CORTE DI ASSISE DI PALERMO sezione seconda S E N T E N Z A

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1 CORTE DI ASSISE DI PALERMO sezione seconda Proc. nr. 25/99 R.G. Corte di Assise nr. 07/02 Reg. ins. sent. N. 2867/96 R.mod. 21 D.D.A. IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L’anno duemiladue, il giorno 22 del mese di marzo, la Corte di Assise di Palermo, sezione seconda, composta dai Signori: 1) Dott. Giuseppe Nobile Presidente 2) Dott. Roberto Murgia Giudice 3) Sig. Vito Cardinale Giudice popolare 4) Sig. Carlo Verna Giudice popolare 5) Sig. Silvana Vinciguerra Giudice popolare 6) Sig. Flavia Bonanno Giudice popolare 7) Sig. Maria Rosa Ferrara Giudice popolare 8) Sig. Rosaria Di Paola Giudice popolare Con l’intervento del Pubblico Ministero rappresentato dal Dott. Domenico Gozzo e con l’assistenza del Cancelliere Francesco Paolo Cuneo, ha pronunciato la seguente S E N T E N Z A

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CORTE DI ASSISE DI PALERMO

sezione seconda

Proc. nr. 25/99 R.G. Corte di Assise nr. 07/02 Reg. ins. sent.

N. 2867/96 R.mod. 21 D.D.A.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L’anno duemiladue, il giorno 22 del mese di marzo, la

Corte di Assise di Palermo, sezione seconda, composta dai Signori: 1) Dott. Giuseppe Nobile Presidente 2) Dott. Roberto Murgia Giudice 3) Sig. Vito Cardinale Giudice popolare 4) Sig. Carlo Verna Giudice popolare 5) Sig. Silvana Vinciguerra Giudice popolare 6) Sig. Flavia Bonanno Giudice popolare 7) Sig. Maria Rosa Ferrara Giudice popolare 8) Sig. Rosaria Di Paola Giudice popolare

Con l’intervento del Pubblico Ministero rappresentato dal Dott. Domenico Gozzo e con l’assistenza del Cancelliere Francesco Paolo Cuneo, ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

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nel procedimento penale

C O N T R O 1) MADONIA Antonino di Francesco e di Gelardi Emanuela,

nato a Palermo 14.09.1952 ed ivi residente in via Cimbali n. 44. rappresentato e difeso di fiducia dall’avv. Giovanni Restivo del foro di Palermo.

detenuto per altro – presente

2) ANZELMO Francesco Paolo, nato Palermo 26.05.1957

domiciliato a Roma presso il Servizio Centrale di Protezione rappresentato e difeso di fiducia dagli avv.ti Carlo Fabbri e Monica Genovese del foro di Palermo

Arr. dom. per altro – Rinunciante 3) GANCI Calogero, nato Palermo 22.03.1960

domiciliato a Roma presso il Servizio Centrale di Protezione rappresentato e difeso di fiducia dall’avv. Lucia Falzone del foro di Caltanissetta

Arr. dom. per altro – Rinunciante 4) GALATOLO Vincenzo fu Angelo e fu Caponetto Giovanna,

nato Palermo 20.09.1944 ed ivi residente via Vicolo Pipitone n. 7 rappresentato e difeso di ufficio dall’avv. Giovanni Restivo del foro di Palermo.

detenuto per altro – presente

I M P U T A T I

A) del delitto di cui agli artt. 110, 112 e 422 c.p.; perché, in concorso con tra loro e con Ganci Rafffaele, Rotolo Antonino, Salerno Pietro, Lucchese Giuseppe, Riina Salvatore, Greco Michele, Greco Salvatore, Riccobono

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Rosario, Marchese Francesco, Vernengo Pietro , Greco Giuseppe di Nicolò, Prestifilippo Mario Giovanni, Provenzano Bernardo, Brusca Bernardo, Scaglione Salvatore, Calò Giuseppe, Geraci Antonino, Scaduto Giovanni, Santapaola Benedetto, Motisi Ignazio, Di Carlo Andrea, separatamente giudicati e con Carollo Gaetano, Greco Giuseppe, Marchese Filippo, Gambino G. Giuseppe – questi ultimi deceduti – al fine di uccidere il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca prefetto di Palermo, compiva atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, attraverso l’impiego di armi da guerra del tipo AK 47 (c.d. kalashnikov) nella pubblica via Isidoro Carini, derivando dal fatto la morte del gen. Carlo Alberto DALLA CHIESA, della di lui consorte, sig.ra Emanuela SETTI CARRARO e dell’agente della Polizia di Stato addetto alla tutela Domenico RUSSO;

B) del delitto p. e p. dagli artt. 110, 575, 577 n. 3 c.p.; per avere, in concorso con i soggetti sopra indicati, cagionato la morte del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, della di lui consorte, sig.ra Emanuela Setti Carraro e dell’agente della Polizia di Stato addetto alla tutela Domenico Russo; avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., attingendo con colpi d’arma da fuoco al capo ed al corpo le tre vittime.

In particolare: il GALATOLO Vincenzo, per avere, svolto un ruolo organizzativo in relazione alle modalità operative del delitto e per avere poi svolto funzioni di copertura sul luogo del delitto ed in relazione a coloro i quali hanno materialmente fatto fuoco sulle vittime; il MADONIA Antonino, per avere svolto un ruolo organizzativo in relazione alle modalità operative del delitto e per avere materialmente esploso i colpi mortali da bordo della vettura condotta da Ganci Calogero, all’indirizzo del gen. DALLA CHIESA e di sua moglie, questi ultimi a bordo di un’autovettura Autobianchi A 112; il GANCI Calogero per avere condotto la vettura nella quale si trovava il Madonna Antonino, dalla quale furono esplosi

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colpi d’arma da fuoco all’indirizzo dell’autovettura sulla si trovavano il gen. DALLA CHIESA e la consorte; l’ANZELMO F. Paolo per avere partecipato all’azione criminale a bordo di altra vettura con anche Nino Marchese e Gambino Giuseppe Giacomo a bordo, svolgendo, armati, funzioni di copertura; In Palermo, il 3 settembre 1982; Con la recidiva specifica per Galatolo Vincenzo e Madonia Antonino

PARTI CIVILI COSTITUITE

1) Antonietta Maria CARRARO ved. SETTI nata a Padova il 13.1.1920 e res. in Milano via Lusardi n. 8 e con domicilio in Milano via Quadronno n. 16;

2) Giovanni Maria SETTI CARRARO nato a Borgosesia (VC)

il 25.2.1948 res. a Milano via Lusardi n. 8;

3) Paolo Giuseppe SETTI CARRARO nato a Borgosesia (VC) l’8.10.1949 e res. a Milano in Viale Filippetti n. 1

Tutti rappresentati ed difesi dall’avv. Elisa Ferrante

del foro di Palermo.

4) Fernando DALLA CHIESA nato a Firenze il 3.11.1949 e residente a Milano via Cesare Balbo n. 27 ed elettivamente domiciliato in Palermo via Pacini n. 67 presso lo studio dell’avv. Alfredo Galasso che lo rappresenta e difende e dall’avv. Fabiana Li Puma, quale sostituto processuale dell’anzidetto avvocato;

5) Maria Simona DALLA CHIESA nata a Firenze il 23.10.1952

residente a Catanzaro via Schipani n. 48 rappresentata e difesa dall’avv. Alfredo Galasso del foro di Palermo e dall’avv. Fabiana Li Puma, quale sostituto processuale dell’anzidetto avvocato;

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6) PROVINCIA REGIONALE DI PALERMO, in persona del Presidente pro-tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Concetta Pillitteri dell’ufficio legale della provincia regionale di Palermo con sede in Palermo, via Maqueda 100.

7) COMUNE DI PALERMO, in persona del sindaco pro-tempore

rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Modica con studio in via Maqueda n. 182 Palermo

8) PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI E

MINISTERO DELL’INTERNO entrambi rappresentati dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato con sede legale in Palermo, via Alcide De Gasperi e difesi dall’ avv. Giuseppe Dell’Aira e dall’avv. Libertino Arnone.

CONCLUSIONI DEL PUBBLICO MINISTERO

formulate all’udienza del 25.2.2002 e depositate con memoria scritta all’udienza del 19.3.2002 :

“in applicazione dei principi previsti dall’art. 133 c.p. e specificando che le richieste stesse sono fatte dovendosi ancora applicare la diminuente per il rito abbreviato

il P.M. chiede affermarsi la penale responsabilità di tutti gli imputati in ordine a tutti i reati loro ascritti, unificati dal vincolo sotto il più grave delitto di strage e per l’effetto si chiede: per Madonia Antonino e per Galatolo Vincenzo , la condanna alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno di 18 mesi e le pene accessorie per ciascuno. per Anzelmo Francesco Paolo e per Ganci Calogero applicata la diminuente di cui art. 8 L. 203/91 dichiarata prevalente sulle aggravanti contestate chiede applicarsi la pena complessiva di anni 15 di reclusione, così determinata: anni 13 e mesi 8 di reclusione per il delitto di strage e anni 1 e mesi 4 di reclusione ciascuno per effetto della continuazione con gli altri delitti contestati e la condanna alle pene accessorie conseguenti per legge.

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All’udienza del 19.3.2002 il P.M. in ordine alle richieste di pena a carico degli imputati precisava che la richiesta dell’ergastolo per gli imputati Madonia Antonio e Galatolo Vincenzo non comportava l’isolamento diurno; ed ancora, che alla pena di 15 anni di reclusione richiesta per gli imputati collaboranti Anzelmo Francesco Paolo e Ganci Calogero doveva operarsi la riduzione prevista dal rito del presente giudizio.”

CONCLUSIONI DELLE PARTI CIVILI COSTITUITE:

1. L’avv. Elisa Ferrante difensore delle parti civili Maria Antonietta Carraro, Giovanni Maria Setti Carraro e Paolo Giuseppe Setti Carraro, chiedono che gli imputati vengano condannati alle pene previste dalla legge per i reati di cui in rubrica, al risarcimento del danno patrimoniale subito da quantificarsi in separata sede civile, nonché al risarcimento del danno morale e biologico patito in conseguenza del reato da quantificarsi in Euro 1.550.000,00 per la Sig.ra Maria Antonietta Carraro e in Euro 800.000,00, cadauno, per Giovanni Maria Setti Carraro e Paolo Giuseppe Setti Carraro, assegnando a ciascuna delle predette parti civili la somma di Euro 250.000,00 a titolo di provvisionale con la clausola di provvisoria esecuzione.

Chiede altresì che gli imputati vengano condannati al pagamento delle spese processuali pari ad Euro 16.042,00 oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.

2. L’avv. Fabiana Li Puma quale sostituto processuale dell’avv. Alfredo Galasso nell’interesse delle parti civili Fernando e Maria Simona Dalla Chiesa si associa alle richieste di condanna formulate dal P.M. e chiede la condanna al risarcimento dei danni morali e materiali a carico degli imputati come da comparsa conclusionale, che viene depositata, redatta dall’avv. Alfredo Galasso con la quale si chiede la condanna degli odierni imputati, in solido e per l’intero, al risarcimento dei danni biologici

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e morali subiti dalle parti civili stimati in lire 2.000.000.000 (duemiliardi) pari ad Euro 1.032.913,80 oltre ad interessi e rivalutazione sino al soddisfo ovvero nella diversa somma maggiore o minore ritenuta maggiormente conforme ad equità. Chiede, altresì, la condanna degli odierni imputati al risarcimento dei danni patrimoniali subiti, nella misura disposta in via equitativa del giudice.

Chiede, inoltre, la condanna degli imputati al pagamento di una provvisionale ex art. 539 comma 2° c.p.p. di Lit. 500.000.000 (cinquecentomilioni) pari a Euro 258.228,45 immediatamente esecutiva.

Chiede, infine, la condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali pari ad Euro 16.167,65 oltre C.P.A. ed I.V.A.

3. L’avv. Salvatore Modica difensore del Comune di

Palermo, parte civile, chiede condannare gli imputati alle pene di legge e al risarcimento in solido dei danni sofferti dal Comune di Palermo quantificati in via equitativa e tenuto anche conto degli intervenuti interessi e rivalutazione monetaria da fatto illecito in Euro 1.500.000; condannare inoltre gli imputati al pagamento di una provvisionale nella misura di Euro 150.000 ed al pagamento di 41,32 Euro per spese, di 309,87 Euro per diritti e Euro 7.746,85 per onorario.

4. L’avv. Concetta Pillitteri, difensore della Provincia

Regionale di Palermo, parte civile, si associa alle richieste di condanna formulate dal P.M. e chiede la condanna degli imputati al risarcimento dei danni da liquidarsi in 250.000 euro immediatamente esecutivi ovvero si chiede la condanna in solido degli imputati al pagamento di una provvisionale in misura pari alla somma indicata in via equitativa, ovvero nella misura che la Corte riterrà di stabilire.

Si chiede inoltre e comunque la condanna in solido degli imputati al pagamento delle spese processuali pari

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ad 20.425,86 Euro per onorario e 3.174,92 Euro per spese.

5. L’avv. Libertino Arnone nell’interesse della Presidenza

del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Interno, parti civili, chiede affermarsi la penale responsabilità degli imputati in ordine ai contestati reati e condannarli alla pena di legge, al risarcimento del danno subito dall’Amministrazione dello Stato, pari a 300.000 euro per danni patrimoniali e a 250.000 euro per danni morali ed a 5.000 euro per spese processuali.

CONCLUSIONI DEI DIFENSORI DEGLI MPUTATI:

- L’avv. Monica Genovese nell’interesse di Anzelmo Francesco Paolo chiede affermarsi la penale responsabilità e che venga pronunciata a suo carico una sentenza giusta, riconoscendo allo stesso : 1) applicazione della diminuente di cui all’art. 8 della legge 203/91 sulla collaborazione nella massima estensione consentita; 2) le attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p.; 3) la diminuente per il rito di cui al presente giudizio.

- L’avv. Lucia Falzone nell’interesse di Ganci Calogero chiede che vengano concesse: l’attenuante di cui all’art. 8 legge 1991 sulla collaborazione, le attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p. e la diminuente per il rito per cui è processo (deposita memoria difensiva)

- L’avv. Giovanni Restivo difensore di fiducia dell’imputato Madonia Antonino e d’ufficio di Galatolo Vincenzo chiede per entrambi l’assoluzione per non aver commesso il fatto;

- L’avv. Carlo Fabbri, nell’interesse di Anzelmo Francesco

Paolo conclude riportandosi alle conclusioni adottate dall’avv. Monica Genovese ed in aggiunta chiede che la Corte voglia escludere l’ipotesi di strage contestata e ritenere quella di omicidio plurimo aggravato.

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MOTIVI DELLA DECISIONE

Gli atti acquisiti al processo consentono di affermare con certezza la penale responsabilità di ANZELMO Francesco Paolo, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero e MADONIA Antonino in ordine al reato loro ascritto al capo B) della rubrica. Il tale direzione, convergono esaustivamente considerevoli elementi di prova diretta ed indiretta che, schematicamente, possono riassumersi nella confessione di due degli odierni imputati (GANCI ed ANZELMO), nelle dichiarazioni di testi ed imputati di reato connesso, negli accertamenti operati dalla polizia giudiziaria nell’immediatezza del fatto, negli accertamenti balistici effettuati, nonché nei provvedimenti giurisdizionali acquisiti nel corso del procedimento. Giova, comunque, in primo luogo, riassumere brevemente i fatti che dettero origine al presente procedimento ed i tratti salienti riguardanti lo svolgimento dello stesso.

*

§ - 1) Fatto e svolgimento del processo Il 3 settembre 1982, verso le ore 21.00 circa nella via Isidoro Carini, il nuovo Prefetto di Palermo, DALLA CHIESA Carlo Alberto che procedeva a bordo di una autovettura A 112, alla cui guida si trovava la moglie SETTI CARRARO Emanuela, nonché l’agente della Polizia di Stato, RUSSO Domenico che, scortando il Prefetto, conduceva un’autovettura Alfetta, venivano attaccati ed “investiti -per dirla col Giudice della Corte di Assise di Palermo del primo maxi processo1- da una pioggia di piombo che cagionava la morte dei tre maciullandone ferocemente e svisandone quasi del tutto i lineamenti del viso”.

Proseguendo colle efficacissime parole spese da quel Giudice, “alle forze dell’ordine, subito accorse, si presentò una scena

1 Cfr. in atti, al faldoni 11 e segg. a pg. 2351 e segg. della sentenza del 16/12/1987 nel processo contro ABBATE Giovanni+459.

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pietosamente agghiacciante. Nella via Isidoro Carini, poco dopo l’incrocio colla via Ricasoli si trovava l’autovettura A 112 crivellata da proiettili con a bordo due persone orribilmente sfigurate, che però furono subito identificate per il Prefetto DALLA CHIESA e per la moglie SETTI CARRARO Emanuela. Nei pressi della predetta vettura, segnatamente una decina di metri prima (nella medesima direzione di marcia da Piazza Sturzo verso i Giardini Inglesi), veniva rinvenuta l’autovettura di servizio, l’Alfetta anzi cennata, anch’essa fatta oggetto di numerosi proiettili di arma da fuoco ed a bordo della stessa, al posto di guida, il conducente RUSSO Domenico, privo di sensi ed agonizzante2. Poco dopo, nella via Puglisi, non lontana dal luogo dell’eccidio, venivano rinvenute due autovetture , una BMW 520, di colore grigio metallizzato, tg. PA 600145 e una Fiat 132, di colore azzurro metallizzato, tg. PA 519923, ancora avvolte dalle fiamme, e nelle immediate vicinanze una motocicletta Suzuki 750, di colore nero, tg. PA 102153. Tutti i mezzi risultavano di provenienza furtiva. La moto risultava essere stata rubata nel giugno del 1982, le due autovetture, le cui targhe erano state contraffatte, nel mese di gennaio del 1982.” Sulla base delle scarne testimonianze, dei reperti balistici e dei rilievi tecnici, raccolti, gli inquirenti ricostruivano gli ultimi spostamenti del Generale e le modalità dell’agguato nel modo seguente : <<La sera in cui venne ucciso3 DALLA CHIESA Carlo Alberto era uscito dagli Uffici della Prefettura con la moglie, diretto quasi sicuramente ad un ristorante di Mondello. Egli, infatti, poco prima di andar via, aveva telefonato al direttore dell’Hotel – Ristorante “La Torre” Monforte Salvatore preannunciandogli il suo arrivo e nel firmare una lettera aveva detto al suo capo di gabinetto che stava per andare colla moglie a mangiare del pesce.

2 Il povero agente, trasportato all’Ospedale Villa Sofia, perchè gravemente ferito da colpi d’arma da fuoco alla testa, veniva immediatamente sottoposto ad un delicato intervento chirurgico, decedendo il 15/9/82, alle ore 10,20 per le gravissime lesioni riportate. Cfr. al vol. 17/fald. 6: il rapporto della Sq. Mobile e del N.O. CC del 12/9/82 e le relazioni di perizia autoptica sui corpi del Gen. DALLA CHIESA, della moglie, SETTI CARRARO Emanuele e dell’Ag. di scorta Domenico RUSSO. 3 Cfr. in atti ai faldoni 11 e segg. a pag. 2353 e segg. della sentenza citata alla nota nr. 1, la ricostruzione del fatto operata dal G.I.

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L’idea di cenare al ristorante, doveva tuttavia essere insorta in un secondo momento, dato che la domestica addetta alla residenza del Prefetto (Villa Pajno), quella sera aveva preparato la cena su ordine della signora DALLA CHIESA ed aveva lasciato la tavola apparecchiata. Il Prefetto, dunque uscito dall’Ufficio era salito a bordo della A 112 guidata dalla moglie, che si era diretta verso la via Isidoro Carini, seguita dall’Alfetta di servizio pilotata dall’agente RUSSO Domenico. Passando davanti alla caserma della Guardia di Finanza, sita in Piazza Sturzo, a poche decine di metri dall’inizio di via Isidoro Carini, l’agente RUSSO suonava il clacson per richiamare l’attenzione dell’amico CASERTA Nicolò, fermo dinanzi la caserma e lo salutava. Il CASERTA, nel rispondere al saluto, notava che l’Alfetta del RUSSO veniva in quel momento affiancata sul lato destro da una moto Suzuki, montata da due giovani, che rallentava leggermente l’andatura e lampeggiava col faro anteriore; quasi contemporaneamente il finanziere notava una moto Honda 900 (di colore rosso e con strisce bianche sulla carenatura , i cui primi numeri di targa erano PA 102) con due giovani a bordo che partiva dall’altro lato della piazza allontanandosi; non si accorgeva – invece- del passaggio della A 112 che precedeva la vettura del RUSSO. Al momento dell’attentato il dott. PALAZZOLO Francesco, Commissario della Polizia di Stato a Venezia ed in ferie a Palermo, si trovava nell’abitazione dei suoceri, le cui finestre prospettano sulla via Isidoro Carini (rectius , sulla via Pasquale Calvi, prolungamento della via Carini) , qualche centinaio di metri più avanti del luogo dell’eccidio e, appena uditi gli spari (quattro esplosi a colpo singolo, poi una raffica di sei colpi circa, seguiti da tre colpi singoli), si affacciava alla finestra, sita al secondo piano e vedeva transitare, in velocità ed a luci spente, una motocicletta di grossa cilindrata, presumibilmente una pluricilindrica giapponese, che attraversava l’incrocio di via P. Calvi e la via E. Albanese, dirigendosi verso la via Marchese di Villabianca. A bordo di tale moto, nonostante l’oscurità e la velocità del mezzo, intravedeva due giovani, il secondo dei quali (il passeggero) in posizione reclinata in avanti, come per nascondersi o per cambiare il maglione o per celare qualcosa… Dunque, il commando era composto da almeno otto persone e, cioè, due per ognuno dei due motocicli e non meno di due per ciascuna delle due vetture poi trovate in fiamme.

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La moto Suzuki, secondo quanto era dato dedurre dalla testimonianza del finanziere CASERTA, aveva avuto il compito di segnalare alla moto HONDA l’arrivo della vittima designata.

La Honda a sua volta, aveva avvertito gli occupanti delle due auto che attendevano più avanti e che, quindi, erano entravi in azione. La vettura del RUSSO e quella del prefetto erano state affiancate sul lato destro dagli assalitori, i quali con micidiali raffiche di Kalashnicov, avevano ferito a morte i passeggeri; entrambe le vetture prive di guida, avevano finito la loro corsa su autovetture in sosta lungo il marciapiedi sinistro ed a questo punto un’altra pioggia di proiettili si era abbattuta sui corpi già martoriati del prefetto e della povera moglie sfigurandoli senza pietà. I “colpi di grazia” erano stati sicuramente esplosi da un killer sceso dal proprio veicolo, poiché sull’asfalto, a pochi centimetri dalla ruota anteriore sinistra della A 112, erano stati ritrovati cinque bossoli di kalashnicov ed altri quattro venivano trovati un po’ più avanti. Quasi sicuramente l’equipaggio della moto Honda aveva partecipato soltanto alla fase iniziale dell’agguato con il compito di avvertire gli occupanti delle due autovetture dell’arrivo del Prefetto: ciò si deduceva dal fatto che la Honda non era stata trovata abbandonata dopo l’eccidio e che il dott. Palazzolo aveva visto transitare una sola moto nell’immediatezza del fatto. Ne conseguiva che molto verosimilmente gli autori materiali dell’assassinio del Russo erano stati gli occupanti della Suzuki, che l’aveva tallonato, per consentire agli altri assalitori di agire impunemente contro il Prefetto e la di lui moglie. E’ probabile, altresì, che esaurita l’opera coll’agente RUSSO, anche i killers della Suzuki avessero dato man forte agli altri e, in particolare, che il passeggero del motociclo fosse sceso di sella ed avesse esploso gli ultimi colpi di kalashnicov, da terra e da sinistra, contro la vettura del Prefetto. Non va dimenticato, infatti, che il passeggero della motocicletta transitata sotto la sua finestra stava chino in avanti e faceva movimenti come se stesse nascondendo qualcosa sotto gli abiti. E’ verosimile, poi, che la Fiat 132 fosse solo di appoggio, poiché, nell’abitacolo, non sono stati rinvenuti bossoli di proiettili, mentre ne sono stati rinvenuti nella BMW. E, dato che nell’attentato erano stati utilizzati esclusivamente due kalashnicov, uno dei quali era certamente in possesso del passeggero

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della Suzuki, ne conseguiva che l’altro kalashnicov poteva essere stato usato soltanto da un passeggero della BMW.>> Esaurite le indagini, nel corso delle quali veniva esperita anche perizia collegiale balistica eseguita dai dottori Morin Marco e Marcianò Emanuele, il G.I. rinviava a giudizio della Corte di Assise di Palermo per l’eccidio in questione, i membri della Commissione palermitana di Cosa Nostra, (sulla base delle dichiarazioni del BUSCETTA e del CONTORNO circa l’impossibilità che un così grave delitto potesse essere stato consumato senza il preventivo beneplacito del citato vertice della mafia a Palermo) nonché SANTAPAOLA Benedetto. A conclusione del dibattimento di primo grado, in data 16/12/1987, la Corte di Assise di Palermo4 riteneva comprovata l’attribuzione degli omicidi di via Carini all’associazione mafiosa Cosa Nostra colla partecipazione, quanto meno morale, del SANTAPAOLA, ritenendo tuttavia possibile, alla luce delle prove acquisite, condannare solamente il capo della commissione Michele GRECO, nonché come componenti il gruppo egemone ed emergente di Cosa Nostra, PROVENZANO Bernardo e RIINA Salvatore; oltre che, quale componente del gruppo di fuoco, MARCHESE Filippo.

Il Giudice riteneva, altresì, sicura la partecipazione agli omicidi di PRESTIFILIPPO Mario, in ordine al quale, tuttavia, doveva emettere declaratoria di improcedibilità per morte del reo.

Secondo quella Corte, nel PRESTIFILIPPO poteva senz’altro identificarsi “il giovane motociclista dalla zazzera bionda” che era stato segnalato (da un teste) a bordo della moto Honda vista nei pressi del luogo dell’attentato.

Mentre, quel Giudice, assolveva, per insufficienza di prove, gli altri componenti la Commissione, RICCOBONO Rosario, BRUSCA Bernardo, SCAGLIONE Salvatore, CALO’ Giuseppe e GERACI Antonino e con formula piena, GRECO Salvatore (il senatore) VERNENGO Pietro, SCADUTO Giovanni, MOTISI Ignazio e DI CARLO Andrea. Accertata la matrice mafiosa dell’agguato e la responsabilità di taluni dei mandanti (Michele GRECO, RIINA Salvatore, PROVENZANO Bernardo), le indagini tradizionali non portavano ad

4 cfr. ai faldoni 11 e segg. ; in particolare alle pgg. 2409 e segg.

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alcun risultato in ordine all'individuazione degli autori degli omicidi in trattazione , né in ordine alla sicura ricostruzione delle modalità dell’agguato.

A modificare sensibilmente il quadro probatorio, interveniva

nell’estate del 1996, la collaborazione di due componenti dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra di Palermo : GANCI Calogero e ANZELMO Francesco Paolo della famiglia della Noce5. I predetti ammettevano entrambi di avere partecipato alla soppressione del Generale DALLA CHIESA, della di lui moglie e dell’agente RUSSO, indicando all’A.G. i coautori del delitto e le modalità di preparazione ed esecuzione dello stesso. A seguito delle loro propalazioni e dei conseguenti accertamenti, venivano indagati - oltre ai predetti GANCI ed ANZELMO anche gli odierni imputati6. Esaurite le indagini preliminari, il Pubblico Ministero, con richiesta di rinvio a giudizio del 18 settembre 1998, promuoveva l’azione penale (tra l’altro) nei confronti degli odierni imputati, per i reati sopra specificati7. 5 Cfr. al vol. 17, fald. 6, le prime dichiarazioni rese da GANCI Calogero e da ANZELMO Francesco Paolo; il primo a far data dal 7/6/1996; il secondo dal 12/7/96. 6 Cfr. al vol. 18, fald. 6: insieme ai predetti venivano indagati GAMBINO Giacomo Giuseppe, GRECO Giuseppe, MARCHESE Filippo, CAROLLO Gaetano, GANCI Raffaele, ROTOLO Antonino, SALERNO Pietro, LUCCHESE Giuseppe e CUCUZZA Salvatore. 7 Segnatamente (cfr. vol. 18, faldone nr. 6, pg. 585 segg.) il PM chiedeva il rinvio a giudizio nei confronti di GANCI Raffaele, MADONIA Antonino, ROTOLO Antonino, SALERNO Pietro, LUCCHESE Giuseppe, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero ed ANZELMO Francesco Paolo. In pari data – cfr. a pg. 583 del medesimo volume- il Magistrato della Procura chiedeva l’archiviazione nei confronti di MARCHESE Filippo, GRECO Giuseppe, CAROLLO Gaetano e GAMBINO Giacomo Giuseppe, per morte dei medesimi e nei confronti di CUCUZZA Salvatore, ritenendo l’insussistenza di elementi sufficienti a sostenere l’accusa al giudizio nei suoi confronti. Le suddette richieste di archiviazione venivano accolte dal GIP del Tribunale di Palermo, con provvedimento del 7/10/1998 (cfr. al vol. 18 faldone nr. 6). Con successiva richiesta deposita all’udienza preliminare del 7 aprile 1998, il PM modificava la propria richiesta nei confronti di SALERNO Pietro e ROTOLO Antonino chiedendo che nei loro confronti venisse emessa sentenza di proscioglimento.(cfr. Fald. 7, vol. 23). Nel corso dell’udienza preliminare (cfr. al faldone nr. 7, vol. 22) veniva separata la posizione di GANCI Raffaele .Indi il GUP emetteva sentenza di proscioglimento nei confronti del SALERNO e del ROTOLO, disponendo il rinvio a giudizio nei confronti di

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All’udienza preliminare, avverso tutti gli imputati, si costituivano parti civili CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Giuseppe e DALLA CHIESA Fernando.

Tutti gli imputati indicati in epigrafe venivano rinviati al giudizio di questa Corte, per rispondere dei delitti loro rispettivamente ascritti, con provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Palermo del 7 aprile 19998.

In pari data veniva rinviato a giudizio anche LUCCHESE Giuseppe, mentre lo stesso Giudice disponeva il rinvio a giudizio di GANCI Raffaele con successivo decreto del 23/6/19999.

All’udienza del 18 ottobre 199910, prendeva avvio, il processo riguardante le posizioni degli odierni imputati e dell’imputato LUCCHESE Giuseppe.

Su richiesta del Pubblico Ministero veniva disposta la riunione del processo in trattazione con quello riguardante l’imputato GANCI Raffaele, avente ad oggetto il medesimo episodio delittuoso e la cui posizione era stata stralciata all’udienza preliminare del 7/4/99. Indi, si costituiva parte civile la Provincia Regionale di Palermo. Alla predetta costituzione di parte civile, nonché a quella di DALLA CHIESA Fernando, si opponeva il difensore dell’imputato LUCCHESE. Il Pubblico Ministero chiedeva che venisse dichiarata la nullità del decreto che aveva disposto il giudizio per l’omessa indicazione, tra le parti offese, del Ministero dell’Interno. Indi, il PM chiedeva di produrre documentazione, costituita tra l’altro dai rilievi tecnici e da verbali di sequestro riguardanti l’eccidio. All’udienza del 29 novembre 199911 la Corte rigettava la richiesta di nullità eccepita dal pubblico ministero, nonché di esclusione e di opposizione alla costituzione di parte civile formulata nell’udienza precedente dalla Difesa dell’imputato LUCCHESE.

MADONIA Antonino, ANZELMO Francesco Paolo, GANCI Calogero, LUCCHESE Giuseppe e GALATOLO Vincenzo. 8 cfr. al vol. 22- fald. 7. 9 Cfr. al vol. 1bis- fald. 1 10cfr. vol. 1- faldone nr. 1 11cfr. vol. 1- faldone nr. 1

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Indi, l’Avvocatura dello Stato si costituiva parte civile per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e per il Ministero dell’Interno.

Si costituivano parti civili anche Maria Simona DALLA CHIESA ed il Comune di Palermo . La Corte rigettava le ulteriori opposizioni alle costituzioni di parte civile, nonché l’eccezione di “nullità” sollevata dal Difensore dell’imputato LUCCHESE in riferimento alla mancata indicazione “della motivazione” fra i requisiti richiesti, per legge, nel decreto che dispone il giudizio.

Indi, veniva dichiarato aperto il dibattimento e veniva data lettura delle imputazioni.

All’udienza del 21 dicembre 199912, effettuata dal PM la

relazione introduttiva , tutte le parti procedevano ad indicare le prove richieste, che la Corte ammetteva con ordinanza. All’udienza del 4 marzo 200013 veniva dato atto che in cancellerie erano pervenute richieste di ammissione al rito abbreviato da parte degli imputati GALATOLO Vincenzo, LUCCHESE Giuseppe, GANCI Calogero ; analoga richiesta formulavano, al dibattimento, gli imputati MADONIA Antonino, ANZELMO Francesco Paolo e GANCI Raffaele.

Il P.M. si opponeva alla richiesta di ammissione al rito speciale avanzata dall’imputato GANCI Raffaele.

All’udienza del 20 marzo 200014 la Corte – in virtù di quanto disposto dagli artt. 223 D.L.vo 19 febbraio 1998, nr. 51 e succ. mod. , 438 segg. c.p.p., 247 del suddetto D.L.vo disponeva che si proseguisse colle forme del rito abbreviato nei confronti degli imputati MADONIA Antonino, LUCCHESE Giuseppe, GALATOLO Vincenzo, ANZELMO Francesco Paolo e GANCI Calogero modificato dall’art. 1 della L. 16 giugno nr. 188) –; sospendendo ogni decisione sulla richiesta di giudizio abbreviato formulata da GANCI Raffaele e separando il processo riguardante quest’ultimo da quello concernente le posizioni degli altri imputati. Invitava il P.M. a produrre gli atti contenuti nel suo fascicolo, riservandosi di valutare – all’esito della disanima degli atti prodotti- la decidibilità del processo allo stato degli atti.

12cfr. vol.1 - faldone nr. 1 13cfr. vol. 2 - faldone nr. 1 14cfr. vol. 2 - fald. 1

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Con separata ordinanza, in riferimento alla posizione di GANCI Raffaele, la Corte sollevava, d’ufficio, questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 223 del decreto L.vo 19/2/1998 nr. 51, nella parte in cui non prevedeva che anche nei giudizi di primo grado in corso instaurati successivamente alla data di efficacia del decreto L.vo nr. 51/98 e sino all’entrata in vigore della L. 16/12/99 nr. 479, limitatamente ai reati puniti astrattamente colla pena dell’ergastolo, l’imputato prima dell’istruzione dibattimentale, avesse facolta di chiedere il giudizio abbreviato.

All’udienza del 16 maggio 200015 la Corte nello stabilire che il processo non poteva essere deciso allo stato degli atti, indicava – in virtù di quanto previsto dall’art. 223 del D. L.vo 19/2/98 e succ. mod. – temi di prova utili per il completamento delle prove, disponendo, peraltro, l’acquisizione di diverse sentenze, tra le quali quella emessa dalla Corte di Assise di Palermo il 16/12/87 (c.d. maxi uno).

All’udienza del 20 giugno 200016, le parti –sulla base di quanto stabilito dalla Corte coll’ordinanza emessa nella precedente udienza- chiedevano l’effettuazione di cospicua attività istruttoria, costituita, tra l’altro, dall’acquisizione di numerose sentenze, dall’esame degli imputati GANCI Calogero, ANZELMO e MADONIA, nonché di numerosi testi.

All’udienza del 20 ottobre 200017 , su richiesta del P.M. veniva

nuovamente disposta la riunione del processo a quello contro GANCI Raffaele18.

All’udienza del 24 novembre 200019 veniva effettuato l’esame dell’imputato ANZELMO Francesco Paolo.

All’udienza del 22 dicembre 200020 veniva dato atto che gli imputati GANCI Raffaele e LUCCHESE Giuseppe, avvalendosi della 15cfr. vol. 3 - fald. 1 16cfr. vol. 3 - fald. 1 17cfr. vol. 3 - fald. 1 18 gli atti del processo contro GANCI Raffaele per gli omicidi in trattazione erano stati, infatti, restituiti dalla Corte Costituzionale per verificare la persistenza della questione sollevata con l’ordinanza emessa il 20/3/00, alla luce della sopravvenuta normativa – di cui al D.L. nr. 82 del 7/4/00 convertito nella legge nr. 144/00- che ha esteso l’accesso ai benefici di cui all’art. 442 c.p.p. anche “ai casi in cui fossero scaduti i termini per fare richiesta del rito abbreviato, ovvero in cui l’istruzione dibattimentale fosse già iniziata”. Constatato il venir meno dei presupposti che avevano reso indispensabile sollevare la questione, questa Corte non reiterava la questione e disponeva la riunione dei processi. 19cfr. vol. 3 - fald. 1 20cfr. vol. 4 - fald. 2

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facoltà loro attribuita con il sopravvenuto D.L. nr. 314 del 2000, avevano chiesto la revoca dell’ammissione al rito abbreviato.

All’udienza del 21 febbraio 200121 la Corte revocava l’ordinanza colla quale aveva ammesso GANCI Raffale e LUCCHESE Giuseppe al giudizio abbreviato e disponeva lo stralcio delle loro posizioni.22

All’udienza del 9 marzo 200123 venivano esaminati i testi

DALLA CHIESA Fernando e DATTILO Luciano. All’udienza del 23/3/200124, si procedeva all’esame dell’imputato

GANCI Calogero. All’udienza del 10 aprile 200125, venivano esaminati gli imputati

di reato connesso BRUSCA Giovanni e CUCUZZA Salvatore. All’udienza del 20 aprile 200126, veniva nuovamente esaminato

l’imputato ANZELMO Francesco Paolo e veniva sentito l’imputato di reato connesso ONORATO Francesco.

All’udienza del 31 maggio 200127, veniva esaminato il teste TUTONE Anna Maria.

Indi, su richiesta del P.M. veniva acquisita documentazione concernente la ricostruzione delle modalità dei delitti in trattazione.

All’udienza del 20/9/200128, veniva sentito il teste

NOTARSTEFANO Domenico. All’udienza del 29 settembre 200129, si procedeva all’esame del

teste BUI Carlo. All’udienza del 20 novembre 200130, si proseguiva nell’esame del

teste BUI e veniva acquisita la relazione integrativa redatta e consultata dal teste.

21 cfr. vol. 4 – fald. 2 22 Il processo relativo alle posizioni del GANCI Raffaele e del LUCCHESE – a seguito di dichiarazione di astensione dei giudici togati del presente processo, dovuta a gravi ragioni di convenienza per la probabile insorgenza di situazioni di incompatibilità derivabile dalla contestuale trattazione dei due tronconi del processo originale- veniva trasmesso dal Presidente del Tribunale ad altra sezione di questa Corte di Assise. 23 Cfr. vol. 4, fald. 2 24 cfr. vol. 5 – fald. 2 25 cfr. vol. 5- faldone nr. 2 26 cfr. vol. 6- faldone nr. 2 27 Cfr. vol. 6 – fald. 2. 28 Cfr. vol. 6- fald. 2 29 cfr. vol. 10 –fald. 3 30 cfr. vol. 10- fald. 3

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La Corte, inoltre, disponeva, su richiesta delle parti, che venisse effettuata, mediante perizia, la rappresentazione planimetrica dei luoghi del delitto colla relativa precisazione delle distanze indicate nei rilievi tecnici redatti dal teste BUI, nominando all’uopo perito l’Arch. PULEO Vincenzo.

All’udienza dell’1 dicembre 200131, venivano sentiti ancora una volta gli imputati GANCI Calogero ed ANZELMO Francesco Paolo.

Indi, la Corte disponeva procedersi al confronto dei due predetti imputati fra loro.

All’udienza del 4 dicembre 200132, su richiesta del PM venivano

acquisite le relazioni di servizio riguardanti la c.d. “strage della circonvallazione”.

Veniva, quindi, esaminato l’imputato MADONIA Antonino. All’udienza del 18 gennaio 200233, veniva dato atto del deposito della perizia effettuata dall’Arch. PULEO, che, sentito, confermava ed illustrava il contenuto dell’elaborato peritale. All’udienza del 25 febbraio 200234 , aperta la discussione, la parola veniva presa dal Pubblico Ministero, che procedeva ad illustrare ed a formulare le proprie conclusioni.

All’udienza del 19 marzo 200235 il P.M. depositava memoria scritta della sua requisitoria. I Difensori delle Parti Civili concludevano come da comparse conclusionali e note spese che depositavano.

Formulavano le loro conclusioni anche i Difensori degli imputati ANZELMO e GANCI. All’udienza del 21 marzo 200236 concludevano i Difensori degli imputati MADONIA e GALATOLO, nonché il secondo difensore dell’imputato ANZELMO. Indi il PM prendeva la parola per una breve replica, cui seguivano le repliche del difensore dell’imputato MADONIA. Quest’ultimo rendeva spontanee dichiarazioni. Finalmente, la Corte si ritirava in camera di consiglio per deliberare (il 22 marzo 2002) come da dispositivo in atti37.

31 cfr. vol. 10 –fald 3 32 cfr. vol. 11 - fald. 4 33 cfr. vol. 11 – fald. 4 34 cfr. vol. 11- fald. 4 35 cfr. al vol. 13 – fald. 4 36cfr. al vol. 13 - fald. 4 37 cfr. vol. 18 - fald. 8

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§ - 2) Brevi, schematici, cenni sui principi giurisprudenziali in tema di chiamata di correo cui ci si è attenuti nella valutazione della rilevanza probatoria del suddetto elemento di prova. Tanto premesso, osserva la Corte che le prove sulla colpevolezza degli odierni imputati, si fondano prevalentemente sulle dichiarazioni rese dagli imputati ANZELMO Francesco Paolo e GANCI Calogero i quali, oltre ad ammettere di avere commesso gli omicidi oggi in trattazione, hanno incolpato (chiamandoli in correità) gli altri imputati.

Pare, pertanto, necessario, in via preliminare, sia pure brevemente, rammentare quale sia il valore di prova riconosciuto dal nostro ordinamento alla chiamata di correo.

* * * Com’è noto, alla chiamata di correo - secondo l’interpretazione oramai consolidata in dottrina ed in giurisprudenza- va riconosciuta la valenza di vero e proprio mezzo di prova38 e non già di semplice indizio. La giustezza di tale assunto, come generalmente si argomenta, si coglie chiaramente, non solo, dalle risultanze dei lavori preparatori del codice, ma altresì, dalla locuzione “altri elementi di prova” adottata nell’art. 192 c.p.p.; dal rilievo sistematico, per il quale la disposizione in questione è stata inserita nel libro III dedicato alle <<prove>>; nonché dallo stesso titolo dell’articolo 192 c.p.p. (“valutazione della prova”). Di tal che, è senz’altro possibile affermare che nel nostro ordinamento la chiamata di correo può validamente assurgere ad elemento di prova piena, sufficiente a fondare un giudizio di condanna, quando sia asseverata la credibilità della fonte.

38 Cfr. per tutte Cass. Pen Sezioni Unite 1 febbraio 1992 nr. 1048 : “L’art. 192, commi 3 e 4 del c.p.p. non ha svalutato sul piano probatorio le dichiarazioni rese dal coimputato di un medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. o di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall’art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p., perché ha riconosciuto a tali dichiarazioni valore di prova e non di mero indizio e ha stabilito che esse debbano trovare riscontro in altri elementi o dati probatori che possono essere di qualsiasi tipo o natura”.

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Peraltro, è ugualmente noto che il giudizio sull’attendibilità della chiamata di correo debba spiegarsi su due piani ed in momenti differenti. Ciò è dato dedurre dalla stessa dizione dell’art. 192, terzo comma, c.p.p. il quale sancendo che “le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12, sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” , coll’adozione del verbo “confermare” sottende l’esistenza di un primo momento in cui si è valutata l’attendibilità delle dichiarazioni del c.d. collaborante e di un successivo momento in cui, avvalendosi di “altri elementi di prova” (i c.d. riscontri), l’attendibilità di tali dichiarazioni può trovare conferma, raggiungendo, così, la chiamata il grado di prova (piena)39 . In tal senso, va ritenuto che una prima valutazione debba concernere l’attendibilità delle dichiarazioni nel loro complesso (attendibilità “generica” o “complessiva”) ; mentre una seconda, successiva valutazione debba riguardare l’attendibilità della dichiarazione in riferimento allo specifico fatto in dimostrazione (attendibilità specifica). La prima valutazione può evidentemente essere effettuata sia mediante elementi di riscontro “intrinseci” (che si ricavano cioè dalle stesse dichiarazioni rilasciate dal collaborante, dai motivi, e dalle modalità con cui sono state rese), sia attraverso elementi di riscontro “estrinseci” (cioè provenienti da fonti diverse dal dichiarante in esame), ancorché “generici o complessivi” (cioè non attinenti al fatto specifico in dimostrazione). La seconda valutazione va necessariamente effettuata con elementi di riscontro estrinseci (cioè diversi dalla fonte costituita dalle dichiarazioni del collaborante), richiedendolo direttamente la legge -all’art. 192/3 c.p.p.- coll’espressione “altri elementi”. Riguardo alla valutazione dell’attendibilità “intrinseca” delle dichiarazioni, acquistano rilievo la genuinità, la spontaneità, il disinteresse, la costanza, la logica interna del racconto, dovendosi accordare una naturale preferenza al <<confessato personale

39 Cfr. tra le altre CASS. Pen. S.U. 22 febbraio 1993 nr. 1653.

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coinvolgimento del dichiarante nello stesso fatto-reato narrato>> (CASS. Sez. I 80/92). Più specificamente, poi, il disinteresse deve essere valutato sotto il profilo dell’assenza di ragioni di rancore, inimicizie e motivi di vendetta. In ordine, poi, agli elementi di riscontro c.d. estrinseci, che in quanto esterni alla chiamata di correo consentono di vagliare con obbiettività la veridicità o meno delle dichiarazioni stesse, essi possono essere, in via generale, di qualsivoglia tipo e natura, rientrando sicuramente tra essi -in conformità all’oramai consolidato orientamento giurisprudenziale della S.C.- anche quelli costituiti dalle chiamate di altri collaboranti, non esistendo alcuna plausibile ragione per pervenire ad una disparità di trattamento tra elementi di riscontro desumibili da “chiamate plurime” ed elementi di riscontro più propriamente reali, documentali o testimoniali (tra le altre : CASS. sez. I 8/7/1991 nr. 7391; CASS. sez. I 1/4/1992, Bruno; CASS. sez. VI 26 gennaio 1993, nr. 4240; sez. IV 6 marzo 1996 nr. 2540; CASS. 7/11/2000, nr. 963). E’, poi, sicuro come non sia necessario che la chiamata sia confortata da una pluralità di riscontri, nonostante l’uso del plurale (altri elementi di prova) da parte del Legislatore nell’art. 192 c.p.p., essendo sufficiente che un solo elemento di prova si aggiunga alla chiamata di correo. Peraltro, il riscontro probatorio estrinseco non deve avere la consistenza di una prova autosufficiente di colpevolezza, dovendo, chiamata di correo e riscontro estrinseco, integrarsi reciprocamente e soprattutto formare oggetto di un giudizio complessivo (cfr. CASS. sez. VI 17/10/1990; sez. fer. 23/8/90; sez. I 18/6/1992, sez. II 26 aprile 1993 nr. 4000). La Cassazione ha, di volta in volta, ravvisato come idonei riscontri di tipo estrinseco la ricognizione di cose, il riconoscimento fotografico, gli accertamenti di polizia giudiziaria, la riscontrata corrispondenza in ordine ai luoghi indicati dal dichiarante, i legami esistenti tra il prevenuto ed altri soggetti facenti parte di un medesimo sodalizio criminoso, ecc.

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Riguardo, poi, al riscontro estrinseco costituito da una pluralità di chiamate, la Suprema Corte ha avuto modo di fissare ulteriori principi e criteri valutativi integrativi di quelli già riportati . Così, in primo luogo, ognuna di tali chiamate mantiene il proprio carattere indiziario e, dove siano convergenti verso lo stesso significato probatorio, ciascuna conferisce all’altra quell’apporto esterno di sinergia indiziaria conducente, ai fini del vaglio positivo di attendibilità estrinseca, atto a tradurre ciascuna chiamata in fonte di prova (piena). Ne segue, che non è necessario pretendere che le successive chiamate di correo risultino autonomamente riscontrate da elementi di prova esterni, giacché in tal caso si avrebbe la prova desiderata e non sarebbe necessaria alcun’altra operazione di comparazione o di verifica (CASS. sez. I nr. 80/1992). Quanto poi ai parametri ed ai criteri di valutazione della reciproca attendibilità, nel caso di coesistenza e convergenza di fonti propalatorie, essi sono stati individuati nella contestualità, nell’autonomia, nella reciproca sconoscenza, nella convergenza, almeno sostanziale, tanto più cospicua quanto più i rapporti siano ricchi di contenuti descrittivi ed in genere di tutti quegli elementi idonei ad escludere fraudolente concertazioni ed a conferire a ciascuna chiamata i tranquillizzanti connotati della reciproca autonomia, indipendenza ed originalità. Sempre in tale ottica, è agevole evidenziare che eventuali discordanze su alcuni punti possono, nei congrui casi, essere addirittura sintomatiche della reciproca autonomia delle propalazioni, in quanto fisiologicamente assorbibili in quel margine di disarmonia normalmente presente nel raccordo tra più elementi rappresentativi. L’eventuale sussistenza, infatti, di smagliature e discrasie, anche di un certo peso, rilevabili tanto all’interno di dette dichiarazioni, quanto nel confronto tra di esse, non implica di per sè il venir meno della sostanziale affidabilità quando, sulla base di adeguata motivazione, risulti dimostrata la complessiva convergenza nei rispettivi nuclei fondamentali (cfr. CASS. sez. I 30/1/92 nr. 80 e CASS. pen. sez. I, 11 marzo 1994). Per quel che concerne la chiamata di correo de relato, ha affermato la Corte di Cassazione che anche tale chiamata può costituire valida fonte di prova, purché sottoposta a rigoroso vaglio critico (cfr. tra le altre, CASS. sez. II 18/1/1990).

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Di guisa che, tale dichiarazione de relato ha valore di indizio, se resa da soggetto intrinsecamente attendibile ed ad essa va attribuito carattere di gravità quando trovi un necessario riscontro in relazione alla persona incolpata ed al fatto che forma oggetto dell’accusa. Detto riscontro, peraltro, non deve necessariamente costituire prova della responsabilità, ma certamente deve essere di valenza tale da indurre sotto il profilo logico a far ritenere processualmente acclarata la colpevolezza dell’accusato in ordine alla commissione dello specifico fatto, non caduto sotto la diretta percezione del dichiarante. (cfr. CASS. sez. I 7/4/1992, nr. 4153). Sebbene i due momenti (quello relativo alla valutazione dell’attendibilità generica o complessiva del dichiarante -svolto attraverso riscontri di tipo intrinseco ed/od estrinseco-aspecifico- e quello relativo alla “conferma” dell’attendibilità -effettuato attraverso il vaglio di riscontri di tipo specifico ) si svolgano necessariamente in tempi diversi ; va evidenziato che tali momenti della valutazione dell’attendibilità della chiamata sono, comunque, strettamente correlati. Sono, in sostanza, in posizione di reciproco bilanciamento, di guisa che la valutazione del primo momento (quello attinente alla valutazione sull’attendibilità generico-complessiva del dichiarante e delle sue dichiarazioni) refluisce inevitabilmente sul secondo momento (quello dell’esame dell’idoneità del riscontro specifico a far assurgere al grado di prova piena la chiamata di correo), nel senso che, ovviamente, tanto più risulterà attendibile (sulla scorta di una valutazione degli elementi di riscontro intrinseci o estrinseco-generici) la fonte propalatoria, tanto meno rigoroso sarà l’impegno dimostrativo richiesto e meno elevato il grado significativo dell’elemento indiziario individualizzante necessario per suffragare l’attendibilità delle accuse mosse ai singoli imputati (cfr. CASS. sez. I nr. 80/1992). Riguardo, finalmente, al tipo di riscontro estrinseco idoneo a far assurgere la chiamata di correo al rango di prova piena, ex art. 192 terzo comma c.p.p., la S.C. ha, di volta in volta, distinto differenti tipologie, ora ritenendo sufficiente elementi di riscontro estrinseci concernenti la c.d. prova generica (cioè elementi afferenti solo la prova che quel dato delitto sia stato commesso con quelle peculiari modalità narrate dal collaborante) ; ora richiedendo elementi di riscontro concernenti la c.d. prova specifica (cioè a dire elementi estrinseci alle dichiarazioni di

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correo atti ad indicare che il chiamato abbia commesso il reato attribuitogli dal collaborante). In tali ultimi casi si è soliti parlare anche di riscontro c.d. individualizzante. Si deve convenire che, in ossequio ad un’assoluta garanzia di certezza, sia lecito propendere per la tesi che richiede, comunque, il reperimento di un riscontro estrinseco di tipo “individualizzante”, escludendo, cioè, che possa essere considerata sufficiente, ai fini dell’accertamento della responsabilità del chiamato, la verifica positiva che il fatto di reato si sia svolto (quanto a modalità) esattamente come cennato dal chiamante. Tuttavia, va posto in chiare lettere che il riscontro di tipo “individualizzante” non deve, comunque, concretarsi in un elemento necessariamente probante il fatto specifico in dimostrazione. In tal senso, la S.C. di Cassazione è stata per lungo tempo presso che costante40 nell’escludere la necessità che le dichiarazioni di correo debbano essere sorrette in ogni loro punto da riscontri “individualizzanti” afferenti al fatto specifico da dimostrare ; e, di contro, ha più volte dato al concetto di riscontro specifico od individualizzante un contenuto meno ampio intendendo, in sostanza, <<qualsivoglia elemento che, riferendosi alla sfera personale del “chiamato”, consenta di “confermare” che la dichiarazione accusatoria (della quale sia stata già vagliata l’attendibilità complessiva), che lo coinvolge per un fatto specifico, sia credibile>>. Va, infatti, rammentato come la S.C. abbia, tra l’altro, affermato che “......gli altri elementi di prova richiesti dall’art. 192 comma terzo c.p.p., per suffragare il valore probatorio della chiamata di correo, attengono precipuamente alla conferma dell’attendibilità della stessa e non devono necessariamente convergere...a far desumere la sussistenza dello specifico fatto oggetto della prova. E’ quindi sufficiente che gli elementi di prova esterni costituiscano una conferma indiretta, che consenta di ritenere in via deduttiva attendibile la dichiarazione del coimputato anche quanto ad

40 Ravvisandosi solo negli ultimi tempi sentenze di segno opposto, peraltro, non giustificate da modifiche normative ed in contrasto coll’impostazione delle Sezioni Unite.

