Corso per l’idoneità di Responsabile Tecnico Gestione Rifiuti … · Montedison in genere)...

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Via Matteo Bandello 19/A- 10156 Torino Tel. 011.47.40.764 Fax 011.42.76.428 Cell. 347.75.14.582 - 328.94.55.226 - 320.633.48.37 [email protected] – www.formaemarketing.it

Corso per l’idoneità di Responsabile Tecnico Gestione Rifiuti

Modulo intermediazione:

Dispensa su

Tecniche di tutela dell’ambiente

Autore: Insegnante di teoria e Gestore Trasporti Mia Marta Stoppa

I

Sommario Premessa ....................................................................................................................................... 1

La sicurezza ambientale .............................................................................................................. 8

Diritto ambientale ...................................................................................................................... 13

La prevenzione dei reati ambientali ......................................................................................... 17

I reati ambientali ........................................................................................................................ 32

I reati ambientali (tratto da Codice Penale) ............................................................................ 43

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Premessa Per disastro ambientale si intende un fenomeno con una vasta ricaduta sull’ambiente, avente

origine naturale e non, inteso in senso biologico, che si configuri come catastrofico per: • la numerosità degli organismi viventi coinvolti; • la gravità degli effetti su tali organismi; • la vastità del territorio interessato.

Si includono, per rischi corsi potenzialmente catastrofici, anche i disastri ambientali sfiorati. Gli eventi possono essere causati o incentivati dall’azione di una determinata specie animale,

generalmente l’uomo. L’uomo stesso ed il suo territorio sono naturalmente ascritti all’insieme considerato, e soggetto

al disastro. Meno frequente invece che il disastro provenga da parte dell’azione di altre razze animali:

generalmente si tratta di razze non autoctone ma introdotte artificialmente che distruggono un habitat creato nel tempo e senza la loro presenza.

Possiamo distinguere fra: • disastri provocati dall'azione diretta dell’uomo e dalle sue attività; • disastri provocati da altre razze animali.

Il disastro ambientale non si deve confondere con i disastri naturali o calamità naturali,

ascrivibili a eventi del tutto naturali. Spesso tuttavia questi fenomeni naturali ricevono un effetto di amplificazione a causa delle

attività antropiche, sfumando facilmente il confine tra le due categorie. Ad esempio, la deforestazione di un’area collinare, quindi un diretto disastro ambientale, può

trasformare un relativamente innocuo nubifragio in una frana devastante, che senza l'intervento dell'uomo sarebbe classificato un disastro naturale. Disastri ambientali famosi nel mondo Disastri chimici, petrolchimici

Alcuni di questi fatti sono in parte descritti in coda alla voce relativa all'industria chimica • 1906 - Amianto - Italia, a Casale Monferrato inizia la produzione di fibrocemento Eternit, da

parte dell’omonima ditta svizzera. Le lavorazioni porteranno a molti morti (principalmente per mesotelioma) tra i lavoratori, i loro familiari ed i residenti nei pressi dello stabilimento, accertate nel solo decennio relativo alla chiusura della linea di produzione. L’attività procederà fino al 1986. Le vittime saranno oltre 2000 e continueranno ad aumentare nei prossimi anni.

• 1916 - Mercurio e altri metalli pesanti - Italia - Rosignano Solvay, apre lo stabilimento Solvay per la produzione di soda caustica, e successivamente di altri prodotti chimici. Da allora vengono scaricati in mare grandi quantità di scarichi contaminati da sostanze tossiche (arsenico, cadmio, nichel, piombo, zinco, cloroetano e soprattutto mercurio). Questi scarichi hanno dato origine al fenomeno delle “spiagge bianche”.

• 1917 - Esplosivi - Canada il porto di Halifax il giorno 6 dicembre fu oggetto della più grande esplosione pre-atomica (3 chilotoni), a cui seguirono 2000 morti e danni fino ad un raggio di 16 km.

• 1917 - Idrocarburi - Venezuela - Inizia lo sfruttamento petrolifero del Bolivar Coastal Field causando gravissimi problemi di inquinamento, malattie e bambini nati malformati. Questo inquinamento continua tuttora.

• 1918 - Amianto - Italia - Balangero. Inizia lo sfruttamento dell’amiantifera di Balangero che continuerà fino al 1990, causando molte vittime fra lavoratori e residenti nella zona, a causa dell’inalazione delle fibre cancerogene.

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• 1921 - NH4NO3 - Germania - Oppau Esplosione da nitrato d’ammonio alla BASF, oltre 800 morti.

• 1926 - Cr6+ - Italia - Lago d'Orta, inizia l’inquinamento dovuto a scarichi di solfati di rame e ammonio di una industria tessile per la produzione di rayon con il processo cupro-ammoniacale, in pochi anni il lago diventa invivibile per la maggior parte degli organismi pelagici e bentonici negli anni 60 i metalli scaricati da numerose elettrogalvaniche (Cu, Cr, Ni, Zn) aggravano l’inquinamento, ulteriormente accentuato dall’acidificazione dell’intera massa lacustre provocata dai processi di ossidazione biochimica dell'ammonio a nitrato. Dagli anni 80 graduale miglioramento anche a seguito di interventi massivi di liming.

• 1930 - idrocarburi - Belgio, valle della Mosa presso Liegi fenomeni d’inversione termica causarono la stasi di inquinanti atmosferici convenzionali, causando la morte di 60 persone.

• 1932 - Policlorobifenili - Italia - Brescia, presso lo stabilimento chimico Caffaro, acquisito dalla Monsanto, inizia la produzione di policlorobifenili, causando gravissimi problemi d’inquinamento ambientale e gravi malattie tra lavoratori e residenti nei dintorni. La produzione continuò fino al 1983, quando i policlorobifenili furono vietati in Italia.

• 1947 - Nitrato di ammonio - Stati Uniti d’America - Disastro di Texas City, 576 morti. • 1948 - Zinco - Stati Uniti d’America - Disastro ambientale di Donora, 20 morti ed altri 50 nel

mese seguente. • 1952 - Mercurio - Giappone - malattia di Minamata - casi di intossicazione da metilmercurio, in

prevalenza villaggi di pescatori che si alimentavano di pesce contaminato, a larghissimo raggio di diffusione. 2265 vittime accertate nel 2001, in gran parte bambini, con effetti neurologici particolarmente gravi, 17000 richieste di risarcimento.

• 1957 - Talidomide – in Germania e nel resto d’Europa ne inizia la commercializzazione su formula della Chemie Grünenthal. Solo nel 1961 scoppia il caso talidomide, sedativo usato in gravidanza e potente teratogeno. Stima di 10000 bambini nati focomelici. In Italia commercializzato fino al 1962.

• 1952 - Idrocarburi - Regno Unito Londra, la cosiddetta “nebbia nera” o Grande smog Great Smog o Big Smoke formatasi per l’accumularsi di smog a causa di particolari condizioni di calma atmosferica, causò nel mese di dicembre la morte diretta di oltre 4000 persone e fino a 12000 per le conseguenze.

• 1953 - Diossine - Germania - fuga di diossine alla BASF, il 17 novembre 1953 negli impianti di Ludwigshafen, su una linea di produzione di Triclorofenolo.

• 1955 - Mercurio - Iraq casi di intossicazione da composti del metilmercurio, usati come fungicidi sulle derrate agricole nei periodi 1955 -1956, 1959-1960, il maggiore nel 1971 -1972. 6000 vittime.

• 1956 - Idrocarburi - Italia - Augusta - Entra in funzione il polo petrolchimico siracusano che negli anni successivi provocò gravissimi danni ambientali ed un incremento delle malformazioni e dei tumori tra gli abitanti ed i lavoratori della zona. L’impianto è stato teatro di numerosi incidenti che hanno provocato la morte e l'intossicazione di molti operai.

• 1958 - Rifiuti - Italia - Trieste - Viene inaugurata la discarica di Trebiciano. Da allora, fino alla chiusura avvenuta nel 1972, vi furono conferiti in modo incontrollato rifiuti di ogni genere, dai rifiuti solidi urbani ai rifiuti tossici industriali, contaminando le acque del sottostante fiume sotterraneo Timavo. Tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta ci furono sversamenti di rifiuti pericolosi anche in altre aree del territorio triestino, in particolare all’interno delle grotte carsiche e nei fondali adriatici.

• 1962 - SO2 - Italia - Savona - Cengio, Dall’ACNA (Azienda Coloranti Nazionali e Affini), afferente all’ industria EniChem, si riversano per decenni ingenti quantità di anidride solforosa, benzene e fenoli sterilizzando una vasta area. Nel 1988 un incidente induce il Ministro dell’Ambiente Giorgio Ruffolo a decretare una prima chiusura dell’impianto, e definitivamente nel 1997.

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• 1964 - Diossine - Italia - Taranto - Entra in funzione il primo altoforno del siderurgico costruito dall’Italsider a Taranto, dal quale fuoriuscirà una quantità di diossine superiore a quella fuoriuscita a Seveso in 50 anni di attività; questo provocò e prova tuttora, oltre che innumerevoli casi tumorali nella città, in particolare nel quartiere Rione Tamburi, l’avvelenamento del bestiame e delle cozze, provocando la rovina degli allevatori e dei mitilicoltori.

• 1965 - Idrocarburi - Italia - Gela - Entra in funzione il polo petrolchimico di Gela che causò e continua a causare un forte inquinamento ambientale e la distruzione dell’ecosistema costiero.

• 1970 - Mercurio - Brasile e stati confinanti, (Guyana, Suriname, Guyana Francese, e stato dell’Amazonas in Brasile). Vastissimo e indefinito inquinamento da mercurio, utilizzato dai garimpieros per l’estrazione dell’ oro in forma di amalgama dai depositi fluviali. L’estrazione si praticava dal XVI secolo, ma la scoperta dei giacimenti dello Scudo della Guyana o Guyana shield ha amplificato il fenomeno. Elevato ma indefinito (5 milioni di abitanti inizialmente) numero di nativi interessati, a tutt’oggi l’estrazione continua. Il Brasile è il quarto produttore d’oro mondiale.

• 1970 - Cloruro di vinile - Italia - Porto Marghera. Per decenni le industrie chimiche della zona (EniChem Agricoltura, Agrimont, Montefibre, Montedison in genere) riversano CVM (cloruro di vinile monomero), idrocarburi clorurati e metalli pesanti nella laguna. Gravi danni all’ambiente e decine di casi di tumore tra gli abitanti. I responsabili dei fatti, processati negli anni 2000 e con sentenza di cassazione a maggio 2007, godono della prescrizione dei reati commessi .

• 1972 - Idrocarburi - Italia - San Dorligo della Valle - Il terminal dell’oleodotto transalpino viene colpito da un attentato ad opera dell’organizzazione terroristica Settembre Nero producendo una nube tossica. Inoltre, le scorie tossiche provenienti dall’attività di bonifica verranno successivamente smaltite all’interno di grotte carsiche inquinando le falde acquifere.

• 1976, 10 luglio - Diossine - Italia - Seveso - Nello stabilimento della ICMESA (Givaudan) esplode un reattore, disperdendo nell’ambiente TCDD tetracloro-p-dibenzodiossina. Seimila residenti esposti ai danni a causa del disastro di Seveso.

• 1978 - Cr6+- Italia - Genova - Cogoleto. La Stoppani, azienda operante da decenni sul territorio, risulta inadempiente. Dati della Regione parlano di 92.000 m³ di fanghi tossicistoccati nella discarica di Pian di Masino contenenti elevatissime quantità di metalli pesanti, mentre l’agenzia regionale protezione ambiente (ARPA) ha trovato concentrazioni di cromo esavalente nelle acque di falda 64.000 volte superiore al limite. Vasto numero di abitanti e lavoratori coinvolti e significativo aumento di mortalità per tumori.

• 1978 - Diossine - Stati Uniti. Il sito, noto come Love Canal, nel comune di Niagara Falls (stato di New York), venne utilizzato dalla Hooker Chemicals and Plastics (adessoOccidental Chemical Corporation (OCC)) per lo stoccaggio di 21.000 tonnellate di prodotti e rifiuti chimici, compresi clorurati e diossine. La dispersione nell’ambiente delle stesse provocò l’evacuazione di un intero quartiere.

• 1979 - Rifiuti tossici - Italia - La Spezia. Inizia il conferimento di rifiuti nella discarica di Pitelli. Verranno conferiti abusivamente anche rifiuti tossici.

• 1984 - Metilisocianato - India - Bhopal - esplosione nello stabilimento della Union Carbide con dispersione di 40 tonnellate di Metilisocianato - 100.000 feriti, 2.000 morti a causa del disastro di Bhopal.

• 1985 - Clorofluorocarburi - Viene descritto per la prima volta sulla rivista Nature il buco dell’ozono.

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• 1988, 17 luglio - Dimetoato - Italia - Massa – Un’esplosione nella fabbrica di insetticidi Farmoplant produce una nube tossica.

• 1992 - Amianto. In Italia viene ufficialmente messo fuori legge l’utilizzo del minerale, fino a quel momento largamente usato nel fibrocemento ed altri manufatti, e responsabile di migliaia di casi di Asbestosi, e soprattutto mesoteliomi, vista la lunga latenza della malattia, tuttora in atto.

• 1994 - Rifiuti - Italia - Campania. Inizia a manifestarsi la crisi dei rifiuti in Campania, che da allora si è ripetuta periodicamente ed è tuttora parzialmente irrisolta. Molti morti per tumori e altre patologie nell’area nota come Terra dei Fuochi a causa dello sversamento nell’ambiente di rifiuti tossici industriali e della combustione incontrollata di rifiuti. Gravi problemi d'inquinamento di suolo, falde acquifere e aria. Pesante coinvolgimento della camorra nelle attività di smaltimento dei rifiuti.

• 2000, 30 gennaio - Cianuro - Romania - Baia Mare - 100.000 m³ di acqua e fanghi ricchi di cianuro si riversano dalla miniera aurifera di Baia mare (Romania) e inquinano i fiumi Somes, Tibisco e Danubio.

• 2001 - NH4NO3 - Francia - Tolosa - Esplosione da nitrato d’ammonio alla AZF, 31 morti e 2442 feriti.

• 2007 - Rifiuti tossici - Italia - Abruzzo. Mercurio, piombo e composti clorurati sono i principali contaminanti rilevati. Bussi sul Tirino è al centro di un’area, nel bacino idrografico della Val Pescara, interessata da una decennale attività di occultamento di rifiuti tossici, si stima di 250.000 tonnellate solo nel primo rilevamento. Lunga serie di intossicati principalmente sul luogo di lavoro. Indagini e commissariamento della zona, contigua al Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, in corso. Le recenti scoperte di nuovi siti candidano la zona al primato di discarica abusiva di rifiuti tossici, maggiore d’Italia.

• 2008 - Rifiuti tossici - Italia - Catania. Scoppia il caso di morti sospette negli ultimi anni di decine di ricercatori presso il laboratorio chimico della facoltà di farmacia dell’Università degli Studi di Catania. Si scopre che i rifiuti tossici venivano scaricati illegalmente nei lavandini, inquinando le falde acquifere e producendo vapori tossici che risalivano gli scarichi. Inoltre il laboratorio non disponeva degli adeguati impianti di aerazione.

• 2009 - Rifiuti tossici e radioattivi - Italia - Calabria. Viene scoperto il Relitto di Cetraro, una nave affondata nel Mar Tirreno dalla 'ndrangheta carica di rifiuti tossici e radioattivi.

• 2010 - Fanghi tossici - Ungheria - Ajka. Una grande quantità di fanghi tossici fuoriescono da una fabbrica di alluminio contaminando una vasta area uccidendo 7 persone, intossicandone una ventina e inquinando gravemente i fiumi Torna, Marcal e Ràba che confluiscono nel Danubio.

• 2011 - Idrocarburi - Nigeria. Viene pubblicato uno studio di impatto ambientale del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente – UNEP che dimostra come da decenni le compagnie petrolifere operanti nel paese (ENI, Shell, Chevron, Total, Exxon Mobil) abbiano devastato con le loro attività l’area del delta del Niger, come denunciato anche da alcune ONG, quali Amnesty International, Environmental Rights Action e inchieste giornalistiche. La disastrosa situazione ambientale e sociale del delta del Niger viene ribadita dalla sentenza della Corte di Giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas, dicembre 2012), che evidenzia le responsabilità delle compagnie petrolifere che operano nel paese (Nigerian National Petroleum Company, Shell Petroleum Development Company, ELF

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Petroleum Nigeria ltd, AGIP Nigeria PLC, Chevron Oil Nigeria PLC, Total Nigeria PLC and Exxon Mobil) e del governo.

• 2012 - Rifiuti tossici - Italia - Veneto. Vengono scoperti enormi quantità di scorie di fonderia altamente tossiche smaltite illegalmente sotto il tracciato della costruenda autostrada A31 tra Vicenza e Rovigo.

• 2015 - Arsenico e piombo - Stati Uniti - Colorado. 11 milioni di litri di fango contaminato da metalli pesanti provenienti da una miniera abbandonata si riversano accidentalmente nel fiume Animas.

Incidenti minerari • 1906, 10 marzo - Miniera di carbone – Un’esplosione di polveri di carbone nella miniera di

Courrières nel nord della Francia. vi sono 1099 morti, tra cui molti minatori bambini. • 1907, 6 dicembre – Un’esplosione di grisu nella miniera di Monongah in Virginia occidentale,

negli stati Uniti. Vi sono 900 morti.

• 1966 - Tracimazione - Bulgaria - Sgorigrad – Il 1º maggio una colata di fango di circa 220 000 m³ originatasi dal bacino di decantazione della attuale miniera Placalnizza (piombo, zinco e uranio), travolse il paese, nel nord della Bulgaria, uccidendo 488 persone e provocando ingenti distruzioni materiali e ambientali.

• 1942, 26 aprile - Miniera di carbone – Un’esplosione di gas e polveri di carbone nella miniera di Benxihu (Honkeiko) Colliery, localizzata a Benxi, Liaoning, Cina. vi sono 1549 morti.

• 1956, 9 agosto - Miniera di carbone - Un incidente nella miniera di Marcinelle, in Belgio, provocò la morte di 262 minatori.

• 1965, 28 maggio - Miniera di carbone - Un incidente nella miniera di Dhanbad a Jharkhand, in India. Vi sono 300 morti.

• 1985 - Tracimazione - Italia, la catastrofe della Val di Stava si verificò il 19 luglio quando i bacini di decantazione della miniera di fluorite a Prestavel ruppero gli argini scaricando 160.000 m³ di fango sull’abitato di Stava, provocando la morte di 268 persone. È stata una delle più grandi tragedie che abbia colpito il Trentino.

• 2005, 19 marzo - Miniera di carbone – Un’esplosione per una fuga di gas, nella miniera di Xishui a Shuozhou in Cina.

• 2005, 19 marzo - Miniera di carbone – Un’esplosione nella miniera di Sulongsi, contea di Fengjie in Cina.

• 2005, 28 novembre - Miniera di carbone – Un’esplosione di grisù con conseguente blocco impianti di aerazione, nella miniera di Dongfeng, nel Comune di Qitaihe (provincia di Heilongjiang), nel Nord-Est della Cina. Vi sono 134 morti.

• 2007, maggio - Miniera di carbone - Incidente nella miniera di Yubileynaya, in Russia. Vi sono 39 morti.

• 2007, 8 dicembre - Incidente nella miniera di Ruizhiyuan, nella provincia di Shanxi in Cina. Vi sono 105 morti.

• 2009, novembre - Miniera di carbone - Incidente nella miniera di Xinxing, a Hegang in Cina. Vi sono 87 morti.

• 2010, 8 maggio - Miniera di carbone – Un’esplosione per una fuga di gas metano, nella miniera Raspadskaya, nella regione siberiana di Kemerovo. Vi sono 60 morti.

