1 SantAgostino e la scoperta della libertà Il terzo libro del «De libero arbitrio»

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Sant’Agostino e la scoperta della libertà

Il terzo libro del «De libero arbitrio»

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Il moto difettivo della volontà

• Se il male è dovuto ad un moto difettivo della volontà, domanda Agostino, da dove viene tale moto?

• Se è naturale non è colpevole, cioè se per natura la volontà tende o può tendere al male nessuno potrà essere accusato del male che compie, poiché tale male sarà necessario.

• Se l’anima dunque è mossa da tale movimento essa stessa non sarà colpevole.

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Il movimento naturale verso il male

• Se il movimento dell’anima fosse naturale accadrebbe che essa si muove al male come una pietra lanciata verso l’alto si muove verso il basso. Tuttavia, riprende Agostino, non si dà questo giudizio assolutorio, perché l’anima comunque viene giudicata colpevole se commette il male.

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La volontà è mossa da se stessa

• Tale giudizio di colpevolezza è del tutto giustificato da quanto precedentemente appurato, cioè dal fatto che nessuna realtà, né superiore, né inferiore, muove la volontà, ma solo la volontà stessa. La volontà in sostanza determi9na se stessa e determina un suo movimento non naturale. Per tale motivo la pietra che cade verso il basso non pecca, la volontà, che si volge ai beni mutevoli invece che immutabili, invece sì.

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Conclusione e nuovo problema

• Dunque il movimento difettivo della volontà viene dalla volontà stessa.

• Ma qui sorge un altro problema. Se noi pecchiamo per volontà nostra e la nostra volontà non è mossa da altri che da se stessa, come è possibile conciliare tale mancanza di necessità al male, con il fatto che Dio, con la sua precienza, pre-conosce appunto, cioè sa già prima, tra il bene e il male, quale alternativa noi sceglieremo?

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Se Dio sa…

• Se Dio sa, è infatti necessario che ciò che egli sa ACCADA, dunque la scelta della volontà appare necessaria.

• Si potrebbe negare la provvidenza divina come fanno gli epicurei (i quali si danno peraltro a passioni sfrenate), oppure negarne l’onnipotenza o la bontà, ma se invece di cadere in questi gravi e miserandi orrori, ci si rivolgesse a lei, ella ci renderebbe più «preparati a vedere» e «mansueti nel ricercare».

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L’atto del volere

• Ebbene rivolgendosi alla Provvidenza stessa, Agostino cerca di mantenere assieme i ude lati della contraddizione, affermando che non si tratta di contraddizione.

• L’argomento parte dall’atto soggettivo del volere. Noi infatti possiamo dire che qualcosa ci attrae, e forse ci attrae anche irresistibilmente, tanto che, per esmepio, a proposito del vizio di fumare, non riusciamo a smettere, pur volendolo.

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La volontà che vogliamo

• Ma qui si tratta di qualcosa che non riusciamo ad ottenere, cioè di un oggetto che la volontà non riesce a conseguire (lo smettere di fumare). Tuttavia, direbbe Agostino, qui non ci siamo ancora soffermati sull’atto stesso. L’atto del volere presuppone la sua presenza solo che esso sia voluto. Infatti, non per ottenere, ma per volere è sufficiente che noi vogliamo. Quindi l’atto del volere è di per sé libero.

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La volontà mia

• Nulla è infatti più mio della mia volontà, che per volere non fa altro che evocare se stessa, essendo essa causa di se stessa.

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La volontà in nostro potere

• Agostino quindi deduce che la volontà è qualcosa che per definizione è in nostro potere.

• Ora è possibile prevedere con esattezza qualcosa che tuttavia è in potere di altri? Dipende da quanto si conoscono gli altri. Io di mia moglie posso prevedere un comportamento in suo potere, poiché la conosco sufficientemente bene.

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Dio e il potere degli altri

• Di conseguenza non vi è nessuna contraddizione al fatto che Dio conosca qualcosa che tuttavia rimane in nostro potere. Ergo conosce la nostra volontà, pur rimanendo la nostra volontà assolutamente nostra. (questo Dio assomiglia tantissimo al Dio di Leibniz, che conosce esattamente gli uomini in modo da poter conoscere la ragion sufficiente di tutti gli atti che compiranno).