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uno dei fatti complessivamente riferiti, che non trovi negli atti uno specifico riscontro.”(CASS. sez. V, 19 marzo 1991). Ed ancora ha sostenuto la Cassazione (cfr. tra le altre : sez. II, 27 febbraio 1991, sez. I, 6 ottobre 1993 nr. 9105; sez. I, 6 giugno 1996 nr. 2784) che : “In tema di chiamata di correo, se è vero che non può essere ritenuto sufficiente l’accertamento dell’attendibilità intrinseca della parola dell’accusatore e che occorre anche, in relazione alle accuse che quest’ultimo muove, operare una verifica estrinseca, è altrettanto vero che l’elemento di riscontro non deve necessariamente consistere in una prova distinta della colpevolezza del chiamato, perché ciò renderebbe ultronea la testimonianza del correo; esso deve, comunque, consistere in un dato “certo” che, pur non avendo la capacità di dimostrare la verità del fatto oggetto di dimostrazione, sia tuttavia idoneo ad offrire garanzie obbiettive e certe circa l’attendibilità di chi l’ha riferito. Ne consegue che tale dato non deve necessariamente concernere il “thema probandum” in quanto esso deve valere solo a confermare ab estrinseco l’attendibilità della chiamata in correità, dopo che questa sia stata attentamente e positivamente verificata nell’intrinseco (quanto al dichiarato ed al dichiarante)”. Analogamente, la Cassazione ha affermato (cfr, tra le altre CASS. Pen. Sez. I, 13 aprile 1996 nr. 1637) che “La verifica dell’attendibilità del chiamante dev’essere operata sia sotto il profilo intrinseco (con l’apprezzamento della precisione, della coerenza e della ragionevolezza), sia con la ricerca del grado di interesse del dichiarante in relazione alla specifica accusa, oltre che alla stregua della sua personalità e dei motivi che l’hanno indotto a coinvolgere il chiamato, tenendo conto che lo spessore dell’attendibilità della chiamata va correlato al tipo di conoscenza del chiamante (concorrente o a diretta conoscenza della vicenda ovvero che questa abbia appreso de relato) sia, infine, sotto il profilo estrinseco, riferito ad elementi oggettivi rappresentativi, tra cui anche le dichiarazioni autonome convergenti di altri soggetti, o << logici >> , che la chiamata stessa, già positivamente verificata ab intrinseco, confermino”. Ancora, va sottolineato come la Cassazione (cfr. tra le altre sez. VI, 19 aprile 1996 nr. 4108 ; CASS. sez. II pen. 26 aprile 1993 nr. 4000 e CASS. sez. VI 16 gennaio 1991 nr. 424) abbia precisato che “i riscontri esterni possono essere sia rappresentativi che logici, purché

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dotati di tale consistenza da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall’imputato..e che è sufficiente che gli stessi si risolvano in una conferma anche indiretta delle dichiarazioni accusatorie, che consenta di dedurre in via logica - a mente dell’art. 192, comma 3 c.p.p.- l’attendibilità di tali fonti di prova”. Potendosi desumere da tale principio, applicato all’ipotesi di coesistenza di più chiamate in correità, che “qualora un coimputato od un imputato per reati connessi rendano dichiarazioni plurime, l’integrazione probatoria di una di esse può anche derivare dalla sussistenza di elementi di conferma riguardanti direttamente le altre (posto che l’attendibilità delle une ben può sul piano logico essere confortata dalla riscontrata affidabilità delle rimanenti) purché sussistano ragioni idonee a giustificare siffatto giudizio. E tali ragioni possono individuarsi nella stretta connessione risultante tra i fatti oggetto delle dichiarazioni direttamente riscontrate ed i fatti di cui alle ulteriori accuse..”

* * *

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§ 2.1) il c.d. riscontro individualizzante.

Recenti arresti giurisprudenziali, coi quali si è affermata, in buona sostanza, la necessità che una chiamata di correo debba essere sempre suffragata da almeno un’altra chiamata direttamente riguardante lo specifico fatto in dimostrazione, impongono di immorare sul convincimento qui espresso e di appurare cosa debba intendersi per “riscontro individualizzante”.

Prescindendo da ogni valutazione in ordine all’idoneità di un riscontro a supportare adeguatamente una chiamata di correo ai fini di una pronuncia di colpevolezza; non può negarsi che per riscontro debba intendersi <<qualunque elemento (intrinseco od estrinseco, argomentativo o rappresentativo, ecc.), desumibile dagli atti del processo, che possa, in qualsivoglia modo, avvalorare la propalazione accusatoria, accentuando, in sostanza, la possibilità che il contenuto di quest’ultima sia rispondente al vero>>.

Si è già detto che, per legge (ex art. 192/3 c.p.p.), la seconda fase della valutazione della credibilità del collaborante (quella, cioè, relativa alla <<conferma>> della sua attendibilità “complessiva o generica” o “intrinseca”, come da altri viene definita) deve essere compiuta solo sulla base di elementi “estrinseci”, cioè non ricavabili intrinsecamente dalle stesse dichiarazioni del collaborante, ma desumibili da ulteriori elementi, necessariamente esterni alle cennate propalazioni.

Tali elementi di riscontro per quanto già sottolineato, oltre che estrinseci, debbono poi essere “individualizzanti”, cioè riguardare la sfera del soggetto “chiamato” in causa dal collaborante.

Poiché, poi, la “chiamata” non può non riguardare una o più specifiche imputazioni, deve convenirsi che il riscontro, per essere tale, debba investire l’oggetto dell’imputazione.

Debba cioè consentire di accentuare, in riferimento alla specifica accusa (e dovendo essere “individualizzante”, anche in riferimento al soggetto chiamato), la possibilità che il collaborante abbia detto il vero.

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In altri termini (sempre, indipendentemente dalla sua “adeguatezza” a far assurgere la chiamata di correo a elemento fondante una pronuncia di colpevolezza) può considerarsi <<riscontro individualizzante>> qualunque elemento (avente valenza dimostrativa) che refluisca sulla chiamata accusatoria, nel senso di aumentare la probabilità che la stessa sia vera, avuto riguardo al soggetto chiamato ed allo specifico reato oggetto dell’accusa.

Il problema che si pone è, tuttavia, se il riscontro individualizzante debba investire “direttamente” il fatto specifico dell’imputazione o se possa essere sufficiente, a fondare un giudizio di colpevolezza, una chiamata di correo suffragata da elemento di riscontro individualizzante “non direttamente afferente al thema probandum”, vale a dire non direttamente dimostrativo del fatto da provare.

Traducendo la questione in termini pratici il problema è quello di capire, ad esempio, se per riscontrare utilmente una chiamata del collaborante “ALFA” (le dichiarazioni del quale abbiano già superato il vaglio dell’attendibilità intrinseca e quella dell’attendibilità complessiva o generica) che accusa l’imputato “OMEGA” di avere commesso insieme a lui l’omicidio di “GAMMA”, sia sempre indefettibilmente necessaria la chiamata di un altro collaborante che accusi “OMEGA” di avere commesso il medesimo omicidio (quello di “GAMMA”) ; ovvero se possa essere sufficiente che l’altro collaborante accusi OMEGA di altri (specifici) fatti (ovvero, di altri specifici reati) che, collegati logicamente coll’accusa principale, possano confermarne la veridicità.

Al riguardo, giova rilevare, il legislatore non ha previsto niente di specifico.

Essendosi, invece, limitato a stabilire che le dichiarazioni dell’imputato di reato connesso <<sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità>>.

Mentre, la Suprema Corte di Cassazione ha reiteratamente stabilito che non è necessario che il riscontro “individualizzante” debba specificamente riguardare il fatto in dimostrazione, essendo, di contro, sufficiente che sia tale, da consentire, anche attraverso un processo deduttivo, di asseverare la specifica chiamata accusatoria.

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Alla luce di tale chiarissimo insegnamento della Suprema Corte, la questione sembrerebbe di semplice soluzione.

Dovendosi, evidentemente, trarre che non sia necessaria l’esatta coincidenza dell’accusa e del riscontro in ordine allo specifico delitto in dimostrazione ; e che, astrattamente (in punto di diritto), sia sufficiente un riscontro che, pur afferente al soggetto chiamato, non riguardi direttamente il fatto addebitatogli .

Mentre, ovviamente, poi spetterà al Giudice (nell’esprimere la propria valutazione di merito, secondo i dettami che derivano dal principio del libero convincimento al quale il nostro ordinamento processuale è improntato) valutare se tale riscontro (individualizzante e, solo per via deduttiva, collegabile al fatto in dimostrazione) sia sufficiente, vale a dire se sia idoneo a trasformare la chiamata di correo (principale) in prova fondante una pronuncia di colpevolezza.

L’esigenza di soffermarsi sul punto, tuttavia, trae origine dal fatto che in diverse, recenti, pronunce giurisprudenziali (soprattutto, di merito), pur dandosi formalmente atto che la S.C. di Cassazione non richiede necessariamente che il riscontro individualizzante sia afferente al thema probandum, in sostanza, si finisce per esigere un riscontro di tal fatta (vale a dire un riscontro direttamente rilevante sul fatto in dimostrazione).

Tanto si ricava, ad esempio, nella sentenza resa dalla Corte di Assise di Palermo in data 15 gennaio 2000 nel processo contro GALATOLO Vincenzo ed altri.

In essa, invero, tra l’altro si legge che- pur non essendo necessario che il riscontro individualizzante riguardi il thema probandum - le dichiarazioni del <<collaborante>> - in riferimento all’accusa che l’imputato (omissis) avesse partecipato all’omicidio di TIZIO (svoltosi col sistema della “lupara bianca”) bruciandone il cadavere- non possono trovare conferma in elementi di prova <<riguardanti lo stesso ruolo svolto dall’imputato in altri omicidi>>.

Assumendosi, in proposito, che il suddetto riscontro, riguardante la partecipazione collo stesso ruolo ad altri analoghi fatti criminosi, è inidoneo a supportare la chiamata di correo, in quanto “riscontro logico deduttivo” e non “individualizzante”.41

41 Si vedano le motivazioni della sentenza (non acquisita agli atti) della Corte di Assise di Palermo del 15 gennaio 2000, alle pg. 94 ss e 275, 276 e 277.

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A sommesso parere di questa Corte, l’asserto non può essere

condiviso. Nonostante la risaputa ed indiscutibile autorevolezza del Giudice

che l’ha enunciato; pare doveroso rilevare che non può considerarsi esatto escludere, in astratto, dal novero dei “riscontri individualizzanti” quello costituito dal fatto che <<l’imputato avesse già partecipato ad altri omicidi collo stesso ruolo>>.

Se, invero, in concreto, era ben possibile che il suddetto elemento di riscontro non potesse essere considerato sufficiente a fondare, unitamente alla chiamata accusatoria (principale) il giudizio di colpevolezza; non sembra possibile negare che avesse, comunque, natura “individualizzante”.

Infatti, chiaramente : riguardava la sfera soggettiva del chiamato ; riguardava un fatto “concreto” (quello di avere partecipato ad altri omicidi); e poteva essere ricondotto (sia pure solo attraverso un processo logico-deduttivo) al fatto specifico in dimostrazione.

In tal senso, deve escludersi che possa condividersi la

contrapposizione operata da quel Giudice tra <<riscontro logico-deduttivo>> e riscontro <<individualizzante>>.

Il primo concetto attiene alla caratteristica, propria di un elemento di prova, di dimostrare un fatto non direttamente, ma mediante lo sviluppo di un percorso improntato alla deduzione logica.

Il secondo concetto concerne, evidentemente, la possibilità (o la necessità, se si vuole) che un elemento dimostrativo si riferisca ad una persona determinata.

Tuttavia, non v’è antinomia tra i due concetti. La contrapposizione insiste, invece, sicuramente, tra <<riscontro

logico-deduttivo>> e <<riscontro rappresentativo>>. Schematizzando al massimo, il primo dei riscontri risponde, in

genere, allo schema tipico del sillogismo indiziario (per cui da un fatto noto si ricava sulla base di regole di esperienza, scientifiche o altre, il fatto ignoto) ; mentre, il secondo a quello della prova (per cui l’elemento probatorio direttamente riguarda l’ipotesi in verifica).

Una contrapposizione concettuale può, ancora, insistere tra riscontro <<individualizzante>> (perché afferente al chiamato) e riscontro <<non individualizzante>> (perché, per esempio riguardante la

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c.d generica, cioè le modalità di consumazione del delitto, o perché riguardante altri imputati).

Tuttavia, nulla impedisce che un riscontro possa riferirsi ad una specifica persona (e, quindi, essere individualizzante) ed, al tempo stesso, contribuire alla ricostruzione del fatto, non rappresentandolo direttamente, bensì attraverso un procedimento logico-deduttivo (e, quindi, essere “logico-deduttivo”).

L’ovvietà dell’argomentazione è tale che basterà osservare, per

dimostrarla, che, in altra parte della stessa sentenza citata, si coglie che il fatto che l’imputato si trovasse, poco tempo prima della consumazione del reato, nei pressi del luogo del delitto, può costituire adeguato elemento di riscontro alla chiamata accusatoria42.

E’, invero, evidente che anche tale elemento non può essere ricompreso tra quelli “rappresentativi del fatto”.

Infatti, da solo, non può rappresentare proprio niente; potendo fungere da riscontro, solamente attraverso un percorso logico-deduttivo (che porti ad es. ad escludere che la presenza del “chiamato” fosse dovuta ad altro e che, comunque, indichi che tale presenza sia collegabile al fatto in dimostrazione). Ne segue che, escludere dalla categoria dei riscontri individualizzanti un elemento fattuale (quello di avere partecipato ad altri specifici fatti omicidiari con analoga mansione) sol perché <<logico-deduttivo>> (e non direttamente rappresentativo) non pare esatto. Né pare possa sostenersi l’insistenza di un’apprezzabile differenza - proiettabile sulla formazione della prova- tra i due tipi di riscontro ora in esame, solo perché gli uni, in base agli usuali parametri spazio-temporali di collegamento, sarebbero più significativi degli altri. E’ vero che quello sopra menzionato (per intendersi : il fatto di essere stato scorto sul luogo poco prima dell’evento omicidiario) è più direttamente ancorato, sotto l’aspetto spaziale e sotto quello temporale, al delitto. Ma, è pur vero che anche l’altro tipo di riscontro (sempre per intendersi: quello di far parte di un gruppo di fuoco; o quello di avere

42 Si veda a pg. 346 della sentenza (cennata alla nota che precede) della Corte di Assise di Palermo del 15 gennaio 2000.

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partecipato ad altri omicidi commessi dal gruppo) può essere collegabile sotto il profilo spaziale-temporale al delitto. E, quando tale collegamento spazio-temporale si verifica (come nel caso in cui si tratti del “gruppo di fuoco” che opera nel territorio, in quel determinato “periodo di tempo”), non pare opinabile che l’elemento di supporto potrà assumere la valenza di riscontro, rafforzando il convincimento sul fatto in dimostrazione. E’ chiaro che si tratta, in questi casi di un collegamento (spazio-temporale) molto più debole e lontano rispetto a quello riferibile al primo tipo di riscontro esaminato. Ma è, altresì, di solare evidenza che si tratta di un riscontro -dal punto di vista oggettivo- straordinariamente più persuasivo in ordine al fatto delittuoso che si vuol dimostrare (essendo intuitivo che il fatto che uno abbia già commesso un omicidio di mafia, sia molto più significativo del fatto di essere stato visto “passare” in zona); e che la labilità del rapporto spazio-temporale (comunque, presente) può, senz’altro, essere compensata (nei congrui casi) dalla sua maggiore efficacia.

Reputa, pertanto, la Corte che anche tale tipologia di riscontri (il fatto di avere partecipato a delitti simili; la circostanza di aver fatto parte di un “gruppo di fuoco”; ecc.) possa senz’altro apprezzarsi, nei congrui casi, come un elemento di riscontro individualizzante (fermo restando, ovviamente, che poi spetterà al Giudice valutare la sufficienza o meno del riscontro individualizzante a fondare la pronuncia di condanna).

L’assunto riflette anche il comune modo di pensare. Per esempio, se ALFA, imputato di reato connesso, sostiene di

avere spacciato <<oggi>> cocaina insieme a OMEGA; quest’ultimo sarà investito da una specifica chiamata (di correo) accusatoria, tanto più grave quanto più credibile sarà il chiamante.

Tuttavia, da sola, tale chiamata non potrà mai essere sufficiente a fondare una condanna; pretendendo il legislatore, all’uopo, il reperimento di un elemento di riscontro estrinseco “individualizzante”.

Di un elemento, cioè, che (esterno alle dichiarazioni di ALFA), si riferisca ad OMEGA, e sia, comunque, in grado di persuadere il Giudice che la specifica accusa promanante dal correo sia veridica.

Orbene (a prescindere da ogni considerazione <<sull’adeguatezza>> in concreto) , detto elemento, ovviamente, potrà

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essere integrato dalla deposizione di un teste o di un altro collaborante tesa ad asseverare che, appunto, “oggi” ALFA e OMEGA hanno insieme spacciato cocaina .

Ma, a parere della Corte, la chiamata iniziale potrà trovare un <<elemento di riscontro individualizzante>> (sempre prescindendo da qualsivoglia giudizio di adeguatezza in concreto) anche nella deposizione, di un altro teste o di un altro collaborante che affermi che OMEGA (magari, ancora insieme ad ALFA) abbia, spacciato cocaina <<ieri>>; oppure che affermi che OMEGA fa parte di un “gruppo” di persone dedite allo spaccio di cocaina proprio in quella zona ed in quel periodo di tempo.

Invero, non pare dubitabile che la seconda deposizione, pur non riferendosi direttamente all’episodio in esame, inevitabilmente finisca per rafforzare (di poco o di molto; insufficientemente o esaurientemente, spetterà al Giudice stabilirlo caso per caso) la possibilità che la prima chiamata sia veridica.

Non potendosi revocare in dubbio che la convergente indicazione sulla <<attitudine>> del chiamato a commettere il tipo di delitto in questione, rafforzi, comunque, la valenza dimostrativa della chiamata principale e che, dunque, ne costituisca un riscontro (chiaramente “individualizzante”, poiché afferente alla sfera soggettiva del chiamato).

*

Per accertare, empiricamente, la natura “individualizzante”

dell’elemento che si vuol utilizzare come riscontro, sembrerebbe corretto, a parere di questo Giudice, verificare se lo stesso, considerato da solo, vale a dire senza tener conto della chiamata principale, sarebbe in grado di orientare le indagini degli inquirenti verso un soggetto determinato (in tesi, verso “il chiamato”).

Così, sempre a titolo d’esempio, una volta accertato che è stato commesso un omicidio di matrice mafiosa in una determinata zona della città e, magari, appurato che a commetterlo è stato un determinato gruppo di fuoco (per es. quello “territorialmente competente”); non pare dubitabile che anche il solo fatto di sapere che OMEGA fa parte proprio di quel “gruppo di fuoco”, in quel preciso momento storico in cui l’omicidio è stato perpetrato, (ovvero, il fatto di sapere che OMEGA ha partecipato nello stesso periodo di tempo ad altri omicidi dello stesso tipo o comunque collegabili oggettivamente a quello in dimostrazione),

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possa costituire un elemento sulla base del quale avviare delle indagini tese a verificare se effettivamente OMEGA ha commesso anche l’omicidio di cui in premessa.

Non potendosi, in tal senso, negare che l’elemento in questione abbia natura indiziante e, quindi , sia necessariamente “individualizzante” (in quanto teso ad orientare le indagini verso un soggetto determinato : OMEGA per l’appunto) e specifico, in quanto refluente verso il fatto in dimostrazione, sia pur non in modo diretto (né esauriente, chè altrimenti non di indizio si parlerebbe, ma di prova piena43).

E, poiché sarebbe del tutto illogico il ritenere che lo stesso elemento, se valutato insieme ad una specifica chiamata di correo (che indichi decisamente la partecipazione di TIZIO all’omicidio in esame), possa perdere le connotazioni dianzi cennate; deve convenirsi che, in quest’ultimo caso (cioè in presenza di una specifica chiamata), possa ben operare come <<riscontro individualizzante>>.

In sostanza, la consumazione da parte del chiamato di fatti di reato

analoghi a quelli per cui è processo (ovvero la sua partecipazione a gruppi che hanno commesso reati simili ; o che hanno commesso reato 43 E’ evidente che non è necessario che il suddetto indizio abbia il carattere della precisione o della “necessarietà” che dir si voglia. Invero, potendosi per definizione da tale tipo di indizio ricavarsi un’unica interpretazione, se l’indizio possedesse tale requisito, sarebbe di per sé idoneo e sufficiente a provare il fatto noto, non necessitando del concorso di altri indizi. In proposito, in quanto illuminante, si riporta quanto affermato dalle Sezioni Unite della S.C. di Cassazione il 4 giugno 1992, sentenza nr. 6682 : <<L’indizio è un fatto certo dal quale, per interferenza logica basata su regole di esperienza consolidate ed affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario. E’ possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma di norma il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti ed in tal caso può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell’art. 192/2 c.p.p.. Peraltro, l’apprezzamento unitario degli indizi per la verifica della confluenza verso un’univocità indicativa che dia la certezza logica del fatto da provare, costituisce un’operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno singolarmente, onde saggiarne la valenza qualitativa individuale. Acquisita la valenza indicativa, sia pure di portata probabilistica e non univoca, di ciascun indizio deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell’esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, di tal che l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice.>>

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oggettivamente collegabili a quello oggetto dell’accusa) non può, di regola, non incidere sulla chiamata principale, contribuendo chiaramente ad aumentarne la credibilità.

Di guisa che, può affermarsi che la circostanza in questione si concreti, comunque, in un elemento di riscontro individualizzante.

Altra cosa è dire, ovviamente, se tale elemento sia nella specie , in concreto, idoneo ad elevare il rango della chiamata principale, fino a farla assurgere a prova della colpevolezza.

Dovendosi, in tale direzione, esaminare concretamente i più svariati fattori, quali ad esempio la notorietà o meno della circostanza riscontrante; ovvero la pregnanza del nesso di collegamento logico tra l’elemento di riscontro ed il fatto in dimostrazione.

Ma, in “astratto”, non gli si può davvero negare la veste di riscontro individualizzante. In tal direzione, sembra doveroso, tuttavia, sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Non si vuol qui affermare che sia sempre sufficiente (per ritenere fondata una pronuncia di colpevolezza) <<una dichiarazione accusatoria di un collaborante, corredata da riscontro estrinseco individualizzante non afferente al fatto in dimostrazione>>. Volendosi, invece, solo affermare che -quando, attraverso un attento esame della credibilità complessiva del collaborante, si pervenga ad esprimere nei confronti delle dichiarazioni rese dal medesimo un positivo giudizio di credibilità- sia legittimo ritenere quale riscontro adeguato, anche quello <<estrinseco-individualizzante non afferente al fatto in dimostrazione>>. Dovendosi, di converso, richiedere un riscontro individualizzante più pregnante (e, quindi, per es. direttamente afferente al fatto da dimostrare) quando, per qualsivoglia motivo, il giudizio di credibilità complessivo non risulti positivamente esperito, ovvero quando insistano elementi di segno opposto che possano contrastare, nello specifico, la credibilità dell’accusa. E’, quindi, sempre <<in concreto>> che, a parere della Corte, va valutata la possibilità di limitare la consistenza del dato di riscontro da esigere.

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Ed è sempre in concreto (vale a dire, sulla base dell’effettivo esame degli atti processuali) che va apprezzata l’insistenza di motivi di perplessità che possano limitare la valenza probatoria della credibilità del collaborante. Errato sarebbe, invece, fare sempre e solo riferimento “all’astratta ambiguità riconducibile alla chiamata di correo”, per richiedere, in ogni caso, un riscontro individualizzante che pure afferisca – in modo diretto- al fatto specifico in dimostrazione. Una volta che, attraverso un ponderato esame sulla credibilità del collaborante, si possa giungere ad affermare in concreto la sua complessiva attendibilità; deve escludersi che il vizio di base possa mantenere intatta la sua refluenza ed imporre il reperimento di un riscontro individualizzante (del tipo afferente – in modo diretto- al fatto in dimostrazione), come se il giudizio complessivo sulla credibilità non avesse avuto esiti positivi; vale a dire, alla stessa stregua che ci si trovi di fronte alla chiamata di un collaborante (complessivamente) poco credibile. Esigere, in ogni caso - come preteso da una parte della più recente giurisprudenza -, un siffatto tipo “qualificato” di riscontro significherebbe, di fatto, disconoscere la valenza di prova alla chiamata di correo.

* * * Analoghe osservazioni possono a parere di questa Corte

dispiegarsi anche in riferimento a quanto affermato dalla S.C. di Cassazione nella recente sentenza nr. 963/2000 del 7/11/2000.

In verità, la pronuncia della Cassazione si appalesa importante, avendo affrontato in modo diretto –risolvendola negativamente - proprio la questione della riscontrabilità di una chiamata di correo diretta con altre chiamate di correo non riguardanti il medesimo fatto di reato, bensì l’appartenenza del chiamato all’ala militare dell’organizzazione.

Al riguardo, ha asserito la S. Corte che “…l’elemento rappresentato dalla sicura matrice mafiosa del delitto e dall’obiettiva appartenenza di gran parte degli imputati alla famiglia di Brancaccio-Ciaculli, in particolare al gruppo di fuoco di Cosa Nostra, diretto prima dal Lucchese e dopo il suo arresto nel 1990 dai Graviano, risultante

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dalle convergenti dichiarazioni di Drago Giovanni, Marino Mannoia Francesco, Di Filippo Pasquale, Di Filippo Emanuele e Romeo Pietro : il che significa disponibilità di ciascuno di essi ad essere impiegato per imprese criminose e a commettere delitti, per ciò alta prossimità dell’imputato a quest’ultimi.

Ma deve convenirsi che esso non ha rilevanza conclusiva ai fini del giudizio di colpevolezza perché non ricollega ancora ciascuno degli imputati in modo diretto ai singoli fatti criminosi a lui addebitati, in difetto del requisito indispensabile del riscontro sotto il profilo dell’inerenza soggettiva al fatto, cioè di ulteriori, specifiche, circostanze strettamente e concretamente ricolleganti il singolo chiamato in correità al fatto di cui deve rispondere.

…..Il vizio del percorso argomentativo del ragionamento giudiziale, in cui è incorso il giudice di merito, consiste nel fatto che la chiamata in correità del DRAGO, una volta riscontrata in tema di ascrivibilità del delitto a Cosa Nostra, di partecipazione della maggior parte degli incolpati all’ala militare dell’organizzazione mafiosa, di causale e di modalità esecutive del delitto, è stata ritenuta valida prova anche per quanto riguarda l’identità delle persone in questo coinvolte, nonostante la mancanza di specifici riscontri individualizzanti a carico del singolo imputato.

Variando per contro la composizione del gruppo di fuoco incaricato dell’esecuzione del delitto, di volta in volta, secondo le scelte deliberative, anche contingenti del capo, sì che non ne era immutabile la struttura soggettiva, il mero inserimento dell’imputato nell’ala militare lo avvicina all’area del delitto ma non lo collega in modo diretto allo specifico crimine sotto il profilo dell’inerenza soggettiva al fatto nonostante l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie del Drago e la presenza di obiettivi riscontri in merito alla materialità dei fatti storici narrati dal collaboratore.

In definitiva dalla raggiunta prova dell’autonomo reato di partecipazione al clan mafioso, nel peculiare ruolo sopra delineato, il giudice di merito ha illegittimamente ipotizzato l’inferenza probatoria della partecipazione individuale nell’esecuzione dei singoli delitti-fine. (In sostanza) il giudice ….“è pervenuto alla presunta identificazione dei singoli partecipi alla realizzazione del crimine in forza ….di un’erronea valutazione della natura individualizzante di quel tipo di riscontro e di un’illegittima e totalizzante estensione di esso anche al diverso e più pregnante profilo dell’inerenza soggettiva allo specifico fatto.”

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L’autorevolezza della fonte di tale affermazioni impone, ovviamente, il massimo rispetto degli assunti ora riportati.

Tuttavia, a sommesso parere di questo giudice le conclusioni cui è pervenuta la Cassazione colla sentenza dianzi cennata non possono essere condivise. La sentenza sembra, quasi, dimenticare che (nel caso in questione) l’elemento portante dell’accusa ( vale a dire l’elemento di <<prova>>) non è il riscontro, ma la diretta chiamata accusatoria del dichiarante e che il riscontro deve solo (ai sensi di quanto stabilito dall’art. 192 c.p.p.) “confermare” la sua attendibilità. Inoltre, fonda le sue conclusioni sull’errata valutazione della natura individualizzante del riscontro costituito dall’appartenenza del “chiamato” al gruppo di fuoco, al commando omicida, della cosca mafiosa, giungendo ad asserire, in buona sostanza, che nella specie non si è in presenza di un riscontro di natura individualizzante, bensì di un riscontro puramente logico.

Reputa, invece, questo Giudice, sulla base di quanto sopra argomentato, che non vi può essere dubbio che il fatto di fare parte di un “gruppo di fuoco”, anzi del “gruppo di fuoco” cui il delitto è con certezza ascrivibile, costituisce, se asseverato da una fonte diversa dal chiamante in via principale, un elemento di riscontro estrinseco di natura sicuramente individualizzante.

Invero, per quanto già rilevato, tale elemento preso da solo (cioè senza tener conto della chiamata principale) costituirebbe quanto meno un indizio nei confronti del chiamato.

Anche a costo di sembrare ripetitivi, osserva questa Corte che se l’omicidio di GAMMA (anche sulla base delle dichiarazioni di vari collaboranti) è ascrivibile al gruppo di fuoco di Ciaculli ed il collaborante BETA assume (magari, per conoscenza diretta) che in quel periodo storico OMEGA faceva parte del “gruppo di fuoco” di Ciaculli, (magari, aggiungendo che aveva commesso uno o più omicidi insieme a lui con quel gruppo) non pare possano esservi dubbi sul fatto che le dichiarazioni di BETA debbano indurre gli inquirenti ad indagare su OMEGA (anche) in riferimento all’omicidio di GAMMA.

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Questo perché, e la cosa non pare confutabile, nei confronti di OMEGA si è concretato, quanto meno, un elemento di natura indiziante in riferimento (anche) all’omicidio di GAMMA.

E non pare revocabile in dubbio che se tale elemento, preso isolatamente, costituisce un indizio nei confronti di OMEGA per l’omicidio di GAMMA, sicuramente ha natura individualizzante, perché individua (anche attraverso regole di inferenza logica ) uno specifico soggetto, in riferimento allo specifico delitto sul quale si indaga.

Tale individuazione ovviamente (nell’ipotesi di specie) si esplicherebbe solo in termini “probabilistici” e non di certezza.

Tuttavia, ciò non fa venire meno la pregnanza indiziante

dell’elemento in questione posto che – come sopra si è sottolineato44- le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione (con sentenza del 4 giugno 1992, nr. 6682), hanno rimarcato che non è affatto necessario che un indizio per essere tale debba avere il carattere della “precisione” o della “necessarietà” , giungendo, anzi, ad affermare che “di norma il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti ….ed ha quindi portata probabilistica e non univoca”.

Del resto, se così non fosse, se cioè l’elemento individualizzante in

questione fosse da solo in grado di individuare con certezza l’autore del delitto (nella specie, in OMEGA l’autore dell’omicidio GAMMA) non più di indizio si dovrebbe parlare, ma di prova piena.

Orbene, non pare opinabile che, quando la legge richiede un

elemento di conferma della credibilità del chiamante in correità ; quando – come oramai affermato dalla consolidata giurisprudenza della S.C.- chiede un elemento di riscontro individualizzante; non esige affatto il reperimento di un altro elemento di prova piena del fatto.

Al più, può pretendere un elemento indiziario. Un elemento, cioè, di qualsivoglia tipo, che sia in grado di

collegare un soggetto ad un fatto, non necessariamente in via diretta, ma anche attraverso regole di inferenza logica deduttiva.

E se, per quanto sopra riferito, il fatto che OMEGA facesse parte del gruppo di fuoco di Ciaculli, proprio in quel periodo storico in cui l’omicidio di GAMMA veniva commesso, costituisce preso isolatamente

44 cfr. alla nota che precede.

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un indizio; è evidente che possa costituire un elemento di riscontro estrinseco individualizzante qualora venisse in considerazione in ausilio ad un’eventuale ulteriore chiamata di correo del collaborante ALFA (che in via diretta assumesse di avere , come componente del gruppo di fuoco di Ciaculli, commesso l’omicidio GAMMA insieme al nostro OMEGA).

Del resto, la considerevole rilevanza dell’elemento “indiziario” in questione, non è stata disconosciuta nemmeno dalla Corte di Cassazione, nella sentenza nr. 963/2000 cennata, nella quale il giudice di legittimità ha affermato che <<l’elemento rappresentato dalla sicura matrice mafiosa del delitto e dall’obiettiva appartenenza di gran parte degli imputati alla famiglia mafiosa e in particolare al gruppo di fuoco…ha innegabile spessore accusatorio>>.

Peraltro, come già rassegnato, pare ovvio che il fatto che la chiamata del collaborante BETA abbia natura di riscontro individualizzante non voglia dire che sia sempre in grado di far assurgere la chiamata principale di ALFA ad elemento di prova piena sulla base di quanto sancito dall’art. 192 c.p.p..

Dopo avere verificato la credibilità complessiva del chiamante in linea principale (in tesi di ALFA) , sarà, infatti, sempre necessario valutare in concreto <<l’adeguatezza>> del riscontro.

Per esempio, esaminando la pregnanza intrinseca dell’elemento indiziario (cioè il livello di conducenza dell’indizio in termini di probabilità, in quanto rifacendosi all’esempio, una cosa è un gruppo di fuoco composto da pochi elementi e che agisca sempre con una composizione più o meno uguale; altra cosa sarebbe un gruppo di fuoco composto da centinaia di elementi e che agisca in composizione spesso diversa), nonché la sua originalità (essendo evidente che una cosa è l’indicazione che attinge un soggetto non ancora noto come componente di un qualsivoglia gruppo di fuoco o come autore di omicidi, altra cosa è l’indicazione di un soggetto del quale oramai sia nota la qualifica di killer).

Tuttavia, si tratta a ben vedere di apprezzamenti che attengono esclusivamente al merito e che, a parere di questa Corte, dovrebbero essere demandati alla competenza esclusiva del Giudice di merito.

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Sempre a proposito della suddetta pronuncia della Cassazione,

occorre a parere di questo Giudice sgombrare il campo dall’equivoco ingenerato dall’uso dell’avverbio “direttamente” impiegato dalla S.C. in relazione all’oggetto della chiamata di riscontro individualizzante.

Giova rilevare, in proposito, che la Corte di Cassazione ha anche

affermato che <<perché la chiamata in correità possa assurgere al rango di prova pienamente valida a carico del chiamato e possa essere posta a fondamento di un’affermazione di responsabilità abbisogna, oltre che di un positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilità, anche di riscontri estrinseci i quali…devono avere carattere individualizzanti, cioè riferirsi a elementi di qualsiasi tipo e natura anche di ordine puramente logico ma che riguardano direttamente la persona dell’incolpato in relazione a tutti gli specifici reati a lui addebitati…….>>

Aggiungendo che …<<è inoltre pacifico che il riscontro possa consistere in altre chiamate in correità le quali per poter essere reciprocamente confermative devono mostrarsi indipendenti, convergenti in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione e specifiche : la convergenza del molteplice dev’essere cioè individualizzante, nel senso che le plurime dichiarazioni accusatorie, pur non necessariamente sovrapponibili, devono confluire su fatti che riguardano direttamente sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui attribuite.>>

Non v’è dubbio che risalti fortemente che la S.C. abbia rimarcato che il riscontro debba riguardare direttamente la persona dell’incolpato e, sia pure con minor enfasi, le imputazioni attribuitegli.

Tuttavia, deve escludersi che la Suprema Corte abbia con ciò voluto affermare –stravolgendo immotivatamente il proprio precedente orientamento interpretativo- che solamente la prova diretta o rappresentativa (e non anche la prova critica o indiretta) possa costituire un riscontro individualizzante.

Invero, nella stessa sentenza in esame , la Corte ha altresì espressamente affermato che : <<il riscontro può essere costituito da un elemento di qualsiasi tipo e natura anche di ordine puramente logico>> ed ha , ancora, detto : << che le plurime dichiarazioni accusatorie ..devono confluire su fatti che riguardano direttamente sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni.>>

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Non ha preteso, cioè, che le dichiarazioni (per riscontrarsi) debbano riguardare entrambe direttamente l’incolpato e le sue imputazioni, ma ha stabilito che (quella di riscontro) deve (quanto meno) confluire su fatti, che afferiscano sia al chiamato che alle imputazioni.

Con ciò, implicitamente, riaffermando che la chiamata di riscontro possa anche riguardare fatti diversi dall’imputazione che però - anche attraverso un’operazione logico deduttiva- debbano potersi ricondurre sia alla persona dell’incolpato che alle sue imputazioni.

Di guisa che, pare evidente che la S.C. non ha assolutamente inteso escludere la prova indiziaria (per definizione, <<indiretta>>) dal novero dei possibili riscontri, ma coll’uso del termine direttamente (in relazione all’incolpato ed alle imputazioni) ha solo voluto sottolineare che il riscontro (per essere individualizzante) dev’essere propriamente riferibile alla persona del chiamato collegandolo alle imputazioni.

Del pari, non pare che la Corte abbia voluto (né a parere di questo Giudice avrebbe potuto), usando l’espressione direttamente, escludere che il suddetto collegamento tra l’incolpato e le imputazioni potesse operare anche solo attraverso una deduzione di tipo logico deduttivo.

Diversamente argomentando si dovrebbe sostenere, infatti, che solamente elementi di prova diretta (per loro natura, autonomamente in grado di fondare il giudizio di responsabilità) potrebbero costituire un valido riscontro individualizzante. Ciò non è richiesto dal Legislatore, né mai la Cassazione risulta che l’abbia preteso. Dovendosi, al riguardo, osservare che, poiché una siffatta rigorosissima interpretazione comporterebbe un’ulteriore imponente restrizione dell’area del libero convincimento del giudice (vale a dire di uno dei principi cardine del processo penale), dovrebbe fondarsi su una disposizione normativa molto più esplicita di quella riportata nell’art. 192 c.p.p.

* * * A questo punto pare opportuno cercare di stabilire cosa realmente possa pretendersi richiedendo, come riscontro, un <<elemento individualizzante>>. Giovando, in altri termini, cercare di determinare quale sia la soglia minima per la quale in astratto ad un elemento di prova possa essere riconosciuta natura individualizzante ed essere così

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legittimamente impiegato per riscontrare pienamente una chiamata di correo.

A parere della Corte, tale natura va riconosciuta a “qualunque elemento (di prova diretta od indiretta)”, che (provenendo da fonte diversa dal chiamante), riguardi la sfera personale del chiamato e sia riconducibile, anche attraverso un giudizio logico, al fatto da dimostrare” .

Non si ritiene pertanto che tale elemento debba essere necessariamente rappresentativo, in modo autonomo, del fatto.

In tale categoria potrebbero, dunque, anche rientrare elementi di modesta valenza oggettiva (in ordine alla loro autonoma rappresentatività del fatto in dimostrazione) che, tuttavia, collegando –di regola sulla base di criteri di spazio e di tempo- il chiamato al fatto specifico, possano costituire la condizione sufficiente per far assurgere la chiamata di correo a prova piena. Si ritiene, pertanto, che un siffatto elemento di riscontro ben possa refluire sul fatto in dimostrazione, anche solo attraverso una valutazione di tipo non rappresentativo o diretto , bensì solo <<logico-deduttivo>>.

Ed in tale categoria di elementi di riscontro non può, a parere della Corte, non inquadrarsi anche quella vasta teoria di elementi che - pur afferenti alla sfera del chiamato, ma non immediatamente collegabili (in base a criteri temporali e spaziali) al fatto specifico in questione - appaiano dal punto di vista logico-deduttivo certamente più rassicuranti sulla giustezza della “chiamata”. Se, infatti, si ammette che è anche attraverso un giudizio logico-deduttivo, che gli “elementi individualizzanti afferenti al fatto da dimostrare” possono ritenersi idonei a riscontrare l’accusa; non si vede perché ad analogo risultato non si possa pervenire (attraverso un equivalente apprezzamento logico-deduttivo) , mediante l’impiego di “elementi individualizzanti” (nemmeno essi afferenti direttamente al fatto in dimostrazione), che, pur <<rappresentando (in modo diretto) fatti diversi>>, appaiano, in concreto, maggiormente indicativi della possibilità che il “chiamato” possa avere operato proprio nel modo attribuitogli dal chiamante. Si vuol fare riferimento, ancora una volta, a quella teoria di elementi di riscontro che (autonomamente) permettano di sostenere che il chiamato faceva parte (magari, nello stesso contesto temporale) del

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ristretto gruppo criminoso cui il reato è attribuibile; ovvero, di affermare che il “chiamato” (magari, in un periodo prossimo a quello in cui venne consumato il fatto per cui si procede) aveva partecipato alla commissione, sempre nell’ambito del medesimo gruppo criminoso, di altri fatti delittuosi (in specie, di sangue) analoghi a quello per cui è processo; ecc. Si tratta, evidentemente, di elementi che, da soli, non permettono (neppure essi) di collegare esaustivamente il “chiamato” all’omicidio; ma che -anche secondo i comuni processi argomentativi- sono sicuramente idonei a rafforzare, ad accrescere, la probabilità della verosimiglianza della chiamata accusatoria, e, quindi, in buona sostanza, sono idonei a “riscontrarla”. Al riguardo, pare decisamente errato ricondurre tali fattori di riscontro alla categoria degli elementi puramente “logici”.

Di converso, si concretano in elementi sicuramente oggettivi, in quanto, comunque, “rappresentativi di un fatto o di più fatti concreti (pur differenti da quello in dimostrazione)”.

Logico è soltanto il procedimento deduttivo mediante il quale possono riverberare sul thema probandum, contribuendo, eventualmente, ad accrescere la credibilità della “chiamata”. Dovendosi, ancora rimarcare che, in tema di formazione generale della prova, ben pochi sono gli elementi che possono rappresentare un fatto <<direttamente>>, senza richiedere il benchè minimo apprezzamento “logico” per ricondurlo al fatto in dimostrazione.

La stessa prova genetica, che forse, allo stato, rappresenta il metodo scientifico dimostrativo più evoluto, non pervenendo mai ad accertare l’identità dei reperti comparati, ma solo la loro compatibilità (più o meno accentuata), impone, in sostanza, l’ulteriore esperimento di un “processo logico” che ancori il dato ottenuto al fatto in dimostrazione.

* E’ ovvio che elementi di riscontro individualizzante possano essere costituiti da elementi che, riferendosi al chiamato, siano “autonomamente” rappresentativi del fatto in dimostrazione (vale a dire : testimonianze; prove di natura genetica ; riprese fotografiche o cinematografiche; intercettazioni telefoniche o ambientali; rilievi

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dattiloscopici; ecc. che di per sè stesse siano in grado di collegare il soggetto all’evento).

Tuttavia, non potrà non convenirsi che, riservando solo a questi ultimi il riconoscimento della natura individualizzante, si verrebbe innanzi tutto a ridimensionare drasticamente la valenza probatoria della chiamata di correo, facendola scemare da elemento di prova a mero elemento di riscontro (il più delle volte superfluo, data la consistenza della <<prova autonoma>> sopra indicata). Inoltre, si verrebbe sempre a pretendere la <<fortuita>> insistenza di tali tipi di prove che, l’esperienza insegna, soprattutto nei reati di mafia (ed ancor più negli omicidi di mafia), si appalesa come assolutamente eccezionale (non solo, per ragioni legate all’omertà che massimamente insiste nelle regioni ove la criminalità mafiosa è diffusa, ma, altresì, in quanto uno degli elementi di forza delle suddette organizzazioni mafiose è costituito proprio dal fatto di poter commettere omicidi ed altri delitti, impiegando persone che colla vittima non hanno alcun rapporto diretto; di tal che risalire ad esse -solo sulla base del movente, della frequentazione, dei contatti intrattenuti, come accade in delitti di altra natura e matrice- è evidentemente impossibile). Analogamente, ove (richiedendo come riscontro un elemento individualizzante concernente il fatto in dimostrazione -in assenza di elementi di riscontro quali quelli superiormente indicati come testimonianze, prove genetiche, immagini fotografiche ecc.-) , si intendesse esigere sempre l’insistenza di un’altra chiamata di correo, convergente verso il medesimo soggetto e per il medesimo fatto; si verrebbe, in sostanza, ad esigere che la chiamata di correo per assurgere al rango di prova debba essere assistita da un elemento di riscontro di natura <<l’eccezionale>> qual è quello della coincidente sussistenza di un’altra chiamata di correo afferente in modo diretto lo stesso fatto delittuoso. (Senza dire, che è noto come siano stati già presentati al Parlamento disegni di legge finalizzati ad escludere che gli elementi di riscontro per una chiamata di correo possano essere costituiti da altra chiamata di correo). Né va sottaciuto, al riguardo, che sicuramente, se si fosse, da sempre, seguito tale criterio nella valutazione della chiamata di correo, l’organizzazione mafiosa non sarebbe stata minimamente scalfita dalle prime (solitarie) delazioni; e certamente, in questo momento non ci si starebbe occupando dell’omicidio di cui in epigrafe.

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Ciò, ovviamente, non vuol dire che l’impossibilità di reperire elementi di prova possa implicare un abbassamento della soglia minima richiesta per pervenire ad una pronuncia di condanna; ma solo che, in ossequio ad un generico ed astratto sospetto di inattendibilità della categoria degli imputati di reato connesso, non pare corretto - una volta che tale sospetto, in concreto, sia stato ragionevolmente fugato, sostituendolo con un ponderato giudizio di credibilità - alzare talmente il livello del riscontro individualizzante (esigendone uno che costituisca da solo prova autonoma del fatto, ovvero, un’altra chiamata di correo) da garantire, in sostanza, quasi sempre, l’impunità del chiamato . Richiedere, sempre e comunque, un elemento di riscontro della consistenza sopra specificata, significa non tenere in alcun conto eventuali differenze di credibilità insistenti tra i vari collaboranti e sopravvalutare l’argomento difensivo per il quale -essendosi verificato che qualche collaborante sia stato colto in fallo- è verosimile che tutti i collaboranti siano dei potenziali calunniatori. In linea puramente astratta ciò si può certamente condividere e l’ordinamento, col richiedere, all’art. 192 c.p.p., la ricerca di riscontri alla chiamata di correo e la valutazione preventiva della credibilità complessiva del collaborante, mira proprio a scongiurare il pericolo di accuse calunniose. Tuttavia, una volta che il giudizio di credibilità sia stato, in concreto, positivamente superato e che sussistano anche riscontri individualizzanti, non può ancora esigersi che gli stessi siano necessariamente pure direttamente rappresentativi del fatto da dimostrare. Ciò il legislatore non lo richiede, limitandosi invece a pretendere che tali elementi di riscontro confermino la credibilità del collaborante. Una volta effettuata positivamente tale valutazione, perché si determini la necessità di pretendere la ricerca di riscontri altamente qualificati (cioè a dire individualizzanti ed autonomamente rappresentativi del fatto in dimostrazione) occorre che si verifichino fatti concreti che inducano a ritenere che “proprio quel collaborante” (e non la categoria dei collaboranti) sia sospettabile di falso e di mendacio. Diversamente argomentando, si dovrebbe giungere a sostenere che, poiché è capitato che qualche testimone abbia reso false

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dichiarazioni in altri processi, se l’accusa proviene da un testimone (in genere) non può avere valore di prova. Si ritiene, che (nonostante si siano certamente verificati casi di testimonianze calunniose) mai nessuno abbia messo in discussione la valenza probatoria in astratto riconosciuta alla “testimonianza”. Del pari, deve argomentarsi che il fatto che “altri collaboranti” in altri processi possano avere in passato errato, sbagliato, calunniato, non possa, di per sè solo, indurre a pretendere che la chiamata di un collaborante, che pure sia stato ritenuto in concreto attendibile, debba necessariamente essere corredata da riscontri individualizzanti talmente qualificati come quelli sopra indicati. Deve, invece, ritenersi che, nei congrui casi, quando cioè a seguito di un attenta valutazione (sugli atti in concreto posti all’esame del giudice) si possa affermare che la chiamata provenga da fonte attendibile, anche elementi di riscontro individualizzanti, ma non “qualificati” (non afferenti, cioè, direttamente al fatto in dimostrazione) possano legittimamente contribuire, fondendosi colla dichiarazione accusatoria, a legittimare un giudizio di colpevolezza. In tal senso, reputa opportuno rimarcare la Corte che anche il fatto che il chiamato per un determinato omicidio, risulti, aliunde (cioè, sulla base di elementi diversi dalla chiamata), inserito proprio nel gruppo criminoso che tale omicidio ha commesso, possa costituire, nei congrui casi, un idoneo riscontro individualizzante; e che un riscontro ancor più significativo possa essere rappresentato dal fatto che, sulla base di elementi estrinseci, possa affermarsi che quel soggetto proprio per effetto del suo inserimento in tale sodalizio criminoso, abbia commesso altri reati dello stesso tipo di quelli in contestazione . (Potendosi, inoltre, attribuire al riscontro una maggiore pregnanza a seconda che detti delitti risultino essere stati commessi colle stesse modalità, nello stesso periodo di tempo, cogli stessi complici, svolgendo lo stesso ruolo, ecc.).

* * * Per confutare la rilevanza probatoria della chiamata di correo assistita da elementi di riscontro estrinseci ed individualizzanti (ma non direttamente dimostrativi del fatto) come quelli da questa Corte ritenuti (in astratto) sufficienti, di solito viene impiegato l’argomento (questo si, puramente ) “logico” per il quale basterebbe “sostituire il chiamato con

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un’altra persona del medesimo gruppo” perché anche in capo a quest’ultima possa aversi lo stesso grado di prova. In astratto, ciò è, senza dubbio, vero.

Tuttavia45, la suggestività dell’argomentazione ora indicata -tesa a dimostrare come in questi casi tutto si riduca alla chiamata del c.d. pentito- scema fortemente quando si consideri che la suddetta operazione di “sovrapposizione o di sostituzione di persona” sia praticabile solo << a posteriori>> cioè solo una volta che siano a tutti noti gli esiti dell’attività spiegata dagli inquirenti per riscontrare le affermazioni del collaborante. Cioè a dire, soltanto dopo che, sulla base delle indagini esperite, possa ricavarsi, non solo, se il chiamato si trovasse in stato di libertà, se fosse in luogo compatibile con quello in cui l’omicidio venne commesso, ecc; ma, altresì, chi altri, del medesimo sodalizio, si trovasse in quel momento nelle medesime situazioni di <<compatibilità>> col delitto.

Di contro, la “chiamata” del collaborante viene, ovviamente, effettuata prima di questi riscontri. In sostanza, il collaborante non è in condizione di sapere se chiamare l’uno o l’altro sia indifferente ai fini della rispettiva <<compatibilità>> col delitto attribuito. L’unica cosa che colui che ha partecipato alla commissione di un omicidio è in grado di sapere con certezza è <<chi si trovava con lui in quel momento>>. Degli altri (in tesi, pure appartenenti allo stesso gruppo mafioso, in generale, ed allo stesso gruppo di fuoco, in particolare) l’esecutore dell’omicidio, non può sapere se, magari, in quel momento siano stati arrestati, abbiano avuto un incidente, siano in un luogo lontano, stiano viaggiando in aereo, siano “controllati” dalla polizia, ecc. Né il collaborante può escludere che al delitto possa avere assistito qualcuno che, magari, non ha individuato i killers colla necessaria sicurezza, ma ne ha descritto in linea generale le fattezze fisiche; anche in tal caso non potendo la chiamata riguardare indifferentemente “uno del gruppo” senza comportare il rischio che si ponga in netta contraddizione colle risultanze probatorie.

45 Prescindendo dal rimarcare che la prima fase della verifica dell’attendibilità del collaborante è diretta proprio a scongiurare rischi del genere.

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Di tal che, deve convenirsi che il “pentito”, per essere sicuro di non essere platealmente smentito, rischiando, così, proprio di compromettere tutto ciò che mira ad ottenere colla collaborazione, deve riferire il vero e non può chiamare chi vuole <<indifferentemente>>. Ciò sarà anche potuto accadere (così com’è accaduto che testimoni abbiano chiamato persone innocenti). Tuttavia, tale generica eventualità -se non suffragata, nel caso concreto, dal benchè minimo elemento (quale, per esempio, una particolare animosità nei confronti del chiamato) che consenta, quanto meno, di sospettare della credibilità, nello specifico, del collaborante - non può infirmare (al punto di renderla equivalente alla notitia criminis) la valenza di prova della chiamata di correo, quando sia stata effettuata <<da un collaborante del quale sia stata positivamente vagliata l’attendibilità generico-complessiva, nonché quella specifica sul fatto ed in ordine alle dichiarazioni del quale sia stata accertata, in capo al chiamato, l’insistenza di elementi di riscontri individualizzanti (sia pure non direttamente afferenti al fatto in dimostrazione).>>

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§ - 3 ) Le dichiarazioni di GANCI Calogero Sottolineata, in punto di diritto, la valenza probatoria della chiamata di correo, pare opportuno, a questo punto, riassumere le dichiarazioni rese dagli odierni imputati collaboranti ANZELMO Francesco Paolo e GANCI Calogero nell’ambito del presente procedimento, per valutare, poi, se e quale grado di attendibilità generico-complessiva alle medesime sia possibile attribuire e, quindi, per verificare se siano, nello specifico, corredate da elementi di riscontro estrinseci di tipo individualizzante e se e fino a qual punto possano riscontrarsi vicendevolmente . GANCI Calogero è stato esaminato da questa Corte alle udienze del 23/3/2001 e dell’1/12/2001. Agli atti, peraltro, insistono i verbali delle dichiarazioni dal medesimo rilasciate nel corso delle indagini preliminari46. Dal complesso di tali dichiarazioni, avuto riguardo, in generale, alla sua “militanza” in Cosa Nostra si ricava quanto segue:

GANCI Calogero (con rituale combinazione) era entrato a far parte di Cosa Nostra, nella “famiglia” mafiosa della Noce , nel 198047.

A capo di tale famiglia, a quell’epoca, v’era Salvatore SCAGLIONE.

La Noce rientrava, a quell’epoca nel mandamento di Porta Nuova, rappresentante del quale era Pippo CALO’.

Esso GANCI era sempre stato solo un soldato. Ma suo padre era allora sottocapo della famiglia ed in seguito sarebbe stato capomandamento della Noce.

Del resto, era regola, che in Cosa Nostra una carica di rilievo non potesse essere attribuita a chi avesse per stretto congiunto un uomo d’onore che ricoprisse una carica.

46 Cfr. al vol. 17, fald. 6 : v. spontanee dichiarazioni del 7 giugno 1996; v. interrogatorio del 25, giugno, 1996 : int. Del 27/6/96; 28/6/96; 3/7/96; 47 cfr. esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2.

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Aveva iniziato a collaborare nel giugno del 1996, soprattutto per amore dei propri figli perché non voleva che seguissero la sua strada che, invece, sarebbe stata obbligata, dato che molti suoi congiunti facevano parte dell’organizzazione mafiosa.

In quel periodo a capo del mandamento di Resuttana v’era Ciccio MADONIA; del mandamento di Partanna Mondello (di cui faceva parte S. Lorenzo) Rosario Riccobono; di Ciaculli, Michele GRECO; di Corleone era Luciano LIGGIO (anche se a reggerlo erano RIINA Salvatore e Bernardo PROVENZANO); ecc.