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Disastri legati al trasporto, alla produzione o alla lavorazione di idrocarburi • 1967, 18 marzo – Regno Unito - La petroliera Torrey Canyon affonda al largo della Cornovaglia. • 1978, 16 marzo - Francia - La petroliera Amoco Cadiz affonda al largo delle coste bretoni. • 1979, 8 gennaio - Irlanda - Incidente della Betelgeuse; 50 morti. • 1980, 27 marzo - Norvegia - Disastro della piattaforma petrolifera Alexander Kielland; 123

morti. • 1988, 6 luglio - Regno Unito - La petroliera Piper Alpha si incendia e affonda al largo di

Aberdeen; 167 morti. • 1989, 24 marzo - Stati Uniti d'America - La petroliera Exxon Valdez affonda nel Golfo di

Alaska. • 1991, 14 aprile - Italia - La petroliera Amoco Milford Haven affonda al largo di Genova. • 2002, 19 novembre - Spagna e Portogallo - La petroliera Prestige affonda nell’Oceano Atlantico. • 2010, 23 febbraio - Italia - Disastro ambientale del fiume Lambro. • 2010, 20 aprile - 4 agosto - Stati Uniti d’America - Disastro ambientale della piattaforma

petrolifera Deepwater Horizon. • 2011, 5 ottobre - Nuova Zelanda - Disastro petrolifero di Tauranga del 2011. • 2014, 8 dicembre - Israele - un guasto ad un oleodotto provoca il riversamento di 3 milioni di

litri di petrolio nel deserto nei pressi di Eilat. Disastri legati allo sfruttamento civile dell'energia nucleare

Una delle scale attualmente utilizzate per la valutazione degli eventi è la scala INES, logaritmica e crescente, con 7 (+ 1 di valore nullo) livelli di gravità, dove per incidente si considera un evento pari o superiore al livello 4 ovvero per esposizione della popolazione dell’ordine del mSv. • 1957, 1973 e 2004 - Regno Unito - 3 incidenti al reattore nucleare di Sellafield. • 1979 - Three Mile Island (USA) - incidente al reattore nucleare. • 1986 - Černobyl' (Ucraina) - incidente al reattore nucleare - 30 morti, 135000 evacuati nel raggio

di 40 km, enorme il numero di contaminati del disastro di Černobyl'. • 1987 - Cesio 137 - Brasile - Incidente di Goiânia.

Alcuni venditori di ferro vecchio recuperano una sorgente radioattiva utilizzata per le radiografie da un ambulatorio da poco abbandonato ignorandone la pericolosità. 4 morti e centinaia di contaminati.

• 1991 - Giappone, Il reattore di Mihama della Kansai Electric Power Co. Inc., un generatore nucleare da 826 000 kilowatt, in febbraio versa in mare 20 tonnellate di acqua altamente radioattiva.

• 1999 - Giappone, il 30 settembre a Tokaimura, villaggio a 130 km a nord est di Tokio si verifica una contaminazione da Uranio 238 proveniente da un impianto di produzione di combustibile nucleare. Si registra la morte di due operatori, 600 persone colpite da radiazioni ospedalizzate, evacuazione di 320000 abitanti della zona.

• 2004 - Giappone, Il reattore di Mihama della Kansai Electric Power Co. Inc., un generatore nucleare da 826000 kilowatt, lo stesso del 1991, subisce una grave perdita di vapore ad alta pressione. Quattro gli operai morti sull’impianto, numerosi i feriti, almeno 7 i gravissimi di cui non è stata resa nota l’evoluzione sanitaria; tragedia sfiorata. L'azienda di controllo TEPCO (Tokyo Electric Power) in aprile veniva inquisita per falsificazione dei documenti relativi alla sicurezza.

• 2008 - Italia - Lumezzane, una sorgente radioattiva contenente Cesio 137 viene accidentalmente fusa insieme ai rottami di ottone in una fonderia contaminando diverse tonnellate di materiale.

• 2011 - Giappone - Fukushima, serie di quattro distinti gravi incidenti occorsi presso la centrale nucleare omonima a seguito del terremoto dell’11 marzo 2011 e del relativo tsunami.

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Disastri legati allo sfruttamento delle risorse idriche • A partire dal dopoguerra, il prosciugamento del Lago d’Aral.

Da imputarsi principalmente al piano di coltura intensiva voluto dall’Unione Sovietica, dal 1960 ad oggi il suo volume e la sua superficie sono diminuiti di circa il 75%. Secondo il premio Nobel per la pace del 2007 Al Gore, l’evento più grave della storia dell’umanità.

• 1950 - Fitofarmaci - Uzbekistan e Kazakistan. Il disastro del Lago d’Aral inizia, e si protrae ancora al periodo attuale; è stato definito da Al Gore come il più grave nella storia dell’umanità. Originalmente, il lago era ampio all'incirca 68.000 km², ma dal 1960 il volume e la sua superficie sono diminuiti di circa il 75% accumulando agenti inquinanti poi dispersi dal vento su tutta l’area.

• 1963 - 9 ottobre Disastro del Vajont. Il disastro del Vajont è strettamente collegabile allo sfruttamento delle risorse idriche del territorio montano Italiano. L'evento risale al 9 ottobre 1963 ed ha coinvolto il bacino idroelettrico artificiale del Vajont: gran parte del pendio soprastante l’invaso –denominato Monte Toc- è franato nelle acque del bacino lacustre, provocando una tracimazione dell’acqua e il conseguente dilavamento delle sponde del lago che hanno superato la diga ricadendo nel fondovalle e in particolare del comune di Longarone. L’evento ha portato alla morte di circa 2000 persone.

Disastri per alterazioni dell'ambiente e degli equilibri tra specie animali e vegetali • 1832 - Opuntia sp introdotte in Australia per delimitare i confini tra appezzamenti di terreno.

I cactus, al cui genere appartiene anche il fico ‘India, introdotto anche nelle regioni calde d’Italia, si moltiplicarono enormemente causando notevoli danni ambientali. Il fenomeno venne contrastato con la diffusione della farfalla Cactoblastis, parassita del vegetale. La vicenda è uno dei primi esempi di lotta biologica.

• 1859 - Conigli. In Australia, una dozzina di esemplari inizialmente liberati presso Melbourne, riproducendosi senza controllo predatorio, devastarono in breve tempo la vegetazione del continente. Insieme ad altri mammiferi placentati alloctoni, quali volpi, gatti e maiali, causano tuttora ingenti danni all’ambiente australiano.

• 1931 – Negli USA, a causa dell'errato sfruttamento agricolo del territorio, il fenomeno noto come Dust Bowl (tempeste di polvere) devastò gli stati centrali e parte del Canadaper otto anni. Pesanti ricadute su almeno mezzo milione di abitanti.

• 1958 – In Cina il governo di Mao Tse Tung, nell’ambito della politica del “Grande balzo in avanti”, diede inizio alla cosiddetta “campagna di eliminazione dei quattro flagelli”, con la quale si prevedeva lo sterminio di massa di passeri, topi, mosche e zanzare. La campagna venne sospesa nel 1962, quando ormai aveva già creato squilibri gravissimi all’ecosistema che favorirono il sorgere della grande carestia cinese.

Disastri provocati dall'azione militare e bellica, compresi test ed esercitazioni • 1943 - Bombardamento di Bari da parte dell’esercito tedesco - immissione di iprite, allora usato

come arma chimica, nell’ambiente. • 1945 - Bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. • 1944/1987 - Nove reattori nucleari militari dell’Hanford Site (USA) - Grave inquinamento della

falda acquifera del Columbia river, in seguito a perdite dai serbatoi di separazione del Plutonio (tramite processo PUREX) contenenti l’emulsione in idrocarburi di una soluzione acida di

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Uranio, Nettunio, tracce di Plutonio, Iodio radioattivo, e altri elementi risultanti dal processamento chimico dei prodotti di fissione dei nove reattori autofertilizzanti.

• 1946/1958 - Uranio - Oceano Pacifico - Con l’Operation Crossroad numerosi test nucleari vengono eseguiti nell’Oceano Pacifico (in particolare nell’Atollo di Bikini appartenente alle Isole Marshall da parte del governo degli Stati Uniti d’America.

• 1949/1957 - Plutonio - Russia - Con gli esperimenti nucleari a scopo bellico nella località di Majak una vasta area viene contaminata. Ancor oggi i livelli di radioattività sono elevatissimi. Si veda anche Incidente di Kyštym.

• 1949/1989 - Plutonio - Kazakistan – Nel poligono nucleare di Semipalatinsk vennero condotti 496 test nucleari contaminando pesantemente una vasta area.

• 1965 - Diossine - Vietnam - Durante la Guerra del Vietnam e fino al 1970 vengono scaricate nell'ambiente e sulla popolazione vietnamita 80.000 t del potente erbicida agente Arancio.

• 1984, 12 luglio - Uranio - Italia - Lentini - Incidente di Sigonella: un aereo dell’US Air Force precipita sversando nel terreno una grande quantità di uranio impoverito. Ne conseguirà un incremento di tumori e leucemie tra gli abitanti della zona.

• 1991 - Idrocarburi - Kuwait: durante la Guerra del Golfo i militari di Saddam Hussein incendiarono diversi pozzi petroliferi provocando una catastrofe ambientale.

• 1999 - Uranio - Kosovo: l’uso massiccio di proiettili all'uranio impoverito nel corso della guerra in Kosovo causò gravi contaminazioni ambientali e morti per tumore fra soldati e civili.

• 2011 - Uranio - Italia - Quirra: esplode il caso del Poligono sperimentale di addestramento interforze.

• L’uso di proiettili ad uranio impoverito nelle esercitazioni militari sarebbe stato responsabile di molti casi di tumori, leucemie e altre gravi patologie fra la popolazione civile.

La sicurezza ambientale Oggetti e beni della tutela

Molto si discute sull’ampiezza e sull’unitarietà o meno del concetto di ambiente, e di conseguenza sui confini della tutela penale dell’ambiente.

Schematicamente si è soliti dare diverse definizioni di ambiente: una più ristretta, incentrata sulle componenti della biosfera (acqua, aria, suolo); una più ampia, comprendente altresì il territorio inteso come assetto urbanistico, il paesaggio e i beni culturali.

La discussione appare certamente interessante sotto vari profili. La riconduzione di una certa disciplina all’ambiente anziché ad altre materie (poniamo,

all’agricoltura o al governo del territorio) determina la potestà legislativa in capo allo Stato, o alle regioni, o ad ambedue in via concorrente (art. 117 Cost.).

La riconduzione di determinate procedure al settore ambientale rileva ai fini dell’attribuzione di poteri amministrativi in capo a determinati organi ed enti a livello nazionale e locale.

Infine, la nozione di ambiente rileva dal punto di vista giurisdizionale, ad es. in tema di competenza per il giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative.

Dal punto di vista del penalista la questione di che cosa si intenda per ambiente (quali oggetti materiali ricomprenda) interessa da un punto di vista didattico e sistematico, per offrire un quadro coerente e completo degli interessi penalmente tutelati; interessa meno dal punto di vista, qui privilegiato, dell’interpretazione da dare alle singole fattispecie penali.

Di regola, infatti, le fattispecie penali che esamineremo non tutelano l’ambiente tout court 5 , bensì di volta in volta, un certo stato delle acque, dell’aria e del suolo , un certo assetto del territorio e del paesaggio.

La materia, comunque se ne delimitino i contorni, è di proverbiale vastità e complessità: basti dare uno sguardo alla mole dei commentari, dei manuali e delle monografie che la riguardano.

Esigenze di sintesi impongono una selezione del materiale normativo.

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Ragioni storiche e sistematiche, insieme all’importanza e alla frequenza di applicazione nella prassi, suggeriscono di approfondire le fattispecie penali in tema di rifiuti, di inquinamento idrico e atmosferico contenute nel d.lgs. n. 152/2006, d’ora in poi TUA.

Adeguato spazio verrà dedicato a talune fattispecie codicistiche previste dal legislatore (incendio boschivo) o utilizzate dalla giurisprudenza (danneggiamento, getto pericoloso di cose, disastro c.d. innominato) per sanzionare condotte offensive dell’ambiente.

I criteri prescelti per selezionare il materiale normativo (storico, sistematico, statistico-giurisprudenziale) esonerano dall’esame di discipline pur importanti (agricoltura e OGM; caccia e pesca; flora; sostanze pericolose; nucleare; beni culturali).

L’ambiente (o meglio le sue varie componenti di volta in volta considerate) è dunque l’oggetto della tutela penale, il campo di materia sul quale incide la disciplina penale.

Ciò non significa necessariamente che l’ambiente sia anche il bene giuridico tutelato dal diritto penale.

A vari livelli (teorico, delle intenzioni del legislatore, delle tecniche di costruzione della fattispecie) può essere che singole fattispecie o intere discipline penali non proteggano l’ambiente nelle sue componenti ecologiche in sé considerate (acqua, aria, suolo), quanto piuttosto la salute dell’uomo, che in esse e di esse vive.

Analogamente v’è da chiedersi se il territorio e il paesaggio siano tutelati in sé o per la fruizione (economica, abitativa, estetica, ecc.) dell’uomo.

Più in generale ci si chiede se l’ambiente, comunque considerato, sia tutelato come fine in sé (concezione c.d. ecocentrica), oppure come mezzo, nella misura in cui sia funzionale a tutelare altri interessi (salute umana od altri beni connessi alla persona umana, come ad es. lo sviluppo economico, l’agricoltura, il turismo, ecc.), alla luce di una concezione c.d. antropocentrica dei rapporti fra uomo e natura.

Al di là delle personali preferenze ideologiche e visioni del mondo e dell’uomo, è bene sottolineare che la tutela giuridica (anche penale), come ovvio, dipende da singole scelte normative storicamente date, non da verità ontologiche o da concezioni filosofiche che si vorrebbe imporre al legislatore una volta per tutte.

La risposta ai quesiti di fondo sopra accennati dipende allora dall’esame delle normative vigenti. Limitandoci al testo normativo più significativo (d.lgs. n. 152/2006) vengono in rilievo, in prima

battuta, gli obbiettivi di tutela, la definizione “generale” di inquinamento e le definizioni “settoriali” di inquinamento idrico, atmosferico e del suolo.

La disciplina dettata dal TUA, “ha come obbiettivo primario la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali” (art. 2).

L’obbiettivo generale della qualità della vita umana (interesse finale), appare dunque interconnesso con la tutela dell’ambiente (interesse strumentale).

L’inquinamento è definito come “l’introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbe nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri suoi legittimi usi” (art. 5, lett. i-ter, TUA).

La compresenza di diversi beni tutelati affiora anche nelle definizioni settoriali di inquinamento. Così, l’art. 178 TUA, relativo alle finalità delle disposizioni in tema di rifiuti, afferma che questi

“sono gestiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente …” .

Tra le diverse finalità perseguite dal legislatore in tema di acque (art. 73, TUA) ve ne sono alcune pensate sull’uomo, come il miglioramento delle risorse idriche potabili, a fianco di altre concernenti le componenti ecologiche in sé considerate (il raggiungimento di concentrazioni nell’ambiente marino vicine ai valori del fondo naturale per le sostanze presenti in natura e vicine allo zero per le sostanze sintetiche antropogeniche).

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L’art. 74, lett. cc), TUA, nel fornire la definizione di inquinamento idrico, fa riferimento alternativamente a condotte “che possono nuocere alla salute umana o alla qualità degli ecosistemi acquatici … perturbando, deturpando o deteriorando i valori ricreativi o altri legittimi usi dell’ambiente”.

Nella disciplina delle emissioni in atmosfera l’art. 268 TUA definisce l’inquinamento atmosferico come “ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o di più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell’ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente”.

Emergono nelle ultime definizioni tre interessi: la qualità dell’ambiente, la salute umana e gli usi legittimi dell’ambiente (economici, turistici, agricoli, ecc., compresi i valori ricreativi).

Il quadro di tutela è dunque variegato. Occorre aggiungere che lo scopo generale di tutela perseguito nel suo complesso da una

normativa (nel caso di specie la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell’ambiente) ben può divergere dallo scopo di tutela assegnato al diritto penale, il quale, sacrificando (almeno potenzialmente) la libertà dei cittadini può e deve essere impiegato per fronteggiare le sole offese più gravi ai beni di rango più elevato.

Sicché, in base ai criteri che dovrebbero presiedere alle scelte di incriminazione (extrema ratio, proporzione) il diritto penale dell’ambiente ben potrebbe circoscrivere la propria tutela a interessi o stadi di offesa differenti da quelli cui mira, ad es., il diritto amministrativo.

Tuttavia, nel diritto penale dell’ambiente, come in gran parte del diritto penale complementare, la connessione con la sottesa disciplina amministrativa è particolarmente marcata, tanto che si parla di accessorietà del diritto penale al diritto amministrativo (cfr. infra, 2).

L’ambiguità o pluralità di talune finalità generali di tutela, unita alla possibile discrasia tra finalità amministrative e finalità penali di tutela, non esplicitate dal legislatore, è alla radice delle difficoltà che spesso si incontrano nella ricostruzione degli scopi di protezione di singole fattispecie penali.

Un esempio chiarirà meglio il carattere contingente delle scelte del legislatore e le difficoltà dell’interprete nel ricostruire lo scopo di tutela di talune disposizioni penali ambientali.

Ad una certa data lo sversamento di formaldeide nelle acque integrava illecito penale (art. 59, comma 5, d.lgs. n. 152/1999) ovvero illecito amministrativo (art. 54, comma 1, d.lgs. n. 152/1999) a seconda che la sostanza fosse o non fosse ritenuta compresa nel punto 18 della tabella 5 dell’all. 5 (“sostanze di cui è provato il potere cancerogeno”).

Come interpretare tale formula? Cancerogeno per l’uomo, per le cavie di laboratorio, per la fauna in genere o per la fauna ittica?

Nel caso di specie, al tempo della condotta di sversamento, la formaldeide era classificata come probabilmente cancerogena per l’uomo, e provatamente cancerogena per le cavie da laboratorio.

Per i giudici di merito tanto bastava per condannare: bene tutelato dalla fattispecie di inquinamento idrico era l’ambiente inteso come habitat naturale, comprensivo degli animali.

In Cassazione prevalse l’orientamento opposto: ciò che contava era la cancerogenicità per l’uomo.

All’epoca della condotta la cancerogenicità per l’uomo della formaldeide era sì congetturata come probabile, ma non ancora provata.

Successivamente il punto 18 della tabella 5 dell’(ora) all. 5 al d.lgs. n. 152/2006 è stato nuovamente modificato con l’indicazione “sostanze classificate contemporaneamente cancerogene (R45) e pericolose per l’ambiente acquatico (R50 e 51/53) 13 ai sensi del d.lgs. n. 52/1997 e successive modifiche”, richiedendosi dunque congiuntamente sia un pregiudizio per la salute dell’uomo che per l’ambiente acquatico.

Il caso esaminato insegna come, spesso, nel diritto penale dell’ambiente, il bene tutelato emerga non tanto dalla descrizione della condotta o dalla sua collocazione sistematica, quanto dalle tabelle

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(o da dati da essa richiamati) cui le norme rinviano, contenenti limiti di ammissibilità, tipologie di sostanze, criteri di calcolo dei limiti ammissibili, la cui delineazione, non di rado, è problematicamente demandata a fonti secondarie.

Rinviando alle singole discipline penali per i riflessi interpretativi connessi all’individuazione del bene tutelato, può qui anticiparsi che, in linea tendenziale, nell’ottica antropocentrica attualmente e prevalentemente assunta dal legislatore italiano, come evidenziato dal citato art. 2 TUA, l’ambiente, nel sottosettore rappresentato dalla tutela penale contro gli inquinamenti (suolo, acque, aria) finisce per porsi, oggi, in un rapporto di anticipazione di tutela rispetto alla salute dell’uomo e di conflitto con altri interessi o usi delle risorse naturali da parte dell’uomo (produttivi, agricoli, turistici, ecc.) la cui composizione è subordinata a procedure, prescrizioni e limiti soglia, in parte fissati dalla legge, in parte demandati ad organi amministrativi.

Le citate definizioni e finalità alternative di tutela, in definitiva, lasciano al legislatore di settore, e in certa misura all’interprete, fattispecie per fattispecie, la scelta tra tutela della risorsa naturale in sé e tutela anticipata della salute o di altri interessi dell’uomo.

L’ambiguità di fondo degli scopi di tutela emerge anche nelle fonti europee in materia. L’art. 174 TCE (oggi art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’UE) stabilisce che “la politica

della Comunità in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obbiettivi: • salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; • protezione della salute umana; • utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali …”.

In relazione ai profili di tutela penale, il testo normativo più importante (la direttiva 2008/99/CE del Parlamento e del Consiglio, del 19 novembre 2008) vincola gli Stati membri a incriminare determinate condotte di scarico, emissione o immissione nell’aria, nel suolo o nelle acque qualora “provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora”.

Ora, da un lato parrebbe che la qualità degli ecosistemi sia, secondo la fonte citata, bene giuridico tutelato autonomamente accanto alla vita e alla integrità fisica dell’uomo.

Tuttavia, rimane sullo sfondo la domanda iniziale: i danni rilevanti per la qualità dell’aria, del suolo o delle acque vanno parametrati ad un supposto (arcadico) equilibrio naturale o agli usi e agli interessi dell’uomo?

A ben vedere i concetti di valore soglia, di limiti di concentrazione di inquinanti, di danni rilevanti per la qualità degli equilibri ecologici rinviano, come inevitabile e probabilmente opportuno, ad una concezione per così dire sociale dell’ambiente, nell’orbita della quale il diritto fissa regole tese a contemperare le esigenze di tutela dell’ambiente con quelle tendenzialmente inquinanti dell’attività dell’uomo.

