e grazie a tutt’altri fattori, questa importante dimensione sarebbe riuscita a fare il suo ingresso nella storia delle nostre società.Una simile lettura, pur contenendo talune giuste forme di critica su vicende storiche che in più di un’occasione hanno conosciuto gli eccessi segnalati, non può però essere assunta come la cifra in grado di inter-pretare nella sua globalità la svolta che l’“Editto” di Milano ha avviato dentro la storia dell’Europa e non solo. Importanti tracce di questa originalità sono visibili soprattutto nel modo in cui la teologia cristiana fa suoi i due concetti che stanno alla base anche dell’“Editto” di Milano: l’idea di pace e il modo di pen-sare l’universalità della salvezza. L’idea di pace, anzitutto. Sarà il pensiero di sant’Agostino a fis-sare in modo definitivo la giusta interpretazione che la fede cristiana dà a quella pace cui tende l’“Editto” di Milano. Il cristianesimo non si accontenta di una concezione funzionale e meramente politica di que-sto termine. Sviluppa una declinazione escatologica dell’idea di pace: soltanto la tensione al suo compimento definitivo ne spiega il significato pieno. Questa concezione della pace rende possibile una interpretazio-ne non utopica della storia e dei soggetti che la costruiscono. L’istanza universalistica. Proprio l’“Editto” di Milano spinge il cristianesimo ad elaborare, su basi nuove, il senso della sua presenza nella storia. Favorisce la nascita di uno spazio nuovo, in cui l’individuo è chiamato a scoprire le tracce del disegno creatore di Dio all’interno di un mondo e di una storia che sono consegnati alla libertà degli uomini. Non si può pertanto rinunciare all’affermazione che l’“Editto” sia stato nei fatti «l’initium libertatis dell’uomo moderno» . Quest’as-

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serzione permette di evidenziare come l’accordo tra i due Augusti de-terminò non solo la progressiva cessazione delle persecuzioni contro i cristiani ma, soprattutto – pur nei limiti oggettivi della mentalità del tempo – l’alba della libertà religiosa. Certo, fu un inizio mancato per i tanti motivi che gli storici, con vicende alterne a partire dal 1700 continuano, ancor oggi, a mettere in luce.

4. Alle sorgenti della verità Possiamo a questo punto svolgere qualche considerazione sul tema della libertà religiosa in quanto tale. Essa non comporta l’impo-sizione della verità, ma piuttosto l’accettare che sia la verità stessa, per essere riconosciuta in quanto tale, a chiamare in causa la libertà. In quest’ottica il Concilio Vaticano II, nella Dichiarazione Di-gnitatis humanae, si è occupato della libertà religiosa non in termini generali come libertà morale nei confronti della verità o di un valo-re – tesi essenziale, per altro esplicitamente richiamata dalla celebre Dichiarazione – ma si è volutamente limitato a considerare la libertà giuridica nell’ambito dei rapporti tra le persone e nella vita sociale. Così considerato, il diritto alla libertà religiosa è un diritto negativo che stabilisce i limiti dello Stato e dei poteri civili, negando loro una compe-tenza diretta sulla scelta in materia religiosa. La strenua affermazione e difesa della libertà religiosa dice la centralità e l’inviolabilità della persona umana, la sua dignità, fonda-mento dell’organizzazione sociale. Secondo alcuni le parole della Dignitatis humanae potrebbero ultimamente essere lette come una resa da parte della Chiesa cattolica, non più in grado di mantenere i propri privilegi, alle pretese della seco-larizzazione, siano esse ritenute benefiche o meno. Interpretare in questo modo l’insegnamento conciliare significa subire un clima culturale che non riesce più a pensare la realtà nella sua origine, cioè nell’orizzonte della creazione opera della Santa Trini-tà. Così facendo si ignora la presenza benefica del Dio Uno e Trino, sor-gente della vita della persona, della comunità e del cosmo. A differenza dei nostri fratelli d’Oriente, noi cristiani di Occidente ci siamo spesso rassegnati a non fare più della confessione della nostra fede – basata sul credo che ogni domenica professiamo comunitariamente nella ce-lebrazione eucaristica – il cardine del nostro pensiero. Veniamo colti da uno strano pudore a comunicare l’esperienza che scaturisce dalla nostra fede, nel timore che questo possa minare l’universale solidarietà con tutta la famiglia umana, i cui componenti si riferiscono a visioni diverse della realtà. Eppure l’autentica tradizione ha sempre riconosciuto e afferma-to «quanto viva sia la relazione tra il più inavvicinabile di tutti i misteri [la Santa Trinità appunto] e la nostra vita quotidiana» .

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Il perfetto ed eterno scambio di amore, nello Spirito Santo, tra il Padre e il Figlio da Lui generato apre lo spazio, nel mondo creato – cioè nell’umana esperienza – ad una comunicazione della verità che chiede di essere accolta dalla libertà. Una libertà che non percepisce il legame di dipendenza da Dio in termini di sudditanza, ma in termini di filiazione. L’uomo creato ad immagine della Trinità – come maschio e come femmina, differenza questa interna ad ogni persona – si compie accogliendo la verità che sempre chiede il dono della libertà, come inse-gna la costituzione pastorale Gaudium et spes (N. 24).

5. Trinità e vita sociale Il nesso Trinità, verità e libertà, lungi dal restare relegato nel-l’ambito cristiano illumina anche la vita sociale. E rappresenta un de-cisivo contributo che i cristiani debbono offrire, in quanto cittadini, a tutti i soggetti che abitano la società plurale. Pensare, nelle debite distinzioni, la dimensione personale e sociale a partire dalla Trinità rende più agevole riconoscere, nell’edificazione della società civile, la necessità di un duplice decisivo atteggiamento: «Amore, comunanza di tutto fino all’identità dell’essenza e della vita. Ma, nello stesso tempo, perfetta custodia di sé da parte della persona» . Dalla contemplazione della Trinità emerge una visione dell’uo-mo e della società praticabile da tutti, che supera in radice qualunque pensiero incapace di riconoscere la differenza come un bene e, nello stesso tempo, non rinuncia a quell’unità che è il marchio inconfondibi-le del vero. Dal punto di vista dell’organizzazione sociale ne derivano con-seguenze decisamente notevoli. Infatti, il riconoscimento del bene della differenza permette di combattere l’utopia del collettivismo in cui l’uo-mo si dissolve nello Stato. D’altra parte, non rinunciare mai all’unità come orizzonte necessario di ogni realizzazione sociale mette al ripa-ro dall’utopia dell’individualismo, incapace di concepire la logica del dono necessaria, invece, al bene personale e sociale. La tradizione della Chiesa lo ha ben compreso sostenendo che la giustizia e la benevolenza sono inseparabili nella vita sociale. Così scrive il nostro padre Ambro-gio: «Nulla s’accorda tanto con l’equità quanto la giustizia, la quale, inseparabile compagna della benevolenza, fa sì che amiamo quelli che crediamo uguali a noi (…) Per la benevolenza più persone diventano una sola, perché, se più persone sono amiche e perciò in esse v’è un solo spirito e un solo modo di pensare, diventano una sola persona». E insegna l’enciclica Deus caritas est al n. 28: «L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordi-namento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amo-re. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo». Il servizio della carità fa emergere ciò che è specifica-mente umano ed esalta il necessario ordine di giustizia. Contrasta inol-

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tre la tentazione che più insidia la piena libertà, ben descritta da Eliot: «L’uomo sogna sistemi così perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono» .

6. Il futuro di Milano Queste parole diventano particolarmente urgenti nell’attuale frangente storico in cui l’Occidente è segnato da un doloroso travaglio. In esso si innesta la crisi economico-finanziaria che non cessa di col-pire pesantemente le nostre società e intere nazioni e popolazioni che continuano a subire il terribile flagello della fame, della miseria e della violenza. Si profila in tal modo un compito particolarmente impegnativo per Milano, per la Lombardia e per le nostre terre. Sono chiamate a mostrare la capacità di rinnovare il corpo ecclesiale e quella di edificare un buon tessuto sociale, rispettoso della libertà di tutti. Consegneranno in tal modo alle nuove generazioni, nell’esercizio di una memoria viva, la fede operosa dei padri e, in solidale filìa con tutti, l’eccellente espe-rienza civica delle terre ambrosiane. La celebrazione dell’anniversario dell’“Editto” di Milano cade in un momento storico in cui la Chiesa ambrosiana, insieme a tutte le Chiese del nostro paese, è impegnata in un’opera di trasformazione delle forme di presenza in una società plurale. Il concreto tessuto am-brosiano di vita cristiana è capillarmente radicato nell’esteso territorio della diocesi attraverso l’annuncio esplicito della bellezza, della bontà e della verità dell’evento di Gesù Cristo presente nella comunità eccle-siale. Un annuncio che giunge fino alla proposta di tutte le sue uma-nissime implicazioni antropologiche, sociali e di rapporto con il creato. Lo documentano le reti di accoglienza, di solidarietà, di costruzione di risposte ai bisogni fondamentali, di gestione del legame sociale, di luo-ghi di elaborazione e diffusione di arte e di cultura. «Il campo è il mondo» (Mt 13,38). Le parrocchie, le associazioni, i movimenti sono consapevoli che per i cristiani non ci sono bastioni da difendere, ma vie da percorrere per documentare che Cristo è l’Evange-lo dell’umano.

