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CORSO DI FILOSOFIA PER PROBLEMI 2012 ARGOMENTARE MANUALE DI FILOSOFIA PER PROBLEMI PAOLO VIDALI GIOVANNI BONIOLO EDIZIONE DIGITALE CHE COS È LA FEDE? VERSIONE A STAMPA EDITA DA BRUNO MONDADORI, MILANO 2002-2003

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CORSO DI FILOSOFIA PER PROBLEMI

2012

ARGOMENTARE

MANUALE DI FILOSOFIA PER PROBLEMI

PAOLO VIDALI – GIOVANNI BONIOLO EDIZIONE DIGITALE

CHE COS’È LA FEDE?

VERSIONE A STAMPA EDITA DA BRUNO MONDADORI, MILANO 2002-2003

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CHE COS’È LA FEDE?

(AGOSTINO, ANSELMO, TOMMASO, OCKHAM, ECKHART)

SOMMARIO

1. Il problema della fede nel Medioevo ....................................................................................................... 3 1.1. Premesse teoriche............................................................................................................................. 3 Schema cronologico-concettuale ............................................................................................................. 4

2. Agostino: la fede come fondamento di ogni certezza .............................................................................. 5 2.1. Premesse teoriche............................................................................................................................. 5 2.2. La soluzione agostiniana .................................................................................................................. 5 Testo 1. Agostino ..................................................................................................................................... 6

3. Anselmo: la fede come ricerca della comprensione ................................................................................ 7 3.1. Premesse teoriche............................................................................................................................. 7 3.2. La soluzione di Anselmo .................................................................................................................... 7 Testo 2. Anselmo ..................................................................................................................................... 8 3.3. La fortuna dell’argomento ontologico nel Medioevo ....................................................................... 9

4. Tommaso: la fede come certezza e fondamento delle certezze .............................................................. 9 4.1. Premesse teoriche............................................................................................................................. 9 4.2. La soluzione tomista ....................................................................................................................... 10 4.3 Le prove dell’esistenza di Dio ........................................................................................................... 11 Testo 3. Tommaso ................................................................................................................................. 11

5. Ockham: la fede come scelta volontaria ................................................................................................ 13 5.1. Premesse teoriche........................................................................................................................... 13 5.2. La soluzione Ockhamista ................................................................................................................ 13 Testo 4. Ockham .................................................................................................................................... 14

6. Eckhart: la fede religiosa come mistica .................................................................................................. 15 6.1. Premesse teoriche........................................................................................................................... 15 6.2. La soluzione di Eckhart ................................................................................................................... 15 Testo 5. Eckhart ..................................................................................................................................... 16

7. Conclusioni ............................................................................................................................................. 17 8. Testi ed esercizi ...................................................................................................................................... 18

Il metodo dell’analogia .......................................................................................................................... 20 9. Scheda didattica ..................................................................................................................................... 22 10. Testi a integrazione .............................................................................................................................. 23

Paolo, I lettera ai Corinti, cap. I ............................................................................................................. 23 Agostino, La ricerca di Dio ha luogo nell’anima umana ........................................................................ 23 Agostino: Fede, ragione e autorità ........................................................................................................ 24 2. Anselmo: L’argomento ontologico ..................................................................................................... 25 Le obiezioni di Gaunilone ....................................................................................................................... 26 2.3. Le risposte di Anselmo .................................................................................................................... 27 3. Tommaso: Tipi di verità su Dio .......................................................................................................... 27 Ockham: Ciò che è possibile dimostrare sull’esistenza di Dio ................................................................ 31 Eckhart ................................................................................................................................................... 32

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CHE COS’È LA FEDE?

(AGOSTINO, ANSELMO, TOMMASO, OCKHAM, ECKHART)1

1. IL PROBLEMA DELLA FEDE NEL MEDIOEVO

1.1. PREMESSE TEORICHE Il Cristianesimo introduce nella filosofia una serie impressionante di idee e di strumenti nuovi rispetto alla tradizione greca. Pur non essendo una filosofia, esso modifica profondamente l’intendimento dell’uomo, della storia, della natura e attribuisce dei significati del tutto inediti a termini come spirito, progresso, responsabilità individuale, corpo, tempo e molti altri ancora. Quindi, dopo una fase di incertezza in cui i primi cristiani non capiscono bene se ci sia ancora uno spazio per la filosofia o addirittura tendono a ritenere che la fede abbia soppiantato la ricerca razionale, si ha invece un lunghissimo periodo durante il quale lo sforzo principale è la chiarificazione della teologia cristiana mediante gli strumenti forniti proprio dalla filosofia greca. L’apostolo Paolo (5/15 - 67 ca) ritiene che la venuta di Dio abbia reso assurda la ricerca della sapienza portata avanti dai Greci (I Corinzi, 1, 20-25) e mette in guardia dal farsi ammaliare dalla filosofia (Colossesi, 2, 8). Poco più tardi Tertulliano (160 ca - 220 ca.) scrive che il filosofo e il cristiano sono rispettivamente l’amico e il nemico dell’errore (Apologetico, 46, 18), che dopo Gesù non c’è bisogno di nessun sapere e dopo il Vangelo di nessuna ricerca (La prescrizione contro gli eretici, 7, 10 sgg.). Ma questa posizione di rigetto si mostra assai presto perdente: la filosofia greca si era ormai imposta come la forma per eccellenza della riflessione razionale sull’uomo problemi e sembrava coincidere con l’idea che si aveva della ragione stessa. Per questo, anche se non senza contrasti e dissensi, la ragione e gli strumenti concettuali della filosofia greca vengono sempre più spesso utilizzati per riflettere sulla fede e diventa dominante la convinzione che senza un’adeguata comprensione non si possa pervenire ad alcuna autentica convinzione. La riflessione teologica medievale si può centrare intorno a due punti fondamentali: 1) il rapporto fra ragione e fede; A proposito del rapporto tra ragione e fede quanto va appurato è in che misura la ragione possa apportare dei chiarimenti alle verità di fede e, secondariamente, in che misura essa possa sviluppare ricerche e contenuti in autonomia rispetto alla fede. Si va da Bernardo di Clairvaux (1090 - 1153) e, con ancora maggiore radicalismo, Pier Damiani (1007 - 1072), che rigettano la filosofia come turpe curiosità degli uomini, a Sigieri di Brabante (1235 ca - 1282), che invece afferma con forza la quasi totale autonomia della ragione, la quale è addirittura in grado di arrivare per suo conto al Principio ovvero al coglimento di Dio. 2) il problema dell’autorità. Rispetto al problema dell’autorità, invece, i medievali devono riconoscere che la fede si afferma comunque in base all’autorità della rivelazione, a cui la ragione non può che assoggettarsi; di conseguenza, al di là della minore o maggiore autonomia conferita all’intelletto umano, vi sono per tutti i filosofi cristiani delle conoscenze che gli uomini possiedono solo grazie al diretto intervento divino e che da soli non sono in grado di comprendere e tanto meno di acquisire. Inoltre non si ammette che la ragione possa procedere, almeno quanto alle sue conclusioni, in maniera difforme dalla rivelazione. È Dio stesso ad aver dotato l’uomo dell’intelletto e dunque rivelazione e ragione non possono essere in contraddizione. La ragione, che da sola non potrebbe che cadere in errore, dev’essere corretta e limitata dall’autorità: quest’ultima viene percepita dunque come uno strumento essenziale per supportare la ragione piuttosto che per bloccarne lo sviluppo.