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Il potere non è tolto da Dio per il fatto di essere conosciuto

• Se Dio conosce il nostro potere di volere e non volere, e se è tale nostro potere a determinare la nostra volontà, Dio conoscendolo non ce lo toglie, come io conoscendo il potere di mia moglie di fare o non fare la spesa domani, e sapendo come ella userà di tale potere, non glielo tolgo.

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“Non si deve imputare al creatore tutto ciò che è necessario accada nella sua creatura” (III, V, 12)

• Siccome Dio non toglie il potere all’anima, conoscendo ciò che essa farà, lungi dall’accusare Dio per averla creata, non bisogna mai far mancare la lode a Dio per la sua opera. L’anima infatti, anche quando pecca, rimane una cosa grande, e superiore a tutti i corpi, per i quali pure spesso non facciamo mancare a Dio la nostra lode e il nostro ringraziamento.

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Dio ha fatto tutto per il meglio

• Infatti Dio, nel creare l’universo ha fatto tutto per il meglio, e non bisogna mai affermare che sarebbe stato meglio per un qualsiasi ente non essere mai stato creato. Infatti tutto, anche le cose inferiori, nel supremo ordine dell’essere, concorre al meglio.

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Se tu ragioni bene cogli l’essere delle cose

• Se uno ragiona bene, coglie esattamente l’ordine e la bontà della creazione, pur potendo non vedere TUTTO il creato. Il ragionamento infatti, se vero, consente uno sguardo qualitativamente profondo che ci fa conoscere l’essenziale verità delle cose.

• Questo avviene perché il ragionamento vero vede le cose nelle sue ragioni divine, cioè nei paradigmi con i quali Dio stesso ha pensato l’universo. Tale ragionamento ci dà conferma dell’esistenza delle cose anche in assenza di una loro attestazione sensibile (se non vedi il cielo, ma con un ragionamento vero concludi che ci deve essere, allora, esso ci sarà con totale certezza).

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Noi possiamo peccare … ehmbè?

• Se il nostro sguardo si volge all’ordine dell’universo così come Dio lo ha pensato e voluto, non ci possiamo lamentare della posizione che abbiamo in esso, e del fatto che noi possiamo peccare.

• Innanzitutto noi possiamo peccare ma non siamo costretti a farlo.• Poi Dio, nella sua sapienza ha creato gli angeli, che permangono

nella volontà di non peccare e, ad un livello più basso, ha creato gli uomini, che possono peccare, ma possono recuperare pentendosi e riparando. Gli uomini, però, sono superiori ai demoni che permangono nella volontà di peccare, e tuttavia “Dio, neppure da quella creatura che egli sapeva che non solo avrebbe peccato, ma che sarebbe rimasta nella volontà di peccare, tenne lontano l’effusione della sua bontà al punto di non crearla” (III,V,15).

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Nell’ordine divino ogni grado ha la sua eccellenza

• Bene, allora guardiamo all’eccellenza degna di lode della nostra condizione, sembra dirci Agostino, evitando di concentrarci su argomenti che ci sviano. Ognuno, nel suo livello ha un grado di bontà per il quale è in dovere di lodare Dio. L’uomo che può peccare per libera volontà, è comunque superiore alle cose, che pur non potendo peccare, non dispongono di libera volontà.

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Ogni anima è migliore di ogni corpo

• Ogni anima è migliore di ogni corpo, che pure ha un grado di perfezione. Il migliore dei corpi, la luce di plotiniana memoria, è peggiore della peggiore delle anime.

• Insomma nell’ordine voluto da Dio la bellezza e bontà è gradualmente organizzata, perché nello stesso ordine risplenda la somma bellezza e sapienza divina.

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Usare la ragione

• Con la ragione dobbiamo evitare di anteporre cose che vanno posposte e viceversa, così come tende a fare l’”uso”, cioè l’opinione comune, che spiega le cose “per lo più secondo la consuetudine del vantaggio” la quale porta a dar maggiore importanza a cose di minor valore. Al contrario la ragione deve riflettere e rispecchiare l’ordine del creato, abituandosi a lodare Dio per l’effettiva grandezza e bontà delle sue creature, concepite nei giusti rapporti gerarchici con tutte le altre.