L’ambiente è visto dal legislatore come contesto spazio-temporale nel quale l’uomo di oggi e delle future generazioni è destinato a vivere, e che pertanto deve essere sì preservato in taluni suoi aspetti (la biodiversità, le caratteristiche architettoniche dei centri storici, ecc.) e luoghi (ad es. i parchi naturali o le riserve integrali), ma anche entro certi limiti sfruttato per i bisogni o per i piaceri dell’essere vivente storicamente più aggressivo comparso sul pianeta terra. Tutela di funzioni?

Vi è infine una terza ipotesi: che il diritto penale dell’ambiente, in molti casi, non tuteli tanto beni giuridici (quali che siano: ambiente, salute o altro), bensì funzioni amministrative, ovvero l’attività di pianificazione e controllo delle pubbliche amministrazioni preposte ai vari settori (rifiuti, acque, urbanistica, ecc.).

Si tratterebbe di una tutela convenzionale dell’ambiente, plasmata sulla sua regolamentazione giuridico amministrativa più che sulle sue componenti naturalistiche.

Espressione tipica della tutela di funzioni sarebbero le fattispecie che incriminano l’esercizio di determinate attività (apertura di scarichi idrici o in atmosfera, gestione di rifiuti, realizzazione di opere edilizie) senza autorizzazione, o in difformità dalle relative prescrizioni; oppure

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l’incriminazione di condotte di mancata collaborazione con le autorità preposte ai controlli (mancata tenuta dei registri, diniego all’accesso ai luoghi di esercizio dell’attività).

Secondo taluni a questo modello di incriminazione corrisponderebbe un improprio impiego del diritto penale che anziché tutelare beni preesistenti all’intervento del legislatore proteggerebbe funzioni amministrative, dunque un quid artificiale, di creazione normativa.

Al contrario altri ritengono che le funzioni amministrative, in quanto strumentali alla prevenzione di condotte offensive dei beni finali (o addirittura in quanto autentici beni giuridici in sé), siano a date condizioni meritevoli di tutela penale.

Ciò che in questa sede va sottolineato è che con l’espressione “tutela di funzioni” o beni strumentali o intermedi ci si riferisce, in sostanza, ad un’anticipazione della tutela penale rispetto a condotte che di per sé non danneggiano il bene finale, limitandosi ad occultare o ad ostacolare la conoscenza di determinate attività potenzialmente pericolose per l’ambiente, oppure rispetto a condotte di inquinamento oltre certe soglie che solo sul lungo periodo, in sinergia con analoghe condotte precedenti, concomitanti e successive appaiono idonee a mettere in pericolo un certo livello di salubrità delle componenti ecologiche.

A nostro avviso l’etichetta “tutela di funzioni” può essere utile a segnalare gli interessi (della p.a.) tutelati in via diretta e strumentale.

Ciò che importa, nella sostanza, è non perdere di vista gli interessi finali cui mira l’attività di controllo e pianificazione della p.a., e, soprattutto, la congruità anche empirico-fattuale delle fattispecie di pericolo astratto e di ostacolo a cogliere plausibili (per quanto astratti) pericoli di offesa ai beni finali. Insomma, al di là delle formule, il bene giuridico deve continuare a mantenere la sua funzione critica, rispetto a incriminazioni eventualmente incapaci di abbracciare condotte offensive; esigenza, quest’ultima, palesemente elusa da quelle pronunce che, in relazione a fattispecie di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione, vi riconducono tutte le “condotte puramente formali, di osservanza di mere condizioni formali, non collegate alla tutela di un interesse esplicitamente indicato e neppure immediatamente percepibile”; sicché in questi casi “il contenuto offensivo del reato è espresso dalla stessa struttura della norma ed il legislatore giudica con una sua valutazione vincolante per l’interprete che certe formalità debbano essere osservate con il suggello addirittura della sanzione penale”.

Norme penali così strutturate vanno sottoposte al vaglio critico dell’interprete, vuoi laddove possibile attraverso la selezione, all’interno delle violazioni c.d. formali, di quelle offensive (per quanto astrattamente) del bene finale, vuoi altrimenti attraverso la proposizione di questioni di illegittimità costituzionale per contrasto con il principio di offensività. Tecniche di tutela e struttura dei reati ambientali

Le discipline penali ambientali sono di regola costruite come appendici (più o meno) sanzionatorie di complessi di precetti e procedure amministrative (c.d. funzione sanzionatoria del diritto penale rispetto al diritto amministrativo).

La tipicità penale finisce spesso con l’assumere i caratteri di una “tipicità formale, destinata ad appiattirsi sulla violazione della normativa amministrativa di settore”.

Ciò vale, ad esempio, per l’immissione nelle acque o l’emissione nell’aria di sostanze senza autorizzazione amministrativa, o in violazione delle prescrizioni ivi contenute; per l’edificazione di opere senza permesso di costruire; per la gestione abusiva dei rifiuti, ovvero non autorizzata o in difformità dalle prescrizioni contenute nell’autorizzazione.

La sovrapposizione tra diritto penale e sottese discipline amministrative, come detto, può essere più o meno marcata. La tutela ambientale

Decreto Legislativo 152/06 Sulla Gazzetta Ufficiale numero 88 del 14 aprile 2006 Supplemento ordinario n. 96, è stato pubblicato il nuovo Decreto Legislativo in materia

ambientale approvato dal Consiglio dei Ministri in attuazione della legge delega 308/2004.

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Il nuovo testo unico è entrato in vigore il 29 aprile 2006. Il provvedimento, che riscrive le principali regole in materia ambientale, è articolato in sei

sezioni che disciplinano le seguenti materie: 1. Disposizioni comuni, finalità, campo di applicazione; 2. Valutazione impatto ambientale, valutazione ambientale strategica, Autorizzazione Integrata

Ambientale ; 3. Difesa del suolo e tutela e gestione delle acque; 4. Rifiuti e bonifiche; 5. Tutela dell’aria e riduzione delle emissioni; 6. Danno ambientale.

Il nuovo testo unico contiene anche le norme regolamentari (limiti di emissione, limiti allo scarico, standard per le bonifiche etc.).

Il nuovo testo unico dell’ambiente, per quanto riguarda i rifiuti, recepisce sostanzialmente il Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n.22, meglio conosciuto come “Decreto Ronchi”, che ha segnato il passaggio a tecniche di gestione dei problemi ambientali che prevedono e promuovono misure economiche, incentivi, nonché la responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di vita di un prodotto, dalla produzione alla sua destinazione come rifiuto.

La normativa antecedente il 1997 individuava lo smaltimento quale punto centrale del sistema, mentre oggi il cardine su cui si incentra la normativa, in linea tra l’altro con la disciplina comunitaria, è la “gestione dei rifiuti” che si articola nelle diverse fasi della raccolta, trasporto, recupero e smaltimento.

Quindi ogni volta che nella legge si trova scritto “gestione” (per esempio lo troviamo spesso nelle sanzioni) il termine è da intendersi riferito agli obblighi riguardanti raccolta, trasporto, smaltimento e recupero, attività che necessitano di specifica autorizzazione per poter essere effettuate. Diritto ambientale

Il diritto ambientale è quella branca del diritto che si occupa della tutela e salvaguardia dell’ambiente.

Si manifesta a livello sovranazionale, nazionale e regionale. Norme ambientali

Le norme ambientali dettate dal legislatore o da altre fonti di legislazioni sono norme giuridiche e quindi cogenti.

La norma ambientale si dice cogente perché impone un comando ai soggetti che devono osservarla.

Questi soggetti sono obbligati all'osservanza del precetto siano questi imprese (corretto smaltimento dei rifiuti industriali), privati (corretto smaltimento dei rifiuti urbani), o enti pubblici (corretto rilascio delle autorizzazioni in materia ambientale). Norme cogenti

Le principali leggi in materia ambientale sono le seguenti: • Regio Decreto n.3267 del 1923 - “Riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni

montani”; • Legge n.394 del 1991 – “Legge-quadro sulle aree protette”; • Legge n.150 del 1992 – “Disciplina dei reati relativi all'applicazione in Italia della convenzione

sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973, di cui alla legge 19 dicembre 1975, n. 874, e del regolamento (CEE) n. 3626/82, e successive modificazioni, nonché norme per la commercializzazione e la

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detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l'incolumità pubblica;

• D.P.R. n.357 del 1997 – “Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche” che istituisce la rete europea Natura 2000;

• Legge n.353 del 2000 – “Legge-quadro sugli incendi boschivi”; • D.Lgs. n.227 del 2001 – “Orientamento e modernizzazione del settore forestale”; • D.Lgs. n.42 del 2004 – “Codice dei beni culturali e del paesaggio”; • D.Lgs. n.152 del 2006 – “Codice dell'ambiente”; • D.Lgs. n.155 del 2010 – “Attuazione della direttiva 2008/50/CE relativa alla qualità dell'aria

ambiente e per un'aria più pulita in Europa”; • D.Lgs. n.121 del 2011 – “Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente,

nonché della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all'inquinamento provocato dalle navi e all'introduzione di sanzioni per violazioni." Tale legge inserisce nuovi reati ambientali nel codice penale e introduce la responsabilità delle persone giuridiche per i reati ambientali.”

• Codice dell’Ambiente – “Testo aggiornato e coordinato” • Codice dei beni culturali e del paesaggio – “Testo aggiornato e coordinato”. Norme volontarie o Norme tecniche

Accanto a queste norme cogenti sussistono altre norme ambientali che non hanno natura legislativa, non sono cioè emanate dal parlamento (camera dei deputati, Senato della Repubblica) o da altra fonte legislativa (ad esempio l'assemblea regionale); questa categoria di norme non cogenti si dicono norme volontarie.

Le norme volontarie sono infatti norme tecniche che vengono emanate da organismi nazionali (UNI) o da organismi europei (Comitato Europeo di Normazione o CEN) o da organismi internazionali (ISO).

Lo scopo delle norme emanate dai predetti organismi tecnici (UNI; ISO; CEN) è quello di creare la circolazione di merci capitali, persone e servizi in un libero spazio economico abbattendo le barriere tecniche che esistono di fatto fra Stato e Stato ed impediscono l'affermarsi del libero mercato. Norme volontarie

Accanto alle norme cogenti sussistono altre norme ambientali che non hanno natura legislativa, non sono cioè emanate dal Parlamento (Camera dei Deputati, Senato della Repubblica) o da altra fonte legislativa (ad esempio l'assemblea regionale); questa categoria di norme non cogenti si dicono norme volontarie. Norme volontarie diventano norme cogenti

Le norme tecniche espressamente richiamate dall'articolo 10 del D.P.R. n. 203 del 1988 (oggi abrogato e assorbito dal Decreto Legislativo n.152 del 2006) con la dizione “applicazione della migliore tecnologia disponibile”, diventano legge dello Stato: si trasformano cioè da norme volontarie a norme cogenti ed obbligano pertanto non solo gli imprenditori che intendono continuare le emissioni ma anche la Regione che non può rilasciare l’autorizzazione correlativa se il soggetto interessato nella scheda tecnica non abbia adeguato il suo depuratore alla tecnologia che in quel momento è la più evoluta.

Quando le norme tecniche non sono recepite dal legislatore, esse non sono vincolanti e quindi non sono obbligatorie.

La loro violazione non può costituire fonte di responsabilità giuridica per i trasgressori. La Cassazione penale tuttavia, in una sua decisione (Cassazione, sez. IV penale, 15 marzo 1988)

ha disatteso questa opinione della dottrina e ha ritenuto che la violazione di norme tecniche

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volontarie (quindi non obbligatorie) costituisca una forma di responsabilità giuridica per il soggetto inosservante, in quanto lo stesso avrebbe violato le norme di prudenza espresse dalla norma tecnica.

Il trasgressore, pur non avendo violato alcuna legge, sarebbe tuttavia un soggetto imprudente e come tale responsabile del danno cagionato.

Le norme tecniche sono infatti norme di prudenza e, ancorché non recepite dalla legge e quindi non obbligatorie, non possono essere ignorate dai soggetti che svolgono attività produttive.

Un esempio utile è costituito da una sentenza della Cassazione (Cassazione, sez. I 7 luglio 2000 n. 8094), che ha disatteso l’indirizzo della precedenza sentenza del 1988 stabilendo il seguente principio a proposito del reato di emissioni moleste di cui all'art. 674 del Codice penale: quando le emissioni rispettano le norme tecniche recepite dalla legge, e cioè i limiti soglia (cd. parametri di tollerabilità), esse non possono costituire reato.

Ciò perché la legge penale ha recepito le norme tecniche e le ha quindi fatte diventare obbligatorie, e solo la loro violazione può costituire illecito penale.

Quando invece le emissioni rispettose delle norme tecniche cagionano pur tuttavia un fastidio alle persone, si avrà un illecito civile – cioè un illecito che a differenza di quello penale non incide sulla libertà della persona ma solo sul suo patrimonio perché il soggetto è tenuto a risarcire il danno - per violazione dell'articolo 844 del codice civile che sanziona le emissioni quando eccedono la normale tollerabilità.

Risulta dunque evidente che il riferimento alle norme tecniche anche per la Cassazione penale è obbligatorio solo quando esse siano espressamente recepite dalla legge; negli altri casi, varranno criteri diversi dai criteri prevenzionistici o di prudenza enunciati dai parametri tecnici, come appunto il criterio della normale tollerabilità.

Ciò comporta che per quei settori ove le norme tecniche non sono obbligatorie dalla legge dello Stato, esse non possono essere fonte di responsabilità giuridica. Norme tecniche e limiti soglia (Standard)

Le norme tecniche sono norme volontarie e rappresentano la mediazione fra interessi spesso in conflitto: ad esempio gli interessi de consumatori e quelli dei produttori.

Le tecnologie più evolute in materia ambientale espresse dalle norme tecniche non sono però direttamente vincolanti per i soggetti che svolgono un’attività produttiva o che utilizzano beni di consumo inquinanti.

Perché una norma tecnica diventi obbligatoria per i soggetti che con la loro attività inquinano, occorre che una legge dello Stato espressamente rinvii, cioè faccia riferimento, alle norme tecniche espressione della tecnologia più evoluta.

L’Ente Nazionale Italiano di Unificazione (UNI) è l’organismo nazionale riconosciuto per svolgere attività normativa tecnica in tutti i settori (compreso quello ambientale) ad esclusione del settore elettrotecnico ed elettronico dei quali si occupa il CEI, Comitato Elettrotecnico Italiano.

Questi sono gli unici Enti normatori nazionali: il loro riconoscimento definitivo è stato effettuato con la legge n. 317 del 21 giugno 1986.

Questi enti sono fonte di norme tecniche, elaborate con il concorso di tutti i soggetti interessati: prontuari, consumatori, pubbliche amministrazioni, rappresentanze sindacali e organismi di ricerca scientifica. Limiti Soglia

I limiti soglia sono i limiti stabiliti con riferimento agli standard tecnologici (cioè dalla tecnica) che non si devono superare nelle attività di scarico dei reflui industriali, nelle emissioni in atmosfera, nello smaltimento dei rifiuti.

Sono limiti il cui rispetto non impedisce l'inquinamento (ad esempio in uno scarico in cui l’alluminio è presente sotto i 100 mg/l l'inquinamento da alluminio sussiste), ma lo mantengono entro valori generalmente tollerabili.

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In altre parole, i limiti soglia sono valori oltre i quali l’inquinamento è senz’altro giudicato intollerabile.

Le norme ambientali di regola fissano i limiti soglia, esse cioè recepiscono gli standard tecnici (regole tecniche) forniti dalla scienza e ne rendono cogente la loro osservanza.

Obbligano cioè i potenziali inquinatori ad osservare e rispettare i predetti limiti e ne sanzionano l'inosservanza con sanzione amministrativa o penale.

Per gli impianti produttivi più complessi ed impattanti, peraltro, la norma riconosce espressamente la possibilità e la opportunità di andare oltre al generico concetto di standard tecnologico e di approfondire caso per caso quali siano le migliori tecniche disponibili, definendo in relazione ad esse i valori limite di emissione (non meno rigorosi dei limiti di soglia) in una Autorizzazione Integrata Ambientale.

È evidente però che la politica legislativa dei limiti soglia, se pure evoluta con la Autorizzazione Integrata Ambientale, non elimina l'inquinamento, né da sola può garantire adeguati livelli di qualità dell'ambiente.

La società industriale e post-industriale si caratterizza, infatti, per attività seriali, che si ripetono cioè nel tempo.

Le attività produttive, i beni dei consumatori (esempio gli autoveicoli) incidono lentamente ma continuamente sull'ambiente naturale.

Anche se le imprese giornalmente rispettano i limiti soglia, anche se i consumatori giornalmente dotano i loro autoveicoli di motori efficienti e alimentati con carburanti poco inquinanti (metano) tuttavia l'effetto cumulativo di dette attività, che pur rispettando singolarmente considerate i limiti soglia, può cagionare l'inquinamento dell’ambiente naturale (acqua, aria, suolo) ove superi le soglie di cosiddetta autodepurazione.

Nasce da ciò da una parte la opportunità che i limiti soglia siano cautelativi, e cioè che generalmente consentano di prevenire l’inquinamento, e dall'altra la necessità di integrare la politica dei limiti di soglia con altre politiche ambientali, che considerano il contesto in cui si collocano le attività attraverso strumenti di programmazione, pianificazione e di valutazione d’impatto.

Solo in questo modo è possibile evitare non solo un pericolo attuale di inquinamento ma anche un rischio remoto per le generazioni future. Regolamenti e direttive comunitarie nell'ambito europeo

Nell’ambito europeo, sussiste allo stato attuale della legislazione ambientale, la necessità di realizzare un mercato unico attraverso l’armonizzazione delle normative tecniche nazionali con conseguenze imposizioni di Standard tecnologici validi per tutti gli stati membri.

Sul piano legislativo, questo scopo diretto a creare i limiti soglia (standard) uguali in tutti i paesi membri della comunità si realizza attraverso strumenti legislativi comunitari quali i regolamenti e le direttive comunitarie. Norma UNI, ISO 14001

È questo il caso della norma UNI EN ISO 14001, che è una norma tecnica ambientale la quale, se spontaneamente osservata, migliora il sistema di gestione ambientale dell’impresa o organizzazione che l’adotta.

Quelle imprese che spontaneamente ritengono di osservare la norma ISO 14001 si sottopongono alla valutazione di un soggetto certificatore soggetto certificatore esterno alla organizzazione, che verifica periodicamente la capacità dell'impresa di gestire e migliorare le proprie prestazioni ambientali, assicurando anche il rispetto delle norme ambientali.

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La prevenzione dei reati ambientali Protocollo per la prevenzione dei reati ambientali

Il rispetto delle regole dettate dal Protocollo contribuisce a prevenire la commissione dei reati contenuti nella famiglia Reati ambientali (art. 25-undecies, Decreto 231).

Il Protocollo contiene prescrizioni atte a prevenire la commissione di reati ambientali. Nella prevenzione dei reati in materia ambientale, i Soggetti Apicali sono tenuti ad adempiere ai

doveri ad essi imposti dalla legge con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico. Essi sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno

fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose e/o pericolose.

In tale ambito, i suddetti soggetti devono: � verificare l’esposizione di rischio alla commissione dei reati presupposto previsti dall’art. 25-

undecies del Decreto 231; � porre in essere adeguate procedure di gestione e controllo (preventivi, concomitanti o successivi)

di tutte le fasi critiche dei processi a rischio, in particolare per quel che riguarda: a. gestione rifiuti (produzione, raccolta, deposito, trasporto, recupero, smaltimento, commercio

ed intermediazione); b. gestione di autorizzazioni/licenze/certificazioni/registri necessari e prodromici

all’espletamento delle attività in materia ambientale (rifiuti, SISTRI, emissioni, scarichi, rumore, etc.);

c. gestione delle emissioni in atmosfera (sostanze lesive allo strato di ozono, dispersione di gas, liquidi, sostanze nocive da impianti termici, gruppi elettrogeni, dispersione di sostanze in caso di incendio e in generale ogni emissione potenzialmente idonea a causare un danno o pericolo nell’atmosfera);

d. gestione degli scarichi idrici; e. gestione di sostanze, preparati/prodotti chimici pericolosi; f. massima attenzione alla gestione di merce inquinante ed alla spedizione via aerea di merci

classificate come pericolose; g. gestione rumore interno ed esterno; h. gestione delle emergenze ambientali (versamenti di sostanze o preparati pericolosi,

contaminazioni del suolo, sottosuolo, falda, dispersione di sostanze, liquidi e/o gas in atmosfera, incendi, etc.);

i. gestione e manutenzione di mezzi e attrezzature, impianti; j. gestione del paesaggio e degli ecosistemi protetti (es. flora, fauna, paesaggio);

� garantire che il personale con funzioni e responsabilità in ambito ambientale venga scelto per specializzazione, abilità e competenze e che sia dotato di “procura funzionale” o “delega” formalizzata e scritta, di estensione adeguata e coerente con le funzioni, le responsabilità e i poteri attribuiti agli stessi titolari;

� garantire che nei processi a rischio-reato sia soddisfatto il requisito della segregazione funzionale (separazione per ciascun processo tra il soggetto che autorizza, quello che esegue e quello che controlla);

� vigilare che propri dipendenti o altri sottoposti delegati osservino le norme e i doveri a loro demandati a tutela della sicurezza ambientale;

� riesaminare annualmente il sistema di prevenzione dei rischi ambientali; � garantire adeguate risorse finanziarie nell’ambito della prevenzione dei reati ambientali; � vigilare, unitamente all’OdV, sull’attuazione delle disposizioni del Modello 231 in materia di

reati ambientali.