1 Il testo, nella sa versione a stampa originale, è stato redatto da Mauro Sacchetto.

L’apostolo Paolo (5/15 - 67 ca)

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SCHEMA CRONOLOGICO-CONCETTUALE La prima filosofia cristiana è denominata Patristica perché i suoi esponenti, in quanto primi pensatori che cercarono di esprimere in termini filosofici la dottrina salvifica del Cristianesimo, vennero chiamati Padri della Chiesa e va approssimativamente dal III all’VIII sec.; suo più significativo esponente è Agostino di Ippona (354 - 430). Durante questo lungo periodo si ritiene che ragione e fede siano identificabili, anzi si parte dalla convinzione che esse siano i due lati della stessa medaglia e non ci si pone nemmeno il sospetto che si possa trattare di due cose differenti, distinte se non alternative. Le due celebri espressioni agostiniane credo ut intelligam (cioè “credo per comprendere”) e intelligo ut credam (cioè “comprendo per credere”) non sono tanto due aspetti percepiti come distinti ma complementari, quanto due formulazioni diverse dello stesso principio: non esiste una ragione senza fede né una fede senza ragione. Successivamente, quando il settore quantitativamente maggiore della riflessione cristiana si organizza a partire dal IX secolo all’interno delle scuole (che potevano essere situate all’interno delle pievi, nei monasteri, nelle cattedrali e poi, definitivamente, nelle università), l’espressione più importante della filosofia cristiana (sebbene non l’unica) viene detta Scolastica. La sua conclusione come forma dominante della riflessione occidentale può essere fissata verso la metà del Trecento, anche se non mancarono in seguito importanti filosofi di ispirazione scolastica. In riferimento al problema della fede e del suo rapporto con la ragione, possiamo dividere questa lunga stagione in quattro grandi fasi/tendenze. 1. La prima fase (800-1150), i cui esponenti più significativi sono Giovanni Scoto Eriugena (810 ca -

877?) e Anselmo d’Aosta (1033-1109), è dominata dal platonismo (pur nella varietà di contributi prodotti in questo periodo, che si rifanno anche alla tradizione logica e dialettica che rimane costantemente attiva), nel senso che esso è la filosofia maggiormente nota e diffusa, per cui l’approccio ai problemi della fede segue le categorie centrali del pensiero di Platone. In questa fase si postula una piena e perfetta identità tra fede e ragione: le due esperienze sono in fondo la stessa cosa e non si potrebbe avere una fede autentica rinnegando la ragione né una ragione funzionale che rinnegasse la fede, anche se poi la ragione trae le sue verità dalla fede.

2. La seconda fase (1150-1250), il cui maggiore esponente è Tommaso d’Aquino (1221 - 1274), è invece

caratterizzata dalla diffusione in Occidente della filosofia di Aristotele. L’idea dominante è adesso che la ragione sia distinta dalla fede per procedure e obiettivi. Essa può effettuare con un suo peculiare metodo ricerche fisiche che nulla hanno a che fare con la fede, senza però che mai i suoi risultati possano trovarsi in conflitto con la fede rivelata: un’indagine cosmologica che negasse l’esistenza di Dio sarebbe in ogni caso erronea.

3. La terza e ultima stagione della Scolastica medievale (1250-1350), i cui esponenti più importanti

sono Duns Scoto (1265 ca - 1308) e Guglielmo di Ockham (1280 - 1349 ca), consuma il divorzio tra ragione e fede. Rendendosi progressivamente conto del carattere incerto della ragione, i filosofi non si fidano di attribuirle il compito di tirare le somme sulla fede: come potrebbe il nostro fragile intelletto decidere sull’esistenza di Dio, sull’immortalità dell’anima e via dicendo, quando sbaglia tanto spesso su temi ben più semplici? Così adesso la fede si affida semplicemente a una credenza che non poggia sulla riflessione, ma sulla determinazione volontaristica dell’uomo di credere. Ciò segna la fine della Scolastica in quanto viene riconosciuta l’irresolubilità del suo problema centrale.

4. Ciò non toglie che vi sia anche un altro filone non meno importante e caratteristico che definiremmo

“mistico”, che affonda le sue radici nel neoplatonismo, che muove i primi passi con la Gnosi e che percorre tutta la riflessione medievale includendo pensatori come Giovanni Scoto Eriugena, Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), Ugo (1096 ca - 1141) e Riccardo di San Vittore († 1173), Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca - 1274) e infine Meister Eckhart (1260 ca - 1327) e Nicolò Cusano (1401 - 1464). La tesi fondamentale comune a tutti i mistici è che l’approccio a Dio richiede

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l’abbandono della ragione e un’ascesa al di sopra di se stessi che non trova alcuna giustificazione razionale; la conoscenza di Dio così ottenuta è possesso esclusivo di chi l’ha raggiunta, è inesplicabile e incomunicabile. Le condizioni che rendono possibile questo accesso a Dio non stanno in nessuna energia naturale possono addirittura essere superiori alla fede.

2. AGOSTINO: LA FEDE COME FONDAMENTO DI OGNI CERTEZZA

2.1. PREMESSE TEORICHE Sono innumerevoli le componenti che giocano un ruolo di fondamentale importanza nella formazione del pensiero di Agostino: dopo una prima fase in cui Agostino si sente attratto dalla libera ricerca filosofica, che trova attuata nell’eclettismo di Cicerone, e per contro deluso dal principio di autorità che riscontra nel cristianesimo, la sua acuta esperienza del male lo porta verso il manicheismo, la religione di origine orientale che postulava due distinte divinità, una del bene e una del male, e che vedeva la storia come l’oscillare continuo fra questi due princìpi. Finendo però per considerare del tutto prive di rigore innumerevoli speculazioni cosmologiche del manicheismo, si avvicina allo scetticismo, ma ben presto si accorge che questo è una dottrina che si auto confuta (autocontraddizione). Lo scetticismo viene infatti sconfitto dal dubbio stesso: se io dubito del risultato di un calcolo, significa che non so se

quel risultato è giusto, ma che so benissimo che c’è uno e un solo risultato giusto. Dubitare non significa possedere la verità, ma sapere comunque che essa esiste: per conseguenza appare autocontraddittorio dubitare dell’esistenza della verità. Cercando una filosofia che poggiasse su di un saldo concetto di verità, Agostino approda al neoplatonismo, che gli fornisce inoltre l’idea della immaterialità e anzi dell’assoluta spiritualità di Dio: eppure nemmeno il metodo conoscitivo adottato dai neoplatonici per conoscere Dio gli sembra rigoroso e affidabile. Quando infine scopre che l’idea neoplatonica di Dio non è affatto inconciliabile con quella del cristianesimo, Agostino decide di aderire a quest’ultimo, lavorando per produrre una dottrina teologica razionalmente convincente.

2.2. LA SOLUZIONE AGOSTINIANA La ricerca di Dio è concepita da Agostino come lo scopo principale, o addirittura pressoché esclusivo, della vita intellettuale dell’uomo. L’esistenza umana è uno sforzo per raggiungere Dio e l’insoddisfazione, l’inquietudine del vivere trovano soddisfazione solo una volta che quella meta sia stata raggiunta, trovano solo in essa il loro obiettivo e la loro soddisfazione. Come già abbiamo visto, l’identità di ragione e fede è data per scontata da Agostino, al punto da intenderle come complementari modalità nelle quali si attua il nostro rapporto con Dio: l’una non potrebbe sussistere senza l’altra. Agostino sembra dunque rigettare il motto “credo quia absurdum”, (cioè “credo perché è assurdo”), che invece poneva la fede come alternativa netta alla ragione. Ma da sola la ragione, incerta e mutevole qual è, non può arrivare alla verità. Come per Platone, anche per Agostino ciò che muta non è essere in senso pieno, vale assai meno di ciò che è eterno e immutabile; solo che per lui, cristiano, le idee non sono delle entità separate e situate in un mondo proprio, bensì le verità stabilite da sempre da Dio e che risiedono nella sue mente. Noi non possiamo essere il principio della verità, o la conosceremmo fin dall’inizio: l’uomo accoglie la verità come dono da parte di chi invece da sempre la possiede e coincide con essa stessa, Dio, e in lui le contempla mediante l’illuminazione, una conoscenza intellettuale diretta che è la versione agostiniana della reminiscenza (inaccettabile per un cristiano perché presuppone la preesistenza dell’anima e la sua autonomia rispetto al corpo). Il punto di partenza di ogni ricerca deve consistere nell’autorità delle Sacre Scritture, né mai la ragione potrà contrapporsi alla Rivelazione senza essere in errore. Ma da cosa deriva l’autorità della Scrittura? Precisamente dalla fede, e a sua volta la fede si fonda sull’autorità; c’è dunque un circolo che però Agostino non percepisce come vizioso: l’autorità deve precedere la ragione, prima c’è la fede e solo dopo il pensiero. Il sapere non è di conseguenza invenzione, ma scoperta. Questo tuttavia non significa che la ragione diventi superflua: al contrario essa viene richiesta proprio dalla fede che legittimamente chiede di sapere qualcosa intorno al proprio oggetto (Lettere, CXX, 2, 8). La fede richiede infatti di essere adeguatamente capita paccontenta di credere, ma vuole anche capire con esattezza che cosa sta credendo, richiede dunque il

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contributo dell’intelletto: e infatti è solo con la comprensione che troviamo davvero ciò in cui dobbiamo credere.

