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COSCIENZA E LIBERO ARBITRIO NELLE NEUROSCIENZE: UN DIBATTITO FILOSOFICO E SCIENTIFICO INTRODUZIONE L’ultimo decennio del secolo scorso, gli anni ’90, è stato definito “il decennio del cervello” (Boella, 2008), a dimostrazione di quanto sia progressivamente sempre più crescente l’interesse da parte della comunità scientifica per i risultati che gli scienziati stanno conseguendo in campo neuroscientifico; sostiene Noë (2010) che “Viviamo in un’epoca di crescente entusiasmo per il cervello. Soltanto la preoccupazione di trovare un gene per qualunque cosa compete oggi con il diffuso ottimismo che circonda le neuroscienze…Si crede comunemente che persino la coscienza…sarà presto fatta oggetto di una spiegazione neurale.” (p.XIII). L’onda dell’entusiasmo per le scoperte sul funzionamento del cervello umano ha generato il proliferare di “spazi” dedicati alla cultura neuroscientifica: siti, riviste, blog, nonché periodici on line e sezioni scientifiche appositamente rivolte alla neuroscienza, oltre a sempre più accurati ed aggiornati manuali e libri di testo per le facoltà di Psicologia, Medicina e Biologia. Anche nel nostro Paese, una settimana nel mese di marzo viene dedicata “al cervello”, e prende il nome di “settimana del cervello”. Tutto questo non poteva non avere un impatto proporzionale sull’opinione pubblica, ma non solo: le scoperte neuroscientifiche sono frutto di un progetto di indagine che è primariamente un impegno umanitario del ricercatore, il quale “vive” nel mondo- della-vita insieme ad altre soggettività, anche e soprattutto quelle non “esperte del settore”, verso le quali ha responsabilità etiche e pratiche (Maturana e Varela, 1985; Bosio, in Armezzani et al., 2008); sostiene Bosio (2008) che nel mondo della vita “si 1

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COSCIENZA E LIBERO ARBITRIO NELLE

NEUROSCIENZE:

UN DIBATTITO FILOSOFICO E SCIENTIFICO

INTRODUZIONE

L’ultimo decennio del secolo scorso, gli anni ’90, è stato definito “il decennio del

cervello” (Boella, 2008), a dimostrazione di quanto sia progressivamente sempre più

crescente l’interesse da parte della comunità scientifica per i risultati che gli scienziati

stanno conseguendo in campo neuroscientifico; sostiene Noë (2010) che “Viviamo in

un’epoca di crescente entusiasmo per il cervello. Soltanto la preoccupazione di

trovare un gene per qualunque cosa compete oggi con il diffuso ottimismo che

circonda le neuroscienze…Si crede comunemente che persino la coscienza…sarà

presto fatta oggetto di una spiegazione neurale.” (p.XIII). L’onda dell’entusiasmo per

le scoperte sul funzionamento del cervello umano ha generato il proliferare di “spazi”

dedicati alla cultura neuroscientifica: siti, riviste, blog, nonché periodici on line e

sezioni scientifiche appositamente rivolte alla neuroscienza, oltre a sempre più

accurati ed aggiornati manuali e libri di testo per le facoltà di Psicologia, Medicina e

Biologia. Anche nel nostro Paese, una settimana nel mese di marzo viene dedicata “al

cervello”, e prende il nome di “settimana del cervello”.

Tutto questo non poteva non avere un impatto proporzionale sull’opinione pubblica,

ma non solo: le scoperte neuroscientifiche sono frutto di un progetto di indagine che è

primariamente un impegno umanitario del ricercatore, il quale “vive” nel mondo-

della-vita insieme ad altre soggettività, anche e soprattutto quelle non “esperte del

settore”, verso le quali ha responsabilità etiche e pratiche (Maturana e Varela, 1985;

Bosio, in Armezzani et al., 2008); sostiene Bosio (2008) che nel mondo della vita “si

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vive prima di comprendere” (ibidem), così ogni lavoro, ogni ricerca, ogni progetto

dello scienziato è prima di tutto il progetto di una persona, mossa da valori ed ideali e

in relazione vivente col mondo e con gli altri-da-sé che tali lavori leggeranno.

Noë fa notare come spesso tale evidenza originaria e basilare sia misconosciuta dalla

stessa comunità scientifica, tanto che egli chiama il seguente il “paradosso della

scienza”: “La conoscenza scientifica guarda all’oggetto delle proprie indagini in

modo freddo, spassionato, razionale. La scienza assume un atteggiamento distaccato

verso le cose. In quest’ottica, però, è di fatto impossibile prendere in considerazione

la mente degli altri.” (Noë, 2010, p.41).

La nascita della neuroetica intorno al 2002 (Boella, 2008) come “L’emergere di…

nuovo ambito di discussione e riflessione interdisciplinare…” (p.IX) risponde proprio

al bisogno di collocare interdisciplinarmente il luogo di un maturo dibattito che gli

“addetti ai lavori” in materia neuroscientifica devono condurre per trovare il modo di

mantenere un equilibrio riflessivo, come lo definisce Flanagan (Cappuccio, 2006), tra

le assunzioni metafisiche del senso comune e le scoperte empiriche che giungono

direttamente dal campo delle scienze; lo scopo è quello di migliorare la comprensione

del fenomeno mentale. “…gli stili di pensiero scientifico e umanistico richiedono una

compenetrazione reciproca…La scienza naturale non è sui generis. Non è neutrale

rispetto ai valori e non è discontinua rispetto ai più generali interessi umani. Né la

filosofia è una ridda di opinioni. Filosofia e scienza condividono piuttosto uno scopo

comune: il comprendere. Scienza e filosofia devono lavorare insieme per far

progredire la nostra comprensione delle cose.” (Noë, 2010, p.XVII). “La scienza ha

una responsabilità politica e morale, oggi più che mai….La scienza sta affinando la

sua sensibilità per la persona nella sua totalità, con una storia e caratteristiche

individuali uniche, uno stile, delle scelte, un progetto di vita.. Questa nuova

sensibilità invita a prestare attenzione ad alcuni rilevanti aspetti della ricerca

scientifica più recente.” (Boella, 2008, p.XI). E, a proposito del “criterio dell’umano”

di cui parla Minkowski e che contraddistingue anche il modus operandi dello

scienziato, la filosofa scrive: “…il fondamento comune di umanità, da cui tutti

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deriviamo, ha radice nella vita…” (p.XII). Scienza e filosofia devono contribuire

con una“…continuità sussistente tra quella spinta del pensiero filosofico

contemporaneo e l’orizzonte attuale della scienza.” (ibidem, p. XVII). “La neuroetica

rappresenta un terreno nuovo di scambio e di discussione tra scienza e filosofia, che

verte sui problemi legati alla ricerca sperimentale e alla pratica clinica, ma soprattutto

sulle applicazioni degli studi sul cervello e delle tecniche di imaging che interessano

la vita delle persone.” (Boella, 2008, p.18).

“Proprio perché avviene su un nuovo terreno, questo dialogo implicherà un incontro e

uno scambio di esperienze e di posizioni la cui fecondità deriverà probabilmente dalla

capacità di trovare non sintesi, bensì passaggi tra metodi, pratiche e risultati della

ricerca sperimentale e competenza filosofica relativa alla chiarificazione concettuale,

al rapporto fra i molteplici aspetti dell’esperienza umana e all’esercizio di una

costante interrogazione sulla condizione umana al cospetto delle trasformazioni

indotte dalla scienza e dalla tecnologia.” (p.19).

Parla di compenetrazione reciproca anche Cappuccio (2006), uno dei più esimi

esperti italiani della Neurofenomenologia, l’approccio transdisciplinare che Varela ha

inaugurato nel 1996 e che si propone di offrire una prospettiva empirica e scientifica

che tenga conto del versante neuronale e di quello fenomenologico per una migliore

comprensione dell’esperienza umana. La coscienza, il misterioso fenomeno che

affascina gli scienziati della mente contemporanei, si presenta come la “sfida” più

allettante e allo stesso tempo ostica per un approccio innovativo allo studio

dell’esperienza umana (ibidem). Tuttavia, chi si convince che solo uno dei due poli –

quello neurobiologico o quello fenomenologico – possa illuminare il ricercatore

impegnato nella scoperta dei misteriosi meccanismi che danno origine alla coscienza

animale si trova nel torto; è in particolare una concezione della scienza nota come

Fisicalismo, il quale è propriamente un punto di vista sul mondo, un approccio

ontologico ed epistemologico che racchiude entro le categorie della fisica classica

tutti i fenomeni umani, che commette l’errore del riduzionismo biologico della

coscienza al cervello. In realtà, noi non siamo il nostro cervello (Noë, 2010); o,

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anche, il cervello non spiega chi siamo (Legrenzi e Umiltà, 2009). “Il riconoscimento

di una base biologica alla nostra capacità di provare compassione non deve essere

contrapposto, bensì integrato nel profilo spirituale di questa meravigliosa emozione

umana…Oggi ci troviamo di fronte al compito di tenere insieme la spiegazione

neurofisiologica del comportamento e le prerogative fondamentali della nostra

umanità: la responsabilità degli atti, la libertà delle scelte, i valori…”, scrive Boella

(2008, p.XIII). De Caro (in De Caro et al., 2010) scrive: “E, in effetti, nemmeno i più

accesi fautori di questa concezione sostengono che potremo mai mostrare in dettaglio

come il complesso dei concetti con cui parliamo degli esseri viventi (e a fortiori dei

soggetti umani) possa essere ridotto ai concetti che si riferiscono alle proprietà

subatomiche dei loro corpi.” (p.131).

Per tornare alla neuroetica, essa nasce quindi come espansione della bioetica ad

abbracciare i quesiti e le ricadute pratiche e soprattutto etiche che sorgono in

conseguenza del progredire delle neuroscienze cognitive verso una spiegazione – che

non è una comprensione (Galimberti, 1979, 2009) – del funzionamento del cervello. “

Ciò non significa che i dati sperimentali sul funzionamento cerebrale esauriscano o

spieghino la ricchezza dell’esperienza umana.” (Boella, 2008, p.XVII). Questa

distinzione è fondamentale giacchè le neuroscienze adottano un paradigma

meccanicistico e deterministico, volto alla spiegazione in termini causali di ciò che

avviene nel cervello a livello neurobiologico, mentre la comprensione è ciò che

concerne il dominio, la sfera personale e umana del soggetto di esperienza: in pratica,

il suo vissuto (Galimberti, 1979, 2009; Noë, 2010). Molti neuroscienziati oggi

pensano che le scoperte delle neuroscienze possano essere minacciose per le nostre

assunzioni metafisiche intuitive sui fenomeni psichici (Roskies, 2006; Bok, 2007). In

realtà, si tratta di trovare quell’equilibrio riflessivo accennato in precedenza perché

scienza e filosofia, ma anche il senso comune, si incontrino in maniera adeguata ai

fini di un accrescimento della comprensione intellettuale sui fenomeni in questione.

“Proprio perché avviene su un nuovo terreno, questo dialogo implicherà un incontro e

uno scambio di esperienze e di posizioni la cui fecondità deriverà probabilmente dalla

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capacità di trovare non sintesi, bensì passaggi tra metodi, pratiche e risultati della

ricerca sperimentale e competenza filosofica relativa alla chiarificazione concettuale,

al rapporto fra i molteplici aspetti dell’esperienza umana e all’esercizio di una

costante interrogazione sulla condizione umana al cospetto delle trasformazioni

indotte dalla scienza e dalla tecnologia.” (Boella, 2008, p.19).

IL PROBLEMA DEL LIBERO ARBITRIO

Tra i quesiti di cui si occupa la neuroetica, si possono annoverare quelli relativi al

“potenziamento cognitivo” sul cervello esercitato dai farmaci psicoattivi (Oliverio,

2008; 2009); quelli concernenti le ricadute in ambito pratico, etico e legale degli studi

di neuroimmagine riguardo alla delicata diagnosi degli stati vegetativi permanenti

(Noë, 2010); quelli che trattano dei giudizi in ambito forense di comportamenti che

consistono in reati dal punto di vista legale (Bianchi, 2008; Juth e Lorentzon, 2010);

quelli relativi all’intelligenza emotiva e sociale, nonché tutto il corollario legato al

dibattito sui “neuroni specchio” (Oliverio, 2008). “La neuroetica rappresenta un

terreno nuovo di scambio e di discussione tra scienza e filosofia, che verte sui

problemi legati alla ricerca sperimentale e alla pratica clinica, ma soprattutto sulle

applicazioni degli studi sul cervello e delle tecniche di imaging che interessano la vita

delle persone.” (Boella, 2008, p.18).

Ma è in particolare il dibattito sul libero arbitrio che coinvolge maggiormente i

neuroscienziati contemporanei. Tale aspetto della nostra umanità rappresenta

intuitivamente un caposaldo del nostro agire razionale, e quando si tocca tale

argomento non basta più riferirsi alle “intuizioni” del senso comune, ma occorre

prendere in considerazione un più approfondito impegno nei confronti di qualcosa

che è profondamente radicato nell’animo umano in una forma che è pre-riflessiva,

pre-cognitiva.

Il problema del libero arbitrio è stato oggetto di dibattito fin dall’antichità (Gomes,

2007); esso è uno dei più antichi quesiti in filosofia, uno dei più frequentemente

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dibattuti (Sie e Wouters, 2010). Siamo liberi? (Gomes, 2007). E se sì, come

qualificare tale capacità umana? Quali relazioni con la coscienza? E col cervello? Il

libero arbitrio è una delle esperienze più preponderanti per il vissuto psicologico:

“L’esperienza della volontà contrassegna le nostre azioni.” (Wegner, in De Caro et.

al., 2010). Anche se il problema del libero arbitrio interroga i filosofi fin

dall’antichità, la nostra intuizione su di esso non ha bisogno di tanti sillogismi; il

dottor Samuel Johnson diceva: “Noi sappiamo di avere il libero arbitrio, e non c’è

altro da dire.” (Boswell, 1791, cit in De Caro, 2004, p.3)

Alcuni filosofi, che storicamente si collocano entro la prospettiva del

compatibilismo, sminuiscono il ruolo della deliberazione cosciente, volontaria, e

sospendono qualunque ascrizione metafisica al soggetto di esperienza, rimarcando sul

ruolo di “forze” (anche inconsce) che agiscono su di esso e che, in definitiva, lo

guidano a performare l’azione. Per Hobbes, il libero arbitrio si costituisce piuttosto

come una passione che come azione, frutto di spinte generate dai desideri (Cary,

2007), sui quali il controllo volontario è molto limitato. Altri filosofi compatibilisti

sono Hume, Kant – almeno secondo Cary (2007) – e, attualmente, Dennett, Gomes,

Pockett, Sie e Wouters.

Gomes (2007) sostiene chiaramente che il libero arbitrio dipende dalla coscienza.

Tale affermazione ha risonanze metafisiche ed epistemologiche di non poco conto, in

quanto ciò guida ad una lettura particolare dei risultati che le neuroscienze della

decisione (e la psicologia della decisione) hanno conseguito a partire dal pionieristico

esperimento di Libet e collaboratori (1983). “..la libertà ci pare indispensabile per

dirci responsabili delle nostre decisioni e delle nostre azioni e per dare senso a

nozioni come quelle di responsabilità, merito, biasimo, punizione e retribuzione.”,

scrivono De Caro et al. (2010, p.IX).

