ALLEGATO A2. Presenza e comportamento dei Solventi Clorurati

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Analisi e promozione di nuove tecnologie di bonifica e di caratterizzazione dei siti contaminati 155 ALLEGATO A2. Presenza e comportamento dei Solventi Clorurati Il presente allegato si basa su precedenti documenti elaborati dal gruppo di ricerca UniRoma1 e contenenti linee guida generali sulle modalità di investigazione e di valutazione di fattibilità del risanamento di falde contaminate da solventi clorurati, sviluppati con particolare riferimento ai metodi di biorisanamento anaerobico in situ ed ai casi di presenza di fase densa non acquosa (Dense Non Aqueous Phase Liquid, DNAPL). Tali precedenti documenti sono: “Biorisanamento anaerobico in situ di falde contaminate da solventi clorurati. Proposta di protocollo di indagine per la valutazione di fattibilità”. Tale protocollo fu elaborato dai Dipartimenti di Chimica e di Idraulica, Trasporti e Strade della Sapienza Università di Roma e dall’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA) del CNR nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio con il co-finanziamento del CNR (Gruppo Nazionale Difesa Rischi Chimici Industriali Ecologici – GNDRCIE). Il progetto si avvalse inoltre della collaborazione tecnica e logistica della Provincia di Milano per la esecuzione di tutte le attività sul campo, che si svolsero nell’area Ex Chimica Bianchi di Rho (che è anche oggetto di alcune attività nel presente Contratto). Il protocollo fu presentato nell’ambito del Convegno biennale organizzato dalla Provincia di Milano (Milano, 23-24 novembre 2006) ed è disponibile tra gli atti del Convegno. “Individuazione e trattamento mediante biorisanamento anaerobico in situ di solventi clorurati in fase densa separata (DNAPL)”. Il documento fu elaborato come un “addendum” specifico della proposta di protocollo appena citata per quanto riguarda la descrizione delle caratteristiche peculiari che presenta la contaminazione di falda acquifere da solventi clorurati quando essi siano presenti in forma di fase densa non acquosa (DNAPL). A tal fine, furono descritti in particolare a) le principali caratteristiche del DNAPL ed i suoi meccanismi di trasporto; b) i metodi di investigazione per l’identificazione della presenza del DNAPL; c) i meccanismi e gli effetti della biodegradazione dei composti clorurati in presenza di DNAPL e d) le ripercussioni della presenza di DNAPL sull’applicabilità del biorisanamento anaerobico in situ. Anche in quel caso ci si avvalse delle esperienze maturate nelle attività sul campo, che si svolsero nell’area Ex Chimica Bianchi di Rho. Per comodità di lettura, il presente allegato è un estratto da tale più ampia documentazione, con lo scopo di fornire una sintetica introduzione sul comportamento ambientale dei solventi clorurati. Esso fornisce una base necessaria di conoscenze per la “Decision Guide” di cui all’Allegato 22.

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ALLEGATO A2. Presenza e comportamento dei Solventi Clorurati

Il presente allegato si basa su precedenti documenti elaborati dal gruppo di ricerca UniRoma1 e contenenti linee guida generali sulle modalità di investigazione e di valutazione di fattibilità del risanamento di falde contaminate da solventi clorurati, sviluppati con particolare riferimento ai metodi di biorisanamento anaerobico in situ ed ai casi di presenza di fase densa non acquosa (Dense Non Aqueous Phase Liquid, DNAPL).

Tali precedenti documenti sono: “Biorisanamento anaerobico in situ di falde contaminate da solventi clorurati. Proposta di protocollo di indagine per la valutazione di fattibilità”. Tale protocollo fu elaborato dai Dipartimenti di Chimica e di Idraulica, Trasporti e Strade della Sapienza Università di Roma e dall’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA) del CNR nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio con il co-finanziamento del CNR (Gruppo Nazionale Difesa Rischi Chimici Industriali Ecologici – GNDRCIE). Il progetto si avvalse inoltre della collaborazione tecnica e logistica della Provincia di Milano per la esecuzione di tutte le attività sul campo, che si svolsero nell’area Ex Chimica Bianchi di Rho (che è anche oggetto di alcune attività nel presente Contratto). Il protocollo fu presentato nell’ambito del Convegno biennale organizzato dalla Provincia di Milano (Milano, 23-24 novembre 2006) ed è disponibile tra gli atti del Convegno. “Individuazione e trattamento mediante biorisanamento anaerobico in situ di solventi clorurati in fase densa separata (DNAPL)”. Il documento fu elaborato come un “addendum” specifico della proposta di protocollo appena citata per quanto riguarda la descrizione delle caratteristiche peculiari che presenta la contaminazione di falda acquifere da solventi clorurati quando essi siano presenti in forma di fase densa non acquosa (DNAPL). A tal fine, furono descritti in particolare a) le principali caratteristiche del DNAPL ed i suoi meccanismi di trasporto; b) i metodi di investigazione per l’identificazione della presenza del DNAPL; c) i meccanismi e gli effetti della biodegradazione dei composti clorurati in presenza di DNAPL e d) le ripercussioni della presenza di DNAPL sull’applicabilità del biorisanamento anaerobico in situ. Anche in quel caso ci si avvalse delle esperienze maturate nelle attività sul campo, che si svolsero nell’area Ex Chimica Bianchi di Rho.

Per comodità di lettura, il presente allegato è un estratto da tale più ampia documentazione, con lo scopo di fornire una sintetica introduzione sul comportamento ambientale dei solventi clorurati. Esso fornisce una base necessaria di conoscenze per la “Decision Guide” di cui all’Allegato 22.

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Inquinamento delle acque sotterranee da solventi clorurati

Le sostanze liquide in fase non acquosa o DNAPL (Dense Non-Aqueous Phase Liquid) sono dei liquidi puri o miscele liquide più dense dell’acqua e relativamente insolubili in fase acquosa; per le loro caratteristiche fisiche, se rilasciate nel sottosuolo tali sostanze formano delle fasi separate immiscibili sia con l’aria che con l’acqua. Tra i più comuni tipi di DNAPL si possono includere composti che sono stati per anni impiegati largamente nei processi industriali come i solventi clorurati (es. Tricloroetilene e Tetracloroetilene), impiegati come sgrassanti.

Sebbene tali sostanze siano state prodotte e utilizzate sin dall’inizio del secolo scorso, la loro importanza come contaminanti delle acque di falda è stata riconosciuta soltanto a partire dall’inizio del 1980; ciò è da imputare alla mancanza di una legislazione adatta che potesse prevenire lo sversamento incontrollato di contaminanti nel sottosuolo, e all’assenza di metodi analitici in grado di rilevare questi composti anche a basse concentrazioni.

Bisogna aggiungere inoltre che molti manuali di sicurezza delle industrie chimiche, distribuiti tra il 1940 e il 1980, suggerivano come metodo di smaltimento di solventi clorurati il loro spargimento in terreni secchi per permettere la relativa evaporazione, non tenendo conto della capacita dei DNAPL di infiltrarsi rapidamente nel terreno, provocando quindi una contaminazione del suolo.

Considerando che le sorgenti di DNAPLs sono generalmente costituite da composti organo-clorurati, sono riportate di seguito le caratteristiche chimico-fisiche di questa classe di composti.

A2.1 Classificazione e proprietà dei composti organo-clorurati

I composti organici clorurati, sono molecole di idrocarburi, alogeno-sostituite, ognuna delle quali contiene almeno un atomo di Cl. Possono essere saturi (alogenuri alchilici), insaturi (alogenuri alchenilici) o aromatici (alogenuri arilici).

Un elenco dei principali (maggiormente utilizzati industrialmente e largamente diffusi nell’ambiente) alogenuri saturi, insaturi ed aromatici è riportato in Tabella A2.1. Tra i gli alogenuri alchilici, i più comuni sono i derivati dell’etano e del metano, tra i quali 1,1,1- e 1,1,2-tricloroetano TCA, l’1,1,- e 1,2-dicloroetano DCA, il diclorometano ed il triclorometano (cloroformio) la cui formula di struttura è riportata in Tabella A2.2. Tra gli alogenuri alchenilici, i più comuni sono i derivati dell’etene (altrimenti detto etilene), quali il tetracloroetene PCE, il tricloroetene TCE (anche noto con il nome di trielina), il 1,2-dicloroetene DCE ed il cloroetene VC (cloruro di vinile) (Tabella A2.2). Tra gli alogenuri arilici, i più comuni sono i derivati del benzene, quali il clorobenzene e l’esaclorobenzene (Tabella A2.2).

A differenza degli alogenuri alchilici ed alchenilici, gli alogenuri arilici sono meno frequentemente impiegati come solventi e non verranno quindi ulteriormente discussi nell’ambito del presente documento.