TESTO 1. AGOSTINO Questo passo, tratto dal trattato Il libero arbitrio (redatto nel 426 o nel 427), è dedicato all’individuazione delle possibilità e dei limiti della comprensione della fede. Vi si enfatizzano le matrici bibliche dell’esortazione a comprendere al meglio la propria fede mostrando che non si tratta solo di un’esigenza dell’intelletto umano, ma di un autentico imperativo datoci da Dio. Se altro non fosse credere ed altro conseguire con l’intelletto e se prima non si dovesse credere la verità di ordine superiore e trascendente che desideriamo conseguire con l’Intelletto, non a proposito avrebbe detto il Profeta: Se non crederete, non conseguirete con l’intelletto. Ed anche nostro Signore con le parole e le azioni ha esortato coloro che ha chiamato alla salvezza ad avere prima la fede. Ma in seguito, parlando del dono che doveva dare ai credenti, non disse: «Questa è la vita eterna che credano», ma: Questa è la vita eterna che conoscano te solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Poi a coloro che già credono dice: Cercate e scoprirete. E non si può considerare scoperto ciò che, non essendo oggetto di scienza, si accetta per fede e nessuno diviene idoneo a scoprire Dio se prima non accetta per fede ciò di cui in seguito avrà scienza. Quindi ossequenti al precetto del Signore cerchiamo con insistenza. Ciò che cerchiamo perché ce ne esorta, lo scopriremo perché ce lo mostra nei limiti in cui è possibile scoprire in questa vita l’oggetto trascendente da individui come noi. [Il libero arbitrio, II, 4, 6; trad. it. in Agostino, Opere, III, 2, Opere filosofico-dogmatiche, Città Nuova, Roma 1976, p. 215] Per la comprensione

Rispondi alle seguenti domande: • La fede deve precedere sempre e comunque l’intelletto? • Che cosa intende Agostino allorché parla di “scoperta”? • Quali sono secondo Agostino i limiti entro i quali è possibile capire l’“oggetto trascendente”? Non per questo tutta la fede si può comprendere (Il maestro, 11, 37): ci sono delle verità di fede di fronte alle quali la comprensione deve arrestarsi, ad esempio la Trinità (Il libero arbitrio, III, 60, 205 sgg.). Ciò accade anche se l’uomo presenta una struttura analoga a quella della Trinità, essendo caratterizzato da tre facoltà che sono la realizzazione antropologica delle tre persone della Trinità stessa: Memoria, Intelligenza e Amore. Per Agostino dunque alcune verità di fede sono conoscibili in modo indiretto, attraverso il metodo dell’analogia: l’idea di fondo è che l’uomo non riesce a cogliere in modo diretto alcune nozioni, ma può farlo rilevando che immagini e metafore di queste nozioni sono presenti nella realtà. A proposito della Trinità, ad esempio, benché essa resti un mistero di fede noi ci accorgiamo che la struttura fondamentale di ogni ente è organizzata secondo uno schema triadico che allude a essa (La vera religione, VII, 13). L’uomo infatti possiede corpo anima e intelligenza, una sorta di “firma” o suggello impresso da Dio nelle creature. La stessa soluzione, quella analogica, (ma con un bagaglio tecnico assai maggiore, ereditato da Aristotele) sarà adottata anche da Tommaso, che affermerà che di Dio si può parlare attribuendogli caratteristiche umane (la bontà, la sapienza) sono in forma impropria, e cioè secondo analogia (Somma teologica, I, q. 13 ad 5). Sebbene l’esistenza di Dio sia decisa semplicemente dalla fede, Agostino non si sottrae al tentativo di dimostrarla in maniera razionale: ma si tratta semplicemente di rendere “chiaro” quello che l’animo umano per altra via già concepisce come certo. Agostino muove dalla constatazione che la sapienza possiede una singolare comunanza che non può derivare dalla ragione stessa: la sapienza è infatti una sola, non esistono tante sapienze quanti sono gli uomini: non concordiamo forse noi sui teoremi di geometria e sull’aritmetica? Riconosciamo dunque l’esistenza di una sapienza immutabile, a cui guardiamo e che seguiamo e che ci precede e sovrasta, perché non è questa verità a “muoversi” in base alla nostra ragione e a dipendere da essa, ma viceversa è la nostra ragione che si ispira a questa verità. Agostino la chiama Dio senza indugio e senza dimostrare questo ulteriore passaggio. In altre parole Dio viene identificato immediatamente con la verità.

Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et teipsum. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur. Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell'uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione. (De vera rel. 39, 72)

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Agostino esclude invece la possibilità di arrivare a Dio dalla contemplazione o considerazione della natura: Dio non è reperibile se guardiamo fuori di noi perché invece abita invece nell’intimo dell’uomo, sebbene ne sia infinitamente più grande. Da ciò il rigetto di ogni indagine puramente naturalistica: lo studio della natura non interessa ad Agostino, che anzi egli osserva come il cosmo debba interessare il credente solo come risultato della creazione e come luogo di caduta e di redenzione; le questioni cosmologiche sono considerate superflue quando non addirittura dannose.

3. ANSELMO: LA FEDE COME RICERCA DELLA COMPRENSIONE

3.1. PREMESSE TEORICHE La giustificazione razionale dell’esistenza di Dio (impropriamente detta “dimostrazione” mentre è ovviamente un’argomentazione) è indubbiamente uno dei temi predominanti della Scolastica, anche se non certo l’unico. I pensatori più vicini al platonismo, in tutte le sue forme (e dunque anche Agostino), prediligono dimostrazioni che muovono dall’ esperienza interiore, mentre quelli più vicini ad Aristotele e allo stoicismo prenderanno più volentieri le mosse dai dati naturali e cioè dall’esperienza. Ma in parecchi pensatori scolastici troviamo prove che si avvicinano a tutte e due queste tipologie, dette poi rispettivamente prove a priori (che in realtà si riducono a una sola e cioè all’argomento ontologico di Anselmo, variato in seguito da altri filosofi, da Duns Scoto a Leibniz, e utilizzato almeno fino all’Ottocento)

e prove a posteriori. Nel Monologion (un titolo che significa “soliloquio” perché l’opera è impostata come un discutere fra sé e sé) Anselmo usa delle prove a posteriori, mentre nel Proslogion (che invece significa “dialogo” perché è strutturato come un colloquio dell’autore con Dio) elabora l’argomento ontologico. Egli non sottovaluta la ragione, perché solo con quest’ultima è possibile rendere trasparenti i contenuti della fede. Ma resta il fatto che la fede è la base e il presupposto per ogni riflessione, è una fides quaerens intellectum, cioè una fede che cerca l’intelletto, e Anselmo stesso si definisce uno che cerca di comprendere ciò che crede. Tuttavia non si comprende per credere, ma si crede per comprendere. In fondo l’atteggiamento è ancora agostiniano; non può infatti esistere una ragione che procede in direzione della verità senza che si ammetta come presupposto e come priorità assoluta la fede. E dove Anselmo scrive che “il retto ordine richiede che noi crediamo innanzitutto alla profondità della fede cristiana, prima di osare investigarla con la ragione” (Perché un Dio uomo, I, 1) fa riferimento ancora una volta al principio dell’autorità. Il nostro intelletto non potrebbe infatti produrre alcun risultato valido se già da sempre non si affidasse alla fede in Dio e non partisse da questa. Tuttavia Anselmo è convinto che tutto quanto è racchiuso nell’Antico e nel Nuovo Testamento sia passibile di dimostrazione razionale, finendo così per ampliare in misura assai notevole l’ambito del dimostrabile rispetto ad Agostino, sebbene con la permanenza di qualche riserva, ad esempio sul mistero dell’Incarnazione e della Trinità. Se alcune verità di fede non potranno mai essere spiegate esaustivamente, la ragione perviene quanto meno a trovare delle “ragioni necessarie” che la conducono ad affermare quelle stesse verità. La ragione dipende per principio dunque dalla rivelazione e dalla sua autorità, ma nel suo lavoro a vantaggio dell’intelligenza della fede stessa può procedere con le sue sole forze: la teologia filosofica risulta in definitiva consistere per Anselmo nel libero uso della ragione nella comprensione delle verità di fede che le sono state fornire rivelativamente.

3.2. LA SOLUZIONE DI ANSELMO Tutte le prove prodotte da Anselmo avrebbero la pretesa di non presupporre verità accessibili soltanto alla fede, ma di servirsi esclusivamente di argomentazioni razionali senza che esse siano fondate sull’autorità della Scrittura. 1. Nel Monologion il filosofo intende dimostrare l’esistenza di Dio partendo dalla realtà sensibile e

considerandola, come avevano fatto Platone, il neoplatonismo e lo stesso Agostino, un insieme di cose buone. Ma tali cose buone richiamano un Bene in sé da cui traggono la loro bontà, e questo bene in sé è Dio.