7. Un cammino comune Santità, l’annuncio della Trinità Santa e della salvezza compiu-ta nel Crocifisso Risorto trova le nostre Chiese unite nel cammino comu-ne dell’evangelizzazione e del contributo all’edificazione di una civiltà del volto umano. Infatti, come Vostra Santità ebbe a dire l’11 ottobre 2012 in Piazza San Pietro, «la nostra presenza qui – e quindi anche quella di oggi a Milano – significa e segna il nostro impegno a testimoniare insie-me il messaggio di salvezza e guarigione per i nostri fratelli più piccoli: i poveri, gli oppressi, gli emarginati nel mondo creato da Dio». E il Santo

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Padre Francesco ribadiva nell’omelia dell’Eucaristia per l’inizio del mi-nistero petrino: «Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!». A questo compito appartiene intrinsecamente la promozione della libertà religiosa sia in Occidente che in Oriente. Sono ben diverse le forme in cui questa libertà viene conculcata. Si va dal martirio come avviene nelle terre del Medio Oriente fino ad interventi giuridici che ne impediscono la piena attuazione come avviene talora in Europa. Promuoverla a beneficio delle nostre società e promuoverla insieme con i fratelli d’Oriente è un dovere che la Chiesa di Milano non intende di-sertare. I cristiani di Lombardia stanno progressivamente rendendosi conto della necessità di un senso di vita adeguato ai grandi cambiamen-ti in atto. Un senso della vita che necessita un approfondimento del-la dimensione affettiva e dell’esperienza del bell’amore, l’accettazione cordiale della società plurale ed il contributo costitutivo alla vita buona e al buon governo. Fattori che implicano un pensiero positivo e deciso della “differenza”. Esso, se rettamente perseguito, non spezza l’unità. Ne è garanzia proprio il mistero del Dio Uno e Trino. Per questo, unendomi alla Sua persona e in considerazione del-la testimonianza e dell’originale riflessione che la Santità Vostra ci ha offerto, credo che possiamo affermare con un cuor solo e con l’umiltà propria di chi sa di non esserne degno, che «la verità ci è venuta incon-tro e ci farà liberi».

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9.2. Lectio a due voci: Patriarca Bartolomeo I Cardinale Angelo Scola

Milano, Palazzo Reale – Sala delle Cariatidimercoledì, 15 maggio 2013 – 17,30

II

Il significato dell’autentica libertà

“Cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos” (Secundum Ioannem, 8, 32)

Patriarca Bartolomeo IPatriarca di Costantinopoli

È per la nostra Umile Persona una benedizione e motivo di gioia trovarci oggi a Milano per i festeggiamenti in occasione dei millesette-cento anni dalla pubblicazione dello storico Editto di Milano, che ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia della umanità. L’Editto ha costituito anzitutto una svolta importante per la vita del suo autore, l’imperatore Costantino il Grande, conducendolo verso la fede cristiana e la vita ispirata dal Vangelo. Ora è tra i Santi ed è protettore e benefattore della Chiesa. Con l’Editto Costantino ha reso il Cristianesimo una religione libera nel grande Impero Romano e ha posto le basi del primo stato cristiano. Ci rallegriamo, dunque, perché ci troviamo con voi, in questo luogo benedetto dai martiri, santificato dalla presenza di tanti Santi della Chiesa cristiana indivisa. Anzitutto il grande Padre Ambrogio, pa-trono della Chiesa di Milano, buon pastore di questa città benedetta da Dio, continuatore dei Santi Apostoli nell’opera dell’evangelizzazione. Ricordiamo poi i Santi martiri Sebastiano, Nazario, Gervasio, Celso e Protaso che con l’effusione del sangue hanno suggellato la loro fede in Cristo, la cui pratica poco tempo più tardi Costantino il Grande renderà libera. Questi cinque Santi Martiri, protettori della città di Milano e in-tercessori verso Dio per i suoi figli, costituiscono anche per noi modello ed esempio per la loro totale dedizione fino alla morte al Capo della vita, il Signore dei vivi e dei morti, il vincitore della morte nostro Signo-re Gesù Cristo. Esprimiamo il nostro compiacimento, perché le sacre reliquie

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di questi martiri, generosamente concesse dal predecessore di Vostra Eminenza e ora custodite nella sede del nostro Patriarcato Ecumenico, rafforzano i sacri legami spirituali con questa Città e Arcidiocesi. Desideriamo innanzitutto ringraziare l’amatissimo fratello in Cristo l’Eminentissimo Signor Cardinale Angelo Scola, che con il suo gentile invito ci ha dato la gioia e la possibilità di partecipare a questi festeggiamenti, con tanto impegno organizzati nella Città in cui fu pub-blicato l’Editto. Come piccolo contributo alla comprensione reciproca, grato per l’onore conferitoci di intervenire ora davanti a voi, esponiamo pochi semplici pensieri sul significato della libertà, sotto varie prospettive, nel-la nostra Chiesa Ortodossa, nella cristianità e nel mondo. Milano festeggia i 1700 anni dalla concessione della libertà di religione e la fine delle disumane e dure persecuzioni causate ai cristia-ni dai seguaci di religioni pagane che adoravano l’immagine di Cesare, il sole, la luna, le stelle, le statue inanimate dei dodici dei demoniaci… Siamo venuti dalla città fondata da San Costantino per onorare solennemente l’anno Costantiniano. L’anniversario dei millesettecento anni dalla pubblicazione dell’Editto o – come altri lo definiscono - del Dogma di Milano, costituisce un’occasione unica per il nostro tempo, nel quale spesso si assiste alla violazione degli elementari diritti uma-ni, per spiegare questa fondamentale eredità di Costantino il Grande, grazie alla quale fu realizzata per la prima volta la fecondazione della legislazione romana con il pensiero cristiano e, inoltre, è stata raggiun-ta una conquista decisiva per il futuro della umanità: il concetto della libertà religiosa. La decisione di Milano ha posto in condizione di parità legale il Cristianesimo, fino ad allora perseguitato, concedendogli libertà religio-sa istituzionalmente registrata. In tal modo fu aperta la via per fondare il primo e unico stato cristiano dell’ecumene, portando benefici cultu-rali e contribuendo all’evangelizzazione del Continente Europeo.

I. Libertà spirituale La deformazione del suo senso nel mondo moderno

Generalmente si considera la libertà un concetto astratto, spe-cialmente nella comunità intellettuale, politica, accademica e culturale senza che se ne evidenzi la profondità del suo mistero. Scrive il Santo Crisostomo: “Libertà è la mancanza di arroganza e va-nità” (Commento della Lettera agli Ebrei, XXVIII, P.G. 63,200). “Que-sto precisamente è libertà, quando anche nella schiavitù brilla, nella schiavitù la libertà si dona” (San Giovanni Crisostomo, Commento alla Iª Lettera ai Corinzi, XIX, P.G. 61,157). Come del resto ha vissuto e testimoniato con la vita, durante questi 17 secoli, il Patriarcato Ecumenico: costretto alla schiavitù secon-

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do il mondo, ma libero, indomito, non soggiogato nel pensiero e nello spirito. L’assoluta libertà che ci ha concesso il nostro Signore Gesù - dono rinnovato nella pratica da Costantino il Grande, con la firma 17 secoli fa qui a Milano insieme al suo collega imperatore Licinio della legge sulla tolleranza religiosa - costituisce un sommo bene spirituale e un inafferrabile regalo di Dio. Il primo uomo, Adamo, fu plasmato da Dio a Sua immagine e somiglianza. Dio ha donato alla Sua creatura il Suo più prezioso dono: essere padroni di sé stessi, cioè della libera vo-lontà e della possibilità di scegliere di appartenerGli o di negarLo. Dio può realizzare tutto, ma non desidera costringere l’uomo ad amarLo. Soprattutto rispetta la libertà dell’uomo. “Dio è amore” (I Gv 4,16), è libero amore verso l’uomo e cerca il libero amore della Sua creatura. E Dio nessuno l’ha visto mai, perché anche l’amore non viene visto con l’occhio nudo, né si manifesta con complimenti, conviti e feste, ma viene vissuto nel cuore, si manifesta nella verità con il sacrificio e la croce di chi ama a beneficio della persona amata. Tramite il Dio-Uomo Cristo e la Sua opera salvifica, Dio ha vo-luto convincere e non violentare; chiamare e non cacciare; amare e non giudicare; liberare e non schiavizzare. Questa libertà occupa, allora, uno posto centrale nella vita del-l’uomo che desidera avvicinare Dio. Durante l’esercizio della Sua opera salvifica nel mondo, il Verbo di Dio incarnato afferma: “A quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32). Questa libertà è un profondo, eterno, incomprensibile mistero. Non può facilmente essere determinata o compresa in un concetto. Durante la nostra epoca, principalmente nei secoli XIX e XX, molti discorsi sono stati fatti sulla libertà e tante guerre combattute per la cosiddetta libertà dei popoli. Questa libertà, essendo spesso separata dal suo Datore primo, il datore di ogni dono, Dio, viene isolata, divinizzata, acquista un caratte-re antropocentrico, diventa onnipotente, causando - fenomeno non raro nella storia della umanità – grandi crimini nel nome di questa libertà onnipotente e antropocentrica. Occorre distinguere la vera libertà della quale parla il Vangelo, e che Costantino il Grande ha realizzato, dalle altre forme di libertà che non costituiscono il bene supremo donato da Dio all’uomo, ma che sono una debole imitazione, o deviano in falsificazioni della vera libertà. Una libertà ingannevole è ad esempio la libertà carnale che sod-disfa i desideri inferiori dell’uomo e le sue esigenze individuali, e gli impedisce di condurlo a Dio, degradandolo ad un livello di esistenza inferiore, istintiva e bestiale, per la quale non fu plasmato da Dio.

