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Cosa significa "assistente alla comunicazione" Lavorare con la disabilità nella scuola pubblica Seminario all’interno del corso di Psicologia delle Disabilità e dell’Integrazione Dott.ssa Concetta Russo 6 Novembre 2012

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Cosa significa "assistente alla comunicazione" Lavorare con la disabilità nella scuola pubblica Seminario all’interno del corso di Psicologia delle Disabilità e dell’Integrazione Dott.ssa Concetta Russo

6 Novembre 2012

Secondo i termini di legge L’assistente alla comunicazione, figura professionale prevista dalla Legge 104/92 art.13, è un operatore socio-educativo che affianca lo studente disabile sensoriale con funzione di

, dell’apprendimento, dell’integrazione e della relazione tra l’alunno, la famiglia, la classe, i docenti e i servizi specialistici.

Per favorire il processo di integrazione e di apprendimento l’assistente alla comunicazione utilizza strategie, modelli di comunicazione, strumenti e materiali ad hoc per ciascuno studente affinché gli siano accessibili tutti i contenuti didattici. Dove è necessario utilizza la Lingua dei segni e il Braille. In ambito scolastico si rapporta e collabora con funzioni distinte, complementari e non sostitutive, con l’insegnante di sostegno e con gli insegnanti curricolari contribuendo al raggiungimento delle finalità previste dal P.E.I. e dal progetto individuale.

In altre parole una persona che rende possibile la comunicazione di una persona disabile con le persone non disabili che lo circondano nell’ambiente scolastico, insegnanti quanto compagni d’aula.

Mediatore: parola ambigua Implica il poter trattare l’appartenenza (culturale) o la diversità (disabilità) come una questione posturale in cui è sufficiente inserire un ponte umano nel mezzo per garantire l’efficienza di un servizio.

Il termine, come quelli prima citati di mediatore culturale e linguistico, suggeriva la presenza di un’alterità irriducibile allo sguardo che andava in qualche modo addomesticata, tradotta, masticata perché potesse essere fruita, digerita senza intoppi

Comunicazione L’Altro è colui che non è capace di parlare per sé, colui che ha bisogno di uno strumento per comunicare, il mediatore rappresenta questo strumento.

Ad personam In una formula abbreviata questo assistente è anche chiamato assistente ad personam, definizione sbrigativa quanto poco allusiva, poiché sottolinea il fatto che l’assistente si occupi di un’unica persona, cosa rara in un contesto collettivo com’è quello costituito da una scuola, ma non dice nulla sulla qualità di questa persona.

Ma quale persona?

Nell’esperienza manicomiale europea si definivano “disabili della comunicazione” i non vedenti, i non udenti (che oggi vengono chiamati “disabili sensoriali”) e le persone con disabilità relazionali.

Gladys Swain “Ciò che avvicina i folli ai ciechi e ai sordomuti è di non appartenere per nulla al cerchio dell’umanità definito dalla comunicazione (…) il folle è una persona impermeabile al discorso degli altri” , il non vedente e il non udente sono resi impermeabili al discorso dalla loro disabilità fisica.

In Italia il termine “assistente alla comunicazione” per indicare appunto l’assistente ad personam nasce proprio nell’ambito delle disabilità sensoriali.

Ma è stato esteso anche ai “disabili relazionali” ovvero eminentemente ai diagnosticati autistici.

Ciò che sembra essere sottinteso in questa definizione è la concezione della comunicazione come una meccanica che prevede una fonte, un messaggio e un canale di trasmissione

G. ha una diagnosi di “autismo ad alto funzionamento”, è un ragazzo gentile, con una particolare attitudine alla memorizzazione e contestualmente molte difficoltà nella comprensione dei concetti astratti, molto affettuoso seppur composto nei modi.

Parlando con G. si rimane colpiti dal suo che sembra costruito dai terapeuti come una

sorta di rinforzo, nel senso dei sistemi di apprendimento.

Se gli si chiedeva se fosse triste per il compito in classe che non era andato molto bene ci si sentiva rispondere “Un po’… ma non bisogna lasciarsi abbattere dalle difficoltà”. Se gli si chiedeva se avesse restituito la penna a un compagno che gliela aveva prestata “Sì… bisogna essere rispettosi delle cose degli altri”, e altre formule simili, che trasformavano a volte le sue comunicazioni in paradossali dettati sulle regole del vivere comune.

Come se qualcuno avesse cercato di istillare nel ragazzo quella porzione di socialità compromessa attraverso degli assiomi, dei dogmi indiscutibili, che egli ripeteva come dei mantra.

Se ci atteniamo a questo grafico, nella comunicazione con G. esisterebbe

G. ad esempio ha difficoltà a distinguere il tono sarcastico o ironico nelle affermazioni e tende a interpretare sempre letteralmente il messaggio che riceve, tranne se lo riconosce come “archiviato”, conosciuto, e pertanto la sua risposta è formulare “questo è un gioco”.