La capacità di agire volontariamente è essenziale per la natura umana, anche se le

neuroscienze e la psicologia comportamentista hanno spesso bollato questa tematica

come non scientifica, probabilmente perché i meccanismi che causano l’azione sono

poco chiari. La volizione consiste nella serie di decisioni che riguardano se agire,

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quando e quale azione programmare. I resoconti neuroscientifici possono nutrire il

dibattito sulla responsabilità individuale.

L’esperienza del controllo volontario delle nostre azioni è essenziale per la nostra

esistenza, così come la capacità di agire per come si sceglie: alcune patologie come

psicosi, abulia e DOC limitano la nostra capacità di libero controllo sulle azioni

(Haggard, 2008). Gli esseri umani hanno esperienza cosciente del libero arbitrio. Noi

sembriamo essere in grado di generare le nostre azioni e così intervenire sul nostro

ambiente (Haggard et al., 2002).

Il libero arbitrio è stato spesso definito in contrasto alle circostanze che lo invalidano,

o lo impediscono nell’essere esercitato pienamente (Cary, 2007). Come emerso dal

recente convegno di Neuroetica tenutosi a Padova nel maggio 2010, benché il libero

arbitrio sia una capacità ben definibile e non “elementizzabile”, tuttavia al suo

esercizio pieno vi sono delle limitazioni che in alcune occasioni lo rendono

“graduato” in maniera differente.

Ciò non questiona ovviamente la portata metafisica di tale facoltà genuinamente

umana, né la sua esistenza come atto di volontà, un nous poietikos o intelletto attivo

piuttosto che un semplice nous pathetikos, come ricorda il filosofo Da Re (intervista

su Brainfactor.it, maggio 2010). Significa semplicemente che impedimenti,

coercizioni o altre costrizioni sia di natura fisica che psicologica, sia “esterne”, cioè,

che interne, possono invalidare un suo pieno dispiegarsi nella vita cosciente e, di

riflesso, nella sfera interpersonale (Burns e Bechara, 2007; Gomes, 2007; Haggard,

2008; Sie e Wouters, 2010; Juth e Lorentzon, 2010).

Molti neuroscienziati pensano che le scoperte avanzate delle neuroscienze siano

minacciose per il libero arbitrio. La questione è quella più generale della

compatibilità tra libero arbitrio e determinismo e la possibilità di mantenere il libero

arbitrio nonostante siamo regolati da leggi causali universali (Bok, 2007).

I neuroscienziati cercano di scoprire come funziona il cervello per reperire i correlati

fisici del comportamento. Le conoscenze sul cervello minacciano la nostra credenza

in un agire libero e responsabile: più conoscenze acquisiamo sulle correlazioni

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neurali alla base dei nostri comportamenti e più definiamo cause fisiche alle nostre

scelte, così confinando il libero arbitrio a sempre minore spazio: saremmo succubi di

catene causali (ibidem).

Tale ambito di discussione introduce la questione metafisica della “causalità” degli

eventi: hanno una causa tutti gli eventi naturali? O piuttosto alcuni aspetti della sfera

umana (la nostra mente) sono esse stesse delle cause non necessitate da altri eventi –

come ad esempio gli eventi neurali?

Il cervello non spiega chi siamo, come dicono giustamente Legrenzi e Umiltà (2009)

e Noë (2010). Si potrebbe dire, con Straus, che siamo noi a pensare, non il nostro

cervello (in Fuchs, 2002).

Il problema del libero arbitrio potrebbe essere concepito come il problema del fatto

che abbiamo o meno libertà interna, di ciò in cui consiste tale libertà e del come essa

si relaziona al concetto che tutti gli eventi hanno delle cause (necessarie o sufficienti)

(Gomes, 2007).

Rimandando a più avanti tale dibattito, torniamo al legame sopra accennato tra

coscienza e volizione. Le azioni volontarie sono accompagnate da una esperienza

soggettiva specifica (Haggard, 2008): si potrebbe dire che hanno una certa

fenomenologia. La relazione tra esperienza e attivazione neuronale è al centro di un

dibattito nelle neuroscienze (ibidem), dibattito che è stato incastonato in una vera e

propria tradizione di ricerca, uno stile sperimentale che è stato chiamato dal suo

ideatore Francisco Varela Neurofenomenologia (Cappuccio, 2006). Essa non è una

neuro mania (Legrenzi e Umiltà, 2009), poiché non nasce come la semplice

estensione del prefisso “-neuro” ad un’altra disciplina. È pur vero che si tratta di una

incontro tra le neuroscienze e una tradizione di ricerca, quella fenomenologica

husserliana, ma il tentativo è quello di forgiare un approccio non tanto

interdisciplinare, quanto transdisciplinare allo studio dell’esperienza cosciente. Per

certi versi, il binomio fenomenologia – neuroscienze suona come una stridente

contraddizione (Cappuccio, 2006), in quanto la fenomenologia di matrice husserliana

nasce proprio come alternativa “filosofica” all’atteggiamento “naturale” delle scienze

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oggettive. Non a caso, si parla di una “naturalizzazione della fenomenologia”, anche

se Gallese (ibidem) propone giustamente di definirla anche come

“fenomenologizzazione delle neuroscienze”. Questo perché è evidente, risuona nei

lavori sperimentali degli scienziati della mente, l’influenza della teoresi

fenomenologica, in particolare ad opera di Merleu-Ponty (Armezzani, 2002). Si pensi

ai lavori di ricerca sui neuroni specchio, all’embodiment, alla intersoggettività; temi,

questi, di ricca significatività per il dibattito neuroetico in oggetto in questo lavoro.

“D’altra parte, è vero anche che non si può condurre l’indagine filosofica in completa

indipendenza dai risultati della ricerca scientifica…è anche vero che in seguito

occorre trovare un equilibrio riflessivo tra l’analisi concettuale e ciò che la scienza ci

dice del mondo…Nondimeno il requisito della compatibilità della filosofia con la

scienza non implica la contiguità tra tali discipline, e meno ancora la riducibilità

della prima alla seconda…” (De Caro, 2004, pp.20-21). Di “omologia strutturale” tra

fenomenologia e neuroscienze parlano anche Vogeley e Kupke (2007).

Tale “compenetrazione” o mutuo vincolarsi (Cappuccio, 2006) di fenomenologia e

neuroscienze consente di studiare l’esperienza cosciente alla luce della sua duplice

polarità di evento biologico e neurobiologico e di fenomeno soggettivo, umano, unico

e irripetibile; si parla, a questo proposito, non dell’“isomorfismo” che aveva

connotato le teorie riduzionistiche di stampo fisicalistico (come la teoria dell’identità

di tipo o psico-neurale), ma piuttosto di un omeomorfismo che significa la profonda e

reciproca influenza delle due polarità dell’esperienza l’una sull’altra, senza che

nessuna delle due si riduca all’altra ma in modo che ognuna mantenga la propria

unicità nonché interdipendenza dall’altro aspetto dell’esperienza. Lo studio della

stessa va quindi condotto con attenzione alle neuro-dinamiche e contemporaneamente

alle feno-dinamiche del vissuto cosciente (Petitmengin et al., 2007).

Ecco allora che la coscienza assume un ruolo decisivo entro il dibattito sul libero

arbitrio: essa è definita da alcuni come una “proprietà biologica” e quale “livello di

sistema” (Searle, 2005), un fenomeno emergente dalla neurobiologia del cervello e

causato da essa (Searle, 1998), tanto che sarebbe il “neurobiologico ad un livello

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superiore” (Searle, 2005); altri insistono invece sul carattere esteso, cognitivamente

distribuito tra corpo, mondo e cervello (Noë, 2010; Damasio, 1995; Cappuccio, 2006;

Vogeley e Kupke, 2007).

L’intenzione cosciente sembra essere la causa dell’azione: noi sentiamo di avere il

libero arbitrio (Haggard, 2008). Ma come si configura la coscienza in psicologia?

Anzitutto, viene puntualizzato lo stretto legame tra essa ed il cervello; ma in che

termini si traduce la loro relazione? Le teorie causalistiche dell’azione del cervello

sulla coscienza sono frutto di un riduzionismo ormai datato (Noë, 2010); inoltre, è

sottointesa, benchè i fisicalisti si propongano come avversari giurati della stessa, una

concezione dualistica di mente e cervello (Gomes, 2007), per cui vi sarebbe un Io

cosciente e un cervello fisico che interagiscono tra loro. Nei casi più soft di

fisicalismo, l’interazione si traduce in causazione cervello-mente; in quelli più hard,

si ha riduzionismo di mente a cervello.

“Secondo le altre obiezioni…le teorie libertarie non riescono a spiegare come gli

agenti controllino le proprie azioni, incorrono facilmente in un regresso all’infinito e

non sono in grado di localizzare il presunto momento indeterministico nel corso del

processo che conduce all’azione. A queste obiezioni, la concezione qui difesa

risponde in modo drastico, mettendo in questione il monismo ontologico e causale

tacitamente assunto dalla gran parte del dibattito contemporaneo sulla libertà…” (De

Caro, 2004, p.145).

Nella lettura di Gomes, è sostenuta una visione materialistica dell’Io come attività del

cervello (2007). Tale definizione però non consente di giungere a conclusioni

riduzioniste: parlare di “attività del cervello” non nega l’autonomia ontologica della

sfera psichica rispetto a quella, correlata, del dominio cerebrale. La correlazione, i

correlati neurali della coscienza (Varela, 2001; Searle, 1998), non consente alcuna

conclusione causalistica né tantomeno isomorfista. È proprio su questo punto che la

Neurofenomenologia si propone come risoluzione al “problema difficile” (Chalmers,

in De Palma e Pareti, 2004; Cappuccio, 2006). La Neurofenomenologia accetta la

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località, la parzialità delle descrizioni naturalistiche e neurobiologiche della attività

mentale senza trarre conclusioni ontologiche (Cappuccio, 2006).

La coscienza è un’emergenza (Varela, 2001); non solo, essa non è nelle nostre teste

(Armezzani, 2002; Noë, 2010) ma si dispiega entro una relazione tra il soggetto e il

proprio mondo, e verso l’unico e condiviso mondo-della-vita popolato dalle

coscienze umane, nonché verso le altre coscienze (Merleau-Ponty, 1945). “La

spensierata sicurezza con cui i neuroscienziati affermano che il cervello è la sede

della coscienza equivale all’ingiustificata convinzione secondo la quale il nostro

cranio rappresenterebbe il confine tra noi e il resto del mondo.” (Noë, 2010, p.73). Il

filosofo si esprime così a proposito della coscienza estesa: “La mente emerge dal

lavorio dei nostri cervelli individuali; il cervello è l’organo della nostra mente. Ma

non tutta l’esperienza e la cognizione sono così distaccate…individualistiche. Molta

della nostra vita cognitiva…richiede…la presenza…di altre persone.” (ibidem, p.91).

Il sistema nervoso istanzia l’esperienza, la rende possibile, ma è solo una delle sue

polarità. “Esistono correlati interni della coscienza…agli eventi della coscienza

corrispondono senza dubbio eventi di tipo neurale. Esistono però anche correlati

esterni della coscienza…La mente…consiste nella sua forma di impegno rispetto

all’ambiente…” (ibidem, p. 44).

“Se vogliamo comprendere la mente di un animale non dobbiamo guardare soltanto

al suo interno, alla sua costituzione fisica e neurologica; dobbiamo prestare

attenzione al suo modo di vivere, al modo in cui esso è preso dal suo ambiente.”

(ibidem ,p.45).

Noë sostiene che la lettura delle neuroscienze di un “Io” coincidente col cervello in

attività è frutto di un retaggio cartesiano, solo che in questo caso si identifica la “cosa

pensante” con un organo materiale, che viene antropomorfizzato: al cervello si

ascrive la capacità di pensare, agire, comportarsi (Fuchs, 2002).

Stando alla lettura più propriamente fisicalistica, gli scienziati che adottano una tale

visione tentano di proporre l’esistenza di un “campo di lavoro”, come lo chiama

Baars, di natura però non immateriale bensì fisica, che si origina dal lavoro congiunto

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di milioni di neuroni della corteccia e del talamo, nonché dall’azione della

formazione reticolare tronco encefalica, connessi in modo sincrono da scariche

neurali di 40 Hz.

Lo stesso Libet aveva proposto, nei suoi esperimenti, di guardare alla coscienza come

a un campo unificato, ma la sua concezione si distanzia da quella di molti scienziati

in quanto il fenomeno, nella chiave di lettura libetiana, conservava il proprio statuto

di evento non materiale.

Diversa è la concezione difesa da Gomes: egli parla di “working brain”, di un sistema

complesso e differenziato tale da ammettere che la sua attività corrisponda alla

coscienza, intesa come proprietà del sistema neurale, una visione non lontana da

quella di Searle. È interessante notare come questi scienziati e filosofi che si

riconoscono nel naturalismo o biologismo di base della coscienza adottano posizioni

differenti riguardo al libero arbitrio; così, ad esempio, Gomes (2007) si propone come

difensore del compatibilismo, Searle (2005) come sostenitore di una visione libertaria

– pur se entro la cornice del naturalismo biologico-, Kane (cit. in Sie e Wouters,

2010) come anch’egli difensore di una concezione libertaria ma situante il libero

arbitrio nel cervello; è interessante anche che alcuni negazionisti della coscienza,

come Dennett, sono nondimeno difensori del libero arbitrio, nella forma

compatibilista. Ciò starebbe ad indicare che coscienza e libero arbitrio per alcuni

scienziati non solo non sono interdipendenti, ma sono addirittura eslcusivi!

Tra le posizioni sopra citate, la più interessante è a mio avviso quella di Kane e di

Searle: essi adottano la concezione probabilistica degli eventi naturali mutuata dalla

meccanica quantistica e la applicano, a livello microscopico, agli eventi

neurobiologici. A livello microscopico significa che tale “fluttuazione”

indeterministica degli eventi neurali si riscontra a livello della fisica subatomica e

non a quello neurofisiologico. Una tale condizione si riproporrebbe poi a livello

psicologico; come fa notare Searle (2005), il fatto che la meccanica quantistica abbia

un elemento di casualità non esclude che la coscienza possa ereditare dal cervello

l’elemento indeterministico, ossia la causalità non deterministica che è prerogativa,

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secondo Searle, per il libero arbitrio, senza che ne venga ereditata la componente

aleatoria. Ciò è estremamente importante perché, come il determinismo sarebbe

incompatibile con il libero esercizio della libertà – almeno per i filosofi

incompatibilisti -, lo sarebbe anche la casualità o fatalità, anch’essa tale da non

consentire un controllo sull’azione da parte dell’agente. “Dobbiamo supporre che la

coscienza svolga un ruolo causale nella determinazione delle nostre decisioni e delle

nostre azioni libere, ma dobbiamo anche supporre che tale ruolo causale non sia di

tipo deterministico. Vale a dire, non è una questione di condizioni sufficienti.”

(Searle, 2005, p.208).

Searle sostiene che l’assenza di impedimenti esterni sia irrilevante per il significato di

libero arbitrio. Noi esperiamo un gap tra le ragioni per agire e la decisione di agire.