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Tabella A2.1 – Elenco dei principali solventi clorurati alchilici, alchenilici e arilici

Abbreviazione Chemical Abstracts Service (CAS) Nome

Numero CAS

Altri nomi Formula Molecolare

PCE Tetracloroetene 127-18-4 percloroetilene; tetracloroetilene C2Cl4

TCE Tricloroetene 79-01-6 Tricloroetilene C2HCl3

1,1-DCE 1,1-dicloroetene 75-35-4 1,1-dicloroetilene C2H2Cl2

trans-1,2 DCE (E)-1,2-dicloroetene 156-60-5 trans-1,2-dicloroetene; trans-1,2-dicloroetilene

C2H2Cl2

cis-1,2 DCE 156-59-3 cis-1,2-dicloroetilene, cis-1,2-dicloroetilene C2H2Cl2 VC Cloroetene 75-01-4 vinil cloruro; cloro etilene C2H3Cl 1,1,1-TCA 1,1,1-tricloroetano 71-55-6 C2H3Cl3 1,1,2-TCA 1,1,2-tricloroetano 79-00-5 C2H3Cl3 1,1-DCA 1,1-dicloroetano 75-34-3 C2H4Cl2 1,2-DCA 1,2-dicloroetano 107-06-02 C2H4Cl2 CA Cloro etano 75-00-3 C2H3Cl CF Tricloroetano 67-66-3 Cloroformio CHCl3 CT Tetraclorometano 56-23-5 tetracloruro di carbonio CCl4 Cloruro di Metile

Diclorometano 75-09-2 CH2Cl2

CB Clorobenzene 108-90-7 C6H3Cl 1,2-DCB 1,2-diclorobenzene 95-50-1 o-diclorobenzene C6H4Cl2

1,3-DCB 1.3-diclorobenzene 541-73-1 m-diclorobenzene C6H4Cl2 1,4-DCB 1,4-diclorobenzene 106-46-7 p-diclorobenzene C6H4Cl2

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1,2,3-TCB 1,2,3-triclorobenzene 87-61-6 C6H3Cl3 1,2,4-TCB 1,2,4-triclorobenzene 120-82-1 C6H3Cl3

1,3,5-TCB 1,3,5-triclorobenzene 108-70-3 C6H3Cl3

1,2,3,5-TECB 1,2,3,5-tetraclorobenzene 634-90-2 1,2,3,5-TCB C6H2Cl4

1,2,4,5-TECB 1,2,4,5-tetraclorobenzene 95-94-3 C6H2Cl4 HCB Esaclorobenzene 118-74-1 C4Cl4 EDB 1,2-dibromometano 106-93-4 Dibromometano C2H4Br2

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Tabella A2.2 –Formule di struttura dei più comuni idrocarburi alchilici, alchenilici e arilici

Etani clorurati Cl

C CCl

HCl

HH

1,1,2-TCA

Metani clorurati

Eteni clorurati

Benzeni clorurati

A2.2 Produzione, impieghi industriali ed emissioni di idrocarburi clorurati alifatici

Gli idrocarburi alogenati alifatici (alchilici ed alchenilici) sono principalmente utilizzati come sgrassanti, solventi di processo e intermedi chimici, in vari settori industriali. In Tabella

HC CCl

ClCl

HH

1,1,1-TCACl

C CCl

HH

HH

1,2-DCA

HC CCl

HCl

HH

1,1,-DCA

HH Cl

HClorometano

ClCl Cl

HCloroformio

C CCl

Cl

Cl

Cl

PCE

C CCl

H

Cl

Cl

TCE

C CCl

H

Cl

H

1,2-DCE

C CH

H

Cl

H

VC

ClH

HH

H

H

Clorobenzene

ClCl

ClCl

Cl

Cl

Esaclorobenzene

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A2.3 sono riportati i principali utilizzi industriali di alcuni tra i più comuni solventi clorurati. La produzione industriale di tali composti è aumentata in maniera consistente nell’ultimo secolo, raggiungendo un picco negli anni 60’.

In Tabella A2.4 sono riportate le produzioni industriali dei principali solventi clorurati negli USA, in Europa e nel mondo (Field and Sierra-Alvarez, 2004). A seguito di pratiche di impiego, utilizzo e smaltimento improprie, tali composti sono divenuti ubiquitari inquinanti di suoli, acque superficiali ed acque sotterranee. A titolo di esempio, si riporta che i solventi clorurati comprendono più del 50% degli inquinanti riscontrati nei pozzi delle aree industriali del milanese nel 1993 (Funari et al, 1992). Addirittura in termini di concentrazione, essi sono responsabili di circa il 90 % dell’inquinamento di tali falde.

Tabella A2.3 – Usi industriali dei principali solventi clorurati

Solvente clorurato Principale uso industriale 1,2-DCA Produzione del cloruro di vinile, PVC, solvente Cloruro di vinile (VC) Produzione del PVC, produzione di altri solventi clorurati Clorometano Produzione di siliconi Triclorometano Solvente, produzione di HCFC-22 1,1,1-tricloroetano Solvente, lavaggio a secco Tetraclorometano Solvente, produzione di CFC Tetracloroetene Solvente, lavaggio a secco Tricloroetilene Solvente, lavaggio a secco, sgrassaggio metalli

Tabella A2.4 – Produzione industriale di solventi clorurati negli USA, Europa e nel mondo

Produzione mondiale Produzione U.S. Produzione Europea t y-1 Anno t y-1 Anno t y-1 Anno

Clorometani CM 530,000 1983 390,000 1992 164,000 1998 DCM 515,000 1983 183,200 1994 291,000 1998 CF 325,000 1983 254,000 1994 300,000 1998 CT 575,000 1983 143,000 1991 48,000 1998

Cloroetani 1,2-DCA 15,868,000 2002 9,328,000 2002 1,1,1-TCA 600,000 1984 364,800 1990 40,000 1998 1,1,2-TCA 200,000-

220,000 1984 170,00 1984

Cloroeteni 1,1-DCE 150,000-

200,000 1986 104,500 1989 12,000 1998

VC 13,600,000 1985 6,000,000 1992 5,533,000 1998

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Produzione mondiale Produzione U.S. Produzione Europea t y-1 Anno t y-1 Anno t y-1 Anno TCE 390,000 1984 110,000 1984 123,000 1998 PCE 650,000 1993 123,000 1993 122,000 1998 Acido cloroacetico 290,000 1983

Epicloridrine 3-Cloropropene 800,000 1997 211,000 1998 Cloro-1,3-butadiene 648,000 1983

Clorofluorocarburi CFC-12 425,000 1987 CFC-11 382,000 1987 HCFC-22 243,000 1987 CFC-113 251,000 1987 78,000 1995 HCFC 141b 113,000 1995 HCFC 142b 38,000 1995

CM=clorometano; DCM=diclorometano; CF=cloroformio; CT=tetracloruro di carbonio; 1,2-DCA=dicloroetano; TCA =tricloroetano; 1,1-DCE=1,1-dicloroetene; VC=vinil cloruro; TCE=tricloroetilene;

PCE=perclorocloroetilene; CFC-12=diclorodifluorometano; CFC-11=triclorofluorometano; HCFC-22= clorodifluorometano;CFC-113=1,2,2triclorotrifluoroetano; HCFC 141b=1,1-dicloro,1-fluoroetano; HCFC

142b= 1,1-dicloro-1-fluoroetano

Fonte: tratta da Field and Sierra-Alvarez, 2004

Negli Stati Uniti ed in Canada si accertò già venti anni fa che il 22 % di 466 pozzi di acqua

potabile risultavano inquinati da miscele di composti organo-alogenati (Vogel, 1994). In Tabella A2.5 sono riportate le emissioni industriali di solventi clorurati negli USA, Europa e nel mondo (Field and Sierra-Alvarez, 2004).

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Tabella A2.5 – Emissioni industriali di solventi clorurati negli USA, Europa e nel mondo

Emissione industriale mondiale

Emissione U.S. Emissione Europea di 80 industrie nel 1997

t y-1 Anno Aria t y-1 Acqua t y-1

Anno Aria t y-1

Acqua t y-1

Clorometani CM 10,000 1990 2,030 4.8 1996 DCM 584,000 1990 18,360 177.6 1998 810 3.4 CF 73,000 1999 6,070 151 1993 430 16.2

CT 90,00 1978-1985 130 51.8 2001 97 3.8 100,000 1990 Cloroetani 1,2-DCA 250 0.4 1999 3,460 23.8

1,1,1-TCA 679,000 1989 52,270 10.6 1992 0.2 0.6 1,1,2-TCA 10,000-

20,000 1979 164 2.2

Cloroeteni 1,1-DCE VC 130 0.4 1991 TCE 181,800 1982 460 0.1 1993 2,470 4.7

PCE 241,400 1990 13,730 2.5 1993 Clorofluorocarburi 366,200 1990 4,870 4.6 1993 230 2.9 CFC-12 550,000 1990 CFC-11 440,000 1990 HCFC-22 170,000 1990

CFC-113 200,000 1990

CM=clorometano; DCM=diclorometano; CF=cloroformio; CT=tetracloruro di carbonio; 1,2-DCA=dicloroetano; TCA =tricloroetano; 1,1-DCE=1,1-dicloroetene; VC=vinil cloruro; TCE=tricloroetilene;

PCE=perclorocloroetilene; CFC-12=diclorodifluorometano; CFC-11=triclorofluorometano; HCFC-22= clorodifluorometano; CFC-113=1,2,2triclorotrifluoroetano

Fonte: tratta da Field and Sierra-Alvarez, 2004

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A2.3 Caratteristiche chimico-fisiche

Il destino dei solventi clorurati nell’ambiente, così come degli inquinanti in genere, è

fortemente dipendente dalle peculiari caratteristiche chimico-fisiche di tali composti (Tabella A2.6).

Alcune caratteristiche peculiari di tali sostanze sono la densità nettamente maggiore di quella dell’acqua, la limitata solubilità in acqua, nonché una elevata volatilità. Come sarà meglio descritto in seguito, nel suolo e sottosuolo sono spesso presenti come DNAPL; formano cioè una fase liquida non acquosa più densa dell’acqua e tendono quindi, per gravità, a migrare verso gli strati profondi fino a quando non trovano una zona impermeabile sulla quale si stratificano.

Inoltre la volatilità elevata (sono considerati VOC, Volatile Organic Compounds) fa si che tali sostanze nella zona insatura del suolo, tendano a ripartirsi favorevolmente negli interstizi occupati dalla fase gassosa. La loro significativa solubilità ed i bassi valori del Koc li rendono inoltre sufficientemente mobili all’interno delle falde acquifere.