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Gestione dei rifiuti Per gestione dei rifiuti si intende l’insieme delle politiche, procedure o metodologie volte a

gestire l’intero processo dei rifiuti, dalla loro produzione fino alla loro destinazione finale coinvolgendo quindi la fase di raccolta, trasporto, trattamento (riciclaggio o smaltimento) fino al riutilizzo dei materiali di scarto, solitamente prodotti dall'attività umana, nel tentativo di ridurre i loro effetti sulla salute umana e l’impatto sull’ambiente.

Un interesse particolare negli ultimi decenni riguarda la riduzione degli effetti dei rifiuti sulla natura e sull’ambiente grazie alla possibilità di risparmiare e recuperare risorse naturali da essi e ridurre la produzione di rifiuti stessi attraverso l'ottimizzazione del loro ciclo di gestione. Principi del sistema integrato italiano

La gestione integrata dei rifiuti in Italia è stata introdotta con il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (“Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”) (il cosiddetto decreto Ronchi del 1997) emanato in attuazione delle predette direttive dell’Unione Europea.

La materia è oggi raccolta nel Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (“Norme in materia ambientale”) conosciuto anche come Testo unico ambientale e successive modificazioni ed integrazioni in materia.

Essa affronta la questione dei rifiuti delineando priorità di azioni all’interno di una logica di gestione integrata del problema.

Esse sono, come descritto nella predetta parte IV negli articoli 180 e 181 nell’ordine di priorità definito dall’articolo 179: • Criteri di priorità (Art 179)

� Sviluppo di tecnologie pulite � Ideazione e messa in commercio di prodotti che non contribuiscano o diano un contributo

minimo alla produzione di rifiuti ed all'inquinamento � Miglioramenti tecnologici per eliminare la presenza di sostanze pericolose nei rifiuti � Ruolo attivo delle amministrazioni pubbliche nel riciclaggio dei rifiuti e loro utilizzo come

fonte di energia • Prevenzione della produzione di rifiuti (Art. 180)

� Corretta valutazione dell'impatto ambientale di ogni prodotto durante il suo intero ciclo vitale � Capitolati di appalto che considerino l'abilità nella prevenzione della produzione � Promuovere accordi e programmi sperimentali per prevenire e ridurre la quantità e

pericolosità dei rifiuti � Attuare il DL 18 febbraio 2005 n. 59 e la direttiva 96/61/CE specifica per la riduzione e

prevenzione integrate dell'inquinamento • Recupero dei rifiuti (Art 181)

� il riutilizzo, il reimpiego ed il riciclaggio � Produzione di materia prima secondaria trattando i rifiuti stessi � Favorire tramite misure economiche e capitolati nelle gare d'appalto il mercato dei prodotti

reimpiegati Uso dei rifiuti per produrre energia (recupero energetico (ossidazione biologica a freddo, gassificazione, incenerimento)

Pertanto, se il primo livello di attenzione è rivolto alla necessità di prevenire la formazione dei rifiuti e di ridurne la pericolosità, il passaggio successivo riguarda l’esigenza di riutilizzare i prodotti (es. bottiglie, con il vuoto a rendere) e, se non è possibile il riuso, riciclare i materiali (es. riciclaggio della carta).

Infine, solo per quanto riguarda il materiale che non è stato possibile riutilizzare e poi riciclare (come ad esempio i tovaglioli di carta) e il sottovaglio (ovvero la frazione in piccoli pezzi indistinguibili e quindi non riciclabili di rifiuti, che rappresenta circa il 15% del totale), si pongono

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le due soluzioni del recupero energetico tramite sistemi a freddo o a caldo, come la bio-ossidazione (aerobica oanaerobica), la gassificazione, la pirolisi e l’incenerimento oppure l’avvio allo smaltimento in discarica.

Dunque anche in una situazione ideale di completo riciclo e recupero vi sarà una percentuale di rifiuti residui da smaltire in discarica o da ossidare per eliminarli e recuperare l’energia.

Da un punto di vista ideale il ricorso all’incenerimento ed alle discariche indifferenziate dovrebbe essere limitato al minimo indispensabile.

La carenza di efficaci politiche integrate di riduzione, riciclo e riuso fanno dello smaltimento in discarica ancora la prima soluzione applicata in Italia ed in altri paesi europei.

Per quanto riguarda il recupero, esistono progetti ed associazioni che si occupano dello scambio di beni e prodotti usati (per esempio Freecycle). La prevenzione dei rifiuti

La prevenzione dei rifiuti consiste in un insieme di politiche volte a disincentivare, penalizzare economicamente o addirittura vietare la produzione di materiali e manufatti a ciclo di vita molto breve e destinati a diventare rifiuti senza possibilità di riuso.

Soggetti interessati possono quindi essere tanto le imprese quanto i comuni cittadini, incentivati a ridurre a monte la produzione dei rifiuti, ad effettuare la raccolta differenziata.

Oltre ad uno stimolo “etico”, tali soggetti possono anche essere incentivati da una riduzione della TARSU, ad esempio quando ricorrono al compostaggio domestico (si consideri che la frazione organica è comunque una parte molto significativa dei rifiuti delle famiglie). Trattamento dei rifiuti

Il trattamento dei rifiuti consiste nell’insieme di tecniche volte ad assicurare che i rifiuti, qualunque sia la loro sorte, abbiano il minimo impatto sull’ambiente.

Può riguardare sostanze solide, liquide o gassose, con metodi e campi di ricerca diversi per ciascuno.

Le pratiche di trattamento dei rifiuti sono diverse tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, tra città e campagna e a seconda che i produttori siano residenziali, industriali o commerciali.

Il trattamento dei rifiuti per gli utenti residenti e istituzionali nelle aree metropolitane è solitamente responsabilità delle autorità di governo locale, mentre il suo trattamento per utenti commerciali e industriali è solitamente responsabilità di colui che ha prodotto i rifiuti.

Lo schema seguente riassume le modalità e le filiere per il trattamento dei rifiuti solidi urbani secondo le attuali politiche di gestione in Italia.

Naturalmente, si tratta di uno schema teorico che non sempre, non completamente e non dappertutto, è attuato allo stesso modo e soprattutto è solo una delle possibili modalità di gestione dei rifiuti.

Evoluzioni tecniche e/o differenti indirizzi e priorità di gestione dei rifiuti possono comportare modifiche sostanziali allo schema, ma esso fornisce comunque uno schema di massima e le corrette terminologie riguardanti l'argomento. L'energia dai rifiuti

I rifiuti prodotti possono avere diverse destinazioni. • finire nelle discariche • essere raccolti in maniera differenziata • essere utilizzati per produrre energia. I termovalorizzatori

Gli inceneritori con recupero di energia sono chiamati termovalorizzatori. I rifiuti, prima di essere inviati all’inceneritore, devono subire alcuni trattamenti per eliminare i

materiali non combustibili e la parte umida.

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Il Combustibile Derivato dai Rifiuti (CDR) è un combustibile solido triturato secco ottenuto dal trattamento dei rifiuti solidi urbani (RSU) raccolto generalmente in blocchi cilindrici denominati ecoballe.

Il funzionamento di un termovalorizzatore può essere schematizzato: • le ecoballe che arrivano dagli impianti di selezione sono conservate in un’area esterna

dell’impianto. Per mezzo di un carroponte, i materiali sono inseriti nel forno attraverso la tramoggia.

• I forni più diffusi sono dotati di griglie mobili che consentono di muovere i rifiuti durante la combustione;

• il calore prodotto dalla combustione serve a far vaporizzare l’acqua di una caldaia per produrre vapore riscaldato;

• Il vapore mette in rotazione una turbina accoppiata ad un alternatore: si trasforma così l’energia termica in energia elettrica;

• L’acqua calda può anche essere utilizzata per il teleriscaldamento; • Le ceneri vengono raccolte e smarrite in speciali discariche; • I fumi sono filtrati allo scopo di eliminare gli agenti inquinanti, quindi vengono rilasciati

nell’atmosfera attraverso il camino. Il ciclo della raccolta differenziata

I rifiuti raccolti in maniera differenziata possono sostanzialmente essere trattati, a seconda del tipo, mediante due procedure: 1. riciclaggio, per le frazioni secche; 2. compostaggio, per la frazione umida. Riciclaggio dei rifiuti

Il riciclaggio comprende tutte le strategie organizzative e tecnologiche per riutilizzare come materie prime materiali di scarto altrimenti destinati allo smaltimento in discarica o distruttivo.

In Italia, il tasso di raccolta differenziata sta gradualmente crescendo (è oggi intorno al 22,7% per merito, soprattutto, delle regioni del Nord, dove supera il 35%), ma è ancora inferiore alle potenzialità.

Soluzioni particolarmente efficienti come la raccolta differenziata porta a porta, ove adottate, permettono di incrementare notevolmente la percentuale di rifiuti riciclati.

A titolo di confronto, si consideri che in Germania il tasso di raccolta differenziata raggiungeva nel 2004 ben il 56% a livello nazionale.

Numerosi sono i materiali che possono essere riciclati: metalli, carta, vetro e plastiche sono alcuni esempi; vi sono tuttavia complessità associate ai materiali cosiddetti “poliaccoppiati” (cioè costituiti da più materiali differenti) come ad esempio flaconi di succhi di frutta o latte, nonché per oggetti complessi (per esempio automobili, elettrodomestici etc): non sono tuttavia problemi insormontabili e possono essere risolti con tecnologie particolari, in parte già adottate anche in Italia.

Particolare è il caso della plastica, che come noto esiste in molte tipologie differenti e può essere costituita da molti materiali differenti (PET, PVC, polietilene, etc.).

Tali diversi materiali vanno gestiti separatamente e quindi separati fra loro: questa maggior complicazione in passato ha reso l’incenerimento economicamente più vantaggioso del riciclo.

Oggi tuttavia appositi macchinari possono automaticamente e velocemente separare i diversi tipi di plastica anche se raccolti con un unico cassonetto, pertanto l’adozione di queste tecnologie avanzate permette un vantaggioso riciclo.

Purtroppo in alcuni casi la plastica (in genere quella di qualità inferiore) viene comunque avviata all’incenerimento anche se dal punto di vista energetico e ambientale non è certo la scelta ottimale.

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Compostaggio della frazione umida Il compostaggio è una tecnologia biologica usata per trattare la frazione organica dei rifiuti

raccolta differenziatamente (anche detta umido) sfruttando un processo di bio-ossidazione, trasformandola in ammendante agricolo di qualità da utilizzare quale concime naturale: da 100 kg di frazione organica si ricava una resa in compost compresa nell’intervallo di 30–40 kg.

Tramite digestione anaerobica viene ottenuto anche del biogas che può essere bruciato per produrre energia elettrica e calore; in tal modo è possibile diminuire il livello di emissioni inquinanti della discarica e migliorarne la gestione approfittando anche della conseguente diminuzione dei volumi legata al riciclo dell'umido.

Il compostaggio, come si vede dal grafico, si differenzia dal TMB per il fatto di trattare esclusivamente l’umido e non il rifiuto indifferenziato, anche se il TMB può comprendere un processo simile al compostaggio (si veda sotto). Il ciclo della raccolta indifferenziata

I rifiuti raccolti indifferenziatamente sono naturalmente molto più difficili da trattare di quelli raccolti in modo differenziato.

Possono essere seguite tre strade principali: 1. trattamenti a freddo, ovvero separazione e parziale recupero di materiali, biostabilizzazione e

conferimento in discarica; 2. Trattamenti a caldo ovvero incenerimento tal quale o a valle di separazione e produzione di CDR

e conferimento in discarica; 3. conferimento diretto in discarica (oggi molto usato ma certamente da evitarsi).

In ogni caso è evidente che gli inevitabili scarti di questi processi finiranno per forza di cose in discarica. Trattamento a freddo dei rifiuti

Scopo dei processi di trattamento a freddo dei rifiuti indifferenziati o residui (ossia i rifiuti che rimangono dopo la raccolta differenziata) è di recuperare una ulteriore parte di materiali riciclabili, ridurre il volume del materiale in vista dello smaltimento finale e di stabilizzare i rifiuti in modo tale che venga minimizzata la formazione dei gas di decomposizione ed il percolato.

Da questi processi (fra cui il compostaggio), si ricava in genere sia materiali riciclabili, sia il biogas, cioè, in pratica, metano.

Il principale tipo di trattamento a freddo è il Trattamento meccanico-biologico (TMB). Esso separa la frazione organica ed i materiali riciclabili: permette quindi una ulteriore riduzione

dell'uso delle discariche e degli inceneritori, il tutto con emissioni inquinanti nettamente inferiori rispetto a tali impianti.

Infatti tratta i rifiuti indifferenziati a valle della raccolta differenziata, incrementando il recupero di materiali.

In Germania, ad esempio, impianti TMB sono diffusi da circa una decina d’anni. Il TMB può essere utilizzato anche per produrre CDR (combustibile derivato dai rifiuti): è questa

l’applicazione principale che ufficialmente ne viene fatta in Italia, soprattutto al sud. In questo caso dovrebbe essere rimosso solamente l’umido ed i materiali non combustibili (vetro,

metalli) mentre carta e plastica sarebbero confezionati in “ecoballe"”da incenerire: in questo modo il trattamento a freddo si può intrecciare con quello termico.

Dati relativi al quantitativo di rifiuti trattati in Italia tramite TMB e riferiti al 2004 indicano un totale di 7.427.237 t di rifiuti, con un picco nelle regioni del sud 3.093.965 t.

L’incidenza percentuale del dato relativo al 2004 indica un valore pari al 20,5% del totale di rifiuti smaltiti tramite biostabilizzazione e produzione di CDR.

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Le inchieste giudiziarie per la crisi dei rifiuti in Campania stanno tuttavia evidenziando che le “eco balle” prodotte non sono classificabili come CDR, per cui i quantitativi ufficiali sopra citati dovranno essere rivisti sulla base degli esiti di più approfondite verifiche. Trattamento termico dei rifiuti

Fra i processi di trattamento a caldo (o termico) dei rifiuti, si distinguono tre processi di base: 1. Combustione (incenerimento) 2. Pirolisi 3. Gassificazione

Tutte queste tecnologie producono residui, a volte speciali, che richiedono smaltimento, generalmente in discarica. Sia in Italia che in Europa, gli impianti di trattamento termico di gran lunga più diffusi per i rifiuti urbani sono gli inceneritori. Incenerimento con recupero energetico

L’incenerimento è una tecnologia consolidata che permette di ottenere energia elettrica e fare del teleriscaldamento sfruttando i rifiuti indifferenziati o il CDR.

Questi vengono bruciati in forni inceneritori e l’energia termica dei fumi viene usata per produrre vapore acqueo che, tramite una turbina, genera energia elettrica.

La quantità di energia elettrica recuperata è piuttosto bassa (19-25%), mentre quella termica è molto maggiore.

Tale energia recuperata è da confrontarsi con quella necessaria al riciclaggio, che a sua volta si compone di vari fattori: la separazione, il trasporto alle rispettive fonderie o industrie di base, la fusione o trattamento fino alla produzione del materiale base, uguale a quello vergine. Pirolisi e gassificazione

La pirolisi e la gassificazione sono dei trattamenti termici dei rifiuti che implicano la trasformazione della materia organica tramite riscaldamento a temperature variabili (a seconda del processo da 400 a 1200 °C), rispettivamente in condizioni di assenza di ossigeno o in presenza di una limitata quantità di questo elemento.

Gli impianti che sfruttano tali tecnologie in pratica, piuttosto che fondarsi sulla combustione, attuano la dissociazione molecolare ottenendo in tal modo molecole in forma gassosa più piccole rispetto alla originarie (syngas) e scorie solide o liquide.

In confronto agli odierni inceneritori i rendimenti energetici possono essere maggiori se il syngas ottenuto viene bruciato in impianti ad alto rendimento e/o ciclo combinato (dopo opportuni trattamenti per eliminare eventuali vari residui, fra cui polveri, catrami e metalli pesanti a seconda del rifiuto trattato), mentre l'impatto delle emissioni gassose risulta sensibilmente ridotto.

In particolare il rendimento in produzione elettrica può arrivare, a detta di alcuni produttori, a oltre il doppio del più moderno inceneritore.

Nonostante la tipologia di rifiuti trattabili sia (per alcuni tipi di impianto) la stessa degli inceneritori, tuttavia sono pochi gli impianti di questo genere che trattano rifiuti urbani tal quali: molto spesso infatti riguardano frazioni merceologiche ben definite quali plastiche, pneumatici, scarti di cartiera, scarti legnosi o agricoli oppure biomasse in genere.

Questi impianti più specifici sono maggiormente diffusi. Ciò nonostante vi è chi ritiene che gli impianti di pirolisi e di gassificazione siano destinati a

sostituire in futuro gli attuali inceneritori anche per i rifiuti urbani, diffondendosi ulteriormente e divenendo i principali trattamenti termici di riferimento.

Va anche osservato che in genere gli impianti di pirolisi e/o gassificazione sono più piccoli degli inceneritori, cioè ciascun impianto tratta un minor quantitativo di rifiuti.

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Questo comporta alcuni vantaggi: anzitutto si evita il trasporto dei rifiuti per lunghe tratte, responsabilizzando ciascuna comunità locale in merito ai propri rifiuti (smaltiti in loco e non "scaricati" a qualcun altro).

In secondo luogo la flessibilità e le minor taglia degli impianti permette facilmente di aumentare la raccolta differenziata e ridurre il quantitativo di rifiuti totali, politiche difficilmente attuabili con inceneritori da centinaia di migliaia di tonnellate annue che necessitano di alimentazione continua. Infine anche i costi di realizzazione ed i tempi di ammortamento dovrebbero essere inferiori. Discarica

Il principale problema delle discariche è la produzione di percolato è l’emissione di gas spesso maleodoranti, dovuti alla decomposizione della frazione organica.

Entrambi i problemi possono essere risolti rimuovendo la frazione organica mediante raccolta differenziata o pretrattando i rifiuti con il trattamento meccanico-biologico a freddo esposto in precedenza, riducendo fra l’altro anche i volumi da smaltire.

La discarica può essere così usata per smaltire tutti i residui del sistema integrato di gestione dei rifiuti con un impatto ambientale minimo. Costi e ruoli nel sistema integrato

Gestione dei rifiuti in Europa – 2001[5][10]

Nazione Riciclo Incenerimento Discarica Altro

Austria 60% 9% 30% 1%

Belgio 35% 34% 27% 4%

Francia 25% 32% 43% 0%

Germania 42% 22% 25% 11%

Italia 17% 9% 67% 8%

Paesi Bassi 45% 33% 8% 14%

Regno Unito 12% 7% 80% 0%

La combustione dei rifiuti non è di per sé contrapposta o alternativa alla pratica della raccolta differenziata finalizzata al riciclo, ma dovrebbe essere solo un eventuale anello finale della catena di smaltimento. Inoltre è ovvio che, se un inceneritore viene dimensionato per bruciare un certo quantitativo di rifiuti, dovrà essere alimentato per forza con quel quantitativo, richiedendo di fatto l'ulteriore apporto di massa di rifiuti in caso di un quantitativo inadeguato.

Per ragioni tecnico-economiche la tendenza è oggi quella di realizzare inceneritori sempre più grandi, con la conseguenza di alimentare il “turismo dei rifiuti” (cioè il trasporto di rifiuti anche da altre province se non da altre nazioni).

In Italia questo fenomeno è stato accentuato dai forti incentivi statali che hanno favorito l'incenerimento a scapito di altre modalità di smaltimento più rispettose dell’ambiente.

Nei fatti, tuttavia, l’incenerimento può generare logiche speculative alternative alla raccolta differenziata: lo dimostrano pressioni politiche e tangenti scoperte a settembre 2010 in Abruzzo mediante intercettazioni telefoniche.