Noi sentiamo che le condizioni causali antecedenti delle nostre azioni libere non sono

causalmente sufficienti a produrre l’azione (Gomes, 2007).

“Fa parte della nostra esperienza cosciente trovarci in situazioni in cui le cause delle

nostre decisioni e delle nostre azioni, sotto forma di ragioni a loro favore, non sono

sufficienti a determinare la decisione e l’azione effettiva…In breve, c’è uno iato tra le

cause della decisione e dell’azione, che hanno la forma di ragioni, e l’effettivo

raggiungimento della decisione, o l’esecuzione dell’azione.” (Searle, 2005, p.196).

Searle parla di iato, tanto a livello neurobiologico quanto a quello psicologico, che

rende necessario l’intervento dell’Io-agente per completare il ruolo svolto dalle

ragioni psicologiche (Merleau-Ponty, 1945), le quali non sono semplici cause neurali,

o meglio sono cause a questo livello, ma divengono ragioni vissute a quello del

soggetto.

“Le cause puramente psicologiche delle nostre azioni spesso non sono causalmente

sufficienti a determinarle. Tuttavia, questo lascia ancora aperta la questione più

profonda di come stiano le cose al livello della neurobiologia soggiacente…Finora

abbiamo assunto che, a ogni dato istante, lo stato della coscienza di una persona sia

del tutto determinato causalmente dalla sua neurobiologia. Ora sosteniamo che gli

stati coscienti in genere non sono sufficienti a determinare la decisione e l’azione.”

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(Searle, 2005, pp.204-205). E prosegue: “…Il libertarismo psicologico, quale l’ho

definito, è probabilmente vero. Secondo questa tesi, i nostri stati psicologici…non

sono in ogni circostanza causalmente sufficienti a determinare l’azione susseguente…

Ciò equivale a dire che lo iato è, dal punto vista psicologico, reale, che non è cioè una

mera illusione…Ogni mutamento di stato psicologico richiederebbe un mutamento

dell’attività cerebrale…Lo psicologico non è che il neurobiologico a un livello più

elevato di descrizione.” (ibidem, p.205).

“…per attribuire allo iato una realtà non solo psicologica ma anche neurobiologica,

dobbiamo supporre allora, allo stato attuale della fisica e della neurobiologia, che vi

sia una componente quantistica nella spiegazione della coscienza.” P.210

“L’esistenza dello iato non è un tratto fenotipico trascurabile, come l’esistenza

dell’appendice, Dal punto di vista evolutivo, sembrerebbe un risultato assurdo che si

debbano avere intense esperienze di libertà senza alcun vantaggio biologico concreto.

Lo iato implica un rilevante investimento biologico da parte di organismi come gli

esseri umani e gli animali superiori, Una porzione enorme dell’economia biologica

dell’organismo è destinata all’elaborazione cosciente di decisioni razionali.”

(ibidem,pp. 210-211). Il ragionamento di Searle è anche di spessore evoluzionistico:

perché dovremmo possedere una esperienza illusoria se tante delle energie biologiche

sono spese per tale vissuto fenomenologico?

Eppure, per Wegner la volontà è la “bussola della mente” (De Caro et al., 2010): “La

volontà cosciente è la bussola della mente…l’esperienza di volere coscientemente

un’azione sorge come risultato di un sistema interpretativo, un meccanismo di

monitoraggio che esamina la relazione tra pensieri e azioni e risponde con un “volevo

questo” quando pensiero e azione corrispondono in modo appropriato.” (Wegner, in

De Caro et al., 2010, p.42). Egli si spiega così: “Si potrebbe pensare che l’esperienza

di volere consapevolmente un’azione e la causazione dell’azione da parte della mente

cosciente siano la stessa cosa. Tuttavia, risulta che siano completamente distinte e che

la tendenza a confonderle sia all’origine dell’illusione della volontà cosciente.”

(Wegner, in De Caro et al., p.22). Perché Wegner parla di “illusione”? Egli ritiene

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che l’esperienza cosciente e l’azione volontaria sono correlate in maniera spuria: il

fattore determinante per entrambi è l’azione neurobiologica del cervello. “…la

volontà, per la persona, non costituisce la causa, la forza o il motore, bensì la

sensazione cosciente dell’esercitare una causa, una forza, o di essere il motore.”

(ibidem).

Wegner differenzia la volontà empirica e la volontà fenomenica: “La sensazione di

volere coscientemente le nostre azioni, invece, non equivale alla lettura diretta di tale

potenza della volontà verificabile scientificamente.” (p.29).

La mente genera una spiegazione inferenziale a posteriori sulle cause dell’azione e

crea l’illusione della volontà cosciente.

“La volontà cosciente non è una percezione diretta di quella relazione, piuttosto è una

sensazione basata sull’influenza causale circa i dati che si rivelano disponibili alla

coscienza: il pensiero e l’atto osservato.” (p.38).

Io non sono d’accordo su questa interpretazione: c’è immediatezza ed intuitività, noi

– come dice Haggard – sentiamo di avere la libertà!

Prosegue Wegner: “Le intenzioni…non causano il movimento, lo indicano prima che

accada. Secondo questa logica, gli effettivi meccanismi causali soggiacenti al

comportamento non sono mai presenti alla coscienza. Piuttosto, i motori di

causazione operano senza manifestarsi e possono quindi costituire meccanismi

mentali inconsci…Le vere cause delle azioni umane sono inconsce…Tuttavia, la

volontà cosciente origina da un insieme di processi diversi da quelli che causano il

comportamento al quale attiene l’esperienza della volontà…quell’esperienza non è un

indicatore diretto della loro reale influenza causale” (pp.40-41). Tuttavia, non può

che concludere dicendo che “Anche se tale esperienza non è una teoria adeguata alla

causazione del comportamento, va riconosciuta come un’importante caratteristica

dell’effetto che fa essere uomini. Le persone sentono la volontà, e la psicologia

scientifica deve capire perché.” (pp.45-46). Questo perché, a livello empirico, pratico,

“La volontà cosciente è allora particolarmente utile come guida a noi stessi…” (p.48).

Ecco perché si parla di sentire fenomenologico, di un risuonare intuitivo che rende

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improbabile la costruzione a posteriori della esperienza della volontà, e la colloca

invece verosimilmente come contemporanea all’azione. Anche in neuropsicologia,

pur se sono state riscontrate doppie dissociazioni tra la consapevolezza della funzione

neuropsicologica e la funzione stessa, è verosimile che la compromissione dei

“moduli” cognitivi deputati alla istanziazione di una funzione generi la mancanza di

esperienza cosciente della stessa, come nel caso dell’afasia di Wernicke e della

sindrome disesecutiva (Vallar e Papagno, 2007).

“La volontà allora serve ad accentuare l’azione e ad ancorarla nel corpo. Ciò rende

l’azione molto più intensamente nostra di quanto possa essere un pensiero…

l’occorrenza della volontà cosciente marchia profondamente l’atto, associandolo con

il sé attraverso la sensazione.” (Wegner, in De Caro et al., 2010, p. 46).

Huxley sosteneva che la volontà è indicativa di cambiamenti fisici, non causa di essi:

ciò somiglia molto all’idea di Damasio del marker somatico (Burns e Bechara, 2007;

Vallar e Papagno, 2007).

Burns e Bechara sostengono che la questione del possesso del libero arbitrio si lega ai

processi coi quali lo esercitiamo. I processi di decision making sono influenzati da

meccanismi impliciti che non raggiungono il livello di consapevolezza. Vi sono

anche disturbi psicologici o da abuso di sostanze che limitano il nostro libero volere e

si definiscono “disturbi del libero volere”.

Gli autori sostengono che questo comportamento complesso ed indeterministico è in

realtà governato da un complesso processo cognitivo a cui asservono due separati

sistemi:

-impulsivo, guidato dall’amigdala e che asserve a immediato piacere

-riflessivo, guidato dal sistema prefrontale e associato ad una futura gratificazione

(Burns e Bechara, 2007).

La decisione finale è regolata dalla forza relativa dei segnali di pena o di piacere

associati a prospettive immediate o future.

Damasio definisce il libero arbitrio o “potere decisionale” come la capacità di agire in

prospettiva a lungo termine piuttosto che a breve termine (ibidem).

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Il termine “somatico” si riferisce a una collezione di risposte viscerali e corporee che

marcano le risposte emozionali.

La cornice dei marcatori somatici prevede un modello neuroanatomico di sistema e

un modello cognitivo per la presa di decisione, la quale prende avvio anche sulla

base di condizioni omeostatiche, di emozione e sentimento.

- 1 induttori primari: stimoli che elicitano una reazione innata e automatica (es

dipendenza da droghe)

- 2 induttori secondari: pensieri e rievocazione di eventi particolari o memorie degli

induttori primari, i quali elicitano risposte somatiche (ricordo di una esperienza da

sostanze stupefacenti).

L’amigdala è il nucleo primario di azione degli induttori primari ed accoppia le

caratteristiche dell’induttore con lo stato corporeo, quest’ultimo scatenato da effettori

quali ipotalamo e tronco encefalico, che inducono modificazioni nel milieu interior, e

quali striato ventrale, PGM e tronco che elicitano cambiamenti facciali e

comportamentali. La percezione di questi patterns a livello di tronco cerebrale è per

larga parte inconscia ma a livello corticale assume i tratti di un sentimento cosciente.

Una volta formato lo schema emotigeno, questo può essere rievocato dal ricordo

dell’esperienza e fungere da induttore secondario. Nell’IOWA Gambling Task, un

compito particolarmente utile per il suo impiego nella valutazione delle capacità di

decision making, i soggetti scelgono prima di essere consapevoli di quali carte siano

vantaggiose, e si genera una risposta elettrodermica ampia appena prima che scelgano

un mazzo svantaggioso. Nello striato avviene un sapere senza consapevolezza, che

invece è mediato dalla coscienza in ACCe SMA. Benché entrambe le guide operino

in maniera complementare, la maggior parte delle scelte avviene in maniera implicita.

Il willpower nascerebbe allora da una interazione tra sistema impulsivo e riflessivo;

quest’ultimo eserciterebbe un controllo sull’altro. A livello di processi, la dizione è

quella di Tversky e Kahneman di intuizione vs ragionamento, coi processi dell’uno

caratterizzati da rapidità, automaticità e assenza di effort, e quelli dell’altro regolati

in maniera lenta, esplicita, e governata da regole (ibidem).

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Ma, a mio parere, è un errore assimilare il concetto di intuizione a un processo

automatico poichè quest’ultimo è poco flessibile e stereotipato mentre l’intuizione è

euristica e inoltre è piuttosto una forma superiore di coscienza.

Tornando alla connotazione della coscienza, le neuroscienze e la scienza in generale

non sono mai state in grado di fornire una descrizione esaustiva del fenomeno (Jahn,

2001; Noë, 2010). Jahn (2001) sostiene che i tentativi di ricondurre la coscienza sotto

una definizione quantitativa ed entro categorie predefinite di una rigorosa scienza

quantitativa si scontrano con le sue peculiari caratteristiche:

- elusività della definizione

- pletora di stati mentali prevalenti

- intrinseca soggettività

- ampia variabilità di risposta agli stimoli

- capacità anomale dell’elaborazione di informazioni.

È su quest’ultimo punto che i lavori di Jahn e Dunne alla Princeton University si

concentrano da anni: il loro scopo è quello di scoprire come possa la coscienza

influenzare la materia!

Niels Bohr (ibidem) diceva che siamo attori e allo stesso tempo spettatori nel dramma

dell’esistenza, a sottolineare il carattere proattivo e reattivo del fenomeno.

Ecco perché la coscienza è qualcosa di esteso, che ci coinvolge interamente, e non

può essere ridotta ad uno stato del cervello (Noë, 2010). La coscienza non sarebbe

niente più e niente meno di ciò che siamo sebbene nel particolare ambiente in cui

viviamo. “La coscienza non è qualcosa che il cervello ottiene da solo. La coscienza

richiede l’operazione congiunta del cervello, del corpo e del mondo. La coscienza è

qualcosa che l’animale ottiene nella sua interezza e con l’ausilio dell’ambiente. In

breve: io nego che noi siamo il nostro cervello.” (ibidem, p.10).

Ogni calcolo o conclusione qualitativa è preceduta da una capacità soggettiva frutto

della nostra coscienza (Merleau-Ponty, 1945; Maturana e Varela, 1985). Roskies

sostiene che è necessaria una rilettura dei dati delle neuroscienze, in cui il cervello

sarebbe un particolare sistema fisico che governa le azioni, compatibilmente con una

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concezione di responsabilità morale e non con la concezione di assenza di leggi

causali che governano il libero arbitrio (Roskies, 2006). Ciò perché la mente è un

prodotto dell’evoluzione secondo Damasio (Oliverio, 2009), e così essa è soggetta

agli stessi vincoli del mondo naturale. La peculiarità del soggetto non sarebbe tanto

quella di sfuggire alla determinazione causale, ma quella di “entrare nella catena

causale” che conduce all’azione come parte integrante del processo deliberativo,

tramite un controllo sugli eventi regolato da una razionalità pratica (Roskies, 2006;

Sie e Wouters, 2007; 2010; Gomes, 2007).

Pockett (2007) pensa alla coscienza come fenomeno fisico, non identico al cervello

bensì ad un “campo” generato dal cervello. Anche Libet parla di un campo, non fisico

però. Per Pockett la coscienza è un tipo particolare di pattern spaziotemporale nel

campo elettromagnetico generato dal cervello in attività, dal working brain (Gomes,

2007); essa sarebbe pertanto ancora parte del mondo fisico e non ci sarebbe conflitto

tra determinismo e libero arbitrio. Le difese del compatibilismo si configurano in

questa prospettiva: non c’è incompatibilità tra una visione del libero arbitrio come

evento che è istanziato nel cervello e determinismo meccanicistico dello stesso.

Pockett vede come epifenomenica una coscienza non fisica funzionalista (Pockett,

2007). La scienziata considera la coscienza come generata dall’attività neuronale del

cervello e perciò anche l’azione, in definitiva, come generata dai neuroni.

Un più dettagliato concetto di come si istanzi questo pattern nel cervello lo

forniscono Vogeley e Kupke (2007): essi, ricalcando l’omeomorfismo o omologia

strutturale tra fenomenologia e neuroscienze tipica della Neurofenomenologia, nella

loro analisi del tempo mentale e delle sue anomalie, definiscono l’approccio

neuroscientifico “binario”, quasi oggettivo, e complementare a quello

fenomenologico quasi soggettivo e tripartito in protensione, ritenzione e

presentificazione. Oltre ai loro studi sulla percezione temporale nelle neuroscienze,

essi riprendono anche la definizione vareliana di coscienza come unità trans

temporale e diacronica, necessaria per l’autocoscienza, frutto di assemblee cellulari

ognuna asservente una funzione cognitiva. L’esperienza dell’adesso sarebbe frutto

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delle oscillazioni sincrone cellulari in sintonia per un determinato periodo di tempo.

L’emergere del tempo è questione di compenetrazione tra i tre orizzonti intenzionali e

non di sequenzialità, l’adesso non è un punto fisso ma una durata dinamica e

transitoria. Anche il tempo vissuto, all’interno dell’esperienza cosciente, è a mio

avviso, ma anche a quello di Bergson, condizione necessaria per l’emergere del libero

arbitrio.