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2. In una seconda argomentazione egli vede una disparità di gradi nell’essere, una sorta di gerarchia nella dignità ontologica della cose, ad esempio dal legno al cavallo e quindi all’uomo. La natura più elevata di tutte è Dio: sarebbe infatti assurdo pensare a dei gradi se non relativamente a un assoluto, a una unità di misura non relativa. Questo argomento anselmiano è una variante di quello causale e precisamente quello della priorità della causa sull’effetto, a cui però si aggiunge la considerazione che non si tratta tanto di una priorità cronologica, quanto assiologica, e cioè che implica il maggior valore della causa sull’effetto; nel caso specifico esso viene applicato al tema della gerarchia degli esseri.

Ma il contributo più importante e destinato a una enorme fortuna nella filosofia successiva è la prova dell’esistenza di Dio detta “argomento ontologico”, sviluppato nel Proslogion. L’ambizione è trovare un argomento che non abbia bisogno di altro al di fuori di sé solo, sia per sostenersi, sia per provare che Dio esiste veramente. Così Anselmo immagina una sorta di dialogo fra un filosofo e un ateo, chiamato “stolto” al pari del personaggio del Salmo XIII che affermava in cuor suo che Dio non esiste. Il filosofo stimola l’ateo a produrre, apparentemente per amore di discussione, una definizione di Dio; l’ateo, pur affermando che egli in ogni modo non crede all’esistenza di un tale ente, trova un accordo col filosofo nella definizione di Dio come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore. Tale concetto appare inizialmente neutro, cioè ammissibile sia dal credente che dal non credente: per il credente Dio è esattamente questo ente ed esiste, per l’ateo lo sarebbe se esistesse, cosa che lui tuttavia non è disposto a concedere. Eppure proprio qui scatta l’argomento anselmiano: un essere che ha tutte le perfezioni non può esistere solo nel intelletto, altrimenti se ne potrebbe pensare uno di ancora più ricco perché tale da possedere in aggiunta l’esistenza reale (dal momento che una cosa reale è maggiore, cioè “più perfetta”, della stessa cosa solo pensata). Chi asserisce che Dio è l’essere che possiede tutte le perfezioni ma poi afferma che non esiste, non sta in effetti pensando quell’essere e dunque si sta contraddicendo. Costui secondo Anselmo è stolto non solo perché non crede in Dio, ma anche perché fonda le sue argomentazioni su un presupposto gnoseologico erroneo (e cioè che si possa dire esistente solo quanto è constatabile coi sensi) e quindi perché sviluppa un’argomentazione autocontraddittoria: dice di pensare l’essere che ha tutte le perfezioni e poi invece pensa l’essere che ha tutte le perfezioni meno una (l’esistenza, appunto); pensa la parola ma non riesce a cogliere tutta la portata del concetto significato da questa. Questo significa che, una volta ammesso che nel nostro intelletto esiste il concetto di Dio secondo la definizione appena formulata (in possesso dunque di quella che i medievali chiamavamo la existentia in intellectu), siamo costretti ad ammettere che deve esistere anche nella realtà l’ente definito, Dio (che possiede pertanto anche la existentia in re).

TESTO 2. ANSELMO Questo passo è tratto dal Proslogion, verosimilmente redatto negli anni 1077-1078, e riporta il nerbo dell’argomento ontologico. Se la fede è una conquista a cui l’uomo non arriva solo grazie alle sue forze ma con l’aiuto della grazia, la ragione non è per questo esonerata dal tentativo di comprendere. E mentre le prove a posteriori sviluppate da Anselmo nel Monologion gli apparivano una serie di argomentazioni le cui premesse richiedevano ulteriori giustificazioni, l’argomento ontologico gli pare l’unica dimostrazione dell’esistenza di Dio davvero autosufficiente. 1. Dunque, o Signore, tu che dai l’intelletto della fede, concedimi di intendere, per quanto tu sai essere utile, che tu esisti come crediamo e che tu sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. 2. O forse non esiste qualche natura siffatta, poiché «l’insipiente ha detto in cuor suo: “Dio non esiste”» (Sal. 14, 1 e 53, 1)? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ode ciò che io dico, cioè «qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore», intende ciò che sente dire; e ciò che intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che ciò esiste. 3. Altro infatti è che una cosa esista nell’intelletto e altro intendere che una cosa esista. … 4. Dunque anche l’insipiente deve convincersi che almeno nell’intelletto esiste qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, poiché egli lo intende, quando lo sente dire, e tutto ciò che si intende esiste nell’intelletto. Ma certamente ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo intelletto. Infatti, se esiste nel solo intelletto, si può pensarlo esistente anche nella realtà e questo allora sarebbe maggiore.

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5. Di conseguenza se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste nel solo intelletto, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore è ciò di cui può pensarsi una cosa maggiore. Questo evidentemente non può essere. Dunque, senza dubbio, qualcosa di, cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste sia nell’intelletto che nella realtà. [Anselmo, Proslogion, II, 1-5; trad. it. Rizzoli, Milano 1992, pp. 81-85] Per la comprensione

• Individua i passaggi dell’argomentazione di Anselmo e schematizzali. • Spiega che differenza c’è fra l’esistere di una cosa nell’intelletto e il suo effettivo esistere e produci alcuni esempi. • Alla luce del paragrafi II, 1 e 4, spiega se per Anselmo la fede precede la ragione o viceversa.

3.3. LA FORTUNA DELL ’ARGOMENTO ONTOLOGICO NEL MEDIOEVO L’argomento ontologico suscitò una serie di obiezioni e riserve. Il monaco Gaunilone (sec. XI) oppose al Proslogion un breve testo intitolato Difesa dello stolto in cui osservava che io potrei immaginare un oggetto dotato di tutte le perfezioni pensabili come delle isole di fantasia, che lui battezza Isole Beate, di cui non è possibile pensare isole più belle da nessun punto di vista. Ciò non toglie che, come sappiamo fin dall’inizio, esse siano per l’appunto una pura creazione della fantasia e che non esistano affatto: insomma per Gaunilone il passaggio dalla existentia in intellectu a quella in re è un salto indebito, che Anselmo non argomenta. Gaunilone usa qui un argomento quasideduttivo detto l’autofagia; lo si impiega quando si mostra che, applicando senza eccezioni una regola, si arriva a distruggerla poiché alcune sue conseguenze sono in contraddizione con essa. Anselmo controreplicò (nella sua Risposta) che l’obiezione è scorretta perché le isole possono avere solo le perfezioni del loro genere, cioè quelle che possono spettare a un’isola; Dio invece le possiede tutte e per questo non si può escluderne l’esistenza. In tal modo Anselmo cerca di evitare l’accusa di autofagia, affermando che solo nel caso di Dio in cui si può applicare l’argomento a priori: solo per Dio (e proprio in quanto è l’unico essere dotato di tutte le perfezioni) vale quindi il passaggio dall’existentia in re all’existentia in intellectu. In realtà Gaunilone poneva un serissimo rilievo proprio sulla legittimità del passaggio dal concetto alla realtà: la pura e semplice possibilità logica di un concetto non ci autorizza infatti ad asserire nulla sulla sua esistenza effettiva, come in seguito parecchi altri filosofi anche scolastici, a cominciare da Tommaso, rilevarono. La seconda obiezione di Gaunilone appare altrettanto temibile: se il filosofo e l’ateo si accordassero su un’altra definizione di Dio (che potrebbe essere “l’essere onnipotente”, “l’essere più misericordioso” e via dicendo), allora tutta l’argomentazione di Anselmo non potrebbe più decollare. La definizione “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore” in realtà contiene già la nozione della esistenza reale di Dio: l’argomento ontologico non è autenticamente una dimostrazione, ma si limita a esplicitare qualcosa che era già da sempre contenuto in essa, come un prestigiatore riesce a estrarre dal suo cilindro un coniglio solo se ce l’ha già messo dentro prima. Si tratta, in termini più tecnici, di una petizione di principio: una argomentazione dove la tesi che si vuole dimostrare è già presente nella premessa, un circolo vizioso (detto dai logici diallelus). [Vedi i testi del dibattito]

4. TOMMASO: LA FEDE COME CERTEZZA E FONDAMENTO DELLE CERTEZZE

4.1. PREMESSE TEORICHE La riflessione di Tommaso d’Aquino (1221 - 1274) sul nostro tema si chiarisce tenendo presenti due fatti. In primo luogo, che prima di lui erano stati fatti dei tentativi di chiarire il rapporto fra ragione e fede che adottavano un’ottica nuova, non più ispirata all’agostinismo. Nel corso dei Duecento si erano infatti moltiplicate le obiezioni al rigetto della filosofia ancora presente in pensatori anti-intellettualistici come Bonaventura (1217 ca - 1274) o Ruggero Bacone (1214 ca - 1292). Abelardo (1079 - 1142) aveva