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Non scandalizzarsi per il peccato

• Dato ciò, non ci si può scandalizzare per il peccato degli uomini e smettere di lodare Dio perché le anime possono peccare, poiché la peggiore delle anime peccatrici, ha comunque una sua ontologica dignità che nessuno può toglierle. Ciò sebbene tale anima si disonori nel peccato a motivo della sua stessa volontà, che viene utilizzata male e contro gli scopi per i quali Dio gliel’ha donata.

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Chi si scandalizza della sua miseria

• Vi è chi nondimeno si scandalizza per la propria miseria di persona limitata e peccatrice. Costui dice:

“Preferirei non esistere che essere misero”.Egli in realtà, dice Agostino, mente. Il fatto è che chi

dice così è già misero. Affermazione, questa, che appare un po’ apodittica a meno che non si pensi che chi non è già misero, mai direbbe: “preferirei non esistere”.

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Chi è misero tuttavia vuole esistere

• Ma - prosegue Agostino, spiegando in parte le sue affermazioni di prima - in realtà chi è misero, purtuttavia vuole esistere, e se è misero lo è CONTRO IL SUO VOLERE. Se una persona però non riconosce questo suo voler esistere come elemento primario, sarà costretto ad essere ciò che egli non vuole, come una sorta di pena del contrappasso poiché l’ingratitudine per l’esistenza – data dal non voler riconoscere di voler esistere – genera di per sé un’esistenza misera (una sorta di pusillanimità che è castigo a se stessa). Quindi malgrado la sua ingratitudine, questa persona avrà lo stesso l’esistenza, un bene dato dalla misericordia di Dio, ma in conseguenza della sua ingratitudine, egli ne avrà una misera.

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Che cosa accade se ciò che mi interessa è non morire per non essere maggiormente misero dopo

la morte?• A questo punto Agostino introduce un’altra

possibilità, che genera un ragionamento assai complesso. Si tratta della possibilità di dire

• “non voglio morire”Non perché preferisco essere misero piuttosto

che morireMa perché non voglio essere maggiormente

misero dopo la morte

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Risposta di Agostino: se è giusto che tu sia misero lo sarai se no, no

• Agostino risponde a tale affermazione: Se è ingiusto essere misero dopo la morte non lo sarai, se sarà giusto, lo sarai con giustizia.

Ma qui si pone una domanda ancor più profonda:Da che cosa si desume che se è ingiusto non sarò

misero e se è giusto lo sarò con giustizia? Chi dà una garanzia ontologica a questa affermazione morale? Chi garantisce la corrispondenza tra la giustizia e il mio stato effettivo di miseria o di felicità?

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La formalizzazione del problema

• Il problema sembra qui essere riducibile a questa formula

Se x (se è giusto che tu sia misero dopo la morte)

Allora Y (allora lo sarai)Se non X (se è ingiusto che tu sia misero dopo la

morte)Allora non Y (allora non lo sarai)

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La risposta evasiva di Agostino• La domanda è chi mi garantisce il rapporto di consequenzialità

tra X e Y e non X e non Y

La risposta di Agostino però non si pone sul piano della corrispondenza, ma la dà per scontata, infatti Agostino dice:

se sarai in tuo potere, volendolo sarai felice comportandoti giustamente o infelice comportandoti ingiustamente. Cioè, se sei in tuo potere, potrai decidere, comportandoti male, che è giusto che tu sia misero dopo la morte o potrai decidere, comportandoti bene che è ingiusto che tu sia misero dopo la morte … e quindi sarai misero o non lo sarai a seconda della tua decisione.

Qui la corrispondenza è data, il problema è decidere come comportarsi per ottenere una condizione di miseria o di felicità (non miseria).