Gomes (2007) sostiene che le cause psicologiche menzionate da Searle agiscono

sull’Io come se vi fosse una distinzione tra l’Io psicologico e le cause che fanno

effetto su esso. In effetti, il linguaggio impiegato dalla psicologia intenzionale è

sostanzialmente dualistico, per cui ci sarebbe un Io-soggetto che inizierebbe attività

cerebrali e movimenti, ma distinto da cervello e corpo (Haggard, 2008). La questione

se ci sia un Io che “viene prima” delle azioni oppure viceversa una libertà che

“precede” la costituzione della persona è oggetto di dibattito (Popper e Eccles, 1977;

Praetorius, 2008; De Monticelli, in De Caro et al., 2010). Gomes (2007) prende in

considerazione il fatto che l’Io che determina le azioni possa essere a sua volta

determinato: in questo senso avremmo sì un Io che si definisce in base a come agisce,

cioè una persona la cui identità personale è frutto anche di come si comporta, ma in

chiave fortemente materialistica. L’Io infatti sarebbe generato e guidato dagli eventi

neurali che avverrebbero nel cervello.

A difesa del compatibilismo, egli ritiene poco probabile la concezione secondo la

quale potrebbero esistere eventi che non sono a loro volta causati, come invece

sostengono i fautori del libertarismo.

Tuttavia, in una chiave di lettura chiamata “nuovo compatibilismo” (Sie e Wouters,

2010), ciò che conta non è tanto la presenza o meno del determinismo neurobiologico

e di quello universale, quanto la capacità di esercitare un controllo razionale sul

comportamento e di fornire ragioni pratiche per lo stesso. Poiché la mente fa parte

del mondo naturale, il determinismo non implica che le scelte che tramite essa opero

siano irrilevanti ai fini del comportamento; il determinismo da solo non implica

niente rispetto a ciò che “dovrei fare” (Bok, 2007). La libertà o meno del

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determinismo, continua Bok, è irrilevante quando facciamo delle scelte; la libertà sta

nel fare ciò che ci spetta, decidere secondo criteri razionali. Il libero arbitrio non

richiederebbe così l’indeterminismo ma la capacità di autoregolarsi. L’avanzare delle

neuroscienze, dice l’autore, può chiarire i meccanismi per i quali la libertà

decisionale viene compromessa ma non può mettere in discussione il libero arbitrio.

Noi abbiamo libertà decisionale, sia che le nostre azioni abbiano o meno cause

neurali.

Inoltre, le neuroscienze possono provare solo che il cervello è deterministico e

meccanicistico, non l’universo (Roskies, 2006). La scienza del cervello non si

potrebbe pronunciare sulla verità o meno del determinismo nell’universo, anche

perché nulla a livello neuronale e cerebrale sarebbe una prova dell’una o dell’altra

tesi. Ci si deve chiedere allora in quali casi ed in quali contesti limitati si può

applicare il principio del determinismo (Cary, 2007). “teorie deterministiche sono

oggi comuni in biologia (con il determinismo genetico, ad esempio), nelle

neuroscienze, in psicologia (si pensi alla psicologia evoluzionistica)…” (De Caro,

2004, p.19).

I recenti sviluppi nel campo delle neuroscienze sono spesso interpretati come una

minaccia alla nostra concezione del libero arbitrio, come se una comprensione di

come il cervello causi il comportamento minasse la nostra idea di libero arbitrio e di

conseguenza la responsabilità morale (Roskies, 2006; Bok, 2007)

Roskies sostiene che tali interpretazioni sono erronee:

- i problemi di senso comune ed intuitivi sul libero arbitrio esistono

indipendentemente dalle neuroscienze e da prima di esse

- le neuroscienze non sono nella posizione di minare le nostre convinzioni

- se le persone interpretassero i dati delle neuroscienze secondo una

riconsiderazione della libertà metafisica, i nostri giudizi sulla responsabilità

morale resterebbero invariati.

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Roskies (in De Caro et al., 2010) sostiene che le neuroscienze non possiedono il

“livello di grana sufficientemente fine” per pronunciarsi sui rapporti mente-cervello

circa la presenza del libero arbitrio.

“In primo luogo, a suo avviso, anche qualora riuscissimo a stabilire se i processi

decisionali sono deterministici oppure indeterministici, ciò sarebbe irrilevante per la

questione del libero arbitrio. In secondo luogo, il problema del libero arbitrio è

indipendente dalle discussioni sulla coscienza: e ciò per Roskies implica che, seppure

la ricerca neuroscientifica riuscisse a dimostrare l’illusorietà dell’idea di un sé

unitario che perdura nel tempo, la nostra fiducia nella libertà non ne sarebbe

inficiata.” (ibidem, p.XVII). Altri neuroscienziati sono dell’avviso che le

neuroscienze non metteranno in questione l’esistenza del libero arbitrio, ma piuttosto

genereranno una condizione di equilibrio riflessivo tra dati empirici ed intuizioni

ordinarie (Roskies, 2006).

“Tempia sostiene che l’interpretazione dei risultati neuroscientifici non implica

affatto la negazione del libero arbitrio. In primo luogo, infatti, i dati sperimentali e le

evidenze neurofisiologiche di cui disponiamo sono suscettibili di letture assai diverse

tra loro.” (ibidem).

Roberta De Monticelli sostiene che “c’è un senso in cui la “libertà” viene prima di

“noi”. Si tratta della posizionalità, quel potere di prendere posizione…nell’esercizio

del quale un essere umano si costituisce come soggetto personale.” (p.XVIII).

Per il nuovo compatibilismo è fondamentale che noi siamo esseri praticamente

razionali. Proprio questo aspetto sarebbe messo in discussione dalle neuroscienze

poiché le ragioni che apportiamo alla spiegazione del comportamento sono

ricostruzioni a posteriori, razionalizzazioni e non cause genuine dell’azione, dicono

Sie e Wouters (2007; Wegner, in De Caro et al., 2010). Il nuovo compatibilismo

insiste sul giudizio di responsabilità come connessione di responsabilità personale e

razionalità pratica: è proprio quest’ultima che verrebbe messa in discussione dalle

neuroscienze. Anche i nostri giudizi morali sembrano esulare dalla consapevolezza

introspettiva: ciò è ad esempio quel che si annovera nella cornice teorica

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dell’emotivismo (De Caro, in De Caro et al., 2010). Il fatto che i giudizi morali non

richiedano consapevolezza conscia non è altro, però, che un’evidenza su “come

siamo fatti”, come dice Armezzani.

Per comprendere la coscienza, dobbiamo comprendere anche i meccanismi inconsci

che sono alla base di tanti dei suoi aspetti essenziali (Jahn, 2001; Oliverio, 2009), ma

che non per questo sono fuori dal nostro controllo.

Il giudizio morale è talmente radicato nell’essere umano che è una forma di coscienza

pre-verbale, pre-riflessiva, pre-cognitiva; c’è poi, a mio avviso, una grande differenza

nel concepire l’intuizione come una semplice forma di processo inconsapevole,

inconscio ed automatico da una parte e come forma superiore di coscienza, pre-

riflessiva ed ante-predicativa, più potente ma non per questo estranea dalla coscienza!

Il problema metafisico del libero arbitrio sarebbe risolto in una pratica responsività a

ragioni (Sie e Wouters, 2007). Roskies replica alle obiezioni che gli autori citano ad

esempio della minaccia che le neuroscienze porterebbero al libero arbitrio sostenendo

che gli studi riportati sono più di carattere psicologico che neuroscientifico e che

inoltre essi non dimostrerebbero che non siamo capaci di agire per ragioni, o che non

facciamo mai scelte orientate razionalmente. Le neuroscienze non ci dicono molto sul

nostro stato di esseri viventi come agenti pratici e razionali: le ragioni hanno efficacia

causale ma resta aperta semmai la questione sulla finestra introspettiva che

possediamo su di esse (Roskies, 2007).

Ci sono casi in cui il libero arbitrio di una persona è fortemente limitato da certe

condizioni psicopatologiche, come l’abulia o il disturbo ossessivo-compulsivo, o la

cleptomania, e da circostanze contingenti, come costrizioni fisiche, oppure

dall’ipnosi. Il comportamento del soggetto in questo caso sembra non rispettare il

normale processo di deliberazione cosciente. Ecco come Searle si esprime circa

l’esempio dell’ipnosi: “Ma noi abbiamo buone ragioni per ritenere che sia

determinato da cause di cui non ha consapevolezza. In questo caso, dunque, lo iato si

dimostra illusorio. Il soggetto ha l’illusione di intraprendere un’azione libera, ma di

fatto il suo comportamento è del tutto determinato.” (Searle, 2005, p.203). A

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rimarcare il fatto che una limpida deliberazione volontaria richiede la altrettanto

limpida consapevolezza cosciente delle proprie ragioni, egli prosegue: “La libertà

piena richiede la consapevolezza delle proprie motivazioni, che in questo caso manca.

Diverso è il caso del tossicodipendente che, pienamente consapevole della propria

dipendenza, agisce nondimeno condizionato da essa.” (ibidem).

L’azione cosciente e volontaria è forse innescata e portata avanti in maniera

automatica? Così risponde il filosofo: “No, dobbiamo sforzarci continuamente di far

procedere l’azione fino al suo completamento.” (ibidem, p.197).

Una visione comune in filosofia della mente vede la capacità di deliberazione

volontaria come dipendente da due fattori:

“Secondo l’intuizione, innanzitutto, perché un’azione sia libera è essenziale che

all’agente si presenti una molteplicità di possibili corsi d’azione alternativi.” (De

Caro, 2004, pp.9-10). La possibilità di fare altrimenti o “libertas indifferentiae” è ciò

che De Monticelli (in De Caro et al., 2010) chiama “determinarsi” o “potere di fare

altrimenti”. Ad essa è necessario che si aggiunga una seconda proprietà, ossia

l’autodeterminazione o controllo ovvero “libertas spontaneitatis”, ciò che Kant

chiama “spontaneità” o “potere di iniziativa”, e che Crisholm chiama “ causalità

dell’agente”, che consiste nella capacità di un agente di dare origine ad una catena

causale, esercitando un controllo su di essa (ibidem).

“Non c’è dubbio che noi facciamo esperienza della libertà nel senso del libero

arbitrio, del potere iniziale di determinarci all’azione, in presenza di alternative. Non

c’è dubbio, addirittura, che sia una delle esperienze più centrali e costitutive della

nostra vita…” (ibidem, p.113).

Come abbiamo visto, non tutti concepiscono la capacità di fare altrimenti, questa

“intrinseca proprietà di scegliere tra alternative disponibili” (Gomes, 2007), come

necessaria e fondamentale, o meglio come rilevante, ai fini del libero arbitrio (Sie e

Wouters, 2010); Searle sostiene che il compatibilismo adotta una visione restrittiva

del libero arbitrio come assenza di vincoli al suo esercizio. Quest’ultimo richiede

invece la presenza di uno iato tra decisione ed azione (ibidem).

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Per Gomes, il problema del libero arbitrio si costituisce nel problema del se

possediamo libertà interna, in che cosa consista essa e come essa si relazioni al

concetto che tutti gli eventi hanno delle cause. Il nuovo compatibilismo è basato

sull’idea che la responsabilità personale è fondata non sulla capacità di fare altrimenti

ma su una pratica abilità di decidere e agire in base a ragioni (Sie e Wouters, 2010),

cioè su una “responsività a ragioni” (Sie e Wouters, 2007).

È giunto il momento di esaminare da vicino queste posizioni metafisiche sul libero

arbitrio.

POSIZIONI METAFISICHE

Una esauriente trattazione delle posizioni metafisiche sul libero arbitrio è fornita da

Roskies (2006). Generalmente gli scienziati della mente si riconoscono in una di

queste prospettive:

- Agent Causation: causazione legata alla scelta dell’agente, non causata da altri

eventi fisici

- Compatibilismo: la libertà è compatibile con il determinismo (determinismo soft)

- Determinismo: lo stato dell’universo è interamente funzione di leggi fisiche e della

condizione iniziale

- Eliminativismo: la scienza dimostra che i concetti di credenza, libero arbitrio, etcc.

sono incompatibili con una lettura naturalistica degli eventi e vanno eliminati

- Epifenomenismo: la mente è fisicamente causata ma non ha effetti sulla realtà fisica

- Determinismo hard: l’universo è deterministico e la libertà illusoria

- Incompatibilismo: libertarismo oppure determinismo hard

- Riduzionismo: i livelli alti dei fenomeni possono essere ridotti a meccanismi

semplici di livello inferiore.

Gomes (2007) traccia una più generale suddivisione:

- Posizione 1: non esiste libero arbitrio. Il libero arbitrio è un’illusione, chi dà

origine alla catena causale non è la persona; ogni punizione non ha carattere

retributivo ma soltanto uno scopo pratico. Le decisioni sono determinate da

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altri eventi antecedenti e dalla natura della persona, non da un atto di

deliberazione, da una decisione prioritaria. È falso che la persona avrebbe

potuto decidere di fare altrimenti da quanto ha fatto.

- Posizione 2: il determinismo fisico non può essere esteso alle azioni umane; la

volontà cosciente causa eventi fisici ma non è a sua volta da alcuni di essi

determinata. Il libero arbitrio non può essere ridotto a eventi neurali che

accadono nel cervello. Il libero arbitrio è qualcosa che può cambiare il corso

naturale degli eventi.

- Posizione 3: la scienza sostiene che tutti gli eventi sono causati da altri eventi.

La mente umana dipende sostanzialmente dall’attività del cervello umano. Non

c’è motivo di pensare che la catena causale degli eventi si interrompa ad un

certo punto. Dobbiamo intendere il libero arbitrio come parte del lavoro del

cervello umano. Dobbiamo vedere il libero arbitrio non esulante dalla

causalità naturale. La persona è responsabile in ultima istanza quando l’azione

dipende dalla sua volontà cosciente.

La prima posizione è chiamata “teoria della non libertà”, la seconda è chiamata

“libertarismo”, la terza “compatibilismo” ed è difesa dall’autore. Data la legge che

nella scienza prende il nome di “chiusura causale del mondo fisico” (Kim, 2000; De

Palma e Pareti, 2004), è difficile per un neuroscienziato credere nel libero arbitrio alla

maniera del libertarismo (Pockett, 2007).

De Caro et al. (2010) individuano tre posizioni prevalenti nel dibattito sul libero

arbitrio:

- illusionisti: il determinismo è vero e la libertà illusoria

- libertaristi: il determinismo falso e la libertà presente (Kane, Searle)

- scetticisti: sulla spiegazione scientifica (McGinn 1993)

Il libertarismo è associato ad una concezione dualistica delle sostanze, una mentale ed

una fisica (il cervello), ma esistono anche forme non dualiste della stessa, come

l’agent causation (Gomes, 2007; De Caro, 2004).

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Il libertarismo, quando si appella alla meccanica quantistica e all’indeterminismo

come difesa del libero arbitrio, incappa in un’altra difficoltà, quella cioè di spiegare

come sia possibile un controllo cosciente su eventi che sono fondamentalmente

aleatori. Anche la credenza in un universo indeterministico porta dei problemi alla

libertà: alcuni eventi come il collasso della funzione d’onda originano da eventi

aleatori e se essi sono fuori dal nostro controllo allora il caso e non la libertà

governano le azioni (Roskies, 2006).