Nel 1981 , coll’uccisione di BONTATE, capo del mandamento della Guadagna, era scoppiata la guerra di mafia.

La guerra era stata originata da contrasti insorti , per motivi legati al monopolio dei traffici di droga, tra il BONTATE e RIINA : in partica, si era formato uno schieramento avverso a quello “corleonese”, composto dai mandamenti di Boccadifalco, Guadagna, Villabate.

Il gruppo dei corleonesi (costituito dalle famiglie di S. Lorenzo, di Corleone, di S. Giuseppe Jato, di Ciaculli, ecc. ) aveva deciso di uccidere Stefano BONTATE e poi Salvatore INZERILLO.

Sia Rosario RICCOBONO che Salvatore SCAGLIONE, non erano stati messi al corrente della decisione di sopprimere il BONTATE, perché erano troppo amici di quello, ed il gruppo corleonese diffidava di loro.

Sebbene facessero parte della famiglia Noce ed avessero nello SCAGLIONE il loro capofamiglia, essi GANCI erano dalla parte dei corleonesi.

Dopo la morte di BONTATE e di INZERILLO, lo SCAGLIONE ed il RICCOBONO si erano avvicinati alle posizioni dei corleonesi.

Tuttavia, nel novembre del 1982 erano stati uccisi anche loro. Dopo la loro morte, nel mese di gennaio del 1983, erano stati

formati dei nuovi mandamenti, tra cui quello della Noce, comprendente le famiglie Noce, Malaspina ed Altarello di Baida e quello di S. Lorenzo, che aveva preso il posto di Partanna Mondello ed al cui vertice era stato posto Giuseppe Giacomo GAMBINO.

MADONIA Francesco era il capomandamento di Resuttana. Antonino (Nino), Salvuccio e Giuseppe erano i suoi figli. Aggregata al mandamento di Resuttana era la famiglia dei GALATOLO, della quale era rappresentante Vincenzo.

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Nel periodo di maggiore violenza della guerra di mafia ed in particolare nel 1982 si erano costituiti diversi gruppi – costituiti da soggetti di differenti famiglie di Cosa Nostra- che si riunivano quasi quotidianamente per organizzare operativamente i delitti. Tra tali soggetti, ricordava MADONIA Antonino e CAROLLO Gaetano, della famiglia di Resuttana, GALATOLO Vincenzo, GALATOLO Raffaele e GALATOLO Giuseppe, FONTANA Stefano, della famiglia dell’Acquasanta, GAMBINO Giacomo Giuseppe (della famiglia di S. Lorenzo); GRECO Giuseppe, LUCCHESE Giuseppe e SALERNO Pietro, della famiglia di Ciaculli); MARCHESE Filippo , della famiglia di Corso dei Mille; ROTOLO Antonino , della famiglia di Pagliarelli; Qualche mese prima dell’omicidio del Generale avevano effettuato la strage della circonvallazione.48

In merito al movente degli omicidi in trattazione affermava quanto segue49 :

Aveva avuto notizia della decisione di eseguire l’omicidio del

Generale DALLA CHIESA circa 20–30 giorni prima della sua effettiva consumazione50.

In quel periodo, il gruppo di fuoco costituito dai soggetti sopra specificati ( MADONIA, i GALATOLO, esso GANCI Calogero, suo padre, ANZELMO Francesco Paolo, GRECO Giuseppe ecc.), si riunivano presso che quotidianamente a Fondo Pipitone. Così veniva chiamato il luogo, sito in vicolo Pipitone, nella zona dei Cantieri di Palermo, ove la “famiglia GALATOLO” (della quale Vincenzo era il rappresentante)51 risiedeva e dove aveva la disponibilità di taluni locali posti a disposizione dell’organizzazione.

Si trattava di un <<quartier generale>> da loro adoperato soprattutto nel periodo compreso dallo scoppio della guerra di mafia fino all’82.52

Ad illustrare il piano operativo erano stati MADONIA Antonino, GAMBINO Giacomo Giuseppe e GRECO Giuseppe, detto “scarpa”. 48 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 55. 49 Cfr. al Fald. 3, vol, 6, udienza del 15/2/00, pg. 53 ss. 50 cfr. esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 12. 51 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2. Pg. 13 52 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 127

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A loro tre era stato affidato il compito di organizzare l’omicidio. Loro prendevano le decisioni su come realizzarlo e poi informavano gli altri componenti del gruppo.53

Rammentava, tra le persone presenti quel giorno, quando si era parlato per la prima volta dell’uccisione del Generale : Nino MADONIA, GANCI Raffaele, ANZELMO Francesco Paolo, Giuseppe Giacomo GAMBINO, GRECO Giuseppe scarpa, GALATOLO Vincenzo, ROTOLO Antonino, LUCCHESE Giuseppe, SALERNO del quale non ricordava il nome di battesimo e Giovanni MOTISI.54

Rammentava altresì che LUCCHESE Giuseppe e MADONIA Antonino erano quelli che studiavano le strade che giornalmente percorreva il Generale. Infatti un problema era costituito dal fatto che l’autista del DALLA CHIESA cambiava spesso percorso.55 Infatti, la decisione relativa al luogo ove appostarsi per eseguire l’agguato fu determinata anche dal fatto che il luogo infine prescelto (piazza Nascè) si sarebbe prestato anche se il Generale avesse imboccato la via Libertà.

Nel corso delle riunioni si era anche parlato dei motivi

dell’omicidio. In particolare, rammentava, che subito dopo la designazione del

Gen. DALLA CHIESA a Prefetto di Palermo in Cosa Nostra si era diffusa una grande preoccupazione, temendosi che il nuovo Prefetto avrebbe posto seri problemi all’organizzazione, così come aveva fatto contro il terrorismo.

Inoltre, si erano diffuse, all’interno dell’organizzazione, voci secondo le quali il DALLA CHIESA per sconfiggere il terrorismo aveva adoperato metodi molto duri ed addirittura illeciti (sostanzialmente, torturando le persone in carcere per farle parlare56) e che per organizzare il contrasto a Cosa Nostra aveva richiesto il conferimento di poteri straordinari.

Quindi, anche se l’omicidio del DALLA CHIESA era stato operativamente discusso circa venti giorni prima dell’eccidio, era dal momento del suo arrivo a Palermo che si parlava della sua morte, trattandosi di una persona considerata come un nemico da abbattere sin da subito57. 53 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 129 54 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 14 55 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2., pg. 19. 56 cfr. anche al fal. 6/vol. 17, pg. 117. 57 cfr. al vol. 17/ fald. 6 pg. 101 .

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In quell’epoca , Cosa Nostra non era retta da una vera e propria commissione. Infatti, si era nel bel mezzo di una guerra di mafia. Alcuni capomandamento erano stati uccisi (BONTATE-INZERILLO), molte famiglie erano sbandate.

“Quelli che avevano in mano Cosa Nostra erano RIINA Salvatore, PROVENZANO Bernardo, GAMBINO Giacomo Giuseppe, MADONIA Antonino, essi GANCI come famiglia della Noce, GRECO Giuseppe, GRECO Michele. Non c’era una vera e propria commissione, ma un gruppo di persone (composto dal gruppo Noce, Acquasanta, S. Lorenzo, Resuttana, Corso dei Mille, Ciaculli, Pagliarelli, Porta Nuova, oltre che dai corleonesi di RIINA ed i BRUSCA di S. Giuseppe Jato) che comandavano già su Palermo”58.

Le decisioni più importanti, compresa quindi l’uccisione del Gen. DALLA CHIESA, venivano assunte dall’organismo che di fatto a quell’epoca comandava e che era costituito dai capimandamento fedeli a RIINA.59

Suo padre, allora non era ancora rappresentante della famiglia. Era infatti ancora vivo SCAGLIONE Salvatore che essi avevano però tenuto in disparte.

*

In un primo momento si era pensato di eseguire l’attentato in via

Libertà, durante il percorso tra la sede della Prefettura e Villa Pajno residenza del Prefetto, all’altezza del negozio “Paoletti”.

Si era pensato, in particolare di bloccare l’auto del Prefetto mentre percorreva la corsia preferenziale contro mano, con un camion. Ma il pinao era stato accantonato perché eccessivamente rischioso.

Non sapeva attraverso quali fonti il MADONIA e gli altri

conoscessero gli spostamenti del Generale, tuttavia i predetti mostravano di essere già in possesso delle informazioni utili al fine che si erano preposti.

Né ricordava di avere partecipato ad altri appostamenti, tesi all’omicidio del DALLA CHIESA.

58 cfr. al vol. 17/fald. 6. Trascrizioni interrogatorio GANCI del 25/6/96. pg. 54. E trascrizioni interrogatorio del 3/7/96, pg. 112 segg. 59 Cfr. interrogatorio GANCI del 3/7/96, pg. 101. Vol. 17/fald. 6.

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Una volta decise le modalità dell’agguato nel modo in cui venne poi effettivamente realizzato, MADONIA Antonino aveva incaricato il GANCI di trovare alcuni dei mezzi necessari all’azione. Occorrevano, almeno, come veicoli di provenienza furtiva, due auto di grossa cilindrata ed una o due moto potenti; inoltre occorrevano alcune auto pulite di copertura.

Il gruppo di fuoco, disponeva già di alcune auto rubate, custodite

all’interno di un garage di Nino MADONIA, sito in una traversa di via Ammiraglio Rizzo. Nello stesso locale erano tenuti alcuni borsoni sportivi contenenti armi: in particolare, 3 kalashnicov, tre o quattro fucili a pompa e numerose pistole, oltre che le munizioni per tali armi.

Secondo il piano, il GANCI era stato incaricato da MADONIA

Antonino, di guidare una delle auto sporche; segnatamente quella sulla quale il predetto MADONIA avrebbe dovuto prendere posto.

ANZELMO Francesco Paolo doveva condurre la seconda auto sporca sulla quale dovevano prendere posto il GAMBINO e ROTOLO Antonino.

GRECO Giuseppe, doveva prendere invece posto sulla moto condotta (ma, al riguardo non era sicuro) da SALERNO Pietro60.

CUCUZZA Salvatore e LUCCHESE Giuseppe, avevano invece

l’incarico di osservatori, dovendo comunicare il momento dell’uscita dalla Prefettura del Gen. DALLA CHIESA.

Si dovevano trovare a bordo di un’auto pulita e dovevano mantenere i contatti cogli altri –segnatamente con MADONIA Antonino o con GRECO Scarpa- mediante una radio rice-trasmittente.

Inoltre, dovevano seguire il Gen. DALLA CHIESA per verificare se, arrivato a P.zza Sturzo prendesse per la via Libertà o proseguisse dritto in via Carini.

Non aveva mai sentito dire che all’interno della Prefettura ci fosse una talpa che aveva il compito di informare essi mafiosi degli spostamenti del Generale.61

60 Cfr. vol. 17/fald. 6, pg. 68. 61 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 122

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Poi, altre persone (tra le quali, ricordava, suo padre GANCI Raffaele, GALATOLO Vincenzo e CAROLLO Gaetano), a bordo di altre auto, dovevano fare “da copertura”.

Precisava, peraltro, di non ricordare se avesse visto il CUCUZZA la sera dell’omicidio; ma rammentava che quello aveva partecipato al fondo Galatolo, alle riunioni per l’omicidio del Generale e che aveva avuto il compito di seguirlo, anche perché via Carini ricadeva nel Borgo Vecchio di cui il CUCUZZA era “reggente”; ricordando, altresì, che il predetto si era recato a fondo Pipitone ad omicidio avvenuto 62.

In definitiva, tuttavia, nell’indicare le persone che con sicurezza

ricordava che avessero partecipato alla preparazione di quel delitto, recandosi nei giorni che precedettero l’omicidio a Fondo Pipitone, indicava, oltre a sé ed a suo cugino Francesco Paolo ANZELMO, suo padre GANCI Raffaele, GAMBINO Giacomo Giuseppe, MADONIA Antonino, GALATOLO Vincenzo, GALATOLO Giuseppe, GRECO Giuseppe, LUCCHESE Giuseppe, SALERNO Pietro, ROTOLO Antonino, MOTISI Giovanni e CAROLLO Gaetano.63

MADONIA Antonino e LUCCHESE Giuseppe si erano occupati di pedinare il DALLA CHIESA per mettere a punto l’omicidio.

In merito all’eccidio affermava quanto segue64 : Il 3 settembre 1982 egli – com’era solito fare quasi ogni giorno- si

era recato al Fondo Pipitone ove si era trovato cogli altri componenti del gruppo di fuoco.

Nel pomeriggio si erano mossi a bordo delle auto pulite che avrebbero usato per copertura, fino al garage del MADONIA dove avevano preso le auto sporche che erano già pronte e le armi. Erano nascoste all’interno di borsoni.

Prese le armi erano tornati al vicolo Pipitone e da lì si erano mossi “in corteo” (si trattava di cinque o sei macchine e della moto65) per arrivare a Piazza Nascè, vale a dire, alla piazzetta posta all’inizio della Via Carini.66

62 Cfr. vol. 17/ fald. 6, pg. 130 e segg. 63 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 109 64 Cfr. al Fald. 3, vol, 6, udienza del 15/2/00, pg. 53 ss. 65 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 150 66 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 90.

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Il gruppo era comandato da Giuseppe GRECO, GAMBINO Giacomo Giuseppe e Nino MADONIA 67. Il MADONIA aveva voluto esso GANCI come autista.68

Si erano, quindi, recati alla piazza…ov’erano giunti intorno alle 19.00.

Esso GANCI era alla guida di una Fiat 131 (o una 132) 69.Durante il tragitto le auto pulite avevano fatto loro da staffetta.

Aveva, quindi, parcheggiato l’auto nella piazza anzi detta e di

fianco si era posteggiata l’auto del GAMBINO. Un po’ più in là la motocicletta. Sulla stessa avevano preso posto

Giuseppe GRECO ed il SALERNO, un ragazzo che faceva parte della famiglia di Ciaculli.

Nei pressi si trovavano anche le auto di copertura. Tali auto dovevano servire anche per prelevare gli autori dell’omicidio, a delitto consumato e portarli in un posto sicuro.

Su una di esse si trovava suo padre GANCI Raffaele. Su un’altra GALATOLO Vincenzo. Su un’altra ancora CAROLLO Gaetano.

Rammentava che, durante l’attesa (durata per circa un’ora-un’ora e mezzo70) era sceso dalla 131 ed era salito sull’auto pulita del padre.

Così avevano fatto anche gli altri componenti del commando che dovevano entrare materialmente in azione; infatti , erano tutti saliti sulle altre auto di copertura. Rimanendo, tuttavia, nelle immediate vicinanze dei veicoli “sporchi”.

MADONIA Antonino, se esso dichiarante mal non ricordava, era salito sull’auto del CAROLLO, sottocapo della famiglia di Resuttana.71

Non ricordava invece se la motocicletta “sporca” si fosse mai spostata dalla piazzetta Nascè; né se fossero transitate auto della polizia o dei Carabinieri ovvero se fossero state usate altre motociclette per commettere l’omicidio.72

67 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 119. 68 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 171 69 nel corso dell’esame dell’ 1/12/2001 (cfr. al vol. 10/fald. 3, pg. 27) su apposite contestazioni delle risultanze processuali relative al ritrovamento di bossoli di kalashnicov sulla BMW e non sulla 132 Fiat, rinvenute subito dopo l’agguato, l’imputato assumeva di non potere escludere che si stesse sbagliandosi trattandosi di un delitto commesso quasi vent’anni prima, pur continuando a ricordare che egli aveva portato la 131 (o la 132). 70 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 36 71 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 24 72 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 36.

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Pervenuta la notizia che l’auto del Generale stava per arrivare, si erano preparati all’azione.

La notizia, secondo il piano concordato, doveva essere stata trasmessa, via radio, dal CUCUZZA e dal LUCCHESE che dovevano avere visto il Prefetto uscire a bordo della A 112, insieme alla moglie, seguiti dall’agente di scorta sull’Alfetta blindata.

Egli aveva visto il MADONIA ed il GRECO scendere dalle auto di copertura e prendere posto sui mezzi parcheggiati. Immediatamente era sceso anch’egli ; ed aveva preso posto alla guida della <<131>> avviandone il motore.

In quel frangente, aveva anche visto il SALERNO e GRECO Scarpa, (che se mal non ricordava indossavano il casco, anche se di tale circostanza non era affatto sicuro73) salire sulla moto.

Il MADONIA, se mal non ricordava, aveva spostato un po’ all’indietro il suo sedile.74

Egli si aspettava che il Generale si trovasse sull’auto blindata; anche perché si erano preparati con armi adeguate a trapassare la blindatura dell’auto.

(In proposito precisava anche il GANCI essi sapevano che i kalashnicov erano in grado di colpire le persone all’interno di un’auto blindata in quanto, prima dell’omicidio INZERILLO, esso dichiarante, unitamente a MADONIA Antonino ed Angelino GALATOLO, avevano sperimentato l’arma, con esito positivo, contro i vetri blindati della gioielleria CONTINO di Palermo75.)

Invece, il MADONIA, nel dirgli che il Generale stava per transitare, lo aveva avvertito di stare attento che il DALLA CHIESA era colla moglie (ovvero, con una donna) sulla A 112, davanti all’auto blindata76.

In verità, non aveva visto le rice-trasmittenti; ma, poiché sapeva che questo era il mezzo con cui dovevano tenersi in contatto (avendo visto detti strumenti, prima, al fondo Pipitone77), aveva dedotto che tramite tali strumenti il MADONIA (che poi, doveva avere lasciato la

73 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 38 74 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 51 75 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 99 segg. 76 cfr. anche a fald. 17, vol. 6, pg. 64-65; nonché nelle trascrizioni relative all’ esame del GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 24. 77 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 168.

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rice-trasmittente nell’auto pulita da cui era sceso78) avesse appreso dell’arrivo del DALLA CHIESA .79

Quello era stato il momento in cui aveva saputo che la moglie, o meglio più genericamente una donna, si sarebbe trovata nell’auto insieme al generale.80

Egli (mantenendo “l’auto col muso anteriore per imboccare la via

Carini”81, perpendicolarmente alla suddetta strada82) aveva atteso che le due auto, la A 112 bianca e l’Alfetta, che procedevano di conserva, a distanza di dieci metri l’una dall’altra, gli sfilassero davanti. Erano transitate pochi minuti dopo che essi killers avevano appreso la notizia che il Generale stava per passare83.

Non procedevano ad andatura sostenuta, bensì “normalmente”.84 Indi, immediatamente dopo che era passata l’Alfetta, si era

immesso sulla strada (facendo una semicurva85) e si era posto dietro all’Alfetta.

Era partito velocemente, raggiungendo <<gli 80/90 all’ora. Non si era trattato comunque di un’accelerazione violenta, perché non poteva dare nell’occhio alla macchina di scorta>>86.

Secondo il piano, dovevano essere gli occupanti della moto ad affiancare l’auto del generale ed a fare fuoco per primi, ma a causa di un intoppo - forse dovuto ad una difficoltà nell’avviare la moto- non avevano potuto fare quanto previsto.

Egli, intanto, aveva superato, da sinistra, l’Alfetta, (aveva rallentato87) ed aveva affiancato la A 112 sul lato sinistro (come se stesse

78 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 169 79 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2., pg. 27. 80 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 15. 81 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2., pg. 35 82 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 32 ; nell’esame dell’1/12/2001 (cfr. al vol. 10/fald. 3, pg. 39) il GANCI preciserà anche che se mal non ricordava, l’altra auto, quella dell’ANZELMO si trovava ad una decina di metri, un po’ più indietro, lungo la direzione da piazza Sturzo a via Notarbartolo, rispetto all’auto del GANCI; mentre la moto era un po’ più avanti , quattro o cinque metri più avanti sulla destra sempre rispetto all’auto del GANCI. 83 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 132 84 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 84; cfr. anche quanto riferito dal GANCI nel corso dell’esame dell’1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 40: “procedeva a cinquanta, quaranta, una velocità normalissima che si fa in città”. 85 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 52 86 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 7 87 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 7

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effettuando un regolare sorpasso, quindi superando il veicolo delle vittime da sinistra).88

A quel punto- non essendo ancora arrivata la motocicletta – MADONIA Antonino, “sparando per primo”89, aveva esploso una raffica (di circa dieci-quindici colpi) col mitra kalashnicov che imbracciava sia contro la SETTI CARRARO – che guidava l’autovettura – sia contro il Generale che era seduto accanto a lei.

<<In particolare, Nino MADONIA, avendo il finestrino abbassato, si era girato, colle ginocchia sul sedile e colle spalle appoggiate al cruscotto ed aveva cominciato a sparare, dal proprio finestrino, sulla macchina del Gen. DALLA CHIESA >>90

Più precisamente, esso GANCI aveva sorpassato di poco l’auto del generale ed il MADONIA, per sparare, si era girato verso il retro ed aveva sparato91 (aggiungeva il GANCI che la discussione poi sorta col GRECO Scarpa, aveva avuto come oggetto anche il rischio che così facendo potesse colpire il GRECO).

Il MADONIA aveva sparato tenendo il kalashnicov in parte fuori dal finestrino ed in parte dentro.92

Nel corso della manovra di affiancamento e di superamento dell’autovettura A 112, il MADONIA continuando a sparare si era progressivamente spostato puntando l’arma “verso la sua destra e verso dietro”, <<girandosi in senso orario>>93, <<facendo una torsione del busto>>, <<come se volesse sparare sul parabrezza…perché poi la A 112 è rimasta indietro…qualche metro indietro94>>.

Aveva iniziato a sparare nel momento in cui l’auto condotta dal GANCI aveva affiancato quella del Generale.95

Se mal non ricordava, il MADONIA aveva sparato una ventina di colpi, un caricatore intero, a raffica. Nell’insieme aveva sparato per una ventina di secondi. La raffica non era stata però continua (se lo fosse stata avrebbe sparato tutti i colpi del caricatore in cinque secondi) ; ma il MADONIA si era interrotto per un momento e poi aveva ripreso a sparare nel momento in cui si era girato96. Poiché aveva tenuto la canna 88 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2; pg. 24 89 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 151 90 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2., pg. 17-26 91 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 53 92 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 85. 93 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 6-9 94 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 56-57 95 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 8 96 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 70

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parzialmente fuori dal finestrino, almeno nella parte iniziale della sparatoria, la maggior parte dei bossoli doveva essere finita fuori dall’auto; tuttavia, una parte di essi (quando il MADONIA si era girato per continuare a sparare) poteva essere finita dentro l’auto.97

Escludeva al riguardo, nella maniera più assoluta, che la manovra di affiancamento fosse stata effettuato dal lato destro dell’auto del Generale.98

L’autovettura del Generale aveva decelerato99 e iniziato a sbandare leggermente verso destra100, fino a fermarsi. Specificava, tuttavia, che egli non aveva visto dove l’auto del Generale fosse andata a finire, non avendola vista più.

Non rammentava che l’auto da esso GANCI condotta e la A 112 del Generale fossero entrate in contatto, che cioè si fossero urtate.101

Quando il MADONIA aveva iniziato a sparare contro l’auto del Generale, essi si trovavano tra la Piazza Nascè ed il primo incrocio (vale a dire tra la Piazza Nascè e l’incrocio della via Carini con via Ricasoli); mentre, se mal non ricordava, la seconda auto (quella sulla quale si trovava l’ANZELMO) si trovava (presso che in linea coll’auto condotta dallo stesso GANCI102) dietro alla macchina della scorta oppure in prossimità di quella; mentre la motocicletta non l’aveva vista, anche se sapeva che si trovava sul lato destro , anche rispetto alle auto che erano state vittime dell’agguato.103

Ricordava che avevano ultimato il sorpasso della A 112, all’altezza dell’incrocio colla via Ricasoli.104

Dopo che il MADONIA aveva sparato, aveva sentito che l’ANZELMO e gli altri occupanti della seconda auto del commando e quelli che erano a bordo della motocicletta, avevano sparato sia col mitra che coi fucili a pompa contro l’auto blindata.

Specificando, che il GRECO Scarpa, aveva un kalashnicov (“di quelli che avevano il calcio in metallo ripiegabile” 105), mentre gli occupanti dell’auto avevano due fucili a pompa.

97 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 15-16-21 98 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 53. 99 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 43 100 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 53 101 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 12 102 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 30 103 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 22-28-29 104 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 49 105 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 35

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Precisava che egli non aveva assistito a tale fase dell’agguato (né aveva guardato dallo specchietto retrovisore106), ma aveva sentito esplodere, dietro di sé, numerosi colpi d’arma da fuoco; per cui presumeva che avessero sparato anche i componenti dell’equipaggio della seconda auto107 e che il GRECO, dopo essersi fermato, da bordo della sua moto, avesse poi anche sparato contro l’auto del Generale.

Ribadiva che non sapeva nemmeno dove la A 112 del Generale avesse terminato la sua corsa108.

Egli aveva proseguito la sua corsa per via Carini e, se mal non ricordava, percorrendo strade interne era giunto direttamente a fondo Pipitone; non rammentando se si fosse prima fermato per abbandonare l’auto sporca.109

Ricordava, tuttavia, che <<egli era andato sul posto ove le auto erano state incendiate>>110, specificando che si trattava di una strada, sita vicino alla via Autonomia Siciliana, che costeggiava la ferrovia e proprio a ridosso di un muro, ricordando, altresì, che vicino aveva visto che c’erano dei contenitori per l’immodizia.111

Rammentava ancora il GANCI che, dopo avere consumato l’eccidio, fino a raggiungere il luogo ove avevano abbandonato le auto, la seconda auto e la moto gli erano stati dietro giammai superandolo112.

Giunti al Fondo Pipitone, poco dopo erano arrivati anche gli altri

componenti del commando. Si era, quindi, verificato “un violento battibecco” tra GRECO

Giuseppe e MADONIA Antonino. Il GRECO, infatti, si era mostrato fortemente contrariato perché

secondo il piano avrebbe dovuto sparare lui per primo e non aveva gradito l’iniziativa del MADONIA.

106 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 13 107 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 34. 108 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 13 109 Tuttavia nel corso dell’esame del 23/3/2001 (cfr. al vol. 5/fald. 2, pg. 158 e segg.) il GANCI mostrava di ricordare che in effetti prima avevano abbandonato le auto e poi erano tornati a fondo Pipitone; esso GANCI “raccolto” dall’auto condotta dal padre. Giustificava il GANCI la lacunosità dei ricordi mostrata in sede di indagini preliminari, col fatto che in quegli stessi giorni era stato chiamato a rispondere anche di altri delitti (in particolare, CASSARA’) <<aveva interrogatori dalla mattina alla sera>> per cui poteva avere ricordato male. 110 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 155 111 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 93. 112 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 36

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Tra l’altro, al MADONIA, da parte del GRECO, veniva contestato anche il fatto che, sparando in quel modo (girandosi verso destra ed all’indietro), aveva corso il rischio di colpire chi si trovava sulla moto (per l’appunto lo SCARPA e chi portava la moto).113

Il contrasto, che stava degenerando, tanto che i due stavano per venire alle mani,114 era stato appianato grazie all’intervento di GAMBINO Giacomo Giuseppe.

Peraltro, riferiva il GANCI, sulla base della propria esperienza in materia, che per quanto un delitto possa essere stato programmato “ogni omicidio che si fa…è sul momento che si sviluppa l’azione, quindi non si sa come si sviluppa”.115

In ordine alle persone che insieme a lui avevano commesso

l’omicidio del Generale riferiva, ancora, che : ANZELMO Francesco Paolo, suo cugino, era allora un soldato

appartenente alla famiglia Noce. Quando erano stati formati i nuovi mandamenti l’ANZELMO era divenuto sottocapo della famiglia Noce.

Aveva partecipato all’omicidio componendo l’equipaggio dell’altra autovettura “sporca”.

Coll’ANZELMO aveva commesso numerosi altri omicidi : tra cui quello del dr. Cassarà, del Giudice Chinnici, di BONTATE e di INZERILLO.

MADONIA Antonino era allora componente della famiglia di

Resuttana. Con lui aveva commesso numerosi omicidi. Anche il primo omicidio commesso da esso GANCI l’aveva commesso col MADONIA. Si era trattato dell’uccisione di un macellaio di Altofonte, avvenuta ancora prima di essere combinato.

Tra gli omicidi commessi col MADONIA, ricordava quello di BONTATE, di INZERILLO, del dr. CASSARA’, del Giudice CHINNICI, di Alfio FERLITO (noto, come la strage della Circonvallazione).

Rammentava che il MADONIA aveva già usato il kalashnicov nell’omicidio INZERILLO, aveva fatto la prova alla gioielleria CONTINO ed anche nella strage della circonvallazione.116 113 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 29 114 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2., pg. 18 115 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 31 116 esame GANCI 1/12/2001 al vol. 10/fald. 3, pg. 58

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GAMBINO Giacomo Giuseppe era componente della famiglia di

S. Lorenzo. Successivamente ne era divenuto capomandamento. Insieme a lui aveva commesso l’omicidio di Alfio FERLITO (strage della circonvallazione), gli omicidi del dr. CASSARA’, del Giudice CHINNICI , nonché numerosi omicidi della guerra di mafia.

Il GAMBINO aveva partecipato all’omicidio del DALLA CHIESA, facendo parte dell’equipaggio dell’altra auto “sporca”.

ROTOLO Antonino, della famiglia di Pagliarelli. Con lui aveva

commesso altri omicidi, tra cui quelli commessi nel novembre del 1982, quando erano stati uccisi lo SCAGLIONE ed il RICCOBONO.

Aveva partecipato all’omicidio del generale facendo parte dell’equipaggio dell’altra auto sporca.

In particolare, ricordava che il ROTOLO era stato uno di quelli che, al ritorno nel fondo Pipitone, avevano composto il dissidio tra il MADONIA ed il GRECO.

Sia MARCHESE Antonino che MARCHESE Filippo si erano

recati a Fondo Pipitone nei giorni in cui si stava preparando l’agguato al gen. DALLA CHIESA e sapevano quello che si stava organizzando. 117

MARCHESE Filippo era uomo d’onore della famiglia di Corso dei Mille, mandamento di Ciaculli. Era inteso “milinciana”. Esso GANCI aveva saputo che era stato strangolato attorno all’83-82, a causa di un contrasto con GRECO Scarpa e con RIINA, “perché il MARCHESE voleva strafare”.

GRECO Giuseppe “Scarpa”, era uomo d’onore della famiglia e del

mandamento di Ciaculli. Era il sottocapo. Mentre il capo era allora Michele GRECO.

Col GRECO aveva commesso numerosi omicidi (BONTATE, INZERILLO, la strage della circonvallazione. Ecc.)

SALERNO Pietro, faceva parte della famiglia di Ciaculli. Non

ricordava di avere commesso altri omicidi con lui. LUCCHESE Giuseppe, faceva parte della famiglia di Ciaculli.

Successivamente, dopo l’arresto del PUCCIO, era divenuto reggente del

117 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 47

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mandamento di Ciaculli. Era in posizione subordinata rispetto allo “Scarpa”.

Nell’omicidio del DALLA CHIESA aveva avuto il ruolo di pedinare il Generale. E quella sera, secondo quello che il GANCI “aveva compreso”, era stato lui a segnalare la strada che avrebbe dovuto percorrere il Generale. Dopo l’omicidio lo aveva visto al fondo Pipitone.

Con LUCCHESE aveva commesso gli omicidi di BONTATE, di INZERILLO, di Alfio FERLITO (strage della circonvallazione).

Non poteva, comunque, escludere che il LUCCHESE avesse partecipato ancora più attivamente all’agguato prendendo posto sull’altra auto “sporca” (quella sulla quale si trovava l’ANZELMO), né che fosse stato lui alla guida della moto della quale era passeggero il GRECO Scarpa. Ciò anche perché spesso il GRECO si avvaleva come autista del LUCCHESE e ciò era successo anche quando avevano compiuto l’attentato in danno del CONTORNO.

GANCI Raffaele, era suo padre. Era uomo d’onore della Noce,

all’epoca dei fatti sottocapo. Successivamente era divenuto capomandamento. Col padre aveva commesso tutti i delitti che aveva compiuto : quelli della guerra di mafia, quello del Giudice CHINNICI, la strage della circonvallazione e tanti altri.

GALATOLO Vincenzo, era uomo d’onore della famiglia

dell’Acquasanta, della quale era il rappresentante. Era uno di quelli che presenziavano agli incontri a Fondo Pipitone. Inoltre, a bordo di un’auto pulita aveva avuto il compito di prelevare taluno dei killers.118

Col GALATOLO egli aveva commesso l’omicidio del dr. CASSARA’ e quello del Giudice CHINNICI.

CUCUZZA Salvatore era uomo d’onore della famiglia del Borgo

Vecchio. Ne ricordava la presenza al fondo Pipitone in occasione dei preparativi per l’omicidio del DALLA CHIESA.

Aveva partecipato alla strage della circonvallazione e non poteva escludere che egli avesse sul punto ricordi confusi, tuttavia, gli sembrava di rammentare che avesse preso parte anche all’omicidio del DALLA CHIESA ed alle riunioni preparatorie, ricordandone una frequentazione giornaliera al fondo Pipitone.

118 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 64.

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Escludeva, comunque, di avere un ricordo della presenza del CUCUZZA durante l’omicidio; né rammentava di averlo visto quando essi killers erano rientrati alla base quella sera.

Finalmente, ammetteva di essersi sbagliato nell’indicare il CUCUZZA come partecipe all’omicidio del DALLA CHIESA, mentre invece quello aveva partecipato all’omicidio FERLITO, conosciuto anche come strage della circonvallazione.119

CAROLLO Gaetano era sottocapo della famiglia di Resuttana. In

occasione dell’omicidio del DALLA CHIESA aveva avuto il compito di prelevare uno dei killers.

In quel periodo il CAROLLO usava una Renault 14 di colore scuro.120

Riferiva, inoltre, il GANCI che : ONORATO Francesco era uomo d’onore della famiglia di

Partanna Mondello. Ricordava di averlo frequentato in occasione dell’omicidio di BADALAMENTI Nino121, commesso da esso GANCI, ma non ne ricordava la presenza quel giorno.

Il BADALAMENTI era il cugino del più noto Gaetano ed era stato commesso davanti al cancello di sua proprietà. Fu ucciso, intorno all’82 perché i corleonesi si erano rivolti a lui per uccidere il BADALAMENTI Gaetano e quello inizialmente aveva acconsentito e poi si era tirato indietro.

All’omicidio aveva partecipato anche SAVIANO Giovanni, MICALIZZI Salvatore di Partanna Mondello, Totuccio LO PICCOLO (sottocapo di Tommaso Natale) ed ANZELMO Francesco Paolo, GANCI Raffaele, GAMBINO Giacomo Giuseppe.

CANCEMI Salvatore era uomo d’onore della famiglia di Porta

Nuova; era divenuto reggente del mandamento omonimo dopo l’arresto di Pippo CALO’.

Aveva commesso diversi omicidi, ma al momento non ne ricordava alcuno.

119 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 166 120 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 95. 121 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 70 segg.

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Non ricordava la partecipazione del CANCEMI all’omicidio del DALLA CHIESA.

BRUSCA Giovanni era uomo d’onore di S. Giuseppe Jato. Con lui

aveva commesso la strage del Giudice CHINNICI e la strage del dr. FALCONE.

Riconosceva, finalmente, in fotografia122 Antonino MADONIA,

GALATOLO Vincenzo, MARCHESE Filippo, GAMBINO Giacomo Giuseppe, MARCHESE Antonino, GRECO Giuseppe Scarpa, LUCCHESE Giuseppe, CAROLLO Gaetano, SALERNO Pietro e Salvatore CUCUZZA; e con qualche difficoltà, in quanto raffigurato molto giovane e senza baffi, ROTOLO Antonino, soprannominato “baffetto”.

122 esame GANCI 23/3/2001 al vol. 5/fald. 2, pg. 75 segg.

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§ - 4 ) Le dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo ANZELMO Francesco Paolo è stato sentito al dibattimento alle udienze del 24/11/2000, del 20/4/2001 e dell’1/12/2001 Agli atti, peraltro, insistono i verbali delle dichiarazioni dal medesimo rilasciate nel corso delle indagini preliminari123. Dal complesso di tali dichiarazioni, avuto riguardo, in generale, alla sua “militanza” in Cosa Nostra si ricava quanto segue:

Era entrato a far parte di Cosa Nostra, nella famiglia della Noce, con combinazione rituale, nel 1980124.

Diversi suoi familiari, i fratelli di suo padre, erano uomini d’onore ed erano legati al RIINA ed al PROVENZANO.

A quel tempo la Noce – a differenza di quanto era accaduto in passato- “non faceva mandamento”.

Invero, qualche anno prima il mandamento era stato tolto al suo rappresentante (SCAGLIONE Salvatore) .

Così, quando esso ANZELMO era stato combinato, la Noce era aggregata al mandamento di Porta Nuova, il cui capo era Pippo CALO’.

Dopo l’eliminazione dello SCAGLIONE (e del RICCOBONO), avvenuta il 30 novembre del 1982, erano state fatte <<le elezioni>> e GANCI Raffaele era stato nominato rappresentante della famiglia ed esso ANZELMO sottocapo.

Poco tempo dopo, nel gennaio del 1983, alla Noce era stato restituito il mandamento e GANCI Raffaele ne era divenuto il rappresentante.

Dopo l’arresto di GANCI Raffaele, per un breve periodo, esso ANZELMO era stato reggente del mandamento insieme a Mimmo GANCI.

Appena entrato nell’organizzazione aveva saputo che all’interno della famiglia c’era una spaccatura. Totò SCAGLIONE ed i suoi era

123 Cfr. al vol. 17, fald. 6 , pgg. 154 segg. : vv. interrogatori del 12/7/96 ; 30/7/96 ; e 23/8/96; 124 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO.

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dalla parte di Tanino BADALAMENTI, del BONTATE e dell’INZERILLO; mentre gli ANZELMO insieme agli SPINA ed ai GANCI (tutti imparentati tra loro) erano schierati dalla parte dei corleonesi.

Lo scontro tra le due correnti era degenerato quando i corleonesi avevano saputo che Stefano BONTATE aveva in animo di eliminare il RIINA.

Il RIINA aveva preceduto il BONTATE disponendo, con successo, che l’antagonista venisse ucciso.

Di seguito era stato eliminato anche l’INZERILLO. Terminata la guerra, con l’uccisione del RICCOBONO e dello

SCAGLIONE, erano stati istituiti nuovi mandamenti : quello della Noce e quello di S. Lorenzo, rappresentanti dei quali erano stati designati rispettivamente GANCI Raffaele e GAMBINO Giacomo Giuseppe. Sempre nel gennaio del 1983, era nato anche il mandamento di Boccadifalco, già dell’INZERILLO, che era stato affidato a Salvatore BUSCEMI.

Invece erano rimasti tali e quali i mandamenti di Porta Nuova (Pippo CALO’) e quello di Resuttana (MADONIA), quello di Partinico (Nenè GERACI); quello di S. Giuseppe Jato (ufficialmente retto da SALAMONE Antonino e di fatto da BRUSCA Bernardo; quello di Pagliarelli, retto da Matteo MOTISI; quello di Caccamo , retto da Ciccio INTILE, quello di S. Mauro Casteverde retto da Peppino FARINELLA; ecc.

Il mandamento che era stato del BONTATE, era stato ricostituito solo nell’86-87 e rappresentante era stato nominato AGLIERI Pietro.

Aveva iniziato a collaborare nel luglio del 1996.Già da tempo non

si sentiva più in sintonia coi sistemi seguiti dall’organizzazione e voleva solo godersi la propria famiglia.

Quando era stato arrestato, nel giugno del 1993, essendo stato “chiamato” dal DI MAGGIO, aveva riflettuto ed anche per evitare che il proprio figlio finisse per seguire la sua strada, aveva preferito iniziare a collaborare, in sostanza, per tagliare tutti i ponti coll’associazione.

Appena iniziata la collaborazione era stato ristretto in un carcere segreto per oltre tredici mesi, potendo solo vedere gli agenti della polizia penitenziaria ed il magistrato che andava ad interrogarlo.

Era stato poi rimesso in libertà il 14 agosto del 1997. Al momento si trovava detenuto in quanto era stato condannato, a tredici anni di

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reclusione, colla sentenza che aveva definito, in primo grado, il processo contro AGRIGENTO+62 e non aveva proposto appello. Aveva preferito cominciare a “pagare” il suo debito colla giustizia.125

Nonostante fosse detenuto (prima di iniziare a collaborare) per pochi delitti, aveva confessato tutti i numerosissimi omicidi commessi e aveva fornito notizie utili per la confisca dei patrimoni illecitamente acquisiti dalla famiglia della Noce126.

Tra gli omicidi commessi rammentava quelli di BONTATE, del dr. CHINNICI, la strage della circonvallazione, l’omicidio del Generale DALLA CHIESA; quello del Cap. D’ALEO, ecc.

Assumeva che diversi omicidi, oltre a quello del Gen. DALLA

CHIESA, erano stati commessi da Cosa Nostra coll’uso di Kalashnicov : la strage della circonvallazione; BONTATE; INZERILLO.

Specificando che i kalashnicov erano “portati” da <<Pinuccetto GRECO, Nino MADONIA e Pippo GAMBINO>>; e che erano solo loro tre ad averli, anche se non poteva dire se nelle predette occasioni fossero stati utilizzati gli stessi mitra, anche se riteneva probabile che così fosse.127

In merito all’omicidio del Generale DALLA CHIESA assumeva

che : L’omicidio del Generale non era stato determinato dalla guerra di

mafia; era “una cosa che era restata fuori” da quel contesto. Era avvenuto nel 1982, quando ancora c’era Saro RICCOBONO. Aveva sentito parlare per la prima volta del progetto di uccidere il

Generale DALLA CHIESA intorno alla seconda metà del mese di agosto del 1982.

Insieme a GANCI Calogero, era stato condotto da GANCI Raffaele in una palazzina di proprietà dei GALATOLO, sita a Fondo Pipitone, all’Acquasanta.

Sul retro della palazzina, nella quale vivevano sia Enzo GALATOLO che i suoi fratelli, insisteva un terreno su cui era edificata

125 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 123 126 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 126 127 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 76 segg.

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un’altra costruzione nella quale essi associati mafiosi erano soliti riunirsi.

Quella volta, sul posto, esso ANZELMO ed i due GANCI, avevano trovato Enzo GALATOLO, Nino MADONIA, Pippo GAMBINO, Pino GRECO “scarpa”, LUCCHESE, Nino MARCHESE e Tanino CAROLLO, oltre ad altre numerose persone che però non ricordava con certezza.

Al riguardo, rimarcava che egli non accusava le persone se non era più che sicuro128.

In quella riunione l’ANZELMO e gli altri appresero che si sarebbe dovuto uccidere il Generale DALLA CHIESA.

Nella proprietà dei GALATOLO v’erano anche i messi e le armi che si sarebbero dovuti utilizzare. In particolare v’erano due autovetture rubate, entrambe a quattro sportelli, di cui una (probabilmente) era una BMW, una moto da strada, giapponese, di grossa cilindrata e numerosi fucili, mitra kalashnicov e pistole.

Le armi erano custodite, secondo una tecnica collaudata, in borsoni del tipo sportivo.129

Da quel giorno avevano continuato, quotidianamente, a riunirsi presso la proprietà dei GALATOLO, tenendosi pronti a compiere il delitto.

Ad occuparsi dell’organizzazione delle modalità operative erano stati GAMBINO Giacomo Giuseppe, Nino MADONIA e Pino GRECO Scarpa. (“erano loro tre che avevano la situazione in mano”; “egli ed il GANCI non avevano allora alcuna voce in capitolo e ricevevano ordini dai suddetti tre”130). Mentre il MADONIA ed il GAMBINO, pur allontanandosi di quando in quando, trascorrevano la maggior parte del tempo col resto del gruppo nella proprietà dei GALATOLO; Pino GRECO, in compagnia del LUCCHESE, andava a trovare il suddetto gruppo saltuariamente, per cui, l’ANZELMO aveva desunto che fosse proprio il suddetto GRECO a mantenere i rapporti coll’esterno ed ad assumere le informazioni necessarie per l’esecuzione del delitto.

128 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 117 129 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 128; in quel contesto riferiva a titolo d’esempio che anche in occasione dell’omicidio del dr. CASSARA’, quando si erano mossi con tre “Vespe”, avevano portato le armi dentro i borsoni. Un borsone per ogni Vespa. 130 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 128

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Pochi giorni dopo la riunione, era stato posto in essere il primo tentativo. Su indicazione del MADONIA, del GAMBINO e dello SCARPA, che dirigevano le operazioni, si erano (improvvisamente) mossi ed appostati in via Libertà. L’appostamento era avvenuto verso l’ora di pranzo ed era durato circa un’ora. Egli si trovava a bordo di una delle vetture, in compagnia di Nino MARCHESE (che guidava) e di Pippo GAMBINO. Erano tutti armati di pistole ed egli ed il GAMBINO avevano anche due fucili a pompa. A bordo dell’altra auto, ferma in una traversa della via Libertà, si trovavano GANCI Calogero e Nino MADONIA, che era armato di kalashnicov. Il progetto prevedeva che il LUCCHESE e GRECO Scarpa, che erano in moto e che erano appostati nei pressi della Prefettura per seguire le mosse del Generale, avrebbero dovuto segnalare l’arrivo del medesimo. Anche lo Scarpa era armato di kalashnicov che teneva dentro una borsa sportiva.131

A quel punto il GANCI avrebbe dovuto bloccare colla sua auto quella del Generale, e tutti i componenti del commando avrebbero docuto far fuoco sulla vettura del Generale. Sul luogo, con funzioni di copertura, v’erano anche altre persone, tra le quali ricordava Raffaele GANCI, Tanino CAROLLO ed Enzo GALATOLO. Dopo un’ora di attesa, MADONIA, GRECO e GAMBINO avevano deciso di rinunciare, perché trattenersi ulteriormente sul posto (una zona particolarmente centrale e trafficata della città) poteva essere rischioso. Dopo alcuni giorni (il 3 settembre 1982), sempre su indicazione del MADONIA, del GAMBINO e dello Scarpa, nel tardo132 pomeriggio , si erano portati nella piazzetta antistante la v. Isidoro Carini (p.zza Nascè).

131 Cfr. al vol. 17, fald. Nr. 6; pg. 164 - dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo, del 30/7/97. 132 Cfr. al vol. 3, fald. Nr. 1; pg. 71 – esame di ANZELMO Francesco Paolo, del 24/11/00; nonché al vol. 17/ fald. 6; pg. 169, dichiarazioni dell’ANZELMO del 30/7/97.

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Era la prima volta che si appostavano in quel luogo. Si erano mossi nella stessa formazione del precedente tentativo ed utilizzando gli stessi autoveicoli, dei quali non ricordava il colore. Egli, quindi, si trovava sul sedile posteriore dell’auto condotta dal MARCHESE Antonino e sul sedile anteriore destro v’era GAMBINO Giacomo Giuseppe. Avevano seguito l’auto (una BMW, come preciserà in seguito deducendolo dal ritrovamento dei bossoli in quest’auto133) condotta dal GANCI Calogero, che accanto a sé aveva il MADONIA Antonino e si erano fermati nella piazzetta (Nascè), sul lato destro134, parallelamente rispetto all’asse della strada135, a pochi metri dall’auto del GANCI. L’attesa era durata a lungo e più volte il LUCCHESE e lo “Scarpa”, che in moto facevano la staffetta tra la Prefettura e la piazzetta Nascè, si erano avvicinati almeno un paio di volte136 all’auto con a bordo il MADONIA. Tutti i componenti degli equipaggi erano rimasti a bordo delle rispettive auto ad aspettare ; nessuno era sceso.137 (Entrambe le auto “sporche” erano disposte sul lato destro, parallelamente alla strada; l’auto sulla quale si trovava esso ANZELMO –considerando la direzione Piazza Sturzo-via Notarbartolo) si trovava dietro rispetto a quella del GANCI.138) Durante l’attesa si erano ad un certo momento anche preoccupati in quanto un’auto della polizia si era fermata (“per una decina di minuti”139) nella piazza a poche decine di metri. Poi si era allontanata. Si era fatto buio. Ad un certo punto, dopo un’ora un’ora e mezza, erano arrivati il LUCCHESE e lo “Scarpa” e si erano accostati all’auto guidata da GANCI Calogero. Questi aveva messo in moto ed anche loro avevano fatto lo stesso. Pochi minuti dopo140 era sopraggiunta una A 112, seguita da un’Alfetta. 133 Cfr. esame ANZELMO dell’1/12/2001- al vol. 10/fald. 3, pg. 78-102 134 Cfr. al vol. 17, fald. Nr. 6; pg. 171 - dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo, del 30/7/97. Letteralmente : “dal lato opposto dove poi si era fermata l’auto del Gen. DALLA CHIESA”. 135 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 31. 136 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 33 137 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 20 138 cfr. al faldone nr. 3, vol. 10; udienza dell’1/12/01, esame di ANZELNO pg. 119; 139 Cfr. al vol. 17, fald. Nr. 6; pg. 171 - dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo, del 30/7/97.

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Il GANCI aveva affiancato la A 112 ed il MADONIA aveva iniziato a sparare attraverso lo sportello del lato guida, dunque, sovrapponendosi a Calogero GANCI che guidava. Aveva sparato verso il lato del passeggero della A 112. Pino GRECO Scarpa, invece, da bordo della moto, aveva sparato (col kalashnicov , un modello col calcio pieghevole141, che aveva tenuto celato in una borsa di quelle sportive) prima contro l’autista dell’Alfetta, attingendolo dal lato destro; poi aveva esploso altri colpi in direzione della A 112. Precisando, al riguardo che egli non l’aveva visto sparare sulla A 112, ma aveva solo dedotto che l’avesse fatto (sulla base dei colpi uditi e dell’alterco avvenuto successivamente tra lo Scarpa ed il MADONIA).142

140 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 142 141 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 73 142 Sollecitato a ricordare ed a rivivere quei momenti, nonostante i quasi vent’anni trascorsi, all’udienza dell’1/12/2001 – cfr. al vol. 10, faldone nr. 3, pgg. 79 segg.- l’ANZELMO affermava : <<il mio ricordo è che…noi siamo posteggiati in questa piazzetta e le macchine sono per come segue la strada….arriva LUCCHESE Peppuccio con GRECO Pinuccetto e si fermano nella macchina di Calogero, dopo di che vedo mettere in moto (l’auto di Calogero) e altrettanto fa MARCHESE Nino, che guidava l’auto dove mi trovavo io, GAMBINO Pippo era accanto a lui, io ero nel sedile posteriore (dietro al GAMBINO)….(dopo avere visto passare la A 112 e l’Alfetta-cfr. pg. 80-) …vedo muovere a loro (GANCI e MADONIA) e la nostra macchina si muove pure….io mi ricordo che sento gli spari, ricordo che c’è un attimo che mi giro perché poi “io passo l’alfetta” e vedo che la maccina si ferma . Infatti, io qua se non ricordo male ci dico “ma noi? E GAMBINO Pippo ci dice a MARCHESE Nino : “no, no, continua, continua non ti fermare”….>> . In quel contesto precisava che loro (l’auto nella quale si trovava l’ANZELMO) si era mossa normalmente <<senza fare fischiare le ruote…>>; che quando aveva udito gli spari l’auto dell’ANZELMO si trovava dietro a tutti gli altri veicoli : <<io mi vengo a trovare, sono l’ultimo…>>; che aveva visto sparare all’Alfetta e si era girato indietro per guardare l’Alfetta che si era fermata sulla sinistra; che egli non ricordava se i primi spari avessero attinto la A 112 o l’Alfetta, ma ricordava che <<sentiva gli spari..ed in quel momento la sua auto si trovava dietro alla A 112, all’Alfetta ed alla moto>>; che la moto si trovava sul lato destro , presso che in linea coll’Alfetta nel momento in cui aveva cominciato a sparare; che l’Alfetta si trovava più o meno al centro della strada (-pg. 88-) ; che non c’era il rischio che il GRECO sparando all’Alfetta potesse colpire loro che si trovavano sull’auto condotta dal MARCHESE, in quanto loro (coll’auto) erano dietro : <<perché noi siamo dietro>>; che poi dopo gli spari erano passati loro coll’auto ed avevano visto l’Alfetta che si fermava (camminava lentamente) ; che egli pensava di dover scendere, ma il GAMBINO aveva detto di proseguire; che la moto era già passata avanti; che subito dopo nel passare, aveva visto l’auto del Generale ferma sul lato sinistro; che, nel passare, aveva visto la moto ferma nei pressi della A 112; che, girandosi, aveva visto Pinuccetto GRECO sparare nella A 112 oramai ferma; che anche la moto era ferma, non ricordando se il GRECO per sparare fosse sceso o meno dalla moto; che – dopo avere perso di vista l’auto del GANCI solo per qualche momento- dopo avere visto la A 112 ferma si era ritrovato “ la macchina di Calogero davanti” e l’aveva seguita “fino a quando erano andati a posare le auto”;

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Comunque, era sicuro che il primo che aveva sparato contro la A 112 era stato il MADONIA143. Esso ANZELMO non sapeva che il Generale sarebbe transitato a bordo della A 112.

Anzi, si erano preparati con armi idonee a colpire il Generale anche se fosse stato a bordo della blindata. Ricordando, al riguardo, che Nino MADONIA e GANCI Calogero, insieme ad Angelino GALATOLO avevano, durante la guerra di mafia, provato positivamente l’efficacia dei kalashnicov contro i vetri blindati della gioielleria Contino.144

Si era reso conto, invece, che il Generale si trovava a bordo della A 112, solo quando dopo avere visto “lo Scarpa parlare col MADONIA” aveva scorto il MADONIA sparare sulla A 112.

Non sapeva nemmeno che a bordo dell’auto del Generale ci sarebbe stata la moglie.

Nemmeno durante l’agguato si era reso conto della sua presenza. L’aveva appreso dopo, ad omicidio avvenuto.145

Ricordava, invece, che l’uccisione dell’autista del DALLA CHIESA rientrava nel piano delittuoso messo a punto nelle riunioni effettuate al Fondo Pipitone.146 L’equipaggio dell’auto sulla quale si trovava l’ANZELMO, che stava dietro le altre, come previsto dal piano programmato147, non era intervenuto e si era limitato a <<seguire>> l’auto del MADONIA (fino a quando non avevano abbandonato le auto148). Oltre ai suddetti, sul luogo del delitto, con funzioni di copertura, v’erano anche auto pulite bordo delle quali ricordava il GANCI Raffaele, GALATOLO Enzo e CAROLLO Tanino. Ognuno con un’autovettura diversa.149 Consumato il delitto si erano diretti verso il fondo Pipitone. Percorsa la via Marchese di Villabianca, avevano raggiunto la via Sampolo e, da qui, avevano imboccato una traversa nella quale avevano abbandonato le auto usate per l’agguato, ed erano saliti sulle auto pulite.