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Purtroppo oggi la libertà è ridotta a uno dei beni più “maltrat-tati” nell’umanità, soggetta continuamente all’arbitrio e alle ideologie umane. Gli uomini, soprattutto chi si sente “superiore”, credono di essere liberi quando possono indiscriminatamente soddisfare i propri desideri, compiendo ciò che vogliono quando vogliono, senza limiti, de-cidendo e operando, commettendo ingiustizie nel silenzio di coloro che gli stanno attorno, ammazzando e venendo applauditi: tutto e sempre nel nome della libertà. Oggi, oltre alla crisi economica mondiale e ogni altra crisi, vivia-mo anche la crisi della libertà. Tutti si tormentano sulla terra, tutti protestano, desiderano e cercano la libertà, alcune volte versano anche il proprio sangue per que-sto, ma pochi sono coloro che la trovano e l’acquisiscono; pochi sono quelli che conoscono il contenuto della vera libertà e dove essa si trovi.

II. Il concetto della vera libertà

Però la possibilità dell’uomo di fare ciò che vuole non solo non è libertà, ma, anzi, costituisce la peggiore forma di schiavitù. Lo stesso no-stro Signore Gesù Cristo, nel Santo Vangelo, mostra il significato della vera libertà. Quando i Giudei con stupore chiedono al Signore di quale libertà stia parlando, visto che “siamo seme di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: diventerete liberi?”, Egli risponde in modo molto particolare: “In verità, in verità vi dico: chiun-que commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8, 34-36). Il peccato è la peggiore forma di schiavitù dell’uomo: liberan-dosene si ha il presupposto per l’acquisto della vera libertà. Nessuno è libero, se non nega l’auto-adorazione del suo “ego”, se non supera il suo “se stesso” peccatore, se non vince i suoi desideri e le sue passioni peccatrici. La libertà dal peccato è l’unica libertà reale. Questo sottolinea il Protocorifeo Apostolo Paolo scrivendo ai Romani (6, 22-23): “Ora in-vece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore”. L’uomo è libero quando raggiunge la santificazione e la puri-ficazione totale della sua esistenza. E’ libero proprio secondo il grado della sua liberazione dalle catene del peccato che genera la morte. E’ libero quando nega se stesso a favore dell’altro, quando sacrifica la sua esistenza, le sue aspettative, i suoi “interessi” a favore del suo fratello, del suo amico, del suo prossimo e di Dio. Il concetto e la verità della libertà furono rivelati nel mondo con

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Cristo come incontro del Dio personale con l’uomo personale. L’uomo non può essere autentico uomo se non è in comunione con Dio. Anzi nega la sua umanità quando l’uomo si costituisce come un assoluto, quando nega di sottomettersi alla volontà divina, quan-do nega la legge di Dio (i dieci comandamenti dell’epoca prima della Grazia e principalmente il Vangelo di Cristo); quando ha come criterio esclusivamente se stesso per decidere cosa sia bene e male.

III. L’esempio e la parola di un Santo della Chiesa Ortodossa Dopo quasi 1900 anni dall’incarnazione di Cristo nel mondo, un asceta del Santo Monte Athos, San Silvano, fornisce la misura e la definizione della vera libertà: “La vera libertà è la continua permanen-za in Dio” (Archim. Sofronio, L’Anziano Silvano di Athos (1866-1938), Tessalonica, p. 64). Quanto più ci allontaniamo da Dio, tanto più diventiamo schia-vi delle passioni, delle idee, dei desideri, dei possedimenti, del denaro: così ritorniamo all’idolatria, ad un neo-paganesimo, al “rispetto della immagine di ogni Nabucodonosor”. E ciò nonostante il progresso, i voli nello spazio, i “miracoli” della scienza e della tecnologia e le conquiste “incredibili”. A questa libertà giunse anche Costantino Il Grande e grazie a questa libertà fu liberato dal culto dell’idolo di se stesso, dell’idolo del-l’imperatore, che fino ad allora si adorava come Dio, sottomettendosi invece umilmente alla Volontà dell’umile e mansueto Gesù, di Cui di-venne servitore e discepolo. Di questa vera libertà erano possessori anche tutti i Santi, i Martiri, i Beati e i Giusti della nostra Chiesa, come Am-brogio di Milano e tutta la lunga catena dei Santi fino ai nostri giorni. Lo Ieromonaco Sofronio riporta il contenuto di una conver-sazione dell’asceta atonita San Silvano con uno studente che visitò il Sacro Athos e parlò a lungo della libertà. Silvano, venerato oggi come Santo, rispondendogli così si espresse: “Chi non vuole la libertà? Tutti la vogliono, ma devi sapere dove sta e come puoi trovarla. Per diventare libero devi vincolare se stesso. Quanto più vincoli te stesso, tanto più grande libertà avrà il tuo spirito. Devi incatenare le tue passioni dentro di te per non farti dominare; devi incatenare te stesso per non fare il male al tuo prossimo. Di solito gli uomini cercano la libertà per fare “ciò che voglio-no”. Però questo non è libertà, ma non-libertà, dominio del peccato sopra di noi. Noi crediamo che la vera libertà consista nel non peccare, nell’amare il Signore e il tuo prossimo con tutto il tuo cuore e tutta la tua forza” (Archim. Sofronio, come sopra, pp. 63-64).

IV. L’acquisto della vera libertà con il pentimento e la permanenza in Dio Modello della perfetta libertà è la “kenosis-svuotamento” di Dio

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che ci da tutto e Se Stesso. Questa è la libertà perfetta: “Prendete, man-giate; questo è il mio corpo che viene spezzato per voi in remissione dei peccati”. Egli è al tempo stesso “colui che si offre e la vittima che viene offerta; colui che si dona e il sangue che viene donato” in libertà e total-mente: Cristo, il nostro Dio. Il Signore non vuole la morte del peccatore ma al pentito dona la Grazia dello Spirito Santo. Egli dona nell’anima la pace e la libertà di permanere in Dio sia con la mente che con il cuore. Quando lo Spiri-to Santo perdona a noi i peccati, l’anima riceve la libertà di pregare in Dio e in Lui trova riposo e gioia. Questo è vera libertà. Senza la libertà di Dio è impossibile esistere: i nemici scuotono l’anima con pensieri malvagi.

V. La vera libertà sta nell’amore

Come realizzeremo queste parole, come acquisteremo la vera libertà in un mondo, ateo, pluralista, in cui dominano tendenze nazio-naliste, la violenza, l’ideologia, l’interesse, le frammentazioni sociali, l’incostanza della classe dirigente che muta opinione e parere contra-stando così la sapiente coerenza? La vera libertà si trova nella nostra permanenza in Dio. Come possiamo permanere in Dio per restare ve-ramente liberi quando non siamo coerenti nei nostri atti? Nella lingua greca la parola coerenza significa il valore che ho e possiedo, che non cambio spesso con arretramenti. Troviamo risposta nella voce ispirata da Dio di Giovanni il Teo-logo ed Evangelista: “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (I Gv 4, 16-17). La libertà, allora, si trova nell’amore, nella nostra sottomissione, nel nostro servizio per gli altri. L’Apostolo delle Genti Paolo ci da l’ethos della libertà, con la totale kenosis/svuota-mento dell’uomo a favore dei suoi fratelli: “Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (I Cor 9, 19-22). La Croce della libertà è la Croce dell’amore. L’unica illimita-ta libertà è l’illimitato amore. I Santi lo testimoniano empiricamente. Siamo liberi quando amiamo. Senza l’amore l’illimitata libertà diventa illimitata violenza, oppressione e dissolutezza, come disgraziatamente capita in molte situazioni - anche in quelle ecclesiastiche – dove è entra-to lo spirito di questo mondo, l’immoralità, la rapina, la copertura e la tolleranza dei potenti a situazioni illiberali. Ma Dio vede tutto e inter-viene al momento opportuno con vero giudizio, come “giusto giudice”. La richiesta di vera libertà conduce nel totale amore, l’amore crocifisso e sacrificato. Quindi libertà senza croce non può esistere. “Prenderò una salita, prenderò sentieri per trovare gli scalini che con-ducono alla libertà”, scriveva un quindicenne eroe e combattente della

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libertà, spiegando che presupposto della libertà è la croce, il sacrificio. La via della libertà cristiana è la via della croce e dell’ascesi fati-cosa, della profonda umiltà, del pentimento, della vittoria sopra se stes-si, della negazione di ogni interesse a favore dell’amore. La vera libertà è unita con l’amore, si sviluppa dentro la libertà dell’amore. Cristo è il testimone della libertà e dell’amore, del libero amore tra Dio e uomo. La legge della libertà sarà anche la misura del nostro giudizio fi-nale, che si esprimerà tramite la legge dell’amore. “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, per-ché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato miseri-cordia”, dice il Santo Apostolo Giacomo, il Fratello del Signore (Giac 2, 12-13). Nell’attuale società delle rivendicazioni e dei diritti, l’uomo fa-tica a capire il significato della vera libertà dell’amore: cercando di do-minare i suoi fratelli, da servitore della libertà si trasforma servo di se stesso. Comprendiamo che siamo veramente liberi quando veniamo crocifissi e non quando crocifiggiamo; quando sacrifichiamo i nostri diritti a favore dei diritti degli altri; quando offriamo e condividiamo, non quando rivendichiamo. Vera libertà è nel dare, non nel ricevere.