“La possibilità della causalità indeterministica, in particolare, è un tema molto

discusso negli ultimi anni…L’idea, in breve, è quella di una relazione causale in cui

la causa accresce la probabilità che si verifichi l’effetto, senza necessitarlo: in una

parola, tra la causa e l’effetto intercorre un nesso meramente probabilistico. Da ciò

segue che gli eventi possono essere causati senza essere determinati; ma, allora,

questa stessa possibilità prova che è errato identificare – come spesso avviene – il

determinismo causale con la tesi secondo la quale ogni evento ha una causa, ovvero

con la causalità universale tout court.” (De Caro, 2004, p.13).

Il determinismo hard è quella versione dell’incompatibilismo che ritiene che, sulla

scia della concezione laplaciana (Gomes, 2007), sia possibile prevedere con certezza

il corso degli eventi semplicemente conoscendo la condizione generale dell’universo

e la posizione iniziale dell’oggetto in questione; “Con il termine ‘determinismo’ ci si

riferisce a una tesi concernente il mondo (e non allo stato del mondo che tale tesi

postula).” (De Caro, 2004, p.11). Nondimeno, la fisica moderna assume che vi sia

una importante componente di casualità nella determinazione degli eventi (Gomes,

2007). I deterministi hard sono incompatibilisti, ovvero non ammettono la

compatibilità tra una descrizione meccanicistica dell’universo e la presenza di libera

volontà cosciente, propendendo per il primo dei due aspetti e finendo dunque per

essere negazionisti sul tema del libero arbitrio.

Pockett (2007) suddivide così i “macro-approcci” al libero arbitrio:

- 1 compatibilismo: l’azione può dirsi libera se non è costretta da impedimenti o

patologie

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- 2 incompatibilismo: il mondo fisico sembra essere deterministico, e ognuno degli

eventi non random del cervello viene causato da un altro evento fisico cerebrale; non

ci sarebbe zona d’azione per la coscienza entro la catena causale. Ogni evento neurale

è necessario e sufficiente per il successivo e non vi possono essere due cause per il

medesimo evento (sovradeterminazione). Il libero arbitrio sarebbe allora illusorio.

Alcuni eventi random potrebbero influenzare i nostri comportamenti, ma noi in

qualità di agenti coscienti non avremmo alcun potere di intervenire nella catena

causale.

- 3 libertarismo: un atto volontario richiede comandi originati in un senso realmente

cosciente. Un comando del genere non ha antecedenti fisici. Così i libertaristi sono

dualisti e pensano alla coscienza come un fenomeno non fisico.

I quesiti che Pockett pone al libertarismo sono i seguenti:

- come fa la coscienza non fisica a interagire col cervello fisico?

- sarebbe svantaggioso biologicamente e non correlato all’ambiente

Quest’ultima affermazione a mio parere può lasciare perplessi: perché mai dovrebbe

essere svantaggioso biologicamente possedere una coscienza non fisica? In un

articolo (Lindahl, 1997) viene trattata esaustivamente la questione in relazione anche

al paradigma evoluzionistico e alle posizioni in questione di filosofi come Popper,

William James e Mario Bunge.

Per quanto riguarda l’incompatibilismo, non è vero che non vi possono essere due

cause per un evento: due potenziali sinaptici occorrono di solito anche su un solo

neurone! (Pockett, 2007). La coscienza avrebbe il potere di alterare il peso di eventi

neurali differenti e la probabilità di occorrenza di un certo comportamento.

Essi sono implicitamente dualisti perché parlano della coscienza come differente

dalla catena causale.

Molti condividono un approccio monista, identificando la coscienza con stati del

cervello (neurofisiologi) o con processi e funzioni del cervello (psicologia

funzionalista). Pockett però non condivide le posizioni riduzioniste né quelle

“epifenomenaliste” del funzionalismo: la sua idea di coscienza è quella di un campo

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generato dall’attività del cervello, e l’Io risiederebbe nella configurazione dinamica

che l’identità personale assumerebbe in questa prospettiva, nondimeno mantenendo i

requisiti per una ascrizione del ruolo di “agente” al soggetto di esperienza. La sua è

una difesa delle posizioni compatibiliste, in quanto sono ritenute le più accettabili

anche in campo legale e giuridico oltre che in quello teorico-filosofico (Pockett,

2007; Gomes, 2007; Sie e Wouters, 2010). “Un importante pregio di tale concezione

è che essa si pone programmaticamente il compito di dare conto della libertà umana

nel quadro della visione scientifica del mondo: e questo è il motivo per cui il

compatibilismo attrae molti di coloro che si preoccupano dell’armonizzazione delle

teorie filosofiche con quelle scientifiche.” (De Caro, 2004, p.56).

La conclusione di Pockett è che per un biologo è difficile essere libertaristi (Pockett,

2007).

De Caro (2004) individua tre forme distinte di libertarismo:

-indeterminismo radicale: ci sono eventi che non hanno cause

-indeterminismo causale: causalità indeterministica che aumenta la probabilità

dell’effetto ma non lo necessita

-agent causation: fattore speciale di controllo sugli eventi posseduto dall’agente

(ragioni)

“Che cos’è questa mente? Qual è il suo nesso con gli enti naturali? Come può essa

creare una frattura nella struttura nomologica dell’universo?” (p.54). In un’altra parte

del suo libro il filosofo scrive che, in effetti, “…questa discussione ha connessioni e

ricadute rilevanti rispetto ad altri importanti dibattiti filosofici, come, ad esempio,

quelli sul significato dell’essere persona, sulla natura della causalità o sulle modalità

dell’interazione tra la mente e il corpo…occorre dunque chiedersi se la libertà sia

effettivamente precondizione della responsabilità.” (p.99).

Il quesito che qui si ripropone è quello della definizione ontologica della mente

umana: Di Francesco (2000) ha dedicato un intero volume alla trattazione filosofica

della coscienza e del posto che la persona occupa all’interno dell’ordine naturale.

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Gazzaniga sostiene che chi crede nel “fantasma nella macchina” o mente pensa che

essa possa performare decisioni e scelte libere e ci faccia agire nel mondo fisico

(indeterminismo); chi crede che non vi sia libero arbitrio pensa che tutto sia

predeterminato (fato o genetica) e che tutte le cose siano inevitabili (determinismo)

(Bok, 2007).

L’assunto di base è che la libertà ed il determinismo siano incompatibili e Gazzaniga

e Libet concordano con ciò, ma con conclusioni differenti tra loro: il primo può

essere annoverato tra i deterministi hard, gli illusionisti del libero arbitrio, il secondo

tenta di trovare una soluzione fondamentalmente dualistica al problema. Tuttavia,

molti neuroscienziati si rifanno al compatibilismo (Gomes, 2007; Pockett, 2007; Sie e

Wouters, 2010). Inoltre, se le nostre azioni fossero regolate da fattori casuali,

sarebbero sempre fuori dal nostro controllo. Noi normalmente leghiamo la libertà

metafisica alla responsabilità morale. Il fantasma nella macchina violerebbe la

chiusura causale del mondo fisico e sarebbe difficilmente spiegabile. Ricorrere a

eventi non naturali non risolverebbe il problema di spiegare come agire in un mondo

predeterminato, le cause non fisiche sostituirebbero le cause cerebrali (ibidem).

Ci si sposta dalla verità/falsità del determinismo alla capacità di autoregolarci,

scegliere le nostre azioni. È questo ciò su cui viene posta enfasi dal “nuovo

compatibilismo”: “Secondo una versione più moderna di compatibilismo…ciò che

conta per la libertà è la capacità di offrire ragioni razionali per giustificare le nostre

azioni…” (De Caro et al., 2010, p.X).

Poiché la mia mente fa parte del mondo naturale (Damasio, in Oliverio 2009), il

determinismo non implica che le scelte che tramite essa opero siano irrilevanti ai fini

del comportamento; il determinismo da solo non implica niente rispetto a ciò che

dovrei fare dopo (Bok, 2007). Non implica neppure che avrei ragioni per scegliere

una alternativa, e ciò mi lascia sempre una scelta da fare. Esso mi influenzerebbe solo

se conoscessi già in anticipo quello che farei; inoltre, se anche comunicassi ad una

persona la predeterminazione che conosco, ciò altererebbe i suoi stati mentali e

cerebrali e quindi introdurrebbe una variabile che non potevo calcolare all’inizio. Se

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il determinismo è vero allora tutte le azioni sono guidate da cause antecedenti, ma ciò

è irrilevante allorchè decido di fare ciò che faccio (ibidem). Bok sostiene che:

- 1 è impossibile che io conosca in anticipo le cause e comunque ciò altererebbe la

mia percezione. Non posso evitare la necessità di decidere per me;

- 2 quando cerco di calcolare ciò che faccio non mi concentro sulle cause fisiche ma

sulle ragioni psicologiche (Merleau-Ponty, 1945), e il fatto che una mia decisione sia

predeterminata è irrilevante per questo.

Anche Gomes (2007) e Sie e Wouters (2010) prendono le difese del compatibilismo.

Per il primo, è l’Io che sceglie cosa fare e non il proprio cervello, ma l’Io non è altro

che una configurazione particolare dell’attività del working brain.

Egli sostiene che oltre all’assenza di coercizioni interne e di ostacoli esterni, è

richiesto dal nuovo compatibilismo il fatto che vi sia assenza di sufficienza causale

degli eventi che agiscono sull’Io: è il soggetto stesso, in definitiva, a decidere il

comportamento (questo ricorda alquanto il concetto di iato sostenuto da Searle).

Gomes ricorre al paradigma della meccanica quantistica per sottolineare come vi sia

un determinismo naturale solo a livello macroscopico, mentre a quello subatomico e

microscopico regni l’indeterminismo; i sistemi dinamici complessi, descritti da

Prigogine (2003, cit. in Gomes, 2007), sono lontani da una condizione di equilibrio e

definibili piuttosto come stati di equilibrio stazionario, ai quali non si applica la

predittività tipica dell’universo descritto da Laplace.

Ci sono differenti “Io” e ognuno è implicato in una decisione differente: le cause

psicologiche che agiscono su me ed in me non sono causalmente sufficienti per

determinare l’azione: entra in gioco l’Io del soggetto, che comunque fa parte

integrante, per Gomes, dell’ordine naturale e perciò non interrompe la catena causale

degli eventi determinati da altri eventi antecedenti, ma inserisce un ingrediente extra

ad essi. L’Io è un sistema auto-organizzante e auto-pilotato nel cervello, a parere di

Gomes (2007).

Non basta, per Gomes, che la possibilità di fare altrimenti sia definita come

possibilità di corsi alternativi in circostanze diverse: il soggetto avrebbe potuto fare

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altrimenti anche in presenza degli stessi desideri e credenze, e circostanze esterne. È

questa la reale condizione di potenzialità di fare altrimenti richiesta per il possesso

del libero arbitrio dal nuovo compatibilismo. Poiché l’Io è un’attività del cervello,

non vi è incompatibilità tra la libertà della decisione ed il fatto che tutti gli eventi

hanno cause antecedenti, compresi eventi neurali come il potenziale di prontezza

(RP) nel caso dell’esperimento di Libet sull’azione motoria.

Molti neuroscienziati vedono nella tale situazione una interpretazione negazionista

della libertà, poiché l’assenza di consapevolezza cosciente renderebbe un atto iniziato

fuori dalla sfera di consapevolezza non libero. Gomes sostiene invece che “il fatto

che una decisione cosciente sia causata da altri eventi neurali non è una ragione per

credere che gli atti volontari non siano iniziati sotto il controllo libero.” (ibidem,

p.231).

Poiché anche i processi inconsci fanno parte dell’Io, essi vanno tenuti in

considerazione esattamente come quelli coscienti ai fini di una comprensione dei

meccanismi psicologici della deliberazione (Jahn, 2001; Pockett, 2007; Oliverio,

2009).

Le persone sembrano intuitivamente incompatibiliste; i ragazzini sono intuitivamente

portati a interpretare il comportamento secondo la agent causation, mentre il 90-95%

delle persone è libertaria (Roskies, 2006). Sorprendentemente, gli scenari in cui è

esplicitamente detto loro di un universo completamente deterministico, le persone

tendevano ad essere compatibiliste: nel 60-85% degli intervistati maturava la

convinzione che le persone fossero moralmente responsabile per le proprie azioni

anche se inserite in un universo deterministico (dissociazione). Dal punto di vista

legale il 15% circa degli intervistati riferiva di cambiare il proprio giudizio di

colpevolezza su un imputato se considerava la variabile dell’universo deterministico

(ibidem).

Comunque, dice Roskies, anche se una concezione del meccanicismo incompatibile

con l’agentività metterebbe a rischio la nostra visione sulla responsabilità morale, la

scienziata pensa che sarà più probabile e auspicabile un incontro tra dati empirici e

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credenze intuitive (equilibrio riflessivo). Ne è convinta anche Laura Boella: “In ogni

caso, la diffusione dei risultati di una ricerca molto sofisticata non può che interagire

con le convinzioni di senso comune.” (2008, p.4).

Quindi anche se i progressi delle neuroscienze influenzassero i nostri giudizi teorici

sui concetti del libero arbitrio, non intaccherebbero quelli pratici sulla razionalità e

responsabilità. Lei propone che vadano rivisitati alcuni concetti come quello di libertà

e riconsiderati ad esempio in chiave del controllo razionale, come fondamentale

intermediario tra decisione ed azione (ibidem). È qui che si gioca la partita del

compatibilismo: si tratta di ridefinire i concetti di libero arbitrio e potere di iniziativa

– nonché potere di fare altrimenti – in chiave del controllo razionale su ragioni.

Ci sono buone ragioni per pensare che nel cervello l’esperienza fenomenologica del

potere agentivo o decisionale scaturisca da una immediatezza di fondo, che correla

l’azione e le sue conseguenze con la percezione soggettiva che siamo noi ad agire

(Haggard et al., 2002). Wegner (Gomes, 2007; De Caro et al., 2010) sostiene che sia

illusoria, ai fini del reperimento delle cause reali di un’azione, tale esperienza, che

egli chiama volontà fenomenica; tuttavia, il fatto che l’esperienza di agency non sia

infallibile, come nel caso delle condizioni psicopatologiche, non implica che essa sia

illusoria: Gomes (2007) la definisce piuttosto incompleta e fallibile. Inoltre, molte

obiezioni alla lettura “illusionista” di Wegner replicano che dai risultati sperimentali

non segue una “impotenza della coscienza” (Sie e Wouters, 2010).

La capacità di operare giudizi razionali che influenzano i nostri desideri è il cuore del

concetto di libero arbitrio nella filosofia occidentale (Cary, 2007). Esercitare l’abilità

della “ragion pratica” consente di operare giudizi razionali, secondo il sillogismo

aristotelico (ibidem), il quale però lascia aperta la questione sul come

psicologicamente agiamo e decidiamo: una questione, la suddetta, che può trarre

beneficio e chiarificazione concettuale dall’incontro tra neurobiologia e

fenomenologia della scelta (De Monticelli, in De Caro et al., 2010).