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Se non si è in proprio potere (continua la risposta di Agostino)

• Viceversa si può dare anche la possibilità che tu non sia in tuo potere…e che tu sia in potere

di nessunoO

di un altro

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Se si è in potere di nessuno

• Nel primo caso, se sei in potere di nessuno, questo nessuno deve vincere comunque la tua volontà, ma siccome è nessuno, questi non può esprimere alcuna controforza capace di vincere la tua volontà, e quindi torni in potere di te stesso.

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Se si è in potere di altri

• Nel secondo caso questo “altro” può essere più debole o più forte.

• Se è più debole, non ha la forza di vincere la tua volontà e dunque tu torni in potere di te stesso

• Se è più forte e tu vuoi comportarti bene per non essere misero dopo la morte, ma non puoi farlo perché ti vince una forza superiore, la corrispondenza giustizia-felicità e ingiustizia miseria è comunque data ed è corretta, e quindi non ti resterà che accettare la giustizia del fatto che comportandoti male sarai misero.

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La conclusione di Agostino

• Agostino conclude ribadendo la tesi iniziale “se è questo essere misero dopo la morte è ingiusto, non sarai così; se invece è giusto essere misero dopo la morte, sarà giusto in relazione al tuo comportamento, quindi lodiamo Colui per le cui leggi sarai così.

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Nuovo problema: dovrei desiderare di non esistere…

• Agostino continua a rispondere ad altre obiezioni che ruotano attorno alla questione se sia preferibile esistere anche nel caso di un’esistenza misera, piuttosto che non esistere.

• Se uno dicesse: “Ora voglio esistere perché, essendo misero è già nell’esistenza, non riesco a non volerlo, ma se avessi potuto scegliere prima di esistere, avrei detto di no”,

• Agostino risponderebbe sottolineando il gran bene dell’esistenza.

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Il gran bene dell’esistenza• Agostino dimostra quale gran bene è l’esistenza, facendo

notare che essa è preferita da tutti, siano essi beati – poiché è evidente che i beati, essendo tali, preferiscono esistere – siano essi miseri, come ha mostrato lo stesso estensore dell’obiezione.

• Dunque quest’ultimo è misero in quanto si trova lontano da Colui che sommamente è, e non perché esiste. Egli vorrebbe non esistere perché non vede Colui che sommamente è, nondimeno non riesce a rinunciare a voler esistere proprio grazie a lui che gli ha donato un bene così grande che risulta difficile non volerlo.

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Amare il proprio voler essere• Bisogna pertanto amare il proprio voler essere, ed anzi

cercare di coltivarlo ed amplificarlo, perché così ci si avvicinerà a Colui che sommamente è, e quindi anche alla beatitudine.

“Tutte le cose […] per il fatto stesso che sono, devono giustamente essere degne di lode, perché sono buone proprio per il fatto stesso che sono” (III,VI, 21).

Questa affermazione è il centro di tutto il capitolo presente e costituisce la descrizione più chiara del punto di vista di Agostino. Una prospettiva, questa, che diventerà canonica per tutta la metafisica medievale, che sempre darà per scontato che “ens et bonum convertuntur”.

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Dall’amore per il proprio voler essere all’essere vero

• L’amore per il proprio voler essere, conduce alla felicità, perché incrementa il proprio essere nutrendolo di beni stabili ed eterni, e lo innalza quindi fino all’essere vero. Aggiunge Agostino:

• “Se uno preferisce non essere piuttosto che essere misero, non potendo non essere, rimarrà misero; se uno invece ama maggiormente l’essere di quanto odi l’essere misero, con aggiungere essere a ciò che ama, esclude la miseria” (III,VI,21). Nel primo caso la miseria sarà data dal non riconoscere il bene dell’essere e quindi dal rifiutarlo; nel secondo il suo riconoscimento genererà la sua ricerca e quindi permetterà la fuoriuscita dalla miseria.

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Preferire il nulla è assurdo• Agostino incalza ancora e aggiunge una riflessione

logica: se uno preferisce il non essere all’essere misero, in realtà preferisce il nulla a qualcosa, ma preferire il nulla è non preferire, scegliere il nulla è non scegliere, infatti il nulla non è e, come non può essere conseguito, non può essere preferito e scelto. Infatti se in nulla è preferibile vuol dire che è meglio, cioè possiede una qualità, ma il nulla in quanto nulla non può essere una sostanza alla quale si attribuisce una qualità, il nulla come tale è senza qualità, quindi non può essere preferibile.