143 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 85 144 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 74 145 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 107 146 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 146 147 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 36 148 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 109 149 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 32

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Erano arrivati dietro l’auto condotta da GANCI Calogero, avevano posteggiato, erano saliti su un’altra auto e se n’erano andati.150 Rammentava di essere salito sull’auto del GANCI Raffaele, non ricordando se da solo o con altri. Non poteva riferire se i mezzi usati per l’agguato fossero stati bruciati perché ad occuparsi di incendiare le auto “sporche” erano, in genere, persone diverse da quelli che avevano eseguito il delitto.151 Giunti al fondo Pipitone, aveva assistito ad una violenta discussione tra Pino GRECO e Nino MADONIA. Infatti, il GRECO rimproverava il MADONIA di avere sparato per primo contro il Gen. DALLA CHIESA, togliendo a lui l’onore ed il vanto di ucciderlo, letteralmente <<gli aveva levato la medaglia152>>. La discussione aveva preoccupato tutti perché lo Scarpa (<<che era diventato come un pazzo, per questa situazione>>153) voleva soddisfazione da Nino MADONIA e “sul tavolo c’erano tutte le armi”. La moglie del Generale era stata uccisa solo perché si trovava in compagnia del medesimo che era l’unico obbiettivo dell’agguato. Non sapeva quali fossero le ragioni dell’omicidio. Era un delitto di “commissione”, per cui non poteva esserne direttamente a conoscenza. Tra l’altro, allora, la famiglia Noce non aveva il mandamento e faceva capo al mandamento di Porta Nuova, il cui rappresentante era all’epoca Pippo CALO’. Il RICCOBONO sicuramente era stato preventivamente messo a conoscenza dell’omicidio del Generale154. Era stato un delitto preventivo. Infatti il Generale era da troppo poco tempo in Sicilia per avere già causato danni all’organizzazione. Tuttavia, se ne conosceva la fama e l’opera svolta contro il terrorismo, soprattutto avuto riguardo all’uso che aveva fatto dei pentiti ed all’impulso che aveva dato all’istituzione delle carceri speciali. Si sapeva, in sostanza, che il Generale “era una mente” e che poteva dare fastidio.155

150 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 109 151 Cfr. al vol. 17, fald. Nr. 6; pg. 172 - dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo, del 30/7/97. 152 Cfr. al vol. 17, fald. Nr. 6; pg. 172 - dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo, del 30/7/97. 153 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 82 154 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 24

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Non ricordava di avere visto impiegare radio ricetrasmittenti da parte di alcun componente del commando; né sapeva se all’interno della Prefettura qualcuno avesse potuto fornire notizie sui movimenti del Generale. Non poteva escludere, comunque, che effettivamente fossero state utilizzate delle ricetrasmittenti dai componenti del commando che non facevano parte del suo equipaggio.156 Rammentava, infatti, che in un’altra occasione – quando era stato ucciso il dr. CASSARA’- erano state utilizzate delle ricetrasmittenti.157 Non ricordava il CUCUZZA Salvatore tra le persone che avevano partecipato all’omicidio del Gen. DALLA CHIESA, né alle riunioni che l’avevano preceduto; pur rammentando che il predetto faceva parte del loro gruppo di fuoco ed aveva commesso insieme a loro l’omicidio di Alfio FERLITO (c.d. strage della circonvallazione) ed aveva frequentato il fondo Pipitone158. Specificando, infine, che il CUCUZZA, uomo d’onore della famiglia del Borgo Vecchio, aveva assunto intorno agli anni 94-95 il ruolo di reggente del mandamento di Porta Nuova.159 Non ricordava se i motociclisti (GRECO e LUCCHESE) avessero indossato dei caschi per eseguire l’omicidio del DALLA CHIESA.160 Conosceva SALERNO Pietro, ma non ricordava se avesse avuto un ruolo nell’omicidio del DALLA CHIESA.161 Escludeva che potesse avere guidato la moto sulla quale si trovava il GRECO, perché a condurla era stato LUCCHESE Giuseppe; cosa della quale era assolutamente certo. ROTOLO Antonino era un uomo d’onore di Pagliarelli, suo parente alla lontana. Non ricordava che avesse avuto un ruolo nell’omicidio.

155 Cfr. al vol. 17, fald. Nr. 6; pg. 174 - dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo, del 30/7/97. 156 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 108 157 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 129 158 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 42 159 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 51 160 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 37 161 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 40

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Escludeva che sull’auto sulla quale si trovava esso ANZELMO potesse esservi stato ROTOLO Antonino in luogo di MARCHESE Antonino.162 MARCHESE Filippo era il rappresentante della famiglia di Corso dei Mille e zio di MARCHESE Antonino, che aveva partecipato all’omicidio del DALLA CHIESA. Non ricordava la presenza di MARCHESE Filippo nell’esecuzione dell’omicidio del Gen. DALLA CHIESA. Rammentava che c’erano altre persone che avevano partecipato e che egli non ricordava, ma della presenza di MARCHESE Filippo non aveva ricordo.163 GANCI Calogero, suo cugino, era uomo d’onore della famiglia Noce ed era stato combinato dopo di esso ANZELMO, nel 1981 o alla fine del 1980. Insieme a lui aveva commesso la strage della circonvallazione, l’omicidio del dr. CASSARA’, quello del dr. CHINNICI, gli omicidi di BONTATE, di INZERILLO. Ne avevano commesso tanti insieme. GANCI Calogero era stato un semplice “soldato”, però era il figlio del capomandamento e quindi era stato, comunque, importante per la famiglia della Noce. Quando i GANCI avevano preso il mandamento oltre a GANCI Raffaele erano stati esso ANZELMO, GANCI Calogero e GANCI Domenico a dirigerlo.164 MADONIA Antonino, era uomo d’onore della famiglia di Resuttana. Con lui aveva commesso la strage della circonvallazione, gli omicidi del dr. CASSARA’, del dr. CHINNICI, di BONTATE di INZERILLO, ed altri. Secondo l’ANZELMO, MADONIA Antonino, avuto riguardo all’organizzazione degli omicidi, era “uno scienziato”, in quanto faceva in modo che tutto risultasse perfetto.165

Escludeva di avere mai litigato con Antonino MADONIA.166 GAMBINO Giacomo Giuseppe, all’epoca era sottocapo di S. Lorenzo, successivamente era divenuto capomandamento. Aveva 162 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 43 163 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO, pg. 41 164 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 92 165 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 95 166 esame ANZELMO 20/4/2001 al vol. 6/fald. 2, pg. 31

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partecipato agli omicidi del BONTATE, dell’INZERILLO, alla strage del dr. CHINNICI, all’omicidio del CASSARA’. MARCHESE Antonino era uomo d’onore della famiglia di Ciaculli. Come fatto eclatante, col MARCHESE Antonino aveva commesso solo l’omicidio del Gen. DALLA CHIESA. Ecco il motivo per il quale era assolutamente certo che l’autista dell’auto sulla quale si era trovato esso ANZELMO, fosse il MARCHESE. Con GRECO Giuseppe “Scarpa”, della famiglia di Ciaculli, aveva commesso anche la strage della circonvallazione e gli omicidi BONTATE, INZERILLO. LUCCHESE Giuseppe era uomo d’onore di Ciaculli. Con lui aveva commesso anche la strage della circonvallazione ed altri omicidi meno eclatanti consumati durante la guerra di mafia. Insieme a LA MARCA (altro uomo d’onore) il LUCCHESE “in tutta la storia di Cosa Nostra” era stato quello più abile “a portare la motocicletta”. Esso ANZELMO la portava bene, ma si riteneva “una scarpa” al confronto.167 GANCI Raffaele era il capomandamento di esso ANZELMO ed aveva partecipato a tutti gli omicidi commessi da lui. CAROLLO Gaetano era il sottocapo della famiglia di Resuttana. Aveva partecipato alla strage della circonvallazione e alle uccisioni del 30 novembre 1982 (RICCOBONO, SCAGLIONE e gli altri). Con GALATOLO Vincenzo aveva commesso anche gli omicidi del dr. CASSARA’, la strage del dr. CHINNICI ed altri. ONORATO Francesco era uomo d’onore della famiglia di Partanna Mondello. Non ricordava di avere commesso omicidi con lui. Aveva solo il dubbio che in occasione dell’omicidio di BADALAMENTI Nino fosse stato proprio l’ONORATO a portare l’auto (ad essi killers).

167 cfr. al faldone nr. 1- vol. 3; udienza del 24/11/00: esame di ANZELMO pg. 136

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Con SALERNO Pietro, uomo d’onore della famiglia di Ciaculli, aveva commesso l’omicidio di Totò MINORE . BRUSCA Giovanni, faceva parte della famiglia di S. Giuseppe Jato. Insieme a lui aveva commesso la strage della circonvallazione, un omicidio ad Alcamo e qualche scomparsa.

Riconosceva in fotografia168 Antonino MADONIA, GAMBINO Giacomo Giuseppe, MARCHESE Antonino, LUCCHESE Giuseppe, GALATOLO Vincenzo, SALERNO Pietro, Salvatore CUCUZZA e GRECO “scarpa”.

168 esame ANZELMO 20/4/2001 al vol. 6/fald. 2, pg. 5 segg.

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§ - 5) L’attendibilità dei due collaboranti. In particolare, la credibilità di GANCI Calogero . Come già sottolineato, nel procedimento in esame, rivestono rilievo preminente le affermazioni accusatorie rilasciate dagli imputati collaboranti GANCI Calogero ed ANZELMO Francesco Paolo.

Invero, giova rilevarlo subito, molto verosimilmente senza di esse non si sarebbe mai potuti giungere all’individuazione dei responsabili degli omicidi in esame. Pertanto, pare doveroso, a questo punto, valutare il grado di attendibilità attribuibile alle loro deposizioni, per verificarne lo spessore delle accuse e l’idoneità a fondare, se corroborate da adeguati elementi di riscontro, una pronuncia di colpevolezza.

Anticipando le conclusioni cui è pervenuta la Corte, va rilevato che si appalesa assolutamente indifferente il prendere le mosse dalla valutazione delle dichiarazioni dell’uno o dell’altro imputato-collaborante, in quanto, per quanto emerso dal presente processo il giudizio complessivo sulla loro attendibilità è sostanzialmente coincidente.

Si procederà, pertanto, dalle deposizioni di chi ha iniziato a collaborare per primo coll’A.G., vale a dire dalle affermazioni di GANCI Calogero.

* * * Poiché l’omicidio in trattazione va chiaramente annoverato tra

quelli di mafia - va , in primo luogo, rimarcato che nessun dubbio può sussistere sull’inserimento, del GANCI, fin dai primi degli anni ottanta, nell’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra. Da ciò consegue che nessun dubbio può, del pari, insistere sulla possibilità che il GANCI fosse in grado di conoscere con sicurezza chi facesse parte di tale sodalizio ed i delitti da questo posti in essere. In tal senso, depongono, esaustivamente, non solo, le ammissioni del GANCI, ma anche, le dichiarazioni del coimputato ANZELMO Francesco Paolo e degli altri collaboranti escussi nel corso del processo

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(BRUSCA Giovanni, ONORATO Francesco, CUCUZZA Salvatore) i quali ne hanno, incontestabilmente, suggellato l’inserimento nell’associazione mafiosa Cosa Nostra, segnatamente nella “famiglia” della Noce, confermandone la partecipazione in azioni omicide. Tale “qualificato”, inserimento è supportato dalle numerose sentenze in atti169 ; e, peraltro, anche il tenore delle dichiarazioni rese dal GANCI, per l’evidente conoscenza del fenomeno mafioso e degli aderenti al medesimo (asseverata, quest’ultima, dalle risultanze dei provvedimenti giudiziari acquisiti170 -fra i quali la sentenza della Corte di Assise di Palermo del 16/12/1987 - c.d. maxi-uno- oramai passata in giudicato), attesta indiscutibilmente la sua appartenenza a quel sodalizio e, quindi, la sua astratta capacità a riferirne esattamente la composizione e le attività delinquenziali.

* * * Peraltro, le dichiarazioni del GANCI, nel loro complesso sono sorrette da una mole rilevantissima di riscontri di tipo “intrinseco”. In tal senso, va in primo luogo, posto in evidenza come il GANCI abbia iniziato a collaborare quando ancora le accuse gravanti nei suoi confronti non si erano tradotte in pronunce di condanna e come, per effetto delle sua collaborazione (nell’ambito della quale ha ammesso la sua responsabilità, non solo, per i delitti già contestatigli, ma anche per altri delitti estremamente gravi per i quali, prima, non sussisteva nei suoi confronti alcun elemento di accusa) la sua posizione processuale si sia palesemente aggravata.

Ciò rende, chiaramente, verosimile l’assunto per il quale le sue dichiarazioni scaturiscono, soprattutto, dalla volontà di cambiare vita, troncando definitivamente con il passato, e di scongiurare il rischio che il proprio figlio seguisse la stessa infruttuosa strada dell’illecito mafioso da esso collaborante percorsa.

169 cfr. tra le altre al faldone nr. 20 : quella della Corte di Assise di Palermo del 22/1/98 contro LA MARCA+6 e quella contro GANCI Domenico+10 della Corte di Assise di Palermo del 19/4/99; ovvero al faldone nr. 28, la sentenza della Corte di Assise di Palermo del 27/10/98 contro MADONIA Antonino+25 avente ad oggetto l’omicidio del Dr. CASSARA’ e dell’Agente ANTIOCHIA. 170 cfr. ai faldoni 11/15 .

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In ogni caso, è certamente plausibile che il GANCI, nella sua determinazione a collaborare, sia stato influenzato dal fatto di sapere che, in tal modo, avrebbe potuto godere del particolare trattamento riservato ai c.d. pentiti e di una pena molto meno severa, che gli avrebbe permesso (considerata la sua giovane età), una volta pagato il conto con la giustizia, di rifarsi una nuova vita con la propria famiglia. Tuttavia, va osservato che se, in genere, ciò che rende la chiamata di correo un elemento di prova astrattamente meno attendibile della testimonianza è la possibile esistenza di interessi perseguiti dal dichiarante (quali, per l’appunto, quello di essere ammesso ad usufruire di un trattamento particolare o quello di ottenere protezione per sè e per i propri cari); proprio l’intento di perseguire tali interessi costituisce una prima garanzia di sincerità.

Difatti, il collaborante non può certo ignorare che gli sarà possibile raggiungere gli scopi summenzionati solo se le sue dichiarazioni si mostreranno totalmente veridiche ; ben sapendo, di converso, che alla prima manifestazione di falso, la sua credibilità verrebbe a crollare e con essa, l’interesse dello Stato a garantire la sua sicurezza e quella dei suoi cari dalle insidie della consorteria mafiosa oramai irreparabilmente inimicata. Pertanto, anche solo dal punto di vista logico, deve ritenersi che il principale interesse del GANCI fosse (e sia tuttora) quello di attenersi ad una sincera rappresentazione di quanto da lui realmente conosciuto. In tal senso, giova rimarcare che (in considerazione anche del periodo nel quale il GANCI ebbe ad iniziare a collaborare -nel 1996- periodo particolarmente “fecondo” per il numero di uomini d’onore che ebbero a decidere di infoltire la schiera dei collaboratori di giustizia), proprio in vista del perseguimento dell’interesse ad ottenere protezione e trattamento benevolo da parte dello Stato, il GANCI avrebbe dovuto ben sapere e temere che altri collaboranti potessero contraddire le sue dichiarazioni. Tanto più che egli sapeva che altro collaborante, (l’ANZELMO) appartenente alla stessa famiglia mafiosa aveva iniziato da poco a collaborare, per cui doveva, senz’altro, apparirgli chiaro che, solo fornendo notizie assolutamente corrispondenti al vero, avrebbe potuto scongiurare il rischio di essere clamorosamente smentito.

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Peraltro, pare innegabile che il contributo riconosciuto al GANCI per far luce su numerosi importantissimi episodi criminosi come quelli costituiti dalla strage di Capaci, dalla strage commessa per uccidere il dr. Chinnici, dall’omicidio del dr. Cassarà ecc. (e la correlativa consapevolezza da parte del collaborante di poter essere considerevolmente utile all’A.G. anche solo sulla base delle indicazioni fornite sui citati delitti) conduca ad argomentare che il GANCI non avesse alcun motivo per cercare di acquistare maggior credito presso l’autorità giudiziaria inventando false accuse a spese di persone innocenti. Proseguendo nell’indicazione dei riscontri di tipo intrinseco, giova, poi, sottolineare come la considerevole ponderosità delle sue rivelazioni ; la loro complessa articolazione ; il fatto che il GANCI abbia effettuato numerosi riconoscimenti fotografici di personaggi indicati come aderenti alle diverse famiglie mafiose di Cosa Nostra; inducano a ritenere tali affermazioni come il frutto di una reale conoscenza, piuttosto che di un’artificiosa elaborazione mendace. L’esame dell’imputato ha permesso, inoltre, di evidenziare ulteriori aspetti che rassicurano sulla genuinità e sulla veridicità di quanto dal medesimo riferito. Così, è parsa evidente una considerevole scorrevolezza e fluidità del racconto, rassegnato senza tentennamenti, palesando un’assoluta padronanza dei temi trattati e sicurezza delle cose riferite; la qual cosa non può non essere apprezzata come sintomatica del fatto che si trattava di vicende personalmente vissute e riportate, con immediatezza, così come ricordate. Né va sottaciuto che il narrato è apparso intrinsecamente logico in ogni suo aspetto, sia avuto riguardo ai dati generici -concernenti l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra (ed in particolare, la famiglia della Noce) , l’ingresso e l’appartenenza del GANCI a quel sodalizio criminoso, nonché le vicende relative alla guerra di mafia nella quale la famiglia della Noce assunse un ruolo da protagonista, in considerazione degli strettissimi rapporti insistenti coi corleonesi e col RIINA in specie-; sia in riferimento a quelli più specifici - concernenti gli omicidi e le altre attività delinquenziali poste in essere dall’organizzazione criminale-.

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Ancora, va rimarcato come le propalazioni siano state rese in modo assolutamente spontaneo, senza la necessità di alcun tipo di sollecitazione da parte degli organi inquirenti. Il collaborante, inoltre, ha mostrato una sostanziale costanza nel racconto, quale chiaramente è data desumere dal confronto coi verbali delle dichiarazioni rese in precedenza al pubblico ministero e colle dichiarazioni compendiate nelle numerose sentenze in atti171. In proposito, dovendosi sottolineare come, le rare differenze tra i vari momenti dichiarativi siano apparse per lo più marginali ed ampiamente giustificabili col tempo trascorso.

* * *

Innumerevoli sono poi i riscontri “estrinseci” che le dichiarazioni del GANCI, considerate nel loro complesso, trovano nel processo. Tali riscontri schematicamente possono ricondursi ai numerosissimi punti di coincidenza fra le dichiarazioni del GANCI e quelle dell’ANZELMO (l’altro imputato-collaborante esaminato); ai numerosi provvedimenti giudiziari in atti; alle dichiarazioni rese da testimoni e da altri imputati di reato connesso; ecc. In tale direzione va, preliminarmente, rimarcato come le dichiarazioni del GANCI si innestino in modo assolutamente coerente nel patrimonio di conoscenze su Cosa Nostra, acquisito in anni di lotta al fenomeno mafioso e desumibile dai provvedimenti giurisdizionali acquisiti al processo. In particolare, dalla sentenza della Corte di Assise di Palermo del 16 dicembre 1987 contro ABBATE Giovanni+459 (c.d. primo maxi processo di Palermo)172, si ricava (colla valenza della “cosa giudicata”) l’esattezza dei riferimenti, ancorché incidentali, del GANCI, non solo, alla struttura complessiva dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra (considerata come sodalizio unitario suddiviso in entità territoriali -”famiglie, mandamenti, province”- guidate da capi, sottocapi, consiglieri, capidecina ecc.); ma altresì, alle persone che facevano parte

171 cfr. faldoni nr. 20 e segg. 172cfr., in atti, ai faldoni 11 e segg;

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di dette famiglie e mandamenti e che in tali ambiti rivestivano posti di rilievo . Così, dalla citata sentenza si coglie indiscutibilmente la giustezza dei riferimenti del GANCI sia ai componenti della sua famiglia e del suo mandamento all’epoca dei fatti ed all’epoca successiva, sia la puntualità delle sue indicazioni in ordine ad altri soggetti appartenenti a famiglie ed a mandamenti diversi. Ancor più significativo, poi, appare il riscontro che la sentenza fornisce alle dichiarazioni rese - sempre incidentalmente- dal collaborante sugli affari illeciti operati dai componenti della consorteria malavitosa, sui delitti commessi ed infine sulle dinamiche delinquenziali sviluppatesi in seno al sodalizio, avuto particolare riguardo allo scontro tra la fazione corleonese e quella aggregata intorno al BONTATE ed al BADALAMENTI. Dalla sentenza si ricava, tra l’altro, infatti, ad ulteriore conferma della credibilità complessiva del GANCI, la sanguinosa guerra condotta dalla fazione corleonese, per conquistare la supremazia all’interno di Cosa Nostra attraverso, in particolare, gli omicidi di BONTATE, INZERILLO, BADALAMENTI Antonino ecc, ; nonché la consumazione di altri innumerevoli omicidi, tra i quali quelli dello SCAGLIONE e del RICCOBONO e di altri esponenti del mandamento di Partanna Mondello. 173

Da altre sentenze, acquisite al dibattimento, risultano poi esatti i riferimenti formulati a proposito di altre famiglie e mandamenti mafiosi.

In particolare, dalla sentenza del Tribunale di Palermo del 24/3/93 contro APONTE+14174 e dalla sentenza di secondo grado, della Corte di Appello di Palermo, dell’8/8/94175, si ricava la correttezza delle indicazioni riguardanti GALATOLO Vincenzo come rappresentante della famiglia mafiosa dell’Acquasanta; l’appartenenza di tale famiglia al mandamento di Resuttana; il fatto che a capo di tale mandamento vi 173cfr., tra l’altro, alle pgg. 1228 e segg. della sentenza, dalle quali emerge l’iniziale apparente vicinanza della famiglia facente capo al RICCOBONO ai corleonesi, colla partecipazione dei primi, tra l’altro, agli omicidi di BADALAMENTI Antonino e Stefano GALLINA commessi in favore di RIINA e della sua corrente; ed infine la fine del RICCOBONO e degli uomini d’onore a lui più vicini, soppressi, per lo più col sistema della lupara bianca, il 30 novembre 1982, dai corleonesi al fine di evitare una volta per tutte che il RICCOBONO potesse costituire in futuro un pericolo per mire egemoniche di RIINA e dei suoi alleati. 174 Cfr. al faldone nr. 21 175 Cfr. al faldone nr. 21

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fosse Francesco MADONIA, sostituito nei momenti di detenzione, dal figlio maggiore Antonino MADONIA, nonché gli strettissimi rapporti esistenti tra i MADONIA ed i GALATOLO, da una parte, e tra i MADONIA e RIINA, dall’altra; nonché la frequentazione negli anni tra l’81 e l’82 del fondo Pipitone o fondo Galatolo da parte di MADONIA, di GRECO Scarpa e dei MARCHESE.

Più analiticamente nella citata sentenza del Tribunale di Palermo

del 24/3/93 - colla quale, tra gli altri, gli odierni imputati GALATOLO Vincenzo e MADONIA Antonino erano stati condannati, entrambi, per associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti e GALATOLO Vincenzo anche per il reato di associazione mafiosa, riportando, rispettivamente, il MADONIA la pena di trent’anni di reclusione (poi ridotta a 22 in appello) ed il GALATOLO Vincenzo la pena di ventisei anni di reclusione - si legge176 : - che non vi poteva essere alcun dubbio che tra i GALATOLO, in genere, e la famiglia MADONIA insistessero rapporti di natura associativa e criminosa, evidenziandosi, in particolare, “un diretto e cogente rapporto gerarchico tra Vincenzo GALATOLO , capo della famiglia mafiosa dell’Acquasanta, ed il suo capo mandamento Francesco MADONIA, sostituito per lungo tempo anche dal figlio Antonino MADONIA”. - che MARINO MANNOIA Francesco, oltre all’appartenenza a Cosa Nostra ed il ruolo di rappresentante della famiglia dell’Acquasanta del GALATOLO - aveva confermato gli stretti rapporti operativi ed associativi insistenti tra MADONIA e GALATOLO confermando che il territorio dell’Acquasanta era ricompreso nel mandamento di Resuttana dei MADONIA. - che nell’ oramai famoso “libro mastro” riportante la contabilità dei proventi dell’attività estorsiva del clan dei MADONIA, vi è il riferimento ad uno degli esattori che operavano per conto dei MADONIA e si tratta, per l’appunto, di GALATOLO Vincenzo.177 - che 178 anche la zona dell’Acquasanta in genere ed il vicolo Pipitone, in specie, ove risiedevano molti dei fratelli GALATOLO, costituiva uno dei luoghi di ritrovo più frequentemente utilizzati per gli incontri tra gli associati di Cosa Nostra.

176 cfr. alle pgg. 333 e segg. della sentenza in parola. 177 Cfr. a pg. 344 della sentenza. 178 Cfr. pg. 345 e segg. della sentenza.

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- che lo stretto collegamento tra la famiglia dell’Acquasanta e quella di Resuttana traeva fondamento da ragioni legate alla genesi dei due comprensori mafiosi :

Invero, risultava che era stato il RICCOBONO ad autorizzare, nel 1974, Francesco MADONIA a costituire la famiglia di Resuttana posta alle dipendenze di quella del RICCOBONO a fianco del gruppo dell’Acquasanta nel quale militavano già i GALATOLO ed il cui rappresentante era allora Salvatore CUSENZA.

Nel 1977 si era operato un rimescolamento avvenuto a seguito di una grave violazione delle norme associative.

Infatti, poiché, era stata effettuata “una missione” in trasferta, nel trapanese, di uno degli uomini del MADONIA, vale a dire del noto Armando BONANNO, senza la preventiva autorizzazione del capo mandamento, cioè del RICCOBONO, quest’ultimo aveva sciolto la famiglia di Resuttana ed aveva posto fuori famiglia sia il BONANNO che il GAMBINO. <<Ma, all’epoca, i rapporti di Francesco MADONIA con Salvatore RIINA – destinato come è noto ad aumentare considerevolmente il suo peso e prestigio in seno a Cosa Nostra- erano già intensi al punto che il RIINA, dopo appena qualche mese, con un vero e proprio colpo di mano ottenne non solo che la famiglia di Francesco MADONIA fosse ricostituita, ma con il pretesto che storicamente parecchi anni prima era esistito un autonomo mandamento di Resuttana, propose ed ottenne che venisse ricostituito il detto mandamento affidandolo al MADONIA, così sottraendolo al potere del RICCOBONO. A quell’epoca ed a quella decisione voluta dal RIINA risale anche il passaggio della famiglia dell’Acquasanta dal mandamento del RICCOBONO a quello appena ricostituito di Resuttana sotto la diretta influenza di Francesco MADONIA i cui intensi rapporti coi GALATOLO degli anni successivi trovano dunque radici proprio in quel tempo. Proprio in quel contesto fu deciso l’accantonamento del vecchio rappresentante dell’Acquasanta (CUSENZA) e la sua sostituzione con Vincenzo GALATOLO, imposto proprio da Francesco MADONIA che non si fidava del CUSENZA perché troppo legato al RICCOBONO.>>

Ancora dalla cennata sentenza risulta: - che il vicolo Pipitone a cavallo tra il 1981 ed il 1982 era frequentato dagli allora latitanti GRECO Scarpa e Salvatore MADONIA.

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- che GALATOLO Vincenzo era considerato il braccio destro dei MADONIA; - che tra i corleonesi ed i MADONIA v’erano rapporti intensi; - che agenti di polizia avevano potuto constatare direttamente rapporti frequenti e diretti fra Antonino MADONIA e Vincenzo GALATOLO (nell’anno 1989); - che MARCHESE Giuseppe179 – prima del suo arresto avvenuto il 15 gennaio 1982- aveva accompagnato Filippo MARCHESE, il noto ed influente capomafia di Corso dei Mille – nel corso dei frequenti incontri che nel pieno della guerra di mafia – sostanzialmente avviata con l’uccisione di Stefano BONTATE il 23 aprile 1981- si tenevano tra gli esponenti più in vista delle famiglie mafiosi c.d. vincenti come Giuseppe GRECO Scarpuzzedda, Giuseppe LUCCHESE e Salvatore CUCUZZA. Ed uno dei posti che più frequentemente venivano utilizzati per gli incontri e come vere e proprie base operative anche per missioni era proprio il vicolo PIPITONE , segnatamente <<da Enzo GALATOLO>>. - che gli strettissimi rapporti tra RIINA ed il clan dei MADONIA erano sottolineati anche dal fatto che il padrino di Giuseppe MADONIA all’atto della sua affiliazione era stato proprio RIINA Salvatore, nonché dalla circostanza che sia il predetto Giuseppe che il fratello Antonino MADONIA, odierno imputato, erano stati a lungo impiegati dal RIINA come autisti personali nei primi anni settanta.

Peraltro , nella sentenza in questione, in ordine a MADONIA Antonino, sulla base di quanto rivelato dai collaboranti BUSCETTA, CALDERONE, MARCHESE, MANNOIA e MUTOLO, si legge ( non solo della sua appartenenza all’organizzazione mafiosa, ma altresì che): <<anche in quanto primogenito della famiglia di Resuttana, aveva già da tempo, particolarmente nei periodi di sua libertà, in cui il genitore era invece detenuto, condiviso col padre Francesco, anche sostituendolo, la responsabilità della direzione mafiosa e del mandamento sotto la cui responsabilità operano i fratelli GALATOLO e le famiglie di Acqusanta ed Arenella. ….L’ascesa di Antonino MADONIA180 al vertice della sua famiglia risale agli anni 81-82 quando il di lui genitore subì un lungo periodo di carcerazione (dall’11/11/80 al 13/11/82 ) e dunque proprio nel periodo della guerra di mafia le cui ostilità furono sostanzialmente aperte

179 Cfr. pg. 354 e segg. della sentenza. 180 Cfr. a pg. 387 segg. della sentenza.

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dall’omicidio BONTATE (23 aprile 81)…Le concordi dichiarazioni del MARINO MANNOIA, del MUTOLO e del MARCHESE evidenziano oggi che proprio in quel cruento biennio 81/82 tra gli uomini d’onore si diffuse la conoscenza del fatto che Antonino MADONIA aveva assunto la direzione della famiglia mafiosa e del relativo mandamento di Resuttana in sostituzione del genitore detenuto….Gaspare MUTOLO…ha invero affermato che negli anni 81/82 tra gli uomini d’onore si sapeva che per qualsiasi problema riguardante la famiglia di Resuttana o quella dei GALATOLO ci si doveva rivolgere ad Antonino MADONIA, ed aggiungeva che anche il suo capomandamento dell’epoca Rosario RICCOBONO lo aveva mandato più volte proprio dall'odierno imputato perché il genitore di questi era in galera….Circostanza confermata da Giuseppe MARCHESE… E’ comunque certo che Antonino MADONIA è stato ed è da sempre il principale e più fidato collaboratore del genitore Francesco MADONIA al quale si è anche sostituito in momenti particolarmente impegnativi per l’attività della famiglia mafiosa, nel pieno di una cruenta guerra di mafia che la volontà egemone dei corleonesi scatenò con l’appoggio determinante dei MADONIA per conquistare una posizione di dominio in seno a C.N. Giova al riguardo rammentare, quale ennesima conferma del rapporto da sempre esistente in C.N. tra i corleonesi e la famiglia mafiosa dei MADONIA – il cui mandamento si è ricostituito per volere diretto di RIINA- che Antonino MADONIA è stato definito al dibattimento da Francesco MARINO MANNOIA l’ambasciatore di RIINA Salvatore a Palermo, insieme a Giuseppe LUCCHESE. La particolare abilità ed il valore mostrato da Antonino MADONIA, in quei frangenti, gli sono valsi, dopo …il 5 novembre 1988 l’assunzione anche formale della carica di capomandamento, dopo averla assunta a lungo di fatto, in luogo del genitore oramai anziano e gravemente malato, oltre che detenuto.>>

Peraltro, avuto riguardo alla struttura di Cosa Nostra ed agli aderenti alla medesima, le affermazioni del GANCI trovano puntuale supporto nelle dichiarazioni dell’altro imputato-collaborante sentito nel corso del dibattimento.

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Invero, ANZELMO Francesco Paolo, uomo d’onore della famiglia della Noce, ha riferito notizie sostanzialmente identiche, sia in ordine alla composizione della famiglia della Noce , ai primi degli anni ‘80, e successivamente; sia in merito ai ruoli di rilievo assunti dalle rispettive famiglie prima e dopo la soppressione dello SCAGLIONE, nonché in riferimento alle altre famiglie che componevano il mandamento ed ai personaggi mafiosi che si erano succeduti al comando delle rispettive compagini, ed agli efferati omicidi commessi dalla consorteria della quale aveva fatto parte. In particolare, l’ANZELMO, a proposito degli uomini d’onore chiamati a partecipare ai gruppi di fuoco succedutisi nel corso degli anni, delle modalità di consumazione dei delitti, della soppressione dei cadaveri, ha fornito, in buona sostanza, un quadro assolutamente coincidente con quello offerto dal GANCI, cosa che in tutta evidenza rasserena sulla veridicità di quanto rappresentato da entrambi i collaboranti; stante, soprattutto, la contestualità colla quale i due hanno iniziato a collaborare e l’impossibilità di ciascuno di essi di conoscere il contenuto delle propalazioni dell’altro. Sempre in ordine alla struttura di Cosa Nostra ed ai componenti della consorteria in questione le affermazioni del GANCI trovano nel presente processo conferma anche nelle dichiarazioni degli altri collaboranti raccolte nelle pronunce giudiziarie acquisite.

Così, a titolo d’esempio, giova rimarcare come dalle dichiarazioni dei collaboranti CANCEMI Salvatore, FERRANTE Giovan Battista, rese nel dibattimento per la strage in cui perse la vita il Giudice Chinnici181 risulti confermato che il gruppo di fuoco che in quegli anni commetteva, per conto dei corleonesi, gli omicidi più importanti era costituito da Nino MADONIA, da Pino GRECO “scarpa”, Pippo GAMBINO, LUCCHESE Giuseppe, dai figli di GANCI Raffaele, Mimmo e Calogero, da ANZELMO e da BRUSCA Giovanni.

* * * Ancor più significativo è , poi, il fatto che anche le dichiarazioni rese, seppur incidentalmente, dal GANCI nel corso dell’esame e riguardanti alcuni degli omicidi commessi dalla propria consorteria, trovano imponenti elementi di riscontro o nelle

181 Cfr. al faldone nr. 34.

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dichiarazioni di altri collaboranti, ovvero nei provvedimenti giudiziari acquisiti al processo.

In particolare le indicazioni riguardanti gli omicidi di BONTATE Stefano, INZERILLO Salvatore, la strage della circonvallazione, l’omicidio del Giudice CHINNICI, l’omicidio del dr. CASSARA’ ecc. , trovano ampi indiscutibili riscontri nelle concorsi affermazioni rese da ANZELMO Francesco Paolo, da CUCUZZA Salvatore e da BRUSCA Giovanni. La circostanza per la quale, in merito agli stessi fatti di sangue, i suddetti collaboranti, pur sentiti in modo estremamente sommario, abbiano fornito versioni , sostanzialmente, collimanti, costituisce a parere della Corte un elemento ulteriormente comprovante la loro credibilità. In particolare, dalla constatata convergenza delle propalazioni del GANCI con quelle degli altri collaboranti si ricava un ulteriore imponente argomento dimostrativo della generale attitudine e capacità del GANCI a riferire il vero in ordine agli episodi dei quali è stato protagonista, anche avuto riguardo a vicende svoltesi molti anni addietro, in un periodo di tempo prossimo a quello in cui fu commesso l’eccidio per cui è processo.

* * * Considerata la quantità, ma soprattutto tenuto conto della qualità dei riscontri oggettivi cennati, pare palesemente inopportuno soffermarsi nell’elencazione degli innumerevoli elementi di supporto che le dichiarazioni del GANCI trovano negli atti, sembrando manifesto l’elevato grado di attendibilità cui dette dichiarazioni pervengono. Piuttosto, pare opportuno rimarcare come, in riferimento alle dichiarazioni del GANCI, possa pervenirsi con sicurezza ad un giudizio di considerevole attendibilità complessiva o generica .

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§ - 6) L’attendibilità di ANZELMO Francesco Paolo

Prima di procedere alla verifica dell’attendibilità di GANCI

Calogero in ordine agli specifici omicidi in trattazione, pare opportuno, in via preliminare, valutare quale grado di credibilità possa essere attribuito (in generale) alle dichiarazioni rese dall’altro imputato-collaborante escusso nel corso del processo, ANZELMO Francesco Paolo.

Ciò in quanto, per come si è anticipato, l’ANZELMO costituisce, senza dubbio, nel presente procedimento, la principale fonte di riscontro del GANCI.

Orbene, reputa a Corte che nel loro complesso (senza, cioè, ancora far alcun riferimento alle affermazioni rese sull’omicidio del Generale DALLA CHIESA), le propalazioni dell’ANZELMO trovino nel processo cospicui elementi di riscontro di tipo intrinseco ed estrinseco che consentono di affermarne un buon grado di attendibilità generica.

Il percorso svolto dalla Corte per apprezzare la credibilità d’insieme dell’ANZELMO è del tutto analogo a quello seguito per valutare l’attendibilità (complessiva) del GANCI e le argomentazioni sopra svolte al riguardo, permettono di essere più sintetici nell’indicare i motivi che autorizzano a ritenere, in via generale, le dichiarazioni dell’ANZELMO credibili e perfettamente in grado, nei congrui casi, di riscontrare le affermazioni del GANCI.

In particolare, l’adesione dell’ANZELMO al sodalizio criminoso mafioso della famiglia di Cosa Nostra della Noce, ammessa dal collaborante e confermata dal GANCI e dagli altri collaboranti esaminati nel processo (BRUSCA, CUCUZZA, ONORATO), induce ad argomentare che lo stesso, quale esponente di Cosa Nostra ed autore di numerosi omicidi, fosse perfettamente in condizione di conoscere e riferire con esattezza i crimini commessi da quella consorteria, le modalità e gli autori. Peraltro, anche le dichiarazioni dell’ANZELMO, nel loro complesso sono sorrette da cospicui elementi di riscontro di tipo “intrinseco”.

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In tal senso, va in primo luogo posto in evidenza come anche all’ANZELMO possano estendersi le considerazioni svolte a proposito del GANCI. Invero, se è ben plausibile che l’ANZELMO, nella sua determinazione a collaborare, stante le imputazioni delle quali era già gravato sia stato influenzato dal fatto di sapere che, in tal modo, avrebbe potuto godere del particolare trattamento riservato ai c. d. pentiti e di una pena molto meno severa, che gli avrebbe permesso (considerata la sua giovane età), una volta pagato il conto con la giustizia, di rifarsi una nuova vita con la propria famiglia ; è pur vero che il collaborante non poteva certo ignorare che avrebbe potuto raggiungere gli scopi summenzionati solo se le sue dichiarazioni fossero state totalmente veridiche ; mentre, alla prima manifestazione di falso, tutte le accuse sarebbero crollate e con esse, in primo luogo, l’interesse dello Stato a garantire la sua sicurezza e quella dei suoi cari dalle insidie del sodalizio mafioso oramai irreparabilmente inimicato. Pertanto, anche dal punto di vista puramente logico, deve ritenersi che anche il principale interesse dell’ANZELMO fosse quello di attenersi ad una sincera rappresentazione di quanto da lui realmente conosciuto. In tal senso, giova rimarcare che (in considerazione anche del fatto che il periodo nel quale l’ANZELMO ebbe ad iniziare a collaborare –vale a dire nel 1996- è stato notoriamente particolarmente “fruttuoso” per il numero di uomini d’onore che ebbero a decidere di divenire collaboratori di giustizia), proprio in vista del perseguimento dell’interesse ad ottenere protezione ed un trattamento benevolo da parte dello Stato, l’ANZELMO avrebbe dovuto ben sapere e temere che altri collaboranti potessero contraddire le sue dichiarazioni.

* Peraltro, pare innegabile che il contributo riconosciuto all’ANZELMO per far luce su un importantissimi episodi criminosi come quelli costituiti dagli omicidi del dr. CASSARA’ e del Giudice CHINNICI (e la correlativa consapevolezza da parte del collaborante di poter essere considerevolmente utile all’A.G. anche solo sulla base delle indicazioni fornite sui citati delitti) conduca ad argomentare che

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l’ANZELMO (al pari del GANCI) non avesse alcun motivo per cercare di acquistare maggior credito presso l’autorità giudiziaria a spese di persone innocenti. Peraltro, la complessità delle sue rivelazioni ed i numerosi riconoscimenti fotografici operati nei confronti di personaggi indicati come aderenti alle diverse famiglie mafiose di Cosa Nostra, autorizzano a sostenere che le sue dichiarazioni costituiscono il frutto di reale conoscenza. L’esame dell’imputato ha consentito, altresì, di evidenziarne altri aspetti che garantiscono la genuinità e la veridicità di quanto riferito. Così, è parsa evidente una notevole fluidità del racconto, riportato mostrando un’assoluta padronanza dei temi trattati e sicurezza delle cose riferite; la qual cosa non può non essere apprezzata come sintomatica del fatto che si trattava di vicende personalmente vissute e riportate, con immediatezza, così come ricordate. Né va sottaciuto che il narrato è apparso intrinsecamente logico in ogni suo aspetto, sia avuto riguardo ai dati generici concernenti l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra (ed in particolare, la famiglia della Noce) , l’ingresso e l’appartenenza dell’ANZELMO a quel sodalizio criminoso, nonché le vicende relative alla guerra di mafia iniziata colla soppressione di BONTATE e dell’INZERILLO e condotta fino al momento in cui, a seguito dell’eliminazione del RICCOBONO e dello SCAGLIONE, venivano ricomposti alcuni mandamenti, tra cui quello della Noce che veniva assegnato a GANCI Raffaele; sia in riferimento a quelli più specifici concernenti gli omicidi e le altre attività delinquenziali poste in essere dall’organizzazione criminale. Ancora, va rimarcato come la maggior parte delle propalazioni siano state rese in modo assolutamente spontaneo, senza la necessità di alcun tipo di sollecitazione da parte degli organi inquirenti. Inoltre, il collaborante ha mostrato una sostanziale costanza nel racconto, com’è dato desumere dal confronto coi verbali delle dichiarazioni rese in precedenza al pubblico ministero e colle affermazioni compendiate nelle numerose sentenze in atti.182

* * *

182 Cfr. ai faldoni nr. 20 e segg.

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Innumerevoli sono poi i riscontri “estrinseci” che le dichiarazioni dell’ANZELMO , considerate nel loro complesso, trovano nel processo. Tali riscontri schematicamente possono ricondursi ai numerosissimi punti di coincidenza fra le dichiarazioni dell’ANZELMO e quelle degli altri collaboranti esaminati o richiamati dalle sentenze acquisite agli atti ; ai riscontri oggettivi ricavabili dai provvedimenti giudiziari in atti; alle dichiarazioni rese da testimoni; ecc. Così , giova rilevare come le dichiarazioni dell’ANZELMO, analogamente a quanto già osservato per il GANCI, si innestino in modo assolutamente coerente nel patrimonio di conoscenze su Cosa Nostra, acquisito in anni di lotta al fenomeno mafioso e desumibile dai provvedimenti giurisdizionali acquisiti al processo. E’, peraltro, evidente che - poiché l’ANZELMO ed il GANCI hanno, per loro stessa ammissione, effettuato un percorso criminale-mafioso accomunato dalla militanza nella stessa famiglia, dallo stesso periodo di ingresso nel sodalizio mafioso e dalla partecipazione al medesimo <<gruppo di fuoco>>- il quadro d’insieme delle loro propalazioni non potesse essere molto dissimile (a conferma ulteriore della loro credibilità); di guisa che pare ben possibile - rinviando a quanto già sottolineato in proposito- estendere tutti gli argomenti e le considerazioni, spese per valutare la credibilità generico complessiva del GANCI, alla posizione dell’ANZELMO, e ciò sia in riferimento alle pronunce giudiziarie acquisite al processo, sia in riferimento alle convergenti propalazioni degli altri collaboranti compendiate nelle sentenze in atti.

* * * E’, poi, significativo il fatto che anche le dichiarazioni rese, seppur incidentalmente, dall’ANZELMO nel corso degli esami effettuati e riguardanti alcuni degli omicidi commessi dalla propria consorteria, trovano imponenti elementi di riscontro o nelle dichiarazioni dell’altro collaborante esaminato nel processo (GANCI), ovvero nei provvedimenti giudiziari acquisiti al processo.

In tal senso, sembrando sufficiente in questa sede richiamare le argomentazioni sopra svolte in merito agli omicidi del Dr. CASSARA’,

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del Giudice CHINNICI e della strege della circonvallazione riportati in modo presso che analogo dall’ANZELMO e dal GANCI. La circostanza per la quale in merito agli stessi fatti di sangue i due imputati collaboranti, pur sentiti molto sommariamente, abbiano fornito una versione dei fatti , sostanzialmente, collimante, costituisce a parere della Corte un elemento ulteriormente comprovante la credibilità di entrambi. Infatti, dalla suddetta convergenza delle dichiarazioni di GANCI ed ANZELMO si ricava in tutta evidenza un imponente argomento dimostrativo della generale attitudine e capacità dei due predetti collaboranti a riferire il vero in ordine agli episodi dei quali sono stati protagonisti, anche a proposito di fatti avvenuti molti anni addietro, in un periodo di tempo prossimo a quello in cui furono commessi gli omicidi che costituiscono oggetto dell’odierno giudizio.

* * * Considerata la quantità, ma soprattutto la qualità dei riscontri oggettivi cennati, appare manifestamente inopportuno immorare nell’elencazione degli innumerevoli elementi di supporto che le dichiarazioni dell’ANZELMO trovano negli atti sembrando evidente l’elevato grado di attendibilità cui dette dichiarazioni pervengono. Piuttosto, pare opportuno rimarcare come anche in riferimento alle dichiarazioni dell’ANZELMO, così come già ritenuto a proposito del GANCI, possa pervenirsi con sicurezza ad un positivo giudizio di attendibilità complessiva o generica .

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§ - 7) I riscontri oggettivi e specifici riguardanti gli omicidi del Generale Carlo Alberto DALLA Chiesa, della moglie Emanuela SETTI CARRARO e dell’agente Domenico RUSSO. Asseverata, in virtù di quanto sopra rappresentato, la complessiva attendibilità delle dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo e GANCI Calogero , è agevole rilevare come, anche in merito allo specifico episodio delittuoso oggi in esame, le loro dichiarazioni, non solo, si riscontrino reciprocamente, in modo esaustivo, in numerosissimi punti, ma pure trovino, negli atti processuali, ulteriori importanti elementi di conforto. Al riguardo, non può, tuttavia, farsi a meno di rimarcare come le dichiarazioni del GANCI e dell’ANZELMO riguardino un fatto verificatosi circa vent’anni fa; per cui è naturale che il ricordo non possa essere assolutamente preciso in ogni dettagli.

Inoltre, non va trascurato che i predetti collaboranti rivestivano, allora, nell’ambito dell’organizzazione ruoli meramente esecutivi e certamente non di comando; di tal che, non potevano avere dell’omicidio in questione una conoscenza globale comprensiva di tutti gli aspetti organizzativi e motivazionali. Tali circostanze debbono essere tenute ben presenti perché la capacità mostrata dal GANCI e dall’ANZELMO nel riferire, comunque, l’episodio relativo agli omicidi in contestazione, con una puntualità, senz’altro, più che soddisfacente, può a parere della Corte spiegarsi unicamente col fatto che entrambi i collaboranti ebbero a parteciparvi.

Dovendosi da ciò trarre come conseguenza logica, quanto meno, la loro idoneità a riferire con esattezza –sia pure per grandi linee- quanto realmente accaduto. Peraltro, pare opportuno rimarcare che l’omicidio del Generale DALLA CHIESA ha costituito uno degli episodi delittuosi mafiosi più eclatanti e come tale è stato giustamente messo in risalto dalla stampa e dalla televisione. Ed è noto, altresì, come sul terribile delitto in questione sia stato anche girato un film ed ancora che, l’efferato delitto, ha già

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costituito oggetto di un processo (invero, nel c.d. primo maxi processo di Palermo sono stati giudicati per tale reato i componenti della cupola di C.N., quali mandanti ). Ciò, indubbiamente, accresce la difficoltà di sceverare, tra i possibili riscontri alle dichiarazioni dei collaboranti, quelli che si manifestino effettivamente significativi, eludendo il sospetto che il racconto possa essere adornato da conoscenze derivanti, non dalla diretta presenza del dichiarante ai fatti, ma da informazioni ricavate da notizie giornalistiche o da immagini trasmesse dalla televisione. In tal senso, è parso doveroso non tenere conto, nell’evidenziazione dei punti del racconto coincidenti cogli elementi di verifica oggettiva, di quei fattori che, per la loro notorietà, non sono sembrati utili ai fini della verifica della credibilità dei dichiaranti.

Si vuole, in buona sostanza, alludere a quelle circostanze la cui conoscenza non è di per sé dimostrativa della partecipazione diretta al delitto ; con specifico riferimento : - al fatto che in occasione dell’omicidio fossero stati utilizzati dei kalashnicov; - al tipo ed al numero di autovetture usate dalle vittime; - al fatto che nella circostanza non fosse stato ucciso solo il Generale, ma anche la moglie e l’autista; - al fatto che il Generale si trovasse sulla A112 condotta dalla moglie; - al fatto che provenisse dalla Prefettura; - al fatto che il delitto fosse avvenuto in via Isidoro Carini; - al fatto che fosse stato consumato nel 1982, verso le 21.00 del 3 settembre; - al luogo ove furono rinvenute le auto usate per commettere l’omicidio; - alle notizie fornite sullo spessore del personaggio assassinato; - alla attribuibilità del delitto ai corleonesi; - al fatto che i kalashnicov fossero stati usati anche in altre occasioni. Osserva, comunque, la Corte che nonostante la pubblicità doverosamente attribuita allo sconvolgente episodio criminale in trattazione, e nonostante il lungo lasso di tempo trascorso , le dichiarazioni del GANCI e dell’ANZELMO , trovino nel processo notevolissimi elementi di conforto che consentono di attribuire, senza tema di errore, il loro racconto alla partecipazione diretta di entrambi all’evento.

* * * Pare evidente, peraltro, che la maggior parte dei riscontri al racconto del GANCI è fornita dall’altro collaborante ANZELMO e che,

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del pari, le affermazioni di quest’ultimo, trovano principale supporto in quelle del GANCI. In altri termini, trattasi di dichiarazioni che si riscontrano reciprocamente ; e questo vicendevole riscontro costituisce la garanzia più significativa ( ma non certamente l’unica) dell’attendibilità della versione da entrambi i collaboranti offerta. Sul punto, va subito rimarcato, come il fatto che i due imputati abbiano iniziato a collaborare coll’A.G., presso che, contemporaneamente, senza poter entrare in contatto fra loro, e senza che l’uno avesse possibilità di conoscere quanto affermato dall’altro, rasserena sulla genuinità delle loro propalazioni e sulla veridicità di quanto asserito; atteso che la possibilità statistica che due persone, inventando un episodio, possano riferirne le modalità di svolgimento, sia pure avuto riguardo alle linee generali, in termini presso che identici, senza preventiva concertazione, non è remota, bensì, insussistente. Di tal che, il fatto che il GANCI e l’ANZELMO abbiano rassegnato all’A.G. l’omicidio del Generale DALLA CHIESA, in modo sostanzialmente identico (avuto riguardo alle linee generali della vicenda, nonché a gran parte degli elementi secondari del racconto), la dice lunga sulla genuinità della loro collaborazione e sulla veridicità di quanto asserito. Tanto premesso, va rilevato come il racconto particolareggiato fornito da entrambi i collaboranti sull’omicidio in questione permetta l’individuazione di un numero estremamente cospicuo di punti di convergenza.

A mero titolo esemplificativo pare opportuno limitarsi a riportare quelli di seguito evidenziati, indicando di volta in volta anche gli altri elementi di riscontro estrinseci alle due propalazioni che il processo ha offerto.

* 1. entrambi hanno affermato di essere venuti a conoscenza

dell’intenzione di uccidere il Generale nel corso di una riunione avvenuta una ventina di giorni prima dell’omicidio e svoltasi nel c.d. fondo Pipitone o fondo Galatolo che dir si voglia;

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2. entrambi hanno sostenuto che tale luogo costituì la base operativa dalla quale si mossero i killers il giorno in cui l’omicidio venne consumato;

3. ambedue i dichiaranti hanno affermato che il commando omicida si mosse da tale base nel tardo pomeriggio del 3 settembre 1982, vale a dire del giorno in cui il delitto venne commesso;

4. sia il GANCI che l’ANZELMO hanno concordemente indicato in MADONIA Antonino, GRECO Giuseppe detto “Scarpa” e GAMBINO Giacomo Giuseppe coloro i quali avevano diretto ed organizzato l’operazione;

5. entrambi hanno poi riferito che a procurarsi le notizie necessarie per la buona riuscita dell’operazione erano stati il GRECO e LUCCHESE Giuseppe;

6. Sia il GANCI che l’ANZELMO, avuto riguardo ai mezzi usati dai killers, hanno indicato i medesimi veicoli , due autovetture di grossa cilindrata, una moto (di provenienza furtiva) e diverse altre auto pulite (almeno tre o quattro) usate per copertura;

7. Hanno indicato lo stesso tipo di armi; vale a dire oltre ai kalashnicov il cui impiego è da tempo noto a tutti, anche fucili a canne mozze e pistole; specificando con dichiarazioni assolutamente convergenti chi del commando avesse i fucili a pompa e chi no;

8. Hanno concordemente affermato che nei venti giorni che precedettero l’omicidio si erano riuniti presso che quotidianamente a Fondo Pipitone, in attesa del momento propizio per eseguire l’omicidio;

9. Hanno, con dichiarazioni, sul punto assolutamente convergenti, chiarito quali, fra i tanti veicoli usati, fossero stati i mezzi direttamenti coinvolti nel delitto (le due auto e la moto poi rinvenuti) e quali invece no (le altre auto condotte rispettivamente da GANCI Raffaele, CAROLLO Gaetano e GALATOLO Vincenzo);

10. Hanno indicato come componenti gli equipaggi dei veicoli implicati nell’omicidio, lo stesso numero di persone (vale a dire : “due nell’auto condotta dal GANCI ; tre nella seconda autovettura; e due nella motocicletta”);

11. Sia il GANCI che l’ANZELMO hanno, poi, riferito che a sparare sulla A 112 era stato l’equipaggio dell’auto del GANCI (segnatamente MADONIA Antonino) e che il passeggero della moto (cioè, GRECO Giuseppe Scarpa) si era occupato di sparare all’auto condotta dall’agente di scorta;

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12. Entrambi hanno riferito che a far fuoco per primo era stato l’equipaggio dell’auto del GANCI;

13. Entrambi hanno specificato che era il GANCI che guidava l’auto e che era stato il MADONIA a sparare;

14. Sia il GANCI che l’ANZELMO hanno affermato che, dopo l’omicidio, il commando era rientrato al Fondo Pipitone;

15. Entrambi hanno riferito che appena rientrati si era accesa un’animatissima discussione tra il GRECO ed il MADONIA;

16. Ambedue gli imputati hanno evidenziato che la discussione era stata causata dal risentimento del GRECO nei confronti del MADONIA per il fatto che era stato quest’ultimo a sparare contro il Generale, mentre avrebbe voluto esso SCARPA “mettersi la medaglia” per l’omicidio commesso;

17. Sia il GANCI che l’ANZELMO hanno fatto riferimento ad un periodo di attesa, a piazza Nascè, presso che identico (“un’ora, un’ora e mezza”);

18. Entrambi hanno riferito che non erano a conoscenza del fatto che il generale sarebbe transitato sulla A 112 e colla moglie a bordo;

19. I due imputati hanno, in modo assolutamente convergente, indicato l’ordine di partenza delle auto dei killers da Piazza Nascè : prima l’auto del GANCI e poi quella dell’ANZELMO;

20. Entrambi hanno specificato che le loro auto ebbero a partire solo dopo che ebbero a transitare le auto del Generale e della scorta;

21. Entrambi hanno riferito che le auto delle vittime erano transitate ad andatura “normale”: “da città”;

22. Hanno indicato, entrambi, che il kalashnicov adoperato dal GRECO era di quelli col calcio ripiegabile;

Inoltre, sia il GANCI che l’ANZELMO hanno riferito, sia avuto

riguardo ai soggetti che erano stati coinvolti nelle fasi preparatorie all’omicidio, sia avuto riguardo ai soggetti che, poi, presero attivamente parte al delitto , indicazioni significativamente convergenti.