L’agire pratico è fatto oggetto di analisi storica da Cary (2007), il quale prende in

considerazione le forme di fatalismo che nella storia occidentale hanno caratterizzato

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la filosofia greca, distinguendo tra la concezione ellenistica degli stoici e quella antica

delle tragedie di Sofocle, rappresentata nel mito di Edipo.

Per gli stoici, in particolare, le cause fisiche sono necessarie ma non sufficienti a

performare una azione umana: gli sforzi e le decisioni umane non sono inerti né senza

significato di fronte al fato. Nel medioevo, la visione metafisica dell’universo

concepisce l’intelletto come il potere della ragione di discernere il bene dal male,

mentre la volontà è un potere dell’anima di rispondere a tale percezione deliberando

azioni e scelte volontarie (ibidem).

Nell’eliminare la concezione teleologica dal mondo fisico, la scienza moderna ha

rimosso dalle fondamenta la capacità originaria e umana della libera volontà. Con

Kant, il libero arbitrio viene sottratto all’indagine naturale sul mondo osservabile:

mentre le nostre inclinazioni empiriche possono essere osservate, investigate e oggi

misurate con vari mezzi, per Kant la ragion pratica pura e la volontà morale non sono

empiriche e trascendono la misurazione e l’osservazione scientifiche.

Un atto di volontà è realmente libero e motivato da pure ragioni morali piuttosto che

dal proprio interesse empirico, ed è sempre una possibilità ideale per il soggetto, mai

un fatto scientifico. Kant è annoverato da Cary nella tradizione antesignana del

compatibilismo.

“Quando si parla di libera scelta, ci si riferisce dunque non a una…capacità di fare o

non fare, di intervenire sui meccanismi causali, bensì di agire o di non agire sulla

base di un processo di deliberazione, di ponderazione che ha ben poco a che vedere

con l’esercizio di un potere causale attivo sugli avvenimenti.” scrive Boella (2008,

p.81).

Poiché il determinismo non preclude la nostra capacità di agire in base a ragioni, ciò

che sembra rafforzare il determinismo, nelle ricerche, non preoccupa i compatibilisti.

C’è poi un filone di ricerca conosciuto come emotivismo che riscopre il valore

fondativo delle emozioni nei processi decisionali, non contrapponendosi a ma

rafforzando la razionalità dell’azione (Damasio, 1995). Secondo l’emotivismo i

concetti morali non hanno carattere rappresentazionale né del mondo esterno né della

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mente individuale (come invece le credenze) (De Caro, in De Caro et al., 2010).

“Secondo la prospettiva emotivistica, piuttosto, i concetti morali esprimono le

reazioni fisiologiche di approvazione o rifiuto da parte degli agenti in contesti in cui

sono in gioco relazioni interpersonali”. (ibidem, p. 132).

Chapman et al 2009 sostengono che il disgusto morale sia identico al disgusto

gustativo e coinvolga le medesime aree cerebrali, in particolare insula e putamen.

“Gli autori ammettono che i dati ancora non suffragano l’idea che le reazioni

emozionali istintive manifestate dai movimenti facciali siano causa dei

comportamenti razionali susseguenti; non dimeno essi asseriscono che le prime sono

“rilevanti” per il presentarsi delle seconde, che vi sono “saldamente associate””. (p.

133, nota 7). Prosegue De Caro:

“Secondo gli autori, quanto accade nel caso del disgusto gustativo è identico, dal

punto di vista fisiologico, a ciò che accade nel caso del disgusto morale….. Secondo

Chapman e colleghi il trasferimento del segnale fisiognomico di disgusto dall’ambito

alimentare a quello morale sarebbe un caso di “esaptazione” ovvero di trasposizione

di un tratto biologico originariamente selezionato per una data funzione a una

funzione di tipo diverso……” (p. 134).

“Cio’ che è controverso, come abbiamo visto, è se alla teoria dell’evoluzione si possa

chiedere di spiegare soltanto le condizioni biologiche dell’apparizione delle capacità

morali o non anche di offrire, più ambiziosamente, un contributo cruciale alla

spiegazione emotivistica della morale in quanto tale. Il secondo punto di vista – che è

quello della psicologia evoluzionistica di Chapman e colleghi – non è a mio giudizio

molto promettente. Esso infatti presuppone che il contenuto dei fenomeni morali

possa essere descritto e spiegato mediante i concetti non normativi propri delle

scienze naturali; ma vi sono ottime ragioni per supporre che, nel descrivere i

fenomeni morali, i concetti normativi che li caratterizzano non possano essere

eliminati né ridotti a concetti non normativi.” (pp. 135-136). “E, in effetti, nemmeno i

più accesi fautori di questa concezione sostengono che potremo mai mostrare in

dettaglio come il complesso dei concetti con cui parliamo degli esseri viventi (e a

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fortiori dei soggetti umani) possa essere ridotto ai concetti che si riferiscono alle

proprietà subatomiche dei loro corpi.” (p.131).

Si riferisce ai programmi naturalistici riduzionismi e sostiene che esistono forme

meno marcate che comunque vorrebbero ricondurre “i concetti normativi,

intenzionali, modali e fenomenologici…. a concetti neuroscientifici, biologici e

psicologico-computazionali” (ibidem).

De Caro sostiene che “lo stesso disgusto” sia un’espressione impropria per connotare

le reazioni fisiologiche e viscerali di riprovazione verso cibi cattivi (con sollevamento

del muscolo levator labii) e i casi in cui la riprovazione coinvolge giudizi morali. “A

questa fenomenologia motorio-sensoriale però non corrisponde, in genere, una

valutazione normativa.” (p. 139). Per concludere, quindi, “Il disgusto morale è

diverso, insomma, dal disgusto alimentare.” (p. 140).

LIBERTA’ E RESPONSABILITA’

Il nuovo compatibilismo insiste sul giudizio di responsabilità come connessione di

responsabilità personale e razionalità pratica (Sie e Wouters, 2007). Gomes (2007)

insiste sulla completezza di una definizione del “nuovo compatibilismo” riguardo al

tema del libero arbitrio meno restrittiva della classica versione dell’assenza di

costrizioni o vincoli esterni (o interni). Una riconcettualizzazione del libero arbitrio

necessita di essere non così restrittiva come la versione che lo limita all’assenza di

costrizioni esterne.

Dal punto di vista delle neuroscienze è significativo che il cervello umano sia

interfacciato con una capacità di considerare differenti possibilità di azione e con lo

scegliere una di esse (Gomes, 2007; Droege, 2008). La filogenesi ha dotato il cervello

umano di una maggiore flessibilità, e molti ritengono che la capacità di scegliere tra

percorsi alternativi secondo una rappresentazione del futuro variegata sia emersa solo

come prodotto della evoluzione naturale: tuttavia, il concetto di evoluzione

generatrice e quello di preformismo pongono in primo piano il ruolo del libero

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arbitrio come proprietà imprescindibile della vita umana e pre-condizione per la

direzionalità degli stessi percorsi evolutivi (Popper e Eccles, 1977).

“E’ un’intuizione comune della psicologia ingenua il fatto che possiamo scegliere

liberamente tra diverse opzioni di comportamento…” (Haynes, in De Caro et al.,

2010, p.5).

La antropologia biologica riguarda l’evoluzione naturale del cervello umano e ha

colto le intuizioni delle neuroscienze nelle origini delle capacità culturali umane.

L’antropologia sociale d’altra parte col suo focalizzarsi sulla variabilità culturale

nell’esperienza umana, è stato un baluardo filosofico contro le neuroscienze

riduzioniste.

Le neuroscienze evoluzionistiche fanno da ponte tra scienze cognitive e scienze

sociali per una migliore comprensione globale della mente. Dalla prospettiva delle

neuroscienze, l’esperienza soggettiva deve essere logicamente istanziata nel cervello

(Campbell e Garcia, 2009). I due scienziati riportano la dizione di

Neuroantropologia: i dati empirici sono integrati dalla biologia evoluzionistica, dalle

neuroscienze comportamentali e dall’antropologia culturale, ai fini di una migliore

comprensione dei meccanismi psicologici sottesi a comportamenti umani.

È certo che la capacità di “fare altrimenti” è condizione necessaria perché si dia

attribuzione di responsabilità a un’azione umana, almeno secondo il sistema legale in

vigore, e che comunque, anche tra i sostenitori del compatibilismo e di una

“razionalità pratica”, non sia sufficiente la concezione di agire altrimenti in

circostanze differenti: per essere giudicati responsabili di un’azione occorre che la

persona abbia avuto la possibilità di agire altrimenti anche date le stesse condizioni in

questione (Gomes, 2007). “Una volta riconosciuto che l’organismo è unità, e non un

processo, si è nella condizione di riconoscere anche la sua primitiva natura di agente,

il suo essere portatore di interessi, bisogni e punti di vista.” (Noë, 2010, p.44).

L’importanza di tenere conto della triade cervello, corpo, mondo per ascrivere la

responsabilità ad un agente è ben rimarcata da Noë (ibidem): “L’animale possiede un

mondo, in altre parole, si trova in relazione con ciò che lo circonda. La forza della

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teoria dell’evoluzione per selezione naturale deriva dal modo in cui naturalizza e

spiega fatti come questi. Per comprendere un animale dobbiamo assumere una

prospettiva sulla sua vita che sia al contempo narrativa, storica ed ecologica.…

Primario è l’animale, non i suoi tratti…non è possibile fare della biologia restando

all’interno della fisica. Per fare della biologia abbiamo bisogno di sviluppare un

atteggiamento non meccanicistico nei riguardi dell’organismo considerato nel suo

essere immerso nel proprio ambiente.” (pp.42-43; per una visione della teoria

dell’evoluzione come prospettiva narrativa vedi Piattelli Palmarini e Fodor, 2010).

“L’enigma della responsabilità è dunque una conseguenza dell’enigma della libertà:

se le nostre azioni sono inevitabili…non è ragionevole ritenere che noi ne siamo

responsabili, in quanto non avremmo potuto fare altrimenti.” (De Caro, 2004, p.101).

A questo scopo, ritorna attuale il dibattito metafisico che accompagna le diverse

descrizioni che i filosofi fanno del libero arbitrio, tanto più se libertà e responsabilità

morale vanno di pari passo.

Una tra queste, quella del determinismo forte, è assai proibitiva non solo per il libero

arbitrio, ma anche per il giudizio di responsabilità: “…se l’ambito dell’agire umano

avesse carattere deterministico, sembrerebbe definitivamente compromessa la

possibilità di fare altrimenti. Se ciò è vero, allora il determinismo…è incompatibile,

oltre che con la libertà, anche con la responsabilità morale.” (ibidem, p.107).

Frankfurt (ibidem) propone invece che, anche se l’agente non fosse stato in grado fare

altrimenti, sarebbe stato responsabile della propria azione, e perciò il determinismo

non sarebbe incompatibile con la responsabilità.

“In realtà, per quanto ne sappiamo, la nostra responsabilità presuppone l’esistenza

della libertà; e dunque per salvare l’idea di responsabilità è necessario risolvere

l’enigma della libertà.”(ibidem, p.126).

Secondo Pockett (2007), la definizione compatibilista – ma probabilmente non quella

del nuovo compatibilismo, come abbiamo visto - sostiene “semplicemente” che un

atto è libero se non è costretto da impedimenti ed è il più accreditato tra i punti di

vista in chiave legislativa. La visione incompatibilista di tipo soft richiede che l’atto

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volontario sia iniziato coscientemente e fa i conti con la nozione di mens rea, non è

un principio incompatibile con la visione scientifica. Soltanto la visione libertaria

forte, che sostiene che gli atti coscienti non abbiano antecedenti fisici, è poco

d’accordo con la lettura scientifica. Tuttavia nella versione incompatibilista soft vi

sono evidenze che la coscienza non è la causa realmente di ciò che consideriamo

movimenti volontari: molte azioni hanno avvio in maniera preconscia e la coscienza

ne viene informata soltanto a posteriori, dopo che sono iniziati i processi che guidano

l’azione. Dal punto di vista legale, la mens rea dovrebbe essere giudicata colpevole se

contiene elementi sia consci che inconsci di agire (cfr. Jahn, 2001; Oliverio, 2009).

“Quando si parla di libera scelta, ci si riferisce dunque non a una…capacità di fare o

non fare, di intervenire sui meccanismi causali, bensì di agire o di non agire sulla

base di un processo di deliberazione, di ponderazione che ha ben poco a che vedere

con l’esercizio di un potere causale attivo sugli avvenimenti.” (Boella, 2008, p.81)

La Mens rea è la responsabilità individuale del comportamento in conseguenza della

libertà di scelta e di decisione.

“La tipologia legale riassunta nella concezione della mens rea potrebbe essere rivista

alla luce di un’indagine più fine sulla misura in cui un’azione, per quanto vincolata a

meccanismi subpersonali, rifletta integralmente una persona, i suoi valori e i suoi

desideri e scopi o solo una minima parte, spesso inessenziale.” (Boella, 2008, p.83).

I sostenitori della teoria di assenza di libertà spesso mettono in questione l’esistenza

di una responsabilità morale e la giustificazione della punizione sulle basi morali

oltre che pratiche. Essi ragionano sul fatto che, se le azioni sono determinate da

cause, allora il soggetto non è mai responsabile per esse. Essi giustificano la

punizione su basi soltanto utilitaristiche: benché la persona non sia responsabile per

quello che fa, esistono casi in cui la punizione è utile. Ma perché l’illusione

nell’osservatore dovrebbe fare la differenza per l’utilità o meno della punizione? Essi

rispondono che si tratta della presenza di un attributo nell’agente che mobilita

l’impressione nell’osservatore, l’attribuzione illusoria di responsabilità. Una persona

è responsabile se l’azione è svolta secondo un processo cosciente di presa di

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decisione e se l’agente avrebbe potuto fare altrimenti: una persona è responsabile per

l’azione quando l’Io della stessa è in situazione di controllo della decisione di

performarla (Gomes, 2007).

Comunque, dice Roskies (2006), una concezione del meccanicismo incompatibile

con la agentività metterebbe a rischio la nostra visione sulla responsabilità morale.

La concezione dell’agent causation, che ascrive all’agente particolari poteri di

agentività e controllo sull’azione, è difesa dai sostenitori del libertarismo “moderato”.

Roskies propone che vadano rivisitati alcuni concetti come quello di libertà e

riconsiderati ad esempio in chiave del controllo razionale, come fondamentale

intermediario tra decisione ed azione. Inoltre, andrebbero riletti i dati delle

neuroscienze e integrati con l’approccio giuridico alla responsabilità civile e penale:

il cervello sarebbe un particolare sistema fisico che governerebbe le azioni,

compatibilmente con una concezione di responsabilità morale e non con la

concezione di un’assenza di leggi causali che governano il libero arbitrio. Dal punto

di vista legale, però, ci sarebbe una grande limitazione, perché i sistemi giuridici si

dovrebbero concentrare sulle misure preventive piuttosto che su quelle retributive.

Juth e Lorentzon (2010), esaminando il solo sistema legale svedese, si sono

interrogati sull’impatto che la psichiatria forense e i concetti filosofici di libero

arbitrio adottati avrebbe prodotto, come ripercussione, sul sistema giuridico di un

Paese. Essi si sono chiesti innanzitutto se, nella storia, tale impatto vi sia stato e,

secondariamente, se esso sia giustificato.