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Sentimento e opinione nei suicidi

• Chi sceglie il nulla uccidendosi, o lo ha fatto credendo di andare in un posto migliore (che è e che non è quindi nulla) oppure ha compiuto un grossolano errore logico.

• In realtà chi si uccide non CREDE nel totale annichilimento, infatti egli più o meno possiede sempre il SENTIMENTO che dopo la morte sussisterà, anche se, interrogato, esprimerà un’ opinione contraria.

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Verità ed errore; abitudine e natura

• L’opinione o è vera o è falsa• Il sentimento o è per abitudine o per naturaGeneralmente la tradizione filosofica tardo antica svaluta le

passioni e le emozioni, ma qui Agostino procede ad una sua netta rivalutazione: se il sentimento è naturale, cioè procede dall’essere del soggetto che lo prova, e l’opinione è nell’errore, come si è visto dall’assurdità di preferire il nulla, coloro che sono tentati al suicidio dovrebbero dare retta al sentimento. Nei suicidi abbiamo un sentimento retto, la ricerca della quiete in una vita sottoposta a tormenti insopportabili, ma questa ricerca di quiete è ricerca dell’essere vero, che essendo pieno, immutabile ed eterno è in quiete. Accanto a tale sentimento abbiamo un’opinione erronea, quella che per fuggire i tormenti sia necessario volere il nulla.

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Il sentimento buono corregge la cattiva opinione

Qui il sentimento buono dovrebbe correggere la cattiva opinione, chiarificando se stesso e manifestandosi per quello che è:

voglia di essere in grado più alto e non di non essere. Per raggiungere tale scopo è quindi assurdo voler rinunciare all’essere che già si possiede, ma, volgendosi ai beni eterni, appare del tutto ragionevole voler incrementare il proprio essere.

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Esseri inferiori e superiori

• L’obiettore fittizio con cui Agostino qui dialoga, prosegue nel tentativo di opporsi al filosofo. Implicitamente infatti si accorge che se noi siamo nelle condizioni di dovere incrementare il nostro essere, significa che il nostro essere non è pieno e perfetto, così come del resto l’essere delle innumerevoli creature a noi inferiori. Allora egli domanda, come mai vi è questa sperequazione per cui vi sono esseri inferiori e superiori? Perché Dio non ha fatto il mondo “tale che nessuna creatura giungesse alla miseria”?

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L’ordine delle cose• Agostino risponde dicendo che nel cosmo vi è un ordine graduale e una

giusta gerarchia, secondo la quale tutti concorrono alla perfezione cosmica a partire dal loro grado di essere. Voler equiparare tutto in omaggio ad un’astratta idea di “ottima omogeneità2 significherebbe essere mossi

• da un sentimento di invidia verso le realtà superiori, cui si vuole uguagliare il resto, ritenendole implicitamente mancanti (se uno volesse equiparare la luna al sole, vorrebbe due soli e pertanto considererebbe un solo sole insufficiente);

• da un atteggiamento cattivo nei confronti delle realtà inferiori, non attribuendo loro alcuna dignità propria, visto che esse, nella sua opinione, varrebbero solo nella misura in cui fossero superiori. Ma questo è un assurdo, è infatti come pensare che siccome vi è la luna, di notte una lanterna non valga niente. La luna è certamente più luminosa di una lanterna, ma anche quest’ultima ha la sua benefica funzione di notte.

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Diversità e gerarchia• L’ordine voluto da Dio è il migliore possibile perché

contempla una grande diversità al proprio interno e al tempo stesso una mirabile armonia,in cui ogni mancanza è equilibrata da un’eccellenza. Anche la presenza del peccato, mirabilmente non lo turba, poiché Dio ne riequilibra gli effetti con la giustizia della pena. Questo non vuol dire che i peccati siano necessari all’ordine, ma che esso si dispiega nonostante il peccato. L’essere così voluto e concepito da Dio appare dunque come una sinfonia di elementi disparati, tra loro perfettamente incastrati, in modo che tutto ciò che è concorra dalla sua posizione al bene del tutto. Un essere tipicamente platonico-plotiniano, in implicita alternativa alla concezione omogeneista della tradizione parmenidea.