Tabella A2.6 – Caratteristiche chimico-fisiche dei solventi clorurati

Peso Molecolare (g/mol) (MW)

Densitàa (g/mL) (ρ)

Solubilitàa

(mg/L) (S)

Tensione di Vapore (atm) (VP)

Costante di Henryb (adimensionale) (H’)

Costante di Henryb (atm-m3/mol) (HLC)

Kocb

(L/kg)

Vinil cloruro 62.5 0.9160 2.76E+03 1.19E+00 1.11+00 2.70E-02 1.86E+01 Dicloro metano

85 1.3266 1.30E+04 3.35E-01 8.98E-02 2.19E-03 1.17E+01

trans-1,2-Dicloro etilene

96.9 1.2565 6.30E+03 6.10E-01 3.85E-01 9.38E-03 5.25E+01

cis-1,2-Dicloro etilene

96.9 1.2837 3.50E+03 1.47E-01 1.67E-01 4.08E-03 3.55E+01

1,1-Dicloro etilene

96.9 1.213 2.25E+03 6.06E-01 1.07+00 2.61E-02 5.89E+01

1,1-Dicloro etano

99 1.1757 5.06E+03 2.87E-01 2.30E-01 5.62E-03 3.16E-01

1,2-Dicloro etano

99 1.2454 8.52E+03 8.42E-02 4.01E-02 9.79E-04 1.74E+01

Cloroformio 119.4 1.4832 7.92E+03 2.43E-01 1.50E-01 3.67E-03 3.98E+01 Tricloro etilene

131.4 1.4642 1.10E+03 8.62E-02 4.22E-01 1.03E-02 1.66E+02

1,1,2-Tricloro etano

133.4 1.4397 4.42E+03 3.02E-02 3.74E-02 9.13E-04 5.01E+01

1,1,1-Tricloro etano

133.4 1.3390 1.33E+03 1.71E-01 7.05E-01 1.72E-02 1.10E+02

Tetracloruro di Carbonio

133.4 1.5940 7.93E+02 1.56E-01 1.25E+00 3.04E-02 1.74E+02

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Peso Molecolare (g/mol) (MW)

Densitàa (g/mL) (ρ)

Solubilitàa

(mg/L) (S)

Tensione di Vapore (atm) (VP)

Costante di Henryb (adimensionale) (H’)

Costante di Henryb (atm-m3/mol) (HLC)

Kocb

(L/kg)

Tetracloro etilene

165.8 1.6227 2.00E+02 2.22E-02 7.54E-01 1.84E-02 1.55E+02

a=CRC(2001); b=U.S. EPA Soil Screening Guidance (1996)

A2.4 Valori limite di concentrazione

Alcuni dei composti organo-clorurati pongono in serio pericolo la salute dell’uomo, da cui

derivano i limiti di concentrazione massima ammissibile (CMA), per le acque destinate ai consumi umani, fissati dai maggiori paesi industrializzati del mondo. Già nel 1982 la CEE compilò una lista di 129 sostanze potenzialmente nocive per l’ambiente acquatico e la salute dell’uomo. Tra queste ben 118 sono composti organo-alogenati (Berbenni et al., 1993).

In Italia, la presenza di composti organo-clorurati nei suoli e nelle acque (sotterranee o superficiali), nonché i valori limite accettabili negli scarichi, è regolamentata dal D.Lgs. N°152 del 03/04/2006 (di seguito indicato 152/2006) che ha unificato e sostituito la precedente normativa (essenzialmente D.Lgs 152 del 11/5/99 e s.m.i. e D.M. 471 del 25/10/99).

Per quanto riguarda la presenza di composti clorurati nelle acque superficiali, la Tabella 1/A dell’Allegato 1 della parte III del D.Lgs. 152/2006 fissa gli standard di qualità da conseguire in corpi idrici significativi entro il dicembre 2008 (si veda la successiva Tabella A2.8).

La Tabella 3 dell’Allegato 5, sempre della parte III del D.Lgs 152/2006 fissa a 1 mg/l e a 2 mg/l (come sommatoria) i valori limite di concentrazione di solventi clorurati per scarichi rispettivamente o in acque superficiali e in rete fognaria. Tali valori possono essere resi più restrittivi dalla Regione di competenza, sulla base dei piani di tutela delle acque, tenendo conto dei su menzionati obiettivi di qualità. Inoltre, i composti clorurati rientrano tra le sostanze pericolose (elencate in Tabella 5 del citato allegato 5, parametro 15), per i quali i limiti regionali non possono essere meno restrittivi di quelli nazionali.

In Italia la legislazione vigente riguardo la presenza di composti organo-alogenati nelle acque e nei suoli è regolamentata dal D.Lgs. n°30 del 16/03/2009. La tabella 1 dell’allegato 5 del D.Lgs n°152 del 3 Aprile del 2006 riportai valori limite accettabili per i solventi clorurati alifatici (cancerogeni e non) nei suoli (in relazione alla destinazione d’uso) e nelle acque sotterranee. La tabella 3 dell’allegato 3 del D.Lgs. n°30/2009 riporta invece i valori di concentrazione di soglia dei solventi clorurati nelle acque sotterranee (rispettivamente Tabella A2.7 e Tabella A2.8).

Rispetto ai corrispondenti obiettivi di qualità per le acque superficiali, le Tabelle suddette presentano una lista più estesa di composti clorurati. Ove è possibile fare un confronto, i valori accettabili in acque sotterranee sono generalmente simili agli obiettivi di qualità in acque superficiali o leggermente più bassi (ad es. per il tricoloroetilene 1.5 contro 10 µg/L).

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e di caratterizzazione dei siti contaminati

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Infine è evidente la grande differenza tra il valore massimo accettabile in acque sotterranee per la sommatoria di composti organo alogenati cancerogeni (10 µg/L) ed i limiti per scarichi di acque industriali (rispettivamente 1 o 2 mg/l. citata Tabella 3 dell’allegato 5 alla parte III del D.Lgs. 152/2006). In base all’art. 243 della parte IV del D.Lgs. 152/2006, le acque sotterranee dovrebbero soltanto conformarsi a tali limiti, in caso che, nell’ambito di un intervento di bonifica, esse fossero emunte e smaltite in acque superficiali o fognatura, anche senza preventivo trattamento. In considerazione della recente entrata in vigore del D.Lgs 152/2006 è lecito auspicare che le Regioni intervengano a ritoccare in basso i limiti suddetti per evitare che dal risanamento di acque sotterranee possa derivare un incremento significativo dell’impatto sui corpi idrici superficiali (e quindi un rallentamento del conseguimento degli obiettivi di qualità.

Per quanto riguarda gli obiettivi di bonifica per le acque sotterranee, con la recente modifica (D.Lgs. 04/2008) dell’Allegato 1 che riporta criteri per l’analisi di rischio, si è introdotto il principio che a valle idrogeologico del confine del sito (stabilito come punto di conformità) la concentrazione di contaminanti delle acque sia comunque uguale o inferiore alle CSC (Tabella 2; Allegato 5, parte IV, D.Lgs. 152/2006), a meno di diversa e motivata determinazione delle Autorità competenti (es. corpi idrici fortemente modificati, valori di fondo naturale, obiettivi di qualità differenti).

Tabella A2.7 – Valori di concentrazione limite accettabili nel suolo e sottosuolo in riferimento alla

specifica destinazione d’uso

Sostanza A B

Siti ad uso Verde pubblico, privato e residenziale (mg/Kg

espressi come ss)

Siti ad uso Commerciale e Industriale (mg/Kg espressi come ss)

ALIFATICI CLORURATI CANCEROGENI

39 Clorometano 0.1 5

40 Diclorometano 0.1 5

41 Triclorometano 0.1 5

42 Cloruro di Vinile 0.01 0.1

43 1,2-Dicloroetano 0.2 5

44 1,1-Dicloroetilene 0.1 1

45 Tricloroetilene 1 10

46 Tetracloroetilene 0.5 20

ALIFATICI CLORURATI NON CANCEROGENI

47 1,1-Dicloroetano 0.5 30

48 1,2-Dicloroetilene 0.3 15

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49 1,1,1-Tricloroetano 0.5 50

50 1,2-Dicloropropano 0.3 5

51 1,1,2-Tricloroetano 0.5 15

52 1,2,3-Tricloropropano 1 10

53 1,1,2,2-Tetracloroetano 0.5 10

Fonte: D. Lgs. 152/2006, Parte IV, Allegato 5, Tab. 1

Tabella A2.8 – Valori di concentrazione limite accettabile in acque sotterranee e criteri di qualità in acque superficiali

Acque sotterranee Valore limite (μg/L)

Acque superficiali Obiettivo di qualità (μg/L)

ALIFATICI CLORURATI CANCEROGENI1

Clorometano 1.5

Diclorometano 20

Triclorometano 0.15 12

Tetraclorometano 12

Cloruro di Vinile 0.5 0.5

1,2-Dicloroetano 3 10

1,1-Dicloroetilene 0.05

Tricloroetilene 1.5 10

Tetracloroetilene 1.1 10

Esaclorobutadiene 0.15 0.1

Sommatoria organoalogenati 10

ALIFATICI CLORURATI NON CANCEROGENI*

1,1-Dicloroetano 810

1,2-Dicloroetilene 60

1,2-Dicloropropano 0.15

1,1,2-Tricloroetano 0.2

1,2,3-Tricloropropano 0.001

1,1,2,2-Tetracloroetano 0.05

Fonte: D. Lgs. 152/2006, Parte IV, Allegato 5, Tab. 2 e Parte III, Allegato 1, Tab. 1/A

1 La classificazione si riferisce alla Tabella 2, Allegato 5, Parte IV del D.Lgs 152/2006

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e di caratterizzazione dei siti contaminati

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A2.5 Chimica delle reazioni dei composti organo-alogenati

L’inquinamento da composti organo-alogenati è un problema riscontrato ormai da decenni, ma soltanto negli ultimi anni esso è stato posto sotto attento controllo internazionale. Solo ora si cominciano a chiarire i meccanismi di inquinamento di questi composti tramite lo studio della loro reattività chimica e biologica. Per fare ciò gli studi sono stati allargati alla loro volatilizzazione nell’atmosfera, all’adsorbimento nei suoli, alla bioaccumulazione in organismi acquatici e terrestri e alla solubilizzazione nelle falde acquifere.