La risposta al primo quesito è affermativa: differenti concezioni del libero arbitrio

hanno avuto un vasto impatto sul sistema legale del Paese e sulle conclusioni tratte

nella psichiatria forense circa gli impedimenti psicopatologici al completo esercizio

della deliberazione cosciente.

Tuttavia, essi dicono, la connessione tra la teoria filosofica sul libero arbitrio e la

prassi, la pratica legale, circa l’atteggiamento verso la responsabilità morale non è

automatica e netta: la prima si riferisce ai modi in cui ci si dovrebbe comportare, è

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cioè normativa, la seconda fa riferimento al reale grado di libertà verso la

attribuzione di responsabilità.

Per quanto riguarda la seconda domanda, i due scienziati rispondono che tale impatto

non dovrebbe avvenire sulla legge e sulla psichiatria forense, poiché dettato da una

errata concezione del retributivismo che ancora direttamente la libera volontà e la

punizione. Essi raccomandano il ricorso ad un concetto utile e graduale di autonomia

come fondamento della responsabilità pratica.

La concezione dell’autonomia presentata dagli scienziati è compatibile con una

gradualità nel possesso del libero arbitrio e rimane neutrale di fronte alla questione

della verità o meno del determinismo. Viene formulata una definizione minimale di

“autonomia”: “essere autonomi in una situazione è almeno fare quello che uno ha

deciso di fare, perché lo ha deciso, e decidere di fare quello che uno vuole, perché lo

vuole.” (ibidem, p. 5).

L’assenza di compulsioni o altri vincoli interni, la “competenza decisionale”,

l’efficienza – capacità di realizzare ciò che uno ha deciso di fare – sono tutti elementi

che concorrono alla definizione di che cosa vuol dire possedere autonomia

decisionale. Anche l’autonomia è una questione, cioè, di gradi di libertà.

Lesioni bilaterali della corteccia ventromediale generano mancanza di

consapevolezza e deficit dell’azione riflessiva, con indifferenza al rischio. Essi

saprebbero indicare razionalmente il criterio corretto ma non lo saprebbero scegliere.

Burns e Bechara (2007) riportano che nel 2002 il 68% dei soggetti che commisero

reati soddisfacevano i criteri diagnostici per l’abuso di sostanze, associata a

deterioramento dei sistemi neurali che regolano globalmente i comportamenti di

presa di decisione. Dunque molte delle persone che commisero reati agivano con

possibilità di autogestione e deliberazione inferiori alla norma. Gli autori si

interrogano: a che punto della vita emergerebbe un profilo neuropsicologico del

genere? A quali cause sarebbe dovuto? Quale ruolo da attribuire all’abuso di

sostanze? Perché non è vero che tutte le persone con lesioni cerebrali incappano in

condotte criminose? (ibidem).

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Più conosciamo il cervello, sostengono gli autori, più è possibile mettere in atto

interventi riabilitativi, come quelli psicofarmacologici. Ovviamente la farmacologia

non risolve tutti i problemi; è più fruttuoso concentrarsi su strategie di coping

adattive. Il concetto è comunque quello non di minacciare il sistema legale con le

scoperte delle neuroscienze, ma di favorire un miglioramento nella comprensione

delle disfunzioni biologiche e una loro migliore riabilitazione.

Quello che emerge dal dibattito sulla responsabilità morale, comunque, è che –

qualunque conclusione venga tratta – esso non può non relazionarsi in qualche modo

ad una definizione del libero arbitrio, col quale è necessariamente legata.

Molti aspetti della storia del libero arbitrio, dice Cary (2007), sono rilevanti in una

corte, ma molti sono eccedenti le competenze o gli interessi di qualsiasi corte della

Terra.

Noi abbiamo libertà decisionale, sia che le nostre azioni abbiano o meno cause

neurali. (Bok, 2007; vedi De Caro 2004).

“Dunque, per il diritto le neuroscienze non cambiano nulla, in quanto esso dispone di

strumenti concettuali atti a definire la responsabilità civile e penale che non possono

essere messi in crisi dai nuovi dati sperimentali.” (Boella, 2008, p.84).

UNA RILETTURA DEGLI ESPERIMENTI DI LIBET

Esiste tutto un filone di ricerca e, annesso, un dibattito filosofico-scientifico

inaugurati dal pionieristico esperimento di Libet et al. (1983).

Gli esperimenti di Libet rappresentano un paradigma di ricerca che è nato ed è stato

impostato sulla stima temporale - da parte dei soggetti - di processi mentali, come le

intenzioni coscienti, e si è poi trasformato in un filone di ricerche paradigmatiche sul

libero arbitrio. I risvolti dell’esperimento del 1983 di Libet e collaboratori si sono

rivelati assai importanti per la letteratura scientifica e filosofica in ambito del

dibattito sul determinismo neuronale e sul più vasto tema del libero arbitrio (o libertà

metafisica). Scrive Gomes (2007): “alcuni dati dalle neuroscienze sono stati invocati

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per dimostrare che non c’è libero arbitrio nell’iniziare volontariamente le azioni.”

(p.222).

Nell’esperimento in questione, si chiedeva ai soggetti di fissare un quadrante

circolare su schermo, il quale conteneva un punto luminoso in movimento a mò di

lancetta, e di premere un pulsante che avrebbe stoppato il punto mobile quando

avessero sentito l’impulso a farlo. Dopodichè, si domandava ai soggetti di stimare

temporalmente il momento in cui la loro decisione di premere il pulsante era divenuta

consapevolmente cosciente; in pratica, i soggetti dovevano riportare indietro il punto

mobile nella zona del quadrante in cui si trovava al momento in cui la loro decisione

era stata formulata. Nel frattempo, un impulso elettrico stimolava in maniera tattile la

superficie della mano dei soggetti e fungeva da situazione di controllo, dal momento

che andava datata temporalmente anche essa.

Dai risultati EEG delle registrazioni cerebrali, emergeva che all’incirca 1 secondo

prima che i soggetti premessero il pulsante iniziava a generarsi un potenziale lento

negativo chiamato potenziale di prontezza, che era correlato con la preparazione al

movimento; si verificava in realtà una biforcazione tra quelli di tipo 1, tipici di azioni

pianificate e generatisi circa 1000-800 ms prima dell’azione, e quelli di tipo 2, tipici

di azioni spontanee e aventi una latenza di 550 ms precedente il movimento. La cosa

interessante era che tra l’inizio del picco e l’azione, al momento 0, intercorreva con

una latenza di circa -200 ms (cioè 200 ms precedente il movimento) un picco

corrispondente alla consapevolezza cosciente dell’intenzione (will) di muovere il

dito.

Il fatto che il potenziale iniziasse così in anticipo rispetto al movimento effettivo

lasciava presagire che le azioni intenzionali pianificate e quelle spontanee, in misura

minore, dipendessero da processi inconsci fuori dal controllo cosciente, e ciò è stato a

lungo ritenuto una minaccia per la libertà psicologica di fronte al determinismo

neurofisiologico; d’altro canto, il fatto che una finestra di circa 200 ms precedesse la

azione effettiva e ospitasse la consapevolezza cosciente lasciava spazio ad un

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margine di libertà decisionale in cui al soggetto era permesso di esercitare un certo

controllo sul movimento.

In effetti, Libet convenne che anche se le azioni iniziano in modo incontrollato nel

cervello, uno spazio di libertà permette al soggetto di decidere se portare o meno a

termine l’azione, arrecando un veto cosciente al proseguo del movimento iniziato

inconsciamente.

Le critiche principali a tale lettura sono che:

- l’impulso ad agire non è propriamente una scelta libera;

- il setting sperimentale manca della connotazione significante e vissuta della

vita quotidiana, pertanto non è del tutto valido ecologicamente;

- non sempre il primo elemento nella catena causale è quello che conta

maggiormente, perciò il potenziale di prontezza potrebbe avere un

ridimensionamento ai fini della libera azione;

- l’unica vera libera azione è l’adesione o meno iniziale all’esperimento

(Haggard, 2008).

Ad esse aggiungerei io che

- i processi impliciti necessariamente sono inconsci e la maggior parte dei

processi mentali inizia in modo inconsapevole ma non per questo è fuori dal

controllo razionale.

- I processi mentali che anticipano di 1 secondo il movimento potrebbero

riflettere altri tipi di ragionamento oppure un libero fantasticare della mente

nelle fasi preparatorie all’azione.

C’è poi un filone di studi che argomenta a favore della necessità di non prendere sul

serio i tempi stimati dai soggetti circa le intenzioni coscienti, poiché le latenze

percettive degli stimoli visivi sono molto differenti da quelle di stimoli uditivi e tattili

e perciò occorrerebbe disporre di un confronto intermodale tra le sensazioni

percettive e quelle di controllo (Danquah et al., 2008; cfr. Durgin e Sternberg, 2002) .

Non è cioè pacifico utilizzare indistintamente uno stimolo tattile ed uno visivo come

confronto.

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Ci sono infine ricerche specializzate sulle aree cerebrali implicate nella istanziazione

dei potenziali elettrofisiologici cerebrali: giro cingolato per il controllo motorio e

cognitivo delle azioni, pre-SMA e SMA (area motoria presupplementare e

supplementare) per il potenziale di prontezza, amigdala e gangli della base per i

processi emozionali o motori inconsci.

È stato proposto che i meccanismi della scelta siano importanti ai fini della

comprensione della sua fenomenologia: in sostanza è emerso che la corteccia

prefrontale medi i processi razionali e quelli legati al controllo cosciente di pensiero

ed azione, mentre il sistema limbico ospiti la sede dei processi impliciti e regolati in

senso emozionale ed automatico. Una disfunzione del primo sistema o un

iperfunzionamento del secondo potrebbero ostacolare il controllo volontario sul

proprio comportamento, il quale è frutto della capacità di formulare piani a lungo

termine e di mettere in armonia le memorie del passato coi piani futuri in ottica di

seguire corsi di azioni alternativi a quello corrente (Burns e Bechara, 2007).

Le aree frontopolari regolerebbero la capacità di decision making, quelle cingolate e

del giro frontale inferiore modulerebbero rispettivamente l’inibizione degli impulsi

motori o attenzionali.

Il senso di agency si rispecchia nel binding attenzionale (Haggard et al., 2002), quel

fenomeno che si verifica allorchè una intenzione cosciente si lega al movimento

effettivo: nelle patologie schizofreniche accade che il paziente non riesce ad attribuire

la paternità della propria azione a sé stesso per effetto del mancato accoppiamento tra

intenzione ed azione, ossia tra le cause e le conseguenze di una azione.

IL DIBATTITO SUGLI ESPERIMENTI DI LIBET

Il Potenziale di prontezza (PPM o RP, readiness potential) è un’onda lenta negativa

che inizia circa 800 ms prima che il soggetto porti a compimento un’azione motoria.

Esso è stato scoperto nel 1965 da Kornhuber e Deecke e indagato in precedenza da

W. G. Walter (De Caro et al., 2010).

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“Questo potenziale elettrico è visibile nel segnale dell’elettroencefalogramma come

un’onda lenta che comincia un secondo (o poco più) prima di ogni movimento

volontario, rilevato bilateralmente in corrispondenza delle regioni pre e postcentrali

dello scalpo.” (ibidem, p.XII). Il PPM si genera nella SMA in corrispondenza di

sforzi volontari e intenzioni legate al movimento mentre è assente nei casi di

movimenti automatici. Esistono innanzitutto due tipologie di PPM (ibidem; Lau et al.,

2006): il decorso del PPM di tipo I è tipico delle azioni pianificate ed ha inizio circa

1000-800 ms prima dell’azione motoria, quello del PPM di tipo II è tipico delle

azioni spontanee e comincia circa 550 ms prima dell’esecuzione dell’azione.

Il RP pone dei seri problemi per quelli che pensano che il libero arbitrio sia un

attributo di una mente immateriale e non soggetto a causalità naturale. Haggard

sostiene che il decorso del RP fa pensare più ad una relazione di cervello su mente

che viceversa (Gomes, 2007). Tuttavia, a mio parere, tale conclusione non è esatta,

poiché è presente piuttosto un omeomorfismo tra mente e cervello (Cappuccio, 2006),

del quale l’attività correlate mente-cervello è un indicatore empirico.

Dai risultati dell’esperimento di Libet sembra emergere che il processo di

deliberazione sia preconscio e dunque estraneo al controllo volontario da parte

dell’agente: ciò rappresenterebbe una minaccia importante per i sostenitori di una

concezione del libero arbitrio che lo lega al possesso di ragioni coscienti. I processi

impliciti, tuttavia, sono presenti nel cervello sotto il nome di inconscio cerebrale

(Oliverio, 2009) e rappresentano tutti i processi cognitivi nella loro componente

inconscia, ossia quella che ha luogo prima dei 500 ms. Tutti i processi mentali,

dunque, prima di accedere alla coscienza hanno un decorso che affonda le proprie

radici su questo inconscio cerebrale; non per questo però sussiste necessariamente

l’equazione inconscio=involontario. È chiaro che, nel loro aspetto implicito, i

processi cognitivi non acquisiscono ancora quel significato personale che li rende

teleologici e inerenti ad un vissuto soggettivo.

Un’altra obiezione è che, dato che il cervello retrodata l’esperienza cosciente, in

modo da avvicinarla al processamento neuronale (Haggard, 2008), i dati della

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temporizzazione non sono così attendibili. Inoltre, l’attivazione della SMA, l’area

motoria supplementare che è sede del potenziale di prontezza, potrebbe a sua volta

essere inserita in un loop di aree cerebrali attive in sincronia (ibidem). “E’ stato

quindi suggerito che il potenziale di prontezza riveli l’area corticale primaria in cui

viene presa la decisione del movimento (Eccles, 1982).” (Haynes, in De Caro et al.,

2010, p.7).

“Ad esempio, l’inizio anticipato del potenziale di prontezza potrebbe essere un effetto

provocato dal trascinamento temporale e rivelare soltanto l’inizio dei primissimi

impulsi al movimento (Trevena e Miller, 2002)…Non si chiarisce quindi in che modo

altre aree potrebbero contribuire alla costruzione delle decisioni.” (ibidem).

Haynes, Soon et al nel 2008 hanno riscontrato dati fRMI che permettono di predire

quale mano avrebbe mosso il soggetto da 7 a 10 secondi prima che il soggetto

compisse l’azione: le aree attive sono la regione frontopolare, o BA10, e la corteccia

parietale estese al precuneo e alla corteccia cingolata posteriore.

“…l’informazione predittiva è codificata nello schema spaziale delle risposte della

fMRI…” (ibidem, p.11).