VI. La libertà come espressione di civiltà e vita e linea direttiva della storia

Con questi presupposti di reale libertà non sussistono motivi re-ligiosi per un violento scontro tra le culture e i principi di Cristianesimo e Islamismo. La recente e nota teoria dell’inevitabile scontro violento tra queste civiltà non trova fondamento su veri motivi religiosi. Se le aspirazioni delle nazioni o fattori geopolitici conducono a conflitti tra popoli musulmani e cristiani, se le religioni si mettono al servizio dei po-litici per rafforzare l’idea della diversità, dell’ostilità di un popolo verso un altro, ciò non ha alcuna relazione con la vera natura della libertà. Del resto le guerre e tutti gli atti di inimicizia tra gli apparte-nenti alla medesima religione e alle sue variazioni, come gli Ortodossi di Serbia e i Romano-Cattolici di Croazia, i sunniti e sciiti musulmani, testimoniano che le cause reali di questi conflitti non sono le divergenze sul concetto della libertà, ma rivendicazioni riferibili ad altre questioni pratiche. Ciò diventa ancor più evidente nei casi di conflitto tra popoli che appartengono precisamente alla medesima fede religiosa, fenome-no che spesso si manifesta nella storia fino ai nostri giorni. Il modo fondamentale per appianare ogni differenza etnica, eco-nomica, ideologica e di altra natura è lo sviluppo di dialoghi seri e in buo-na fede tra le parti, vivendo il dono divino della libertà quotidianamente e con coerenza in ogni ambito. E ciò vale specialmente per i capi reli-

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giosi. Altrimenti Dio permetterà catastrofi, distruzioni e insuccessi nelle nostre opere a causa del cattivo uso del dono della libertà e dell’amore. La vera libertà dissolve pregiudizi, contribuisce alla compren-sione reciproca e prepara il terreno per trovare soluzioni pacifiche di tutti i problemi. Ma la più importante conseguenza della libertà è che avvicina e rivela la vera personalità di chi dialoga. È la libertà con la quale Cristo ci ha liberato a costituire l’oc-casione per superare i nostri limiti anche nel comprendere il punto di vista del nostro interlocutore. Questo libera lo spirito dall’unilateralità dell’approccio. In questa apertura verso la percezione dell’altro c’è un pericolo e sta nel pensare che il confronto con l’altro metta in discus-sione i fondamenti stessi della nostra fede. Non esiste più grande peri-colo del valutare che il nostro edificio spirituale risulti indebolito dalla considerazione che la bellezza e la perfezione dell’edificio del nostro interlocutore siano migliori delle nostre. Molti uomini sono talmente legati alle proprie convinzioni da decidere di sacrificare la propria vita piuttosto che cambiarle. Da loro si leverà perciò la domanda se così noi proponiamo l’instabilità e il facile mutamento della fede. Non proponiamo ciò. Proponiamo invece l’approfondimento, la continua e più profonda infiltrazione nella veri-tà. Colui che approfondisce questa affermazione constata che spesso le idee che gli sembravano fino ad allora contraddittorie si accordano fra di loro. Il Vangelo ci mostra un esempio: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà” (cfr. Mt 16,25). Chi vuole salvare la sua vita deve ac-cettare di sacrificarla, perché la vita si guadagna quando viene sacrifi-cata e non quando con pusillanimità e con la paura di perderla viene custodita dai pericoli. La contraddizione è evidente, e l’accettazione di questo schema di antinomia contraddice il ragionamento di chi rimane rigido. E’ quanto testimoniano coloro che hanno vissuto nei campi di concentramento: gli amanti della propria vita - quelli che tentavano cu-stodire se stessi dai pericoli - perdevano la lotta con l’esistenza, mentre sopravvivevano coloro che volontariamente accettavano il sacrificio. Nel profondo dell’animo di quel padre palestinese - che anni fa ha donato ad un ospedale israeliano gli organi del suo giovane fi-glio ucciso dagli israeliani, affinché fossero trapiantati in un giovane malato senza distinzione, sia israeliano che palestinese - ha brillato un luminoso raggio di luce che gli ha rivelato la verità: tutti gli uomini sono fratelli, malgrado in molti oggi disgraziatamente credano di essere radi-calmente diversi dagli altri e di non potere convivere pacificamente con loro. Come notte e giorno sono un’unica e medesima cosa, perché non sono un’unica e medesima cosa greco, italiano e giudeo, servo e libero, uomo e donna, uomo e uomo di qualsiasi tribù, lingua e religione?

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VII. Il libero spirito greco antico

I greci antichi si sono distinti per la loro capacità di ricevere dal prossimo conoscenze e idee e di valorizzarle senza il timore di degrada-zione o disprezzo. L’altissimo sviluppo dello spirito greco antico durante l’epoca classica si deve anche a questo incrocio voluto tra le loro idee e quelle di altri popoli e civiltà, fondendo con discernimento ammirabile in un nuova sintesi tutto il bene incontrato fuori dall’Ellenismo. Questa libertà di spirito si trova alla base di ogni progresso spi-rituale. Noi crediamo che dove esiste lo Spirito di Dio lì stia la libertà. Il pericolo che soffre la libertà spirituale è di non considerare i beni che essa offre. Purtroppo, come abbiamo già detto, in molti costruiscono un castello spirituale e ideologico dentro il quale si chiudono per assicurare la propria integrità spirituale. Malgrado questo sforzo, comprenderan-no con il tempo che quanto più si cautelano contro l’ingresso nello spi-rito di nuove idee, tanto più “angosciosa” diventerà la loro vita, perché l’infiltrazione delle idee è talmente forte che nessun ostacolo ne può impedire l’ingresso nei cuori degli uomini. Occorre chiarire che l’approfondimento nella verità della libertà non ha come conseguenza obbligata il cambio di religione, come viene sostenuto oggi da molti. E’ possibile che in alcuni casi capiti, e il diritto di ognuno di cambiare fede deve essere rispettato. Ma parlando di ap-profondimento noi intendiamo il miglioramento del modo di pensare e di comprendere, quindi la più chiara conoscenza della verità nella libertà. Nella lingua ecclesiastica greca usiamo la parola “metanoia”, che esattamente significa cambio della mente, della mentalità, opera-zione necessaria, secondo i Padri della Chiesa, vicina al pentimento. “Nel pentimento sincerità, nel pentimento libertà”, dice San Giovanni Crisostomo (Sul Pentimento, VIII, P.G. 49, 338). In questo cambio di mentalità contribuisce molto la conoscenza e l’aspirazione della vera libertà: speriamo che tramite l’anniversario che stiamo festeggiando raggiungeremo un migliore approfondimento almeno di quelle verità che facilitano la pacifica convivenza degli uomi-ni. Perché le differenze tra gli uomini sono minori della differenza del giorno dalla notte, in ogni caso.

VIII. Il vissuto della vera libertà tra Cristiani e Musulmani

Di particolare attenzione necessita lo sviluppo dei temi che si riferiscono alla situazione dei cristiani nei paesi musulmani e dei mu-sulmani in quelli cristiani. La situazione dei cristiani in alcuni paesi musulmani ha bisogno di importanti miglioramenti per consentire li-bertà e possibilità analoghe a quelle che i musulmani godono nei paesi cristiani.

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C’è bisogno di procedere verso questa direzione abbandonando le angosciose ferite del passato. La storia ha registrato comportamenti di popoli e governi cristiani non compatibili con il Vangelo, come anche di comportamenti di popoli e governi islamici non in accordo con il Co-rano. E’ tempo di fare come dice il Signore. Di convergere tutti verso ciò che comanda per tutti la volontà di Dio. Chi ha grazia nel cuore speri-menta che Dio misericordioso e pietoso non si compiace delle stragi ma della pace, altissimo bene e dono divino. Cristiani e musulmani gioisco-no reciprocamente della parola di pace che si identifica con la libertà.

IX. Il comportamento della Chiesa Ortodossa di fronte alla cura per la libertà e i diritti dell’uomo.

Certamente tutto detto quanto fin qui non sottovaluta le conqui-ste e i progressi delle società umane riguardo alle libertà e ai diritti del-l’uomo. Queste conquiste hanno come inizio l’Editto pubblicato 1700 anni fa in questa storica Città. Perciò avete e abbiamo diritto di esaltare l’atto e le conseguenze scaturite dall’Editto. La preoccupazione che l’uomo sia sostenuto di fronte a ogni in-giusta oppressione e privazione della sua libertà - espressa anche dopo la Rivoluzione Francese con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” – per il Cristianesimo non è nuova cosa ma è contenuta nell’insegna-mento divino-umano sulla terra, di duemila anni fa, di Cristo e dei suoi Santi Apostoli (nei Sacri Vangeli e negli scritti dei Padri Teofori). E questa preoccupazione non può che avere l’approvazione del-la Chiesa. Ma la democrazia per la Chiesa è legale solo quando dice la par-tecipazione del popolo alla nomina dei capi e del governo, rispettando i diritti di Dio e le leggi divine. La pretesa della nazione di auto-deter-minarsi come il supremo fondamento dei canoni che ispira e istituisce le leggi, non può essere accettata dalla Chiesa, ma viene bocciata come pretesa luciferina che conduce l’uomo alla sua auto-distruzione. Per la Chiesa ogni sforzo per l’acquisto della libertà deve essere rivolto in primo luogo verso l’uomo interiore e dopo essere esteso agli altri. Per la Chiesa Ortodossa l’uomo reca intera la responsabilità di lottare per la realizzazione dell’aspetto positivo della libertà nella sua persona, di diventare ogni giorno autenticamente libero, negando sé stesso e la sua tendenza al peccato. Tutti i movimenti umani che hanno tentato di raggiungere la libertà fuori da Dio, senza Cristo, alla fine non solo sono falliti, ma han-no avuto anche conseguenze catastrofiche per l’umanità. Non si deve dimenticare che alla Rivoluzione Francese del 1789, con le sue dichiarazioni progressiste, hanno fatto seguito le stragi degli anni 1792-94 e i milioni di morti delle guerre napoleoniche. Non si deve dimenticare che alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia sono seguiti