I prodotti delle reazioni dei composti organo alogenati portano in genere un numero minore di sostituenti alogeni, talvolta sono anche ossigenati, e possono essere anche più tossici rispetto al composto di partenza. In molti siti contaminati si possono ritrovare infatti molti prodotti di tali reazioni svolte biologicamente o abioticamente nell’ambiente naturale. Tale complessità e varietà emerge chiaramente anche negli esperimenti di laboratorio dai quali è stato possibile definire le singole reazioni elementari alle quali partecipano i composti organo-alogenati, riportate in Tabella A2.9.

Tabella A2.9 – Reazioni biologiche ed abiotiche degli idrocarburi alogenati alifatici

Reazione Esempio

1. SOSTITUZIONE

a) Solvolisi, idrolisi CH3CH2Br+H2O ↔ CH3CH2OH+HBr

b) Sostituzione nucleofila CH3CH2Br+HS- ↔ CH3CH2SH+Br-

2. DEIDROALOGENAZIONE CCl3CH3 ↔ CCl2CH2+HCl

3. OSSIDAZIONE

a) α-Idrossilazione CH3CHCl2+H2O ↔ CH3CCl2OH+2H++2e-

b) Alosil Ossidazione CH3CHCl2+H2O ↔ CH3CHClCl+O-+2H++2e-

c) Epossidazione CHClCCl2+H2O ↔ CHClOCCl2+2H++2e-

d) Bioalogenazione (alcheni) CH2CH2+Cl-+H2O ↔ CH2OHCH2Cl+H++2e-

4. RIDUZIONE

a) Idrogenolisi CCl4+H++2e- ↔ CHCl3+Cl-

b) Dialo-Eliminazione CCl3CCl3+2e- ↔ CCl2CCl2+2Cl-

c) Accoppiamento 2CCl4+2e- ↔ CCl3CCl3+2Cl-

Fonte: Vogel et al., 1987

A2.5.1 Reazioni di sostituzione

I composti organo-alogenati subiscono delle reazioni di sostituzione e deidroalogenazione in acqua ed in assenza di catalizzatori inorganici o biochimici (reazioni 1 e 2 di Tabella A2.9). In genere tali reazioni sono molto lente con tempi di dimezzamento dell’ordine di anni o secoli. La velocità di tali reazioni può essere di molto aumentata in presenza di enzimi biologici quali le Idrolasi o la Glutadione-S-transferasi (Vogel et al., 1987).

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L’idrolisi degli idrocarburi alogenati alifatici porta alla iniziale formazione di alcoli i quali, se presentano ancora sostituenti alogeni, possono dar vita ad acidi o dioli a seguito di un’altra reazione d’idrolisi.

In genere le reazioni di sostituzione avvengono con meccanismo bimolecolare (SN2) e con cinetiche del primo ordine quando l’acqua costituisce il nucleofilo dominante. Inoltre, come tutte le reazioni di idrolisi, esse sono facilitate a pH nettamente alcalini e a forza ionica elevata, ovvero quando abbonda il nucleofilo sostituente e si stabilizza lo stato di transizione, a carattere ionico, della reazione.

Anche lo ione solfuro reagisce con i composti organo-alogenati alifatici per produrre mercaptani via sostituzione nucleofila (reazione 1b di Tabella A2.9).

Termodinamicamente, il gruppo sulfidrile (-SH) è più reattivo del gruppo ossidrile (-OH) nelle reazioni di sostituzione nucleofila, anche se normalmente la sua concentrazione non è sufficientemente elevata da rendere dominante la sostituzione sulfidrilica.

A2.5.2 Reazioni di deidroalogenazione

Gli idrocarburi alogenati in acqua danno luogo a reazioni di eliminazione con conseguente produzione di alcheni (reazione 2 di Tabella A2.9). Queste reazioni consistono nella rimozione dell’alogenuro dal carbonio, mentre il carbonio adiacente perde un protone. Le due eliminazioni possono avvenire simultaneamente (eliminazione bimolecolare E2) oppure susseguentemente (eliminazione monomolecolare con intermedio cationico E1).

La deidroalogenazione non è una reazione molto veloce nelle normali condizioni ambientali (circa pH 7) e per composti polialogenati è fortemente influenzata dalla natura e dalla distribuzione spaziale dei sostituenti stessi. La velocità di tale reazione è inversamente proporzionale alla elettronegatività dei sostituenti alogeni e quindi anche inversamente proporzionale alla densità di carica sullo ione alogenuro uscente. Gli alcani dicloro vicinali sono praticamente non reattivi, al contrario dei dibromo omologhi (Vogel et al., 1987).

A2.5.3 Reazioni di ossidazione e riduzione

Normalmente i composti organici vengono ossidati espletando il compito di donatori di elettroni.

Gli idrocarburi alogenati alifatici, invece, a causa dell’elettronegatività dei loro sostituenti, spesso si comportano come accettori di elettroni e vengono quindi ridotti.

La natura dell’alogeno, la stereochimica molecolare e le condizioni di reazione determinano di volta in volta il comportamento redox del composto organo-alogenato.

In linea generale, maggiore è il numero di sostituenti alogeni presenti su una determinata molecola, maggiore è il suo stato di ossidazione, e quindi maggiore risulta la facilità con la quale viene ridotta (Vogel, 1994).

L’ossidazione degli idrocarburi alogenati alifatici è stata studiata essenzialmente su cellule di mammifero, quali ratti, topi o esseri umani. In tali studi si è riconosciuta la primaria importanza ricoperta da alcune monoossigenasi contenenti il citocromo P450, una emo-proteina che può

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catalizzare sia le reazioni di ossidazione che quelle di riduzione dei composti organi-alogenati (Vogel et al., 1987).

I meccanismi di ossidazione studiati sono mediati dal citocromo P450 e prevedono l’incorporazione di un atomo di ossigeno nel legame carbonio-idrogeno (α-idrossilazione, reazione 3a di Tabella A2.9), l’ossidazione del sostituente alogeno (aloil ossidazione, reazione 3b di Tabella A2.9), oppure l’ossidazione del doppio legame carbonio-carbonio alchenico (epossidazione, reazione 3c di Tabella A2.9) (Vogel et al., 1987).

La reazione di bioalogenazione avviene grazie all’attività delle aloperossidasi sugli alcheni (reazione 3d di Tabella A2.9) ed è stata riscontrata in organismi quali batteri, funghi, alghe, piante ed animali (Vogel et al., 1987).

La riduzione degli idrocarburi alogenati alifatici avviene in concomitanza all’ossidazione di complessi di alcuni metalli di transizione quali il cobalto, il cromo, il ferro ed il nichel (Vogel et al., 1987). Tali metalli costituiscono, inoltre, il sito catalitico di molti enzimi biologici, per cui, lo studio dei meccanismi di reazione operante nei complessi inorganici, apporta nuove conoscenze anche sui meccanismi di riduzione ad opera degli organismi viventi. In particolare è stata sperimentata la capacità del citocromo P450, costituito da un gruppo prostetico Ferro-porfirinico, oltre che di diverse emo-proteine, di catalizzare la dealogenazione riduttiva di diversi composti alo-metanici ed etenici in vitro (Holliger e Schraa, 1994). Anche le cobalammine, specialmente nella forma della vitamina B12, sono in grado di esaltare la velocità della declorazione riduttiva del PCE in colture miste (Maymò-Gatell et al., 1995). In vitro la vitamina B12 catalizza la idrogenolisi e la dialoeliminazione sull’1,2-dicloroetano, sul tetraclorometano e su diversi cloro-eteni (Mohn e Tiedje, 1992, Holliger e Schraa, 1994).

Un altro corrinoide nichel costituito, il fattore F430, ha mostrato capacità decloranti sull’1,2-dicloroetano in vitro; questa evidenza sperimentale è di fondamentale importanza in quanto stabilisce un preciso coinvolgimento dei batteri metanigeni nel processo di declorazione riduttiva. Il fattore F430 è, infatti, caratteristico di quest’ultimi batteri in quanto costituisce il cofattore della metil-coenzima M-reduttasi che catalizza lo stadio finale della biosintesi del metano (Holliger et al., 1992).

Lo stato di transizione comune a tutte le reazioni di riduzione qui considerate è un radicale alchilico, la cui formazione, tramite l’ossidazione del metallo di transizione e la successiva rimozione di uno ione-alogenuro, è il primo stadio, generalmente controllante, della riduzione dei composti organo-alogenati alifatici. La formazione del radicale alchilico è, quindi, governata da due fattori distinti: il trasferimento degli elettroni dalla forma ridotta del metallo di transizione al composto organo-alogenato alifatico, che ha come forza motrice la differenza tra i rispettivi potenziali standard di riduzione; l’eliminazione dell’alogenuro la cui forza motrice è governata dall’energia del legame carbonio-alogeno.

Più negativo è il potenziale standard di riduzione del composto organo-alogenato e minore la

sua entalpia di formazione, direttamente proporzionale alla forza del legame carbonio-alogeno,

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tanto più veloce risulterà essere la formazione dell’intermedio radicalico e, quindi, la reazione di riduzione nel suo complesso (Vogel et al., 1987).