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sostenuto che la ragione era in grado, da sola, di raggiungere una conoscenza tutt’altro che inadeguata di Dio: le naturali capacità conoscitive dell’uomo e la filosofia che ne deriva sono sempre in concordia con la dottrina evangelica e, d’altro canto, anch’esse ci sono state elargite da Dio. Similmente Alessandro di Hales (1185 ca - 1245) aveva sostenuto che la ragione e la fede hanno solo diverse modalità di operare, ma che i loro risultati non possono che concordare nel riconoscimento dell’unica verità. In secondo luogo nella filosofia scolastica il primato di Platone era stato sostituito dalla conoscenza di Aristotele, con il suo ben maggiore senso empirico. Anche gli scolastici, dopo una fase di incertezza, iniziano a fare uso degli strumenti concettuali approntati da Aristotele. Ma soprattutto alla diffidenza di origine platonica nei confronti dell’esperienza e al privilegiamento delle essenze sugli oggetti mondani si sostituisce un nuovo, forte senso dell’immediatezza, una rivalutazione radicale della conoscenza sensibile, con conseguenze di grandissimo rilievo anche per la teologia. A ciò consegue il riconoscimento tomista che la ragione ha una sua propria verità: essa, a condizione che sia usata rettamente, non può essere in contrasto con la fede perché ci è stata conferita dell’autore stesso della verità, Dio. Se la teologia si fonda sulle rivelazione, la filosofia non può che fondarsi sulla sola ragione: le filosofie che sbagliano lo fanno o perché procedono scorrettamente o perché affrontano ambiti in cui la prova razionale è impossibile e dunque sono esse stesse il metro della loro valutazione. La fede è dunque la regola del corretto procedere della ragione solo per quanto attiene ai risultati finali, non invece per quanto attiene al metodo e alle conquiste particolari.

4.2. LA SOLUZIONE TOMISTA La fede è definita da Tommaso come un pensiero che non riesce a fondarsi sul solo intelletto, ma che ha spinge a credere determinate verità che l’intelletto stesso non sarebbe in grado di dimostrare. La ragione non è affatto superflua, ma svolge un ruolo soltanto ancillare o preambolare, cioè può indurre alla fede, mostrarne la ragionevolezza e l’opportunità, ma da sola non induce a credere. La ragione può conoscere, col solo lume naturale, moltissime verità intorno a Dio (Somma contro i Gentili, IV, 1; Somma teologica, I 2, 2 ad 1): ad esempio la sua esistenza, eternità, semplicità, perfezione, bontà, unità, infinità, verità, il suo essere creatore ecc. Tuttavia così non si arriva a una sua piena comprensione, perché restano fuori degli aspetti fondamentali affidati alla sola fede, come il mistero della Trinità: ciò dipende dal fatto che noi possiamo arrivare a Dio, l’oggetto più lontano dal sapere umano, l’extremum cognitum, solo a partire dalle creature, il primum cognitum, ossia l’oggetto d’esperienza; la teologia di Tommaso in questo senso deriva dalla sua concezione fortemente empiristica della conoscenza, di matrice aristotelica. Serve pertanto un genere più elevato di conoscenza, la dottrina sacra dataci mediante la rivelazione: è la fede che ci consente di cogliere quanto è negato alla ragione e che veicola dei contenuti che, a differenza del sapere umano, non sono mai incerti, dubbi o addirittura erronei. E questa è la parte affidata dunque al principio di autorità (Somma teologica, I 1, 1c). In tal modo Tommaso distingue una teologia naturale e una rivelata, e solo la prima è una parte della filosofia (Somma teologica, I 1, 1 ad 2) e cioè ripropone ancora una volta il dualismo di ragione e autorità. Eppure le due dottrine, in quanto parlano di Dio che fra i suoi attributi ha quello di essere il creatore, principio e fine delle creature, devono parlare entrambe anche del mondo. La differenza non sta dunque nell’oggetto, ma nell’atteggiamento, perché nella teologia naturale la considerazione prima è rivolta alle creature, mentre in quella rivelata a Dio. La seconda assume dalla fede i propri princìpi, che non abbisognano di alcune dimostrazione, mentre la prima ha bisogno di fondare e giustificare il suo punto di partenza (Somma contro i Gentili, II 4). La filosofia, e quindi la teologia in quanto forma di filosofia, devono muovere da princìpi certi; i princìpi primi vengono colti in modo non discorsivo, bensì in virtù della loro autoevidenza, come già Aristotele aveva chiarito. Essi sono generalissimi, e dunque appartengono all’essere in quanto essere, ancora una volta seguendo la lezione della metafisica aristotelica: la metafisica approda pertanto alla nozione di Dio. La teologia filosofica poggia insomma su princìpi completamente razionali, propri dell’intelletto umano in quanto tale, senza che si richieda fede o rivelazione alcuna. Ma anche in questa dottrina Tommaso non è esente dal fideismo: che cosa infatti garantisce la verità dei princìpi? Tommaso non si accontenta della risposta di Aristotele, ma aggiunge che essi, naturalmente connaturati alla razionalità umana, ci sono “dati” da Dio, perché la stessa natura umana non si fonda in se stessa, ma sull’opera creatrice di Dio che ci ha attribuito il “lume naturale”,

Che cos’è una prova?

Le prove scolastiche dell’esistenza di Dio non si possono ritenere dimostrazioni in senso tecnico in quanto si presentano come procedimenti discorsivi volti a suscitare l’assenso nei confronti di una qualche proposizione che non presentano una forma specifica. Per contro la logica medievale aveva approfondito la riflessione di Aristotele sulla dimostrazione (Secondi Analitici) riconoscendole una struttura sillogistica che manca all’argomento ontologico come alle vie di Tommaso.

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partecipazione alla luce divina (Somma contro i Gentili, I, 7). Insomma anche la dottrina tomista dell’intelletto umano si giustifica in base alla nostra creaturalità e viene ad assumere alla fine un fondamento teologico e non genuinamente filosofico. Ma questo significa che in definitiva, anche se la ragione possiede un ampio campo di autonomia, la fede le resta superiore.

4.3 LE PROVE DELL’ES ISTENZA DI DIO Un altro tema fondamentale è la trattazione sistematica prodotta da Tommaso delle prove dell’esistenza di Dio (Somma teologica, I 2 Proemio). Il filosofo parte da una serrata contestazione dell’argomento ontologico. Le sue obiezioni sono due. La prima contesta che l’unica definizione possibile o, forse meglio, la più opportuna di Dio sia “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”: ne sono state prodotte tante altre più o meno plausibili e nulla giustifica questa come la migliore. La seconda obiezione contesta ancora una volta, come già aveva fatto Gaunilone, il passaggio dalla existentia in intellectu a quella in re; infatti “non si può affermare che esso [Dio] esiste in realtà se non si è ammesso che esiste nella realtà ciò di cui non si può pensare il maggiore” (Somma teologica, I 2, 1 ad. 2), cosa che coloro che non credono nell’esistenza di Dio non ammettono. In ogni caso a giudizio dell’empirista Tommaso sarebbe assai arduo, per non dire impossibile, dimostrare Dio a partire dalla sua nozione (cioè dalla sua definizione), essendo egli quanto è più lontano dall’uomo e a lui meno noto. Se infatti per lui la conoscenza inizia sempre dalla sensazione, se non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi, noi non possiamo avere nessuna conoscenza diretta di Dio, che risulta essere l’oggetto più lontano dall’uomo e il più difficile da conoscere. È invece possibile provarne l’esistenza non a partire da lui stesso, cioè dalla causa che in sé ci è ignota, quanto piuttosto dagli effetti, che invece sono quanto di più noto c’è per noi, perché si tratta delle entità e degli eventi che l’esperienza ci attesta. È chiaro tuttavia che c’è una certa differenza fra la causa e gli effetti, e di conseguenza le vie di Tommaso infatti non ci conducono a una conoscenza piena e perfetta di Dio, ma solo a provare che esiste un principio superiore e a individuare certe sue caratteristiche. In altre parole, intese nella loro portata specifica, tali prove non dimostrano propriamente che è Dio a esistere, ma solo che esiste una causa prima ecc., che solo il successivo e volontaristico intervento della fede dice essere Dio. Ciò tuttavia a giudizio di Tommaso non inficia il loro ruolo di argomentazioni a favore della fede e della sua razionalità. Le cinque prove (Somma teologica, I 2 ad 3) sono strutturate tutte allo stesso modo. 1) La prima, di chiara derivazione aristotelica, identifica Dio come primo motore immobile partendo dalle cose mosse che riscontriamo nell’esperienza e risalendo alla causa prima del movimento. Poiché infatti ogni cosa è mossa da altro, se non vi fosse un motore primo, non mosso da altro, non vi sarebbe nemmeno questo particolare movimento, il che è impossibile e smentito dall’esperienza, che lo attesta. 2) La seconda è del tutto analoga alla prima, ma identifica Dio con la causa prima agente e incausata. 3) La terza constata che nel mondo esiste il contingente. Se tutto fosse contingente nulla potrebbe esistere perché se tutto fosse solo possibile nulla diventerebbe mai reale: c’è quindi bisogno di qualcosa di necessario. 4) La quarta prova parte dall’esistenza dei gradi (per cui è l’unica ad avere piuttosto un sapore platonico e ricorda un’argomentazione del Monologion di Anselmo) e postula l’esistenza di qualcosa di assoluto o di una somma perfezione in relazione a cui solo si possono determinare i gradi. 5) La quinta infine rileva l’ordine armonioso dell’universo e il finalismo proprio anche della natura non intelligente: poiché tale ordine non può essere frutto dal caso, esso si deve a una superiore intelligenza ordinatrice. Tutte le prove danno per scontata la validità universale del principio di causa ed escludono la possibilità di un regresso infinito nelle cause.