In particolare, hanno concordemente indicato le famiglie mafiose che si erano rese attivamente protagoniste dell’eccidio (mandamento di Resuttana e relative famiglie di Resuttana e dell’Acquasanta –rappresentato, in particolare, da MADONIA Antonino, da CAROLLO Gaetano e da GALATOLO Vincenzo- ; mandamento di Porta Nuova, famiglia Noce- rappresentata da GANCI Raffaele, GANCI Calogero ed ANZELMO Francesco Paolo- ; mandamento di Ciaculli : famiglie di

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Ciaculli e di Corso dei Mille- rappresentate da GRECO Giuseppe, LUCCHESE Giuseppe; mandamento di Partanna Mondello : famiglia di S. Lorenzo- rappresentata da GAMBINO Giacomo Giuseppe).

Hanno, presso che concordemente, indicato la maggior parte degli autori principali dell’agguato (GANCI Calogero, MADONIA Antonino, GRECO Giuseppe Scarpa, ANZELMO Francesco Paolo, GAMBINO Giacomo Giuseppe), nonché tutti quelli che avevano partecipato con ruoli di copertura (CAROLLO Gaetano, GALATOLO Vincenzo e GANCI Raffaele).

Hanno entrambi attribuito a LUCCHESE Giuseppe un ruolo preparatorio nell’agguato. Inoltre, anche avuto riguardo al movente, entrambi i collaboranti hanno, poi, concordemente riferito che l’omicidio era stato determinato dal fatto che il Generale , noto per le capacità dimostrate col terrorismo, avrebbe costituito certamente un pericolo per Cosa Nostra, di tal che detta organizzazione aveva deciso di agire preventivamente, prima ancora che il Prefetto potesse –magari ottenendo i poteri che gli erano stati promessi- realmente creare nocumento alla consorteria malavitosa. Al riguardo, pur prescindendo dal considerare che, nel presente, processo, l’individuazione dell’esatto movente dell’omicidio del Generale non si appalesa indispensabile, atteso che agli imputati è contestata principalmente l’esecuzione dell’omicidio; giova evidenziare che “il movente” indicato dal GANCI e dall’ANZELMO pare, da una parte, sorretto, in fatto, dalla straordinaria capacità organizzativa riconosciuta da tutti al Prefetto DALLA CHIESA e, dall’altra, assolutamente verosimile – quanto meno come spiegazione “ufficiale” fornita all’interno del sodalizio- e ben atto a fondarne la sua condanna a morte.

Di contro, rileva la Corte che poco interesse può avere, in questa sede, accertare se effettivamente l’uccisione del Generale sia stata determinata solo dal timore dei futuri pericoli che la sua azione avrebbe rappresentato per Cosa Nostra, ovvero se dietro a tale motivazione ufficiale vi fossero altre inconfessabili ragioni.

Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che al riguardo persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità colle quali il Generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza

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mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, forse negli anni in cui il sodalizio Cosa Nostra ha potuto esercitare nel modo più arrogante ed incontrastato l’assoluto dominio sul territorio siciliano183; sia la coesistenza di specifici interessi - anche all’interno delle istituzioni- all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del Generale.

In tal senso, non potendosi omettere che il programma d’intenti manifestato dal Generale, nel momento dell’accettazione dell’incarico (avuto particolare riguardo all’avviso – rivolto a quelle forze politiche che il DALLA CHIESA riteneva colluse alla mafia- che “non avrebbe guardato in faccia nessuno”); non poteva non suonare come un chiaro campanello d’allarme per chi all’epoca traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nello specifico mondo degli appalti.

Tuttavia, se pare appena possibile accennare in questa sede a tali argomenti184, reputa la Corte che ogni altra valutazione sarebbe ultronea rispetto al fine di questo processo e, non costituendo compito di questo giudice, non sarebbe opportuna, in quanto non utile ai fini della decisione. Peraltro, non va sottaciuto che anche gli altri collaboranti escussi nel corso del processo, CUCUZZA Salvatore e BRUSCA Giovanni, in particolare185, hanno indicato lo stesso movente riferito dall’ANZELMO

183 Al riguardo basterebbe ricordare come tra il 1980 ed il 1983, nella sola provincia di Palermo, non solo fossero stati commessi migliaia di omicidi, causati dalla guerra di mafia, ma fossero stati commessi omicidi di importanti rappresentanti delle istituzioni, quali il Presidente della Regione, il Procuratore della Repubblica di Palermo, l’On. Pio La Torre, il Giudice Chinnici, nonché ufficiali dei Carabinieri come il Cap. Basile e il Cap. D’Aleo.

Il tutto con una tracotanza ed una sicumera pari soltanto all’assoluta incapacità mostrata dallo Stato di individuare gli autori degli omicidi, coi metodi tradizionali.

In proposito, non va sottaciuto che fino al primo interrogatorio di Tommaso BUSCETTA, cioè sino all’autunno del 1984, ancora si parlava genericamente di “mafia”, di fatto sconoscendosi l’entità Cosa Nostra. 184 Si legga al riguardo anche quanto già rilevato dalla Corte di Assise di Palermo, nella sentenza contro ABBATE+459, in atti ai faldoni nnr. 11 e segg., pgg. 2401 e segg.., quando quel Giudice ha evidenziato “singolari coincidenze” in riferimento ora alle “lenzuola” , usate per coprire pietosamente i poveri corpi del Generale e della giovane moglie, prelevate “tempestivamente” dalla residenza dei due coniugi e mai più ritrovate; ora al mancato ritrovamento di documenti affidati dal Generale alla moglie perché quest’ultima li rendesse pubblici nel caso in cui il marito fosse morto; ora, al mancato ricordo dell’On. Andreotti di una frase riportata in una pagina del diario del Generale, ecc. 185 Cfr. – al faldone nr. 2, vol. 5, udienza del 4/4/01- le dichiarazioni rese da CUCUZZA Salvatore e da BRUSCA Giovanni .

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e dal GANCI, e cioè a dire il timore che il Generale, persona notoriamente integerrima ed inavvicinabile, in virtù della sua ben conosciuta abilità e determinazione, potesse costituire un formidabile avversario per Cosa Nostra. I suddetti collaboranti hanno anche confermato la matrice mafiosa e corleonese dell’eccidio, in particolare il CUCUZZA riferendo di avere ben compreso dalle allusioni del LUCCHESE che a commettere l’omicidio era stato il suo “gruppo di fuoco” – quello stesso, in sostanza, che aveva posto in essere qualche mese prima l’agguato ad Alfio FERLITO, determinando la c.d. strage della circonvallazione- e composto da gran parte degli elementi indicati da ANZELMO e GANCI; vale a dire gli stessi ANZELMO e GANCI, MADONIA Antonino, GRECO Scarpa, il LUCCHESE, GAMBINO Giacomo Giuseppe, ecc. Il BRUSCA, riferendo che di tale delitto, prima che venisse commesso si era parlato, in sua presenza, in diverse riunioni cui aveva preso parte il padre, Bernardo e RIINA Salvatore; ed aggiungendo che anche dopo l’agguato si era tornati sull’argomento, anche in presenza di MADONIA Antonino, quando si era stigmatizzato il comportamento di GRECO Scarpa che aveva, all’ultimo momento e senza preavviso, inserito un suo uomo (Pietro SALERNO) tra i componenti del commando omicida. E pare evidente che le dichiarazioni di entrambi i collaboranti forniscano un cospicuo supporto alle ben più dirette affermazioni degli odierni imputati-collaboranti GANCI ed ANZELMO. Inoltre, non va sottaciuto che sia il BRUSCA che il CUCUZZA hanno confermato l’impiego, come base operativa, del fondo GALATOLO in diversi altri episodi di sangue commessi, in quegli anni, dal gruppo di fuoco composto fra gli altri da MADONIA Antonino e da GRECO Scarpa. Segnatamente, specificando che tale fondo era stato utilizzato in precedenza per l’omicidio dell’On. Pio LA TORRE e successivamente per l’omicidio del dr. CHINNICI. In tal senso, dovendosi rimarcare che entrambi i suddetti collaboranti hanno confermato la totale quanto fattiva adesione di GALATOLO Vincenzo alle azioni omicida della cennata ala militare dei corleonesi e più, in generale, la partecipazione di tutti i soggetti indicati dagli odierni imputati GANCI ed ANZELMO, all’esecuzione di numerosi degli omicidi strategici approntati dal gruppo di fuoco

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corleonese, con specifico riferimento agli imputati MADONIA e GALATOLO, nonché ai vari GAMBINO Giacomo Giuseppe, GRECO Giuseppe Scarpa, LUCCHESE Giuseppe, SALERNO Pietro, CAROLLO Gaetano, GANCI Raffaele, ecc. Giova, ancora, rilevare che gli elementi di prova oggettiva forniscono ulteriori importanti elementi di riscontro alle dichiarazioni dei collaboranti. Così, avuto riguardo alle affermazioni di ANZELMO Francesco Paolo, pare evidente che i reperti balistici ed i rilievi tecnici186 confermino che l’Alfetta condotta dall’agente Domenico RUSSO ebbe ad essere fatta oggetto di colpi di kalshnicov solo dal lato destro (oltre, che dalla parte anteriore, dal parabrezza)187 ; ed ancora che nell’episodio non ebbero ad essere impiegate le altre armi a disposizione dei componenti dell’auto sulla quale esso ANZELMO si trovava. Mentre, i rilievi tecnici – soprattutto quelli eseguiti nella mattinata del giorno seguente all’eccidio188- dimostrano in tutta evidenza l’esattezza delle affermazioni di GANCI Calogero, avuto riguardo alla dinamica dell’assalto portato alla A 112 sulla quale si trovava il Generale DALLA CHIESA. Infatti, la circostanza che tracce dei colpi esplosi dal kalashnicov siano state trovate sul palazzo che costeggia la via Carini nel tratto compreso tra la piazza Nascè e l’incrocio colla via Ricasoli, nonché sui mezzi e sul furgone posteggiato sul lato destro della via Carini (di fronte ai civici 23 e 23/A189), in prossimità dell’incrocio anzidetto, comprova che colpi del cennato mitra ebbero ad essere esplosi, per qualche secondo, “da sinistra verso destra”, potendosi gli stessi giustificare,

186 cfr. rilievi tecnici eseguiti il 3 (ed il 4) settembre 1982, in atti al vol. 15, fald. 5. 187 cfr. al faldone nr. 3, vol. 8, le risultanze della consulenza tecnica prodotta dal P.M. col consenso delle Difese, acquisita all’udienza del 31 maggio 2001, redatta dal Dott. Carlo BUI Direttore dell’Unità di Analisi del crimine violento della Direzione Centrale della Polizia Criminale – Servizio Polizia Scientifica; e dall’Isp. Domenico Notarstefano; pgg. 54 e segg. nonché fotografie riguardanti l’Alfetta ed i colpi che l’hanno attraversata. 188 Cfr. faldone 5, vol. 15, pgg. 15 e segg. dei suddetti rilievi. Cfr. anche a pag. 30 della consulenza redatta dal Dott. BUI e dall’Isp. NOTARSTEFANO (al faldone 5, vol. 8) 189 Cfr. faldone 5, vol. 15, pg. 17 e segg. dei suddetti rilievi. Le tracce di esiti di proiettili sul furgone si rappresentano particolarmente significative come evidenziato dai testi BUI e NOTARSTEFANO, nonché dalle suddetta consulenza dai medesimi redatta ed acquisita all’udienza del 31 maggio 2001, in quanto consentono di individuare con esattezza il punto d’origine del colpo d’arma da fuoco e la sua direzione, confermando appieno la versione resa dal GANCI.

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quindi, solo con un attacco portato da un killer che si trovava a sinistra rispetto all’auto sulla quale si trovava il generale. Proprio come indicato dal GANCI. Né, al riguardo, può sostenersi che l’imputato abbia potuto fornire la versione anzidetta rifacendosi a risultanze processuali (del maxi processo) ovvero a quanto riprodotto dalle fonti giornalistico-televisive o dal film. Invero, sia processualmente, sia mediaticamente, si era sempre ipotizzato che l’attacco fosse stato condotto da persone a bordo di un veicolo (ora una moto, ora un’auto) che aveva affiancato dal lato destro l’auto del Generale190. Tant’è vero che, per come è dato evincere dalla ricostruzione operata dal G.I. del maxi processo di Palermo, anche a tal fine sopra riportata al paragrafo 1, per giustificare le tracce dei colpi che avevano attinto la A 112 , si era dovuto ipotizzare che uno dei killers fosse disceso dal proprio mezzo ed accostandosi all’auto del generale oramai ferma, si fosse portato sul lato sinistro della stessa (ove si trovava la povera SETTI CARRARO) e da lì avesse esploso altri colpi all’indirizzo dei coniugi DALLA CHIESA. Dovendosi, al riguardo, osservare che la tesi come sopra ipotizzata non può non apparire poco logica, non comprendendosi perché il killer avrebbe dovuto perdere tempo per raggiungere il lato sinistro dell’auto, per di più vedendo che il Generale, che chiaramente costituiva l’obbiettivo dell’agguato, si trovava sul lato destro. Peraltro, come cennato la ricostruzione operata da quel G.I. non poteva giustificare le tracce dei colpi che avevano attinto il palazzo ed il furgone che si trovavano sul lato destro della via Carini. Ancora, non va sottaciuto che gli accertamenti disposti da questo Giudice hanno, in buona sostanza, asseverato la possibilità che l’auto condotta dal GANCI potesse inseguire, raggiungere ed affiancare l’auto condotta dalla SETTI CARRARO nel tratto stradale insistente tra la piazza Nascè e la via Carini, in prossimità dell’incrocio con via Ricasoli. Al riguardo, i consulenti escussi al dibattimento hanno affermato che tale manovra sarebbe stata possibile – in considerazione delle distanze, dell’accelerazione del mezzo condotto dal GANCI, e della 190 Solo, per ragioni di completezza va anche rimarcato come la dinamica dell’azione criminosa ricostruita nel film fosse assolutamente diversa, rappresentando che l’attacco fosse stato effettuato in primis contro l’auto di scorta e che la A 112 fosse stata inizialmente colpita dai killers che si trovavano a bordo della motocicletta.

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posizione delle auto al momento del passaggio della vettura sulla quale si trovava il Generale – anche se la A 112 fosse passata ad una velocità tra i 50 ed i 60 kmh. In proposito, dovendosi rammentare che secondo le versioni del GANCI e dell’ANZELMO le autovetture delle vittime sfilarono ad una velocità normale, <<da città>> e, quindi, ad una velocità sicuramente molto modesta, verosimilmente non superiore ai 40 kmh, come anche testimoniato : dalla modestissima velocità colla quale (pur senza più alcun controllo) l’auto ebbe ad arrestarsi impattando con un’auto (una Fiat Ritmo) posteggiata sul lato sinistro della via Carini; dall’assenza di tracce di frenata; nonché dalla considerazione che la povera SETTI CARRARO solo da poco era a Palermo per cui è logico pensare che guidasse con particolare cautela (in altre parole, che procedesse molto lentamente) e che probabilmente, avvicinandosi all’incrocio colla via Ricasoli, stesse anche rallentando.

Per cui nessun dubbio può insistere sulla possibilità da parte del GANCI di raggiungere senza difficoltà l’auto delle vittime, così come dal medesimo asserito. Del resto, va rimarcato che, poiché si ignora l’esatta velocità colla quale la A 112 ebbe a transitare, pare evidente che non è tale dato che può condizionare la ricostruzione delle modalità dell’omicidio.

Viceversa, è la velocità dell’auto che va desunta dagli altri dati costituiti, sia dalla posizione delle auto degli assassini, quale si ricava dalle concordi affermazioni del GANCI e dell’ANZELMO; sia dalle tracce di colpi di kalashnicov rinvenuti sull’edificio della via Carini (a partire dal civico nr. 15) , in prossimità dell’incrocio colla via Ricasoli.

In tal senso, considerato anche che il GANCI ha sostenuto di non

avere avuto necessità di accelerare bruscamente per raggiungere la A112, può ragionevolmente ritenersi che l’auto condotta dalla SETTI CARRARO stesse procedendo ad una velocità non superiore ai 40 kmh.

Sempre in relazione ai dati oggettivi che supportano le

affermazioni del GANCI, va poi sottolineato come lo stesso, esattamente, abbia posizionato il momento iniziale dell’agguato (vale a dire il momento in cui il MADONIA aveva cominciato a sparare) nella via Carini, poco prima dell’incrocio colla via Ricasoli; ciò essendo

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chiaramente dimostrato dagli esiti dei colpi di kalashnicov rinvenuti sull’edificio sito sul lato destro prima del citato incrocio.

Ed, in tale direzione, anche l’assunto del GANCI, per il quale il

MADONIA “aveva sparato anche all’indietro” (vale a dire una volta superata l’auto del Generale), trova precipua conferma nelle tracce dei colpi di kalashnicov rinvenuti (anche) sulla parte sinistra del parabrezza della A 112191.

191 Cfr. – al faldone nr. 5 vol. 15- tra le fotografie allegate ai rilievi tecnici la foto nr. 7.

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§ - 8) I rilievi e le perplessità sollevati in merito alla convergenza delle dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo con quelle di GANCI Calogero

La sostanziale coincidenza delle dichiarazioni di GANCI e di ANZELMO sulla vicenda riguardante l’omicidio del Generale DALLA CHIESA ed i riscontri costituiti dalle risultanze sopra richiamate, permette a parere di questa Corte, in primo luogo, di affermare con assoluta certezza la partecipazione di entrambi all’omicidio in trattazione e, di conseguenza, in astratto, la loro idoneità a riferire con esattezza le modalità del delitto e gli autori.

Ribadito, infatti, che non pare assolutamente possibile che i due abbiano potuto raccontare la vicenda dell’omicidio del Generale DALLA CHIESA in modo così convergente, avuto riguardo soprattutto agli aspetti essenziali del racconto, se non l’avessero effettivamente vissuta (ovvero, se non avessero avuto modo di concertarla, ma tale ultima eventualità è da ritenersi esclusa, per le considerazioni sopra svolte) ; rimane da esaminare gli elementi di difformità che nelle propalazioni dei due collaboranti indubbiamente insistono e che, non disconosciuti dalla pubblica accusa, sono stati correttamente posti in risalto dalla Difesa.

Tuttavia, nell’accingersi ad esaminare tali difformità, converrà rimarcare che tale disanima dovrà esclusivamente mirare a trovare una risposta alle seguenti domande : << le difformità tra le due propalazioni consentono di sostenere che entrambi i due collaboranti non hanno partecipato all’omicidio del Generale DALLA CHIESA ?>>; ovvero, <<consentono di sostenere che anche uno solo dei due non abbia partecipato?>>.

Invero, solo, se attraverso le difformità, si perverrà a poter

dubitare della loro presenza (di entrambi o anche di uno solo dei due) sul luogo dell’omicidio (giungendo, coerentemente, a sostenere che gli stessi GANCI e ANZELMO dovrebbero essere assolti dagli omicidi in trattazione) si potrà anche affermare che –non essendo stati presenti- non sono stati in grado di vedere, constatare, osservare chi avesse preso parte ai delitti in trattazione.

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In altri termini, l’esistenza di discrepanze nelle propalazioni sul

fatto (a meno di essere talmente gravi da poter essere spiegate solo con una grave deficienza psichica o mnemonica) o refluisce nel senso di escludere la presenza del collaborante al fatto medesimo (influendo, di riflesso sulla credibilità della chiamata non più effettuata su diretta constatazione degli eventi), oppure non può minimamente influire sull’attendibilità della “chiamata” di correo.

Dovendo, in tale ultimo caso, la suddetta difformità necessariamente attribuirsi ad altri fattori (quali la scarsa attenzione a determinati dettagli, la diversa posizione assunta durante il verificarsi del fatto, la concitazione del momento, il diverso modo di reagire agli eventi, la minore attitudine al ricordo, ecc.).

§ - 8.1) Gli aspetti di illogicità nella versione accusatoria rilevati dalla Difesa degli imputati.

Va, ancora, osservato come la Difesa degli imputati MADONIA e

GALATOLO abbia sostenuto che la versione dei fatti resa dal GANCI e dall’ANZELMO sia sostanzialmente illogica e non compatibile con altri elementi emergenti dal processo.

In particolare, si è affermato che “non è compatibile colla loro asserita presenza sui luoghi il fatto che non siano stati in condizione di specificare su quale auto ciascuno di loro si trovasse nel momento in cui l’omicidio venne commesso”.

Pare evidente come tale assunto non possa essere condiviso. E’ vero che né il GANCI né l’ANZELMO hanno saputo indicare su quali auto si fossero trovati durante l’eccidio, entrambi parlando di auto a quattro sportelli di grossa cilindrata e che, solo in forza di deduzioni, l’ANZELMO, è pervenuto a riferire che l’auto sulla quale si trovava il GANCI doveva essere la BMW192.

192 Incidentalmente, va rilevato che secondo la Corte, la deduzione dell’ANZELMO –basata sul ritrovamento a bordo della BMW di bossoli esplosi dal kalashnicov di MADONIA Antonino- si appalesa assolutamente condivisibile. Tra l’altro, il fatto che l’equipaggio costituito da GANCI e da MADONIA si trovasse sulla BMW, mentre l’ANZELMO con GAMBINO Giacomo Giuseppe e con MARCHESE Antonino si trovasse a bordo della 132, è avvalorato dalla circostanza che le due auto sono state trovate l’una dietro l’altra (la 132 dietro la BMW) nella stradina dove sono state rinvenute incendiate, sembrando logico –date anche le dimensioni della stradina- che siano state parcheggiate in base all’ordine col quale sono arrivate; vale a dire, come riferito concordemente da entrambi i

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Tuttavia, la “lacuna” dei collaboranti è giustificata ampiamente dal lungo lasso di tempo trascorso e dal fatto che, soprattutto in quegli anni, entrambi avevano partecipato a numerosissimi fatti di sangue nei quali erano state impiegate auto di ogni tipo e foggia, di guisa che pare evidente che la mancata indicazione sottolineata dalla Difesa appare tutt’altro che significativa.

Anzi, testimonia, ancora una volta, la genuinità delle propalazioni dei due collaboranti che sicuramente, ove avessero voluto, avrebbero potuto attingere il dato sulle auto usate dai killers nell’eccidio in questione, dalle risultanze rassegnate nel maxi processo di Palermo (ovvero, finanche, dal film girato sulla morte del Generale).

La difesa del MADONIA ha poi sostenuto “che non era possibile che si trattasse di un delitto di mafia, atteso che il Gen. DALLA CHIESA ancora non aveva fatto niente contro Cosa Nostra: <<non faceva paura a nessuno>>”; arrivando a sostenere che le auto incendiate non sarebbero state quelle usate per l’agguato e che sarebbero state approntate –coi bossoli al loro interno- solo per sviare le indagini.

La tesi pare del tutto priva di fondamento. Se, invero, come già rimarcato residua il sospetto che l’omicidio

del Generale fosse stato determinato anche da ragioni diverse da quelle legate alla criminalità mafiosa, non pare in alcun modo dubitabile che l’eccidio in trattazione debba essere ascritto al sodalizio mafioso di Cosa Nostra e, segnatamente, alla fazione c.d. corleonese193.

collaboranti, prima l’auto del GANCI (la BMW) e poi a seguire quella dell’ANZELMO (la 132).Cfr. in proposito le foto allegate ai rilievi tecnici. 193 Cfr. ai faldoni 11 e segg. la sentenza della Corte di Assise di Palermo del 16/12/1987 contro ABBATE+459 alle pg. 2341 e segg. In particolare alle pg. 2399 e segg. , a proposito del “movente”, tra l’altro si legge : <<Certamente, all’uccisione del Generale DALLA CHIESA, insieme col quale fu sacrificata la vita anche della giovane moglie e dell’autista Russo, contribuirono fattori di versi e concomitanze d’interessi. Ma la matrice mafiosa del delitto è di stampo inequivocabile. Peraltro, a prescindere dai risultati della generica …non è da dimenticare la scossa frenetica che egli iniziò a dare ad un ambiente sonnolento, rendendosi protagonista d’incontri, d’interviste, di dichiarazioni pubbliche, di proclamazioni d’intenti, d’indicazioni puntuali, che miravano a risvegliar l’interesse generale su un problema che mostrava tutto il suo drammatico peso nella vita dell’intera Nazione. E’, quindi, innegabile che su di lui conversero i fari dell’attenzione isolana e nazionale. A lui furono anche attribuite erroneamente iniziative giudiziarie (come il rapporto dei 161) e di lui si temevano gli sconfinamenti territoriali in direzioni (come quelle di Catania) verso le quali certamente l’attenzione del Prefetto si era orientata e soffermata. Ciò – anche per il pericolo che se ne subisse il fascino, e che esso sovrastasse quello che la mafia derivava dalla sua potenza economica in uno coi suoi messaggi di morte – determinò vivo allarme in seno alla criminalità organizzata e ne danno credibile testimonianza gli echi raccolti nelle carceri da imputati dichiaranti. Se si riflette che la cosca di Corso dei Mille fu mobilitata dal suo capo (ma per ordine certamente venuto da più in alto) al fine di pedinare i movimenti del DALLA CHIESA, impiegando ROTOLO....se si riflette sulle confidenze del FIDANZATI all’INCARNATO ed al RICCIO sulla prossima fine del generale, si ha chiaro il quadro

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Ciò è stato già appurato dal c.d. maxi processo uno di Palermo e trova nel presente processo ampi quanto esaustivi elementi di conferma nelle convergenti dichiarazioni sia degli odierni imputati collaboranti, sia dei collaboranti (BRUSCA, CUCUZZA ed ONORATO) escussi durante il processo.

Del resto, gli esiti della perizia balistica effettuata sui bossoli rinvenuti in occasione dell’eccidio del Generale, nonché in occasione di altri delitti chiaramente ascrivibili ai corleonesi (omicidi BONTATE, INZERILLO, strage della circonvallazione, tentato omicidio CONTORNO e danneggiamento della gioielleria CONTINO), comprovano in modo assolutamente chiaro la partecipazione dei corleonesi all’agguato in trattazione.

Ed, in tal senso, quasi risibile appare l’ipotesi per la quale le auto usate per l’agguato non sarebbero state quelle rinvenute incendiate la sera del 3 settembre 1982, che sarebbero state invece usate solo per fare da “specchio per le allodole” e depistare le indagini orientandole verso Cosa Nostra.

Invero, se così fosse, sarebbe assolutamente inspiegabile il ritrovamento all’interno della BMW incendiata di bossoli esplosi dalla stessa arma usata (non solo per l’omicidio del Generale, ma anche) per gli omicidi BONTATE, INZERILLO ecc.

A meno di non dovere ascrivere – secondo la tesi difensiva- anche tali omicidi ad altri soggetti o ad altri poteri, non meglio individuati, e non invece ai corleonesi come asseverato da tutti i collaboranti esaminati, dalle sentenze passate in giudicato in atti, nonché dalla logica. Secondo la Difesa del MADONIA, poi, la partecipazione del GANCI e dell’ANZELMO all’omicidio del Generale DALLA CHIESA, dovrebbe escludersi perché all’eccidio – per quanto emerge dalle testimonianze raccolte nell’immediatezza dell’evento- avrebbero partecipato almeno due motociclette ed il fatto che i due collaboranti ne abbiano indicato una soltanto dimostrerebbe che non hanno preso parte al delitto. In verità, il sospetto che all’omicidio abbiano partecipato più motoveicoli sembrerebbe trovare conferma, oltre che nelle deposizioni del teste CASERTA Nicolò (sinteticamente riportate al § 1) anche nelle dichiarazioni sul punto un po’ confuse e contrastanti riportate dal GANCI e dall’ANZELMO avuto riguardo al pilota del motoveicolo, ai

di una congiura ordita al fine di sopprimere questa minaccia gravissima ai loschi traffici, fiorenti per intensità e profitti, che l’organizzazione “cosa nostra” ordiva in Italia ed all’estero.>>

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movimenti effettuati dalla motocicletta sulla quale si trovava il “GRECO Scarpa”, nonché sul sistema di comunicazione adottato dai killers per sapere quando il Generale sarebbe transitato. Infatti, il GANCI ha ricordato che il conducente della moto era SALERNO Pietro; che la motocicletta era stata parcata vicino all’autovettura da esso condotta e si era mossa solo quando era arrivata la notizia che le vittime stavano per passare; ed ancora che il MADONIA aveva appreso – mediante rice trasmittente- verosimilmente da LUCCHESE Giuseppe e da chi sorvegliava i movimenti del Generale che lo stesso stava per arrivare. Mentre, l’ANZELMO ha rammentato che a condurre la motocicletta era il LUCCHESE; che la motocicletta faceva la spola tra la Prefettura e la Piazza Nascè; e che verosimilmente era stato proprio attraverso le indicazioni dei motociclisti che il MADONIA aveva appreso che stava per arrivare il Generale. Alla luce di tali contrasti, sembrerebbe in sostanza ben possibile che – stante anche il lungo lasso di tempo trascorso ed il ruolo sostanzialmente secondario svolto dal GANCI e dall’ANZELMO che non avevano avuto modo di apprendere tutte le modalità operative dell’agguato- all’eccidio avessero preso parte (almeno) due motociclette pilotate l’una dal LUCCHESE e l’altra dal SALERNO: una montata da chi aveva avuto l’incarico di sorvegliare i movimenti del Generale ed avvisare tempestivamente i killers in agguato; l’altra, con a bordo GRECO Giuseppe Scarpa, che aveva avuto il compito di partecipare all’esecuzione dell’omicidio e che, per tale motivo, era stata tenuta parcheggiata sino all’arrivo delle vittime. Il tutto non escludendo che le modalità di comunicazione tra i killers che sorvegliavano il Generale ed il commando in agguato potessero essere rafforzate anche dal collegamento attraverso <<rice trasmittenti>>. In sostanza, la mancata conoscenza –da parte del GANCI e dell’ANZELMO- della globalità del piano approntato (dal MADONIA, dal GRECO e dal GAMBINO) per l’omicidio, esclude che la parzialità del ricordo possa risolversi in una prova dimostrativa della loro assenza dal luogo del delitto; mentre, la diversa posizione dei due collaboranti, la concitazione di quei momenti, e la loro concentrazione solo sui movimenti che essi, da lì a poco, avrebbero dovuto porre in essere, giustifica ampiamente, insieme al lungo lasso di tempo trascorso, le disarmonie insistenti fra i due racconti.

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Sempre secondo il difensore del MADONIA, il racconto dei collaboranti (ed in particolare quello dell’ANZELMO) sarebbe privo di logicità in quanto non sarebbe stato possibile che l’equipaggio a bordo della motocicletta, che doveva sorvegliare i movimenti del Generale ed avvisare che il medesimo stava arrivando, potesse effettivamente farlo in tempo utile, posto che la distanza tra la Prefettura e piazza Nascè è modesta, vale a dire di appena 800 mt..

Anche tale assunto difensivo non pare particolarmente pregnante. Da una parte, infatti, risulterebbe l’impiego (affermato dal GANCI e non escluso dall’ANZELMO) di strumenti di comunicazione alternativi (le ricetrasmittenti), utilizzati da quel gruppo di fuoco anche in altre occasioni.

Dall’altra, è proprio l’abilità di motociclista concordemente attribuita al LUCCHESE che rende verosimile che lo stesso potesse precedere il mezzo condotto (peraltro lentamente) dalla SETTI CARRARO, per avvisare tempestivamente i killers in attesa.

La Difesa del MADONIA, inoltre, come già anticipato, ha sostenuto l’impossibilità che il GANCI potesse effettuare la manovra descritta per affiancare l’auto del Generale; sottolineando che, muovendosi dalla parte centrale del piazzale Nascè ove si era posizionata la sua auto, non avrebbe potuto raggiungere la A112 nel luogo ove risulta che sia cominciato l’agguato, vale a dire prima dell’incrocio colla via Ricasoli (all’altezza del civico 15 della Via Carini).

Si è già detto come – a parere della Corte- le risultanze processuali dimostrino la realizzabilità della manovra nei tempi e negli spazi indicati dal GANCI, anche considerando una velocità della A 112 condotta dal Generale pari a 50 kmh194.

Va qui, solo, rimarcato che, molto probabilmente, per le considerazioni dianzi descritte la velocità della A 112 era ancora minore, verosimilmente non superiore ai 40 kmh e che quasi sicuramente l’auto doveva essere in fase di rallentamento, stante l’approssimarsi dell’incrocio.

In ogni caso, è evidente che quello della velocità tenuta dalla A 112 è un dato assolutamente insicuro, sul quale conseguentemente non può utilmente basarsi alcuna tesi, né a sostegno dell’accusa, né a confutazione della medesima.

194 Cfr. esami dei testi BUI e NOTARSTEFANO; la relazione di consulenza integrativa depositata dal teste BUI all’udienza del 20 novembre 2001; nonché gli esiti della perizia redatta dall’Arch.PULEO e depositata il 18 gennaio 2002.

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Sempre la Difesa del MADONIA ha rilevato l’illogicità della versione dei collaboranti sul punto relativo al fatto che il gruppo di fuoco si fosse tenuto pronto per tutto il periodo indicato dai collaboranti (una ventina di giorni prima del delitto) posto che il Generale in quel periodo era in ferie o comunque fuori sede.

Anche tale censura pare di scarso rilievo. Infatti, da una parte risulta che in quel periodo in Generale, nonostante fosse in ferie (dal 9 agosto), fosse rientrato a Palermo qualche giorno prima dell’omicidio (segnatamente, l’1 settembre), e si fosse recato quello stesso giorno ed i giorni seguenti in Prefettura195.

Dall’altra, è proprio l’incertezza sulla presenza della vittima che assevera la necessità – per chi ha intenzioni omicide- di tenere costantemente pronto il gruppo dei killers.

Se, invero, gli assassini avessero saputo con esattezza quando sferrare l’agguato, non avrebbero avuto la necessità di tenersi sempre pronti; di guisa che, la discontinua presenza del Generale in quel periodo, sottolineata dalla Difesa, a parere della Corte, fornisce un ulteriore riprova della logicità del racconto dei collaboranti.

Al riguardo, non può inoltre sottacersi che pare ben probabile che i corleonesi, anche ammesso che sapessero che il Generale fosse andato in ferie, non fossero informati sulla durata del periodo di riposo concessosi dal Prefetto.

Finalmente, la Difesa ha sostenuto l’inverosimiglianza della versione offerta dai collaboranti nella parte in cui gli stessi hanno affermato che per prima sarebbe stata attaccata l’auto del generale; ciò in quanto in questo caso l’agente RUSSO avrebbe avuto il tempo di replicare colla sua pistola.

Neppure tale assunto può essere condiviso. Intanto, dalla versione dei collaboranti risulta che l’attacco ai due

mezzi fu presso che simultaneo anche se portato un attimo prima all’auto condotta dalla SETTI CARRARO.

Peraltro, il posto ove venne rinvenuta la pistola dell’Agente RUSSO – vale a dire tra i due sedili anteriori e, quindi, a portata di mano del povero agente- ed il fatto che la stessa arma venne trovata colla parte inferiore del calcio danneggiata da un colpo d’arma da fuoco196 non 195 Cfr. al faldone nr. 6. Fald. 17. Il rapporto preliminare redatto congiuntamente dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo CC. in data 12/9/82, pg. 27 segg. dichiarazioni di OROFINO Vincenza. 196 Cfr. al faldone nr. 6. Fald. 17. Il rapporto preliminare redatto congiuntamente dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo CC. in data 12/9/82.

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esclude che il medesimo avesse avuto il tempo di vedere che l’auto che lo precedeva era stata attaccata e di impugnare l’arma197; cosa che invece non avrebbe di certo potuto fare se l’agguato avesse avuto esso agente come primo bersaglio.

* * *

§ 8.2 ) le divergenze riscontrate tra le dichiarazioni di

ANZELMO Francesco Paolo e quelle di GANCI Calogero. I contrasti con altre emergenze processuali.

Pare, ancora, opportuno soffermarsi sulle divergenze

indubbiamente insistenti tra le dichiarazioni dei due collaboranti, al fine di verificare se possano avere una tale pregnanza da indurre, anche solo, a sospettare che i due abbiano riferito un episodio al quale non fossero stati presenti.

La prima attiene al tentativo operato prima dell’omicidio. Infatti, mentre il GANCI ha affermato che era stato progettato ma

non attuato un agguato in via Libertà coll’ausilio di un mezzo pesante, l’ANZELMO ha riferito che un primo tentativo (subito abbandonato perché troppo rischioso) era stato effettuato nella citata via Libertà, specificando che sul posto si erano recati gli stessi mezzi e gli stessi uomini che poi avevano posto in essere l’omicidio.

Orbene, la difformità delle due versioni è stata di fatto spiegata dagli esiti del confronto disposto da questa Corte. E’ risultato, infatti,198 che anche il GANCI sapeva che un altro tentativo era stato effettuato, ma in un’occasione in cui il medesimo GANCI non vi aveva potuto partecipare.

Pertanto, la divergenza tra le due versioni - tenuto soprattutto conto del fatto che si trattò, comunque, di un tentativo che si tradusse in un mero e temporaneo appostamento in attesa del passaggio della vittima e che, per ciò stesso, non dovette scolpirsi nella memoria dei protagonisti- non pare assolutamente conducente ai fini voluti dalla 197 Cfr. anche a pg. 74 della consulenza redatta dal dott. BUI e dall’ispettore NOTARSTEFANO da cui risulta anche che il RUSSO venne attinto al braccio e che probabilmente dovette essere lo stesso proiettile a colpire sia il RUSSO che l’arma che l’agente aveva in dotazione. 198 Cfr. al faldone nr. 3, vol. 10, udienza dell’1/12/2001.

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difesa e cioè allo scopo di escludere la partecipazione del GANCI e dell’ANZELMO all’omicidio.

Piuttosto, e sembra doveroso segnalarlo, denota un cattivo ricordo dell’ANZELMO sulla presenza (anche in quel “tentativo”) di GANCI Calogero.

E -per quanto, il suddetto errato ricordo, appaia ben giustificato dal lungo lasso di tempo trascorso (quasi vent’anni); dalla scarsa rilevanza del tentativo in sé; e dal fatto che il GANCI aveva partecipato alle riunioni quotidiane nel fondo GALATOLO e poi all’esecuzione dell’eccidio- il fatto che il GANCI abbia escluso di avervi preso parte non può non incidere sul giudizio di attendibilità dell’ANZELMO inducendo a richiedere come riscontro allo specifico episodio in questione, elementi estrinseci individualizzanti direttamente afferenti al fatto in dimostrazione.

La Difesa del MADONIA ha inoltre evidenziato come le

dichiarazioni del GANCI e dell’ANZELMO differiscano sia sul luogo ov’erano custoditi mezzi ed armi usati per l’agguato (indicando il GANCI un garage nella disponibilità del MADONIA e l’ANZELMO lo stesso fondo GALATOLO) ; sia sulle modalità colle quali le auto dei killers vennero disposte in piazza Nascè (parallelamente rispetto alla strada secondo l’ANZELMO ; perpendicolarmente secondo il GANCI) ; sia ancora sul fatto che gli equipaggi dei killers ebbero a scendere dalle auto durante l’attesa ; ed infine sul percorso fatto al ritorno e sull’incendio delle auto.

Trattasi, in tutta evidenza di circostanze di infimo spessore (certamente non significative della mancata partecipazione all’omicidio di uno o di entrambi i collaboranti) chiaramente spiegabili col lunghissimo lasso di tempo trascorso, ovvero colla diversa posizione prospettica assunta dai collaboranti nella vicenda.

In particolare, merita solo rammentare che durante il confronto è emerso che l’esigenza di scendere dall’auto “sporca” fu determinata solamente dall’occasionale momentaneo intervento di una volante di polizia e che a scendere dal mezzo da usare per l’agguato ed a salire sulle auto pulite furono soltanto il GANCI ed il MADONIA, mentre l’ANZELMO ed i suoi compagni erano rimasti a bordo dell’auto.

Sopra si è già evidenziato come la difformità sulle modalità colle

quali i killers vennero a sapere dell’arrivo del Generale – vale a dire se

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mediante l’uso di ricetrasmittenti ovvero in virtù della spola operata dall’equipaggio della motocicletta- possa chiaramente giustificarsi o coll’inesatto ricordo di uno dei collaboranti (dovuto evidentemente al lungo lasso di tempo trascorso ed assolutamente non incidente sul contenuto essenziale del racconto); ovvero, col fatto che entrambi i sistemi fossero stati adoperati nell’occasione e che il GANCI e l’ANZELMO avessero posto attenzione e rammentato uno solo di essi.

Tanto più, che come si è detto il ruolo secondario dai medesimi svolto li esonerava dal conoscere tutte le modalità dell’azione criminale.

Secondo il difensore del MADONIA la versione dei collaboranti

differirebbe anche in relazione all’uso di fucili a pompa nell’agguato, asserita dal GANCI e negata dall’ANZELMO.

Si tratta, per la verità, di una contraddizione solo apparente. Invero, entrambi i collaboranti hanno riferito che i fucili a pompa erano in dotazione solo nell’auto sulla quale si trovava l’ANZELMO ed il GANCI si è limitato a dire che egli “dietro di sé”, mentre si allontanava col proprio veicolo, aveva udito degli spari che gli erano sembrati provenire sia dal kalashnicov (che aveva il GRECO) sia dai fucili a pompa.

Di guisa che, considerata la concitazione di quei momenti (caratterizzati dagli spari esplosi col kalashnicov a bordo dell’auto condotta dal GANCI; dagli spari del kalashnicov del GRECO; dal rumore delle auto del Generale e dell’Ag. RUSSO che erano andate a sbattere contro le auto in sosta), pare ben possibile argomentare che il GANCI avesse, si, erroneamente, ma giustificatamente, pensato di udire anche colpi di fucile, che -come correttamente sostenuto dall’ANZELMO e rimarcato dagli esiti dei rilievi tecnici- nell’occasione non vennero esplosi.

Sicuramente più significative sono apparse le difformità tra le

versioni rese dall’ANZELMO e dal GANCI avuto riguardo ai soggetti che avevano a loro dire composto l’equipaggio della motocicletta sulla quale si trovava GRECO Scarpa, nonché l’equipaggio dell’auto sulla quale si trovava l’ANZELMO .

Infatti, come già cennato, secondo il GANCI a guidare la moto sarebbe stato SALERNO Pietro e non LUCCHESE Giuseppe come invece riferito dall’ANZELMO; mentre sull’auto sulla quale si trova quest’ultimo, secondo il GANCI oltre al GAMBINO vi sarebbe stato

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ROTOLO Antonino, mentre secondo l’ANZELMO (oltre al GAMBINO), MARCHESE Antonino.

Si tratta di indicazioni che, a ben vedere, non incidono sulla generale credibilità del narrato di entrambi, in quanto il lungo lasso di tempo trascorso, e la sicura partecipazione di tutti i soggetti indicati (dal SALERNO al LUCCHESE; dal MARCHESE Antonino al ROTOLO Antonino) ad altri efferati episodi criminosi commessi dai corleonesi in quegli anni giustificano ampiamente la possibilità dell’errore.

Tanto più, che, almeno in ordine alla partecipazione del LUCCHESE, prescindendo dal ruolo svolto nell’agguato, convergono le dichiarazioni di entrambi i collaboranti, nonché quelle di CUCUZZA Salvatore.

Mentre, in relazione alla partecipazione del SALERNO all’agguato alla guida del motoveicolo, le indicazioni del GANCI appaiono supportate da quelle –ancorchè de relato- del BRUSCA, che ha sostenuto come la presenza imprevista dal SALERNO, imposta dal GRECO Scarpa, fosse stata aspramente stigmatizzata dai vertici del sodalizio corleonese.

Il tutto lasciando ritenere come assolutamente verosimile che all’agguato avessero partecipato sia il LUCCHESE che il SALERNO e che -dati i ruoli diversi svolti dagli odierni collaboranti, la concitazione del momento, l’alternarsi delle motociclette nella zona del delitto, e l’ignoranza del piano messo a punto dal MADONIA, dal GRECO e dal GAMBINO- né il GANCI, né l’ANZELMO si fossero resi conto che più equipaggi di motociclette avevano cooperato alla riuscita dell’eccidio.

Peraltro, avuto riguardo all’indicazione del terzo soggetto che componeva l’auto dell’ANZELMO, va rilevato che l’individuazione operata da quest’ultimo (nella persona del MARCHESE Antonino) deve ritenersi – come del resto ammesso dallo stesso GANCI- più attendibile.

Ciò, non solo perché l’ANZELMO si trovava proprio sull’auto condotta da questo terzo soggetto (in tesi, il MARCHESE) e, quindi, meglio del GANCI poteva sapere chi fosse a condurre l’automezzo in questione; ma altresì in quanto l’ANZELMO ha riferito di avere commesso insieme al MARCHESE (come fatto eclatante) solo l’omicidio del Gen. DALLA CHIESA, di tal che era stato in grado di memorizzare con maggiore sicurezza la circostanza.

In tal senso, non va sottaciuto che mentre l’ANZELMO si è mostrato assolutamente certo dell’individuazione nel MARCHESE della terza persona che componeva il suo equipaggio; il GANCI ha affermato

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di non essere del tutto sicuro che tale terzo componente si dovesse identificare nel ROTOLO Antonino.

Al riguardo, va tuttavia precisato che se è possibile con certezza affermare che sul punto anzi specificato qualcuno degli odierni collaboranti è incorso in errore, non pare possibile con pari certezza individuare chi dei due abbia errato.

Inoltre, se -come già affermato- le suddette erronee indicazioni non modificano sensibilmente il quadro di attendibilità complessiva superiormente rappresentato, non incidendo sul convincimento relativo alla partecipazione di entrambi i collaboranti all’eccidio, né sulla loro capacità a riferire con sostanziale esattezza sulle modalità del delitto e sugli autori del medesimo; non può non rassegnarsi che il decorso del tempo e la partecipazione di tutti i soggetti indicati a numerosissimi altri fatti omicidiari hanno, sia pure in minima misura, temperato la precisione dei due collaboranti.

Derivandone la necessità di ricercare, a conferma della loro credibilità (in merito alle singole chiamate di correo), riscontri di tipo “individualizzante ed afferenti direttamente al fatto in dimostrazione”.

Altro argomento sostenuto dalla Difesa del MADONIA per

argomentare la mancata partecipazione dei collaboranti ANZELMO e GANCI all’eccidio in questione e, quindi, per argomentare la loro incapacità a riferire quanto avvenuto e gli autori del delitto, è quello relativo alle differenti modalità colle quali l’attacco criminale sarebbe stato portato all’auto del Generale, se cioè da destra, come asserito dall’ANZELMO, ovvero da sinistra, come indicato dal GANCI.

Non può sottacersi che la difformità, prima facie, si appalesa particolarmente inquietante.

Invero, pare piuttosto difficile ritenere che il semplice decorso del tempo (pur trattandosi di quasi vent’anni) possa influire sì tanto da modificare il ricordo di una manovra così macroscopica come quella effettuata per affiancare le vittime e per consentire al MADONIA di sparare contro di esse.

Ed è per tale motivo che la Corte ha insistito particolarmente nell’esame dei due collaboranti per comprendere se la discrasia dipendesse dalla mancata partecipazione di uno dei due collaboranti all’eccidio o da altro.

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Sul punto, reputa questo Giudice che sia stato estremamente significativo ed utile il confronto disposto tra i due collaboranti199.

Intanto, va ribadito che non vi possono essere dubbi sul fatto che la versione, senz’altro, più corretta sia quella offerta da GANCI Calogero.

Ciò, non solo, perché il GANCI si trovava alla guida dell’auto che iniziò l’assalto a quella del Generale, per cui è verosimile che meglio di chiunque altro il suddetto collaborante avesse memorizzato le fasi dell’agguato, quanto meno avuto riguardo alla manovra da esso stesso effettuata.

Ma, altresì, in quanto – come già sottolineato- le sue affermazioni trovano negli atti del processo oggettivi quanto inequivocabili elementi di conforto, nelle tracce lasciate dai colpi di kalashnicov esplosi dal MADONIA che ebbero ad attingere gli edifici ed il furgone insistenti sul lato destro della strada, comprovando che l’agguato era stato eseguito da sinistra verso destra.

Tanto premesso, resta da chiarire come mai l’ANZELMO abbia potuto fornire sul punto una versione così diversa.

Al riguardo, va preliminarmente affermato che l’ANZELMO si è mostrato, oltremodo, certo che il GANCI avesse affiancato l’auto del Generale dal lato destro di quest’ultima, sostenendo per giunta che il MADONIA aveva sparato dal finestrino del guidatore (cioè, del GANCI), sostanzialmente, ponendosi davanti al complice.

Tuttavia, dalle sue stesse dichiarazioni è risultato chiaramente che l’ANZELMO non aveva un ricordo visivo di tali fasi dell’agguato, quanto piuttosto che avesse serbato dell’evento una ricostruzione composta di ricordi visivi e di deduzioni logiche.

In particolare, ha tra l’altro sostenuto l’ANZELMO che, nel momento in cui il GANCI ed il MADONIA stavano per affiancare l’auto del generale, l’autovettura sulla quale esso ANZELMO si trovava, versava “in ultima posizione” (dietro all’auto del generale, a quella condotta dal GANCI, all’Alfetta ed alla motocicletta dei killers e, quindi, a parecchi metri di distanza da quella del GANCI); che egli aveva visto il GRECO sparare dalla motocicletta contro l’Alfetta; che l’Alfetta, che si trovava più o meno in mezzo alla strada, per effetto dei colpi era terminata sul lato sinistro; che egli superandola, si era “voltato per guardarla”, pensando che esso ANZELMO ed i suoi complici, dovessero scendere per dare il colpo di grazia all’agente, mentre il GAMBINO

199 Cfr. il confronto effettuato all’udienza dell’1/12/2001, al faldone nr. 3, vol. 10.

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aveva ordinato di procedere oltre; che subito dopo erano transitati dinanzi all’auto del Generale, ormai fermatasi sul lato sinistro della strada; proseguendo, quindi, essi all’inseguimento dell’auto condotta dal GANCI.

In sostanza, dalle affermazioni dell’ANZELMO, qui sintetizzate, si ricava (al di là della sicurezza ostentata dal collaborante) che la sua posizione (di passeggero, sul sedile posteriore, dell’ultimo mezzo tra quelli protagonisti dell’eccidio) non gli consentiva di scorgere con esattezza quale manovra il GANCI avesse effettuato per affiancare le vittime.

Tanto più che l’attenzione dell’ANZELMO dovette essere attratta (come dimostrano i suoi ricordi) da ciò che stava facendo l’equipaggio della motocicletta e dal conseguente movimento verso sinistra dell’Alfetta, una volta colpita dal kalashnicov del GRECO.

Peraltro, lo stesso ANZELMO ha detto addirittura di essersi voltato, per seguire il suddetto movimento dell’Alfetta.

Tutto ciò rende assai probabile , anzi certo, che l’ANZELMO non ebbe a seguire con sufficiente attenzione le modalità dell’affiancamento effettuato dal GANCI all’auto del Generale e che il suo ricordo sia rimasto fortemente influenzato dalla commistione di talune circostanze fattuali (come il fatto che la moto avesse portato l’agguato da destra verso sinistra; il fatto che l’Alfetta fosse terminata sulla sinistra; il fatto di avere scorto subito dopo anche la A 112 ferma sul lato sinistro della strada; il fatto di essere sfilato coll’auto sul lato destro sia dell’Alfetta che della A 112, mantenendosi sostanzialmente in linea coll’auto condotta dal GANCI) e da deduzioni (come quella rappresentata al GANCI durante il confronto diretta a sostenere “l’impossibilità di raggiungere l’auto del Generale, di affiancarla sul lato sinistro e di sparare girandosi”) che avevano indotto l’ANZELMO a memorizzare (sin da quando ebbe a partecipare al delitto) l’evento nell’unico modo che – secondo i dati in suo possesso- aveva ritenuto spiegabile.

Ecco, pertanto, che a parere della Corte, per quanto

apparentemente strano, la difformità delle due versioni sulle modalità iniziali dell’agguato trova ampia spiegazione, soprattutto, nella diversa posizione assunta dai due collaboranti nel momento in cui il delitto venne eseguito.

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In ogni caso, il contrasto tra le due versioni per quanto non irrilevante, non pare (soprattutto in considerazioni ora svolte) così significativo da insinuare il dubbio che i due collaboranti, ovvero uno dei due, non abbia partecipato all’omicidio ed abbia reso una versione dei fatti inventata.

I già riportati elementi di incontro delle dichiarazioni dei due appaiono così rivelatori della presenza di entrambi da escludere nella maniera più assoluta una possibilità del genere.

Pertanto, la difformità sulla circostanza deve, ragionevolmente, essere assorbita in quel margine di disarmonia normalmente presente, quando si raccordano più versioni rappresentative del medesimo fatto; confermando, anzi , detta difformità, l’assoluta genuinità e mancanza di concertazione nelle dichiarazioni accusatorie rese dai due collaboranti.

In definitiva, tenuto conto della già rappresentata straordinaria

coincidenza delle dichiarazioni dei due collaboranti in relazione all’insieme del racconto fornito; una volta esclusa qualsivoglia possibile calunniosa concertazione; non pare possibile sostenere che le difformità sopra menzionate autorizzino a desumere che i collaboranti non abbiano partecipato all’omicidio e non siano, perciò, in condizione di riferire, nei suoi aspetti essenziali, come il medesimo si sia svolto e chi vi avesse partecipato.

Dovendo, viceversa, attribuirsi le cennate discrepanze al cattivo ricordo o alla lacunosa memorizzazione di uno (o di entrambi) i collaboranti in ordine a dettagli, peraltro, non fondamentali dell’episodio.

* * *

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§ - 9) Il giudizio complessivo sulla credibilità dell’ANZELMO e del GANCI alla luce dei riscontri concernenti gli omicidi in trattazione.