L’addizione di un atomo di idrogeno (H+ + e-) al radicale porta alla reazione di idrogenolisi, detta dealogenazione riduttiva quando svolta da sistemi biologici (reazione 4a di Tabella A2.9).

La perdita di un altro atomo di alogeno, da un carbonio adiacente a quello radicalico, porta invece alla formazione di un alchene con ben due atomi di alogeno in meno. La reazione è definita, nel suo complesso, dialo-eliminazione (reazione 4b di Tabella A2.9).

Un altro decorso dell’intermedio radicalico è la sua dimerizzazione o accoppiamento (reazione 4c di Tabella A2.9).

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e di caratterizzazione dei siti contaminati

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Meccanismi di trasporto e dinamica del DNAPL negli acquiferi contaminati

Il trasporto dei contaminanti attraverso il suolo fino alle falde è un processo molto complesso e fortemente dipendente dalle caratteristiche idrogeologiche del sito interessato, che comunque può essere descritto attraverso la coesistenza di diversi meccanismi: Convezione: trasporto di composti solubili sotto l’azione di un gradiente di potenziale idraulico. Dispersione: variazione di concentrazione dovute a differenti velocità di flusso nel mezzo poroso. Adsorbimento: ripartizione di un composto tra la fase mobile acquosa e la fase solida fissa. Trasporto di sostanze immiscibili: movimento di composti insolubili come fase separata da quella acquosa in movimento. Diffusione: migrazione di molecole di soluto all’interno di pori o matrici solide sotto l’azione di un gradiente di concentrazione.

Nel caso dei DNAPLs lo scenario della contaminazione risulta particolarmente complesso se si considerano le peculiari caratteristiche chimico-fisiche che ne determinano il moto ed i processi di trasferimento di massa.

I DNAPLs, infatti, una volta rilasciati nel sottosuolo penetrano nella matrice in fase distinta e migrano formando un corpo di contaminazione separato che interagisce con le fasi naturalmente presenti e dotate di mobilità. Il contaminante, quindi, può venire in contatto sia con la fase acquosa, nella quale può disciogliersi seppure in piccolissima quantità, sia con la fase gassosa, volatilizzando, sia con la matrice solida, rimanendo adsorbito: in tutti i casi si viene a formare un insieme che è veicolato nel suolo a seconda delle caratteristiche che determinano la mobilità complessiva, dipendenti dalla natura del fluido e del mezzo attraversato (Figura A2.1).

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Figura A2.1 - Equilibrio fra il DNAPL e le fasi del sistema acquifero

Per questi motivi al fine di descrivere il comportamento dei DNAPLs nel suolo è necessario

distinguere i processi di migrazione relativi alla fase miscibile, alla fase gassosa e quelli riguardanti la fase immiscibile, o fase separata.

A2.6 Trasporto della fase miscibile

Il corpo della contaminazione in fase non miscibile ha dei limiti che vengono investiti dal flusso idrico sotterraneo, che risulta rallentato, e sono quindi maggiormente interessati dai processi di dissoluzione in fase acquosa.

Se la velocità di infiltrazione è bassa viene rapidamente raggiunto il valore di solubilità massima in acqua in corrispondenza del limiti del pennacchio: la densità di questa soluzione acquosa risulta leggermente superiore a quella delle acque sotterranee ma non tale da determinarne l’approfondimento. Per questi motivi il movimento della massa risultante può quindi essere descritto tramite la teoria della dispersione idrodinamica: in una sezione ortogonale al flusso, noti i parametri idrogeologici e dispersivi dell’acquifero si può calcolare la distribuzione delle concentrazioni e la forma assunta dal pennacchio inquinante, che però è fortemente influenzata dall’eterogeneità degli acquiferi multistrato e dei mezzi fessurati, dove assume una forma diversa e più estesa.

È necessario quindi conoscere il valore della solubilità e della concentrazione di saturazione dei singoli costituenti dei comuni prodotti commerciali, ai quali poi vengono aggiunti stabilizzanti, coloranti e additivi che ne modificano le proprietà, da cui dipende la mobilità nell’acquifero.

A2.7 Trasporto della fase gassosa

Molti dei DNAPLs sono costituiti da componenti volatili che si disperdono in fase gassosa attraversando la porzione insatura del suolo con velocità maggiore rispetto al fronte d’umidità:

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e di caratterizzazione dei siti contaminati

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analogamente alla frazione disciolta che passa in soluzione attraverso i limiti del corpo della contaminazione in fase separata, la nube di gas si sviluppa nelle zone adiacenti a questa massa. La contaminazione in fase gassosa è caratterizzata da una densità tale da favorire il moto di discesa verticale, che può arrestarsi in corrispondenza del raggiungimento della frangia capillare.

La volatilizzazione è quindi un processo che se da una parte estende la contaminazione alla fase gassosa presente nel suolo, dall’altra favorisce l’eliminazione di tale nube, che viene rilasciata all’aria aperta, riducendo le concentrazioni di inquinanti nel suolo e nelle acque sotterranee.

La contaminazione presente nel terreno in fase gassosa può venire a contatto con le acque di infiltrazione che, una volta inquinate, possono raggiungere la falda più o meno velocemente a seconda delle eterogeneità stratigrafiche dell’acquifero; la diffusione dei componenti gassosi al di fuori del pennacchio principale può avvenire sia nello spessore saturo che in quello insaturo. Il percorso seguito dal pennacchio disciolto può essere determinato tramite indagini che mirano alla determinazione dei gas in tracce.

A2.8 Trasporto della fase immiscibile

La migrazione dei DNAPLs nel sottosuolo come fase separata è influenzata principalmente (Feenstra and Cherry, 1988) da alcune caratteristiche del DNAPL e del mezzo, ovvero:

volume di DNAPL rilasciato; estensione della superficie d’infiltrazione; durata del periodo di rilascio; proprietà caratteristiche del DNAPL (densità viscosità, tensione interfacciale); proprietà del mezzo attraversato (granulometria, permeabilità, stratigrafia e presenza di lenti a bassa permeabilità, fratture ed eterogeneità); condizioni specifiche del flusso della falda.

Appena rilasciati, i DNAPLs migrano verso il basso in direzione prevalentemente verticale

per effetto delle forze di gravità, attraversando la zona insatura come fase liquida distinta; oltre al moto principale si ha una migrazione laterale per effetto delle forze di capillarità (Schwille,1988), che dipende anche da caratteristiche di variabilità spaziale del mezzo come l’esistenza di stratificazioni. Parte del DNAPL, per effetto della tensione superficiale che si instaura con la matrice solida, non riesce a procedere nella migrazione, rimanendo intrappolato nei pori del suolo e formando una fase residua separata, detta ‘residual DNAPL” o saturazione residua. Inoltre, nella zona non satura il DNAPL può volatilizzare e formare una fase vapore che estende ulteriormente i confini della contaminazione.

Se il volume rilasciato è sufficientemente ampio, i DNAPLs raggiungono la superficie piezometrica e spingono l’acqua verso il basso, sostituendosi ad essa nei pori della zona satura, dove possono continuare a migrare verso il basso sotto l’azione delle forze di pressione e di

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gravità. Percorsi preferenziali sono offerti da vari tipi di discontinuità del mezzo attraversato quali strati a maggiore permeabilità, fratture e altri percorsi che presentino bassa resistenza capillare rispetto agli strati sottostanti a minore permeabilità.

I DNAPLs possono continuare a migrare in profondità finché intercettano uno strato che ha l’effetto di una barriera, arrestando il moto verticale, e sopra il quale può continuare a muoversi per capillarità. Analogamente a quanto avviene nella zona non satura, anche nella porzione satura il DNAPL può essere trattenuto nello spazio dei pori in forma ‘residual’, fornendo così una sorgente di contaminazione per le acque di falda la cui entità risulta tanto maggiore quanto più alta è la solubilità dei composti organici; le acque di pioggia che si infiltrano nella zona insatura del suolo portano in soluzione i vapori di DNAPL presenti e li trasportano nella zona satura.

A2.9 Modelli concettuali della dinamica del DNAPLs negli acquiferi

Anche se le proprietà chimico fisiche dei vari contaminanti classificabili come DNAPLs e le condizioni dei siti interessati dalla contaminazione variano, i processi fisici e le leggi che governano il destino ed il trasporto di tali contaminanti, sono le stesse. È dunque possibile ricostruire una serie di modelli concettuali per descrivere le caratteristiche generali della dinamica di tali contaminanti nel suolo e nelle falde.

A2.9.1 Migrazione dei DNAPLs nella zona non satura

Quando un DNAPL è rilasciato, fluisce verso il basso attraversando la zona insatura: questo flusso è controllato dalla variazione di grandezze fisico-chimiche derivanti dalle interazioni tra il DNAPL e i gas presenti nel suolo, il contenuto di umidità e la matrice solida, ed è dovuto principalmente alle forze di gravità e alle differenze di pressione.

Alcuni tipi di DNAPLs possono essere trattenuti nello spazio libero dei pori della zona insatura, formando un film sottile che ricopre i grani della matrice se si tratta di fluidi bagnabili, oppure un insieme discontinuo nello spazio dei pori: queste forme di DNAPLs sono immobili, in quanto trattenute dalle forze capillari, che determinano la distribuzione finale ai valori di saturazione residua, compresi tra il 2 e il 20% della porosità.