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milioni di vittime delle persecuzioni staliniste e dei terribili campi di concentramento in Siberia. Purtroppo non sono solo il fondamentalismo e l’odio religioso a privare l’uomo dei suoi basilari diritti. È anche la sete di libertà senza Cristo, la libertà immorale che alla fine diventa prigione. Questa sete di libertà non troverà il suo compimento se l’uomo Europeo non si ricolle-gherà con l’eredità cristiana di Costantino Magno, grande e santa per-sonalità che ha tracciato un segno nella storia del mondo, come solo un santo poteva fare. Quando i popoli dell’Occidente cercano fondamento alla morale e al diritto solo nell’uomo e nella nazione dimenticando Dio, allora anche i diritti dell’uomo rimarranno semplici dichiarazioni sulla carta. La stessa cosa succede anche oggi in Medio Oriente. Rivoluzioni, rovesciamento di regimi, guerre per richiedere più libertà e l’instau-razione della democrazia. Malgrado ciò i risultati non sono positivi e alcune volte molto scoraggianti. La violenza religiosa, l’odio, la mancanza di tolleranza di fronte ai cristiani, continuano a dominare in Paesi teatro di rivoluzioni. Gli eventi politici che accadono nel Medio Oriente - luoghi attraversati da Dio - le catastrofi naturali, l’insicurezza verso il futuro, minacciano i cristiani, la loro vita loro e quella delle proprie famiglie. In Siria i cri-stiani di ogni confessione, chierici e laici, malgrado i grandi sforzi che compiono per rimanere neutrali nel conflitto civile, malgrado la loro vita tranquilla e pacifica, vengono provati e minacciati quotidianamen-te con sequestri e omicidi. Il Patriarcato Ecumenico condanna senza dubbi queste e ana-loghe situazioni. Lontano da ogni posizione politica riproviamo - come capo spirituale e Patriarca Ecumenico - l’uso della violenza e le perse-cuzioni dei cristiani soltanto e solamente in quanto cristiani. Non abbiamo timore di quelli che usano la violenza contro i cristiani, perché la Resurrezione del Signore ha vinto anche la morte. Come cristiani non abbiamo paura delle persecuzioni, perché le per-secuzioni sono la pagina d’oro della storia della nostra Chiesa, hanno esaltato santi, martiri ed eroi della fede. Ma anche non cessiamo di espri-mere verso la Comunità Internazionale la nostra protesta, perché 1700 anni dopo la concessione della libertà religiosa con l’Editto di Milano, continuano in tutto il mondo, sotto molteplici forme, le persecuzioni. Facciamo quindi appello a tutti affinché prevalga la pace e la sicurezza tanto nel Medio Oriente - dove il Cristianesimo tiene i suoi più venerabili e antichi santuari e dove la tradizione cristiana è tanto profonda e collegata con la vita del popolo - quanto in tutto il mondo, dove viene calpestata la libertà della fede in Cristo con il pretesto del terrorismo, delle guerre, delle oppressioni economiche e in molti altri modi. Situazioni che si correggono solo con personali autocritiche, con la Grazia dello Spirito Santo. Tutto questo condanniamo, proclamando

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la libertà in Cristo. La libertà è per il cristiano modo di vita. La più elevata libertà è la purezza della nostra mente e perfetta libertà è la purezza del cuore. Questa è la libertà di Dio che ha le sue radici, la sua pienezza e la sua perfezione nella libertà dell’uomo. La libertà dell’uo-mo è la libertà di Dio. L’Editto di Milano costituisce un momento culminante nella vita dell’umanità e per il nostro travagliato mondo è speranza per un doma-ni migliore. Ed è al tempo stesso un suggerimento affinché il mondo comprenda che può raggiungere la sua reale libertà soltanto in Cristo. Testimonia San Giovanni Crisostomo, Lui che ha servito nella libertà: “Chi non cerca la gloria, già da ora riceve il premio; di nessuno è servo, ma libero nella vera libertà” (Commento a Giovanni, 73, P.G. 59, 349). Amen.

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10Basilica di Sant’Ambrogio a Milano

Celebrazione ecumenica

presieduta dal Patriarca di Costantinopolie dall’Arcivescovo di Milano

Milano 16 maggio 2013

Testi della riflessione del Patriarcae dell’ omelia dell’Arcivescovo

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Riflessione

di Sua Santità

Il Patriarca Ecumenico K.k. Bartolomeo

durante la Preghiera Ecumenica nella Basilica Di San Ambrogio

(16 Maggio 2013)

“Ha spiegato la potenza del suo braccio: ha rovesciato dai troni i potenti e ha innalzato gli umili, il Dio di Israele. Da Oriente e dall’alto siamo stati visitati, Egli ci ha elevato nella via della pace” (Irmòs IX del Canone del Giusto Lazzaro).

Eminentissimo Fratello nel Signore, Signor Cardinale Angelo Scola,

Fratelli Vescovi, figli e figlie amati nel Signore,

Veramente il Signore ha “spiegato la potenza del suo braccio”: così noi possiamo camminare - come Chiesa e come umanità – in que-sto anno nel quale si compiono i 17 secoli dalla promulgazione del-l’Editto di Milano. Rendiamo gloria al nostro Signore Risorto Cristo Gesù ed inneg-giamo alla “Sua forza incomparabile”, perché “morto per il peccato è risuscitato, secondo la Sua parola, il creatore di tutte le cose”. Siamo venuti dalla Città di Costantino - che il Santo Re ha fondato e ha reso degna di essere la Nuova Roma - nella storica città di Milano, nell’anti-chissima Basilica del Santo Vescovo Ambrogio. “Il mondo passa e anche la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà del Signore rimane in eterno!” (1 Gv. 2,17). Se analizziamo attentamente il passo sacro appena citato, se al tempo stesso gettiamo uno sguardo fugace alle tavole della storia universale, ci accorgeremo di come molti potenti “secondo il mondo”, rimasti ingabbiati in una visio-ne materialistica dell’esistenza, dedicati al piacere di una vita agiata e voluttuosa, si siano ben presto eclissati dalla memoria storica ed il loro ricordo si sia perso definitivamente come una lontana eco. Al contrario, quando il “braccio” del Signore, alto e potente “ac-consente cose buone”, persone insignificanti secondo il mondo - quali ad esempio coloro che trascorrono la vita da eremiti perseverando nella preghiera - ma anche dei Santi agli occhi del mondo come il fedele Re Costantino, divengono strumenti della Divina Provvidenza e seguaci del Signore Gesù, non vengono consegnati all’oblio umano. Non solo:

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un numero incalcolabile di cristiani si onorano del loro nome, un gran numero di templi sono innalzati in loro onore e – soprattutto - la loro mediazione e intercessione per l’uomo smarrito rimane forte e certa. Costantino il Grande si è umiliato e negata l’irragionevole uguaglianza a Dio che gli imperatori romani si attribuivano, ha prefe-rito più di tutto la croce del Signore, il cui segno aveva visto nel cielo a mezzogiorno, prima della battaglia. Così ora riscuote la gioia piena e la gloria nello stesso luogo in cui si trova il Corpo risorto, incorruttibile e glorificato del Dio-Uomo, il Signore Gesù. Non nella Costantinopoli corruttibile e terrena, ma nella Città celeste dei primogeniti, insieme a coloro che hanno vissuto la verità evangelica col martirio, sia secondo il sangue, sia secondo lo spirito. Proviamo oggi tutti una grande gioia incontrandoci in questa Basilica, dove sono custodite le venerate reliquie di Sant’Ambrogio, da-vanti alle quali avremo la benedizione di pregare. Pastore di questa Città più di sedici secoli fa, Ambrogio rap-presenta – per tutti coloro che hanno sperimentato il peso della guida pastorale del popolo di Dio - un esempio: prima della sua ordinazione a vescovo nella veste di autorità civile, poi come Pastore sempre disponibi-le alle richieste di tutti: giusto, indulgente, schietto, imitatore di Cristo, amante dell’ “opera di Cristo”, come scriveva e testimoniava con la vita. Sant’Ambrogio di Milano e l’imperatore Costantino il Grande hanno in comune Cristo, l’amore, l’abnegazione, e in quelle circostan-ze in cui una questione ecclesiastica o umana risultava complicata, non esitavano a scegliere e a proporre un’unica soluzione: il sacrificio. Vostro illustre predecessore - Eminentissimo Fratello Cardinale - Sant’Ambrogio proclamava e credeva che “la Chiesa non subisce mai danno quando vince l’amore”. Dalle sue labbra sgorgava nettare di vita immortale che per grazia rallegrava e deliziava la Chiesa di Cristo.