L’insieme delle considerazioni rassegnate nei paragrafi che precedono sui riscontri (reciproci ed esterni) accertati in riferimento alle propalazioni degli imputati collaboranti GANCI ed ANZELMO, consente di confermare il giudizio di credibilità complessiva già formulato nei confronti degli stessi e permette di affermare, con assoluta certezza, che sia il GANCI che l’ANZELMO ebbero a partecipare all’omicidio oggetto del presente processo.

Ciò consentendo, conseguentemente, di argomentare che i suddetti imputati fossero, in grado di constatare di persona chi avesse concorso nel delitto e di ricordare entrambi le modalità e gli autori del fatto.

Tuttavia, le disarmonie registrate, sia sul ruolo svolto nell’episodio da altri componenti del commando200, sia sulla partecipazione di questo o quel componente del gruppo di fuoco201 ; ed, inoltre, l’errata indicazione dell’ANZELMO in ordine alla partecipazione del GANCI anche del primo tentativo operato; non permettono di confermare il giudizio di massima credibilità dei collaboranti, già ricavato ed espresso sulla base del complesso delle loro dichiarazioni.

In tal senso, va rimarcato che le suddette contraddizioni – per quanto sopra argomentato – sono sicuramente dovute al lungo lasso di tempo trascorso; alla diversa posizione assunta dai dichiaranti nel corso dell’omicidio; ed al gran numero di omicidi commessi in quel periodo insieme alle persone chiamate; potendosi nel contempo agevolmente escludere che possano essere il frutto di intenti calunniosi.

Né pare possibile -in riferimento ai correi chiamati in causa - graduare la attendibilità dei due collaboranti e privilegiare le

200 si pensi all’indicazione di LUCCHESE o del SALERNO come conducente della moto sulla quale si trovava GRECO Giuseppe “SCARPA”; 201 si pensi all’indicazione sulla partecipazione, poi esclusa, del CUCUZZA; o sulla presenza del ROTOLO invece che del MARCHESE;

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indicazioni dell’uno piuttosto che quelle dell’altro (sembrando, di volta in volta, ed a seconda del segmento narrativo ora più puntuale il GANCI ora l’ANZELMO).

Di guisa che, ritiene la Corte che sia alle dichiarazioni accusatorie rilasciate dal GANCI , che a quelle rilasciate dall’ANZELMO , nel presente processo, sia, si, attribuibile un rilevante spessore probatorio, ma che (in ossequio all’interpretazione giurisprudenziale sopra riportata), ciascuna delle due chiamate, debba trovare come riscontro estrinseco-individualizzante idoneo a permettere alla singola chiamata di raggiungere il grado di prova piena, un elemento che direttamente (cioè a dire, riferendosi direttamente al fatto specifico in dimostrazione) possa confortarne l’attendibilità .

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§ - 10) Le singole posizioni . Tanto premesso, occorre, a questo punto, evidenziare per ciascuno degli imputati202, gli elementi di riscontro “estrinseco-individualizzanti” che a giudizio della Corte (sulla base dei principi di diritto e sugli accertamenti di fatto sopra evidenziati) permettono alla chiamata di correo operata dai due collaboranti di assurgere ad esaustivo elemento di prova.

* * *

§ 10.1 ) ANZELMO Francesco Paolo Ovviamente, a carico di ANZELMO Francesco Paolo, in ordine all’omicidio del Generale DALLA CHIESA, della di lui moglie e dell’agente di scorta, gravano, soprattutto, le sue dichiarazioni confessorie.

Infatti, il collaborante, come ampiamente sopra riportato203, ha ammesso di avere partecipato all’omicidio in esame, sia nella fase preparatoria che in quella esecutiva. La cennata confessione trova piena conferma nelle convergenti dichiarazioni di GANCI Calogero, che -attribuendosi pur esso la responsabilità del delitto, ha sostenuto204- che l’ANZELMO era tra i killers che avevano composto l’equipaggio della seconda auto usata per commettere l’eccidio. Gli imponenti elementi di riscontro afferenti alla generica e quelli riguardanti l’attendibilità generico-complessiva del GANCI e dell’ANZELMO, già diffusamente evidenziati nella parte generale ed ai quali, per brevità, si rimanda, consentono di affermare con sicurezza la penale responsabilità dell’ANZELMO in ordine ai delitti oggi ascrittigli al capo B) della rubrica. All’imputato, in considerazione del rilevantissimo contributo offerto nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione del fatto 202le cui posizioni saranno trattate, per comodità espositiva, in ordine alfabetico. 203cfr. sopra al § 4. 204 Cfr. sopra al § 3.

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e per l’individuazione degli autori dei relativi reati, può senz’altro essere riconosciuta la diminuente speciale di cui all’art. 8 del D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, convertito con modificazioni nella L. 12 luglio 1991 nr. 203. Inoltre, all’ANZELMO, per via dell’ottimo comportamento processuale, nonché in considerazione dell’ampia confessione resa, possono essere concesse le circostanze attenuanti generiche. Di tal che, considerate dette attenuanti prevalenti sulle contestate aggravanti, considerata -per effetto della scelta del rito abbreviato- la diminuente di cui all’art. 442 c.p.p., unificati gli omicidi contestati al capo B sotto il vincolo della continuazione, la Corte stima conforme a giustizia condannare l’ANZELMO alla pena di anni quattordici di reclusione - (pena base, per l’omicidio del Generale DALLA CHIESA ritenuto più grave, con la diminuente dell’art. 8 D.L. nr. 152 del 1991, prevalente sulle contestate aggravanti : anni sedici di reclusione ; ridotta ad anni quindici per via della concessione delle attenuanti generiche; diminuita ulteriormente ad anni dieci per effetto della diminuente di cui all’art. 442 c.p.p.; aumentata ad anni quattordici per la continuazione cogli altri omicidi di cui al capo B) . Alla suddetta condanna segue per legge - ex art. 535 c.p.p.- quella al pagamento delle spese processuali , nonchè - ai sensi degli artt. 29 e 32 c.p.- l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la durata della pena.

Le ragioni indicate dall’imputato come determinanti ai fini della decisione di iniziare a collaborare coll’A.G. (vale a dire l’intento di sottrarre i propri figli al contesto mafioso) induce questa Corte a disporre - ex art. 32/3 c.p. - che nei suoi confronti non trovi applicazione la pena accessoria della sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori.

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§ 10. 2) GALATOLO Vincenzo A carico di GALATOLO Vincenzo, in ordine agli omicidi ascrittigli al capo B) della rubrica gravano, in primo luogo, le dichiarazioni accusatorie rilasciate da GANCI Calogero 205. Questi, infatti, nel riconoscere senza alcuna esitazione il GALATOLO in fotografia, ha –in sintesi- affermato che il medesimo, uomo d’onore della “famiglia” mafiosa dell’Acquasanta, e rappresentante dell’omonima “famiglia”, aveva attivamente partecipato all’omicidio del Generale DALLA CHIESA. In particolare, il GANCI ha sottolineato che egli aveva appreso della decisione di eliminare il Generale nel corso di una riunione tenutasi proprio nel c.d. fondo GALATOLO, o fondo Pipitone che dir si voglia, vale a dire in quella base operativa, rientrante nella disponibilità di GALATOLO Vincenzo e dei suoi fratelli, che era stata usata come base di partenza per numerosi omicidi commessi dai corleonesi e dai loro alleati, sia durante la guerra di mafia, che successivamente.

Aveva, in proposito, precisato il GANCI che ricordava che il GALATOLO Vincenzo aveva partecipato a quella prima riunione ed era stato presente quando, nei giorni antecedenti al delitto, si erano riuniti quotidianamente, in attesa che giungesse il momento per agire.

Inoltre, aveva rammentato il GANCI che il GALATOLO aveva operativamente preso parte all’esecuzione dell’omicidio avendo avuto il compito di condurre una delle auto pulite che avevano l’incarico di coprire il commando omicida e di prelevare taluno dei killers a delitto commesso. Le dichiarazioni del GANCI , per il livello di credibilità complessiva che - sulla base delle argomentazioni sopra diffusamente rassegnate (e che qui devono intendersi integralmente riportate206) va loro riconosciuto-, gravano pesantemente nei confronti dell’odierno

205 cfr. sopra al § 3. 206 In particolare, per esigenze di brevità, si rimanda a quanto sopra esposto : - al §- 5 : a proposito dell’attendibilità complessiva di GANCI Calogero; - ed ai §§ 7 e segg. : a proposito dei riscontri oggettivi relativi agli omicidi in trattazione.

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imputato e costituiscono un considerevole elemento di prova della sua colpevolezza. E’ agevole evidenziare come le affermazioni del GANCI, trovino, negli atti, nei confronti del GALATOLO, per i delitti contestatigli al capo B) , imponenti elementi di riscontro di tipo <<estrinseco-specifico-individualizzante>>, per di più, direttamente <<afferenti anche al “fatto in dimostrazione”>> nelle convergenti dichiarazioni accusatorie rilasciate da ANZELMO Francesco Paolo, sulla credibilità del quale ci si è pure ampiamente soffermati nella parte generale della presente motivazione cui per brevità si rimanda207. Invero, anche l’ANZELMO , nel riconoscere in fotografia l’imputato, ha dichiarato208 che il GALATOLO , uomo d’onore della famiglia dell’Acquasanta, ed anzi rappresentante dell’omonima famiglia, aveva materialmente partecipato all’omicidio del Generale DALLA CHIESA.

Specificando, il collaborante, che proprio nel fondo Pipitone, nella disponibilità di GALATOLO Vincenzo e dei suoi fratelli si era tenuta la riunione di mafia nella quale aveva appreso della decisione di sopprimere il Generale; che successivamente quasi quotidianamente si era recato in quel fondo in attesa del momento propizio per consumare l’agguato; e finalmente che GALATOLO Vincenzo aveva preso operativamente parte all’azione criminosa ponendosi alla guida di una della auto utilizzate per copertura del commando omicida e per prelevare taluno dei killers ad omicidio avvenuto.

Non pare possa revocarsi in dubbio che le dichiarazioni dell’ANZELMO confermino appieno le affermazioni rilasciate dal primo collaborante.

La sostanziale convergenza delle due dichiarazioni accusatorie esclude ogni dubbio sulla partecipazione dell’imputato all’omicidio del Generale.

Invero, entrambe le chiamate di correo risultano fornite da soggetti (di considerevole attendibilità) che hanno partecipato direttamente 207 In particolare, cfr. quanto sopra esposto : - al §- 6 : a proposito dell’attendibilità complessiva di ANZELMO Francesco Paolo ; - ed ai §§ 7 e segg. : a proposito dei riscontri oggettivi relativi agli omicidi in trattazione. 208 Cfr. sopra al § 4.

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all’evento delittuoso e che non hanno avuto alcuna possibilità di concertare le accuse (per come è stato chiaramente messo in risalto nella parte generale ; e ciò, soprattutto, per via dei differenti luoghi di detenzione cui gli imputati erano sottoposti al momento dell’inizio della collaborazione ; per il fatto che la loro collaborazione è stata presso che contestuale ; nonché per il fatto che sin dalle prime dichiarazioni ambedue i collaboranti hanno indicato nel GALATOLO uno degli autori dell’omicidio).

Del resto, la partecipazione del GALATOLO all’omicidio del Generale appare chiaramente coerente col quadro delineato dalle altre affermazioni rese dal GANCI e dall’ANZELMO e dalle ulteriori risultanze probatorie.

Entrambi i collaboranti hanno, invero, sottolineato come per commettere l’omicidio in questione, fosse stata usata , come base di partenza, il fondo Pipitone, vero e proprio quartier generale del gruppo mafioso dei corleonesi.

Di tal che, dato il ruolo assunto allora dal GALATOLO in seno alla famiglia mafiosa dell’Acquasanta, nella quale la base operativa ricadeva; e tenuto conto che il fondo anzidetto rientrava nella disponibilità diretta di esso GALATOLO Vincenzo e dei suoi fratelli; non può negarsi che proprio l’imputato fosse una delle persone che avessero maggiori “titoli” per partecipare al delitto .

Peraltro, sia il GANCI che l’ANZELMO hanno affermato che il

GALATOLO aveva partecipato insieme a loro, talora mettendo a disposizione la stessa base, a numerosi altri omicidi commessi dallo stesso gruppo di fuoco nello stesso periodo di tempo.

Così, tra l’altro, entrambi i collaboranti hanno sostenuto che

GALATOLO Vincenzo aveva partecipato, oltre che all’omicidio del Generale, anche all’omicidio del Giudice Chinnici ed a quello del Commissario di P.S. dr. CASSARA’, entrambi, notoriamente commessi a poca distanza di tempo da quelli in esame (il primo meno di un anno dopo, il secondo circa tre anni dopo).

E tale circostanza contribuisce a conferire ulteriore logicità al racconto dei suddetti collaboranti, nella parte relativa alla partecipazione dell’odierno imputato all’omicidio del Gen. DALLA CHIESA.

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Peraltro, dal compendio delle sentenze acquisite al processo emergono ulteriori riscontri alle affermazioni del GANCI e dell’ANZELMO. In particolare, dalla sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 24/3/1993209, colla quale il GALATOLO, nel processo contro APONTE+14 è stato condannato a 26 anni di reclusione, per il reato di associazione mafiosa e di associazione finalizzata al traffico delle sostanze stupefacenti, si ricava (colla forza del giudicato) che il GALATOLO Vincenzo, nel momento in cui venivano commessi gli omicidi in trattazione, era “rappresentante” della famiglia dell’Acquasanta.

Ricavandosi, del pari, che il medesimo era strettamente collegato anche sulla base di un cogente e diretto rapporto gerarchico ai MADONIA (Francesco ed Antonino in particolare che dirigevano l’uno formalmente, l’altro in sostituzione del primo durante i periodi di detenzione, il mandamento di Resuttana nel quale la famiglia dell’Acquasanta rientrava).

Sempre dalla suddetta sentenza emerge, altresì, che era stato proprio il MADONIA (Francesco) una volta ottenuto il mandamento di Resuttana ad esigere che la famiglia dell’Acquasanta fosse diretta da GALATOLO Vincenzo, in luogo del vecchio rappresentante (CUSENZA), proprio per il rapporto di fiducia che legava i MADONIA ai GALATOLO.

Inoltre, emerge che il fondo GALATOLO era utilizzato dai corleonesi e dai loro alleati fin dai primi anni ottanta, sia per riunioni di mafia, sia per nascondere latitanti (Salvo MADONIA e GRECO Giuseppe Scarpa, in particolare), sia per commettervi omicidi, sia come base di partenza per gravi azioni delittuose.

In definitiva, ricavandosi dalla cennata pronuncia che il GALATOLO Vincenzo componeva il sanguinario “gruppo operativo” sul quale poteva fare affidamento il RIINA per sconfiggere la corrente facente capo a BONTATE, INZERILLO e BADALAMENTI, per sterminarne gli aderenti, e per acquistare la supremazia assoluta in seno a Cosa Nostra.

209 Cfr. al faldone nr. 21, nonché sopra al § 5.

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L’insistenza di uno strettissimo collegamento criminale tra il GALATOLO Vincenzo e MADONIA Antonino si coglie appieno anche in altre pronunce acquisite al processo210.

In particolare, nella sentenza emessa dalla Corte di Assise di

Palermo in data 27/10/1998211 , colla quale il GALATOLO Vincenzo è stato condannato alla pena dell’ergastolo per l’omicidio (rectius, per la strage) del Dr. CASSARA’ e per l’omicidio dell’agente Roberto ANTIOCHIA, risulta- colla forza del giudicato- non solo il collegamento nell’illecito fra il GALATOLO ed il MADONIA Antonino, suo odierno coimputato, ma altresì che l’efferato omicidio, effettuato ancora una volta contro un integerrimo rappresentante delle istituzioni, era stato preceduto da riunioni operative svoltesi nel fondo GALATOLO e che GALATOLO Vincenzo aveva messo a disposizione un garage di via Ammiraglio Rizzo come base di partenza per la commissione dell’eccidio. Risultando, altresì, che tale ultimo delitto avevano partecipato anche gli odierni imputati-collaboranti GANCI Calogero ed ANZELMO Francesco Paolo. Non potendovi essere dubbio che l’asseverata comunanza nell’illecito con tutti gli odierni imputati costituisca un significativo elemento di conforto delle dichiarazioni accusatorie summenzionate. Soprattutto quando si tenga conto della contiguità temporale di quel delitto con quello in trattazione e del rapporto fiduciario che doveva necessariamente legare coloro i quali avevano preso parte all’efferato delitto di strage. Le dichiarazioni del GANCI e dell’ANZELMO trovano poi particolari elementi di conferma nelle affermazioni rilasciate da CUCUZZA Salvatore212. In verità, il collaborante ha sostenuto di non avere preso parte agli omicidi del Generale DALLA CHIESA, della moglie e dell’agente RUSSO ; di non avere saputo che si stava preparando ; e di non avere

210 Cfr., ad esempio, al Faldone nr. 26 la sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 25 maggio 1996, colla quale l’imputato è stato condannato alla pena di anni 13 di reclusione, concernente le estorsioni fatte da GALATOLO Vincenzo nell’interesse dei MADONIA e del mandamento. 211 Cfr. al faldone nr. 28. 212 Cfr. al faldone nr. 2, vol. 5, udienza del 10/4/01.

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saputo nemmeno ad omicidio consumato come lo stesso fosse stato commesso, chi ne fossero stati gli autori, ecc. Tuttavia, le sue affermazioni contribuiscono a suffragare quelle dei due imputati collaboranti. Invero, il CUCUZZA, dopo avere premesso che egli aveva preso parte alla guerra di mafia tra la corrente corleonese e quella facente capo a BONTATE, INZERILLO e BADALAMENTI, commettendo decine e decine di omicidi, tra il 1981 ed il 1983, insieme a componenti del gruppo di fuoco di Ciaculli, del quale facevano parte GRECO Scarpa, LUCCHESE Giuseppe e Mario PRESTIFILIPPO; ha asserito che a disposizione dei corleonesi in quel periodo storico v’erano, contemporaneamente, più gruppi di fuoco che agivano indipendentemente l’uno dall’altro (“a compartimenti stagno”) e che per gli episodi più gravi, come quello costituito dalla strage della circonvallazione o l’omicidio dell’On. Pio LA TORRE, avevano lavorato insieme componenti dei vari gruppi. Indicando al riguardo, tra gli altri : della famiglia Noce: GANCI Calogero, GANCI Raffaele, Francesco Paolo ANZELMO; di Ciaculli: il GRECO “Scarpa”, il LUCCHESE, il PRESTIFILIPPO; di Resuttana : Antonino MADONIA, Gaetano CAROLLO, i fratelli GALATOLO, Vincenzo Raffaele e Giuseppe. Sostenendo, in particolare, a proposito di GALATOLO Vincenzo (che, per inciso, il CUCUZZA riconosceva con sicurezza in fotografia), che quest’ultimo aveva preso parte, insieme ad esso collaborante, a numerosi omicidi, tra i quali a quello dell’On. Pio LA TORRE, nel quale l’imputato (e la famiglia GALATOLO) aveva preso parte mettendo a disposizione il covo di Fondo Pipitone. Ed, in proposito, non può certo sottacersi, data la vicinanza temporale (quattro mesi appena ) intercorsa tra l’omicidio dell’ On. LA TORRE (notoriamente eseguito il 30/4/82) e quello del Gen. DALLA CHIESA (3/9/82) ed il fatto che secondo le dichiarazioni dei suddetti collaboranti i delitti fossero stati, sostanzialmente, perpetrati dal medesimo gruppo di fuoco; che le dichiarazioni del CUCUZZA, denotando la totale adesione e partecipazione del GALATOLO alle azioni criminali omicida dei corleonesi, anche colle stesse modalità partecipative (messa a disposizione del covo di fondo Pipitone),

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confortano il quadro accusatorio costituito dalle ben più specifiche e dirette accuse del GANCI e dell’ANZELMO.

Invero, le affermazioni del CUCUZZA suffragano, in primo luogo, il convincimento che l’imputato fosse organicamente inserito nel ristretto gruppo di fuoco dei corleonesi addetto agli omicidi più eclatanti e delicati. D’altra parte, il CUCUZZA ha precisato che -pur non potendolo sapere direttamente, per le regole di Cosa Nostra che imponevano a chi aveva partecipato ad omicidi di non parlarne e soprattutto di non parlarne con chi non aveva preso parte allo stesso delitto- poiché in quel periodo frequentava il gruppo di fuoco del LUCCHESE (suo complice in tanti omicidi, tra i quali quello meglio conosciuto come la strage della circonvallazione commesso poco tempo prima dell’omicidio del Gen. DALLA CHIESA), aveva capito -dalle espressioni e dalle allusioni fatte da quest’ultimo- che il medesimo LUCCHESE ed il suo gruppo di fuoco avevano partecipato all’omicidio del Generale. Specificando che, in ogni caso, al di là di quanto il LUCCHESE gli aveva fatto capire, non poteva non essere stato un omicidio riferibile all’area corleonese di Cosa Nostra, in quanto nel suo schieramento il delitto era stato accolto senza il trambusto che l’avrebbe certamente accompagnato se fosse stato commesso da altri. Inoltre, il CUCUZZA213 ha precisato che, nel periodo immediatamente prossimo all’omicidio del DALLA CHIESA, egli aveva avuto modo di frequentare il fondo GALATOLO, rammentando la presenza dei GALATOLO (e di Vincenzo in particolare) , dei MADONIA (di Antonino e Salvatore, in specie), dei GANCI (Raffaele, suo figlio, e suo nipote ANZELMO), di Pino GRECO, di LUCCHESE Giuseppe. Sostenendo, ancora, il CUCUZZA che molto probabilmente la sua esclusione dalla partecipazione al gruppo di fuoco che aveva eliminato il Generale era dipesa unicamente dal fatto che il giorno in cui era stata deliberata, al Fondo Pipitone, la decisione di sopprimere il Generale, egli non era stato presente214. E non pare possa sottacersi che il fatto che il collaborante abbia confermato la frequentazione, nei giorni che precedettero l’omicidio del

213 Cfr. al faldone nr. 2, vol.5, udienza del 10/4/01, dichiarazioni CUCUZZA, pg. 42. 214 Cfr. al faldone nr. 2, vol.5, udienza del 10/4/01, dichiarazioni CUCUZZA, pg. 44

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Generale, di GALATOLO Vincenzo, coi MADONIA, con GANCI Calogero, con ANZELMO con GRECO Scarpa e LUCCHESE Giuseppe, supporti le affermazioni degli odierni imputati GANCI ed ANZELMO che hanno spiegato le motivazioni di tale frequentazione.

In tale direzione, non potendosi negare che anche il luogo (il fondo Pipitone o fondo Galatolo che dir si voglia) ove il CUCUZZA ha sostenuto di avere visto i predetti GRECO, LUCCHESE, GANCI ecc. nei giorni che precedettero l’eccidio, avvalora le affermazioni del GANCI e dell’ANZELMO sul ruolo sostenuto dal GALATOLO Vincenzo nella soppressione del Generale. Anche il collaborante BRUSCA Giovanni, sentito come testimone assistito, ha, in sostanza, confermato le dichiarazioni accusatorie del GANCI e dell’ANZELMO215. Il BRUSCA ha, infatti, sostenuto – dopo avere premesso di avere preso parte alla guerra di mafia degli anni 80, nel gruppo dei corleonesi, del quale pure facevano parte, tra gli altri, della Noce, i GANCI (Raffaele, Calogero, ANZELMO) , di Resuttana ( i MADONIA, Antonino, suo padre ecc; CAROLLO Gaetano, i GALATOLO, Vincenzo ed i fratelli), di Ciaculli (GRECO Scarpa, LUCCHESE, SALERNO) ecc.- di avere saputo in anticipo che si stava preparando l’omicidio del Generale. Ciò, anche perché, essendo esso BRUSCA vicino al gruppo dirigente dei corleonesi (costituito dal RIINA e dal genitore BRUSCA Bernardo), aveva modo di conoscere le strategie criminali della fazione, posto che le stesse venivano per lo più approntate nel corso di riunioni che si svolgevano nel territorio di S Giuseppe Jato ed alle quali prendevano parte i MADONIA, i GANCI, GRECO Scarpa. RIINA, in particolare, sin dalla venuta del Generale aveva stabilito che il medesimo doveva essere ucciso. Rammentava al riguardo il BRUSCA che il RIINA aveva già avuto a che fare col Generale quando questi aveva prestato servizio a Corleone e lo temeva particolarmente. Aveva, poi, avuto modo di apprendere, indirettamente, che dell’esecuzione dell’omicidio se n’era occupato tra gli altri GRECO Scarpa.

Ciò in quanto erano state sollevate questioni per il fatto che il predetto aveva, all’ultimo momento, impiegato SALERNO Pietro senza prima avvisare gli altri.

215 Cfr. al faldone nr. 2, vol.5, udienza del 10/4/01, dichiarazioni BRUSCA, pg. 81 segg.

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Lamentele delle quali si era discusso alla presenza di suo padre (BRUSCA Bernardo) di RIINA, di MADONIA Antonino, di GAMBINO, di Raffaele GANCI. Peraltro, ha confermato che molte delle azioni criminose svolte dai corlenesi anche in quel periodo erano state eseguite prendendo le mosse dal fondo Pipitone dei GALATOLO , specificando che in tale fondo anch’egli aveva partecipato a delle soppressioni col metodo della lupara bianca; e che aveva preso parte all’omicidio (strage) del dr. CHINNICI, per il quale i killers avevano usato come base il fondo dei GALATOLO. Specificando che l’imputato GALATOLO Vincenzo aveva preso parte a tale ultimo omicidio.216 E pare evidente che, da una parte, le affermazioni del BRUSCA si innestano coerentemente nella versione offerta dal GANCI e dall’ANZELMO, avuto riguardo alle ragioni, alla genesi ed alla matrice dell’omicidio, nonché in relazione al gruppo criminale che l’aveva eseguito (quello facente capo a GRECO Scarpa, indicato pure dal GANCI e dall’ANZELMO come uno dei dirigenti del gruppo di fuoco, insieme a MADONIA Antonino ed a GAMBINO Giacomo Giuseppe). Dall’altra, sottolineano ancora una volta l’uso del fondo dei GALATOLO come base di partenza per omicidi eclatanti commessi presso che nello stesso periodo di tempo (l’omicidio del Giudice CHINNICI, notoriamente, venne eseguito nel luglio del 1983 e quindi meno di un anno dopo quello del Gen. DALLA CHIESA); nonché la partecipazione dello stesso GALATOLO Vincenzo al gruppo di fuoco impiegato per gli omicidi eccellenti, più delicati, commessi dai corleonesi. E non pare potersi revocare in dubbio che quanto sopra asseveri le ben più dirette propalazioni accusatorie del GANCI e dell’ANZELMO, sulla partecipazione dell’imputato all’eccidio in trattazione. Solo per ragioni di completezza va poi rappresentato che anche le dichiarazioni di ONORATO Francesco confortano il convincimento sopra espresso. Infatti, detto collaborante dopo avere rassegnato che era noto in Cosa Nostra che l’omicidio del DALLA CHIESA fosse stato effettuato dalla fazione corleonese (“voluto da Salvatore RIINA, Nino MADONIA e Pippo GAMBINO”), assumeva che GALATOLO Vincenzo era allora

216 Cfr. al faldone nr. 2, vol.5, udienza del 10/4/01, dichiarazioni BRUSCA, pg. 97.

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rappresentante della famiglia dell’Acquasanta ed era molto intimo e fidato di Antonino MADONIA e dei corleonesi; specificando che sapeva che nel c.d. fondo Pipitone i GALATOLO avevano messo a disposizione dell’associazione dei locali nel quale erano stati anche commessi degli omicidi e nei quali si svolgevano riunioni di mafia. Inoltre, l’ONORATO ha sostenuto di avere personalmente commesso insieme a GALATOLO Vincenzo l’omicidio di Salvatore LAURICELLA, notoriamente assassinato (rectius “scomparso”) il 30 novembre 1982, nell’ambito della guerra di mafia tra i corleonesi e gli uomini fedeli o vicini al RICCOBONO ed a SCAGLIONE Salvatore. Di guisa che, pare evidente che anche le indicazioni dell’ONORATO sull’adesione di GALATOLO Vincenzo alla frangia militare dei corleonesi ed alla sua partecipazione ai crimini commessi da quel sodalizio in quel contesto storico, sia colla partecipazione diretta ai fatti di sangue sia colla messa a disposizione dei suoi locali di “fondo Pipitone”, si inserisce armonicamente, rafforzandolo, nel quadro delineato dagli altri collaboranti (BRUSCA e CUCUZZA) e dagli odierni imputati GANCI ed ANZELMO. Finalmente, l’assenza di motivi di rancore tra i collaboranti e l’imputato; il preciso e sicuro riconoscimento fotografico operato sia dal GANCI che dall’ANZELMO; l’assenza di qualsivoglia spunto di alibi; ed il fatto che l’imputato al momento del fatto si trovasse in stato di libertà; supportano chiaramente il già più che esaustivo quadro probatorio insistente a carico del GALATOLO. Pertanto, reputa la Corte che possa affermarsi con certezza la penale responsabilità del GALATOLO in ordine agli omicidi contestatigli al capo B) della rubrica . In proposito, pare evidente la sussistenza delle aggravanti contestate, ed, in particolare, quella della premeditazione, rivelata inequivocabilmente, tra l’altro, dalle non brevi fasi di preparazione dell’agguato. Peraltro, attesa l’indiscutibile gravità dei fatti di reato, ed i gravissimi precedenti penali, al GALATOLO, non possono essere concesse le circostanze attenuanti generiche. Di guisa che, applicata – per effetto della scelta del rito speciale- la diminuente di cui all’art. 442 c.p.p.; unificati i delitti di cui al capo B) della rubrica sotto il vincolo della continuazione, la Corte stima

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conforme a giustizia condannare il GALATOLO alla pena dell’ergastolo. (pena base per il reato di omicidio aggravato consumato nei confronti di DALLA CHIESA Carlo Alberto considerato più grave : ergastolo ; tale pena va sostituita – per effetto dell’art. 442 c.p.p.- con quella di anni trenta di reclusione; detta pena (– per effetto della continuazione cogli altri omicidi di cui al capo B) per ognuno dei quali questo Giudice avrebbe inflitto ove non li avesse ritenuti in continuazione coll’omicidio del Generale DALLA CHIESA, la pena dell’ergastolo ridotta a trent’anni per l’art. 442 c.p.p.- ed in forza di quanto stabilito dagli artt. 73/2 , 81 c.p. e 442/2 ultima parte c.p.p.)- va nuovamente sostituita con quella dell’ergastolo. Alla suddetta condanna segue per legge - ex art. 535 c.p.p.- quella al pagamento delle spese processuali, nonché - ai sensi degli artt. 29 e 32 c.p.- l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, dell’interdizione legale e della decadenza dalla potestà genitoriale. Inoltre, sempre per effetto della condanna all’ergastolo, in virtù degli artt. 36 c.p. e 536 c.p.p., va disposta, a spese dell’imputato, la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei termini e nei modi precisati nel dispositivo.

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§ - 10.2bis ) L’applicazione della diminuente di cui all’art. 442 c.p.p. nel caso di concorso di reati In relazione al procedimento attraverso il quale è stata da questa Corte individuata la pena da applicare al GALATOLO, pare doveroso osservare come - sebbene il legislatore sia intervenuto esplicitamente sul punto riguardante l’incidenza della diminuente di cui all’art. 442 c.p.p. nell’ipotesi di concorso di reati (stabilendo217 che nei casi di <<concorso di reati e di reato continuato>>, nel caso si fosse proceduto col rito abbreviato <<alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno è sostituita quella dell’ergastolo>>) - sia necessario di chiarire se l’anzidetta diminuente debba operare prima o dopo che il Giudice effettui gli aumenti di pena derivanti dalle norme concernenti il concorso dei reati. In verità, nel caso di specie, l’aderire all’una o all’altra soluzione , ai fini della determinazione della pena in concreto , non comporterebbe alcuna differenza. Invero, in ogni caso, si perverrebbe all’irrogazione della pena dell’ergastolo senza isolamento diurno. Tuttavia, il fatto che, in concreto, colla presente decisione, si sia computata la riduzione dovuta alla diminuente di rito, procedendo reato per reato, prima di calcolare gli aumenti di pena dovuti al concorso dei reati; e, soprattutto, il fatto che, da parte della dottrina, si sia dubitato della valenza retroattiva della recente normativa, sostenendo la sua portata “innovativa” e non “interpretativa” e lasciando balenare ipotesi di incostituzionalità della recente legge; inducono questo Giudice ad evidenziare come il D.L. 24 novembre 2000 nr. 341, convertito con modificazioni nella L. 19 gennaio 2001 nr. 4, si sia limitato ad eleggere tra le varie ipotesi esegetiche della precedente normativa, che aveva introdotto il cennato tipo di definizione speciale del processo, l’unica interpretazione realmente possibile (in quanto la sola che rispondesse anche al requisito del rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza).

Tale è quella per la quale <<la diminuente dev’essere necessariamente applicata prima del calcolo degli aumenti di pena discendenti dalle norme sul concorso dei reati>>.

Solo in questo modo, infatti, (prima dell’intervento legislativo) una volta eletto il rito abbreviato, poteva tecnicamente conseguire - nel caso di più

217 In virtù dell’aggiunta operata al terzo periodo del comma secondo dell’art. 442 c.p.p., dal secondo comma dell’art. 7 del D.L. 24 novembre 2000 nr. 341, convertito con modificazioni nella L. 19 gennaio 2001 nr. 4.

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reati comportanti la pena dell’ergastolo- la condanna all’ergastolo (senza isolamento diurno) invece che quella a trent’anni di reclusione. Che il legislatore abbia voluto attribuire alla normativa introdotta all’art. 442/2 c.p.p. natura e valenza interpretativa non pare assolutamente dubitabile atteso che il capo III del D.L. 2000/341 convertito in legge, recita nell’intestazione : <<INTERPRETAZIONE AUTENTICA DELL’ARTICOLO 442 COMMA 2 DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE E DISPOSIZIONI IN MATERIA DI GIUDIZIO ABBREVIATO NEI PROCESSI PER I REATI PUNITI CON L’ERGASTOLO>>. Orbene, dalla natura interpretativa della disposizione in questione discendono indefettibilmente, a parere della Corte, alcune importanti conseguenze: a) - la prima, di carattere esegetico, è quella per la quale dalla lettera della norma, attesa per l’appunto la sua valenza meramente chiarificatrice non possono trarsi argomentazioni di tipo deduttivo.

Dato il suo intento esclusivamente interpretativo è, infatti, evidente che il legislatore, per scongiurare ogni possibile dubbio di tipo esegetico, ha dovuto nel modo più chiaro possibile indicare quali fossero i suoi obbiettivi (sostanzialmente, escludere che chi avesse commesso più omicidi, stragi, o comunque reati per i quali avrebbe riportato con il processo ordinario, la pena dell’ergastolo coll’isolamento diurno, potesse essere condannato solo alla pena di trent’anni di reclusione), senza badare troppo al significato tecnico dei termini e delle espressioni usate.

Ciò è reso evidente dall’uso della locuzione << nei casi di concorso di reati e di reato continuato>>.

Invero, dal punto di vista tecnico-giuridico, l’espressione pare assolutamente pleonastica, atteso che il reato continuato è una forma di “concorso di reati” (come, non solo, ritenuto per costante dottrina e giurisprudenza, ma come sancito dallo stesso del legislatore che non a caso ha compreso “il reato continuato” nel capo III del codice penale intitolato, per l’appunto, DEL CONCORSO DEI REATI).

In tal senso, all’art. 442/2 c.p.p. non sarebbe stato certo necessario aggiungere << e di reato continuato>> per comprendere che s’intendeva ricoprire tutte le forme del concorso dei reati.

L’averlo fatto dimostra una volta di più l’intento chiarificatore del legislatore che ha, in tutta evidenza, voluto evitare qualsivoglia equivoco (già sorto in certa parte della dottrina e della giurisprudenza) , stabilendo una volta per tutte che, ai fini degli effetti finali della determinazione della pena nel rito abbreviato, è del tutto indifferente che <<l’isolamento diurno>> quale sanzione aggiuntiva dell’ergastolo sia determinato dalle norme riguardanti il

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concorso formale di reati , il concorso materiale di reati, ovvero la continuazione; prevedendo espressamente che, in tutti questi casi, il condannato non potrà riportare, per effetto della diminuente di rito, la pena di trent’anni, ma quella più severa dell’ergastolo.

Non potendosi, di converso, desumere dalla recente previsione normativa (usando, per l’appunto il c.d. metodo esegetico deduttivo “a contrario”) che il reato continuato non è una forma di concorso di reati .

Analogamente, deve senz’altro convenirsi che il fatto che il legislatore abbia indicato la pena dell’ergastolo con isolamento diurno come conseguente al concorso di reati e di reato continuato, non stia ad indicare che si sia preferita l’interpretazione che vuole che la diminuente di rito sia applicata dopo il computo discendente dalle norme sul concorso dei reati.

In questo caso, invero, sarebbe evidente la portata innovativa e non meramente interpretativa della norma. Difatti, non può di certo sostenersi che, dal precedente ordinamento processuale penale, applicando la diminuente dopo tutti i possibili aumenti di pena discendenti dalle regole relative al concorso dei reati, potesse ricavarsi che in caso di concorso di reati comportanti la pena dell’ergastolo coll’isolamento diurno, la pena sarebbe stata quella dell’ergastolo senza isolamento, invece che quella di trent’anni.

Avendo natura interpretativa e, quindi, meramente chiarificatrice della volontà del legislatore l’inciso in esame ha solo la valenza di significare che, quando un soggetto viene condannato per più reati, che per le norme sul concorso determinerebbero in concreto la pena dell’ergastolo coll’isolamento diurno, l’efficacia della diminuente potrà essere solo quella di eliminare la sanzione dell’isolamento diurno.

Non potendosi, invece, ricavare alcunché dalla citata norma interpretativa, in riferimento ai meccanismi eletti dal legislatore per pervenire all’individuazione della pena ora indicata. b) - la seconda, di carattere tecnico-giuridico è quella per la quale, avendo il secondo comma, ultima parte dell’art. 442 c.p.p. natura meramente interpretativa, deve necessariamente dedursi che la precedente normativa già consentisse (tra le diverse interpretazioni possibili) di pervenire al medesimo risultato esegetico.

Altrimenti argomentando, alla norma dovrebbe inevitabilmente riconoscersi un carattere “innovativo”, che la esporrebbe ad evidenti censure di costituzionalità e di applicabilità retroattiva. c) - la terza, di carattere logico è quella per la quale se la cennata interpretazione (deducibile dalla precedente normativa) è stata resa autentica dalla volontà del legislatore, è evidente che è quella che deve sottendere, tuttora, il recente disposto disposto normativo.

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Ed anticipando, quanto verrà detto in seguito, al di là di quanto opportunamente chiarito dal recentissimo intervento legislativo, l’interpretazione sottesa (che prevede l’applicazione della diminuente prima del calcolo discendente dalle norme sul concorso dei reati) è quella che meglio si armonizza coi principi costituzionali di uguaglianza e di adeguatezza della pena al reato commesso e che, per di più, risponde anche ai dettami discendenti dal “favor rei”.

Incidentalmente, occorre, ancora, premettere che appare assolutamente evidente che il legislatore, in tutti i casi previsti dall’art. 442/2 c.p.p., e quindi anche nell’ultima parte di tale comma, ha inteso fare riferimento alle pene determinate in concreto dal Giudice e non a quelle astrattamente irrogabili.

Diversamente argomentando, si perverrebbe all’assurdo di un trattamento sanzionatorio decisamente, quanto irragionevolmente, più severo di quello previsto col rito ordinario (si pensi al caso del collaborante di reati di mafia che potrebbe godere, col rito ordinario, di una consistente riduzione di pena, giusta l’art. 8 del D.L.152/1991 che prevede la sostituzione dell’ergastolo colla pena da dodici a vent’anni, ; e che invece –ove si seguisse un’interpretazione diversa da quella oggi ritenuta- col rito abbreviato, o coll’immediata definizione del processo, riporterebbe sempre la pena di trent’anni di reclusione ; e nel caso di concorso di reati, addirittura, quella dell’ergastolo).

Finalmente, giova rilevare che, a riprova che di norma interpretativa

si tratta e non di norma innovativa, questa Corte di Assise, già in un altro processo, definito prima dell’intervento interpretativo autentico del legislatore218 aveva escluso che la diminuente di rito potesse intervenire dopo tutti i computi di aumenti di pena conseguenti alle norme del concorso dei reati.

Già in quella sede, invero, si era affermato che l’unica interpretazione in sintonia colle norme costituzionali è quella per la quale “la diminuente va applicata prima, reato per reato” e, conseguentemente che, “anche nel caso di rito abbreviato, nell’ipotesi di più reati comportanti tale tipo di pena e cumulabili per effetto delle norme sul concorso dei reati, la pena da applicare è quella dell’ergastolo e non quella di trent’anni”.

* * *

Si appalesa, pertanto, sufficiente –per valutare la giustezza della tesi qui sostenuta, riportare il ragionamento seguito da quella Corte :

218 Trattasi del proc. nr. 28/97 R.G. C.Assise, contro MARCHESE Antonino+6 definito, in primo grado, con sentenza del 7 ottobre 2000

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<<…..pare opportuno soffermarsi sulle ragioni che hanno indotto questa

Corte ad irrogare - nonostante l’ammissione al rito abbreviato- la pena dell’ergastolo ; e, più in generale, occorre svolgere qualche considerazione intorno all’incidenza della diminuente conseguente alla scelta rito abbreviato, nel caso di condanna per più reati comportanti la pena dell’ergastolo. Invero, come in precedenza ricordato, …(l’imputato)… ha ritualmente chiesto -ai sensi dell’art. 4ter della L. 5 giugno 2000, nr. 144- <<l’immediata definizione del processo>> ; e tale richiesta gli ha consentito di accedere al trattamento sanzionatorio più favorevole di cui all’art. 442, comma 2 c.p.p., che prevede, nel caso di condanna alla pena dell’ergastolo, la sostituzione di tale sanzione con quella di trent’anni di reclusione. Nel caso di specie, questa Corte ha, tuttavia, valutato che, pur applicando la diminuente di rito, ..(l’imputato)… (essendo stato ritenuto responsabile di più omicidi comportanti ognuno il massimo della pena) non dovesse essere condannato alla pena di trent’anni di reclusione, bensì a quella, più severa, dell’ergastolo ; ed, altresì, che il beneficio del trattamento sanzionatorio, derivante dalla scelta del rito, si dovesse risolvere, unicamente, nell’eliminazione della sanzione dell’isolamento diurno. Ciò, in quanto si è, in buona sostanza, ritenuto che la riduzione della pena derivante dall’applicazione della diminuente dovesse operare, non sulla pena “ultima” (vale a dire, sulla pena determinata a seguito di tutti i calcoli eseguibili in caso di un giudizio riguardante più reati in concorso fra loro) ; bensì, sulla pena riportata, in concreto, dall’imputato per ognuno dei reati costituenti oggetto del processo. Di guisa che, ritenuta la colpevolezza del…(l’imputato)…per più reati comportanti in concreto la pena dell’ergastolo; si è applicata la diminuente di rito a ciascuno di tali reati; e si è sostituita, per ognuno di essi, alla pena dell’ergastolo quella di trent’anni di reclusione. Indi, per effetto della ritenuta continuazione di detti reati fra loro, ai sensi dell’art. 73 secondo comma c.p. (che prevede che “quando concorrano più delitti per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica l’ergastolo”), all’imputato è stata, finalmente, applicata la pena dell’ergastolo.

* a) brevi cenni sulla legge nr. 4 del 2001, che nelle more della stesura della sentenza ha disciplinato, “interpretandolo” il disposto di cui all’art. 442 c.p.p.. Prima di procedere a rassegnare le ragioni per le quali la Corte è pervenuta al convincimento ora, schematicamente, riportato, merita rammentare come la presente sentenza sia stata emessa tra l’entrata in vigore della L. 5 giugno 2000 nr. 144 -che ha esteso la possibilità di accedere al rito abbreviato (rectius, “all’immediata definizione del processo”) agli imputati di reati comportanti la pena dell’ergastolo, anche nei casi in cui il dibattimento fosse già pervenuto alla fase dell’istruzione- e

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l’entrata in vigore del D.L. 24 novembre 2000 nr. 341, poi convertito con modifiche nella L. nr. 4 del 2001. Tale ultima legge, “interpretando autenticamente” l’art. 442 comma 2 del c.p.p. ha, sostanzialmente, sancito che, agli effetti della pena, la scelta del rito abbreviato comporta la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trent’anni di reclusione solo nel caso in cui l’imputato non venga condannato per più delitti, il concorso dei quali implicherebbe (non tenendo conto della diminuente di rito) la pena dell’ergastolo coll’isolamento diurno. Stabilendo, altresì, che nel caso di condanna per più delitti comportanti -per effetto delle norme sul concorso dei reati e della continuazione- la sanzione ulteriore dell’isolamento diurno, l’applicazione della diminuente di rito determina unicamente l’eliminazione di quest’ultima sanzione. L’intervento del Legislatore (teso a chiarire, con “interpretazione autentica”, a pochi mesi dall’entrata in vigore della L. nr. 144/2000, i termini di cui all’art. 442 c.p.p., in riferimento all’ampiezza operativa della diminuente di rito sui reati comportanti la pena dell’ergastolo), da una parte, mostra chiaramente le dimensioni della problematica posta coll’estensione della ricorribilità al rito abbreviato anche al caso di delitti comportanti la pena dell’ergastolo. Dall’altra, sembrerebbe semplificare il compito di motivare la decisione adottata da questo giudice, non potendosi negare, che, almeno nella sostanza, <<l’interpretazione autentica>> abbia confermato la giustezza di quella adottata da questa Corte nel caso di specie. Tuttavia, la possibilità offerta agli imputati dalla L. nr. 4 del 2001, di revocare la propria richiesta di rito abbreviato ed il fatto che, quando questa sentenza è stata emessa, detta legge, non era entrata in vigore, impongono di spiegare per quali motivi, a parere di questo Giudice, la lettera della legge fosse già allora assolutamente inequivocabile e non necessitasse di alcun “chiarimento” interpretativo <<autentico>>. In tal senso, va avvertito che, nel prosieguo della motivazione (sia, per comodità espositiva, che per evitare equivoci), non si terrà in alcun conto la modifica legislativa (intervenuta successivamente alla pubblicazione del dispositivo), ma si procederà, unicamente, a rassegnare le argomentazioni sulla base delle quali si è pervenuti alla decisione.

* b) i termini della questione Tanto premesso, giova, preliminarmente, osservare che l’applicazione della riferita diminuente di rito anche ai reati punibili colla pena dell’ergastolo non comporta alcuna difficoltà di tipo tecnico, quando l’imputato sia responsabile di un unico reato. Invero, in questo caso, chiaramente, la legge sancisce in quali termini la riduzione della pena debba intervenire. La questione, invece, si presenta ben più problematica quando lo stesso imputato sia considerato responsabile di più reati.

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Infatti, nulla di specifico prevede in proposito la legge. Di guisa che, la determinazione in concreto della pena da applicare all’imputato, in tali ipotesi, non può che effettuarsi combinando le norme sul rito abbreviato (art. 442 secondo comma c.p.p.) con quelle disciplinanti il concorso dei reati ( artt. 71 e segg. c.p.). Segnatamente, la determinazione della pena va effettuata attraverso il coordinamento del disposto normativo che prevede (nell’ipotesi di rito abbreviato), che : “in caso di condanna la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita di un terzo. Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta.”, con le norme disciplinanti i casi di condanna per più reati con un’unica sentenza. Queste ultime stabiliscono, tra l’altro (all’art. 72 c.p.) che : “al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa la pena dell’ergastolo, si applica la detta pena con l’isolamento diurno da sei mesi a tre anni” ed ancora (all’art. 73/2 c.p.) che : “quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica l’ergastolo”. L’essenza del problema è costituita dal fatto che le norme disciplinanti il rito abbreviato non prevedono <<esplicitamente>> alcunché, in ordine al momento in cui deve essere calcolata la diminuente del rito, quando un imputato sia condannato per più reati implicanti, per effetto delle norme sul concorso dei reati, l’applicazione della sanzione ulteriore dell’isolamento diurno, ovvero la sostituzione della pena della reclusione con quella dell’ergastolo. Ciò, sebbene la determinazione del momento applicativo della diminuente di rito influisca gravemente sull’individuazione della pena da infliggere. Invero, applicando la diminuente dopo tutti i possibili calcoli esperibili (per effetto degli aumenti di pena dipendenti da continuazione, concorso formale, e quant’altro), la pena irrogabile in concreto non può mai superare i trent’anni di reclusione. Applicando la diminuente dopo il calcolo relativo alle circostanze, ma prima del computo degli aumenti conseguenti alla continuazione, al concorso formale ecc., la pena può arrivare anche all’ergastolo.

* c) la posizione della giurisprudenza Sulla questione è intervenuta, com’è noto, anche la S.C. di Cassazione. Inizialmente, affermando che “nel giudizio abbreviato l’aumento di pena per la continuazione va effettuato dopo la diminuzione ex art. 442 c.p.p., in quanto la continuazione non può essere assimilata alle circostanze delle quali il giudice deve tenere conto prima di attuare la citata diminuzione” (cfr. tra le altre CASS. sez. I, 24/10/90). Successivamente, sostenendo che :

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-nel giudizio abbreviato l’aumento di pena per la continuazione andava effettuato prima della diminuzione ex art. 442 comma 2 c.p.p., atteso che agli effetti della determinazione della pena il termine <<circostanze>> usato dal legislatore nella predetta norma è comprensivo della continuazione tra due o più reati (CASS. sez. V , 10/1/92); -“in tema di giudizio abbreviato la riduzione di pena di cui all’art. 442 c.p.p. ha natura processuale e non sostanziale, in quanto non attiene al fatto reato, non ne costituisce componente materiale o soggettiva, non contribuisce a determinare la quantità criminosa, non è soggetta a giudizio di comparazione e non influisce sui termini prescrizionali” (CASS. sez. I, 22 settembre 1995) ; -“poiché la determinazione della pena deve essere effettuata dal giudice nel rispetto delle norme di natura sostanziale previste dal codice penale, tra le quali vi è la disposizione dell’art. 78 diretta a temperare il principio del cumulo materiale delle pene, non può essere superato il limite di anni trenta anche in caso di aumento della pena derivante dalla continuazione; conseguendone che la riduzione della pena in seguito al giudizio abbreviato, risolvendosi in un’operazione puramente aritmetica di natura processuale conseguente alla scelta del rito ad opera dell’imputato, logicamente e temporalmente deve essere eseguita dal giudice dopo la determinazione della pena effettuata secondo i criteri e nel rispetto delle norme sostanziali” (CASS. pen sez. I, 27 maggio 1994); - “La riduzione premiale prevista per il rito abbreviato va computata sulla pena risultante all’esito di tutte le valutazioni dalla legge assegnate al giudicante : applicazione della disciplina della continuazione, riconoscimento di circostanze attenuanti e diminuenti, riconoscimento di circostanze aggravanti, giudizio di bilanciamento ed applicazione di recidiva; e ciò perché la riduzione di pena ex artt. 442, comma secondo, c.p.p., per il summenzionato suo carattere premiale ed in quanto assolutamente disancorata da ogni apprezzamento che concerne il <<reato>> oppure il <<reo>> non può essere ricondotta né alla categoria delle circostanze attenuanti, né a quella delle diminuenti in senso tecnico giuridico” (CASS. pen. sez. I, 22 gennaio 1994). In definitiva, può senz’altro convenirsi che il più recente e consolidato orientamento della Corte di Cassazione ritenga che la diminuente del rito abbreviato debba essere applicata dopo il calcolo dell’aumento per la continuazione, per concorso formale ecc.

* * * In proposito, occorre, preliminarmente, osservare che l’orientamento interpretativo qui disatteso, si è largamente diffuso dopo che la Corte Costituzionale con la sentenza nr. 176 del 23 aprile 1991, aveva escluso la possibilità di ricorrere al rito abbreviato nel caso di reati punibili coll’ergastolo ; e che invece, il primo orientamento giurisprudenziale, era coevo al momento in cui si poteva accedere al rito alternativo anche in caso di reati sanzionabili coll’ergastolo. La stretta correlazione tra l’interpretazione sul momento applicativo della diminuente di rito e la possibilità di ottenere detta diminuente nel caso di reati

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punibili coll’ergastolo è resa manifesta, non solo, dal fatto che il problema dell’individuazione del momento applicativo della diminuente si appalesa evidente solo ora che il rito alternativo è stato, per legge, riammesso per i reati meritevoli del massimo della pena ; ma altresì, dal fatto che la Cassazione, in una delle prime sentenze, colle quali aveva ritenuto doversi computare la diminuente all’esito degli aumenti derivanti dalla continuazione, aveva, altresì, affermato che accedere all’una o all’altra interpretazione sul momento di applicabilità della riduzione non comportava, in sostanza, alcuna differenza. Invero, nella sentenza del 10 gennaio 1992, sez. V. tra l’altro si legge : “Sembra peraltro consentita un’altra considerazione....e precisamente quella per la quale (salvo forse il caso in cui si prospetti l’applicazione dell’art. 78 c.p., che riguarda anche il reato continuato) a differenza che nel caso del patteggiamento (nel quale l’aumento per la continuazione può portare la pena a misura tale che diminuita di un terzo , resta superiore al limite “insuperabile” dei due anni previsti dall’art. 444 c.p.p.), nel giudizio abbreviato è indifferente che la riduzione del terzo prevista dall’art. 442 cpv. c.p.p. venga calcolata prima o dopo l’aumento per la continuazione, identico essendo, nei due casi, il risultato. Ed infatti, l’aumento ex art. 81 cpv. c.p. è conseguente ad un processo che prevede la valutazione del peso dei vari reati in continuazione, valutazione necessaria sia per determinare la violazione più grave da prendere come base per il calcolo, sia per stabilire quale debba essere la consistenza dell’aumento per la continuazione. Ora giudicando che l’aumento ex art. 81 cpv. c.p. debba essere corrispondente ad una certa misura percentuale della pena base, il risultato non cambia se la riduzione ex art. 442 cpv. c.p.p. venga applicata prima o dopo l’aumento per la continuazione (a titolo di esempio : determinando le pene “piene” per due reati in continuazione in anni sei e in anni tre di reclusione e nella misura di un sesto della pena base l’aumento per la continuazione, il risultato di anni quattro mesi otto di reclusione resta identico sia che la riduzione ex art. 442 cpv. venga calcolata prima della continuazione : anni 6 - 1/3 per 442 cpv. = anni 4 + 1/6 ex 81 c.p. = anni 4 mesi otto ; oppure dopo la continuazione : anni 6+ 1/6 ex 81 c.p.= anni 7 - 1/3 per 442 cpv = anni 4 mesi otto). Identico risultato calcolando l’aumento ex art. 81 prescindendo da un aumento in misura percentuale della pena base ed avendo presente soltanto il “peso” del reato in continuazione e la percentuale i tale pena che dovrà essere portata in aumento. Riprendendo l’esempio di cui sopra e determinando l’aumento ex art. 81 cpv c.p. nella misura di un terzo della pena piena per il reato in continuazione, in tanto l’aumento ex art. 81 viene fissato nella misura di un anno in quanto per il reato in continuazione la pena che dovrebbe essere applicata in assenza di continuazione sia quella di anni tre. Ma se la riduzione ex art. 442 cpv. viene effettuata prima dell’aumento per la continuazione, dovendo all’evidenza la stessa riguardare tutti i reati giudicati con il rito abbreviato, ne deriva che per il reato in continuazione, la pena “piena” non è più quella di anni tre, bensì quella di anni due di reclusione e l’aumento ex art. 81 nella misura percentuale di un terzo della pena “piena” per il reato in continuazione resta sempre otto mesi.”