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L’inferiore manca? No l’inferiore è

• Per capire questa prospettiva agostiniana bisogna evidenziare con il vescovo di Ippona nei vari gradi di essere non la loro distanza dalla pienezza, ma la loro maggiore vicinanza. Il buono che vi è nell’essere, ad ogni suo grado, è infatti infinitamente meglio del nulla. Ciò rende preferibile anche il suo grado infimo poiché è infinitamente più vicino al bene sommo e all’essere pieno di quanto non lo sia il nulla. Per ogni centimetro di distanza dalla pienezza dell’essere, vi è un’infinita vicinanza alla stessa pienezza rispetto a quanta ne possa avere il nulla. Dunque ciò che è inferiore, importa anzitutto che sia. Questo suo essere è un bene infinitamente preferibile al nulla. Rispetto a tale preferenza, non ha alcuna rilevanza la presenza di realtà superiori, tanto più che inferiore e superiore sono perfettamente armonizzati nel cosmo.

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In tutti i gradi dell’universo risplende la sapienza di Dio

• Ovunque, nell’universo, che è un tutto sommamente ordinato, risplende la sapienza di Dio, in modo che tutto ha un suo posto. In primis le creature spirituali e angeliche che non peccano, poi gli uomini, che possono peccare, alla fine le cose puramente corporee.

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I peccati volontari non destinano necessariamente alla dannazione

• Conforme alla sapienza di Dio è anche il fatto che coloro che peccano volontariamente

• O in base ad un proprio pensiero• O sulla base della persuasione altruiOppure coloro che peccando, inducono e persuadono gli altri a

peccare,Sono in balia del Diavolo. Ma la sapienza divina ha dato il potere al

Diavolo solo sulla carne. Dio però ha fatto la carne mortale, affinché la stessa mortalità della carne spezzasse l’orgoglio umano e inducesse gli uomini a cercare la misericordia divina. Così la stessa carne soggetta al peccato, nella sua mortalità è anche strumento di una possibile redenzione. Essa è stata attuata dal Verbo invisibile che si è incarnato visibilmente, per attrarre a sé gli uomini sedotti dalle realtà visibili.

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Il Verbo

• Il Verbo soggioga il Diavolo vincendolo con le leggi della giustizia, infatti quest’ultimo rivendica il potere su tutto il genere umano, che ha sottoposto al peccato, ma Cristo, una volta che l’uomo paga il debito del peccato con la morte, riscatta colui che lo ha conosciuto e seguito con la vita eterna.

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Tutte le creature ornano l’universo

• Quindi tutte le creature, ad ogni grado gerarchico, con il loro bene e con il loro essere ornano l’universo, e quanto di ingiusto esse possano commettere, ai gradi inferiori, è riequilibrato dalla giustizia divina. Così dovunque rivolgiamo il nostro sguardo non manca motivo per lodare Dio.

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Ogni creatura o è Dio o viene da Dio

• «Ogni natura quindi è buona. Chiamo natura quella che suole essere anche chiamata sostanza; ogni sostanza pertanto o è Dio o viene da Dio, poiché ogni bene o è Dio o viene da Dio».

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Il biasimo del vizio e la lode della natura

• Si biasimano i vizi proprio perché corrompono una natura BUONA. Se la natura non fosse in sé buona non si avrebbe motivo di biasimare il vizio. Infatti lo si biasima perché CONTRARIO alla natura Quindi l’autore della natura, in quanto autore di qualcosa di buono va sempre lodato.

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Il vizio non è una sostanza

• Il vizio è in quanto corrompe qualcosa, in quanto mancanza che sottrae l’essere a qualcosa che ne possiede una certa pienezza. Dunque il vizio non può essere considerato una sostanza in sé, ma, diremmo, un «parassita» della sostanza. Esso è propriamente «ciò che manca alla perfezione della natura» (chiarissima in questo frangente è la polemica antimanichea).