Fratelli nel Signore, Sono passati 1700 anni dall’epoca in cui a Milano Costantino il Grande ha dato ai cristiani la libertà di credere in Dio. In quel significativo momento storico, l’umanità ne ha tratto grande beneficio: per la prima volta la libertà religiosa è stata sancita come legge di un Impero, quello Romano, che allora influenzava le sor-ti del mondo conosciuto. Sono state così poste le fondamenta di quelli che poi sarebbero divenuti i “diritti dell’uomo”. Oggi, nonostante gli apparenti progressi circa il rispetto dei di-ritti umani, le persecuzioni contro i cristiani non sono cessate. Con grande afflizione vediamo anche oggi cristiani di tutte le confessioni perseguitati in molti luoghi, ritenuti nemici della società e dello stato, non tollerati da un gran numero di paesi e legislazioni, costretti a bere il calice dell’amarezza e spesso del martirio: tutto per il solo fatto di essere cristiani.

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Ma gli eventi dell’umanità e il corso del mondo, le guerre e i di-sordini, l’ingiustizia e la mancanza di sicurezza personale non ci fanno paura. Il Signore insegna: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perse-guiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricom-pensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi” (Mt. 5, 11-12). E “se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv. 15,20). Nella speranza che il Datore di Luce illuminerà tutti, non ces-siamo di pregare, di augurarci e di chiedere che tutti comprendano che la rappacificazione, la riconciliazione, la tolleranza, la mitezza, la cle-menza - virtù che onoravano Sant’Ambrogio - possano avere riscontro positivo nella società, con le parole e con i fatti. Fino a quando questo non accadrà, la Chiesa di Cristo non ces-serà di generare martiri, essendo Chiesa di eroi e atleti nella fede del Signore. E non cesserà di generare martiri nello spirito. La realizzazione dell’unione degli uomini tra loro e con Dio - scopo dell’esistenza della Chiesa come organismo teandrico, militante sulla terra, come Corpo di Cristo - è così necessaria, che questo deside-rio diventa una richiesta di tutti gli uomini, fin dall’antichità. Richiesta che trova il suo significato reale nella fede rivelata in Cristo. E nella Chiesa: divisa e ma cammino verso l’unità, secondo il comando del Signore. La mancanza di comprensione, il vivere l’amore solo a parole, le antipatia e le calunnie, “la menzogna e satana”, come la definiscono i Padri (cioè il “non rimettere ai debitori”), ci impediscono di osservare i comandamenti e di accogliere il lieve “giogo del Signore”, l’unione della Chiesa e del mondo.

Fratelli miei,

cerchiamo di non aver paura di resistere alla corrente della glo-balizzazione distruttiva e agli attuali stili di vita materialistici: vivia-mo secondo i comandamenti del Santo Vangelo comportandoci con saggezza e in santificazione continua. Imitiamo Costantino il Grande e Sant’Ambrogio, le cui reliquie sono custodite in questo Tempio “per rallegrare e deliziare“il nostro cuore, noi che siamo radunati per an-nunciare “quello che vi accadrà nei tempi futuri” (Gen. 49,1). Amen.

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Omelia

dell’Arcivescovo di Milano

Angelo Card. Scola

durante la Preghiera Ecumenica nella Basilica Di San Ambrogio

(16 Maggio 2013)

La preghiera di Gesù al Padre non può essere ascoltata a pre-scindere dal contesto in cui l’Evangelista Giovanni ce la riporta, quello dell’Ultima Cena, dei drammatici eventi che precedono la Pasqua del Signore. Le prime parole di Gesù ne rimarcano il carattere cruciale: «Padre, è venuta l’ora». Sono parole che racchiudono in estrema sin-tesi le verità essenziali della nostra fede: la Trinità e la Pasqua, cioè, l’Incarnazione redentrice che si compie nella morte e risurrezione di Gesù.

Padre: ogni cosa ha la sua origine dal Padre, principio senza principio. Da Lui eternamente è generato il Figlio. Questi a Lui si dona eternamente nello Spirito. Vita eterna di eterno amore, la Santa Trini-tà ha voluto, in modo del tutto libero e gratuito, rendere partecipi gli uomini della propria comunione di amore, amandoli nel Figlio prima della creazione del mondo. Ogni cosa, infatti, esiste in questo e per que-sto disegno di benevolenza gratuita.

L’Ora di Gesù: è l’ora della Sua morte e risurrezione. L’ora della Sua consegna propter nos homines et propter nostram salutem. L’amore della Trinità non è solo all’origine, ma è la sorgente perma-nente di ogni istante della storia. E, in modo ineffabile, è la sorgente dell’obbedienza del Figlio: Gesù, il Verbo eterno che ha assunto la na-tura umana per redimerla, ha obbedito, cioè ha voluto umanamente ciò che divinamente la Santa Trinità ha gratuitamente deciso, la nostra salvezza.

Noi, che abbiamo ricevuto il dono inestimabile del Battesimo, siamo resi partecipi della Vita divina in forza dell’obbedienza umana del Figlio e della benevolenza divina della Trinità.

Partecipi della Vita divina: si comprende allora che la preghiera per l’unità che Gesù pronuncia nel frangente particolarmente solenne

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dell’Ultima Cena, sia molto più che un’esortazione morale.

Quell’unità – come Tu Padre sei in me e io in Te – è il dono a cui partecipiamo in forza della nostra incorporazione sacramentale a Cristo. Un’unità a cui siamo quotidianamente conformati attraverso la partecipazione alla Santa Eucaristia. Da qui scaturisce quell’amore ai fratelli uomini così ben descritto dal quinto inno bizantino preceduto dal Gloria: «Diciamo fratelli anche a quelli che ci odiano; perdoniamo tutto a causa della risurrezione».

Per questo ogni giorno siamo più consapevoli della ferita che implica la mancata unità tra i cristiani. Essa dice la nostra fragile acco-glienza del dono della Trinità che ci precede.

La nostra preghiera, pertanto, non può che essere supplica ar-dente perché lo Spirito porti a pienezza il disegno del Padre compiutosi in Cristo. Tutti noi siamo al servizio di tale disegno. Come ha voluto ricordare la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium del Concilio Vaticano II: «La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fonda-tore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnega-zione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno per-fetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria».

Questa brama sia la nostra preghiera. Amen.

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11. Un appunto bibliografico. ” 73

All’interno della Biblioteca Ambrosiana sono custoditi manoscritti, stampati, pergamene, incisioni, che costituiscono un vasto patrimonio per chi volesse addentrarsi nelle questioni storiografiche e bibliogra-fiche che la svolta di Costantino pose nella sua epoca e in tutti i seco-li successivi, sino ai nostri giorni. È un patrimonio documentale che abbraccia un arco di tempo secolare e che risulta aggiornato sino alle pubblicazioni scientifiche più recenti. Qui di seguito se ne dà un elenco suddiviso per descrizione fisica delle voci bibliografiche, manoscritti, pergamene, etc, ma se ne riporta anche ogni segnatura, per agevolare l’eventuale consultazione in biblioteca, sia per gli studiosi, sia per il pubblico più vasto, interessato ad arricchire le proprie conoscenze su un evento storico così rilevante come quello che per la prima volta ha aperto all’umanità concretamente l’esercizio della libertà religiosa, di-venuto a sua volta fondamento per rivendicazioni ulteriori di altre liber-tà da riconoscersi in ogni società, in ogni tempo, ad ogni essere umano.

Stampati:

1. Accademia Ambrosiana, Classe di Slavistica, La figura di Costantino imperatore e l’ideologia imperiale nella storia culturale, religiosa, civile dei paesi slavi, Milano, Biblioteca Ambrosiana, 2013, XIV, 216 p., 24 cm, 2013, Slavica Ambrosiana, 4. — Coll. RIV.732 — RIV. 732/B — Contiene 12 titoli:

1. Introduzione, di Francesco Braschi; 2. La situazione linguistica nello spazio transimperiale della Slavia ieri e oggi,

di Christian Voss;3. La figura di Costantino fra Russia e Italia, fra slavistica e comparatistica, di

Maria Pliukhanova;4. La diffusione del cristianesimo fra le donne in epoca costantiniana, di Ru-

men Boiadzhiev; 5. Costantino il Grande: l’immagine del primo imperatore cristiano nella letteratu-

ra liturgica bulgara medievale, di Vassja Velinova e Marjia Jovčeva;6. Constantine the Great in Medieval Bulgaria, di Roland Marti;7. Il Sermone panegirico dei santi Costantino ed Elena del patriarca di Tar-

novo Eutimio e l’ideologia del potere nella Bulgaria medievale, di Krassimir Stantchev;

8. Constantine the Great as a cultural Icon in the spiritual Tradition of the Ohrid and Prespa Region, di Maja Jakimovska-Toshich;

9. Costantino il Grande nella letteratura serba antica, di Aleksander Naumow; 10. Postać Cesarza Konstantyna Wielkiego w O znalezieniu drzewa kzyrza

świetego Piotra Skargi, di Aleksander Wojciech Mikolajczak;11. La Cavalcata di Costantino nella Moldavia di Stefano il Grande e la ripresa

dell’immagine nella Mosca della zar Ivan 4, di Cesare Alzati; 12. Two images of Constantine the Great in Russian Historical Writings of the

Fifteenth - Eighteenth centuries, di Victor Zhivov;2. Andaloro, Maria - Romano, Serena, Arte e iconografia a Roma: da Costantino a Cola—

di Rienzo, Milano, Jaca book, 2000, pp. 266, 24 cm. [con contributi di: Andaloro, Ma-ria Claussen, Peter Cornelius Fraschetti, Augusto Gandolfo, Francesco Parlato, Enrico Romano, Serena] — Coll. N.A.6326