Le acque di infiltrazione e le fluttuazioni della superficie piezometrica possono rimobilizzarli, trasportandoli verso la falda. Il movimento della fase libera dipende dall’ampiezza disponibile dei pori. In alcuni casi, l’acqua è fortemente coesa attorno ai grani del suolo, e difficilmente può essere spostata dall’arrivo del DNAPL, che dovrebbe avere una pressione elevata e comunque non caratteristica del moto naturale di infiltrazione; per questi motivi il DNAPL presenta un percorso preferenziale attraverso gli spazi vuoti più ampi.

La capacità dei DNAPLs di penetrare all’interno dei pori capillari dipende dalle tensioni interfacciali che si instaurano tra il DNAPL e gli altri fluidi (aria, acqua e altri DNAPLs presenti) e che risultano direttamente proporzionali alla pressione d’entrata, definita come il

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e di caratterizzazione dei siti contaminati

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valore di pressione capillare a cui il fluido diviene continuo a scala macroscopica potendo, quindi, attraversare il mezzo, ed è inversamente proporzionale all’apertura tra i grani.

A2.9.2 Migrazione dei DNAPLs nella frangia capillare

Poiché i DNAPLs sono idrofobici, la tensione interfacciale che si stabilisce con l’acqua può essere rilevante, tanto che, prima di raggiungere la superficie piezometrica, può ostacolare il movimento attraverso la frangia capillare e la penetrazione nella zona satura.

I DNAPLs attraversano la frangia capillare o in forma disciolta o in fase pura: se si trovano in forma disciolta possono raggiungere più facilmente le acque di falda sottostanti, unendosi ad esse, mentre se migrano in fase pura il moto verticale si arresta quando i gradienti di densità e di pressione non sono sufficienti alla penetrazione della frangia, che si comporta come uno strato al sopra del quale i DNAPLs si espandono orizzontalmente.

Per poter proseguire il suo moto attraverso la frangia il DNAPL deve, infatti, avere l’energia necessaria a spostare l’acqua contenuta nei meati capillari. Se il raggio caratteristico delle dimensioni dei vuoti accessibili al moto nella frangia capillare, dal quale dipende il valore della pressione capillare tra il DNAPL e l’acqua, è tale da richiedere una pressione di attraversamento troppo elevata, il moto verticale del DNAPL si arresta.

Se, invece, il flusso verso il basso del DNAPL mobile non si arresta, si assiste alla formazione di una colonna di DNAPL continuo che rimane al di sopra della frangia capillare: quando questa colonna raggiunge un’altezza tale da fornire al DNAPL un’ulteriore pressione per effetto del peso, si vengono a creare le condizioni per cui questa pressione supera il valore di pressione capillare dell’acqua, consentendo al DNAPL di rimpiazzare l’acqua dei pori e di penetrare quindi nella zona satura.

L’altezza di DNAPL richiesta per penetrare la frangia capillare è descritta dall’equazione di Hobson (Anderson,1988):

(eq. 1)

Dove: Zc= altezza di DNAPL necessaria per penetrare la frangia capillare; 2σ = tensione interfacciale DNAPL- acqua; cosΦ = angolo di contatto tra il fluido e la superficie solida del suolo; rt,r0 = raggi principali di curvatura dell’apertura dei meati; Δρ = ρD - ρw = differenza di densità DNAPL-acqua; g = accelerazione di gravità; Pc = pressione capillare

( ) ( )2 cos 1 1 c fine c grossac

t o

P PZ

g r r gσρ ρ

− Φ= − = ∆ ⋅ ∆ ⋅

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Questa relazione non è valida, tuttavia, per i suoli in cui i pori hanno dimensioni ridotte, come i limi e le argille, che agiscono come barriere di permeabilità alla migrazione del DNAPL attraverso la frangia capillare.

Per suoli caratterizzati da grani di forma approssimativamente sferica di diametro D e disposizione spaziale reciproca romboedrica, le dimensioni di apertura dei pori e dei meati capillari possono essere stimate dalle seguenti relazioni:

Le eterogeneità della matrice del suolo causate da piccole variazioni di porosità, permeabilità

e granulometria variano l’altezza della colonna necessaria a superare la tensione interfacciale con l’acqua nella parte superiore della frangia capillare.

A2.9.3 Migrazione dei DNAPLs nella zona satura

Il flusso del DNAPL nella zona satura può risultare complesso ed è influenzato dalla quantità di DNAPL presente e dalle sue principali proprietà fisico-chimiche (viscosità, bagnabilità, tensione interfacciale), per cui la sua composizione ha un peso più rilevante nella zona satura rispetto a quella insatura, in quanto le caratteristiche di bagnabilità hanno un effetto maggiore.

Se il volume di rilascio è sufficientemente ampio, il DNAPL sposta l’acqua contenuta nei pori e fluisce formando un insieme apparentemente continuo, ovvero lasciando solamente un sottile film di acqua attorno ai grani della matrice (in quanto l’acqua è tra i due fluidi il più bagnabile). Non appena il DNAPL penetra la zona satura e si forma un fronte di avanzamento, si ha, infatti, il drenaggio dell’acqua, che viene rimpiazzata dal DNAPL nello spazio dei pori. L’acqua può in seguito tornare ad occupare lo spazio dei pori spostando il DNAPL, che viene rimosso fino a lasciare una saturazione residua.

L’altezza di DNAPL richiesta per penetrare il mezzo saturo è descritta dalla relazione:

(eq. 2)

Dove: Zc = altezza di DNAPL necessaria per penetrare la zona satura; 2σ = tensione interfacciale DNAPL- acqua; cosΦ = angolo di contatto tra il fluido e la superficie solida del suolo; r= raggio principale di curvatura all’interfaccia DNAPL-acqua ρD -ρw= differenza di densità DNAPL-acqua.

0

0.0770.212

tr Dr D==

( )2 cos

D w

Zcrg

σρ ρ

Φ=

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e di caratterizzazione dei siti contaminati

177

Se i volumi rilasciati sono modesti, il flusso del DNAPL è maggiormente influenzato dalla tensione interfacciale con l’acqua in corrispondenza della superficie piezometrica.

Ne deriva che, in relazione all’entità del volume sversato, alle caratteristiche specifiche del DNAPL e della matrice solida, la tensione interfacciale impedisce al DNAPL di diffondersi in ogni direzione, forzandolo a muoversi seguendo dei percorsi preferenziali determinati da piccole discontinuità nella matrice.

La capacità di penetrazione dei DNAPLs all’interno di un acquifero in materiali sciolti (Figura A2.2) è, inoltre, funzione della eterogeneità del mezzo, rappresentata dall’esistenza di strati orizzontali o lenti a permeabilità ridotta.

Figura A2.2 - Dinamica di un DNAPL in un acquifero costituito da materiale sciolto

Infatti, la presenza di uno strato scarsamente permeabile può determinare l’arresto del moto

di avanzamento verticale del DNAPL a causa dell’istaurarsi di una condizione di equilibrio tra la forza di gravità e la pressione d’entrata.

Ne deriva che i DNAPLs non attraversano i depositi sciolti come un corpo uniforme, ma si snodano in una serie di percorsi multipli dai contorni anche molto tortuosi: spesso si indica questo insieme dicendo che il percorso seguito assume una forma dendritica, per la sua somiglianza con le radici di un albero.

Il tipo di percorso seguito dipende strettamente dalle strutture di stratificazione del mezzo attraversato, con lunghezze che variano dalla scala del millimetro fino al metro; nei mezzi in cui la stratificazione prevalente è di tipo orizzontale, bisogna aspettarsi che la contaminazione migri lateralmente in quantità anche notevoli, persino in direzione non coincidente con la direzione del flusso della falda. L’orientazione delle stratificazioni è il fattore principale che influenza la direzione della migrazione e determina la scelta di uno specifico percorso rispetto a un altro; inoltre, un lento rilascio per gocciolamento fa si che la contaminazione raggiunga profondità maggiori di quelle ottenute in caso di uno sversamento unico e istantaneo.

La definizione dell’estensione laterale della zona sorgente di DNAPL risulta quindi difficoltosa, in quanto non si ha la possibilità di delimitare il DNAPL in tutta la zona sorgente.

Lo scenario di migrazione si complica ulteriormente nel caso di successioni stratigrafiche a differente permeabilità ed in acquiferi fratturati. In questi casi si originano complessi percorsi preferenziali di migrazione dipendenti dalla distribuzione e dalle caratteristiche delle fratture del

Zona Vadosa

Plume della fase disciolta

“residual” DNAPLin zona satura

Flusso della falda

Infiltrazione del DNAPL

“residual” DNAPLin zona insatura

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178

mezzo. È questo il caso della maggior parte degli orizzonti argillosi, i quali si presentano spesso fratturati (Figura A2.3)

Nei sistemi a fessurazione reticolare, direzione e inclinazione delle fratture, che risultano maggiormente permeabili al passaggio dei DNAPLs, controllano la direzione principale del percorso di migrazione di questi composti

La parte residua discontinua e gli accumuli continui costituiscono al termine del rilascio zone sorgenti di contaminazione a lento e persistente rilascio. A causa della bassa solubilità in acqua di tali composti, la ripartizione fra fase separata e acqua di falda risulta controllata dalla cinetica di dissoluzione con persistenza per un lungo periodo della sorgente e conseguente generazione di un pennacchio di contaminazione a concentrazioni di ordini di grandezza superiori ai bassi valori di concentrazione massima ammissibile previsti dalla normativa vigente.

La formazione di DNAPL residuo avviene sia in un mezzo saturo che insaturo e in entrambi i casi viene trattenuto nella matrice solida dalle forze capillari, legate alla tensione superficiale che si instaura all’interfaccia tra DNAPL e acqua, e DNAPL e aria.

Il DNAPL residuo presente nella zona satura rimane trattenuto nel suolo e non viene mobilizzato nemmeno con l’applicazione di elevati gradienti idraulici nella maggior parte dei mezzi porosi.