Qui si è deciso di abbassare gli obblighi di raccolta differenziata per favorire l'incenerimento, come “richiesto” da imprenditori interessati alla costruzione di impianti di incenerimento e che non “gradivano” che la raccolta differenziata raggiungesse anche solo il 40%.

In Italia si sono inceneriti nel 2004 circa 3,5 milioni di t/anno su un totale di circa 32 milioni di tonnellate di RSU totale prodotto, cioè circa il 12%; tale pratica specie al Nord è in aumento, e in Lombardia ad esempio raggiunge il 34%.

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Ciò che balza all’occhio è il grande ricorso allo smaltimento in discarica, che è in diminuzione (dal 2001 al 2004, al Nord -21%, al Sud -4% e al Centro -3%) ma che interessa attualmente in tutto circa il 56,9% dei rifiuti urbani prodotti (45% al Nord, 69,5% al Centro, 73,2% al Sud; si stima che sul totale nazionale il 76% sia rifiuto da raccolta indifferenziata e il 24% siano residui dai diversi processi di trattamento: biostabilizzazione, CDR, incenerimento, residui da selezione delle R.D.), con conseguenze ambientali che si vanno aggravando soprattutto nel Sud, dove i pochi impianti di trattamento finale sono ormai saturi e la raccolta differenziata stenta a decollare: gli inceneritori sarebbero perciò, secondo alcuni, da aumentare (soprattutto al Sud).

Tuttavia, se si considera che nei comuni più virtuosi la raccolta differenziata supera già adesso l'80%, si deduce che persino al Nord essa è ancora molto meno sviluppata di quanto potrebbe e che in alcune aree del Nord gli impianti di incenerimento sarebbero perfino sovradimensionati.

Pertanto, il timore di alcuni è che non si potrà sviluppare appieno la raccolta differenziata e il riciclo per consentire agli inceneritori di funzionare senza lavorare in perdita, oppure si dovranno importare rifiuti da altre regioni.

Una considerazione importante è infatti che gli investimenti necessari per realizzare i termovalorizzatori sono molto elevati (il costo di un impianto in grado di trattare 421.000 t/anno di rifiuti è valutabile in circa 375 milioni di euro, cioè circa 850-900 € per tonnellata di capacità trattatabile), e il loro ammortamento richiede, tenendo anche conto del significativo recupero energetico, circa 20 anni; perciò costruire un impianto significa avere l'«obbligo» (sancito da veri e propri contratti) di incenerire una certa quantità minima di rifiuti per un tempo piuttosto lungo.

È emblematico a questo proposito il caso dell'inceneritore costruito recentemente dall’Amsa a Milano, Silla 2: inizialmente aveva avuto l’autorizzazione per bruciare 900 t/giorno di rifiuti, poi si è passati a 1250 e infine a 1450t/g.

Se si guarda alla gestione dei rifiuti a Milano, ci si accorge che la raccolta differenziata raggiunge il 30% circa (dato sostanzialmente invariato da anni), e gran parte del rimanente viene incenerito da Silla 2.

Si consideri che la media di riciclo della provincia di Milano è, escludendo il capoluogo, del 51,26% in costante miglioramento, e in particolare del 59,24% per i comuni con meno di 5 000 abitanti e del 55% per quelli fra i 5 e i 30 000, e che a Milano la raccolta dei rifiuti organici non è mai andata oltre la sperimentazione in piccole aree della città, nonostante il più che collaudato sistema di raccolta dei rifiuti porta a porta e la notevole sensibilizzazione della popolazione, che permetterebbero sicuramente di fare molto di più.

È interessante confrontare i costi dello smaltimento dei rifiuti di una città come Milano che fa ampio ricorso all'incenerimento con quelli di città che puntano sulla differenziata: a Milano nel 2005 si sono spesi 135,42 €/abitante contro una media provinciale di 110,16 e contro gli 83,67 di Aicurzio, paese più virtuoso di Lombardia nel 2005 col 70,52% di raccolta differenziata.

Il sindaco di Novara inoltre nel 2007 ha dichiarato che portando in due anni la raccolta differenziata nella città dal 35 al 68% si sono risparmiati due milioni di euro, mentre ad esempio il sindaco di Torino per sostenere la necessità dell'inceneritore del Gerbido ha dichiarato che «in qualsiasi centro urbano superare il 50% è un miracolo, perché la gestione di questo tipo di raccolta ha dei costi non sostenibili per i cittadini»; eppure a San Francisco è oltre il 50% già dal 2001. Gestione dello smaltimento dei rifiuti

Relativamente all’attività di “smaltimento dei rifiuti” sono nominati i responsabili e definiti i ruoli nell’ambito delle attività attinenti alle procedure di smaltimento dei rifiuti.

I soggetti che delegano ad outsourcer terzi le attività connesse alla gestione dei rifiuti (i.e. la raccolta, il trasporto, il recupero, lo smaltimento, il commercio e l’intermediazione) prevedono modalità di valutazione e monitoraggio dei requisiti e delle autorizzazioni previste dalla normativa, anche secondaria.

I soggetti, le funzioni interessate e/o i sistemi informativi utilizzati assicurano (tramite formulari, registri, quali a titolo esemplificativo il SISTRI, comunicazioni obbligatorie per legge, ecc.)

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l’individuazione, la registrazione e il monitoraggio delle operazioni di gestione dei rifiuti dal momento della loro creazione sino alla fase di smaltimento/riciclo, e garantiscono la conservazione e l’archiviazione della relativa documentazione e delle informazioni fornite, nonché delle richieste pervenute ai fini di un adeguato livello di tracciabilità/verificabilità, nonché la gestione dei formulari (cartacei od elettronici) e delle comunicazioni obbligatorie agli enti preposti e archiviazione. Gestione degli immobili a garanzia dei crediti

I presidi minimi cui occorre attenersi sono i seguenti. Nell’ambito e ai fini della valutazione dell’opportunità commerciale, il Responsabile della

Direzione Immobili e Logistica deve definire a livello macro l’impatto ambientale degli immobili. Il responsabile Immobili e logistica deve redigere un documento ad hoc, in cui vengono:

� individuati gli aspetti ambientali significativi, diretti e indiretti; � prevedere, a seguito di tale analisi dei rischi, procedure, istruzioni operative e misure di

prevenzione conformi con la normativa vigente e atte a prevenire i reati ambientali.

Il Procurement, avvalendosi delle valutazioni del Responsabile della Direzione Immobili e Logistica, deve assicurare nell’individuazione dei subappaltatori e fornitori a cui affidare incarichi che presentano rischi dal punto di vista ambientale, che essi siano in possesso dei requisiti di “idoneità”, “professionalità” e “serietà” all’espletamento di tali attività, in particolare in ordine al possesso di tutte le certificazioni/autorizzazioni/licenze prescritte da normative di legge.

Nel contratto con il cliente e con il subappaltatore/fornitore devono essere chiaramente definiti: � l’impegno al rispetto da parte del cliente o del subappaltatore/fornitore della normativa in

materia di sicurezza ambientale in relazione alla specifica commessa � i rispettivi obblighi e responsabilità ed eventuali prescrizioni da seguire per quel che riguarda

l’esecuzione di attività che presentano rischi ambientali e di attività di prevenzione e gestione dei rischi evidenziati (ad esempio controlli, gestione delle emergenze, ecc.)

Nel contratto con il subappaltatore/ fornitore, deve essere contenute apposite clausola che

regolino le conseguenze della violazione da parte degli stessi: � della normativa ambientale; � degli obblighi contrattuali e delle relative responsabilità in materia di ambiente sicurezza.

Grava sul Responsabile della Direzione Immobili e Logistica la responsabilità di: � effettuare specifici audit presso il cliente ed il subappaltatore/fornitore, volti a verificare la

conformità alla normativa, ai requisiti contrattuali previsti e all’assolvimento degli obblighi in materia, nonché l’attuazione e l’aggiornamento di quanto previsto nel Documento sopracitato di analisi rischi e previsione dei relativi presidi della commessa;

� eseguire il riesame periodico delle analisi ambientali e della valutazione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori e della congruità delle relative procedure, istruzioni di lavoro e misure preventive.

Ecomafia

Il termine ecomafia, nella lingua italiana, è un neologismo coniato dall’associazione ambientalista Legambiente per indicare le attività illegali delle organizzazioni criminali, generalmente di tipo mafioso, che arrecano danni all’ambiente.

In particolare sono generalmente definite ecomafie le associazioni criminali dedite al traffico di rifiuti e allo smaltimento illegale degli stessi.

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Storia Notizie relative all'attività di tali organizzazioni hanno cominciato ad avere un certo risalto a

partire dal 1982, quando è entrata in vigore la normativa sul trattamento dei rifiuti speciali, con l'emanazione del D.P.R(DECRETO DEL PRESIDENTE) 10 settembre 1982, n. 915 ("Attuazione delle direttive (CEE) n. 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi").

Per la prima volta nel 1991 vennero accertati reati di questo tipo commessi su larga scala. Sei imprenditori ed amministratori vennero condannati dalla Settima Sezione del Tribunale di

Napoli per abuso di ufficio e corruzione. Vennero assolti, invece, dal reato di associazione mafiosa. Il termine ecomafia appare tuttavia, per la prima volta, nel 1994 in un documento pubblicato

dall'associazione italiana Legambiente intitolato Le ecomafie - il ruolo della criminalità organizzata nell'illegalità ambientale, in collaborazione con Eurispes e l’Arma dei Carabinieri.

Grazie alla collaborazione dell’associazione con l’Arma dei Carabinieri e nel 1997 venne pubblicato il primo Rapporto Ecomafia dell’associazione ambientalista, che da allora ogni anno fa il punto sull’argomento.

Nel 1995 è stata istituita la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti” . Secondo il rapporto Ecomafia 2015 di Legambiente, nel 2014 sono stati 29.293 i reati accertati

per un giro d’affari pari a 22 miliardi di euro. Le regioni dove si registrano il maggior numero di reati ambientali sono nell’ordine Campania,

Sicilia, Calabria e Puglia, le stesse in cui sono presenti le principali organizzazioni mafiose italiane. Attività

Attività spesso ascritte a tali organizzazioni, oltre quelle concernenti i rifiuti, sono anche l'escavazione abusiva, il traffico di rifiuti, il traffico di animali esotici, il saccheggio dei beni archeologici, all'abusivismo edilizio su larga scala e l’allevamento di animali da combattimento. Traffico di rifiuti Aree di smaltimento abusivo

Il Sud-Italia è l’area dove la maggior parte di questi rifiuti vanno a finire, in particolare lungo le cosiddette “rotta adriatica” e “rotta tirrenica”, dal nord verso la Puglia e verso la Campania-Calabria.

Parte dei rifiuti viene sotterrata in cave abusive, già oggetto di reati ambientali di escavazione. Nel nord Italia in più casi è stato accertato lo smaltimento di fanghi tossici come fertilizzanti in

campi coltivati. Ma l’Italia è anche crocevia di traffici internazionali di rifiuti, provenienti dai paesi europei e

destinati in Nigeria, Mozambico,Somalia, Romania. Si ipotizza che l'omicidio di Ilaria Alpi sia riconducibile a inchieste che la giornalista stava

conducendo su questo tema. Tipi di reati

I reati possono avvenire ad ogni livello del ciclo dei rifiuti: produzione, trasporto e smaltimento. Il produttore può dichiarare il falso sulla quantità o sulla tipologia di rifiuti da smaltire, oppure

incaricare dell’operazione imprese che lavorano sottocosto, essendo a conoscenza del fatto che utilizzeranno metodi illegali.

A livello di trasporto, possono venire manomessi i documenti di classificazione della merce, in modo da dirottare il carico o farlo scomparire.

Nelle operazioni di smaltimento infine la maggior possibilità che avvengano truffe: finte trasformazioni, bancarotte fraudolente degli impianti di trasformazione con il risultato di abbandonare sul posto i materiali, trattamenti inadeguati, abbandono di rifiuti in discariche abusive.

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Traffico di rifiuti Il ruolo giocato dalle mafie “tradizionali” è generalmente molto importante nelle attività

ecomafiose, ma spesso sono imprese private, amministratori locali e organi di controllo corrotti a costituire reti che compiono reati ambientali.

Lo smaltimento illegale di rifiuti tossici o di scorie nucleari da parte di aziende che hanno ricevuto l’appalto per la loro depurazione, gestione e messa in sicurezza è considerato da Legambiente il più lucroso e pericoloso campo di attività delle ecomafie.

In Italia lo smaltimento illegale di rifiuti tossici ha riguardato in particolar modo la Campania; alcune zone geografiche della regione sono state denominate con appellativi specifici ad indicare la gravità delle conseguenze dello sversamento illegale (Triangolo della morte Acerra-Nola-Marigliano, Terra dei fuochi).

Nonostante l’attenzione e la repressione, secondo l’agenzia governativa Apat in Italia nel 1999 sono stati prodotti 72.5 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui 23 milioni da industrie di costruzione e 4 milioni considerati rifiuti pericolosi.

Legambiente ha stimato che nello stesso anno siano stati smaltiti illegalmente 11.2 milioni di tonnellate di questi rifiuti. Metodi illegali di smaltimento • Abbandono di rifiuti nel territorio o nelle acque (grotte, cave, boschi, fiumi, fondali marini,...); • Accumulo di rifiuti in vecchie imbarcazioni, che vengono poi affondate in alto mare; • Combustione illegale dei rifiuti, che provoca emissioni di sostanze tossiche tra cui le diossine; • Occultamento dei rifiuti in fondamenta di edifici in costruzione, terrapieni di infrastrutture

stradali, scavi vari,...; • Miscelazione di rifiuti pericolosi con materiali ritenuti innocui da rivendere o riutilizzare, ad

esempio terre e rocce per riempimenti, compost per uso agricolo,...; • Smaltimento di rifiuti pericolosi classificandoli fraudolentemente come non pericolosi,

risparmiando sui costi; • Esportazione di rifiuti pericolosi nei paesi in via di sviluppo, in cui non esistono impianti di

smaltimento o recupero adeguati.

Ecoreati La prima proposta legislativa per l’inserimento nel codice penale dei delitti contro l’ambiente

recante la definizione giuridica di ecomafia risale al 1998 e si deve al senatore Giovanni Lubrano di Ricco.

Il 19 maggio 2015 viene approvato, con i soli voti contrari di Forza Italia e l’astensione della Lega Nord, il disegno di legge Ddl 1345 B promosso da Ermete Realacci (Pd),Salvatore Micillo (M5S) e Serena Pellegrino (Sel) che introduce nel codice penale cinque nuovi delitti contro l’ambiente.

La Legge n.68/2015 viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 28 maggio ed entra in vigore dal 29 maggio 2015.

In questo modo la Magistratura si dota di strumenti di indagine più ampi e adeguati ad arginare il fenomeno delle ecomafie, a cominciare dall’introduzione nel codice penale dei delitti contro l’ambiente, detti ecoreati, fino a quel momento di natura contravvenzionale.

I reati introdotti sono: • Inquinamento ambientale; • Disastro ambientale; • Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività; • Impedimento del controllo; • Omessa bonifica.

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Inoltre vengono introdotti una serie di altri provvedimenti che riguardano la prescrizione, l’obbligo di ripristino dei luoghi contaminati, la confisca dei beni, la diminuzione di pena per ravvedimento operoso. Operazioni di polizia

Decine di azioni di polizia sono state condotte contro traffici di rifiuti: • Operazione Eco, Campania, 1994-1996; • Il caso “Pitelli”, La Spezia, 1996; • Operazione Humus, Abruzzo, 1996; • Operazione Ebano, Abruzzo, 1996; • Operazione Cassiopea, Campania, 1999-2002; • Operazione Ecoscalo, Abruzzo, 1999-2002; • Operazione Falso Cdr, Lombardia, aprile 2001; • Operazione Greenland, Umbria, febbraio 2002; • Operazione Murgia violata, Puglia, aprile 2002; • Operazione Econox, Calabria, aprile 2002; • Operazione Banda Bassotti, Lombardia, 2002; • Operazione Mar rosso, Sicilia, gennaio 2003; • Operazione Re Mida, Campania, aprile 2003; • Operazione Terra Mia, Campania, giugno 2004; • “Rifiutopoli”, Forlì, 2004; • Operazioni Madre Terra e Madre Terra 2, Campania, 2005-2006; • Operazione Sinba, Toscana, ottobre 2005; • Operazione Dry Cleaner, Campania, 2006; • Operazione Black River, Puglia, gennaio 2008; • Operazione Fenice, Puglia e Campania, agosto 2008; Una nuova forma di responsabilità penale

Il Decreto Legislativo 8 giugno 2001 n. 231 ha profondamente innovato il nostro diritto penale, con evidenti conseguenze sul rischio d'impresa e sulla relativa organizzazione delle attività. Il Decreto, come ormai noto alla maggior parte degli operatori, ha infatti introdotto la responsabilità amministrativa degli enti in caso di reati commessi al proprio interno; peraltro, come si è evidenziato in precedenti pubblicazioni sulla stessa materia, l'etichetta formale di "responsabilità amministrativa degli enti" sottende in realtà una vera e propria forma di responsabilità penale della persona giuridica, finora sconosciuta in Italia ma ben nota in altri ordinamenti giuridici. La qualificazione formale data dal Legislatore come responsabilità amministrativa, evidentemente, è stata imposta dall'insuperabile principio costituzionale della personalità della responsabilità penale. Tuttavia, poiché all'operatore d'impresa interessa la sostanza della materia più delle astratte disquisizioni accademiche, ciò che occorre maggiormente mettere in luce è la ricaduta effettiva della norma sulla gestione dell'azienda, con riferimento sia al meccanismo in generale, che, più direttamente, alla categoria dei reati ambientali. A quali enti si applica il Decreto 231?

L’articolo 1 del Decreto prevede che le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Non si applicano invece allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. La commissione di reati ambientali, pertanto, determina responsabilità dell'ente ai sensi del Decreto sia nell'ambito delle imprese private (qualunque forma giuridica esse abbiano adottato) che degli enti pubblici economici.

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Conseguenze per l’ente in caso di reato commesso dai soggetti apicali Il Decreto prevede due meccanismi diversi di ricaduta sull'ente, in caso di condanna penale di un

suo addetto: a) Il reato è commesso da un soggetto in posizione apicale: le conseguenze per l'ente sono

dolorosissime, poiché si presume la colpa organizzativa dell'ente. Questo, infatti, potrà evitare la condanna alle aspre sanzioni del Decreto 231 solo se fornisce la (difficilissima) prova in ordine alle seguenti 4 circostanze: • l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto,

modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;

• il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;

• le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di orga-nizzazione e di gestione;

• non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'Organismo di Vigilanza. b) Il reato è commesso da un sottoposto: la responsabilità ai sensi del 231 per l'ente sussiste, ma in

forma attenuata, giacché basta dimostrare che l'ente stesso ha adottato ed efficacemente attuato un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

La ricaduta sulla gestione dell'ente di questo doppio binario processuale è evidente: il sistema

interno di prevenzione penale (modello organizzativo + codice etico + Organismo di Vigilanza) dovrà prevedere un sistema di controlli e contromisure che sia riferibile certamente a tutto il personale ed ai collaboratori esterni, ma soprattutto che sia particolarmente rigoroso e dettagliato nei confronti dell'alta direzione. Facile a dirsi, difficilissimo da realizzare nella pratica, dal momento che sarà la stessa alta direzione a curare la definizione del modello organizzativo ed a nominare (e soprattutto retribuire) i componenti dell'Organismo di Vigilanza che dovrebbe controllarne la legalità e l'eticità della condotta.

In effetti, se si riflette, a livello antropologico prima ancora che normativo ed organizzativo, sulla tortuosità del meccanismo imposto dal Decreto 231, emergono con evidenza i limiti e le storture dell'attuale impianto normativo. Tuttavia, essendo la Legge da applicare piuttosto che da criticare, non occorre mai dimenticare che, al di là del castello di carte e di burocrazia che i modelli organizzativi spesso comportano (anche per le cattive pratiche seguite da molti consulenti), alla magistratura penale sommamente interesserà verificare un passaggio: l'effettiva indipendenza del controllore (Organismo di Vigilanza) rispetto al controllato (alta direzione). Tutto il resto (documenti, codice etico, formazione del personale...) verrà dopo e sarebbe comunque reso vano dall'evidenza processuale di un Organismo di Vigilanza al soldo di chi lo ha nominato. La difficile individuazione dei soggetti apicali

La criticità della distinzione tra apicali e sottoposti è resa ancora più centrale dalla difficoltà, nei fatti, di distinguere chi è apicale da chi non lo è.