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L’erroneità di tale assunto emerge manifestamente quando si consideri l’ipotesi -al vaglio di questa Corte- della continuazione tra reati comportanti l’ergastolo. Essendosi, già, evidenziato come, applicando la diminuente prima o dopo si pervenga a soluzioni sensibilmente differenti : rispettivamente, alla pena dell’ergastolo o a quella di trent’anni.

* * *

d) l’orientamento della Corte di Assise

Tanto premesso, osserva questa Corte che il summenzionato orientamento interpretativo non può essere condiviso, perché in palese contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza e di ragionevolezza. Al riguardo, pare opportuno far precedere al ragionamento seguito da questo Giudice uno schema che lo compendi, al fine di rendere più agevole la lettura delle pagine che seguono. Riassumendo il processo logico percorso è il seguente : I) Il legislatore non ha previsto alcunché in ordine al momento applicativo della diminuente (nei casi di processi riguardanti il concorso di più reati); II) Il legislatore ha, quindi, affidato all’interprete il compito di discernere, seguendo gli usuali parametri esegetici, quali norme applicare e, quindi, l’individuazione del momento applicativo della diminuente (se prima o dopo i computi conseguenti alle norme sul concorso dei reati ); III) Delle due sole interpretazioni possibili, vale a dire se la diminuente debba essere applicata dopo tutti i calcoli possibili (per continuazione, concorso formale ecc;) ovvero, prima di tutti i predetti calcoli : la prima interpretazione si pone in chiaro contrasto coi principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità e, quindi, non può essere seguita. IV) la seconda interpretazione (quella per la quale la diminuente deve applicarsi, per ogni reato, dopo che sia stato operato il computo relativo alle aggravanti ed alle attenuanti e prima degli eventuali aumenti per la continuazione , ecc.), è l’unica che non contrasta coi suddetti principi costituzionali ; di guisa che, la strada dell’interprete è obbligata, non potendo nemmeno sollevare eccezione di incostituzionalità, atteso che la norma può essere interpretata in senso aderente alla Costituzione.

* * *

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I) In primo luogo occorre, dunque, rimarcare a chiare lettere che sicuramente nulla di esplicito ha previsto il legislatore sul momento applicativo della diminuente. Infatti, l’art. 442/2 c.p.p. si limita a stabilire che la riduzione interviene sulla pena che il giudice ha determinato “tenendo conto di tutte le circostanze”. Per dare fondamento normativo al proprio assunto, la giurisprudenza dominante, che qui si intende disattendere, ha sostenuto che il termine “circostanze”, usato dal legislatore all’art. 442 c.p.p., dovesse interpretarsi in senso lato; spiegando tale asserto, come si è già cennato, col fatto che quella ricavabile dall’art. 442 è “diminuente avente natura processuale e non sostanziale”.

* 1) l’evanescenza dell’argomento incentrato sulla natura processuale della diminuente di rito. Orbene, ritiene questo Giudice che il riferimento al termine “circostanze” impiegato dall’orientamento giurisprudenziale, per dimostrare la giustezza della tesi sostenuta, non sia convincente, né che possa essere utile, a spiegarne la giustezza, l’argomentazione relativa alla natura (“processuale”) della diminuente. A quest’ultimo proposito va, invero, osservato che la figura della “diminuente di rito” o “processuale” non è inquadrabile in una categoria giuridica positivamente codificata. Di contro, trattasi di un istituto delineato dalla più recente dottrina e giurisprudenza sulla base delle caratteristiche attribuite alla diminuente, proprio, dagli artt. 442 e 444 c.p.p., che sono i soli a prevederla. Fermo restando che si può, senz’altro, condividere che la diminuente in questione, abbia una natura differente rispetto alle altre circostanze e diminuenti previste dalla legge penale -non fosse altro perché lo stesso legislatore agli artt. 442 e 444 c.p.p., mostra chiaramente di sottrarla al giudizio di comparazione (ex art. 69 c.p.) proprio di tutte le circostanze-; ed, ancora, che si può concordare (dato il momento in cui viene ad operare rispetto alle altre circostanze e dato ancora che si tratta di diminuente totalmente disancorata rispetto al reato sulla cui pena viene ad incidere) che possa essere definita come “diminuente di rito”; resta da vedere quali siano i corollari esattamente derivanti da siffatta “qualifica” . In tal senso, infatti, non sembra affatto corretto far discendere dalla ritenuta “natura processuale” conseguenze contenutistiche non ricavabili dalla norma (da cui la “qualifica” di detta diminuente è tratta). In sostanza, non pare giusto utilizzare, per dimostrare il fondamento normativo dell’interpretazione qui disattesa, la natura giuridica (“processuale”) attribuita all’istituto; dando a tale natura un contenuto che è tutto da verificare; e che, per di più, si vorrebbe desumere, proprio, dalla norma oggetto dell’interpretazione. Di contro, come già cennato, qualificare come “processuale” la diminuente potrebbe essere legittimato anche solo dal fatto che, a differenza delle altre, la

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diminuente in questione non affronta il giudizio di comparazione colle altre circostanze attenuanti o aggravanti, ma interviene solo successivamente alla determinazione della pena computata, tenendo conto di dette attenuanti ed aggravanti. Conclusivamente, perché, al fatto di essere una “diminuente di rito” possa darsi un valore “illuminante” e chiarificatore (come preteso da chi sostiene la giustezza dell’orientamento giurisprudenziale dominante), occorre che da qualche parte positivamente risulti o possa dedursi che, dalla natura processuale della diminuente, discendano le conseguenze volute dall’interpretazione qui contestata e, cioè, che la diminuente operi dopo tutti i calcoli eseguibili per effetto del concorso (per continuazione, formale o materiale) dei reati. Non potendosi, di contro, ciò ricavare da nessuna norma; ne segue che il fatto che la diminuente in questione possa definirsi processuale o di rito non può valere ad asseverare la fondatezza dell’interpretazione qui respinta.

* 2) l’infondatezza dell’argomento poggiante sul concetto di circostanze <<in senso lato >>: Peraltro, secondo questo Giudice deve escludersi che al termine circostanze impiegato negli artt. 442 e 444 c.p.p. possa attribuirsi il significato <<più ampio>>, riconosciutogli dalla S.C. di Cassazione, comprensivo di tutti quegli elementi che, al pari delle circostanze vere e proprie, partecipano al processo e, quindi, comprensivo della continuazione tra due o più reati, del concorso formale e di quello materiale. In proposito, giova, in primo luogo, sottolineare come la Cassazione, in riferimento alla diminuente di cui all’art. 442 c.p.p., sia pervenuta al convincimento sopra sintetizzato <<indirettamente>>; vale a dire, procedendo dalla decisione adottata dalle Sezioni Unite (1/10/1991) in relazione alla diminuente discendente dal patteggiamento (art. 444 c.p.p.) . Nella sentenza delle S.U. della Corte di Cassazione viene spiegato perché il termine circostanze debba essere inteso in senso lato. Invero, dalla suddetta pronuncia, si evince che il termine circostanze, proprio perché evocato agli effetti esclusivi del processo di determinazione della pena, sarebbe comprensivo di tutti quegli elementi che, benchè non identificabili in vere e proprie circostanze del reato, sono partecipi al pari di queste, del processo : e tale sarebbe indubbiamente, la continuazione tra due o più reati. In riferimento all’abbreviato, invece, la Cassazione ha spiegato solo che : “pur avendo presente che la decisione delle Sezioni unite è intervenuta in relazione all’istituto del patteggiamento e non del giudizio abbreviato e che, in relazione all’art. 444 c.p.p. detta decisione trova corposo sostegno e conferma - inesistente per il giudizio abbreviato-, anche nell’art. 188 disp. att. ex d. lg. 271/89, dal quale si

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evince che il limite non superabile di due anni di reclusione previsto dall’art. 444 tiene conto anche dell’aumento per la continuazione (con la conseguenza che nel caso di reato continuato, lungi dall’essere favorita viene ad essere più limitata l’applicabilità della procedura di patteggiamento).......l’identica dizione usata negli artt. 442 e 444 c.p.p.... deve ....essere interpretata nello stesso senso e cioè nel senso di ritenere fra le circostanze anche la continuazione tra due o più reati.” Sarebbe, quindi, solo l’identicità di dizione usata nei due articoli a far ritenere che anche nel caso contemplato dall’art. 442 c.p.p. il concetto di circostanze debba intendersi in senso lato. A parere di questa Corte, l’argomento in questione si appalesa intrinsecamente fragile, soprattutto, in vista dei summenzionati rilevanti riflessi sull’entità della pena in concreto irrogabile. Inoltre, per questo Giudice, deve addirittura escludersi che il termine circostanze possa essere stato impiegato (nell’art. 442 c.p.p.) dal legislatore <<in senso lato>>. Al riguardo, va, preliminarmente, evidenziato che non vi possono essere dubbi sul fatto che si tratti di un <<termine tecnico>> che ha un suo significato ben preciso nel diritto sostanziale. Invero, per dirla colla consolidata giurisprudenza, sono circostanze (aggravanti o attenuanti) <<quelle particolari accidentalità del reato, le quali, aggiungendosi agli elementi costitutivi della fattispecie, reagiscono sulla sanzione tipica in quanto ad esse il legislatore ricollega l’effetto di modificare, in più o in meno, la pena stabilita per il singolo reato. Sono tali quelle evenienze che non rientrano tra gli elementi essenziali del reato, né tra le condizioni di punibilità, né tra altre categorie specificamente disciplinate dalla legge e che nemmeno si presentano sotto forma di evento (in senso tecnico) che quindi in una parola non influiscono in nessun modo sull’oggettività giuridica dell’illecito.>> Si tratta, dunque, sempre di elementi accessori e pertinenziali al reato e, giammai, di elementi <<estranei>> al reato come quello costituito dalla concomitante presenza (e quindi dal concorso) di un altro reato. Né va sottaciuto che, secondo una delle più elementari regole esegetiche, i termini usati dalla legge vanno presi, di regola. nella loro accezione tecnica ; e nel dubbio, di fronte ad un significato tecnico, si deve, addirittura, sacrificare quello usuale e comune delle parole. Ovviamente, il mero significato tecnico-letterale di un termine può essere superato utilizzando altri criteri interpretativi, quali ad es. quello teleologico, vale a dire quello fondato sullo scopo che la norma si propone di raggiungere, onde consentire che le applicazioni della norma siano conformi alle sue finalità. Tuttavia, rilevato che trattasi di un criterio particolarmente delicato, in quanto richiede una previa esatta determinazione della c.d. ratio legis (che non può di certo essere ricavata dall’interpretazione della norma e può essere influenzata proprio dal diverso modo col quale la norma viene applicata), va evidenziato che nulla ci dice

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che la volontà del legislatore fosse proprio quella sostenuta dall’interpretazione qui disattesa. Né può argomentarsi, che solo attraverso l’interpretazione seguita dalla consolidata giurisprudenza della S.C. può attribuirsi alla norma un significato logico e compatibile col sistema nel quale è inserita, ovvero che il legislatore abbia chiaramente mostrato nei casi in questione (artt. 442 e 444 c.p.p.) di volere usare l’espressione “circostanze” in senso lato e quindi in senso atecnico. Milita, di contro, a favore dell’opinione che il legislatore non abbia voluto discostarsi dal significato tecnico del termine il fatto che, non solo, nelle norme di diritto sostanziale penale, ma altresì, in quelle che disciplinano il processo penale, il legislatore ha sempre mostrato di distinguere più che chiaramente le “circostanze” dalle altre figure giuridiche (ed in particolare da quella della continuazione) che la giurisprudenza qui contestata vorrebbe sussumere nel concetto di “circostanze in senso lato”. Così, a titolo di esempio va ricordato come all’art. 4 del c.p.p., nell’indicare le regole per la determinazione della competenza, il legislatore abbia sancito : “Per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”. Ed ancora come, sempre a titolo d’esempio, all’art. 278 c.p.p. abbia previsto : “Agli effetti dell’applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostanza attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 del codice penale nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella ordinaria del reato e di quelle a effetto speciale”. E nella stessa direzione possono richiamarsi le disposizioni di cui agli artt. 423 e 517 c.p.p. dalle quali emerge chiaramente la consapevolezza da parte del legislatore della distinzione concettuale insistente tra le “circostanze” ed i casi di concorso dei reati (continuazione, concorso formale, ecc.). Pertanto, a dar credito all’interpretazione giurisprudenziale qui disattesa, dovrebbe argomentarsi che, solo avuto riguardo alle norme di cui agli artt. 442 e 444 c.p.p., il legislatore avrebbe rivisto il concetto di “circostanze”, attribuendone uno più ampio e comprendente le ipotesi di continuazione, di concorso formale ecc. La cosa, a parere di questo Giudice, già parrebbe, oltremodo, singolare. Ma, addirittura paradossale sarebbe il fatto che -a voler sostenere l’interpretazione qui respinta- il legislatore avrebbe, financo, impiegato, nell’ambito

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del medesimo articolo (444 c.p.p.), il termine circostanze ora in senso “tecnico”, ora in senso lato e quindi atecnico. Invero, non pare in alcun modo contestabile che, nel secondo comma dell’art. 444 c.p.p., l’espressione circostanze sia stata utilizzata in senso squisitamente tecnico, avendo il legislatore strettamente collegato detta espressione con quella relativa all’operazione della comparazione, tipica delle circostanze, per l’appunto, in senso tecnico. E parrebbe veramente assurdo che il legislatore avesse potuto, nell’ambito della stessa norma, senza giustificato motivo e, comunque, senza alcun chiarimento, impiegare lo stesso termine in accezioni così profondamente diverse.

* * * Né, può argomentarsi che, dagli articoli 137 e 188 delle disp. di attuazione del c.p.p., possa ricavarsi l’esattezza della tesi per la quale il termine “circostanze” di cui all’art. 442 c.p.p. comprende anche le figure della continuazione e del concorso di reati. Al riguardo, intanto, non può sottacersi che entrambe le suddette disposizioni di attuazione riguardano specificamente l’ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti (di cui all’art. 444 c.p.p.) . Di guisa che, in ogni caso, andrebbe considerato, in primo luogo che, essendo state previste solo per il patteggiamento della pena e non per il rito abbreviato - applicando la nota regola esegetica sintetizzata nell’altrettanto noto brocardo latino ubi lex voluit dixit con quel che ne consegue- se ne dovrebbe dedurre che si tratta di argomentazioni, al limite, valevoli esclusivamente per il c.d. “patteggiamento” della pena e non per il rito abbreviato. Tuttavia, a ben vedere nemmeno in riferimento al “patteggiamento” le due norme appaiono significative in vista di un ampliamento del significato del termine “circostanze” impiegato dall’art. 444/1 c.p.p. Infatti, l’art. 137/2 delle disp. di attuazione si limita a prevedere che la disciplina del concorso formale e del reato continuato è applicabile anche <<quando concorrono reati per i quali la pena è applicata su richiesta delle parti ed altri reati>>. E non pare possa in alcun modo essere utilizzato per chiarire se il concetto di <<circostanze>> debba essere inteso in senso ampio. Né pare possa contribuire ad individuare, quale momento applicativo della diminuente, quello successivo alle valutazioni susseguenti l’insistenza del concorso di reati. Anzi, sembrerebbe supportare la tesi contraria, atteso che, prevedendo la possibilità di applicare le norme sulla continuazione (e sul concorso formale) tra reati per i quali è stata irrogata la pena su richiesta delle parti ed altri reati, in pratica, sottende l’insistenza di reati per i quali l’applicazione della diminuente sia stata già valutata ed indica una successiva applicazione delle norme relative alla continuazione ed al concorso formale.

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Mentre, avuto riguardo all’art. 188 delle disp. di attuazione al c.p.p., sembra potersi affermare, che tale norma si limiti a prevedere che il confine di due anni di reclusione previsto dall’art. 444 c.p.p. come massimo della pena irrogabile su accordo delle parti, non può essere derogato, in sede di esecuzione, nemmeno quando l’oggetto del patteggiamento sia costituito dalla pena determinata in riferimento a più reati unificabili sotto il vincolo della continuazione o per concorso formale. Sembrando, di contro, palesemente eccessivo far discendere da tale asserto, quale corollari, sia l’individuazione del momento applicativo della diminuente di cui all’art. 444 c.p.p. ( e , per analogia, quello della diminuente di cui all’art. 442 c.p.p.), sia la volontà del legislatore di intendere in senso ampio il termine <<circostanze>> impiegato nell’art. 444/1 c.p.p. (nonché , per analogia quello utilizzato nell’art. 442 c.p.p.). Dovendosi, infine, sottolineare che quella prevista dall’art. 188 disp. att. è chiaramente una norma che riguarda espressamente solo il patteggiamento della pena (e non il rito abbreviato) ; e che il suo unico fine è quello specifico di restringere, in sede di esecuzione (e, volendo, per analogia, anche in sede di cognizione), l’ambito di efficacia della volontà negoziale delle parti sulla pena.

* * * Deve, quindi, convenirsi che il ritenere che il termine circostanze di cui all’art. 442 c.p.p. possa essere inteso in senso ampio si appalesi del tutto arbitrario e non fondato su alcun dato normativo. Di guisa che, negato, in forza delle superiori argomentazioni, all’espressione <<circostanze>> di cui all’art. 442 c.p.p. un significato diverso da quello tecnico; pare incontrovertibile che il legislatore non abbia positivamente disciplinato l’ipotesi dell’applicazione della diminuente nel caso del concorso di reati. Né ciò può sorprendere, quando si consideri che il concorso dei reati (materiale, formale, per continuazione) non costituisce la regola, bensì, se non proprio l’eccezione, una mera eventualità processuale; ed ancora che il legislatore ha più volte mostrato di voler plasmare il codice dell’89, modellandolo su una fattispecie <<tipo>> rispondente allo schema : <<un processo, nei confronti di un unico imputato, per un unico reato>>. Peraltro, va incidentalmente evidenziato che, se proprio si dovesse cogliere dalla previsione di cui all’art. 442 c.p.p. un sintomo rivelatore della voluntas legis sul momento applicativo della diminuente nel caso di concorso dei reati, questo indicherebbe la direzione esattamente opposta a quella seguita dalla giurisprudenza qui disattesa. Invero, - considerato che, in virtù di tale norma, la diminuente deve essere applicata “dopo le circostanze” e che da alcuna previsione normativa è dato ricavare che siffatta applicazione non debba seguire direttamente la valutazione delle circostanze- se ne dovrebbe trarre che, secondo il legislatore, <<l’applicazione della

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diminuente deve essere fatta subito dopo l’applicazione delle suddette circostanze>> e, quindi, prima dell’intervento di altri fattori meramente eventuali come gli effetti conseguenti dal concorso del reato con altri reati. Tuttavia, anche prescindendo dall’immorare sull’argomento testè indicato, (e quindi, escluso - per ipotesi di lavoro- che la legge abbia positivamente previsto che la diminuente debba essere applicata in ogni caso subito dopo l’apprezzamento delle circostanze, considerate in senso tecnico) non può non pervenirsi, quanto meno, alla conclusione che <<nulla ha previsto il legislatore sul momento applicativo della diminuente nel caso in cui vi siano reati in concorso fra loro e debba procedersi all’aumento di pena previsto dagli artt. 72 e ss. c.p..>> In altri termini, dovendosi, almeno, convenire che il legislatore non ha previsto se la diminuente debba operare subito dopo la determinazione della pena prevista per il reato tenuto conto delle relative attenuanti o aggravanti e prima degli eventuali aumenti per la continuazione, concorso formale, ecc.; ovvero, se debba operare dopo la determinazione della pena ultima, calcolata anche in forza delle norme disciplinanti il concorso dei reati.

* * * II) In mancanza di un’esplicita previsione normativa, deve ritenersi che il legislatore abbia rimesso all’interpretazione del Giudice l’individuazione del cennato momento applicativo. Dovendosi convenire, come sopra argomentato, che la legge non prevede alcunché di esplicito intorno al momento in cui deve applicarsi la diminuente in questione; deve ritenersi che la soluzione del problema in trattazione debba rinvenirsi, all’interno del sistema, facendo ricorso agli usuali canoni interpretativi. In tal senso, ovviamente, sono solamente due le possibilità consentite all’interprete; e cioè che la diminuente sia applicata prima o dopo gli aumenti dovuti in base alle norme che disciplinano il concorso dei reati (71 e segg. c.p.). Si è già visto come la S.C. di Cassazione abbia privilegiato (con un orientamento interpretativo, oramai, presso che consolidato), la tesi della diminuzione da applicare dopo tutti gli aumenti previsti per effetto della continuazione o del concorso dei reati in genere. Tuttavia, a parere di questa Corte tale orientamento non può essere condiviso, atteso che, se interpretato nel modo dianzi cennato, il terzo comma dell’art. 442 c.p.p. finirebbe per porsi in chiaro contrasto con principi tutelati dalla Costituzione.

* * * III) In altri termini, deve rilevarsi che se all’art. 442 c.p.p., nella parte concernente il momento applicativo della diminuente di rito nel caso di concorso di

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reati si desse l’interpretazione qui disattesa, la suddetta norma si porrebbe in contrasto coi principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità di cui agli artt. 3 e 27 Cost. . In tal senso, va, in primo luogo, sottolineato come l’adesione all’interpretazione oggi respinta renderebbe impossibile l’irrogazione di una pena sempre adeguata alla gravità del delitto commesso. Giova ricordare, al riguardo, come la Corte Costituzionale abbia più volte affermato l’esigenza che la risposta punitiva sia - in vista del rispetto del principio della “personalità” della pena di cui all’art. 27/3 Cost.- il più possibile adeguata alla concreta violazione posta in essere. Assumendo, in proposito, la Corte Costituzionale, che “il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente <<proporzionata>> rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato” ed, ancora, che “previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in armonia col volto costituzionale del sistema penale”. Ciò posto, non può revocarsi in dubbio che, per effetto della suesposta denegata interpretazione, si verrebbe a determinare l’assoluta impossibilità per il giudice di modulare la pena a seconda della gravità dei reati consumati. Infatti, per quanto già rilevato, al responsabile di un omicidio punibile coll’ergastolo, verrebbe inflitto un trattamento sanzionatorio assolutamente identico a quello irrogato a chi si sia reso responsabile di dieci, cento, mille reati di omicidio o strage, punibili, ognuno, colla pena dell’ergastolo. In entrambi i casi la pena che si applicherebbe nel massimo sarebbe quella di trent’anni di reclusione. Al riguardo, in verità, si potrebbe obbiettare che : - in ogni sistema è prevista una pena massima irrogabile; - che tale pena massima in alcuni ordinamenti è la pena di morte ed in altri l’ergastolo; - ed ancora che nel nostro ordinamento (a seguito dell’introduzione della norma che ammette il rito abbreviato anche per i reati punibili colla pena dell’ergastolo) vi sarebbe una pena massima prevista nel caso del rito ordinario (che è quella dell’ergastolo) ed una pena massima prevista per il rito abbreviato (che sarebbe quella di trent’anni di reclusione); - e, finalmente, che raggiunto il tetto massimo della pena, non è previsto che possa irrogarsene una più severa, quali che possano essere i reati commessi dal condannato. Tuttavia, pare possibile replicare, in primo luogo, che nessuna norma stabilisce se effettivamente il limite di trent’anni di reclusione di cui all’art. 442/3 c.p.p., debba avere come riferimento ognuno dei reati commessi, ovvero la pena cumulativamente applicabile; al riguardo, dovendosi osservare, che anche nel processo ordinario, la pena che può essere inflitta nel massimo, per un singolo reato,

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è quella dell’ergastolo, ma poi la stessa per effetto delle norme sul concorso dei reati subisce un sostanziale aggravamento coll’applicazione dell’isolamento diurno. Inoltre, va rilevato come obbiettivamente non possa non ripugnare, sottraendosi ai citati canoni costituzionali di proporzionalità, che una persona condannata (per esempio) per avere commesso centinaia di omicidi e decine di reati di strage ecc. debba essere punita nel massimo a trent’anni, solo per avere scelto il rito abbreviato; mentre, chi ha commesso un solo omicidio aggravato, ma abbia ritenuto di eleggere il rito ordinario, debba essere punito alla pena dell’ergastolo. La sperequazione sarebbe troppo stridente per potersi giustificare solo colla scelta del rito. Ma v’è di più. Invero, per come sarà rimarcato in seguito, la pena di trent’anni di reclusione non costituisce il massimo dell’inflizione attribuibile nemmeno nel caso che il condannato elegga il rito abbreviato. Difatti, se lo stesso imputato viene giudicato, nell’ambito di differenti processi, per più reati punibili coll’ergastolo e condannato col rito abbreviato, per ciascuno di essi, alla pena di trent’anni; ecco che divenendo irrevocabili le condanne, in sede di esecuzione le stesse determinerebbero la pena dell’ergastolo, in applicazione delle norme sancite agli artt. 71 e segg. c.p. in tema di concorso di reati. Di tal che, “il massimo della pena” irrogabile muterebbe non a seconda del numero e della gravità dei reati commessi; ma a seconda del numero di processi in cui i suddetti reati fossero stati contestati all’imputato. Il tutto, con evidente ulteriore violazione dei principi costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza.

* Del resto, non può farsi a meno di considerare, che l’attribuzione alla mera scelta del rito abbreviato di effetti tanto stravolgenti per i principi che regolano l’ordinario adeguamento della pena irrogata alla violazione realizzata; si appalesa ancor meno giustificabile alla luce dei caratteri assunti dal rito abbreviato in virtù delle recenti modifiche legislative. Invero, poiché il legislatore ha eliminato la possibilità che il pubblico ministero possa - negando il proprio consenso- opporsi all’ammissibilità del rito abbreviato - non pare contestabile che, di fatto, abbia modificato la natura e l’efficacia della richiesta di accedere al rito speciale. Difatti, l’ha chiaramente trasformata da <<scelta di parte caratterizzata dall’offerta della rinuncia al processo ordinario in cambio di una consistente riduzione di pena in caso di condanna>>; a vera e propria <<opzione strategica>> colla quale (rinunciare, si, al rito ordinario in cambio di una consistente diminuzione della pena in caso di condanna, ma soprattutto) sostanzialmente, paralizzare l’attività del pubblico ministero impedendogli (con decisione unilaterale) di incrementare (collo svolgimento di attività integrative di indagine) il bagaglio probatorio posto a carico dell’imputato .

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Così, cristallizzando le conoscenze del giudicante (a meno di una sua scelta di integrarle, ma ovviamente con minori possibilità del p.m., non conoscendo, per esempio, la sopravvenienza di altri collaboranti, di altre risultanze probatorie, ecc.) a quelle esistenti al momento della scelta del rito alternativo. Ed è evidente che un tale vantaggio procedurale non può non rendere che ancor più odiosa ed irrazionale un’interpretazione (quale quella qui respinta) che permetta (applicando la diminuente di rito, alla fine di tutti i calcoli derivabili dal concorso di reati) nel massimo l’irrogazione di trent’anni di reclusione.

* Sempre avuto riguardo all’esigenza di natura costituzionale di adeguare la pena alla gravità dei fatti commessi, pare, peraltro, doveroso rilevare come l’adesione all’interpretazione qui disattesa comporterebbe non solo l’appiattimento nel massimo a trent’anni di reclusione sopra cennato (per cui un omicidio, cento omicidi, mille omicidi , sarebbero tutti punibili nel massimo con trent’anni di reclusione); ma determinerebbe, altresì, una sensibile riduzione del potere di adeguamento della pena al caso concreto nelle ipotesi in cui la pena irrogabile (prima dell’applicazione della diminuente di rito) non fosse quella dell’ergastolo. Invero, nel caso in cui una persona fosse imputata di più reati (si pensi -per ipotesi di lavoro- a decine, centinaia, di reati, magari, non unificabili sotto il vincolo della continuazione), punibili ognuno con pene inferiori ad anni 24 di reclusione; per effetto dell’interpretazione qui disattesa potrebbero essere irrogati, nel massimo, sempre vent’anni di reclusione. Difatti, applicando le disposizioni che regolano il concorso dei reati; e quindi, da un lato procedendo al c.d. cumulo materiale e, dall’altro, tenendo conto del limite previsto dall’art. 78 c.p.; si verrebbe comunque a determinare una pena, nel massimo, sempre non superiore a quella di trent’anni di reclusione. Di tal che, all’imputato che avesse scelto il rito abbreviato, indipendentemente dal numero e dalla gravità dei reati commessi, potrebbero essere irrogati nel massimo (applicando la diminuente alla fine dei calcoli sopra specificati) sempre e solo 20 anni di reclusione. Orbene, a parte l’evidente iniquità del trattamento sanzionatorio, ancora una volta non ci si può esimere dall’osservare che quel che si appalesa del tutto difforme dai canoni costituzionali di proporzionalità della pena, è l’impossibilità di <<dosare>> la sanzione a seconda del reato commesso ; nonché, l’insistenza di un limite a 20 anni di reclusione (indipendentemente dal numero e dalla gravità dei reati commessi) chiaramente non giustificabile, soprattutto quando si consideri la frattura che si verrebbe a creare in riferimento alle pene in concreto irrogabili. Dovendosi, in tal senso, schematizzare che se, per effetto delle regole sul concorso dei reati si può arrivare ad infliggere la pena dell’ergastolo, (secondo l’interpretazione qui respinta) colla diminuente di rito si perverrebbe alla pena di trent’anni.

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Mentre, se per effetto delle norme sul concorso dei reati, non si arriva ad infliggere l’ergastolo, ma solo la pena di trent’anni, (secondo l’interpretazione qui disattesa) colla diminuente di rito si perverrebbe alla pena di vent’anni. Col risultato che si escluderebbe la possibilità di graduare la pena con sanzioni intermedie (tra i 20 ed i 30 anni) e coll’ulteriore effetto aberrante per il quale una persona che avesse commesso due reati punibili con ventiquattro anni di reclusione ciascuno, in forza dell’art. 73 comma secondo c.p. verrebbe - colla diminuente di rito- in ogni caso condannata ad anni trenta di reclusione ; mentre, una persona che avesse commesso un reato punibile ad anni ventiquattro di reclusione e altri dieci, cento, mille, reati punibili (ognuno) colla pena di anni ventitre, mesi undici e giorni ventinove di reclusione, sarebbe punibile, sempre colla diminuente di rito, nel massimo ad anni venti di reclusione. La manifesta assurdità dell’esito cui si perverrebbe non permette di immorare ulteriormente sul punto.

* * * Del resto, come anticipato, l’adesione all’interpretazione qui disattesa, determinerebbe inevitabilmente l’insorgere di questioni di incostituzionalità, per violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, (in riferimento alla normativa prevista dall’art. 442 c.p.p. e dagli articoli che disciplinano l’esecuzione delle pene) presso che irresolubili. Invero, non pare dubitabile che -seguendo l’interpretazione su indicata (e da questa Corte respinta) ed applicando la normativa vigente in tema di esecuzione delle pene- si verifica che : - se una persona viene condannata, in esito ad un unico processo, per dieci, cento, mille omicidi comportanti ognuno la pena dell’ergastolo, la pena che potrà essere inflitta, per effetto della diminuente, sarà sempre di trent’anni di reclusione; - mentre, se la stessa persona viene giudicata anche per due (soli) omicidi comportanti ognuno la pena dell’ergastolo, ma in due processi diversi, riporterà, infine, la pena dell’ergastolo. Infatti, non v’è dubbio che, per effetto della diminuente di rito, riporterà trent’anni di reclusione in entrambi i processi ; ed una volta divenute irrevocabili le sentenze, effettuato il cumulo delle pene, e quindi applicato l’art. 73 secondo comma c.p., la pena ultima sarà quella dell’ergastolo. Di guisa che, dovendosi convenire che la maggiore o minore severità della pena (ergastolo o trent’anni di reclusione) viene sostanzialmente a dipendere esclusivamente dalle modalità colle quali i reati vengano contestati all’imputato (vale a dire a seconda che gli vengano ascritti in un unico processo o in più processi); deve rilevarsi che , oltre alla summenzionata violazione del principio di adeguatezza e proporzionalità della pena al reato commesso, la norma in questione (l’art. 442 c.p.p.) se interpretato nel modo qui disatteso, verrebbe a porsi in chiaro contrasto coi principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost..

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Invero, non pare potersi revocare in dubbio, che si profili una situazione di palese disparità di trattamento tra chi per i medesimi reati venga giudicato in un unico processo o in processi diversi e che la sperequazione si evidenzi come del tutto irragionevole.

* Al riguardo, occorre, incidentalmente, sottolineare che la situazione dianzi descritta si verificherebbe non solo nei casi di concorso materiale dei reati, ma anche, nei casi di concorso formale e di continuazione ; non sembrando che possa scorgersi in proposito alcuna differenza tra i vari tipi di concorso di reati previsti dagli articoli 71 e segg. c.p.. Invero, tanto l’ipotesi del concorso materiale, quanto quelle del concorso formale e della continuazione, soggiacciono per legge alla disciplina prevista dagli articoli 71 e segg. ed in particolare alla previsione di cui all’art. 73 secondo comma c.p., che prevede una sorta di “cumulo giuridico” nel caso di concorso di più delitti per ciascuno dei quali debba infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, sancendo in questi casi l’applicazione dell’ergastolo. L’applicabilità della norma anche ai casi di concorso menzionati dall’art. 81 c.p. (concorso formale e continuazione) si ricava chiaramente da tale articolo che all’ultimo comma, sostanzialmente, rimanda alle previsioni degli articoli che lo precedono per individuare i limiti entro i quali operare gli aumenti (fino al triplo) previsti nei casi di concorso formale e di continuazione. Peraltro, la stessa giurisprudenza della S.C. della Cassazione è costante nell’affermare l’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 72, 73 e 78 nei casi di concorso formale e continuazione di reati (cfr., tra le altre, CASS. pen. sez. I. 21 aprile 1993 nr. 1218; e Cass. pen. sez. I, 4 luglio 1991, la quale ultima ha anche esplicitamente affermato che “il limite massimo di trent’anni di reclusione, previsto dall’art. 78 c.p. per il caso di concorso di reati , non si applica nell’ipotesi contemplata dall’art. 73 secondo comma dello stesso codice”). Né può sostenersi che nel caso di concorso formale e di continuazione non sorgerebbe il problema dianzi prospettato, in quanto il giudice, in sede di esecuzione, trovandosi di fronte a più condanne riportate in diversi processi dovrebbe, comunque, risalire alla pena base inflitta per il reato più grave ; applicare tutti gli aumenti derivanti dalla continuazione o dal concorso formale ; e, quindi, sulla pena ultima determinata , applicare la riduzione derivante dal rito abbreviato. Col risultato di pervenire (anche in questo caso) alla pena di trent’anni. Tale tipo di procedimento non pare affatto accettabile. Premesso, in ogni caso, che la tesi ora espressa lascia, comunque, fuori le ipotesi di concorso di reati non in rapporto di continuazione e di concorso formale tra loro; di tal che, almeno per queste ipotesi, resterebbe, comunque, intatto il giudizio di incostituzionalità della norma sopra rappresentato; va rilevato che la suddetta tesi contrasta chiaramente col principio dell’intangibilità del giudicato.

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In forza del quale ultimo, deve ritenersi che il giudice in sede di esecuzione non potrà muovere da una pena diversa da quella inflitta (anche per effetto della diminuente) dal giudice di cognizione. E sulla base della pena inflitta per il reato più grave, in tesi 30 anni (sempre per effetto della diminuente di rito applicata dal giudice di cognizione) dovrà , una volta ritenuta la continuazione o il concorso formale, applicare l’aumento di pena che (trattandosi di reati puniti con 24 anni di reclusione) ex art. 73/2 c.p. è determinato per legge, nella pena dell’ergastolo. In sostanza, deve escludersi che il giudice dell’esecuzione possa risalire alla pena calcolata prima dell’applicazione della diminuente; dovendosi, di contro, convenire che debba prendere come base la pena (intangibilmente) applicata per quel reato. L’impossibilità di retrocedere sino al momento antecedente l’applicazione della diminuente pare manifesta nel caso in cui debba procedersi alla riunione per continuazione (in sede esecutiva) di due reati per uno dei quali la condanna sia stata inflitta in sede di rito abbreviato (e sia stata quindi applicata la diminuente di rito); e per l’altro, invece, sia stata irrogata in sede di rito ordinario (conseguentemente, senza che possa essergli stata applicata la diminuente di rito). In questo caso è evidente che il Giudice non potrà, risalire alla pena applicabile in astratto senza la diminuente, ritenere la continuazione, calcolare l’aumento e quindi applicare la diminuente di rito, senza violare i principi discendenti dall’intangibilità del giudicato e quelli di ragionevolezza. Infatti, così operando, estenderebbe illogicamente quanto arbitrariamente il beneficio della riduzione della pena conseguito in un processo, alla pena riportata nell’altro processo.

* Peraltro, non va sottaciuto che (aderendo alla tesi interpretativa qui disattesa) la possibilità di ottenere solo in sede di esecuzione la pena massima dell’ergastolo, indurrebbe inevitabilmente il Pubblico Ministero a scelte paradossali come quella di spezzettare le imputazioni in altrettanti processi, al fine di ottenere in sede di esecuzione quello che non potrebbe ottenere in sede di cognizione. Il tutto con evidenti dannose conseguenze per l’amministrazione della giustizia, che sarebbe inutilmente gravata dall’onere di trattare in più procedimenti reati commessi dalla stessa persona, che potrebbero, con risparmio di tempo, di mezzi e di lavoro, essere valutati in un unico contesto. Ed ecco che, anche sotto tale aspetto, la soluzione privilegiata dalla S.C. non pare affatto sostenibile. Per i suddetti motivi pare, dunque, evidente che l’orientamento che prevede l’applicabilità della diminuente, discendente dal rito abbreviato, alla fine di tutti i possibili aggravamenti di pena dovuti alle regole previste per i casi di concorso dei reati non si armonizza coi principi di ragionevolezza, di uguaglianza e di proporzionalità della pena.

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Di contro, determinando l’insorgere, in ordine all’art. 442 c.p.p. ed in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., di evidenti profili di incostituzionalità. Pare, quindi, corretto escludere che quella ora indicata sia la strada interpretativa da seguire e che, viceversa, debba privilegiarsi (previa verifica della sua costituzionalità) l’altra ipotesi interpretativa, vale a dire quella per la quale la diminuente deve essere applicata prima degli aumenti derivanti dalle ipotesi di concorso di reati. Ovviamente, non ci si nasconde che l’orientamento qui disatteso è stato asseverato da un autorevolissimo interprete del diritto, qual è la S.C. di Cassazione. Tuttavia, deve del pari evidenziarsi : -che il cennato orientamento si è formato in situazioni diverse (quando, cioè, il rito abbreviato non era consentito per i reati punibili coll’ergastolo, per cui si poteva giungere a sostenere che il momento applicativo della diminuente era indifferente); - che si tratta di un orientamento (ancorché più recente e consolidato) non univoco, esistendo (come sopra rappresentato) sentenze che propendono per la soluzione contraria (vale a dire per quella seguita da questa Corte); - e che, comunque, l’orientamento qui respinto non è vincolante, potendo e dovendo l’interprete adottare l’interpretazione che ritenga più aderente ai fatti di causa.

* * * IV) Deve, peraltro, osservarsi come l’altra interpretazione (quella per la quale la diminuente deve applicarsi, per ogni reato, dopo che sia stato operato il computo relativo alle aggravanti ed alle attenuanti e prima degli eventuali aumenti per la continuazione , ecc.), sia l’unica che non contrasti coi suddetti principi costituzionali e che il giudice sia vincolato all’elezione di tale scelta esegetica. Invero, reputa la Corte che l’interpretazione che individua il momento applicativo della diminuente derivante dal rito abbreviato, in quello immediatamente successivo alla determinazione della pena irrogabile per il reato e per le sue circostanze (intese in senso tecnico), ed antecedente agli aumenti di pena derivabili dalle regole sul concorso dei reati, non solo si armonizzi perfettamente nel sistema penale vigente, ma risponda a tutti quei principi costituzionali sopra riportati. Invero, la cennata esegesi risolve tutti i suddetti profili di incostituzionalità, determinando l’irrogazione di sanzioni penali adeguate e modulate sulla base della gravità e del numero delle violazioni commesse e non del numero di processi avviati; ed, altresì, consentendo di pervenire ad un uguale trattamento sanzionatorio, sia nel caso di reati accertati con un unico processo, sia nell’ipotesi che gli stessi reati siano ascritti all’imputato in differenti processi.

* * * Né va sottaciuto che l’interpretazione qui seguita (diversamente da quella disattesa) consente di spiegare per quale motivo il legislatore, nella recente modifica, colla quale ha introdotto il rito abbreviato per i reati comportanti l’ergastolo (L. nr.

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144/2000 e nr. 479/1999), non ha fatto il benchè minimo riferimento alle ipotesi in cui si dovesse far luogo all’applicazione della “sanzione dell’isolamento diurno”. Tale apparente “lacuna normativa” aveva indotto qualche operatore del diritto, addirittura, a sostenere che, quando per effetto del concorso si potesse in astratto pervenire all’inflizione dell’ergastolo aggravato dall’isolamento diurno, il rito abbreviato dovesse considerarsi inammissibile. Tale tesi, a parere della Corte, non può condividersi. Difatti, va in primo luogo considerato che, così argomentando, si finirebbe, in buona sostanza, per attribuire nuovamente al Pubblico Ministero il potere di opporsi alla scelta del rito abbreviato, in palese contrasto collo spirito delle recenti modifiche normative tutte improntate a rimettere l’adozione del rito speciale alla unilaterale volontà decisionale dell’imputato. Infatti, il Pubblico Ministero potrebbe sempre agevolmente precludere la scelta del rito, contestando, oltre al reato punibile coll’ergastolo, altro delitto comportante, in astratto, (magari per effetto di circostanze aggravanti d’incerta insistenza) una pena superiore ad anni cinque di reclusione, così da creare -sulla base del disposto di cui all’art. 72 c.p.- le condizioni per l’eventuale applicazione dell’isolamento diurno e, quindi, per la causa di inammissibilità dell’abbreviato sopra cennata. Di converso, ove l’interesse del Pubblico Ministero coincidesse con quello dell’imputato nella scelta del rito speciale, la parte pubblica potrebbe, per aggirare il problema dell’inammissibilità sopra delineato, insindacabilmente frazionare le imputazioni in tanti procedimenti, così da scongiurare il rischio che in unico procedimento possano ricorrere le condizioni di cui all’art. 72 c.p. sopra menzionato; ma nel contempo creando gravi disagi nell’amministrazione della giustizia incentivando un’inutile quanto defatigante proliferazione di processi, tra l’altro perniciosa per l’evidente incremento esponenziale del rischio di giudicati contraddittori (e di situazioni di “incompatibilità”). Peraltro, a fronte dell’evidente volontà ripetutamente espressa dal Legislatore (colla L. 16 dicembre 1999, nr. 479 e colla L. 144/2000) di consentire il ricorso al rito abbreviato anche a chi sia imputato di reati punibili coll’ergastolo, non pare che la mancata previsione di una normativa specifica sulle modalità applicative dell’eventuale sanzione dell’isolamento diurno, possa costituire sufficiente causa di inammissibilità. Di converso, occorre rilevare che il nostro ordinamento non prevede per alcun reato la pena dell’ergastolo corredata dall’isolamento diurno, costituendo quest’ultima sanzione solamente l’effetto dell’applicazione delle norme sul concorso dei reati, di cui agli art. 71 e segg. c.p.. Di guisa che, a parere della Corte, non pare priva di logica la scelta legislativa di evitare, nell’art. 442 c.p.p., qualsivoglia riferimento all’isolamento diurno, in sintonia con una normativa processuale che si appalesa, di regola, modellata su un procedimento promosso nei confronti di un solo imputato ed avente ad oggetto un unico reato.

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In altri termini, a parere di questo Giudice, la circostanza per la quale il legislatore non ha menzionato, nell’art. 442 c.p.p. come recentemente novellato (colla L. 16 dicembre 1999, nr. 479 e colla L. 144/2000), la sanzione dell’isolamento diurno, è logicamente spiegabile col fatto che nel nostro ordinamento non esiste alcun reato punibile coll’ergastolo aggravato dall’isolamento diurno, quest’ultima sanzione conseguendo al condannato solo per effetto delle norme sul concorso di più reati; e che (come sopra sostenuto) il legislatore agli artt. 442 e 444 c.p.p. non ha “positivamente disciplinato” il caso (eventuale) del condannato per più reati in concorso fra loro ; considerando solo il caso “fisiologico” del processo promosso contro un imputato per un solo reato. Essendo, in tal senso evidente che, non contemplando l’art. 442 c.p.p. il caso del concorso di reati, la mancata menzione “dell’isolamento diurno”, si appalesa, non solo, giustificabile, ma financo, conseguenziale. Invero, applicando la diminuente di rito per ogni singolo reato (<<reato per reato>>) è evidente che mai ci si troverà a dover irrogare la sanzione dell’isolamento diurno. (Così, a titolo d’esempio, se una persona è ritenuta responsabile di reati puniti coll’ergastolo, la pena di ciascuno di essi dovrà essere ridotta, per effetto della diminuente di rito a trent’anni. Poi, per effetto delle norme che regolano il concorso dei reati, la pena ultima potrà nei congrui casi - ex art. 73/2 c.p.- tornare all’ergastolo. Ma in nessun caso il mancato riferimento normativo alla sanzione dell’isolamento diurno - secondo la tesi qui sostenuta- potrà interferire sull’ammissibilità del rito abbreviato.) Di tal che, anche la scelta normativa di non fare riferimento nell’art. 442 c.p.p. alla sanzione dell’isolamento diurno si appalesa come un ulteriore sintomo dell’adesione del legislatore alla tesi (qui sostenuta) dell’applicabilità della diminuente di rito prima degli aumenti conseguenti dalle regole sul concorso dei reati.

* * * Deve, quindi, convenirsi che sul momento applicativo della diminuente di rito, oltre a quella recentemente seguita dalla Corte di Cassazione, esiste un’altra interpretazione assolutamente compatibile colle norme che regolano il processo penale e coi principi costituzionali. Di guisa che, ritiene la Corte che, poiché esiste la possibilità di seguire un’interpretazione che possa ovviare ai problemi di incostituzionalità sopra cennati, il Giudice non può non adottarla. Invero, deve escludersi che il Giudice possa non tenere conto del summenzionato percorso interpretativo (aderente ai principi costituzionali) e, magari, aderendo alla prima interpretazione e costatandone il contrasto coi principi costituzionali sopra evidenziati, sollevare questione di incostituzionalità.

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Deve, infatti, considerarsi che una siffatta questione possa eccepita solo in ultima analisi, quando la norma non offra alcuna possibilità di essere interpretata in modo conforme ai principi costituzionali. Di contro, una volta constatata l’insistenza di una sola linea esegetica (ancorché, diversa da quella seguita dalla recente giurisprudenza di legittimità) conforme ai dettami costituzionali, deve ritenersi che il Giudice sia tenuto a seguirla. Risponde, invero, ad una delle più elementari regole di esegesi quella per la quale, nell’adottare un‘interpretazione il giudice deve, in buona sostanza, privilegiare quella maggiormente rispondente ai dettami costituzionali. E in tal senso, in mancanza di esplicita disposizione normativa, quella che prevede l’applicazione della diminuente di rito subito dopo la determinazione della pena fatta tenendo presenti le circostanze (in senso tecnico) e prima degli eventuali aumenti dovuti al concorso di reati (continuazione, concorso formale ecc.) si appalesa come l’unica rispondente ai requisiti sopra specificati e quindi come l’unica interpretazione adottabile.

* * * Né, a fronte delle su esposte argomentazioni, può obbiettarsi che la tesi condivisa da questa Corte non può essere seguita in quanto nel caso di condanna per più reati in concorso (evidentemente, nel caso della continuazione e del concorso formale) il Giudice non procede all’applicazione di una pena per ciascuno dei reati ritenuti, ma si limita ad individuare solo il reato più grave ed ad aumentare la pena fino al triplo. Invero, deve di converso rilevarsi che, comunque, il Giudice (soprattutto per chi aderisce alla individuazione fatta in concreto del reato più grave), per distinguere il reato più grave, deve valutare, per ciascuno dei reati, quale sarebbe la pena che avrebbe inflitto qualora non fosse stata ritenuta la continuazione o il concorso formale. Inoltre, in ogni caso (a prescindere cioè dall’aderire o meno alla tesi per la quale l’individuazione del reato più grave debba essere fatta <<in concreto>>) il Giudice, per rispettare il limite massimo della pena irrogabile ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 81 c.p. deve <<necessariamente>> individuare le pene che infliggerebbe per gli altri reati (meno gravi), qualora non li ritenesse in rapporto di continuazione col reato considerato più grave.

* * * Né, può affermarsi che quella oggi offerta sia un’interpretazione necessariamente contra reo. In molti casi, infatti, è quella che consente un migliore trattamento sanzionatorio, dando la possibilità al giudice di valutare nel concreto la gravità del reato commesso e, quindi, la pena conseguente. Si pensi al caso di Tizio condannato per due reati comportanti la pena di anni 24 di reclusione ed unificabili tra loro sotto il vincolo della continuazione.

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Per effetto della orientamento attualmente privilegiato dalla Cassazione, Tizio nel caso di rito abbreviato riporterebbe in ogni caso la pena di trent’anni (infatti : anni 24+anni 24 ex art. 73/2 c.p. = Ergastolo ; ridotto ex art. 442 = 30 anni); Mentre, seguendo l’orientamento oggi sostenuto da questo Giudice, il condannato potrebbe riportare una pena andante da un minimo di 16 anni ed un giorno a 30 anni; permettendo al Giudice di avere un buon margine per valutare, adeguandolo meglio al caso concreto, quale aumento di pena irrogare per la continuazione (infatti : reato A -ritenuto più grave- pena = anni 24; ridotta ex art. 442 c.p.p. = anni 16 : aumentata per la continuazione col reato B -pure per il quale sarebbe stata irrogabile, a seguito della applicazione della diminuente di rito, la pena di anni 16 - fino ad anni trenta, giusta il limite di cui al combinato disposto degli artt. 81/3 e 78 c.p.). Nell’esempio sopra riportato si coglie, in tutta evidenza, anche l’irragionevolezza della prima tesi, ove si consideri che, se invece di riportare condanna per due reati a 24 anni di reclusione, Tizio riportasse condanna per un reato a 24 anni e per l’altro a 23 anni, undici mesi e ventinove giorni, la pena conseguente sarebbe di 20 anni. Cioè a dire, l’effetto dell’applicazione della teoria qui respinta, sarebbe quello di determinare inevitabilmente, una differenza di pena di ben dieci anni di reclusione, a fronte di una differenza delle pene-base di un solo giorno di reclusione. (mentre, col metodo seguito da questa Corte il risultato non sarebbe di molto diverso dal caso di chi fosse condannato per ognuno dei due reati alla pena di 24 anni di reclusione, lasciando al giudice, sostanzialmente, lo stesso ampio margine di valutazione).

* * * Reputa, ancora, la Corte che non pare possa affermarsi che, aderendo alle tesi qui sostenuta, verrebbe meno l’interesse all’abbreviato e quindi verrebbe frustrato l’intento deflattivo dei procedimenti penali, perseguito dal legislatore. Invero, va in primo luogo rimarcato come anche nel caso di condanna per più reati punibili coll’ergastolo, il condannato potrebbe usufruire di una consistente riduzione della pena irrogata, venendo meno (in genere) la possibilità di applicare la sanzione ulteriore dell’isolamento diurno. E non si tratta certo di poca cosa, atteso che l’isolamento diurno, soprattutto se inflitto nel suo massimo di tre anni, costituisce oggettivamente una pena particolarmente afflittiva. Inoltre, tale sanzione va considerata anche nel suo aspetto “simbolico” di sanzione indicativa del particolarissimo disvalore sociale del reato commesso. Invero, non va dimenticato che, nella mente del legislatore, l’isolamento diurno è ciò che ha sostituito <<la pena di morte>> prima sancita nel caso di condanna a più reati coll’ergastolo. Del resto, per quanto sopra argomentato, in diversi casi, l’adesione alla tesi qui sostenuta può comportare per il condannato vantaggi anche più tangibili. Così ritornando all’esempio della persona condannata per due reati comportanti ognuno 24 anni di reclusione, colla teoria qui respinta la pena finale

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sarebbe sempre di anni trenta di reclusione (anni 24+ anni 24 ex art. 73/2 c.p. = ergastolo ; pena sostituita ex art. 442 c.p.p. = anni trenta di reclusione) ; in forza della tesi qui sostenuta la pena potrebbe variare dai sedici ai trent’anni di reclusione (pena base anni 24 : ridotta ex art. 442 c.p.p. = anni sedici ; aumentata per la continuazione coll’altro reato, fino al triplo e fino al massimo di anni trenta ex art. 78 c.p.). Inoltre, per quanto sopra esplicitato, resta sempre da considerare il fatto che, così come novellato, il rito abbreviato ha assunto la configurazione di una scelta di <<tipo strategico>>. Infatti , consente all’imputato di cristallizzare, a sua discrezione, il bagaglio di prove poste a suo carico dal P.M., paralizzando eventuali attività integrative dal medesimo avviate (si pensi al caso dell’imputato Tizio che viene a sapere che ha iniziato a collaborare un “pentito” che può chiamarlo in correità e confermare le accuse per cui il predetto Tizio è processato. Orbene, Tizio, chiedendo il rito abbreviato, impedirà al p.m. -e di fatto anche al giudice che non conosce l’esistenza dell’ulteriore fonte probatoria- la possibilità di utilizzare, nel prosieguo, le dichiarazioni acquisite dal nuovo pentito ; e l’ipotesi può essere anche estesa ai casi in cui, nelle more della decisione, il p.m. ha avviato un’attività integrativa di indagine diretta, per esempio, all’ esame del DNA, che l’imputato sa già che andrà a costituire un’ulteriore prova a suo carico). >>

* * * In definitiva, alla luce delle argomentazioni sopra riportate, appare evidente che il legislatore colla norma introdotta all’art. 442/2 c.p.p. abbia suggellato, coll’autorevolezza che l’interpretazione autentica comporta, la linea esegetica seguita da questa Corte. Derivandone, inconfutabilmente, il carattere realmente interpretativo e non innovativo del capo III del D.L. 2000/341 e della relativa legge di conversione.219

219 Un ulteriore esempio di come il sistema di computo seguito dalla Corte, soprattutto, a seguito dell’interpretazione autentica operata dal legislatore, sia quello maggiormente improntato al principio del favor rei, si ha nel caso in cui un soggetto sia imputato di due reati per i quali riporti condanna – a seguito della valutazione delle circostanze- rispettivamente alla pena dell’ergastolo e di anni sette. Invero, nel caso di un soggetto imputato di due reati per i quali in concreto sarebbe punito, rispettivamente, colla pena dell’ergastolo e con una pena compresa tra i cinque anni ed un giorno e anni sette e mesi sei di reclusione. In questo caso, secondo il metodo adoperato dalla Corte, l’imputato sarebbe condannato ad anni trenta di reclusione; atteso che applicando la diminuente del rito, reato per reato, non scatterebbe la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 72 c.p.. Mentre, seguendo, la tesi opposta, cioè applicando la diminuente all’esito di tutti i calcoli derivanti anche dal concorso dei reati, l’imputato riporterebbe la condanna all’ergastolo.