TESTO 3. TOMMASO In questo passo tratto dalla Somma teologica (l’amplissima trattazione cui il filosofo attese a partire dalla metà degli anni Sessanta) Tommaso enuncia le cinque prove dell’esistenza di Dio (dette “le cinque vie”) che egli reputa accettabili. Non sono in verità argomenti nuovi, nel senso che alcuni di esse erano

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già state formulati in precedenza da altri pensatori, ma a essi viene adesso conferita una struttura logica unitaria e rigorosa. Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. […] Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine nelle cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di sé medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo. …procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. La terza via è presa dal possibile «o contingente» e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. […] Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. […] E questo tutti dicono Dio. La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile ed altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma i gradi maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto […] Dunque v’è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio. La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predisposizione, raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente come la freccia dell’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest’essere chiamiamo Dio. [Somma teologica, I, q. 2, ad 3; trad. it. in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, vol. IV, 1, 1973, pp. 1011-1014] Per la comprensione

• Individua la struttura logica comune a tutte e cinque le prove. • Quali ti sembrano le più vicine alla dottrina aristotelica? • Quali ti sembrano le più vicine alla dottrina platonica?

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5. OCKHAM: LA FEDE COME SCELTA VOLONTARIA

5.1. PREMESSE TEORICHE L’equilibrio che Tommaso aveva inteso creare fra ragione e fede si perde sempre in misura sempre maggiore quanto più ci si avvicina al tramonto del Medioevo: la ragione viene progressivamente espulsa dalle cose teologiche, soprattutto a causa delle crescenti incertezze che si addensano sulle sue capacità conoscitive. Duns Scoto sostiene che la ragione naturale è in grado di pervenire a importanti risultati intorno a Dio, e in ciò sembra concordare con Tommaso. Ma se poi guardiamo che cosa, secondo lui, possa dire esattamente di Dio la ragione umana, ci accorgiamo che si tratta di molto meno rispetto a quanto affermava Tommaso: anche l’onnipotenza, l’incommensurabilità, l’onnipresenza di Dio sono tutti tratti non accessibili alla ragione naturale. La conoscenza soprannaturale, rivelativa, diventa sempre più ampia e importante; il principio di autorità si estende e la fede diventa l’esito della determinazione volontaria dell’uomo di credere, che è poco supportata da argomenti razionali anche solo preambolari. Ockham è il filosofo medievale in cui l’impostazione empiristica è più forte. Per lui l’unico avvio della conoscenza è dato dall’esperienza, una conoscenza che lui chiama intuitiva, e cioè sensibile e immediata; ma di Dio non si può avere notizia in questo modo perché nessuno può vederlo. Possiamo conoscerlo a partire dalla pura realtà naturale, ma in questo modo non lo conosciamo mai in se stesso e ce ne formiamo dei concetti che non lo rappresentano veramente nella sua essenza. Inoltre, dato il nominalismo sostenuto da Ockham, ovvero la convinzione che l’unica realtà è l’individuo e che i concetti generali come gli universali (“uomo”, “vegetale” ecc.) non esistono di per sé ma indicano solo una classe di oggetti per cui è del tutto inopportuno credere nella loro esistenza effettiva (che non sia quella di meri nomi), non ha senso una prova come quella ontologica.

5.2. LA SOLUZIONE OCKHAMISTA L’empirismo estremo di Guglielmo di Ockham (1280 - 1349 ca) riduce drasticamente le nozioni che la ragione naturale può procurarci intorno a Dio (Ordinatio, Prol. 1, 2), tanto che anche le prove della sua esistenza non sono più affidabili: sicuramente l’esistenza di Dio non è un dato evidente e a maggior ragione non sono evidenti le sue caratteristiche: infatti è possibile conoscere l’essenza soltanto degli oggetti di cui abbiamo appreso l’esistenza intuitivamente, cioè empiricamente, cosa che abbiamo visto essere impossibile a proposito di Dio (Quodlibet, I 1). Nella Somma di logica Ockham distingue i termini assoluti e quelli connotativi: i primi rinviano immediatamente ai loro significati, mentre i secondi significano una cosa primariamente e una secondariamente, come «bianco» indica primariamente il colore di un determinato oggetto (per esempio un foglio di carta) e secondariamente una proprietà generale, la bianchezza. Gli attributi divini vanno colti in questo secondo significato, perché il termine «creatore», fra gli altri, si riferisce anche alle creature e non è solo una proprietà di Dio; infatti possiamo dire che Dio è il creatore dell’universo, ma anche che Beethoven o Michelangelo sono «creatori» se pensiamo alle loro opere. Se gli attributi divini fossero espressi da termini assoluti, se cioè fossero caratteristiche possedute da Dio solo, o se vi fosse un solo attributo che caratterizza la sua essenza, allora basterebbe un’analisi del suo concetto; ma noi attribuiamo a Dio innumerevoli caratteristiche (l’essere creatore, sapiente, buono ecc.) che spettano, sia pure in modo diverso, ad altri esseri. Di conseguenza è impossibile dedurre gli attributi divini dalla sola analisi del concetto di Dio, perché in molti casi essi rinviano a cose che non sono contenute virtualmente nel concetto stesso (Sentenze, I, d. 3, q. III), come pure la sua esistenza reale muovendo dal suo concetto, come invece sappiamo aveva voluto fare Anselmo, e anche ad escludere la possibilità di avere una definizione privilegiata di Dio, come quella da cui parte l’argomento ontologico. L’unico concetto che l’uomo può avere di Dio è un concetto composto e formato da parti ottenute per astrazione a partire dagli altri enti. Anche le prove a posteriori, come quelle sviluppate e sistematizzate da Tommaso, sono problematiche per Ockham: esse infatti sono tutte organizzate su di un regresso causale che, non potendo proseguire all’infinito, inferisce l’esistenza di un principio primo. Ma non si può provare che Dio sia la causa efficiente prima di qualsiasi evento e per almeno due ragioni:

Giovanni Duns Scoto, (1265-1308)

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1. innanzitutto possiamo determinare come cause solo gli eventi che siamo in grado di identificare empiricamente, il che è impossibile per Dio;

2. in secondo luogo anche alcuni eventi naturali sembrano sfuggire a questa logica. Se per esempio io colpisco l’estremità di un bastone – spiega Ockham – in modo che il movimento si propaghi fino all’estremità opposta, qui entra in gioco un’infinità di cause motrici perché ogni lunghezza è infinitamente divisibile; in questo caso non solo non è impossibile, ma anzi necessario porre una serie infinita di cause. Ciò smentisce tutte le prove di impianto causale.

L’unica prova che appare a Ockham ancora in possesso di una certa plausibilità è quella della causa conservante. Si tratta di una versione modificata della prova della causa efficiente: infatti noi non possiamo essere sicuri che sia impossibile una serie indefinite di cause passate, ma siamo invece certi che non può esistere una serie indefinita di cause attuali che conservino l’universo nel momento presente. E tuttavia, aggiunge Ockham, resta da dimostrare che tale causa prima sia poi effettivamente Dio, mentre Tommaso aveva sì individuato la condizione incondizionata dell’esperienza, ma non aveva spiegato il passaggio che lo aveva portato a identificarlo con Dio. Nemmeno la maggior parte delle caratteristiche di Dio si possono dimostrare (Quodlibet, I 1), ma possono solo essere credute: l’unità e la libertà assoluta di Dio, la sua infinità, l’onnipotenza, l’onniscienza e altre ancora. I miracoli e la predicazione di per sé non valgono nulla, in quanto anche le religioni false come l’islamismo ricorrono a esse; e le stesse verità di fede del cristianesimo appaiono false alla ragione naturale. Anzi non si può ragionevolmente affermare nemmeno che Dio è uno solo, perché non ci sarebbe nulla di strano, razionalmente, nell’ammettere una pluralità di cause prime che agiscono in armonioso accordo.