Del resto, a tale scopo, il magistrato penale non guarderà tanto alle etichette astratte (nomine, organigrammi, funzionigrammi, procure e deleghe), ma alla sostanza dei rapporti interpersonali all'interno delle aziende (è apicale chi comanda, anche se il suo nome non risulta dalle carte dell'azienda, è sottoposto chi obbedisce).

In ogni caso, opportunamente il Decreto stabilisce che si considerano apicali le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso.

In quell'espressione “di fatto”, solo apparentemente innocente, si legge tutta la consapevolezza del legislatore che in molti casi il vero dominus dell'azienda è un imprenditore occulto, che ben si

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guarda dall'appalesarsi all'esterno. Del resto, sono proprio queste situazioni, notoriamente frequenti in Italia, che il Decreto 231 intende colpire con durezza.

Nell’operatività dei sistemi, si raccomanda pertanto chiarezza nella descrizione della catena di comando e di controllo dell'azienda, nonché il ricorso a forme documentate e tracciabili di delega dei poteri e delle responsabilità. Il contenuto minimo dei modelli organizzativi

È difficile e pericoloso suggerire un sistema standard, dal momento che il modello 231 dev'essere ideato con riferimento alle specifiche esigenze di ciascuna organizzazione. La classica domanda spesso posta al professionista ("mi sa indicare qualche testo o qualche sito Internet dove trovare un buon modello organizzativo da applicare alla mia azienda?") già rivela un atteggiamento di sfiducia e rassegnazione, che mal si concilia con lo spirito della norma.

Allo stesso tempo, l'opera di personalizzazione del sistema di prevenzione degli illeciti deve comunque tenere conto che il Decreto impone ad ogni modello organizzativo il seguen-te contenuto minimo: a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni

dell'ente in relazione ai reati da prevenire; c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei

reati; d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul

funzionamento e l'osservanza dei modelli; e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle mi-sure indicate

nel modello. Si tratta di 5 elementi che, nel loro insieme, dovrebbero fornire al top management l'effettiva

capacità di ridurre il rischio di illecito. Ciò che veramente risulterà decisivo in tribunale (e che infatti manca nella stragrande maggioranza dei modelli organizzativi, puntualmente stroncati dal magistrato di turno) sarà la concretezza del sistema preventivo, che dovrà fornire una puntuale risposta ai seguenti passaggi: 1) individuo con chiarezza i reati che posso commettere e quelli estranei alla mia organizzazione; 2) tra i reati che posso commettere, distinguo quelli più a rischio rispetto agli altri, possibilmente

tenendo conto dei criteri concorrenti della probabilità e dell'impatto (il manuale 231 per gli enti non profit emesso ad ottobre 2012 dal Consiglio dell'ordine dei Commercialisti contiene preziose indicazioni in merito);

3) individuo, per tali reati, in quali aree aziendali è più facile che si realizzi l'illecito; 4) ciò stabilito, definisco un sistema di contromisure interne, che parta dal riesaminare quelle già in

vigore ed arrivi a definirne di nuove, in relazione ai rischi individuati; 5) redigo e consegno a tutti gli addetti un codice etico, contenente i principi comportamentali

prescritti dall'azienda; 6) emetto, per le singole aree aziendali, dei protocolli di comportamento coerenti con l'analisi dei

rischi di illecito; 7) nomino un Organismo di Vigilanza, effettivamente indipendente e competente, dandogli pieno

mandato di adeguare il sistema preventivo e di vigilare sul rispetto delle contromisure definite dall'alta direzione da parte di tutti gli addetti dell'ente. Se veramente il sistema elaborato riuscirà (certamente nel corso del tempo) a fornire evidenza

rispetto a questi 7 passaggi, potrà reputarsi non solo "a prova di magistrato" ma anche un utile investimento per l'azienda.

In caso contrario, si tratterà dell'ennesimo documento acquistato a peso d'oro e subito riposto nel cassetto.

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Le sanzioni per l’ente L’articolo 9 del Decreto individua le seguenti sanzioni per l'ente, in caso di condanna si sensi del

231: a) sanzione pecuniaria; b) sanzioni interdittive; c) confisca; d) pubblicazione della sentenza.

Le sanzioni interdittive sono: a) interdizione dall'esercizio dell'attività; b) sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione

dell'illecito; c) divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un

pubblico servizio; d) esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già

concessi; e) divieto di pubblicizzare beni o servizi.

La sanzione pecuniaria funziona invece attraverso un sistema di quote, in un numero non inferiore a cento né superiore a mille. Poiché l'importo di una quota va da un minimo di € 258,23 ad un massimo di € 1.549,37, sarà facile quantificare il rischio (enorme) che grava sull'impresa che non adotti un buon modello organizzativo. Applicazione delle sanzioni interdittive

Mentre le sanzioni pecuniarie possono essere sempre applicate dal giudice, quelle interdittive si applicano soltanto in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste, quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni: a) l'ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in

posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;

b) in caso di reiterazione degli illeciti.

Le sanzioni interdittive, inoltre, hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni.

In buona sostanza, il legislatore, consapevole della portata devastante che proprio le sanzioni interdittive possono avere rispetto alla sopravvivenza dell'impresa, ne ha circoscritto l'applicabilità a limiti ben precisi, così ponendo un prezioso argine alla discrezionalità del giudice. Requisiti dell’Organismo di Vigilanza

Per l’Organismo di Vigilanza vale la necessità di personalizzazione già rimarcata per il modello organizzativo, sicché è impossibile definire a livello teorico un profilo dell’Organismo di Vigilanza che vada bene in tutte le situazioni.

Anche qui, tuttavia, è comunque utile ricordare che ci sono dei requisiti minimi che ogni Organismo di Vigilanza dovrebbe rispettare e che sono desumibili dalle sentenze formulate nell'ultimo decennio dalla magistratura penale, dalle linee guida di categoria (in primis Confindustria), dalle prime Leggi regionali che hanno trattato la materia (ad esempio Leggi regionali della Lombardia per l’accreditamento dei centri di formazione professionale e delle strutture socio-sanitarie), dalle migliori pratiche seguite dalle aziende e dalle indicazioni della dottrina più autorevole.

Tali requisiti sono: collegialità, autonomia, indipendenza, professionalità e continuità d'azione, che nei testi appena richiamati possono essere agevolmente approfonditi.

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Progressiva estensione nel tempo dei reati presupposto Il meccanismo descritto risale al 2001 e da allora non è stato modificato, nonostante qualche

tentativo di attenuarne le disposizioni più sfavorevoli alle imprese prontamente respinto, soprattutto in ragione delle resistenze opposte dalla magistratura e da talune forze politiche. Ciò che invece si è modificato nel tempo è il numero dei reati presupposto. Infatti, se nel 2001 erano pochi i reati che determinavano la responsabilità "di fatto penale" dell'impresa, negli anni successivi il legislatore certamente non si è lasciato sfuggire l'occasione di inserire nuovi reati all'interno del meccanismo del 231. Ciò, in particolare, ha riguardato nel 2007 i reati colposi in materia di sicurezza sul lavoro e nel 2011 i reati ambientali, che in questa sede maggiormente interessano.

Si sottolinea soltanto, anche per l'evidente contiguità tra i temi dell'ambiente e della sicurezza, che l'aver introdotto nel sistema 231 reati colposi (dal 2001 al 2007 sembrava a tutti chiaro che la responsabilità dell'ente non potesse che riguardare, per sua natura, reati dolosi) ha reso ancor più complessa e delicata la materia, dovendo ormai pacificamente le imprese prevenire con il modello organizzativo non solo le condotte criminali, ma anche quelle negligenti.

Anche nel 2012, peraltro, sono state apportate integrazioni al Decreto 231, con l'inserimento di nuovi reati sensibili nell'ambito della Legge Fornero sul rapporto di lavoro e della Legge Severino in materia di lotta alla corruzione. I reati ambientali inseriti nel Decreto 231

Il Decreto legislativo 7 luglio 2011 recepisce la normativa comunitaria in materia ambientale e di tutela penale dell'ambiente, realizzando la delega conferita con la Legge comunitaria del 2009.

Il legislatore si è limitato peraltro ad emanare le norme strettamente necessarie a garantire l'adempimento agli obblighi europei, senza riordinare, come da molti era auspicato, l'intera materia dei reati ambientali.

In relazione alla Direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente, il legislatore delegato ha esteso l'attuale apparato sanzionatorio inserendo le fattispecie sanzionate dalla Direttiva assenti nell'ordinamento italiano: uccisione, distruzione, prelievo o possesso di esemplari di specie animali e vegetali selvatiche protette (art. 727-bis, c.p.) e distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (art. 733-bis, c.p.).

Ben più significativa è invece l'altra novità introdotta dal Decreto: l'estensione della responsabilità degli enti ai sensi del Decreto 231 ad alcuni reati ambientali: le Direttive comunitarie hanno infatti imposto agli Stati membri dell'Unione di estendere alle persone giuridiche la responsabilità per i reati ambientali commessi a loro vantaggio. Per questa ragione sono state individuate come "sensibili" ai sensi del Decreto 231 alcuni reati ambientali già in vigore, oltre ai due nuovi reati in precedenza individuati: ne è così scaturito l'art. 25-undecies del Decreto 231, che ha determinato la necessità di revisione dei previgenti modelli organizzativi, nonché nuovi carichi di lavoro per gli Organismo di Vigilanza.

Pesanti sono anche le sanzioni, giacché per alcuni reati ambientali (non tutti) il giudice potrà applicare l'aspra misura delle sanzioni interdittive, oltre alle rilevanti sanzioni pecuniarie previste per tutti i reati sensibili. Reati ambientali Evoluzione della responsabilità amministrativa degli enti per i reati ambientali

A distanza di più di quindici anni dall’emanazione del Decreto Legislativo 231/2001, che introdusse nel nostro ordinamento la responsabilità amministrativa degli enti per i reati c.d. di criminalità d’impresa, si registrano nuove iniziative legislative volte ad ampliare ulteriormente la tutela del bene ambiente rispetto a fattispecie criminose poste in essere da enti e persone giuridiche.

Ripercorrendo le tappe fondamentali del percorso che ha introdotto, anche nel nostro ordinamento, la responsabilità degli enti per i reati c.d. di criminalità d’impresa, giova rammentare, anzitutto, che il fondamento del Decreto Legislativo 231/2001 era quello di porre rimedio alla

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crescita esponenziale di fenomeni illegali quali: aumento dei white colar crimes; sviluppo della criminalità di profitto; aumento di forme di illiceità verso beni collettivi; crisi del diritto penale individuale.

Il legislatore voleva, sostanzialmente, creare un sistema che, nel permettere la punibilità della persona giuridica, evitasse la violazione dell’art. 27 della Costituzione il quale prevede, com’è noto, che “la responsabilità penale è personale”, espressione del principio societas delinquere non potest.

Nel nostro ordinamento, infatti, è soltanto l’individuo umano, in quanto persona fisica, a poter essere responsabile penalmente.

I reati ambientali, non previsti nell’originaria formulazione del decreto, sono stati aggiunti in un secondo momento agli altri reati presupposto (c.d. reati di criminalità d’impresa quali ad esempio reati tributari o societari).

In effetti, sebbene fosse noto da tempo che la maggioranza dei fenomeni d’inquinamento sono provocati proprio da attività imprenditoriali, esercitate da enti con personalità giuridica, soltanto sotto la spinta dell’Unione Europea (che, con la direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, esprimeva la necessità di sanzionare le persone giuridiche per la commissione di reati ambientali) il legislatore italiano, a distanza di dieci anni, ha allargato la responsabilità amministrativa degli enti anche alla violazione di norme sulla tutela dell’ambiente.

In attuazione della Direttiva europea, il Decreto Legislativo n.121/2011 ha inserito nel Decreto Legislativo 231/2001 l’articolo 25-undecies, il quale prevede delle sanzioni pecuniarie a carico degli enti giuridici in caso di commissione di una serie di reati ambientali.

Tralasciando gli sforzi della dottrina giuridica penalistica volti alla ricerca di una qualificazione di detta responsabilità che concordi con i principi cardine che regolano il diritto penale, è opportuno invece analizzare le modalità effettive in cui opera la responsabilità degli enti come prescritta dalla attuale normativa.

Il modello di responsabilità del Decreto Legislativo 231/2001 è incentrato su un’imputazione c.d. “di rimbalzo” che non prescinde, cioè, totalmente dalla persona fisica che materialmente pone in essere il comportamento sanzionabile.

Essa si verifica allorché un soggetto, avente funzione di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente (c.d. “vertici” o “apicali”), ovvero una persona sottoposta alla vigilanza o direzione di quegli stessi soggetti, commetta, nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso, uno dei reati elencati dagli artt. 25 ss. dello stesso decreto.

Il primo criterio fissato dal decreto per consentire l’imputazione dell’illecito all’ente persona giuridica, consiste quindi nel “vantaggio” che ricava l’ente dal reato o nell’“interesse” che ha mosso l’azione criminosa.

Cercando di cogliere, in via interpretativa, il senso dell’inclusione dell’alternativa tra interesse e vantaggio, si potrebbe affermare come il legislatore, in questo modo, abbia voluto prendere in considerazione anche la situazione in cui la condotta criminosa, pur promossa nell’interesse dell’ente, non abbia raggiunto l’obbiettivo o, addirittura, abbia provocato l’effetto perverso di un danno all’ente.

Su quest’aspetto un importante apporto interpretativo è stato fornito dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 38343/2014, relativa al processo ThyssenKrupp, che conferma l’alternatività tra i due criteri specificando che il vantaggio realizzato potrebbe anche non coincidere con il solo interesse dell’impresa.

Altro criterio d’imputazione è quello riguardante il “soggetto autore del reato” che, nel campo della responsabilità degli enti, deve trovarsi in posizione apicale oppure, nel caso si tratti di persona sottoposta, è necessario che il reato da questi commesso sia stato reso possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza.

Sostanzialmente la responsabilità amministrativa degli enti si basa su una colpa di organizzazione: l’ente risponde del reato là dove può essergli rimproverato di non avere adottato idonei modelli organizzativi.

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È, infatti, previsto un esonero di responsabilità dell’ente nel caso in cui esso provi di essersi dotato di un valido modello organizzativo, di gestione e controllo, finalizzato a formalizzare procedure e/o protocolli operativi della stessa, che diano forma a “presidi” creati per evitare la commissione di reati-presupposto.

Al controllo di tali “presidi” deve essere posto un organismo di vigilanza e controllo, dotato delle caratteristiche d’indipendenza e professionalità.

Pertanto, l’Ente è responsabile non solo per i reati commessi nel suo interesse e vantaggio dai soggetti apicali, ma anche rispetto all’operato di quei soggetti che esercitano il controllo e in caso di inosservanza di obblighi di direzione o vigilanza (ex artt. 5 e 7 del Decreto Legislativo n. 231/2001), sollevando così il problema relativo al rilievo che debba avere il fatto di reato, realizzato dall’organo di controllo, ai fini dell’imputazione di quel fatto all’ente stesso.

In buona sostanza, non è chiaro se il reato commesso nell’esercizio della gestione dell’ente o della funzione di controllo conduce, in entrambe le ipotesi, all’ascrizione del reato all’ente oppure se, a prescindere dalla funzione, deve trattarsi in ogni caso di soggetto titolare della gestione, anche se esercita funzioni di controllo.

La questione è stata di recente affrontata dalla sentenza n. 3307/2013 della Corte di cassazione – V Sezione Penale, in materia di reati di aggiotaggio e false comunicazioni sociali, nella quale si afferma che il controllore (ad esempio, internal audit committee) non deve essere subordinato al controllato se si vuole che il controllo sia effettivo e non “meramente cartolare”.

La stessa sentenza tocca anche un altro punto cruciale sul dibattuto tema della sindacabilità da parte del giudice dei modelli organizzativi: la conformità ai modelli etero formati (ISO 9001- EMAS) non vale a conferire ai modelli il crisma della non censurabilità.

Il giudice – secondo la Suprema Corte – non potrebbe essere, del resto, “vincolato ad una sorta di ipse dixit aziendale e/o ministeriale in una prospettiva di privatizzazione della normativa da predisporre per impedire la commissione di reati”.

In definitiva si può affermare che il Giudice deve poter valutare il modello adottato dall’ente, rispetto anche alla realtà imprenditoriale nella quale lo stesso ente è calato.

Infine, per quanto riguarda i reati presupposto il Decreto Legislativo n. 231/2001 configura con riferimento alla tutela ambientale, solo contravvenzioni, ovvero reati di minore gravità, che contemplano quindi solo sanzioni pecuniarie.

Nella pratica giudiziaria, a dispetto dell’incremento dei casi d’inquinamento ambientale riconducibili, nella quasi totalità, ad enti e persone giuridiche, la disciplina del Decreto Legislativo 231/2001 è, tuttavia, poco applicata.

Le cause di tale limitata applicazione sono molteplici: dall’estrema tecnicità della materia che incoraggerebbe una certa “pigrizia giudiziale”, alla circostanza che diventa sempre più difficile attivare un meccanismo di accertamento giudiziario certamente complesso e di rilievo a fronte di reati c.d. bagatellari.

La Legge 68/2015 ha inserito nel Codice Penale (Libro Secondo) un nuovo Titolo, il VI-bis, interamente dedicato ai delitti contro l’ambiente.

Le nuove fattispecie di reato previste sono le seguenti: � Inquinamento ambientale; � Disastro ambientale; � Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività; � Impedimento del controllo; � Omessa bonifica.

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Gli ecoreati Il titolo VI bis c.p. dei delitti contro l’ambiente

La recente novella legislativa intervenuta a maggio 2015 ha comportato un’ampia revisione nel settore del diritto penale ambientale italiano, adeguandolo al panorama normativo europeo e, nella specie, alla direttiva 2008/99/CE2.

Quest’ultima aveva difatti strutturato il sistema sanzionatorio in oggetto non già in base a fattispecie di pericolo astratto, così come previsto dalla normativa italiana ante- riforma, bensì su reati causali di danno o di pericolo concreto.

A seguito di siffatta trasposizione, realizzata mediante il Decreto Legislativo n. 121/20143 e con la riforma in commento, anche le indicazioni del legislatore europeo hanno potuto trovare adeguato riscontro nel nostro sistema normativo penale.

Nella specie, infatti, la riforma ha apportato rilevanti modifiche sia a livello codicistico, con l’introduzione del nuovo titolo VI bis dedicato ai delitti contro l’ambiente, sia al Testo unico in materia ambientale (d.lgs. n. 152/2006).

Quanto alle fattispecie criminose introdotte nel titolo VI bis, le stesse involgono l’inquinamento ambientale ex art. 452 bis Codice Penale e la relativa forma aggravata ai sensi del successivo art. 452 ter Codice Penale (allorquando dall’inquinamento siano derivate morti o lesioni) nonché il disastro ambientale ex art. 452 quater Codice Penale (punibile altresì a titolo colposo dall’art. 452 quinquies C.P.).

Di rilievo sono poi le più moderne fattispecie di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività previsto dall’art. 432 sexies C.P., l’impedimento del controllo ex art. 452 septies C.P. e l’omessa bonifica di cui all’art. 452 terdecies C.P.

A corredo delle nuove previsioni del titolo VI bis C.P., vi sono poi le circostanze aggravanti di cui agli artt. 452 octies C.P. (riconducibile rispettivamente alle ipotesi di delitti associativi) e 452 novies C.P. (applicabile allorquando un fatto previsto come reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più delitti previsti dal titolo VI bis C.P.).

Fra le innovazioni, meritevoli di menzione sono le disposizioni di cui all’art. 452 decies C.P. che introduce un trattamento sanzionatorio premiale rispetto ai delitti previsti dal titolo nei casi di ravvedimento operoso, l’art. 452 undecies C.P. che individua un’ipotesi di confisca obbligatoria e per equivalente e, da ultimo, l’art. 452 duodecies C.P. involgente il ripristino dello stato del luoghi.

Di particolare rilievo sono le disposizioni che, con riferimento ai reati ambientali delineati, prevedono il raddoppio dei termini di prescrizione ex art. 157 co. 6 C.P. nonché l’applicabilità del sistema della responsabilità amministrativa da reato degli enti (art. 25 undecies d.lgs. n. 231/2001).

Quanto alle modifiche legislative intervenute sul Decreto Legislativo n. 152/2006, deve dirsi dell’aggiunta della parte sesta-bis recante la «disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale».

Tra le innovazioni introdotte, vi è la disciplina dell’innovativa causa di estinzione del reato, operante laddove vengano correttamente eseguite le prescrizioni impartite dagli organi di vigilanza competenti. Il delitto di inquinamento ambientale ex art. 452 bis c.p.

Il delitto di cui all’art. 452 bis c.p. recante «inquinamento ambientale» punisce (con la reclusione da due a sei anni) «chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: • delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; • di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna».