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Il venir meno

• Il vizio, come venir meno della natura, è biasimato se volontario, se invece vi è mancanza in quanto vi è gerarchia tra inferiore e superiore, questo non è propriamente un vizio, ma appartiene alla varietà dell’ordine universale e quindi va lodato.

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Il peccato nell’ordine

• Ogni peccato reca un danno all’ordine voluto da Dio, ma questo danno è immediatamente riparato dal fatto che il peccato è (con locuzione non agostiniana) «pena a se stesso», in quanto immediatamente viene punito con l’abbruttimento della natura che pecca. Infatti «come chi veglia non dorme, chi pecca subisce ciò che deve subire» quasi per una consequenzialità logica, che non lascia passare tempo tra peccato e punizione in modo che l’ordine voluto da Dio mai si allontani dalla bellezza razionale con cui è stato concepito.

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Difesa antimanichea di Dio• Da quanto si è detto, nell’ordine creato a Dio non va attribuita

nessuna responsabilità per il peccato, come volevano i manichei con la loro opinione sull’esistenza di un Dio del male. Infatti “Dio – l’unico Dio ottimo e giusto, n.d.r. - a nessuno deve qualcosa, poiché ogni cosa egli offre gratuitamente”. Ciò che Egli offre è una natura, cioè un essere che in quanto tale è buono. Tutte le creature dunque devono qualcosa a Dio per aver ricevuto da lui qualcosa di buono. L’uomo in particolare rende a Dio ciò che deve facendo buon uso della sua natura, cioè comportandosi bene. Viceversa è punito per il suo peccato.

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La causa del peccato: l’improba voluntas

• Quindi non c’è altra causa del peccato che l’improba voluntas, cioè la volontà sregolata che si allontana dal bene, la quale si genera liberamente all’interno della natura razionale, e che in questa stessa natura può essere bloccata da una controforza positiva, altrettanto autonoma, che diriga la volontà al bene.

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Qual è la causa dell’improba voluntas

• Agostino ancora una volta si auto-obietta di fronte ad Evodio, che se egli volesse cercare la causa dell’improba voluntas andrebbe incontro a serie difficoltà, risalendo all’infinito di ragione in ragione. Se poi ci volessimo fermare, perché il regressus ad infinitum non dà ragione di nulla, dovremmo individuarla o in una volontà “prima” del peccatore, e allora torneremmo alla tesi di partenza, oppure in qualcos’altro dalla volontà, ma in tal caso, essendo il peccato involontario, non sarebbe esso stesso un peccato.

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Abitudine, vizio e peccato originale

• Agostino, ancora polemicamente contro i manichei, specifica che, non essendovi una natura intrinsecamente cattiva nell’uomo – poiché in generale non esiste una natura intrinsecamente cattiva – quei peccati che noi attribuiamo ad un vizio inestirpabile o ad un’abitudine insanabile rimangono peccati in tutto e per tutto. Tali per esempio sono quei peccati derivanti dal peccato originale.

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Ignorantia et difficultas

• Il peccato originale genera l’incapacità, da parte dell’uomo “di avere in suo potere di essere buono, sia che non veda come debba essere (stato di ignoranza), sia che veda e non sia capace di essere come vede di dover essere (stato di difficoltà)”. Esso consta di un atto che violando un precetto morale divino, provoca una degenerazione ontologica dell’essere umano, la quale corrompe la sua libertà e lo rende incapace o di vedere ciò che è bene o di praticare il bene che pure è inteso.

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Libera voluntas recte faciendi vs ignorantia et difficultas

• La libera volontà di fare bene è caratteristica della natura umana così come è stata creata da Dio, l’ignorantia e la difficultas sono effetto del peccato originale. Ma questo grave oscuramento è nelle nostre attuali responsabilità? In altri termini: che colpa abbiamo noi del peccato originale?