Nel disabili sensoriali, invece, esisterebbe una compromissione del canale, pertanto affinché il messaggio non risulti a sua volta compromesso è necessario l’inserimento di un quarto elemento, costituito dall’assistente, quindi da una persona terza, esterna alla comunicazione che non sia né la fonte né il destinatario del messaggio, che accompagni in qualche modo il messaggio preservandone la natura.

Questo schema di comunicazione applicato nelle politiche assistenziali sembra pensare la comunicazione come un modello rigido, cosa che va a detrimento delle capacità dell’insegnante che viene in questo caso relegato al ruolo di testo, concetto sul quale questo modello comunicativo sembra essere stato costruito. Un testo, infatti, è una fonte rigida che non può cambiare canale di trasmissione o modulare il messaggio tenendo conto dell’abilità sensoriale del destinatario. E’ in questa rigidità che s’intravede la linea che divide il disabile sensoriale e il disabile della comunicazione dal resto dei normo-comunicanti, e nel caso specifico dal resto dei compagni di classe.

L’insegnante, poiché dirige la sua comunicazione ai molti, al gruppo classe di normo-comunicanti, non può (ovvero si pensa che non possa, si pensa al livello politico) modulare il messaggio o ripensare il canale, questo giustifica la presenza di una persona terza che sopperisca a questa mancanza.

R. ha una storia particolare, nasce ipovedente ma a causa di una cataratta nell’occhio che aveva il residuo visivo, diviene non vedente nel corso delle scuole medie. In questo passaggio perde un ingrediente fondamentale per la comprensione della comunicazione: la possibilità di vedere (e quindi d’interpretare) l’espressioni del viso delle persone che la circondano.

Prima di conoscere R. non avevo mai riflettuto su quanta importanza la comunicazione non verbale, non solo quella prossemica, ma anche quella che utilizza le espressioni del viso per esprimere emozioni, giudizi, e a volte contenuti, sia fondamentale in ambito comunicativo.

A differenza dei non vedenti dalla nascita (che non avendo mai avuto la possibilità di “guardare in faccia” qualcuno hanno addestrato il loro udito a cogliere, ancor meglio di un vedente, le variazioni nel tono della voce, o le pause di un discorso) chi come R. ha perso questa facoltà strada facendo si trova ad affrontare una sfida quotidiana profonda: come quello che dico viene accolto e percepito da chi mi ascolta?

Coloro che leggono le carte o altri strumenti per predire il futuro, vengono considerati in molti casi degli esperti di questo peculiare tipo di comunicazione non verbale, intuiscono dallo sguardo dell’ascoltatore, che non è mai neutro, se l’argomento prescelto è importante o credibile al loro cliente, leggono nelle espressioni del viso prima ancora che nelle linee della mano.

Ma anche chi è lontano da un’esperienza del genere ha provato la sensazione di essere interrogato in una qualunque materia di studio e di cercare di leggere, durante l’esposizione orale, sul volto dell’insegnante segni di approvazione o di diniego. (Pare che per evitare di leggere queste espressioni sul volto dei suoi studenti Wittgenstein facesse lezione di spalle…)

Perdere questo canale di comunicazione all’interno di una performance scolastica significa perdere una fetta importante della propria self-confidence, poiché si perde la possibilità di valutare in diretta come vengono accolte le nostre affermazioni. Così è che R. più sicura nel rapporto a due dove ha la persona a “portata di mano”, dove può quindi percepire la sua buona disposizione attraverso il contatto fisico.

Da una parte c’è la scuola (che è sempre comunque portatrice di un’istanza di normalizzazione: non è il messaggio che può essere adattato, ma è chi riceve il messaggio che ha bisogno di un “adattatore”), dall’altra il disabile sensoriale che di fronte alle istanze riduzionisti che della scuola, e delle istituzioni in generale, e alle attese della famiglia, cerca di negoziare con l’aiuto di quello che nella realtà delle pratiche e della dicitura è il “suo” assistente un posto di comprensione, comunicazione e talvolta di difesa.

Ancora sul ruolo dell’assistente

All’interno delle dinamiche suddette, l’assistente alla comunicazione si trova di fronte a un compito più complesso e per certi versi più ambiguo di quello dichiarato dalla Legge 104/92 art.13

Relazione

In prima istanza l’assistente è chiamato a stabilire una relazione significativa fra sé e la persona che è oggetto delle sue attenzioni.

Per fare questo dovrà trovare delle strategie che non sono replicabili ma che saranno stabilite contestualmente.

Solo in questo modo si potrà vedere la persona che si cela dietro l’etichetta nosografica

Giuseppe Pontiggia NATI DUE VOLTE, vincitore del Campiello 2001: « Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi. »