Nel prosieguo, la disposizione prevede poi una circostanza aggravante nel caso in cui «l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette».

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La disposizione de qua reca con sé un profondo mutamento rispetto al passato, posto che, sino alla riforma di cui trattasi, la protezione penale dell’ambiente era affidata a reati contravvenzionali caratterizzati dalla condotta di immissione nell’ambiente di sostanze pericolose (oltre la soglia fissata dal legislatore).

Tale struttura del reato, in particolare, tradiva una totale inefficacia del sistema di garanzie penali, poste a presidio del bene giuridico ambiente, in considerazione dello scarso livello afflittivo delle pene irrogabili nonché del brevissimo termine prescrizionale dei reati in oggetto (quattro anni, suscettibile di aumento di un quarto in presenza di un valido atto interruttivo).

Diversamente, la fattispecie di inquinamento ambientale ex art. 452 bis c.p. ha peculiarità diverse rispetto al suddetto sistema di incriminazione.

Trattasi, infatti, di un reato d’evento involgente la causazione di un pregiudizio per l’ambiente e non già il mero superamento dei limiti soglia di immissione di sostanze nocive individuati dal legislatore.

Emerge ictu oculi, pertanto, come la circostanza per cui l’oggetto del rimprovero non sia più l’aver tenuto una condotta pericolosa per il bene giuridico ambiente, bensì il cagionamento di un danno vero e proprio a tale bene giuridico, fonda poi dal punto di vista dell’offensività la qualificazione di siffatto reato a titolo di delitto, con pene detentive e pecuniare più gravose e adeguate alla tutela dell’ambiente.

Tale considerazione, a sua volta, involge il conseguente mutamento del termine di prescrizione che, ad oggi, risulta più adeguato che in passato, posto che lo stesso risulta raddoppiato (il nuovo reato si prescrive in dodici anni, o quindici in caso di atti interruttivi). Sull’elemento costitutivo

Con riferimento all’evento, il legislatore nazionale ha tentato di individuarne dettagliatamente gli elementi costitutivi, pur non mancando, nella specie, serie problematiche interpretative rispetto a questi ultimi.

La disposizione di cui all’art. 452 bis c.p. infatti incrimina la determinazione della «compromissione» o del «deterioramento» dell’ambiente.

Tali locuzioni sono indicative di un pregiudizio, rectius danneggiamento, del bene giuridico in oggetto.

Nello specifico, la compromissione dell’ambiente sembra indicare un fenomeno di inabilità strutturale del bene, tale da renderlo inidoneo rispetto alle sue funzioni.

Diversamente, il caso di deterioramento involge la mera compromissione delle condizioni intrinseche dell’ambiente in oggetto.

Può dirsi pertanto che il discrimen fra le due casistiche risieda nella circostanza per cui la compromissione individua un fenomeno assoluto, insistendo viceversa il deterioramento su un piano relazionale che registra un peggioramento rispetto a uno status ambientale preesistente.

Preme in questa sede chiarire, poi, che con l’espressione compromissione s’intende ogni danneggiamento dell’ambiente che non rivesta le caratteristiche connotanti l’evento del disastro ambientale ex art. 452 quater c.p., a sua volta caratterizzato da un determinato grado di definitività dell’evento lesivo.

Ciò comporta lo sfumarsi della differenza fra il fenomeno della compromissione e quello del deterioramento, atteso che entrambe le condotte indicano un degradamento delle condizioni ambientali, senza tuttavia intaccare la soglia del disastro.

Può asserirsi pertanto come il limite superiore della tutela ambientale sia individuabile nel disastro e che, di converso, quello inferiore -superato il quale la condotta diventa penalmente rilevante- sia rappresentato dal deterioramento.

Occorre tuttavia che l’interprete sappia individuare nel caso concreto il carattere selettivo in base al quale un determinato fenomeno inquinante superi la soglia di significatività, traducendosi in un’ipotesi di inquinamento o, rispettivamente, di disastro ambientale.

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In relazione al grado di significatività, preme aggiungere che si tratta di un parametro indeterminato connotato da incertezza rispetto alla sua misurabilità quantitativa o qualitativa.

Ciò comporta un grande margine di discrezionalità per il giudice nel determinare i criteri secondo cui valutare la gravità del danno ambientale.

Tale spazio di libertà, nella specie, sembra risolversi, quanto al requisito materiale della significatività, in una generica prescrizione di non esiguità del danno e, quanto alla misurabilità, in una sua consistenza materiale quantitativamente esprimibile.

Quanto agli elementi costituitivi del delitto di inquinamento ambientale (con riferimento all’evento), è pacifico che il verificarsi della compromissione ambientale debba involgere le acque o l’aria, o porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo, ossia tutti quegli elementi che classicamente possono ricondursi al generico bene giuridico ambiente.

Preme a tal punto porre l’attenzione sulla circostanza per cui sebbene con riferimento alle acque ed all’aria non vi siano soglie tipizzate di rilevanza del pregiudizio, rispetto invero al suolo e al sottosuolo viene in rilievo il riferimento a porzioni estese o significative.

Meritevole di analisi è poi la parte ove si incrimina la condotta di compromissione o deterioramento di un ecosistema nonché della biodiversità della flora o della fauna.

Sul punto, si registra l’assenza di una nozione normativa idonea a far chiarezza sulla nozione di ecosistema, attesa sia la difficoltà di definire in astratto l’ecosistema, sia la complessità di diversificare in astratto tale elemento rispetto alle matrici dell’acqua, aria e suolo, così come richiamate dalla fattispecie.

È di tutta evidenza pertanto come la protezione generale dell’ecosistema si presti a interpretazioni estensive che si pongono a presidio di una vasta area di contesti ambientali e che il limite di applicabilità dell’art. 452 bis c.p. sarà fornito in futuro unicamente dal diritto vivente e dalla prassi.

Da ultimo, il reato de quo individua una fattispecie a forma libera, essendo incriminata ogni condotta cui sia causalmente riconducibile la realizzazione dell’evento, così come descritto.

Ne consegue che, alla stregua di tutti i reati appartenenti alla ridetta categoria, la fattispecie in analisi può essere realizzata altresì da un non agere, a condizione che al soggetto agente sia riconducibile un obbligo giuridico di attivarsi al fine di impedire l’evento. Sull’elemento soggettivo

Con riferimento all’elemento psichico del reato in analisi, l’art. 452 bis c.p. prevede una fattispecie connotata dal dolo generico, in ordine al quale è altresì configurabile il dolo eventuale.

Tale ultima tipologia di elemento soggettivo infatti sarà verosimilmente interessata dal reato in oggetto, posto che risulta difficile aspettarsi che il soggetto agente possa agire con la precipua finalità di arrecare un danno all’ambiente o all’ecosistema.

Diversamente (e più attendibilmente), risulterà più frequente il caso in cui il fenomeno inquinante costituisca la conseguenza che, seppur prevista dal soggetto agente, non venga da questi intenzionalmente perseguita o, diversamente, rappresentata come probabile sviluppo del proprio agire.

In altri termini, la fattispecie in analisi si presta più abilmente a essere ricondotta nell’alveo del dolo eventuale, posto che il soggetto agente, pur rappresentandosi come possibile l’evento inquinante quale risultato della propria condotta, ciò nonostante perseveri nell’agire, accettando il rischio del suo verificarsi.

Invero, le difficoltà connesse all’accertamento processuale della sussistenza di tale elemento psicologico hanno portato il legislatore a introdurre all’art. 452 quinquies c.p. un’ipotesi di punibilità dei fatti di inquinamento anche a titolo colposo, al fine di scongiurare il rischio di un progressivo ridursi dell’efficacia e dell’operatività dell’art 452 bis c.p.9 . 5. Il collegato delitto di cui all’art. 452 ter c.p.

La fattispecie di cui all’art. 452 ter c.p., recante «morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale», dispone un peculiare trattamento sanzionatorio allorquando, a seguito

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della compromissione del bene giuridico ambiente (determinata dal delitto di inquinamento) siano derivate lesioni o morte di una o più soggetti.

Trattasi di una specifica ipotesi della più generale figura di cui all’art. 586 c.p., ciò comportando la rimproverabilità del soggetto agente allorquando sussista la possibilità di muovergli un rimprovero a titolo colposo.

Sul punto, la dottrina ha individuato molteplici argomenti al fine di minare l’opportunità della disposizione di cui trattasi.

Vi è infatti che la scelta di aver limitato l’applicabilità alle uniche ipotesi in cui le lesioni o la morte derivino da un caso di inquinamento ambientale, e non dalla più grave ipotesi di disastro ambientale, appare del tutto irragionevole.

L’attuale assetto comporta l’inevitabile restrizione dello spazio di operatività della disposizione in oggetto, atteso che quest’ultima potrà applicarsi laddove sia accertato (circostanza di difficilissima realizzazione) che l’inquinamento abbia prodotto lesioni o morti ma non già un pericolo per la pubblica incolumità (configurandosi in siffatta ipotesi la fattispecie di disastro ambientale, la cui contestazione inibisce l’applicazione dell’art. 452 ter c.p., operando in tal caso l’art. 586 c.p.).

Viepiù che, la disposizione de qua implica l’applicabilità di pene meno severe rispetto a quelle che, in mancanza della stessa, sarebbero irrogabili alla stregua dei principi generali dall’applicazione della disposizione sull’inquinamento in concorso con i reati di omicidio o lesioni colpose aggravate ex art. 586 c.p.

In definitiva, emerge ictu oculi come la disposizione introdotta, la cui ratio ispiratrice era rappresentata evidentemente dalla predisposizione di un trattamento sanzionatorio rigoroso, nei casi di pregiudizio alla salute derivante da fenomeni inquinanti, tradisce in verità l’esistenza di una disposizione di favore irragionevole dal punto di vista politico criminale, ancor prima che giuridico. Reato di traffico ed abbandono di materiale di alta radioattività

Il Disegno di Legge 1345, riguardante i delitti contro l’ambiente, introduce nel Codice Penale quattro nuovi reati: il delitto di disastro ambientale, quello di inquinamento ambientale, quello di impedimento del controllo e quello di traffico ed abbandono di materiale di alta radioattività.

Quest’ultimo, in particolare, va a colmare una lacuna profonda della giurisprudenza italiana, in quanto reato ambientale con conseguenze catasfrofiche sulla salute dei cittadini.

Il reato di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività è un delitto che appartiene alla categoria dei reati ambientali, tra i più gravi e sentiti da parte della nostra giurisprudenza ma anche dei cittadini stessi, che tropo spesso si trovano a dover affrontare situazioni di disagio profonde dovute all’incuria e al profondo inquinamento dell’ambiente circostante.

Un caso su tutti, in Italia, quello della Terra dei Fuochi, nei pressi di Napoli, dove il sotterramento abusivo di rifiuti tossici da anni ha provocato e provoca danni gravissimi alla salute della popolazione, soprattutto tumori.

Il delitto di traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452- quinquies) punisce con la reclusione da 2 a 6 anni e una sanzione pecuniaria da 10mila a 50mila euro, senza tener conto delle relative aggravanti.

In più, sono previste aggravanti (nel secondo e nel terzo comma), nel caso di compromissione o deterioramento dell’ambiente oppure se da queste azioni deriva pericolo per la vita o l’incolumità delle persone (indipendentemente che siano coinvolte o no nell'azione illegale).

Le pene riguardano chiunque ceda, acquisti, trasporti, riceva, esporti od importi, procuri ad altre persone, detenga o trasferisca illegalmente materiale ad alta radioattività, oppure lo abbandoni o se ne disfi in modo illegale. Reato di impedimento di controllo

Il reato di impedimento del controllo, istituito dalla legge n. 68/2015, non riguarda solo l’ambiente ma anche la salute e la sicurezza sul lavoro.

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Dopo un lungo iter parlamentare è giunta ai nastri di partenza la tanto attesa legge 22 maggio 2015, n. 68, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente” (in Gazzetta Ufficiale 28 maggio 2015, n. 122) che ha inserito nel libro II del Codice penale cinque nuovi delitti contro l’ambiente tra i quali spicca quello d’impedimento del controllo che, come vedremo, non riguarda solo la materia ambientale ma anche quella della salute e della sicurezza sul lavoro. Elementi costitutivi del nuovo reato d’impedimento del controllo

La recente Legge 22 maggio 2015, n. 68 (recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”) ha introdotto nel Codice penale il nuovo Titolo VI bis, rubricato “Dei delitti contro l’ambiente”, che prevede nuove ipotesi di reato contro l’ambiente.

Nell’ambito di tali nuovi disposizioni, si segnala il nuovo reato di “Impedimento del controllo” ex art. 452 septies cod. pen., infatti, stabilisce che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”; questa nuova disposizione, in vigore dal 29 maggio 2015, presenta diverse criticità sia per quanto riguarda la natura del reato e i suoi elementi costitutivi, sia per quanto riguarda i soggetti attivi e l’ambito di controllo interessato.

Procedendo con ordine e concentrando l’attenzione sulla sicurezza sul lavoro che qui c’interessa, occorre osservare, in primo luogo, che il citato art. 452 – septies c.p. ha introdotto una figura delittuosa che tutela i cosiddetti “beni strumentali” in quanto mira a salvaguardare il regolare esercizio del controllo da parte del personale ispettivo.

In caso di condanna, oltre alla sanzione della reclusione, si applicano: • la confisca, anche per equivalente, delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o

che servirono a commetterlo (ai sensi del nuovo art. 452 undecies cod. pen.); • la pena accessoria dell’incapacità a contrattare con la Pubblica Amministrazione (ai sensi del

nuovo art. 32 quater cod. pen.). Le implicazioni della nuova incriminazione risultano evidenti, dal momento che tale fattispecie

di reato si innesca anche nel tessuto normativo della responsabilità per violazioni connesse alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Infine, occorre evidenziare che il reato è punito a titolo di “dolo” e non a titolo di colpa, come previsto per gli altri reati in materia di salute e sicurezza

La struttura del nuovo illecito s’impernia, infatti, sull’impedimento o sull’intralcio o sull’elusione allo svolgimento delle attività di vigilanza e controllo; deve trattarsi, quindi, di una condotta diretta a impedire o intralciare e, di conseguenza, rendere più faticosa e comunque meno efficace l’attività di controllo indipendentemente dal luogo ove il controllo stesso deve avvenire.

Diciamo subito che, a nostro sommesso avviso, il dato generale più rilevante connesso con questa novità è costituito dal giusto rilievo che finalmente il legislatore attribuisce all'opera di controllo in campo ambientale, estesa opportunamente, anche a rischio di debordare dall'oggetto della legge n. 68, al settore della sicurezza e dell'igiene del lavoro.

Rilievo tanto più importante in quanto costituisce una decisa inversione di tendenza rispetto agli ultimi orientamenti dei governi dell’emergenza economica dove i controlli sulle imprese erano stati liquidati e ridotti a mere formalità da espletare, d’accordo con le imprese da controllare, in modo da recare alle stesse il minimo intralcio possibile.

Basta leggere, in proposito, il Decreto Legge n. 5/2012 convertito con legge n. 35/2012 ("Disposizioni in materia di semplificazione e di sviluppo") il cui art. 14 ("Semplificazioni dei controlli sulle imprese") impone, tra l’altro, la “eliminazione di attività di controllo non necessarie rispetto alla tutela degli interessi pubblici”, il “coordinamento e programmazione dei controlli da parte delle amministrazioni in modo da ..... recare il minore intralcio al normale esercizio delle attività dell'impresa..”, e la “ collaborazione con i soggetti controllati al fine di prevenire rischi e situazioni di irregolarità”.

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E meno male che la legge di conversione ha eliminato l’aggettivo “amichevole” riferito a “collaborazione”, che era inserito nel testo del decreto legge; e che ne sono stati esclusi almeno i controlli “in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”.

Intendiamoci, ovviamente non basta oggi prevedere finalmente una sanzione penale per chi impedisce i controlli perchè bisognerebbe, contestualmente, affrontare il gravissimo problema della carenza di uomini, di mezzi e, spesso, di adeguata professionalità e preparazione, degli organi preposti ai controlli ambientali e di sicurezza sul lavoro.

Ma, comunque, qualcosa si è fatto e si è lanciato un segnale importante ed è giusto riconoscerlo anche se, fino ad oggi, non sembra che la dottrina se ne sia accorta.

Ciò premesso, è anche opportuno rimarcare, sempre in positivo, che questa ipotesi criminosa è tutta italiana, in quanto non è prevista tra le ipotesi di reati ambientali dettati dalla UE, cui si è data esecuzione con la legge n. 68/2015.

E peraltro si collega direttamente alla ben più limitata ipotesi contravvenzionale prevista per l’inquinamento idrico dall'art. 137, comma 8, Decreto Legislativo 152/06 secondo cui “il titolare di uno scarico che non consente l’accesso agli insediamenti da parte del soggetto incaricato del controllo ai fini di cui all’articolo 101, commi 3 e 4, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, è punito con la pena dell’arresto fino a due anni. Restano fermi i poteri-doveri di interventi dei soggetti incaricati del controllo anche ai sensi dell’articolo 13 della legge n. 689 del 1981 e degli articoli 55 e 354 del codice di procedura penale".

Ipotesi, di fatto, ormai superata visto che il diniego di accesso oggi viene configurato, appunto, come delitto (e, quindi, costituisce più grave reato).

Passando, finalmente, ad un sommario esame della fattispecie in esame, appare evidente, in primo luogo, quanto ai soggetti, che non si tratta di reato proprio in quanto, opportunamente, il delitto può essere commesso da “chiunque” e non soltanto dal titolare di un insediamento produttivo.

Ben più problematica risulta, invece, la precisazione delle condotte punibili. La norma, infatti, sembra prevedere, a prima vista, una fattispecie di reato a forma vincolata,

“poiché l’impedimento deve realizzarsi negando o ostacolando l’accesso ai luoghi, ovvero mutando artificiosamente lo stato dei luoghi”.

Tuttavia, in tal modo non si tiene conto che la norma incriminatrice contiene anche, dopo una virgola ed un <<ovvero>>, una seconda parte incentrata sul fine di evitare la compromissione degli esiti dell’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro.

E pertanto “la disposizione sembrerebbe affiancare alle condotte punibili espressamente tipizzate, un reato di evento a forma libera, volto alla repressione di qualsiasi condotta dotata di efficacia causale rispetto all’evento “compromissione degli esiti” dell’attività di vigilanza e controllo”.

In altri termini, l’art. 452-septies c.p. nella prima parte punisce chi impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro attraverso le condotte tipizzate di: • diniego d'accesso; • predisposizione di ostacoli, • immutazione artificiosa dello stato dei luoghi.

Nella seconda parte, invece, vieta, senza alcuna tipizzazione, qualsiasi condotta che, in qualsiasi modo, comprometta i risultati della predetta attività di vigilanza e controllo.

Ed è appena il caso di evidenziare che trattasi anche di due diverse fasi temporali in quanto la prima (a forma vincolata) attiene al controllo, la seconda (a forma libera), invece, a quella, successiva (ma collegata), alla effettuazione del controllo, tesa ad evitare la compromissione dei risultati conseguiti.

E pertanto, opportunamente la dottrina ha osservato che “le applicazioni pratiche, avuto riguardo al tenore letterale della disposizione, paiono molteplici,perché vanno dal mero diniego di accesso ai

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luoghi ove deve essere effettuato il controllo, a comportamenti che rendono più difficoltoso il controllo o lo eludono, cosicché potrebbero rientrare nella fattispecie in esame condotte frequenti e ben note a chi opera nel settore della tutela penale dell'ambiente, quali, ad esempio, la predisposizione di bypass degli scarichi, il sottrarre alla vista una massiccia diluizione degli stessi, la mirata riduzione dell'attività di un impianto, l’occultamento di specifiche attività incidenti sul carico inquinante di un determinato processo produttivo e, finanche, il rifiuto della doverosa e necessaria collaborazione che determini le conseguenze descritte dalla norma in esame” cui possiamo aggiungere, continuando l’esemplificazione, anche l’occultamento di documentazione esistente presso l’azienda, il girobolla e l’informativa falsa o carente circa l’attività dell’azienda (necessaria per impostare e valutare correttamente i controlli, rischiando, altrimenti di compromettere gli esiti degli stessi).

A questo proposito, un dubbio può porsi rispetto al delitto di frode processuale (art. 374 c.p.) che prevede anche esso un’immutazione artificiosa dello stato dei luoghi o delle cose e delle persone nel corso di un procedimento penale (comma 2), ma si tratta con tutta evidenza di contesti totalmente diversi dato che il delitto in esame tutela, di regola, l’attività di controllo nella fase delle indagini; e peraltro, il principio di specialità e la clausola espressa apposta al delitto di cui all’art. 374 c.p. (che lo esclude qualora il fatto sia preveduto come reato da una particolare disposizione di legge) sembrano sufficienti a risolvere ogni dubbio.