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La risposta di Agostino• Per capire il senso del peccato originale bisogna innanzitutto

porre l’attenzione sulla condizione di degenerazione ontologica che esso ha provocato. L’uomo peccando ha degradato la sua natura e lo ha fatto in modo permanente anche se non irrecuperabile. Dio infatti non condanna definitivamente l’uomo per tale errore, ma lo colloca in uno stato punitivo di ignorantia et difficultas, dal quale, grazie alla misericordia divina, l’uomo può comunque risollevarsi. Infatti Dio non fa mancare il suo aiuto a coloro che, nelle tenebre dell’ignoranza e nei lacci della difficoltà, comunque cercano il bene e si sforzano di volerlo praticare. Ignoranza e difficoltà non sono dunque condizioni inaggirabili, ma ostacoli al retto agire che la volontà può superare con l’aiuto del Dio misericordioso.

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La propagazione del peccato originale

• Come si è trasferito il peccato originale dai protoparenti a noi? Agostino affronta la questione facendola precedere da una lunga “premessa logica” in cui elenca una serie di ipotesi sull’origine delle anime (tema sull’opportunità del quale egli stesso ha dei dubbi, stante il fatto che ora come ora è più importante sapere come possiamo salvarci dal peccato piuttosto che sapere come vi siamo caduti).

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Comunque il peccato si sia propagato…

• …l’anima non vi è costretta in modo inevitabile. Essa può continuare, malgrado ignorantia et difficultas, a volere il bene.

• Ma se è comunque possibile meritare, attraverso la propria volontà, e superare la condizione di peccato, come faranno i bambini che muoiono prima di volere consapevolmente? E che male hanno fatto costoro per subire, come gli altri uomini le sofferenze corporee?

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I bambini• I bambini in generale per Agostino non hanno responsabilità

da sostenere in nessun modo. Noi siamo davanti allo spettacolo di un bambino sofferente e per tale orrore Agostino non ha giustificazioni da fornire. Certo, egli nota, le sofferenze di un bambino spezzano il nostro orgoglio e possono avere l’effetto positivo di fare in modo che ci rivolgiamo a Dio. Ma egli è ben lungi da pensare che Dio “faccia soffrire” un bambino per questo. La sua prospettiva si limita a dire che, al di là della possibilità di registrare questo effetto collaterale positivo, si può ben pensare così: “Chi sa quale buona compensazione Dio riserva agli stessi bimbi nel segreto dei suoi giudizi, poiché, sebbene non abbiano fatto nulla di bene, è anche senza aver commesso alcun peccato che hanno sopportato queste sofferenze?” (III, 68).

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Le sofferenze degli animali• Le sofferenze degli animali certo non sono meritate,

ma non sono nemmeno oggetto di una compensazione. Ecco un altro argomento manicheo: quale ragione hanno questi dolori? Tutto ciò che è creato e che prova dolore, secondo Agostino, testimonia una resistenza alla disgregazione e al venir meno, che si spiega con la naturale finitezza delle creature. Così anche gli animali soffrono e muoiono, ma resistendo, rimandano alla perfetta unità del Creatore cui tutte le creature guardano e tendono.

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Il primo uomo e il suo peccato

• Il De libero arbitrio si conclude con l’analisi della vicenda di Adamo e del suo peccato. Come Adamo peccò? Se infatti è stato creato sapiente non avrebbe dovuto peccare; se viceversa ha peccato per stoltezza, significa che è stato creato stolto e dunque non ha responsabilità.

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Homo capax sapientiae et stultitiae

• Adamo in realtà è stato creato in una condizione intermedia tra la sapienza e la stoltezza: è stato creato capace di sapienza e stoltezza, e gli è stata data la possibilità di ricevere il comando divino di non peccare, così come di trasgredirlo cedendo alla tentazione del serpente. La caduta è avvenuta poiché egli ha ceduto alla rappresentazione ingannevole del serpente che gli ha posto di fronte la possibilità di adorare se stesso come Dio.

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Avarizia e orgoglio

L’assenso dell’uomo alla rappresentazione generata dal discorso del serpente è dovuta e all’avarizia e dell’orgoglio che, opportunamente evocati dal diavolo, sono fonte e origine dei peccati.

Ma alla superbia del diavolo, sempre si può opporre l’umiltà di Cristo che orienta l’anima non a se stessa, ma a Dio, e questo per l’uomo rimane sempre possibile anche dopo la sua caduta.