TESTO 4. OCKHAM Il passo contesta la possibilità di provare l’esistenza di un unico Dio. Si noterà che le argomentazioni di Ockham presuppongono la sua teoria del significato e sono strettamente integrate alle sue teorie logiche; la lezione aristotelica è fortissimamente presente in questa impostazione argomentativa di tipo deduttivo. Alla conclusione del brano Ockham ammette la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, ma non precisa quali altre nozioni si possano dedurre da questa ammissione. È possibile dimostrare filosoficamente che esiste un Dio solo? Alcuni sostengono che si può, perché un universo solo non può avere che un solo principio: e siccome si può filosoficamente dimostrare che di universi ce n’è uno solo, […] si può dunque dimostrare filosoficamente che c’è un solo Signore, che è poi Iddio; quindi, ecc. A questo però si può opporre, che un articolo di fede non è dimostrabile con evidenza: ora che esista un Dio solo è un articolo di fede; quindi, ecc. Accingendomi a risolvere il problema, primo, dirò che cosa si deve intendere con quel termine Dio; poi risponderò alla domanda. Quanto al primo punto dico che del nome «Dio » si possono dare diverse definizioni. Una è questa: Dio è un qualche cosa che nell’eccellenza e nella perfezione supera ogni cosa altra da sé. Un’altra è questa: Dio è quell’essere di cui non ne esiste uno migliore e più perfetto. Quanto al secondo punto io dico, se si prende Dio secondo la prima definizione non si può dimostrare apoditticamente che ci sia un unico Dio. E la ragione è, che non si può sapere con evidenza, che Dio, inteso in quel senso, esista; quindi non si può nemmeno conoscere con evidenza che Dio (sempre secondo quel significato), sia uno solo. La conseguenza non ha bisogno di spiegazioni. La premessa poi si dimostra così: la proposizione: Dio esiste, non è immediatamente evidente, dal momento che molti dubitano di essa; e nemmeno si può dedurre da antecedenti immediatamente evidenti, poiché in qualsiasi argomentazione si accoglierà qualche cosa di dubbio o di accettato per fede; e nemmeno è, com’è chiaro a tutti, una proposizione nota in base all’esperienza; quindi, ecc. […] Tuttavia questa proposizione negativa: non si può dimostrare con evidenza che esista un solo Dio, a sua volta non può essere dimostrata apoditticamente, poiché non si può dimostrare l’indimostrabilità dell’unicità di Dio, se non scartando gli argomenti contrari. Come non si può dimostrare apoditticamente, che le stelle sono pari, né che le Persone di Dio sono tre, e tuttavia non si possono dimostrare all’evidenza le loro contrarie: che, cioè, non è possibile dimostrare che le stelle sono pari, che in Dio le Persone sono tre.

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Si deve sapere tuttavia, che è possibile dimostrare l’esistenza di Dio […]; poiché si darebbe un processo all’infinito, se fra gli esseri non ne esistesse uno, del quale nessun’altra cosa è anteriore e più perfetta. [Quodibet primum, questione prima; trad. it. in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, vol. IV, 1, 1973, pp. 1456-1458] Per la comprensione

Rispondi alle seguenti domande: • Quali sono le definizioni di Dio prodotte da Ockham? • In che cosa tali definizioni si differenziano? • Perché non è possibile dimostrare l’esistenza di un unico Dio? • Alla luce di quale presupposto è nondimeno possibile dimostrare l’esistenza di Dio? Se la scientificità coincide con la dimostratività, un’idea diffusa dopo la riscoperta degli Analitici di Aristotele e condivisa da Ockham, allora la teologia non può più pretendere, com’era invece per Tommaso, di essere scienza. Vi sono verità di fede che possono essere ritenute vere solo per fede e che Ockham chiama credibilia, e vi sono altre verità che si possono invece provare razionalmente: tuttavia queste prove rientrano più nell’ambito del ragionevole che del certo, essendo tutt’al più ragionamenti probabili. La teologia può continuare a indagare e chiarire il senso delle proposizioni della fede, ma l’adesione del credente sarà esclusivamente fideistica e non razionale, motivata dall’adesione volontaria alla testimonianza delle Scritture: anche qui insomma il principio di autorità torna a farsi valere. Tutto ciò non viene affermato da Ockham per diminuire in qualche modo il valore della fede, ma al contrario per metterla al sicuro dalle pretese di una ragione larghissimamente imperfetta; è piuttosto la filosofia a essere almeno in parte svalutata, fatta eccezione per il ruolo (però solo strumentale) che Ockham continua ad attribuire alla logica. L’idea, tipica del XIII secolo, che fosse possibile generare un sistema intellettuale unitario in cui trovassero posto, ciascuna nel suo ambito e secondo le sue specifiche competenze, le conoscenze razionali e i dati della fede, è ormai liquidata e con ciò il progetto che aveva guidato la Scolastica stessa.

6. ECKHART: LA FEDE RELIGIOSA COME MISTICA

6.1. PREMESSE TEORICHE In tutti i mistici che abbiamo citato l’avvicinamento a Dio è il frutto di una progressiva elevazione, del graduale abbandono dell’uomo dai suoi legami naturali e terreni verso la pura contemplazione di Dio: tre diverse modalità in Ugo di San Vittore, sei gradi in Riccardo di San Vittore, ancora sei in Bonaventura. Tutti questi autori ritengono che l’esperienza di Dio non sia mai formulabile linguisticamente in modo adeguato e che Dio si possa conoscere solo con una sorta di immedesimazione soggettiva impossibile da descrivere; non si possono produrre nemmeno nozioni definite di Dio, per cui alla teologia negativa (che sosteneva che di Dio si poteva dire solo ciò che non era) si sostituisce adesso la teologia “superlativa”, secondo la quale non è sufficiente nemmeno esprimersi su Dio in termini negativi, perché tutto quando si dice di Lui, in positivo o in negativo, in rapporto alla sua essenza è nulla.

6.2. LA SOLUZIONE DI ECKHART In Meister Eckhart (1260 ca - 1327) il cammino verso Dio assomiglia piuttosto a una discesa all’interno dell’individuo, al rifiuto dell’intera realtà mondana, poiché prescrive l’“autoisolamento”. Questo autoisolamento ha una doppia valenza: in primo luogo esso è l’abbandono di ogni realtà esterna, la rinuncia alla considerazione di qualsiasi aspetto del creato, l’oblio di tutte le creature: l’uomo deve trovarsi in un regime di separazione da ogni cosa. In secondo luogo è anche solitudine dell’uomo nei suoi propri confronti, una condizione di abbandono di ogni attività, di dimenticanza totale della vita e del tempo che trascorre; insomma l’uomo deve pervenire all’annullamento di se stesso. L’essenza del misticismo consiste proprio in questo: nel diventare un nulla da parte dell’uomo.