La quantità di DNAPL residuo intrappolato nei pori dipende dalle caratteristiche fisiche del contaminante, e delle caratteristiche idrogeologiche del mezzo e dell’acquifero ed generalmente compresa tra il 5 e il 50%, in un mezzo poroso costituito da sabbia e ghiaia la quantità residua varia tra il 5 e il 20 % della porosità.

Nei depositi sciolti il DNAPL si trova anche in forma di accumuli estesi generalmente indicati come “pools’’ (Figura A2.4), che si allargano al di sopra delle stratificazioni a grana più fine che offrono la resistenza capillare necessaria a sostenere l’accumulo. Queste stratificazioni non sono penetrate in senso verticale in modo visibile, agendo da vere e proprie barriere.

A differenza del DNAPL “residual”, i “pools” formano un insieme continuo che si estende tra pori adiacenti, con valori di saturazione locale anche fino al 70% della porosità. Lo strato a grana fine sopra il quale il DNAPL forma l’accumulo non necessariamente è costituito da una formazione argillosa dai contorni ben definiti, ma può essere dato da uno strato di limo o di sabbia a bassa conducibilità e a qualsiasi profondità. L’altezza massima raggiunta da un accumulo di DNAPL è inversamente proporzionale alla permeabilità dello strato sopra il quale si raccoglie, per cui su lenti di argilla e limo si formano accumuli più alti che su strati di sabbia a grana fine.

Diversamente dal DNAPL “residual”, il DNAPL “pooled’” può essere mobilizzato applicando un incremento del gradiente idraulico, per cui, quando si effettuano tests di pompaggio, si corre il rischio di una mobilitazione del corpo di contaminazione.

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Figura A2.3 - Dinamica di un DNAPL in un acquifero fratturato

(a) argilla fratturata in zona insatura

(b) argilla fratturata in zona satura

Zona vadosa

“residual”DNAPL

sabbia

Argilla o roccia

fratturata

sabbia

Plume della fase disciolta

“residual” DNAPL

“residual”DNAPL

sabbia

argillafratturata

“pooled” DNAPL

argilla

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180

Figura A2.4 - ”Pooled” e “residual” DNAPL

A2.10 Parametri che influenzano la dinamica dei DNAPLs nel suolo

A2.10.1 Caratteristiche del mezzo

Porosità La porosità definisce la capacità di accumulo di un mezzo poroso ed è rappresentata dalla

percentuale di pori sul volume totale. Si può distinguere una porosità primaria ed una secondaria. La porosità primaria dipende

dalle dimensioni dei grani, dalla loro forma e dall’assortimento granulometrico, nonché dal processo di sedimentazione. La porosità secondaria è associata alle fratture all’interno delle quali il moto dei fluidi può essere di tipo turbolento, in funzione delle dimensioni della frattura stessa.

Si definisce porosità effettiva il rapporto tra il volume dei vuoti interconnessi ed il volume totale.

Permeabilità intrinseca Rappresenta la capacità di un terreno di lasciarsi attraversare da un fluido. La permeabilità intrinseca non dipende dal tipo di fluido ma è una caratteristica del mezzo

attraversato, essa è correlata alla conducibilità idraulica che è una funzione del proprietà del mezzo e del fluido.

Si definisce dunque conducibilità idraulica K [L2/t] o di Darcy il rapporto tra la portata Q [L3/t] che filtra attraverso una sezione A [L2] dell’acquifero in regime stazionario ed in condizioni di moto laminare, e il prodotto della cadente piezometrica i [-] per la superficie totale della sezione considerata:

(eq.3)

flusso della falda

Plume della fase disciolta “residual” DNAPL

sabbia

Lenti di materiale poco permeabile

argilla

“pooled”DNAPL

QKAi

=

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La permeabilità intrinseca è data da

(eq.4)

L’unità di misura è spesso espressa in Darcy o milliDarcy (1 Darcy= 9.87*10 -12 cm2). La relazione tra K e ki è tale per cui 1 Darcy vale circa 1*10 -5 m/s.

A2.10.2 Caratteristiche del fluido

Densità La densità ρ [ML-3] di un fluido è definita come la massa per unità di volume; spesso si

utilizza la densità relativa ρr, data dal rapporto tra la densità del fluido e quella di un fluido di riferimento che in generale è rappresentato dall’acqua:

(eq.5)

La densità varia in funzione della temperatura, in particolare decresce all’aumentare di

questa ed influenza non solo la galleggiabilità di un fluido ma anche la sua mobilità: la conducibilità idraulica, ed esempio, è funzione della densità e della viscosità.

La densità può variare nel tempo in tutti i processi in cui si ha una variazione di composizione, che comprendono la dissoluzione anche parziale di alcuni composti in acqua, o in seguito alle interazioni del fluido con la matrice solida dei vari tipi di suolo.

Viscosità La viscosità dinamica µ quantifica la resistenza offerta da un fluido al moto, che si manifesta

con una sorta di attrito interno e che dipende dal fluido considerato e dal suo stato, ed è definita come lo sforzo tangenziale che bisogna applicare per mantenere un gradiente di velocità di 1 m/s per m in direzione normale al piano di scorrimento.

Assieme alla densità, determina la mobilità di una data fase all’interno della zona satura di un acquifero, poiché da essa dipende il valore della conducibilità idraulica, secondo la relazione funzionale descritta nell’equazione 4.

Analogamente a quanto detto per la densità, anche per la viscosità è possibile introdurre la viscosità relativa all’acqua, mediante:

(eq.6)

Molti tra i DNAPLs visti hanno viscosità dinamica minore di quella dell’acqua che, combinata con la densità, conferisce una più elevata velocità di attraversamento del suolo.

Il rapporto ν [L2T-1]:

ik Kgµρ

=

rw

ρρρ

=

rw

µµµ

=

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(eq.7)

è detto viscosità cinematica, e consente di confrontare la viscosità di più fluidi a prescindere dall’effetto esercitato dalla gravità tramite la densità.

Si definisce mobilità di un fluido in un mezzo poroso saturo il rapporto tra la permeabilità relativa e la viscosità. La mobilità relativa di più fluidi immiscibili può essere quantificata attraverso un parametro noto come rapporto di mobilità che è il rapporto tra la mobilità del fluido infiltrato e la mobilità del fluido spostato. In un mezzo poroso saturo in presenza di DNAPL la mobilità dell’acqua è data dal rapporto (permeabilità relativa/viscosità dell’acqua) diviso la mobilità del fluido spostato (permeabilità relativa/viscosità del DNAPL). Rapporti di mobilità >1 favoriscono il moto dell’acqua, mentre se risultano <1 indicano il movimento preferenziale del DNAPL, che può, quindi, essere rimosso in questo caso tramite processi che ne favoriscano la mobilizzazione.

Tensione all’interfaccia La tensione interfacciale σ è una forza che si instaura all’interfaccia tra due fluidi a causa

della differente densità, ed è presente, quindi, sia sulla superficie di separazione DNAPL-acqua che su quella DNAPL-aria. La sua esistenza determina la non solubilità dei DNAPLs in acqua e gli effetti legati alla non miscibilità, come la bagnabilità. Ad essa sono legati fenomeni di capillarità che influenzano il movimento specie nella zona parzialmente satura. L’origine della tensione interfacciale è da ricercarsi nello squilibrio tra forze attrattive scambiate tra molecole di natura diversa in corrispondenza della superficie di separazione tra due fluidi: l’effetto che ne deriva è che l’interfaccia si contrae, comportandosi come una membrana e curvandosi verso la fase più densa.

La tensione interfacciale σ [N/m] è definita come l’intensità della forza agente per unità di lunghezza su una linea arbitraria dell’interfaccia, e dipende dalla natura dei fluidi a contatto; diminuisce all’aumentare della temperatura ed è influenzata dal pH e dalla quantità di gas presente. La tensione all’interfaccia NAPL-acqua varia da zero, per fluidi completamente miscibili, a 72 dine/cm. In particolare, la tensione che si instaura tra un liquido e il proprio vapore è detta tensione di vapore o tensione superficiale, ed è direttamente responsabile degli effetti di capillarità: più la tensione è elevata, maggiore è la pressione capillare, che determina più alti valori della saturazione residua.

A2.10.3 Caratteristiche del fluido e del mezzo

Bagnabilità Uno degli effetti della tensione all’interfaccia è rappresentato dalla bagnabilità, che descrive

le modalità di distribuzione di un fluido al di sopra di una superficie solida. Essa rappresenta dunque la tendenza di un fluido ad aderire alla superficie di un solido, in

presenza di un altro fluido con il quale risulta immiscibile (Mercer e Cohen, 1990). Un fluido si dice bagnante se ricopre interamente come un velo la superficie dei grani, in caso contrario

µνρ

=

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risulta non bagnante e tende a formare delle strutture sferiche che non riescono a penetrare nei pori della matrice solida. In un sistema multifase il fluido bagnante riveste preferenzialmente la superficie solida e tende ad occupare i pori più piccoli del terreno.

La predominanza delle forze adesive tra il fluido bagnante ed il mezzo poroso porta il mezzo ad attirare il fluido bagnante (di solito acqua) e a respingere quello non bagnante (aria o NAPL).

I DNAPL generalmente non costituiscono la fase bagnante, cioè non ricoprono come un velo la superficie solida dei grani, ma formano delle strutture quasi sferiche, che pertanto non riescono a penetrare nei pori più piccoli del terreno.