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§ 10.3 ) GANCI Calogero Evidentemente, a carico di GANCI Calogero, in ordine all’omicidio del Generale DALLA CHIESA della di lui moglie e dell’agente di scorta, gravano soprattutto le sue dichiarazioni confessorie.

Infatti, il collaborante, come ampiamente sopra riportato220, ha ammesso di avere partecipato all’omicidio in esame, sia nella fase preparatoria che in quella esecutiva. La cennata confessione trova piena conferma nelle convergenti dichiarazioni di ANZELMO Francesco Paolo, che attribuendosi pur esso la responsabilità del delitto, ha sostenuto, tra l’altro, 221 che il GANCI era stato colui il quale aveva condotto l’auto dalla quale MADONIA Antonino aveva sparato in corsa contro il Generale DALLA CHIESA e la moglie. Gli imponenti elementi di riscontro afferenti alla generica e quelli riguardanti l’attendibilità generico-complessiva del GANCI e dell’ANZELMO, già diffusamente evidenziati nella parte generale ed ai quali, per brevità, si rimanda, consentono di affermare con sicurezza la penale responsabilità del GANCI in ordine al reato oggi ascrittogli. All’imputato, in considerazione del rilevantissimo contributo offerto nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione del fatto e per l’individuazione degli autori dei relativi reati, può senz’altro essere riconosciuta la diminuente speciale di cui all’art. 8 del D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, convertito con modificazioni nella L. 12 luglio 1991 nr. 203. Inoltre, al GANCI per via dell’ottimo comportamento processuale, nonché in considerazione dell’ampia confessione resa, possono essere concesse le circostanze attenuanti generiche. Di tal che, considerate dette attenuanti prevalenti sulle contestate aggravanti, considerata -per effetto della scelta del rito abbreviato- la diminuente di cui all’art. 442 c.p.p., unificati gli omicidi contestati al capo B sotto il vincolo della continuazione, la Corte stima conforme a giustizia condannare il GANCI alla pena di anni quattordici di reclusione . 220cfr. sopra al § 3. 221 Cfr. sopra al § 4.

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(pena base, per l’omicidio del Generale DALLA CHIESA ritenuto più grave, con la diminuente dell’art. 8 D.L. nr. 152 del 1991, prevalente sulle contestate aggravanti : anni sedici di reclusione ; ridotta ad anni quindici per via della concessione delle attenuanti generiche; diminuita ulteriormente ad anni dieci per effetto della diminuente di cui all’art. 442 c.p.p.; aumentata ad anni quattordici per la continuanzione cogli altri omicidi di cui al capo B) . Alla suddetta condanna segue per legge - ex art. 535 c.p.p.- quella al pagamento delle spese processuali , nonchè - ai sensi degli artt. 29 e 32 c.p.- l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la durata della pena.

Le ragioni indicate dall’imputato come determinanti ai fini della decisione di iniziare a collaborare coll’A.G. (vale a dire l’intento di sottrarre i propri figli al contesto mafioso) induce questa Corte a disporre - ex art. 32/3 c.p. - che nei suoi confronti non trovi applicazione la pena accessoria della sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori.

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§ 10.4) MADONIA Antonino A carico di MADONIA Antonino in ordine agli omicidi ascrittigli al capo B) della rubrica gravano, in primo luogo, le dichiarazioni accusatorie rilasciate da GANCI Calogero 222. Questi, infatti, nel riconoscere senza alcuna esitazione il MADONIA in fotografia, ha –in sintesi- affermato che il medesimo, uomo d’onore della “famiglia” mafiosa di Resuttana, e figlio del rappresentante dell’omonima “famiglia”, aveva attivamente partecipato all’omicidio del Generale DALLA CHIESA. In particolare, il GANCI ha sottolineato che egli aveva appreso della decisione di eliminare il Generale nel corso di una riunione tenutasi nel c.d. fondo GALATOLO, o fondo Pipitone che dir si voglia, vale a dire in quella base operativa rientrante nel mandamento di Resuttana, nella disponibilità di GALATOLO Vincenzo e dei suoi fratelli (tutti componenti della famiglia mafiosa dell’Acquasanta, mandamento di resuttana), che era stata usata come base di partenza per numerosi omicidi commessi dai corleonesi e dai loro alleati sia durante la guerra di mafia che successivamente.

Aveva, in proposito precisato il GANCI che, non solo, il MADONIA Antonino aveva partecipato a quella prima riunione ed era stato presente quando nei giorni antecedenti al delitto si riunivano quotidianamente in attesa che giungesse il momento per agire, ma era stato tra coloro i quali aveva diretto fin da subito le operazioni occupandosi dell’organizzazione delle modalità esecutive dell’omicidio, quali la scelta del luogo, dei mezzi, delle armi e del momento, in ciò coadiuvato da GRECO Scarpa e da GAMBINO Giacomo Giuseppe.

Inoltre, aveva sostenuto il GANCI che il MADONIA aveva materialmente preso parte all’esecuzione dell’omicidio sparando col kalashnicov contro il Generale DALLA CHIESA e la di lui moglie ed attingendoli mortalmente. Le dichiarazioni del GANCI , per il livello di credibilità complessiva che - sulla base delle argomentazioni sopra diffusamente rassegnate (e che qui devono intendersi integralmente riportate223) va 222 cfr. sopra al § 3. 223 In particolare, per esigenze di brevità, si rimanda a quanto sopra esposto :

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loro riconosciuto-, gravano pesantemente nei confronti dell’odierno imputato e costituiscono un considerevole elemento di prova della sua colpevolezza. E’ agevole evidenziare come le affermazioni del GANCI, trovino, negli atti, nei confronti del MADONIA, per i delitti contestatigli al capo B) , imponenti elementi di riscontro di tipo <<estrinseco-specifico-individualizzante>>, per di più, direttamente <<afferenti anche al “fatto in dimostrazione”>> nelle convergenti dichiarazioni accusatorie rilasciate da ANZELMO Francesco Paolo, sulla credibilità del quale ci si è pure ampiamente soffermati nella parte generale della presente motivazione cui per brevità si rimanda224. Invero, anche l’ANZELMO , nel riconoscere in fotografia l’imputato, ha dichiarato225 che il MADONIA , uomo d’onore della famiglia di Resuttana, aveva materialmente partecipato all’omicidio del Generale DALLA CHIESA.

Specificando, il collaborante : - che il MADONIA era presente nel fondo Pipitone (che rientrava nella disponibilità di GALATOLO Vincenzo e dei suoi fratelli, uomini d’onore della famiglia dell’Acquasanta, rientrante nel mandamento di Resuttana), sia il giorno in cui si era tenuta la riunione di mafia nella quale aveva appreso della decisione di sopprimere il Generale; sia nei giorni successivi quando avevano frequentato la suddetta base operativa in attesa del momento propizio per consumare l’agguato; - che il MADONIA (insieme a GAMBINO Giacomo Giuseppe ed a GRECO Giuseppe, Scarpa) era tra quelli che aveva provveduto ad organizzare l’omicidio, dirigendone le operazioni ; - e finalmente che il MADONIA aveva preso operativamente parte all’azione criminosa, sparando col kalashnicov, da bordo dell’autovettura condotta da GANCI Calogero, contro il Generale DALLA CHIESA e la di lui moglie.

- al §- 5 : a proposito dell’attendibilità complessiva di GANCI Calogero; - ed ai §§ 7 e segg. : a proposito dei riscontri oggettivi relativi agli omicidi in trattazione. 224 In particolare, cfr. quanto sopra esposto : - al §- 6 : a proposito dell’attendibilità complessiva di ANZELMO Francesco Paolo; - ed ai §§ 7 e segg. : a proposito dei riscontri oggettivi relativi agli omicidi in trattazione. 225 Cfr. sopra al § 4.

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Non pare possa revocarsi in dubbio che le dichiarazioni dell’ANZELMO confermino appieno le affermazioni rilasciate dal primo collaborante.

La sostanziale convergenza delle due dichiarazioni accusatorie esclude ogni dubbio sulla partecipazione dell’imputato all’omicidio del Generale.

Invero, entrambe le chiamate di correo risultano fornite da soggetti (di considerevole attendibilità) che hanno partecipato direttamente all’evento delittuoso e che non hanno avuto alcuna possibilità di concertare le accuse (per come è stato chiaramente messo in risalto nella parte generale ; e ciò, soprattutto, per via dei differenti luoghi di detenzione cui gli imputati erano sottoposti al momento dell’inizio della collaborazione ; per il fatto che la loro collaborazione è stata presso che contestuale ; nonché per il fatto che sin dalle prime dichiarazioni ambedue i collaboranti hanno indicato nel MADONIA uno degli autori dell’omicidio).

Del resto, la partecipazione del MADONIA all’omicidio del Generale appare chiaramente coerente col quadro delineato dalle altre affermazioni rese dal GANCI e dall’ANZELMO e dalle ulteriori risultanze probatorie.

Entrambi i collaboranti hanno, invero, sottolineato non solo come per commettere l’omicidio in questione, fosse stata usata , come base di partenza, il fondo Pipitone, vero e proprio quartier generale del gruppo mafioso dei corleonesi, che ricadeva nel mandamento di Resuttana, del quale il MADONIA era uno dei componenti più autorevoli, essendo tra l’altro figlio del rappresentante.

Ma, altresì, come il MADONIA fosse stato uno dei protagonisti in assoluto delle sanguinarie azioni poste in essere dai corleonesi, in quegli anni di fuoco.

Rammentando , sia il GANCI che l’ANZELMO come il MADONIA avesse partecipato insieme a loro, il più delle volte sempre sparando col kalasnhicov, a numerosi altri omicidi commessi dallo stesso gruppo di fuoco, in quel tremendo periodo storico.

Così, tra l’altro, entrambi i collaboranti hanno sostenuto che il

MADONIA aveva partecipato, oltre che all’omicidio del Geneerale DALLA CHIESA, anche all’omicidio di BONTATE, di INZERILLO,

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alla strage della circonvallazione, all’omicidio del giudice CHINNICI e del dr. CASSARA’ avvenuti negli anni a cavallo tra il 1981 ed il 1985.

E tale circostanza –pur non consentendo, ovviamente, di per sé stessa, di ritenere la responsabilità del MADONIA per quegli eventi - contribuisce a conferire ulteriore logicità al racconto dei suddetti collaboranti, nella parte relativa alla presenza dell’odierno imputato all’omicidio del Generale DALLA CHIESA. Peraltro, dal compendio delle sentenze acquisite al processo emergono ulteriori riscontri alle affermazioni del GANCI e dell’ANZELMO. In particolare, dalla sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 24/3/1993226, colla quale il MADONIA, nel processo contro APONTE+14, è stato condannato alla pena di anni trenta di reclusione (poi ridotta a 22, in appello), per il reato di associazione finalizzata al traffico delle sostanze stupefacenti, si ricava (colla forza del giudicato) che il MADONIA Antonino non solo era uomo d’onore della famiglia di Resuttana, ma altresì che, in seno a quella consorteria rivestiva ruoli di grande prestigio, sostituendo il padre Francesco, nei momenti in cui il medesimo era detenuto, nella carica di “rappresentante del mandamento”.

Non potendosi sottacere che nel momento in cui l’omicidio del Generale DALLA CHIESA veniva commesso il MADONIA Francesco si trovava per l’appunto in carcere, di guisa che il ruolo di vertice di quel comprensorio mafioso era di fatto svolto dall’odierno imputato.

In tal senso, sopra, nella parte generale, si è evidenziato come –secondo quanto ritenuto da quel Giudice- l’ascesa del MADONIA Antonino ai vertici della famiglia risalisse agli anni 81-82 e fosse coincisa col lungo periodo di carcerazione subito dal genitore (dal novembre 1980 al 13 novembre 1982) proprio nel periodo della guerra di mafia le cui ostilità erano state ufficialmente aperte coll’omicidio del BONTATE nell’aprile del 1981.

Traendosi dalla citata pronuncia che MADONIA Antonino era notoriamente colui il quale sostituiva il genitore in quel delicato compito, ponendosi al pari del padre tra i più fidati collaboratori di RIINA Salvatore nella cruenta lotta sostenuta per il predominio mafioso sulla corrente avversa di BONTATE, BADALAMENTI ed INZERILLO.

226 Cfr. al faldone nr. 21, pg. 333segg- 345 segg.- 387 segg. ; nonché sopra al § 5.

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Al riguardo, è stato evidenziato come per tale suo attivismo e rapporto fiduciario col capo dei capi, si fosse guadagnato (insieme a LUCCHESE Giuseppe) l’appellativo di ambasciatore di RIINA Salvatore a Palermo e come, più in là (intorno al 1988), per il valore mostrato, avesse assunto anche formalmente la carica di capomandamento di Resuttana, in luogo del genitore malato, oltre che detenuto.

Sempre la sentenza in parola ha evidenziatogli strettissimi rapporti

da lungo tempo esistenti, soprattutto nel campo dell’illecito, tra i MADONIA ed i GALATOLO che rientravano nel mandamento dei primi; nonché tra i MADONIA e RIINA Salvatore; emergendo che era stato proprio quest’ultimo a volere, nel 1977, che Resuttana riavesse un suo mandamento e che il medesimo venisse affidato a MADONIA Francesco; superando tra l’altro la questione dello scioglimento della famiglia conseguita “all'illecito" operato da BONANNO Armando (uomo d’onore della famiglia di Resuttana) che era andato “in missione” (omicida) nel trapanese, senza che il capomandamento di allora (RICCOBONO) ne fosse stato informato.

Ancora, emerge da quella sentenza che il fondo dei GALATOLO,

territorialmente rientrante nel mandamento controllato dai MADONIA, fosse usato, già a far data dai primi anni ottanta, come base operativa per riunioni dei mafiosi della corrente corleonese, per commettervi ivi reati, nonché come base di partenza per il compimento di efferate azioni criminose.

Il tutto assolutamente in linea con quanto dichiarato dagli odierni collaboranti GANCI ed ANZELMO.

Emergendo, altresì, a dimostrazione dei legami risalenti nel tempo ed esistenti coi corleonesi, che l’odierno imputato, al pari del fratello Giuseppe, negli anni settanta aveva fatto per lungo tempo da autista a RIINA Salvatore.

Numerose altre sentenze acquisite agli atti testimoniano la

qualificata appartenenza del MADONIA Antonino al sodalizio mafioso di Cosa Nostra e la sua partecipazione a fatti di sangue commessi per quella consorteria.227

227 Cfr., in tal senso, a titolo d’esempio, la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Palermo in data 25/7/1997 – al faldone nr. 22/23- colla quale il MADONIA è stato condannato

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Tra esse, particolarmente rilevante appare quella resa dalla Corte

di Assise di Palermo in data 27 ottobre 1998, contro MADONIA Antonino+25 per la strage nella quale perirono il dr. Cassarà e l’agente Roberto Antiochia.

Tale pronuncia, infatti, non solo ha attestato, colla forza del giudicato, la cooperazione di tutti e quattro gli odierni imputati nei più efferati delitti228, ma ha altresì rimarcato aspetti, nell’organizzazione di quel reato, già percorsi dall’organizzazione criminosa in occasione dell’omicidio del Generale DALLA CHIESA, della moglie e dell’agente RUSSO.

Così, anche quell’omicidio fu preceduto da numerose riunioni operative svoltesi nel fondo Galatolo; anche quel delitto vide come mente organizzativa MADONIA Antonino ; anche in quel delitto furono usati dei kalashnicov ed a sparare,oltre all’ANZELMO ed al GANCI, fu il MADONIA Antonino; anche in quel delitto il bersaglio fu rappresentato da uomini delle istituzioni che avevano solo cercato di fare fino in fondo il proprio dovere.

In tale delitto furono sicuramente usate delle ricetrasmittenti e se non parteciparono i soliti GRECO Scarpa e LUCCHESE Giuseppe, fu solo perché i due gruppi di killers più sanguinari dei corleonesi si erano suddivisi i compiti; per cui al gruppo di Ciaculli (GRECO-LUCCHESE) era spettato di assassinare il Commissario MONTANA; mentre al MADONIA (coi GANCI , i GALATOLO, ed il gruppo di S. Lorenzo) era spettato, qualche giorno dopo, di uccidere il Commissario CASSARA’.

Né pare possa esservi dubbio che l’asseverata comunanza nell’illecito cogli odierni imputati sopra cennati costituisca un significativo elemento di conforto delle dichiarazioni accusatorie del GANCI e dell’ANZELMO. Soprattutto quando si tenga conto della contiguità temporale di quel delitto con quelli in trattazione e del rapporto fiduciario che doveva

all’ergastolo in quanto ritenuto responsabile, insieme ai corleonesi – dell’omicidio di FILIPPO Vincenzo, avvenuto nel 1989; ovvero la sentenza del Tribunale di Palermo del 25/5/96 – al faldone nr. 26- colla quale il MADONIA è stato condannato alla pena di anni 20 di reclusione per estorsione commesse reggendo le fila del mandamento di Resuttana anche insieme a GALATOLO Vincenzo odierno suo coimputato. 228 Il MADONIA ed il GALATOLO per tale reato sono stati condannati all’ergastolo – cfr. al faldone nr. 28-

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necessariamente legare coloro i quali poi presero parte anche all’efferato delitto di strage. Le dichiarazioni del GANCI e dell’ANZELMO trovano poi particolari elementi di conferma nelle affermazioni rilasciate da CUCUZZA Salvatore. In verità, il collaborante, come cennato, ha sostenuto di non avere preso parte all’eccidio ; di non avere saputo che si stava preparando ; e di non avere saputo nemmeno ad omicidio consumato come lo stesso fosse stato commesso, chi ne erano stati gli autori, ecc. Tuttavia, le sue affermazioni contribuiscono a suffragare quelle dei due imputati collaboranti. Invero, il CUCUZZA, dopo avere premesso –come già cennato- che egli aveva preso parte alla guerra di mafia tra la corrente corleonese e quella facente capo a BONTATE, INZERILLO e BADALAMENTI, commettendo decine e decine di omicidi, tra il 1981 ed il 1983, insieme a componenti del gruppo di fuoco di Ciaculli, del quale facevano parte GRECO Scarpa, LUCCHESE Giuseppe e Mario PRESTIFILIPPO, ha asserito che a disposizione dei corleonesi in quel periodo storico v’erano, contemporaneamente, più gruppi di fuoco che agivano indipendentemente l’uno dall’altro (a compartimenti stagno) e che per gli episodi più gravi, come quello costituito dalla strage della circonvallazione o l’omicidio dell’On. Pio LA TORRE, avevano lavorato insieme componenti dei vari gruppi. Indicando al riguardo, tra gli altri : della famiglia Noce, GANCI Calogero, GANCI Raffaele, Francesco Paolo ANZELMO; di Ciaculli, il GRECO “Scarpa”, il LUCCHESE, il PRESTIFILIPPO; di Resuttana Antonino MADONIA, Gaetano CAROLLO, i fratelli GALATOLO, Vincenzo Raffaele e Giuseppe.

Sostenendo, in particolare, a proposito di MADONIA Antonino (che, incidentalmente, il CUCUZZA riconosceva con sicurezza in fotografia), che quest’ultimo aveva preso parte, insieme ad esso collaborante, a numerosi omicidi, tra i quali a quello della strage della circonvallazione nel quale l’imputato aveva preso parte, sparando col kalashnicov.

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Ed, in proposito, non può certo sottacersi, data la vicinanza temporale (due mesi appena ) intercorsa tra i due omicidi (quello del FERLITO e del Gen. DALLA CHIESA ed il fatto che secondo le dichiarazioni dei suddetti collaboranti i delitti fossero stati, sostanzialmente, perpetrati dal medesimo gruppo di fuoco, che le dichiarazioni del CUCUZZA, denotando la totale adesione e partecipazione del MADONIA alle azioni criminali omicida dei corleonesi, anche colle stesse modalità partecipative, confortano il quadro accusatorio costituito dalle ben più specifiche e dirette accuse del GANCI e dell’ANZELMO229.

Invero, le affermazioni del CUCUZZA suffragano, in primo luogo, il convincimento che l’imputato fosse organicamente inserito nel ristretto gruppo di fuoco dei corleonesi addetto agli omicidi più eclatanti e delicati. D’altra parte, il CUCUZZA ha precisato che -pur non potendolo sapere direttamente, per le regole di Cosa Nostra che imponevano a chi aveva partecipato ad omicidi di non parlarne e soprattutto di non parlarne con chi non aveva preso parte allo stesso delitto- poiché in quel periodo frequentava il gruppo di fuoco del LUCCHESE (suo complice in tanti omicidi, tra i quali quello meglio conosciuto come la strage della circonvallazione commesso poco tempo prima dell’omicidio del Gen. DALLA CHIESA), aveva capito -dalle espressioni e dalle allusioni fatte da quest’ultimo- che il medesimo LUCCHESE ed il suo gruppo di fuoco avevano partecipato all’omicidio del Generale. Specificando che, in ogni caso, al di là di quanto il LUCCHESE gli aveva fatto capire, non poteva non essere stato un omicidio riferibile all’area corleonese di Cosa Nostra, in quanto nel suo schieramento il delitto era stato accolto senza il trambusto che l’avrebbe certamente accompagnato se fosse stato commesso da altri. Inoltre, il CUCUZZA230 ha precisato che nel periodo prossimo all’omicidio del DALLA CHIESA egli aveva avuto modo di frequentare il fondo GALATOLO, rammentando la presenza dei GALATOLO (e di Vincenzo in particolare) , dei MADONIA (di Antonino e Salvatore, in

229 Cfr. ai faldoni 11 e segg. (alle pagg. 2341 e segg.) le motivazioni della sentenza della Corte di Assise di Palermo dell’16/12/1987 dalle quali emerge inequivocabilmente –colla valenza del giudicato- lo stretto collegamento insistente fra i due eccidi in questione. 230 Cfr. al faldone nr. 2, vol.5, udienza del 10/4/01, dichiarazioni CUCUZZA, pg. 42.

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specie), dei GANCI (Raffaele, suo figlio, e suo nipote ANZELMO), di Pino GRECO, di LUCCHESE Giuseppe. Sostenendo, ancora, il CUCUZZA che molto probabilmente la sua esclusione dalla partecipazione al gruppo di fuoco che aveva eliminato il Generale era dipesa unicamente dal fatto che il giorno in cui era stata deliberata, al Fondo Pipitone, la decisione di sopprimere il Generale, egli non era stato presente231. E non pare possa sottacersi che il fatto che il collaborante abbia confermato, non solo, la frequentazione (nei giorni che precedettero l’omicidio del Generale) di MADONIA Antonino con GALATOLO Vincenzo, con GANCI Calogero, con ANZELMO con GRECO Scarpa e LUCCHESE Giuseppe, supporti le affermazioni degli odierni imputati GANCI ed ANZELMO, che hanno fornito le motivazioni di tale frequentazione. Anche il collaborante BRUSCA Giovanni, sentito come testimone assistito, ha in sostanza confermato le dichiarazioni accusatorie del GANCI e dell’ANZELMO232. Il BRUSCA ha, infatti, sostenuto – dopo avere premesso di avere preso parte alla guerra di mafia degli anni 80, nel gruppo dei corleonesi, del quale pure facevano parte, tra gli altri, della Noce, i GANCI (Raffaele, Calogero, ANZELMO) , di Resuttana ( i MADONIA, Antonino, suo padre ecc; CAROLLO Gaetano, i GALATOLO, Vincenzo ed i fratelli), di Ciaculli (GRECO Scarpa, LUCCHESE, SALERNO) ecc.- di avere saputo “in anticipo” che si stava preparando l’omicidio del Generale. Ciò, anche perché, essendo esso BRUSCA vicino al gruppo dirigente dei corleonesi (costituito dal RIINA e dal genitore BRUSCA Bernardo), aveva modo di conoscere le strategie criminali della fazione, posto che le stesse venivano per lo più approntate nel corso di riunioni che si svolgevano nel territorio di S Giuseppe Jato ed alle quali prendevano parte i MADONIA, i GANCI, GRECO Scarpa. RIINA, in particolare, sin dalla venuta del Generale aveva stabilito che il medesimo doveva essere ucciso.

Rammentava al riguardo il BRUSCA che il RIINA aveva già avuto a che fare col Generale quando questi aveva prestato servizio a Corleone e lo temeva particolarmente.

231 Cfr. al faldone nr. 2, vol.5, udienza del 10/4/01, dichiarazioni CUCUZZA, pg. 44 232 Cfr. al faldone nr. 2, vol.5, udienza del 10/4/01, dichiarazioni BRUSCA, pg. 81 segg.

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Aveva, poi, avuto modo di apprendere, indirettamente, che dell’esecuzione dell’omicidio se n’era occupato tra gli altri GRECO Scarpa.

Ciò, in quanto erano state sollevate questioni per il fatto che il predetto aveva, all’ultimo momento, impiegato SALERNO Pietro senza prima avvisare gli altri.

Lamentele delle quali si era discusso alla presenza di suo padre (BRUSCA Bernardo) di RIINA, di MADONIA Antonino, di GAMBINO, di Raffaele GANCI. Peraltro, ha sostenuto il BRUSCA che molte delle azioni criminose svolte dai corlenesi anche in quel periodo erano state eseguite prendendo le mosse dal fondo Pipitone dei GALATOLO; e che aveva preso parte all’omicidio (strage) del dr. CHINNICI, per il quale i killers avevano usato come base il fondo dei GALATOLO.

Specificando, che l’imputato MADONIA Antonino aveva preso parte a tale ultimo omicidio, nonché, all’omicidio di Alfio FERLITO (vale a dire alla c.d. strage della circonvallazione), nel quale ultimo episodio di sangue esso collaborante si era occupato di prelevare con un’auto pulita proprio l’imputato, dopo che questi aveva attivamente partecipato all’eccidio. E pare evidente che, da una parte, le affermazioni del BRUSCA si innestano coerentemente nella versione offerta dal GANCI e dall’ANZELMO, avuto riguardo alle ragioni, alla genesi ed alla matrice dell’omicidio, nonché in relazione al gruppo criminale che l’aveva eseguito (quello facente capo a GRECO Scarpa, indicato pure dal GANCI e dall’ANZELMO come uno dei dirigenti del gruppo di fuoco, insieme a MADONIA Antonino ed a GAMBINO Giacomo Giuseppe). Dall’altra, sottolineano, ancora una volta, l’uso del fondo dei GALATOLO (ricadente nel mandamento di Resuttana) come base di partenza per omicidi eclatanti commessi presso che nello stesso periodo di tempo (l’omicidio del Giudice CHINNICI, notoriamente, venne eseguito nel luglio del 1983 e quindi meno di un anno dopo quello del Gen. DALLA CHIESA); nonché la partecipazione dello stesso MADONIA Antonino al “gruppo di fuoco” impiegato per gli omicidi , più delicati, commessi dai corleonesi a cavallo di quello eseguito contro il Generale DALLA CHIESA.

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E non pare potersi revocare in dubbio che quanto sopra asseveri le ben più dirette propalazioni accusatorie del GANCI e dell’ANZELMO, sulla partecipazione dell’imputato all’eccidio in trattazione. In tale direzione, giova rilevare che anche altri collaboranti hanno asseverato il coinvolgimento del MADONIA Antonino nel gruppo di fuoco dei corleonesi che si era occupato degli omicidi eccellenti effettuati in quegli anni. Così, CANCEMI Salvatore233 dopo avere riferito che MADONIA Antonino sostituiva il padre Francesco nella direzione del mandamento di Resuttana e così come il padre era nel cuore di RIINA che era arrivato dov’era arrivato solo grazie ai MADONIA; aggiungeva che l’odierno imputato era stato il protagonista principale (il numero uno) della guerra di mafia e che “il gruppo di fuoco” che in quel periodo (vale a dire, nel periodo prossimo alla strage commessa per uccidere il Giudice Chinnici) commetteva gli omicidi importanti era composto da Nino MADONIA (“era il primo”), da Pino GRECO “Scarpa”, da Pippo GAMBINO, da LUCCHESE Giuseppe, dai figli di GANCI Raffaele, Calogero e Mimmo, da ANZELMO Francesco Paolo e da BRUSCA Giovanni. Mentre, nel corso dello stesso processo FERRANTE Giovan Battista234, nell’ammettere di avere partecipato alla strage del Giudice Chinnici, sia pure con ruolo secondario, testimoniava di avere direttamente constatato la partecipazione a quel delitto di MADONIA Antonino (oltre che di Pippo GAMBINO, di GANCI Raffaele, di ANZELMO Francesco Paolo) e di avere osservato che era stato il MADONIA ad organizzare la strage ed a fare detonare la micidiale carica esplosiva avvalendosi di un telecomando. Aggiungendo, peraltro il FERRANTE che insieme al MADONIA Antonino aveva commesso altri importanti delitti (quello del Dr. CASSARA’ e quello di PUCCIO Pietro) commessi utilizzando come base operativa il fondo GALATOLO, utilizzato anche per l’omicidio del Generale DALLA CHIESA.

233 cfr. al faldone nr. 34 le dichiarazioni rese dal collaborante CANCEMI in data 3/5/99 e 10/5/99 nel processo RIINA+18 per la strage di via Pipitone, in cui perse la vita il Giudice Chinnici. 234 Cfr. al faldone 34, esame reso dal FERRANTE in data 24/3/99.

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In forza delle superiori argomentazioni e dei cennati elementi di prova, pare assolutamente certa la partecipazione del MADONIA agli omicidi oggi in esame.

A fronte di tale imponente quadro probatorio, l’imputato ha sostenuto, da una parte, che egli in quegli anni lavorava ed aveva la residenza in Germania; dall’altra, che era rientrato a Palermo, da dove mancava dal mese di marzo del 1982, il primo settembre del 1982 e da allora fino a quando non era andato in vacanza a Roma con la fidanzata di allora TUTONE Anna Maria, vale a dire sino al 10 settembre, ogni mattina, insieme alla predetta si era recato a S. Vito Lo Capo facendo rientro nel capoluogo siciliano la sera.

A conforto di tale alibi, la Difesa ha prodotto documentazione attestante, tra l’altro, la residenza ed il lavoro svolto in Germania dal MADONIA, ed ha chiesto ed ottenuto l’esame della citata TUTONE Anna Maria, che, sostanzialmente, ha confermato, sia pure con qualche difformità, la versione del MADONIA.

La Corte, tuttavia, ritiene tutt’altro che convincente l’alibi fornito

dall’imputato. Da una parte infatti la documentazione prodotta235 se ufficialmente

attesta che il MADONIA ebbe ad emigrare in Germania il 13/12/77 ; a lavorarvi presso una ditta di Import Export di preziosi ; ed ad immigrare in Palermo, da Costanza il 9/11/88; non permette di argomentare che l’imputato, in quel periodo, ebbe a stare sempre in Germania. Gli stessi verbalizzanti della DIA che ebbero a redigere la nota che compendia i risultati dell’accertamento in questione236 conclude assumendo che “si può ritenere che abbia soggiornato frequentemente in Germania fra l’80 e l’82”.

La qual cosa consente di argomentare che per il MADONIA era certamente possibile essere presente a Palermo in occasione dei momenti più importanti per l’organizzazione mafiosa.

La stessa attività svolta (import-export) doveva richiedergli frequenti spostamenti dalla Germania verso altre località. Cosa, del resto dimostrata, non solo, dal fatto che, nonostante la sua residenza fosse ancora in Germania, in data 6/5/87 venne tratto in arresto a Palermo, mentre si trovava nascosto nell’appartamento del

235 Cfr. al faldone nr. 19. 236 Cfr. nota del 15/9/92 , al faldone nr. 19.

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suocero del fratello; ma altresì dal fatto che lo stesso alibi oggi fornito testimonia la possibilità per l’imputato di trovarsi a Palermo nei momenti “chiave” per l’organizzazione mafiosa. Infatti, è lo stesso imputato a riferire che quando venne ucciso il Generale egli si trovava a Palermo. Del pari inverosimile è, poi, che per i primi dieci giorni di settembre, insieme alla sua fidanzata, il MADONIA abbia potuto fare la spola con S. Vito Lo Capo, ivi recandosi ogni giorno dalle 9,00 di mattina sino alle 21,00 di sera. Prescindendo dal fatto che l’alibi fornito non è supportato da alcun elemento oggettivo di conforto; giova rilevare che, poiché notoriamente S. Vito Lo Capo è una località turistica che si trova ad oltre cento chilometri da Palermo, la versione offerta dall’imputato appare tutt’altro che logica. Soprattutto, se si considera che – come precisato dal MADONIA durante l’esame- né la ragazza, né l’imputato avevano alcuna esigenza di rientrare in sede ogni sera. Erano, infatti, in vacanza, dormivano insieme e non avevano bisogno di vedere o incontrare nessuno. Per cui certamente meno dispendioso, meno stressante, e di gran lunga più ragionevole sarebbe stato per entrambi trovare un albergo o un residence nel quale trascorrere quel periodo di vacanza e non sobbarcarsi un continuo defatigante quotidiano viaggio per andare e per tornare. Ma anche sotto un altro aspetto la versione resa dal MADONIA appare tutt’altro che convincente. Infatti, l’imputato dopo avere sostenuto che nel mese di marzo aveva fatto rientro in Italia per far visita alla madre che non stava bene e dopo avere affermato che egli poi mancava a Palermo dal mese di marzo; ha asserito di avere trascorso tutto il periodo di ferie colla Tutone, prima recandosi quotidianamente a San Vito Lo Capo e poi partendo con quella a Roma, senza trovare il tempo per fare visita alla genitrice ed al fratello Aldo (l’unico che non era allora ristretto in carcere). E poiché lo stesso imputato ha asserito di essere stato sempre in ottimi rapporti coi suoi familiari, pare evidente che la versione offerta dal MADONIA presti il fianco anche a tale aspetto di illogicità.

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Inoltre, l’imputato dopo avere riferito che egli e la TUTONE per tutti i dieci giorni una volta rientrati in Palermo uscivano – sempre da soli- solo per andare a cenare fuori ; ha sostenuto di avere appreso della morte del Generale solo il giorno dopo. E la cosa pare stupefacente in considerazione del fatto che la notizia dell’assassinio del Generale aveva fatto immediatamente il giro della città e che nelle ore che seguirono il delitto – sulla base dell’alibi offerto dal MADONIA- l’imputato si sarebbe trovato fuori casa, a cena, in qualche ristorante di Mondello. In tal senso, certamente più logica è sembrata la versione resa dalla TUTONE che ha riferito di avere appreso della morte del DALLA CHIESA la sera stessa, dalla radio, mentre si trovava in auto col MADONIA di ritorno da S. Vito, con ciò smentendo l’imputato e dando un’ulteriore dimostrazione della falsità dell’alibi. Peraltro, l’affetto che certamente ha legato e lega la teste all’imputato spiega ampiamente le ragioni che possono avere indotto la TUTONE a tentare di aiutare il MADONIA testimoniando il falso. In proposito, tuttavia, non pare possa sottacersi quanto dichiarato dai collaboranti CANCEMI Salvatore e FERRANTE Giovan Battista al processo contro RIINA+18.237 Da una parte, infatti hanno entrambi affermato che il MADONIA, nonostante la sua residenza in Germania, fosse sempre presente in Palermo nei momenti importanti in cui la guerra di mafia lo richiedeva; rimarcando, il CANCEMI, che quello che il MADONIA aveva in Germania era “solo un lavoro di copertura per dimostrare un giorno che stava là”, specificando che “…si faceva un volo ed era a Palermo”. Dall’altra, il FERRANTE ha riferito che durante il processo contro AGRIGENTO+61 il MADONIA gli aveva confidato che <<doveva fare venire una teste falsa che doveva riferire che in certi periodi era al Nord Italia o una cosa del genere>>238. Di tal che, considerata, da una parte, la rilevantissima mole di elementi di accusa gravanti nei confronti dell’imputato ;

237 Cfr. al faldone nr. 34, le deposizioni del CANCEMI all’udienza del 3/5/99 e del FERRANTE all’udienza del 24/3/99. 238 Cfr. al faldone nr. 34, esame del FERRANTE del 24/3/99, pg. 210.

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l’irragionevolezza dell’alibi offerto; l’assoluta mancanza di elementi oggettivi di riscontro; l’affetto che lega la teste all’imputato; i contrasti, sia pure lievi, esistenti fra le loro dichiarazioni; le asserzioni dei collaboranti CANCEMI e FERRANTE, tese a dimostrare l’astuzia dell’imputato e la sua capacità a crearsi ed a procurarsi alibi; pare, senz’altro, potersi affermare che il cennato alibi si appalesa tutt’altro che credibile e che sicuramente non è in grado nemmeno di infirmare il pesantissimo quadro probatorio insistente nei confronti del MADONIA. Finalmente, l’assenza di comprovati motivi di rancore tra i collaboranti e l’imputato; il preciso e sicuro riconoscimento fotografico operato sia dal GANCI che dall’ANZELMO; ed il fatto che l’imputato al momento del fatto si trovasse in stato di libertà; supportano chiaramente il già più che esaustivo quadro probatorio insistente a carico del MADONIA. Pertanto, reputa la Corte che possa affermarsi con certezza la penale responsabilità del MADONIA in ordine agli omicidi contestatigli al capo B) della rubrica . In proposito, pare evidente la sussistenza delle aggravanti contestate, ed, in particolare, quella della premeditazione, rivelata inequivocabilmente, tra l’altro, dalle non brevi fasi di preparazione dell’agguato. Peraltro, attesa l’indiscutibile gravità dei fatti di reato, ed i gravissimi precedenti penali, al MADONIA, non possono essere concesse le circostanze attenuanti generiche. Di guisa che, applicata – per effetto della scelta del rito speciale- la diminuente di cui all’art. 442 c.p.p.; unificati i delitti di cui al capo B) della rubrica sotto il vincolo della continuazione, la Corte stima conforme a giustizia condannare il MADONIA alla pena dell’ergastolo. (pena base per il reato di omicidio aggravato consumato nei confronti di DALLA CHIESA Carlo Alberto considerato più grave : ergastolo ; tale pena va sostituita – per effetto dell’art. 442 c.p.p.- con quella di anni trenta di reclusione; detta pena (– per effetto della continuazione cogli altri omicidi di cui al capo B) per ognuno dei quali questo Giudice avrebbe inflitto ove non li avesse ritenuti in continuazione coll’omicidio del Generale DALLA CHIESA, la pena dell’ergastolo ridotta a trent’anni per l’art. 442 c.p.p.- ed in forza di quanto stabilito dagli artt.

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73/2 , 81 c.p. e 442/2 ultima parte c.p.p.)- va nuovamente sostituita con quella dell’ergastolo239. Alla suddetta condanna segue per legge - ex art. 535 c.p.p.- quella al pagamento delle spese processuali, nonché - ai sensi degli artt. 29 e 32 c.p.- l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, dell’interdizione legale e della decadenza dalla potestà genitoriale. Inoltre, sempre per effetto della condanna all’ergastolo, in virtù degli artt. 36 c.p. e 536 c.p.p., va disposta, a spese dell’imputato, la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei termini e nei modi precisati nel dispositivo.

239 avuto riguardo alle modalità di computo della pena, cfr. al § 10.2.bis

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§ - 11 ) Le sanzioni civili e le altre statuizioni Dal riconoscimento della responsabilità penale di ANZELMO Francesco Paolo, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero e MADONIA Antonino per gli omicidi del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela SETTI CARRARO e dell’agente Domenico RUSSO discende, poi, -ex artt. 538 ss. c.p.p.- la condanna degli imputati al risarcimento, in solido, del danno subito dalle parti civili costituite, CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Paolo Giuseppe, DALLA CHIESA Fernando, DALLA CHIESA Maria Simona, Comune di Palermo, Provincia Regionale di Palermo, Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell’Interno; l’assegnazione in favore delle suddette parti civili (che ne abbiano fatto richiesta) di adeguata provvisionale volta a risarcire quella parte di danno per cui si ritiene già provata l’entità e, finalmente, l’imposizione a carico degli imputati, in solido, delle spese processuali sostenute dalle su indicate parti civili. In particolare, in favore delle parti civili costituite, CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Paolo Giuseppe, DALLA CHIESA Fernando, DALLA CHIESA Maria Simona, stante il loro strettissimo rapporto parentale colle vittime e la verosimile insistenza di un nesso di causalità tra l’evento delittuoso ed il pregiudizio economico lamentato; va riconosciuta la sussistenza di un danno, derivante dalla morte dei congiunti.

Del pari, in favore delle altre parti civili costituite, il Comune di

Palermo e la Provincia Regionale di Palermo, in considerazione del luogo ove l’omicidio è stato consumato e dell’appartenenza degli autori dello stesso alla criminalità organizzata mafiosa insediata nel territorio comunale e provinciale palermitano, va riconosciuta l’insistenza di un danno d’immagine che si ripercuote pesantemente e direttamente sull’economia dell’intero contesto spaziale comunale e provinciale e, conseguentemente, degli enti locali che lo rappresentano. Mentre, avuto riguardo alle altre parti civili costituite, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Interno, oltre al gravissimo danno di

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immagine derivante all’intera economia nazionale, va considerato il formidabile nocumento, per l’intera nazione, rappresentato dalla perdita di una persona appartenente all’apparato istituzionale, insostituibile, qual è stato il Generale DALLA CHIESA.

La determinazione complessiva di tali danni – che, per i familiari delle vittime, vanno liquidati in entrambe le loro componenti patrimoniali e morali- va rimessa al competente giudice civile, atteso che le prove acquisite non consentono, allo stato, la loro puntuale individuazione.

Può, peraltro, trovare accoglimento la richiesta della provvisionale formulata dalle parti civili - il cui ammontare viene determinato nella somma di EURO 50.000,00 (cinquantamila), in favore di ciascuna delle parti civili costituite, CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Paolo Giuseppe, DALLA CHIESA Fernando, DALLA CHIESA Maria Simona; nonché nella somma di EURO 25.000,00 (venticinquemila), in favore sia del Comune di Palermo, in persona del suo legale rappresentante il Sindaco pro-tempore, sia in favore della Provincia Regionale di Palermo, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore; somme, tutte, da imputarsi nella liquidazione definitiva del danno.

Infine, gli imputati vanno condannati, in solido, alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili costituite che liquida : in favore di CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Paolo Giuseppe, nella complessiva somma di EURO 16.042,00 di cui EURO 16.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore della parte civile DALLA CHIESA Fernando, nella complessiva somma di EURO 8.851,65 di cui EURO 8.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore della parte civile DALLA CHIESA Maria Simona, nella complessiva somma di EURO 8.861.98 di cui EURO 8.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore del Comune di Palermo, in persona del suo legale rappresentante il Sindaco pro-tempore, nella complessiva somma di EURO 7.680,00 di cui EURO 7.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge ; in favore della Provincia Regionale di Palermo, in persona del suo

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Presidente e legale rappresentante pro tempore nella complessiva somma di EURO 11.174,92 di cui EURO 8.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, e del Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, nella complessiva somma di EURO 4.000,00, oltre IVA e C.P.A. come per legge.

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§ - 12 ) L’assoluzione dal reato di strage e le altre statuizioni

Reputa, finalmente, la Corte che gli odierni imputati debbano essere assolti dal reato di strage loro contestato al capo A) della rubrica. Invero, se nella fattispecie, del reato di strage insiste con sicurezza il dolo specifico, costituito dal “fine di uccidere” ; e se, in astratto, il tipo di arma utilizzata (mitra Kalashnicov) consentirebbe di inquadrare l’episodio nella figura giuridica della strage; le modalità colle quali l’azione omicida venne portata a compimento non consente di argomentare che in effetti si versi nel reato suddetto. Invero, le risultanze processuali permettono, ragionevolmente, di escludere che, nella fattispecie, si siano realizzati atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità. Al riguardo, giova, preliminarmente, rimarcare che notoriamente, il reato di strage è compreso (nel codice penale nel titolo VI) tra i delitti contro l’incolumità pubblica, vale a dire tra quei delitti che sono “caratterizzati da un pregiudizio alla sicurezza sociale, cioè ad un numero indeterminato di persone” .

In proposito, sinteticamente, si è detto che, come delitti contro la pubblica incolumità, sono punite quelle condotte che possono porre in pericolo la vita o l’integrità fisica di <<un numero indeterminato di persone>>; sicchè questi delitti si distinguono <<per la indeterminatezza del soggetto passivo da quelli contro la persona>>. In tale direzione, anche secondo la consolidata giurisprudenza della S.C. di Cassazione, l’elemento materiale caratterizzante il delitto di strage è rappresentato dal compimento di atti aventi, obiettivamente, l’idoneità a determinare pericolo per la vita e l’integrità fisica della collettività mediante violenza (evento di pericolo) , colla possibilità che dal danno derivi la morte di una o più persone (evento di danno) ; mentre l’elemento psicologico consiste nella coscienza e volontà di tali atti, con la finalità (dolo specifico) di cagionare la morte di un numero indeterminato di persone, e va desunto dalla natura del mezzo usato e da tutte le modalità dell’azione.

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Pertanto, per stabilire se l’uccisione di più soggetti integri il delitto di strage, ovvero quello di omicidio volontario plurimo, occorre verificare in punto di fatto, con un’indagine globale, e con speciale riguardo ai mezzi usati, alle modalità esecutive del reato ed alle circostanze ambientali che lo caratterizzano, da una parte, quale fosse la reale intenzione dell’autore, dall’altra, l’effettiva messa in pericolo dell’incolumità pubblica.

Tenendo, in ogni modo presente, che – notoriamente- per pericolo

deve intendersi “l’apprezzabile probabilità” che l’evento temuto possa verificarsi.

Orbene, dalle modalità dell’azione criminosa effettuata emerge che, nella specie, non possa parlarsi della verificazione di atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità. Infatti, il luogo, il momento e la breve distanza intercorrente tra gli esecutori del delitto e le vittime al momento degli spari ed ancora la concentrazione del fuoco contro le stesse, consente ragionevolmente di escludere che, nella fattispecie, possa parlarsi di strage, invece, che di omicidio volontario plurimo. In tal senso, giova evidenziare che l’agguato venne posto in essere nel periodo estivo (quando notoriamente la città di Palermo è quasi deserta); a tarda sera (quando le strade si svuotano anche del traffico costituito dalle persone che rientrano dai pochi uffici o negozi aperti); in tempi, presso che, fulminei (vale a dire in pochissimi secondi) ; ed, ancora, che i killers che nell’occasione ebbero ad usare i kalashnicov , vale a dire il MADONIA ed il GRECO, ebbero a sparare sulle vittime -che si trovavano a bordo delle rispettive vetture (e quindi lontano da altre persone eventualmente presenti)- da distanza ravvicinatissima (un metro, un metro e mezzo), potendo in tal modo indirizzare con sicurezza i colpi mortali contro il bersaglio voluto. Peraltro, la perizia nell’uso del kalashnicov riconosciuta sia al GRECO che al MADONIA (dagli odierni coimputati ANZELMO e GANCI, ma anche dagli altri imputati di reato connesso escussi nel corso del processo), confermano il convincimento sopra espresso, sia in ordine alla mancata realizzazione di atti oggettivamente idonei a determinare pericolo per la vita e l’integrità morale della collettività, sia in ordine

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all’insussistenza dell’elemento psicologico della prevedibilità dell’evento di pericolo , stante la consapevolezza e la sicumera di poter colpire unicamente le vittime designate. In tal senso, non pare inutile rammentare che anche la Corte di Assise di Palermo colla sentenza del 16/12/87 (maxi uno di Palermo)240 colla quale ha condannato RIINA, PROVENZANO e GRECO Michele per l’episodio relativo all’eccidio del Generale DALLA CHIESA, della moglie e dell’agente RUSSO, ha inquadrato giuridicamente la fattispecie come omicidio plurimo volontario e non come strage.

Pertanto, dal reato di cui al capo A) tutti gli imputati vanno assolti perché il fatto non sussiste.

240 cfr. ai faldoni 11/16

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IL DISPOSITIVO

P.Q.M. Visti gli artt. 29, 32, 36, 62bis, 69, 71, 72, 81, 110, 575, 576, 577 nr. 3 c.p.; 438 e segg. 533, 535, 536, c.p.p.; 223 e 247 D.L.vo del 19/2/1998 nr. 51 e succ, mod. ; 8 D.L. nr. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella L. 12 luglio 1991 nr. 203;

Dichiara ANZELMO Francesco Paolo, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero e MADONIA Antonino, colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti al capo B) della rubrica e, riconosciuta agli imputati ANZELMO e GANCI l’attenuante di cui all’art. 8 del D.L. nr. 152/1991; concesse ai medesimi ANZELMO e GANCI le circostanze attenuanti generiche; ritenute dette diminuenti prevalenti sulle contestate aggravanti; applicata nei confronti di tutti gli imputati la diminuente di cui al secondo comma dell’art. 442 c.p.p.; unificati, sotto il vincolo della continuazione, i reati di omicidio contestati al capo B) della rubrica,

condanna GALATOLO Vincenzo e MADONIA Antonino, ciascuno, alla pena dell’ergastolo; ANZELMO Francesco Paolo e GANCI Calogero alla pena di anni quattordici di reclusione ciascuno.

Condanna altresì, tutti i predetti imputati, in solido, al pagamento delle spese processuali.

Dichiara GALATOLO Vincenzo e MADONIA Antonino interdetti in perpetuo dai pubblici uffici, in stato di interdizione legale e decaduti dalla potestà genitoriale. Dichiara, inoltre, ANZELMO Francesco Paolo e GANCI Calogero, interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale durante la pena; disponendo che nei loro confronti non trovi applicazione la pena accessoria della sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori.

Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente sentenza sia, a spese dei condannati GALATOLO Vincenzo e MADONIA Antonino, pubblicata per estratto, mediante affissione nell’albo del Comune di Palermo e dei Comuni in cui i condannati avevano la loro ultima residenza, nonchè pubblicata per estratto, a spese dei suddetti condannati, sui quotidiani La Repubblica e Il Giornale di Sicilia.

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Visti gli articoli 538, 539, 540 e 541 c.p.p.; condanna

ANZELMO Francesco Paolo, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero e MADONIA Antonino al risarcimento in solido dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle parti civili costituite, CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Paolo Giuseppe, DALLA CHIESA Fernando, DALLA CHIESA Maria Simona, Comune di Palermo, in persona del suo legale rappresentante il Sindaco pro-tempore, Provincia Regionale di Palermo, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore , Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, e rimette le parti davanti al Giudice civile per la relativa liquidazione.

Condanna ANZELMO Francesco Paolo, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero e MADONIA Antonino al pagamento in solido, a titolo di provvisionale, della somma di EURO 50.000,00 (cinquantamila), in favore di ciascuna delle parti civili costituite, CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Paolo Giuseppe, DALLA CHIESA Fernando, DALLA CHIESA Maria Simona; della somma di EURO 25.000,00 (venticinquemila), in favore sia del Comune di Palermo, in persona del suo legale rappresentante il Sindaco pro-tempore , sia in favore della Provincia Regionale di Palermo, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore; somme, tutte, da imputarsi nella liquidazione definitiva del danno.

Condanna ANZELMO Francesco Paolo, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero e MADONIA Antonino alla rifusione in solido delle spese processuali sostenute dalle parti civili costituite che liquida : in favore di CARRARO Maria Antonietta, SETTI CARRARO Maria Giovanni, SETTI CARRARO Paolo Giuseppe, nella complessiva somma di EURO 16.042,00 di cui EURO 16.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore della parte civile DALLA CHIESA Fernando, nella complessiva somma di EURO 8.851,65 di cui EURO 8.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore della parte civile DALLA CHIESA Maria Simona, nella complessiva somma di EURO 8.861.98 di cui EURO 8.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore del Comune di Palermo, in persona del suo legale rappresentante il Sindaco pro-tempore, nella

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complessiva somma di EURO 7.680,00 di cui EURO 7.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge ; in favore della Provincia Regionale di Palermo, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore nella complessiva somma di EURO 11.174,92 di cui EURO 8.000,00 per indennità ed onorario di difesa, oltre IVA e C.P.A. come per legge; in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, e del Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, nella complessiva somma di EURO 4.000,00, oltre IVA e C.P.A. come per legge.

Visto l’art. 530, assolve

ANZELMO Francesco Paolo, GALATOLO Vincenzo, GANCI Calogero e MADONIA Antonino dal reato loro ascritto al capo A) della rubrica, perché il fatto non sussiste;

Visto l’art. 544, comma 2, c.p.p. indica in giorni novanta il termine per il deposito della sentenza.

Palermo, 22 marzo 2002 IL PRESIDENTE

Il g. est.

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I N D I C E Epigrafe Pg. 1 Motivi della decisione Pg. 9§ 1) Fatto e svolgimento del processo. Pg. 9§ 2) Brevi cenni sulla chiamata di correo. Pg. 20§ 2.1) Il riscontro individualizzante 28§ 3) Le dichiarazioni di GANCI Calogero. Pg. 51§ 4) Le dichiarazioni di ANZELMO Francesco

Paolo. Pg. 69

§ 5) L’attendibilità dei due collaboranti: in particolare, la credibilità di GANCI Calogero.

Pg. 82

§ 6) L’attendibilità di ANZELMO Francesco Paolo. Pg. 94§ 7) I riscontri concernenti gli omicidi del Generale

DALLA CHIESA, della moglie e dell’agente di scorta.

Pg. 99

§ 8) I rilievi e le perplessità sollevati in merito alla convergenza delle dichiarazioni di GANCI Calogero con quelle di ANZELMO Francesco Paolo

Pg. 111

§ 8.1) Gli aspetti di illogicità nella versione accusatoria rilevati dalla Difesa degli imputati non collaboranti.

Pg. 112

§ 8.2) le divergenze riscontrate tra le dichiarazioni di GANCI e quelle di ANZELMO.

Pg. 118

§ 9) Il giudizio complessivo sulla credibilità del GANCI e dell’ANZELMO anche alla luce dei riscontri concernenti l’omicidio in trattazione.

126

§ 10) Le singole posizioni : le condanne Pg. 126§ 10.1) ANZELMO Francesco Paolo Pg. 128§ 10.2) GALATOLO Vincenzo Pg. 130§10.2bis) L’applicazione della diminuente di cui all’art. 442

c.p.p. nei casi di concorso di reati. Pg. 141

§ 10.3) GANCI Calogero Pg. 170§ 10.4) MADONIA Antonino pg. 172§ 11) Le sanzioni civili pg. 188§ 12) L’assoluzione dal reato di strage 191 IL DISPOSITIVO pg. 194 Indice pg. 197

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