Di contro, la clausola di sussidiarietà (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) presente nell’art. 452-septies rende, con tutta evidenza, applicabile, in caso di resistenza a pubblico ufficiale, l’art. 337 c.p. che prevede la pena (più grave) della reclusione da 6 mesi a 5 anni.

Oggetto della tutela penale è “l'attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro”.

La dizione è tale da ricomprendere qualsiasi attività di vigilanza e controllo nei settori della tutela dell’ambiente e della sicurezza e igiene del lavoro, effettuata a qualsiasi titolo e da chiunque; e, quindi, non limitata solo alle violazioni del Decreto Legislativo 152/06 e del Decreto Legislativo 81/2008 né circoscritta solo agli organi pubblici ivi previsti.

In particolare, a nostro sommesso avviso, vi rientra qualsiasi attività di vigilanza e controllo nei settori della tutela dell’ambiente e della sicurezza e igiene del lavoro effettuata dalla polizia giudiziaria, anche, ad esempio, con riferimento a norme del codice penale utilizzate a difesa dell'ambiente o della salute dei lavoratori quali l’art. 674 o l'art. 437 c.p.

Quanto all’estensione al campo della sicurezza ed igiene del lavoro, da taluno considerata anomala, è appena il caso di ricordare che, in realtà, trattasi di settore strettamente collegato a quello della tutela ambientale non solo perché, di fatto, nelle realtà industriali non può scindersi la tutela della salute dentro e fuori la fabbrica, ma anche perché, sotto il profilo giuridico, vi sono numerosi punti di contatto.

Non a caso, è proprio la stessa legge n. 68 /2015 a introdurre nel Decreto Legislativo 152/06 una parte sesta-bis contenente una disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale, ricalcata pedissequamente da quella prevista dal Decreto Legislativo 758/1994 in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.

Ed anche la giurisprudenza spesso accomuna i due settori, ad esempio in tema di delega di funzioni.

Infine, quanto all’elemento soggettivo, il delitto è punito solo a titolo di dolo. Ed è appena il caso di ricordare, in proposito, la costante giurisprudenza della suprema Corte la

quale esclude ogni rilevanza dell’errore di diritto da parte di coloro che, come gli imprenditori, svolgono in modo professionale attività normativamente regolate, i quali sono tenuti a conoscere con diligenza la disciplina del settore. Le attività interessate

Occorre rilevare, inoltre, che l’art. 452-septies c.p. non contiene alcun riferimento a un insediamento o stabilimento o unità produttiva o attività d’impresa; il legislatore, infatti, ha scelto di

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non limitare aprioristicamente la norma richiamando definizioni specifiche del settore con il risultato che, in concreto, tutte le attività ricadenti nell’ambito applicativo del D.Lgs. n.81/2008, disegnato dagli artt. 2 e 3, sono interessate da questa nuova ipotesi di reato.

Sono comprese, pertanto, anche le attività del settore pubblico e quelle non aventi scopo di lucro essendo quest’ultimo irrilevante ai fini dell’applicazione delle tutele previste dal citato decreto che, viceversa, all’art. 2, c.1, lett. a), ricomprende qualsiasi lavoratore che indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. Reato di omessa bonifica

Come noto, la recente legge 22 maggio 2015, n. 68, ha introdotto una sorta di “rivoluzione copernicana” nel sistema sanzionatorio italiano per i reati contro l’ambiente, facendo segnare un passaggio da un sistema essenzialmente finalizzato a punire l’inosservanza di precetti amministrativi (come ad esempio le autorizzazioni) a uno di tipo penale dedicato specificatamente a punire condotte lesive dell’equilibrio ambientale.

Per effetto, al libro secondo del codice penale, è stato aggiunto il Titolo VI-bis «Dei delitti contro l’ambiente», tra le cui numerose novità rientra, a pieno titolo, la fattispecie del cosiddetto reato di “omessa bonifica”, che, come recita il nuovo art. 452-terdecies c.p., è imputato a chi, pur «essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al rispristino o al recupero dello stato dei luoghi»; questo, a patto che «il fatto» non «costituisca più grave reato».

Al contrario, resta meno grave la fattispecie, “simile” a quella dell’art. 452-terdecies c.p., prevista dall’art. 257, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006 (pure oggetto di modifica da parte della legge n. 68/2015), per «chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, se non provvede alla bonifica», che si applica laddove, pur in presenza di un superamento delle soglie di rischio, non si riscontrino fenomeni di compromissione o deterioramento significativi e misurabili.

Si è venuto così a creare un sistema sanzionatorio che vede la compresenza di due fattispecie che restano distinte (a partire dalla tipologia: “delitto” quello previsto dall’art. 452-terdecies c.p., “contravvenzione” quella che fa riferimento all’art. 257, D.Lgs. n. 152/2006), pur intersecandosi in parte per quanto riguarda i criteri di applicabilità, anche se il reato di cui all’art. 257 scatta soltanto a fronte del superamento simultaneo delle soglie di contaminazione (CSC) e di quelle di rischio (CSR) e qualora non si configuri il reato di “disastro” o “inquinamento ambientale”, nel cui caso troveranno applicazione i nuovi articoli del codice penale introdotti dalla legge n. 68/2015.

Uno dei tratti distintivi più evidenti è la sanzione prevista: arresto da sei mesi a un anno o ammenda da 2.600 euro a 26.000 euro per il reato di contravvenzione, elevati, rispettivamente, a un periodo detentivo che va da uno a quattro anni e una multa da 20.000 fino a 80.000 euro, per l’omessa bonifica di cui all’art. 452-terdecies c.p.

Ancora più netta è la differenza per quanto riguarda l’autore dell’illecito che, dal soggetto responsabile dell’inquinamento che non realizza la bonifica previsto dall’art. 257, Decreto Legislativo n. 152/2006, nell’art. 452-terdecies, c. p., si allarga a comprendere chiunque sia obbligato a bonificare per legge, per ordine di un giudice o della autorità pubblica.

Questa ridefinizione delle responsabilità è destinata a generare situazioni completamente nuove nel panorama giuridico-ambientale italiano; in particolare, per effetto dell’art. 452-terdeciesc.p., da un lato, potrebbero essere chiamati a sostenere le spese di bonifica soggetti non responsabili dell’inquinamento, ma obbligati comunque da un ordine del giudice o della autorità pubblica; dall’altro chi, non essendo consapevole di essere responsabile di uno o più episodi di inquinamento (aspetto, quest’ultimo, non sempre facile da dimostrare), in assenza di alcun tipo di ordine, non sarà tenuto a rispondere del reato commesso.

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Riassumendo: l’art. 257, Decreto Legislativo n. 152/2006, si applica unicamente al soggetto responsabile dell’inquinamento; il nuovo reato di omessa bonifica, al contrario, non fa leva sull’eventuale responsabilità, ma punta, attraverso un rafforzamento dei provvedimenti del giudice e della pubblica amministrazione, a tutelare le diverse tipologie di attività (ripristino, recupero e bonifica).

Sebbene, per l’effetto combinato delle due fattispecie, il corpus sanzionatorio per il reato di mancata bonifica risulti consolidato, non mancano i punti da chiarire.

Uno su tutti è il fatto che, con l’articolo 452-terdecies c.p., l’obbligo di bonifica scatti anche per chi non ne sia responsabile, aspetto quest’ultimo che presenta almeno due profili di incostituzionalità: il primo è, appunto, l’applicazione di una pena più severa a prescindere dall’effettivo grado di responsabilità; il secondo è la potenziale violazione del principio “chi inquina paga”, atto di per sé incostituzionale, dal momento che l’art. 10 della Costituzione fa appello alle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute».

È chiaro che per questo, come per altri punti in sospeso, sono necessari a breve chiarimenti, se non da parte del legislatore, quantomeno di fonte giurisprudenziale, anche e soprattutto per mettere le aziende nelle condizioni di agire all’interno del perimetro della legalità. I reati ambientali (tratto da Codice Penale) Art. 452-bis. – (Inquinamento ambientale).

È punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

Quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.

Coordinamento con la contravvenzione di cui all’art. 257 D.Lgs. 152/2006. Art. 257 (Bonifica dei siti)

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti.

In caso di mancata effettuazione della comunicazione di cui all’articolo 242, il trasgressore è punito con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da mille euro a ventiseimila euro.

2. Si applica la pena dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell’ammenda da cinquemiladuecento euro a cinquantaduemila euro se l'inquinamento è provocato da sostanze pericolose.

3. Nella sentenza di condanna per la contravvenzione di cui ai commi 1 e 2, o nella sentenza emessa ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione degli interventi di emergenza, bonifica e ripristino ambientale.

4. L’osservanza dei progetti approvati ai sensi degli articoli 242 e seguenti costituisce condizione di non punibilità per le contravvenzioni ambientali contemplate da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 1.

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Art. 452-ter. – (Morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale). Se da uno dei fatti di cui all’articolo 452-bis deriva, quale conseguenza non voluta dal reo, una

lesione personale, ad eccezione delle ipotesi in cui la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni, si applica la pena della reclusione da due anni e sei mesi a sette anni; se ne deriva una lesione grave, la pena della reclusione da tre a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la pena della reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva la morte, la pena della reclusione da cinque a dieci anni.

Nel caso di morte di più persone, di lesioni di più persone, ovvero di morte di una o più persone e lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per l’ipotesi più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti.

In ordine al concetto di lesione occorre riferimento all’art. 583 c.p., in base al quale: La lesione personale è grave 1. se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una

malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni;

2. se il fatto produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo;

La lesione personale è gravissima se dal fatto deriva: 1. una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2. la perdita di un senso; 3. la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di

un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; 4. la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso. Art. 452-quater. – (Disastro ambientale).

Fuori dai casi previsti dall’articolo 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni.

Costituiscono disastro ambientale alternativamente: 1. l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; 2. l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e

conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; 3. l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della

compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico,

ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.

Prima della Legge 68/2015 si parlava di “disastro ambientale” con riferimento all’art. 434 c.p., che sanziona il c.d. disastro innominato: Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni.

La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene. Requisito del reato di disastro di cui all’art. 434 Codice Penale è la potenza espansiva del

nocumento unitamente all’attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane. (Fattispecie di disastro ambientale caratterizzata da una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi). Cass. pen. Sez. III Sent., 16-01-2008, n. 9418 (rv. 239160).

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Art. 452-quinquies. – (Delitti colposi contro l’ambiente) Se taluno dei fatti di cui agli articoli 452-bis e 452- quater è commesso per colpa, le pene

previste dai medesimi articoli sono diminuite da un terzo a due terzi. Se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento

ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo. Art. 452-sexies. – (Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività).

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con l a reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000 chiunque abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività.

La pena di cui al primo comma è aumentata se dal fatto deriva il pericolo di compromissione o deterioramento: 1. delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2. di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

Se dal fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone, la pena è aumentata fino alla metà. Art. 452-septies. – (Impedimento del controllo).

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La clausola di salvezza in apertura dell’art,. 452- septies va riferito alla resistenza a pubblico ufficiale prevista dall’art. 337 c.p. Art. 337 c.p. Resistenza a un pubblico ufficiale.

Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Art. 452-terdecies. – (Omessa bonifica).

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000.

Come si coordina l’art. 452-terdecies c.p. con l’art. 257 D.Lgs. 152/06? Art. 257 (Bonifica dei siti)

1. Chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni sogli a di rischio è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti.

In caso di mancata effettuazione della comunicazione di cui all’articolo 242, il trasgressore è punito con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da mille euro a ventiseimila euro. […] Art. 452-octies. – (Circostanze aggravanti).

Quando l’associazione di cui all’articolo 416 è diretta, in via esclusiva o concorrente, allo scopo di commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo, le pene previste dal medesimo articolo 416 sono aumentate.

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Quando l’associazione di cui all’articolo 416-bis è finalizzata a commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo ovvero all’acquisizione della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici in materia ambientale, le pene previste dal medesimo articolo 416-bis sono aumentate.

Le pene di cui ai commi primo e secondo sono aumentate da un terzo alla metà se dell’associazione fanno parte pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio che esercitano funzioni o svolgono servizi in materia ambientale. Art. 452-novies. – (Aggravante ambientale).

Quando un fatto già previsto come reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più tra i delitti previsti dal presente titolo, dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, o da altra disposizione di legge posta a tutela dell’ambiente, ovvero se dalla commissione del fatto deriva la violazione di una o più norme previste dal citato decreto legislativo n. 152 del 2006 o da altra legge che tutela l’ambiente, la pena nel primo caso è aumentata da un terzo alla metà e nel secondo caso è aumentata di un terzo.

In ogni caso il reato è procedibile d’ufficio. Art. 452-decies. – (Ravvedimento operoso).

Le pene previste per i delitti di cui al presente titolo, per il delitto di associazione per delinquere di cui all’articolo 416 aggravato ai sensi dell’articolo 452-octies, nonché per il delitto di cui all’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, sono diminuite dalla metà a due terzi nei confronti di colui che si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi, e diminuite da un terzo alla metà nei confronti di colui che aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione degli autori o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti. Ove il giudice, su richiesta dell’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado disponga la sospensione del procedimento per un tempo congruo, comunque non superiore a due anni e prorogabile per un periodo massimo di un ulteriore anno, al fine di consentire le attività di cui al comma precedente in corso di esecuzione, il corso della prescrizione è sospeso. Art. 452-duodecies. – (Ripristino dello stato dei luoghi).

Quando pronuncia sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti previsti dal presente titolo, il giudice ordina il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, ponendone l’esecuzione a carico del condannato e dei soggetti di cui all’articolo 197 del presente codice.

Al ripristino dello stato dei luoghi di cui al comma precedente si applicano le disposizioni di cui al titolo II della parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in materia di ripristino ambientale. Art. 452-undecies. – (Confisca)

Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per i delitti previsti dagli articoli 452-bis, 452-quater, 452-sexies, 452-septies e 452- octies del presente codice, è sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato.

Quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal presente titolo, sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il

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condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca.

I beni confiscati ai sensi dei commi precedenti o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all’uso per la bonifica dei luoghi.

L’istituto della confisca non trova applicazione nell’ipotesi in cui l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi.

D.Lgs. 231/2001 Inquinamento ambientale doloso: sanzione pecuniaria da 250 a 600 quote e sanzioni interdittive per un periodo non superiore a un anno.

Disastro ambientale doloso: sanzione pecuniaria da 450 a 800 quote e sanzioni interdittive. Inquinamento o disastro ambientale colposo: sanzione pecuniaria da 250 a 500 quote.

Delitti associativi aggravati ai sensi dell’articolo 452-octies: sanzione pecuniaria da 300 a mille 1.000.

Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività: sanzione pecuniaria da 250 a 600 quote. D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del

fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67”.

La Legge-delega n. 67/2014 stabiliva: Il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi per la riforma del sistema delle pene, con le modalità e nei termini previsti dai commi 2 e 3 e nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: […] m) escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale.

L’art. 1 del D.Lgs. n. 28/2015 ha introdotto nel codice penale l’art. 131-bis. Art. 131-bis. - (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto).

Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. […].

L’art. 2 del Dlgs 28/2015, nel modificare l’art. 411 c.p.p., stabilisce che: a. nell’ipotesi in cui la persona sottoposta alle indagini non è punibile ai sensi dell’articolo 131-bis

del codice penale per particolare tenuità del fatto, si applicano le disposizioni di cui agli artt. 408 e ss. c.p.p. ossia il PM deve chiedere l’archiviazione;

b. tuttavia, se l'archiviazione è richiesta per particolare tenuità del fatto, il PM deve darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, precisando che, nel termine di dieci giorni, possono prendere visione degli atti e presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta.

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Il giudice (GIP), se ‘opposizione non è inammissibile, procede ai sensi dell'articolo 409, comma 2 (cioè tiene una camera di consiglio), e, dopo avere sentito le parti, se accoglie la richiesta, provvede con ordinanza.

In mancanza di opposizione, o quando questa è inammissibile, il giudice procede senza formalità e, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato.

Nei casi in cui non accoglie la richiesta il giudice restituisce gli atti al PM, eventualmente provvedendo ai sensi dell'articolo 409, commi 4 e 5 (indicazione di indagini suppletive o imputazione coattiva).

Il nuovo istituto della non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa, avendo natura sostanziale, si applica anche ai procedimenti in corso.

Così ha riconosciuto la Cassazione (Cass. pen. Sez. III, 15.04.2015, n. 15449): “Resta da esaminare la questione, sollevata in udienza, dell’applicabilità, nella fattispecie, della causa di non punibilità ora prevista dall’art. 131-bis cod. pen., introdotto dal D.Lgs. n. 28 del 2015.

Il menzionato decreto legislativo non prevede una disciplina transitoria, cosicché va preliminarmente verificata la possibilità di applicare la nuova disposizione anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore.

La natura sostanziale dell’istituto di nuova introduzione induce ad una risposta positiva, con conseguente retroattività della legge più favorevole, secondo quanto stabilito dall’art. 2 c.p., comma 4.

Può anche ritenersi che la questione della particolare tenuità del fatto sia proponibile anche nel giudizio di legittimità, tenendo conto di quanto disposto dall'art. 609 c.p.p., comma 2, trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.

L’applicabilità dell'art. 131-bis Codice Penale presuppone, tuttavia, valutazioni di merito, oltre che la necessaria interlocuzione dei soggetti interessati.

Da ciò consegue che, nel giudizio di legittimità, dovrà preventivamente verificarsi la sussistenza, in astratto, delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto, procedendo poi, in caso di valutazione positiva, all’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice del merito affinché valuti se dichiarare il fatto non punibile”.

Il secondo pilastro della Legge 22 maggio 2015 n. 68 è rappresentato dall’introduzione nel D.Lgs. 152/06 della Parte VI-bis (artt. da 318-bis a 318-octies).

In estrema sintesi, la Parte VI-bis del D.Lgs. 152/06 prevede la possibilità di estinguere i reati contravvenzionali previsti dallo stesso D.Lgs. 152/06 ad una duplice condizione: a. che vengano ottemperate le prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza (polizia giudiziaria); b. che venga pagata una determinata somma di denaro.

Tali disposizioni ricalcano, seppure con alcune importanti differenze, le disposizione contenuto nel D.Lgs. 19-12-1994 n. 758 (Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro). Campo di applicazione Art. 318-bis (Ambito di applicazione) 1. Le disposizioni della presente parte si applicano alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale previste dal presente decreto che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette. A titolo esemplificativo, la parte VI-bis può applicarsi alle seguenti contravvenzioni previste dal Codice dell’ambiente: � esercizio di un’installazione Aia senza autorizzazione (art. 29-quattuordecies, comma 1); � violazioni gravi di prescrizioni contenute nell’Aia (art. 29-quattuordecies, commi 3 e 4); � modifica sostanziale di un’installazione Aia senza autorizzazione (art. 29- quattuordecies,

comma 5); � scarico non autorizzato di acque reflue industriali (art. 137, commi 1 e 2); � violazione dei valori limite nello scarico di acque reflue industriali (art. 137, comma 5); � violazione dei valori limite nello scarico delle acque derivanti da un impianto di trattamento

delle acque reflue urbane (art. 137, comma 6);

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� inosservanza delle disposizioni sulle acque di prima pioggia (art. 137, comma 9); � impropria utilizzazione agronomica di effluenti di allevamento, di acque di vegetazione dei

frantoi oleari, nonché di acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari (art. 137, comma 14); ….. ….

� gestione non autorizzata di rifiuti (art. 256, comma 1); � abbandono o deposito incontrollato di rifiuti da parte di titolare di impresa o responsabile di ente

(art. 256, comma 2); � discarica non autorizzata (art. 256, comma 3); � violazione delle prescrizioni autorizzatorie in materia di rifiuti (art. 256, comma 4); � miscelazione non autorizzata di rifiuti (art. 256, comma 5); � contaminazione di un sito (art. 257); • traffico illecito nelle spedizioni transfrontaliere di rifiuti

(art. 259); � tutti i reati in materia di (co)incenerimento (art. 161-bis); � installazione (o modifica sostanziale) ovvero esercizio di uno stabilimento che produce emissioni

in atmosfera senza autorizzazione (art. 279, comma 1); � superamento dei valori limite nelle emissioni in atmosfera (art. 279, comma 2); � messa in esercizio di un impianto senza preventiva comunicazione (art. 279, comma 3); � omessa comunicazione degli autocontrolli (art. 279, comma 4); � reati in materia di combustibili (art. 296).