La bagnabilità viene quantificata dall’angolo Θ di contatto formato con la superficie solida. Per due fluidi come acqua e DNAPL Θ è espresso dalla relazione di Young:

(eq.8)

in cui σNS è la tensione all’interfaccia DNAPL-solido, σWS è la tensione tra acqua e solido

mentre σNW è valutata tra DNAPL e acqua. L’angolo di contatto, variabile tra 0° e 180°, indica se un mezzo poroso presenta caratteristiche di bagnabilità da parte del DNAPL o dell’acqua (Figura A2.5):

− se Θ≤70° il sistema è bagnato dall’acqua, − se Θ>110° il sistema è bagnato dal NAPL, − se 70°<Θ<110°, è considerato ugualmente bagnato da entrambe le specie.

Figura A2.5 - Fluidi bagnanti e non bagnati

Θ≤70 Θ>110°

Tabella A2.10- Relazioni di bagnabilità per i sistemi acqua-DNAPL-aria

Fluido bagnante Fluido non bagnante

Aria-acqua Acqua Aria

Aria-DNAPL DNAPL Aria

Acqua-DNAPL Acqua DNAPL

Aria-DNAPL-Acqua Acqua>DNAPL>Aria Aria

Nella zona non satura le fasi liquide (acqua e NAPL) risultano bagnanti rispetto all’aria

(Tabella A2.10), mentre nella zona satura l’acqua ha la bagnabilità maggiore rispetto al DNAPL

( )cos NS WS

NS

σ σσ−

Θ =

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e dunque ricopre la superficie solida occupando le aperture più piccole del mezzo poroso. Per questi motivi I DNAPL migrano nella zona satura con velocità molto inferiori rispetto a quelle che hanno luogo nella zona vadosa. Nella fase di imbibizione (passaggio DNAPL) drenaggio, un sottile film di acqua resterà sempre adsorbito alla matrice solida e può essere quantificato attraverso il valore di saturazione residua.

Le relazioni di bagnabilità in un sistema che comprende acqua e NAPL sono influenzate da una serie di fattori comprendenti la mineralogia del mezzo, il chimismo delle acque presenti, la presenza di materiale organico, lo stato di saturazione del suolo.

Ad eccezione di suoli ad elevata componente organica (coal, humus peat) la maggior parte dei mezzi geologici risulta fortemente bagnabile dall’acqua se non contaminata da DNAPL (Mercer e Cohen, 1990). Questo significa che i DNAPL sono meno mobili e presentano una saturazione residua più elevata di quella dell’acqua.

La bagnabilità al DNAPL generalmente aumenta a causa dei processi di adsorbimento e deposizione sulla matrice solida del suolo, ed è legata alle modificazioni dell’angolo di contatto indotte dalla variazione della struttura minerale a seguito dalla stessa presenza del DNAPL. La variazione dell’ angolo di contatto presenta isteresi, per cui esso risulta minore se il DNAPL avanza in un mezzo inizialmente saturato con acqua rispetto a un mezzo contaminato con DNAPL. Per tale motivo la mobilità del DNAPL è maggiore in un mezzo già contaminato.

In conclusione, data la natura eterogenea del mezzo e dei fattori che la influenzano, si può affermare che la bagnabilità non si presenta come una caratteristica uniforme.

Pressione capillare Conseguenza dell’esistenza della tensione superficiale è l’instaurarsi di una differenza di

pressione, agente sull’ interfaccia tra i due fluidi, che consente al fluido bagnabile di infiltrarsi nel mezzo poroso, mentre quello non bagnabile ne viene espulso.

La pressione capillare è la differenza di pressione lungo l’interfaccia della fase bagnante e di quella non bagnante e rappresenta la tendenza di un mezzo poroso ad attirare un fluido bagnante e a respingere quello non bagnante (Figura A2.6).

Nella zona vadosa la pressione capillare risulta negativa (minore di quella atmosferica) ed è denominata suzione o tensione. Le pressioni capillari sono più elevate nei mezzi porosi a grana fine (limi, argille). La frangia capillare al di sopra della zona satura è una diretta conseguenza della pressione capillare.

Assumendola positiva, è definita quindi come la differenza:

(eq.9)

dove PN e Pw sono le pressioni della fase DNAPL (non bagnabile) e dell’acqua

rispettivamente e può essere espressa in funzione della tensione e dei raggi di curvatura principali R1 e R2 dell’ interfaccia:

c N wP P P= −

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185

(eq.10)

La pressione capillare è, inoltre, legata alla tensione interfacciale, all’angolo di contatto e

alla dimensione media dei pori tramite la relazione:

(eq.11) in cui r è il raggio medio del poro e in cui si considera che l’ interfaccia assuma una forma

sferica. Come si nota da questa relazione, essa dipende dalle caratteristiche del fluido (tensione

interfacciale) e del mezzo (dimensione dei pori): in particolare incide sul movimento del NAPL soprattutto nella zona non satura.

Le forze capillari possono limitare la penetrazione del NAPL nella zona satura soprattutto nel caso di terreni a grana fine (caratterizzati da bassi valori di r). Esiste dunque una pressione minima che deve possedere il DNAPL per spiazzare l’acqua ed entrare nei pori più piccoli; tale pressione viene chiamata ‘pressione di soglia’ o ‘pressione d’entrata’ (Schwille, 1988).

Quest’ultima è quantificata dall’altezza del carico equivalente di una colonna d’acqua:

(eq. 1) in cui hc è la risalita capillare del fluido bagnabile (acqua), ρw la sua densità e g è

l’accelerazione di gravità.

Figura A2.6 - Pressione capillare

Si può mettere in relazione la quantità totale di un fluido bagnabile (acqua) all’interno di un

mezzo poroso con le differenze di pressione tra fluido bagnabile e fluido non bagnabile all’ interno dello stesso mezzo: si arriva così alla relazioni che caratterizzano il comportamento alla macroscala, chiamate relazioni Pc-S (pressione capillare- saturazione).

1 2

1 1N w NwP P

R Rσ

− = −

2 cos /c NwP rσ= Φ

(2 cos ) /( )c wh r gσ ρ= Φ

NAPL

Acqua

Solido

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La difficoltà nel valutarle è dovuta a vari fattori, tra i quali l’ isteresi a cui sono soggette: il fluido non bagnabile sposta il fluido bagnabile con una curva Pc – S diversa da quella con cui avviene il processo opposto. Inoltre essa è influenzata dalla storia dei cicli di saturazione subiti dal mezzo, dalle variazioni dell’angolo di contatto che ne derivano e dalla geometria dei pori.

La pressione capillare non può essere misurata in campo ma solo attraverso prove di laboratorio, oppure può essere stimata conoscendo la granulometria del mezzo.

Saturazione La saturazione S indica la quantità di specie fluida contenuta nei pori di un suolo (Mercer e

Cohen, 1990) ed è data dal rapporto:

(eq.13)

con Vf volume del fluido presente e Vv volume dei vuoti. Il grado di saturazione definisce la distribuzione volumetrica della fase separata e ne

influenza la mobilità ed è funzione di altre proprietà come la pressione capillare e la permeabilità relativa. La mobilità di una fase diminuisce al diminuire della saturazione.

Il livello di saturazione per ogni fluido è compreso tra 0 (assenza) e 1 (il fluido occupa il 100% dei pori). In presenza di più fasi, dunque la somma delle saturazioni è pari ad 1.

La determinazione della saturazione presenta delle difficoltà legate alla coesistenza nei pori di diverse fasi. Le metodologie utilizzate in campo per una stima della saturazione si avvalgono di perforazioni con raccolta di campioni, tests di pompaggio, prospezioni geofisiche.

Saturazione residua La saturazione residua Sr per la generica fase NAPL è la saturazione in corrispondenza della

quale il fluido risulta discontinuo all’interno dei pori ed immobilizzato dalle forze capillari. La saturazione residua è determinata dunque dall’azione delle forze capillari e dipende da

diversi fattori quali: dimensioni dei pori e loro variabilità spaziale; bagnabilità, viscosità e densità relative all’ acqua; tensione superficiale; entità delle forze di gravità; gradiente idraulico.

Il concetto di saturazione residua è differente per i fluidi bagnanti e non bagnanti: Un fluido non bagnante risulta discontinuo alla saturazione residua, mentre un fluido bagnante risulta continuo.

La determinazione della saturazione residua è complicata dal fatto che, allo stato residuo, i DNAPLs assumono una forma discontinua o ricoprono i grani del suolo formando strutture ad anello, o come gocce distinte in presenza di acqua.

La capacità di ritenzione volumetrica della zona insatura è fornita da:

f

v

VS

V=

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187

(eq.14) in cui R sono i litri di NAPL residuo per metro cubo di mezzo, Sr è la saturazione residua e n

è la porosità. Da misurazioni effettuate per diversi tipi di suolo emerge che tipici valori di Sr per vari tipi di NAPL sono compresi tra 0.10 e 0.20 nella zona insatura.

In generale, la saturazione residua e la ritenzione volumetrica aumentano al diminuire di permeabilità intrinseca, porosità effettiva e contenuto di vapor acqueo.

Una maggiore quantità di NAPL viene immobilizzata nella zona satura piuttosto che in quella non satura a causa di diversi processi: il rapporto tra le densità NAPL/aria e NAPL/acqua sopra e sotto la piezometrica rispettivamente favorisce ampiamente il drenaggio attraverso la zona insatura; il NAPL viene trattenuto nei pori di maggiori dimensioni, come la maggior parte dei fluidi non bagnabili nei mezzi saturi; come i fluidi bagnabili (rispetto all’aria) nella zona non satura, i NAPL tendono a diffondersi nei pori adiacenti, lasciando indietro una quantità residua, mentre nella zona satura ciò non avviene, essendo il NAPL il fluido non bagnabile in quest’ultimo caso.

1000rR S n= ⋅ ⋅

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