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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano

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3. Angeli, Diego, 1869-1936, Roma: parte 1: dalle origini al regno di Costantino, Berga-mo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1908 — Coll. I.ST.E.IX.37

4. Angeli, Diego, 1869-1936, Roma: parte 2: da Costantino al Rinascimento, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1908 — Coll. F.B.A.5163

5. Banfi, Luigi, 1925- Costantino in Dante, Università di Macerata, 1992, p. 91-103; 24 cm., 1992; Estratto da: Costantino il grande dall’antichità all’umanesimo : colloquio sul cristianesimo nel mondo antico : Macerata, 18-20 settembre 1990. Università degli studi di Macerata, Pubblicazioni della Facoltà di lettere e filosofia, 67, atti di convegni 21. — Coll. OP.N.A.693

6. Berenson, Bernhard, 1865-1959, L’arco di Costantino, o della decadenza della forma, Milano, Electa, 1952 — Coll. VALS.2687

7. Biasiotti, Giovanni, La battaglia di Costantino a Saxa Rubra (20 ottobre 312), Roma : Cuggiani, 1912 — Coll. S.O.B.VII.87

8. Bernareggi, Adriano, 1884-1953, Costantino e la sua politica religiosa, Monza, Tipo-grafia degli artigianelli, 1913 — Coll. U.V.15

9. Braschi, Francesco, 1967- , La conversione di Costantino: riflessioni a partire dai cri-teri di lettura delle antiche fonti, Milano, Àncora, 2007, p. 115-149; 24 cm. 2007; in: La Scuola cattolica, n. 1 (2007) — Coll. OP.N.A.3580

10. Bonamente, Giorgio, Costantino il Grande: dall’antichità all’Umanesimo: colloquio sul cristianesimo nel mondo antico, Macerata 18 - 20 dicembre 1990 / a cura di Gior-gio Bonamente, Franca Fusco; Università degli studi di Macerata, 1993, 2 v. (955 p.), [42] p. di tav. ; 24 cm., 1993 — Coll. N.A.558-559

11. Biraghi, Luigi, 1801-1879, Sarcofago dei santi Naborre e Felice con figure allusive al loro martirio, alla sentenza di Pilato, al labaro di Costantino Magno in forma di Croce : monumento milanese contemporaneo al celebre decreto di liberta cristia-na dato in Milano nell’anno 313, Milano : Boniardi-Pogliani, 1867 — Coll. L.II.568 — OP.C.XXXVII.31 — S.P.N.VII.36/16

12. Biraghi, Luigi, 1801-1879, Memoria del decreto di libertà per i cristiani pubblicato da Costantino magno in Milano, [S.l. : s.n.], 1874 — Coll — OP.F.LVI.2

13. Burckhardt, Jacob, 1818-1897, Costantino il Grande e i suoi tempi, Milano, Longane-si, 1954 — Coll. VALS.4015

14. Centro Culturale Cattolico San Benedetto [a cura del], 313 l’Editto di Milano: da Co-stantino ad Ambrogio, un cammino di fede e libertà, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, pp. 127 p., ill., 24 cm. — Coll. S.O.O.XXI.1084

15. Dal Covolo Enrico e Uglione Renato [a cura di], Cristianesimo e istituzioni politiche: da Augusto a Costantino, Roma, LAS, 1995, pp.182, 24 cm — Coll. BSR.117

16. Eusebius : Caesariensis, ca. 260-ca. 339, Elogio di Costantino: Discorso per il tren-tennale; Discorso regale, introduzione, traduzione e note di Marilena Amerise, Milano, Paoline, 2005, 264 p., 21 cm. — Coll. N.A.24864

17. Franchi de’ Cavalieri, Pio, Di un frammento di una vita di Costantino : nel codice greco 22 della Biblioteca Angelica, [Roma : s. n.], 1897, P. 89-131; 23 cm., Estr. da: Studi e documenti di storia e diritto, 18 (1897) — Coll. I.ST.H.XII.9

18. Gaudenzi, Augusto, 1858-1916, La falsa donazione di Costantino nella sua origine e nel suo sviluppo, [s.n.] Bologna, 1913 — Coll. OP.E.LXXXV.2

19. Gentile, Panfilo, 1889-1971, Il cristianesimo dalle origini a Costantino, Firenze, Le Monnier, 1946 — Coll. V.P.20501

20. Gentilezza, Giuseppe, Costantino il Grande e l’Illirio romano, Roma, Tipografia Isti-tuto Pio 9., 1913 — Coll. OP.I.XLII.9

21. Heydenreich, Eduard, Incerti auctoris De Costantino Magno eiusque matre Helena li-

Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano

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Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana

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bellus, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1879, in Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, 1879 — Coll. TBL.CONSTANTINO.CO.1x. Laffranchi, Lodovico, L’11. anno imperatorio di Costantino Magno, Roma, Pontificia Accademia romana di archeologia, 1921 — Coll. IV.HIE.E.VIII.129

22. Impellizzeri, Salvatore, La letteratura bizantina: da Costantino a Fozio, Firenze, San-soni, Milano, Accademia, 1975 — Coll. AMB.N.I.101

23. Maffei, Domenico, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano, Giuf-frè, 1964 — Coll. S.O.O.XVI.22

24. Maiocchi, Rodolfo, 1862-1924, Sant’Elena ; Costantino Magno e l’Editto di Milano, [s.n.] Milano, 1913 — Coll. S.O.C.VI.109x. Monaci, Alfredo, La visione e il lavoro di Costantino, Roma, Tipografia Ricca, 1913, Coll. OP.E.LXXXVII.5

25. Merisi, Antonio, Milano al tempo di Massimiano e di Costantino: note storico-archeo-logiche, Milano, Ghirlanda, 1913 — Coll. IV.HIE.F.II.892

26. Monaci, Alfredo, Nuovi studi sull’arco di Costantino, Roma, Pontificia Accademia romana di archeologia, 1904, Coll. IV.HIE.F.IX.123

27. Monaci, Alfredo, La scenografia dell’ingresso di Marco Aurelio nell’arco di Costanti-no, Roma, Loescher, 1910 — Coll. IV.HIE.E.VII.30

28. Monaci, Alfredo, Di una rara insegna legionaria scolpita sull’arco di Costantino, Roma, Pontificia Accademia romana di archeologia, 1916 — Coll. OP.I.XLIII.20

29. Monaci, Alfredo, Disegno inedito d’un trofeo nei piedistalli dell’arco di Costantino, , Roma, Arcadia, 1929 — Coll. II.HIE.C.X.11

30. Petrucci, Enzo, I rapporti tra le redazioni latine e greche del Costituto di Costantino, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1962, in: Bullettino dell’Istituto storico italiano, n. 74 (1962 — Coll. RIV.682/

31. Pini, Gian Domenico, La Chiesa da Costantino a Carlo Magno, Milano, Palma, 1901 — Coll. S.P.AA.V.9/

32. Pirzio Biroli Stefanelli, Lucia - Valeriani, Roberto, Venti bozzetti in cera rossa raffigu-ranti i rilievi dell’Arco di Costantino in Roma, 2003 — Coll. N.A.12975

33. Quacquarelli, Antonio, La società cristologica prima di Costantino e i riflessi nelle arti figurative, Bari, Istituto lettere cristiane antiche, 1978 — Coll. S.M.B.VI.44

34. Ricciotti, Giuseppe, La era dei martiri: il cristianesimo da Diocleziano a Costantino, Roma, Coletti, 1953, pp. 398, 26 cm. — Coll. A.S.8019

35. Salvatorelli, Luigi, 1886-1974, Costantino il Grande, Roma, Formiggini, 1928, 88 p., 1 tav., — Coll. N.B.387

36. Savio, Fedele, 1848-1916, Costantina figlia dell’imperatore Costantino e la Basilica di S. Agnese a Roma, [s.n.] Torino, 1907 — Coll. OP.E.XCIII.15

37. Scaglia, Sisto, Costantino, Vicenza, Società anonima tipografica, 1913 — Coll. OP.I.XXIV.838. Schmidt, Joël, Mémoires de Costantin le Grand / Costantino : memorie del primo im-

peratore cristiano, trad. di Bruno Pistocchi, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, 246 p.; 22 cm. ISBN: 88-215-4319-6 — Coll. N.A.6796

39. Scotto, Guido, L’Europa occidentale da Costantino a Carlo Magno, Firenze, Firenze libri, 1996, 182 p., 24 cm.— Coll. N.A.2547

40. Segala, Franco, Sant’Euprepio primo vescovo di Verona: note sulla comunità cri-stiana precostantiniana della città nel centenario dell’editto di Costantino (313), Verona, Archivio Storico Curia Diocesana, 2012 — Coll. S.O.O.XXI.782

41. Sini Francesco e Onida Pietro Paolo [a cura di], Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino imperatore tra oriente e occidente, Torino, G. Giappichelli, 2003 — Coll. N.A.17824

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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano

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42. Spada, Antonio Francesco, La sagra di San Costantino, Cagliari, Stabilimento tipogra-fico editoriale Fossataro, 108 p. 8 c. di fot.; 20 cm, 2000 — Coll. OP.N.A.1154

43. Spada, Antonio Francesco, Santu Antine: la sagra di san Costantino Imperatore, Sas-sari, Delfino, 2001, pp. 205 ill., 24 cm — Coll. S.O.O.XXI.77