BA10 è sede di un cambiamento non globale ma nella schematizzazione dei correlati

fMRI in modo specifico rispetto alla scelta. “BA10 svolge un ruolo importante nel

codificare e nel mantenere le intenzioni. Si sa da tempo che lesioni a BA10

conducono a perdita di memoria prospettica…Inoltre, BA10 è ritenuta l’area che si è

sviluppata nell’uomo con la maggiore sproporzione rispetto ai primati non umani…”

(p.12). Tuttavia, per scongiurare conclusioni riduzionistiche, Haynes sostiene che “…

anche una piena conoscenza dello stato di attività delle popolazioni di neuroni nella

corteccia frontopolare e nel precuneo non permetterebbe di predire completamente la

decisione.” (p.17). Una importante considerazione da effettuare riguarda il tipo di

relazione che intercorre tra le neuro immagini del cervello in attività e l’attività

mentale: i dati di neuroimaging offrono “immagini colorate” (Legrenzi e Umiltà,

2009; Noë, 2010) del cervello che consistono sostanzialmente in ricostruzioni

matematiche tramite sofisticati algoritmi delle regioni che, probabilisticamente, si

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attivano nel cervello in risposta ad un determinato stimolo o compito in cui i soggetti

sono impegnati. Il rapporto mente-cervello non è di natura isomorfica, per cui

sarebbe un errore trarre conclusioni riduzionistiche dalla semplice “lettura” delle

immagini di risonanza magnetica. “La visualizzazione cerebrale ci offre immagini

colorate del cervello…Di fatto, le tecniche di visualizzazione funzionale sollevano

importanti e ancora irrisolti problemi metodologici.” (Noë, 2010,p.20). In più, è

comune per il ricercatore incappare in una auto-validazione delle proprie ipotesi; in

breve, il ricercatore vedrebbe nei dati di neuroimaging ciò che si aspetta di vedere, un

effetto conosciuto col nome di “effetto Pigmalione” (Palomba e Stegagno, 2004).

“Allo stesso modo, le immagini prodotte attraverso l’impiego di PET e fMRI non

possono in alcun modo essere considerate tracce dirette di fenomeni psicologici.”

(Noë, 2010, p.21). V Tempia parla di un parallelismo psicologico-neurologico

(Tempia, in De Caro et al., 2010).

“l’osservazione del comportamento…e la misurazione della loro attività neurale non

consentono di conoscere la mente degli altri…Inoltre, non abbiamo alcuna

comprensione della connessione che lega l’attività neurale e l’esperienza soggettiva.”

(Noë, 2010, pp.28-29)

L’azione recide, come sostengono Blondel ed i filosofi dell’azione.

“…lo stesso segnale della fMRI presumibilmente non è coinvolto in modo causale

nella presa di decisione. È soltanto un modo indiretto di misurare i processi neuronali

che portano alla decisione.” (Haynes, in De Caro et al., 2010, p.18). Ad esempio,

Haggard suggerisce di prendere in considerazione l’input dai gangli basali alla pre-

SMA, dal momento che ben 2 secondi prima dell’azione volontaria questi sono attivi,

e nella patologia parkinsoniana c’è riduzione nella frequenza e nella velocità delle

azioni volontarie in conseguenza di una alterazione del metabolismo della substantia

nigra.

Lo stesso Haggard propone che diversi networks cerebrali offrano informazioni

separate sull’azione volontaria; in particolare, la comparazione degli input predittivi e

quelli del target da raggiungere potrebbe essere impiegata anche per opporre quello

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che Libet ha chiamato veto cosciente e che Haggard definisce come “tardiva

decisione del ‘se’”. Esso recluterebbe l’area motoria pre-supplementare e l’insula

anteriore. Evitare l’azione o inibirla recluta la corteccia frontomediana (ibidem).

Trevena e Miller, due studiosi molto dediti all’analisi degli esperimenti di Libet,

riscontrano anch’essi un potenziale di prontezza prima dell’azione volontaria; il

punto è però se sia corretta la stima temporale dei soggetti circa il momento in cui il

movimento prende effettivamente avvio (Joordens et al., 2002). Sembra che i soggetti

tendano a riportare gli eventi circa 70 ms in ritardo rispetto a quando avvengono, ma

il cervello retrodata l’esperienza al momento in cui la decisione viene processata. La

riflessione cosciente è sempre “in ritardo” rispetto al sentire fenomenologico, poiché

è un riflettere su un irriflesso, su un qualcosa di pre-cognitivo (Merleau-Ponty, 1945).

L’informazione sul movimento che si sta generando viene inviata alla

consapevolezza prima che il movimento occorra; noi avvertiamo il senso di agency

perché la consapevolezza precede il movimento effettivo. Il punto è esaminare varie

distorsioni o errori legati al resoconto verbale rispetto al cronometro mentale

impiegato per stimare il momento del comportamento (Joordens et al., 2002).

Trevena e Miller sostengono che il reale correlato del movimento intenzionale non

sia il RP, bensì il più tardivo potenziale di prontezza lateralizzato (LRP) (Joordens et

al., 2002; Durgin e Sternberg, 2002). La percezione del tempo, come quella viviva, è

soggetta ad errori, un concetto conosciuto come crowding (Durgin e Sternberg, 2002;

Danquah et al., 2008). La coscienza è in ritardo in parte a causa della conduzione

nervosa, in parte perché l’inizio dell’azione è inconsapevole.

Il resoconto verbale è comunque in ritardo più perché legato alle caratteristiche del

linguaggio che per un ritardo della coscienza (Joordens et al., 2002). Negli

esperimenti di Trevena e Miller viene osservato un effetto conosciuto come “effetto

rappresentazionale del momento”, per cui i soggetti sovrastimano il percorso

compiuto dal cerchietto dell’orologio usato come stimolo target. L’effetto fa sì che

essi sovrastimino la collocazione finale della lancetta così che c’è l’impressione che il

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movimento sia iniziato più tardi di quanto in realtà sia. Ciò è dovuto anche alla

rappresentazione “spazializzata” del tempo (Glicksohn, 2001).

Il RP precederebbe la decisione di agire, l’LRP quella di agire adesso (Durgin e

Sternberg, 2002): resta da collocare temporalmente questo “adesso” nello specious

present, il presente esteso. Esso non è un punto fisso, ma un “campo” o confine

temporale, strutturato formalmente in sè dall’interrelazione di protensione, ritenzione

e presentificazione (Vogeley e Kupke, 2007). Il primo tra i tre orizzonti intenzionali

viene collocato da Fuster – nella sua “teoria prefrontale” – nella convessità emisferica

e medierebbe il set preparatorio, nel pensiero programmatico e prospettico. La

ritenzione sarebbe invece questione di working memory e sostenuta dal network

riverberante di attività frontale, in particolare da parte della porzione dorso laterale

della PFC. Il controllo dell’interferenza sarebbe svolto invece dalla porzione mediale

della prefrontale e corrisponderebbe alla presentificazione.

D’Argembau et al. (2010) hanno investigato le componenti cognitive che stanno alla

base della pianificazione futuristica degli eventi, legata in particolare alla capacità di

immaginare eventi futuri. Il paradigma potrebbe essere visto come simile a quello

della Neurofenomenologia, in cui differenti aspetti del pensiero futuristico (fluenza

verbale, n. di dettagli episodici, fenomenologia) vengono messi in relazione con le

componenti sottostanti (funzioni esecutive, processi visuospaziali, memorie

relazionali, autocoscienza e prospettive temporali), tramite compiti e questionari. I

risultati mostrano che le funzioni esecutive correlano con varie misure del pensiero

futuristico, ma che anche i processi visuospaziali e il n. di descrizioni temporali

riportate sono collegati col pensiero futuristico: in pratica, la memoria episodica

interviene anche nell’immaginazione di eventi futuri. La psicologia e le neuroscienze

concordano nella intima relazione tra ricordare il passato ed immaginare il futuro

(ibidem).

Lau et al. (2006) hanno riscontrato nei loro esperimenti che quando ai soggetti veniva

richiesto di datare nel tempo l’inizio della propria intenzione di agire, si assisteva ad

un incremento dell’attività della pre-SMA, mentre quando dovevano stimare l’inizio

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dell’esecuzione motoria si assisteva ad un incremento nella corteccia cingolata

motoria.

Questo aveva indissolubilmente ripercussioni sulla stima, in quanto più ampia era

l’attivazione corticale specifica in una di queste aree, più forte era il bias, che rendeva

la stima più precoce. Nello studio in questione i soggetti che dovevano riportare

l’inizio della propria intenzione di agire mostravano un incremento nella corteccia

frontale mediale: gli autori concludono che tale area media la stima temporale

dell’intenzione cosciente portando ad errori percettivi di anticipazione.

In due condizioni essi dovevano agire stimando o non stimando il tempo della

decisione, mentre in altre due condizioni dovevano percepire un tono stimando o non

stimando il momento della percezione. La corteccia cingolata motoria era

significativamente attiva durante la stima dell’inizio dell’azione ma non del tono; si

associa alla preparazione motoria ed il suo picco è precoce. Dunque, mettere in

pratica la stima dell’intenzione porta ad un aumento nella precocità del RP a -228 ms!

Poiché noi di solito non prestiamo attenzione al momento della consapevolezza delle

intenzioni, è improbabile che tale latenza sia quella del tempo realmente datato.

Senza la modulazione dell’attenzione essa può essere -120 ms e ciò porta a molte

problematicità circa lo spazio – o “finestra – di controllo cosciente sull’azione.

Pazienti con lesioni al giro angolare riportavano latenze di -50 ms! (ibidem).

Kiesel et al. (2006) hanno studiato l’effetto del priming subliminale su stimoli

presentati sovraliminalmente e inerenti azioni volontarie: dai loro studi emerge che il

priming non influenza soltanto le scelte forzate ma anche le libere decisioni, senza

che il soggetto ne sia consapevole. I soggetti rispondevano, nel caso di compiti di

scelta forzata, più velocemente nei casi di congruenza tra prime e target, mentre nei

compiti di scelta libera – senza alternative fisse – i soggetti rispondevano più

velocemente se il prime era congruente al target e lo precedeva di 16 ms, mentre se

essi distavano 116 ms i soggetti rispondevano più velocemente se il prime era

incongruente!

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Il prime preparava la risposta motoria nel caso delle libere scelte, ma il potenziale di

prontezza lateralizzato era assente poiché mancava un preciso target. Il LRP era

invece in media più forte nei casi in cui il prime congruente veniva presentato nei

compiti di scelta forzata. Il prime incongruente, in questi casi, ritardava la risposta

motoria che era stata scelta. La conclusione degli autori è che il paradigma del

priming non è neutro neppure nelle condizioni di scelta libera; si potrebbe pensare

che, data la velocità dei processi, il prime abbia solo la capacità di ritardare o

accelerare la risposta che è già stata elaborata, ma il meccanismo è comunque

presente e i soggetti non ne sono consapevoli. Alternativamente, si potrebbe pensare

ad una differenza tra processi goal directed e stimulus driven: le risposte

endogenamente orientate potrebbero essere meno influenzabili di quelle guidate da

stimoli esogeni (ibidem).

Benchè molti studi si siano concentrati sulla rappresentazione di azioni volontarie nel

cervello, ben pochi sono quelli incentrati sulla volontà di non agire (Kühn et al.,

2009).

L’assunto di Kühn e colleghi è che i correlati neurofisiologici delle “non azioni”

libere dovrebbero sovrapporsi largamente con quelli delle azioni libere volontarie

piuttosto che con quelli delle “non azioni” forzate, inibite.

In effetti, nei casi di Free No Go conta più l’intenzione covert di non agire che

l’inibizione overt. Gli ERPs fanno riscontrare in particolare l’attenuazione della

componente N2 e l’incremento della P2.

Le scelte di non agire possono essere viste infatti sia come simili a inibizioni

innescate dall’esterno (per via del loro esito) sia come simili a libere scelte di (non)

agire (perché c’è la formazione di intenzione). In realtà, i correlati psicofisiologici

mostrano che conta di più la proprietà di intenzionalità dell’azione che la sua

inibizione comportamentale. La componente P2, correlata alla formazione

dell’intenzione, è infatti incrementata nei casi di Free No Go come in quelli di Free

Go e di Instructed Go, mentre la N2 tipica delle inibizioni Instructed No Go è

attenuata. La P2 si ritiene sia implicata nella selezione delle risposte e nella

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organizzazione delle risposte motorie. La N2 è molto simile tra le Free e le

Instructed No Go, ed è attribuita al riflesso di un conflitto e di processi inibitori (giro

cingolato?). Tuttavia, essa non aumenta nelle Free No Go poiché il conflitto non è

presente, essendo l’azione volontariamente deliberata.

Tornando al paradigma di Libet, secondo alcuni autori esso è soggetto a molti errori

metodologici (Danquah et al., 2008): in particolare, l’utilizzo dello stimolo

somatosensoriale e tattile come condizione di controllo è inadeguato ad un confronto

con la stima temporale in modalità visiva. Le risposte, che nel paradigma di Libet

erano anticipatorie riguardo alla stima della consapevolezza e del movimento in

modalità tattile di controllo (cfr. Trevena e Miller in Joordens et al., 2002), sarebbero

influenzate dalla modalità sensoriale e dalla velocità dello stimolo.

Bisogna che i giudizi sulla simultaneità sensoriale intermodale considerino le

differenti latenze dello stimolo percettivo: gli stimoli visivi devono precedere quelli

tattili per essere percepiti come simultanei, poiché hanno una più lunga latenza

percettiva, di circa 30 ms. Inoltre, più velocemente corre l’orologio, meno anticipatori

sarebbero i tempi riferiti circa l’impulso elettrico. I soggetti non dovevano, poi,

ricordare la posizione finale del flash ma quella alla quale avveniva l’impulso:

Joordens et al. parlano di bias mnestico (rappresentational momentum).

In definitiva, il paradigma di Libet è soggetto a molte critiche ed è ben lungi dal trarre

conclusioni metafisiche sulla nostra capacità razionale di agire in base a scelte e

deliberazioni volontarie.

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CONCLUSIONI

Come conclusione di questo lavoro, vorrei riportare alcune citazioni di autori sulla

fondamentale esperienza che il libero arbitrio rappresenta per l’agire umano.

“A questo scopo, occorre in primo luogo attribuire alla libertà il posto essenziale che

le spetta all’interno della prospettiva agenziale: occorre, cioè, riconoscere che per

essere agenti liberi bisogna essere liberi e che solo gli agenti possono essere liberi.”

(De Caro, 2004, p.130).

“Poiché le spiegazioni delle scienze umane sono le uniche in grado di dare conto di

una parte di realtà per noi essenziale – quella abitata dagli agenti – non possiamo non

accettarle. Ma così facendo ne dobbiamo accettare…in particolare, l’intrinseco e

ineliminabile richiamo alla libertà.” (De Caro, 2004, p.144).

Nonostante le presunte critiche al libero arbitrio come esperienza fenomenologica e

facoltà intrinsecamente umana, Searle scrive:

“C’è una stranezza nell’esperienza del libero volere, perché non possiamo liberarci

della convinzione della nostra libertà neppure quando ci convinciamo, dal punto di

vista filosofico, che si tratta di una convinzione erronea…dobbiamo decidere o agire

presupponendo la nostra libertà. Il nostro decidere e il nostro agire non sono

intelligibili altrimenti. Non possiamo prescindere dal nostro libero arbitrio.” (Searle,

2005, p.198; vedi De Caro, 2004).

Quindi, per concludere, “…rimaniamo ancora esseri liberi e moralmente responsabili.

La tesi che libertà e responsabilità siano possibili in condizioni di determinismo ha

avuto, nel corso dei secoli e fino a oggi, numerosi e autorevoli sostenitori.” P.81

“Certo, si può pensare che esistano una volontà e una razionalità indipendenti dai

meccanismi fisici e in grado di governarli.” (Boella 2008, p.85)

Nicola Salvadori

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