44. [Vaticano], Il Labaro di Costantino ricostruito per il s.m.o. costantiniano di S. Gior-gio,, Roma, Tipografia poliglotta vaticana, 1914 — Coll. OP.I.XLIII.12

45. Vian, Giovanni Maria, La donazione di Costantino, Bologna, Il mulino, 2004, 240 p., 21 cm. — Coll. N.A.17742

Manoscritti:

1. Lettera a Giovanni Pietro Puricelli con appunti su san Costantino. 55r-56v. Fa parte di: C 103 inf.: unità codicologica 6 ; 1

2. Cronaca di Este, inc. In quel tempo che Costantino signoreggiava... 200r-207v. Fa parte di: O 152 sup. ; 5

3. Alcuni dubbi sopra il battesimo di Costantino imperatore. 137r. Fa parte di: R 119 sup.4. Notitia delle medaglie antiche degli imperatori e loro donne auguste in metallo da

Giulio Cesare a Costantino il Magno. Fa parte di: Trotti 4755. Albero genealogico e cronologico della storia antica sacra ed ecclesiastica dalla creazione

del mondo fino all’epoca dell’imperatore Costantino ... Fa parte di: L 127 (tomo 2) sup.6. Serie cronologica dei regnanti di Roma da Pompeo Magno a Costantino Paleologo, imp.

d’Oriente, atta a servire la numismatica. Assi romani e italici... Fa parte di: I 413 inf.7. Luppi, Costantino, Descrizione storica delle monete coniate in Milano e nel suo ducato

dall’anno 254 dell’E. V. fino ai giorni nostri (anno 1879), vol. 1. Fa parte di: I 319 inf.8. Instrumentum Constantini imperatoris in favorem Sanctae Romanae Ecclesiae. 170-

184. Fa parte di: Z 145 sup.9. Frammento in arabo cufico, ff. 6 ; perg. ; 220x150 mm. Data: 0900-1000. Supporto del

libro: pergamena. Fa parte di: *S.P.II.18/bis ; 1 — Nota: Contiene: Storia della guer-ra di Costantino contro Giuliano apostata e discorso di Eusebio, vescovo di Roma

10. Sigonio, Carlo <ca. 1520-1584> De baptismo et donatione Constantini e Mercuriale, inc. Quousque actum esse de baptismo et donatione Constantini in historia... 5r-8r. Fa parte di: P 193 sup. ; 2 (Nota: Edit16; Gian Vincenzo Pinelli et Claude Dupuy, Une cor-respondance entre deux humanistes, éditée avec Introduction Notes et Index par Anna Maria Raugei, Firenze, Olschki, 2001, II, pp. 657-660). Nota: Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, il Mulino, Bologna, 2004. Edit16; Gian Vincenzo Pinelli et Claude Dupuy, Une correspondance entre deux humanistes, éditée avec Introduc-tion Notes et Index par Anna Maria Raugei, Firenze, Olschki, 2001, II, pp. 657-660

Pergamene:

1. Pergamena 4358 — Milano; dopo 1495, marzo, 31. 2. Pergamena 226 — Milano; 1746, luglio, 20. 3. Pergamena 5603 — Milano; 1512, febbraio, 21. 4. Pergamena 6737 — Trecate; 1483, agosto, 25. 5. Pergamena 4817 — Milano; 1514, novembre, 15. 6. Pergamena 6473 — Milano; 1523, marzo, 30. 7. Pergamena 271 — Bergamo (una vicinia di); 1531, marzo, 28. 8. Pergamena 7793 — Roma; 1592, gennaio, 17.

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9. Pergamena 8656 — Roma?; 1807, gennaio, 13. 10. Pergamena 493 — Milano; 1478, febbraio, 18. 11. Pergamena 4977 — Milano; 1520, luglio, 10. 12. Pergamena 4976 — Lonate Pozzolo; 1512, dicembre, 1

Incisioni e stampe:

1. Legeay, Jean-Laurent, 18° sec., Arco di Costantino Magno. Roma 1748 Fausto Ami-dei libraro al Corso. foglio: 219x305 mm; impronta: 131x182 mm., stampa b/n. In “Varie vedute di Roma antica e moderna disegnate e intagliate da celebri autori; 86.

2. Bonifacio, Natale, 1538-1592, L’obelisco di Costantino trasportato a San Giovanni in Laterano, Roma, appresso Domenico Basa; f. 400x270 mm; impr. 390x245 mm. 1589, stampa, carta, b/n, acquaforte. In: “Della trasposizione dell’obelisco vaticano e delle fabriche di Nostro Signore papa Sisto V dal cavalliere Domenico Fontana, architetto di Sua Santità”. Libro primo; 72. Vecchia segnatura: S.Q.F.III.11 (Nuova segn.: S.R. 292)

3. Bellicard, Jérôme-Charles, 1726-1786, Veduta del Portico di S. Pietro della parte del Costantino, Piranesi inc., Roma, 1748, Fausto Amidei libraro al Corso, f. 219x305 mm; impr. 127x175 mm., stampa, carta, b/n, acquaforte. In “Varie vedute di Roma antica e moderna disegnate e intagliate da celebri autori”; 5

4. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Altro soldato nell’istessa Battaglia di Costantino, e Massenzio mirabilmente espressa da Raffaello, f. 545x400 mm.; impr. 284x210 mm. 1785, stampa, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil de têtes choi-sies de personnages illustres dans les lettres et dans les armes éxactement dessinées et gravées de la grandeur des originaux par Paul Fidanza peintre romain d’apres les peintures de Raphaël d’Urbin et autres grands maîtres existantes au Vatican et dans plusieurs galeries de Rome. Ouvrage contenant 180 planches”. Tom. II; 4. — S.R.394.

5. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Effigie di due Soldati, che mostrano delle Teste a Costantino in tempo della battaglia dipinta da Raffaello, f. 545x400 mm; impr. 308x205 mm., 1785, stampa, carta, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...]” op. cit. Tom. II.; 5. — S.R.394.

6. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Testa di Guerriero presentata a Costantino Magno da uno de’ suoi Soldati in tempo dell’azione dipinta da Raffaello, f. 545x400 mm; impr. 307x202 mm, 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 6. — S.R.394.

7. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Altra Testa nella stessa occasione presentata a Co-stantino, come si vede nelle Stanze Vaticane figurate da Raffaello, f. 545x400 mm; impr. 310x205 mm., 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 7. — S.R.394.

8. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., La Giustizia effigiata da Rafaello a olio accan-to al quadro della Battaglia fra Costantino, e Massenzio, nel Palazzo Vaticano, f. 545x400 mm; impr. 425x313 mm., 1785, stampa, b/n, incisione a bulino, acquaforte, In “Recueil [...]” op. cit. Tom. II.; 8. — S.R.394.

9. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Massenzio usurpatore dell’Imperio Romano, fu disfatto da Costantino sul Ponte Milvio nell’anno 312 di Cristo e s’affogò nel Tevere, f. 545x400 mm; impr. 390x295 mm., 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 2. — S.R.394.

10. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Idea d’un mostro chiamato Mandricardo, che fingesi essere stato Nhano di Costantino Imperatore, come viene rappresentato da

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Newsletter maggio 2013 - Costantino a Milano

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Rafaello nel Palazzo Vaticano, f. 545x400 mm ; impr. 362x270 mm., 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 9. — S.R.394.

11. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Testa di profilo d’un Putto, che scherza con un Cane, vagamente espressa da Raffaello nella Storia della Donazione fatta da Co-stantino, f. 545x400 mm; impr. 362x270 mm., 1785, carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 10. — S.R.394.

12. Fidanza, Paolo, 1731-fine 18°sec., Costantino il grande, figlio di Costanzo, e di S. Elena, Imperador Romano, avendo l’anno 312 dell’Era volgare disfatto Massenzio sul Ponte Milvio coll’ajuto della Croce messa ne’ suoi stendardi, si fece Cristiano, e morì nel 337 in Costantinopoli ove avea trasferita la sede, f. 545x400 mm ; impr. 373x270 mm., 1785,carta, b/n, incisione a bulino, acquaforte. In “Recueil [...] op. cit. Tom. II.; 3. — S.R.394.

13. Cavalieri, Giovanni Battista, ca. 1525-1601, Costantini Imp. arcus [...] victoriae insi-gnibus, 1596, f. 280x21,5 mm ; impr. 160x211 mm, 1569, stampa, carta, b/n. incisione a bulino. In “Vrbis Romanae aedificiorum illustrium quae supersunt reliquiae sum-ma cum diligentia a Ioanne Antonio Dosio stilo ferreo ... “; 30.

Monete e medaglie:

1. Follis, Massimiano, zecca di Ticinum, circa 305 d.C.; D/C. Ric. VI, p. 288, n. 57b, n°. di Catalogo 2472; n°. d’Inventario MM 3664.

2. Follis, Massenzio, zecca di Ostia, fine 309-ottobre 312 d.C. Ric. VI, p. 404, n. 35, n°. di Catalogo 2473; n°. d’Inventario MM 3658.

3. Follis, Licinio, zecca di Ticinum, circa 317-318 d.C.; D/C. Ric. VII, p. 371, n. 70, n°. di Catalogo 2474; n°. d’Inventario MM 3660.

4. Per Costantino I, celebrato come VICTOR OMNIUM GENTIUM su solidi di numerose zecche, v, Claudia Perassi, Ideologia e prassi imperiale; panegirici, monete e medaglio-ni, in XII Internationaler Kongress, Berlin, 7-12 September 1997, II Berlin 2000, pp. 830-839.

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