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Ma proprio in questa condizione e solo in essa si apre per l’uomo la possibilità di far sorgere quanto è più intimo e profondo della sua anima, una condizione cui Eckhart attribuisce una serie nutrita di definizioni come “vertice dell’anima”, “luce dello spirito”, “cittadella dell’anima” o ancora “favilla dell’anima”, tranne poi a riconoscere che nessuna di queste definizioni risponde esattamente a ciò che viene inteso, che quella condizione è innominabile e rimane in ogni caso ignota nella sua essenza. Questa favilla, una volta accesa dalla contemplazione, è da un lato naturalmente una creazione divina, ma dall’altro, quanto alla sua natura, lontana da ogni creatura nel senso tradizionale: essa viene supportata direttamente da Dio e ne coglie l’essenza com’era prima della creazione. L’anima è in parte affine a Dio, non lo conosce come un oggetto distinto da essa (com’era nella teologia razionalistica), ma per una pur parziale identificazione perché Dio giace nascosto nel fondo della nostra anima. La piena e perfetta solitudine è allora l’unica strada per giungere in prossimità di Dio, per ottenere questa conoscenza di Dio che non è mai oggettivazione, come ci accade con gli oggetti esterni, ma identificazione con lui. E quando Dio si è “effuso” nell’uomo, quest’ultimo si è spogliato della propria identità ed è un tutt’uno con Dio stesso. Ma lo stesso Eckhart non può descrivere più di tanto questo processo, e in effetti si limita a ribadirlo cercando espressioni sempre nuove e suggestive, che tuttavia sono puramente allusive. E difficilmente da queste premesse potrebbe sorgere una teologia, dal momento che Eckhart è perfettamente consapevole del fatto che l’anima sente che questo processo di spoliazione da sé e di identificazione con Dio ha luogo, ma non si rende conto di come ciò possa accadere e di che cosa esattamente si tratti: si tratta di una “conoscenza non conosciuta”, anche se per il credente questo sapere che è in effetti non sapere, è la conoscenza più elevata e la somma perfezione dell’anima. Ciò non toglie che poi Eckhart produca una speculazione che cerca di chiarire l’essenza di Dio. Dio è l’essere in senso assoluto, ma anche l’essere che è in ogni ente (cioè in ogni creatura), perché fa essere l’ente che senza di Lui non sarebbe nulla. Tutto ciò che è, è Dio, ma subito Eckhart dissipa il dubbio su un suo possibile panteismo: in effetti, nemmeno l’essere appartiene propriamente a Dio, perché egli è qualcosa di ancora più elevato. La più autentica modalità in cui Dio si attua è l’intelligere, il suo essere consiste nella più elevata attività che si possa immaginare, la conoscenza: Dio non conosce perché è, ma è in quanto conosce. Ma ancora una volta il filosofo è insoddisfatto delle sue teorie: nella sua solitudine che lo porta all’identificazione con la divinità, l’uomo capisce alla fine che Dio non è propriamente essere ma nemmeno conoscere, bensì semplicemente “Dio quale è in se stesso”. Dio finisce per essere insomma nascosto e ineffabile, cosicché la nostra compiuta nozione di Dio consiste nel divenire consapevoli di questa ineffabilità e dunque nel farci “vuoti di Dio”: la solo apparentemente paradossale conclusione è che in nome di Dio stesso noi dobbiamo abbandonare Dio.

TESTO 5. ECKHART Il passo spiega il carattere “indistinto” dell’essenza divina, a cui deve avvicinarsi l’animo umano per poterlo cogliere Ne consegue l’impossibilità di una conoscenza intellettuale di Dio che dovrebbe rendere Dio stesso un suo oggetto; infatti Dio non è un oggetto specifico, ma diverso e superiore rispetto a tutti gli oggetti che l’uomo è in grado di conoscere. In secondo luogo, poiché per Eckhart il simile conosce il simile, l’anima umana, nel conoscere Dio, deve rendersi sempre più simile ad esso, perdendo la propria individualità. La Sapienza viene nella mente, quando l’anima si sottrae ai tumulti delle passioni e alle occupazioni delle cose mondane, quando tutte le cose tacciono per lei e lei tace per tutte le cose. Questo lo dice anche Agostino… È necessario inoltre che la quiete e il silenzio contengano ogni cosa per questo, che il Verbo del Signore venga nella mente per mezzo della grazia, e il Figlio nasca nell’anima. Tacciano tutte le cose sia in comune che singolarmente: in comune perché il termine: tutte le cose importa il numero ossia la moltitudine. Tutte le cose infatti derivano dall’uno. E Dio è l’uno. Tace dunque e riposa ogni numero e moltitudine… Tacciono le cose singolarmente, quando tace per l’anima questo e quest’altro, ciò che è creato e distinto. E si noti che questo è necessario per l’anima che deve accogliere Dio, per quattro motivi: 1) perché lo stesso Dio non è questo o quest’altro, ma è sopra tutte le cose. Lo dice Avicenna: è manifesto che Dio primo non ha genere; colui che è altissimo e glorioso; poiché tutto ciò che è, è da lui, e non comunica la sua natura a ciò che da lui deriva. Lo stesso infatti è tutto ciò che è, e tuttavia non è alcuno degli enti; 2) poiché questo e ogni questo è cosa creata, mentre Dio è increato; 3) perché chi ama

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l’indistinto e l’indistinzione, odia tanto il distinto quanto la distinzione. Ma Dio è indistinto, e l’anima ama di rendersi indistinta, cioè di essere e diventare una sola cosa con Dio… 4) l’anima naturalmente si porta verso il bene semplice e assoluto, ma nessun essere distinto e determinato è l’essere semplice e assoluto, come dice Agostino... [Commentario sul libro della Sapienza; trad. it. in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, vol. IV, 1, 1973, pp. 1570-1571] Per la comprensione

Rispondi alle seguenti domande: • In che senso la parola di Dio ci giunge per mezzo della grazia? • Perché Eckhart definisce silenzio la nostra conoscenza di Dio? • È possibile definire Dio ed enuclearne le caratteristiche?

7. CONCLUSIONI

Il filone maggiormente “razionalistico”, quello che ha sempre puntato sulla complementarità di ragione e fede (anche se non necessariamente né in prevalenza tomista), è stato storicamente dominante all’interno della teologia cattolica. Addirittura, con l’enciclica Aeternis Patris del 1879, promulgata da Pio IX, il tomismo venne proclamato dottrina teologica ufficiale della chiesa. Per tutto il Medioevo e anche nel corso dell’età moderna la chiesa cattolica ha guardato con sospetto le tendenze mistiche e non poche sono state le proposizioni dei mistici a essere condannate fin dal Medioevo. È solo dopo il Concilio Vaticano II (1962-1966) che è stata riconosciuta la legittimità di tali esperienze, sostanziate da forme nuove di contemplazione e di preghiera, sebbene si continui a puntare a una sintesi di misticismo e teologia razionalistica e non invece all’abbandono della seconda a favore esclusivo della prima. La teoria scolastica della fede non implicava d’altro canto la rinuncia al mondo esterno (visto anzi come il risultato meraviglioso della creazione divina), né al proprio corpo (che invece il cristianesimo vede in rapporto di complementarità con l’anima), e nemmeno al proprio io, nucleo di ogni responsabilità individuale. Dal punto di vista del credente l’orizzonte problematico dei Medievali non sembra dunque definitivamente superato, se nell’enciclica Fides et ratio (1998) Giovanni Paolo II scrive: «La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l’uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio» (II, 17). E tuttavia l’insistenza dello stesso testo sulla definizione del credere come “pensare assentendo” ritorna a fondare la convinzione razionale sulla fiducia fideistica della verità della rivelazione, e cioè indirettamente ancora una volta sull’autorità.

“La teologia” di Raffaello

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8. TESTI ED ESERCIZI

Sez. A Il problema e il senso comune

Mettere in relazione le affermazioni sotto elencate con le concezioni che esprimono: 1. Quando jubilo è acceso, | sì fa l’omo clamare; | lo cor d’amore è preso | che no ’l pò comportare… (Iacopone da Todi, O jubilo del core!). 2. Beato l’uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l’intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i segreti (Siracide, 14, 20-27). 3. L’esistenza di Dio non viene dapprima dimostrata o spiegata razionalmente e poi creduta… La realtà nascosta di Dio non si impone di prepotenza alla ragione (H. Küng, 24 tesi sul problema di Dio). 4. La ragione … viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede (Giovanni Paolo II, Fides et ratio) 5. Per la giustificazione è necessario separare fede e ubbidienza, ma questa separazione non deve mai annullare la loro unità, che consiste nel fatto che la fede esiste solo nell’obbedienza (Bonhoeffer, Sequela). 6. È gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle (Proverbi, 25, 2). 7. Fede è sustantia di cose sperate | et argomento delle non parventi | e questa a me pare sua quidditate (Dante, Paradiso). a) principio di autorità b) misticismo c) fideismo d) “intelligo ut credam” e) “credo ut intelligam”

Sez. B

Ripercorrere le diverse soluzioni (Esercizi per comprendere ed utilizzare le diverse soluzioni proposte)

1. Individua le affermazioni vere tra quelle che seguono: 1. Per Agostino la ragione da sola è in grado di produrre conoscenze certe. 2. Per Agostino la fede è un moto che procede da Dio all’uomo e non viceversa. 3. Per Anselmo tutti i contenuti della fede sono intrinsecamente razionali. 4. L’argomento ontologico di Anselmo è una prova a posteriori dell’esistenza di Dio. 5. Per Tommaso la fede è razionale, ma necessita di una determinazione volontaria da parte dell’uomo. 6. Pur godendo di una sua autonomia, per Tommaso la ragione non può produrre dei risultati in contrasto con la rivelazione. 7. Occam riconosce la validità di innumerevoli prove dell’esistenza di Dio, a priori e a posteriori. 8. Per Occam la teologia è la scienza che chiarisce razionalmente l’essenza del divino. 9. Per Eckhart la fede in Dio porta l’uomo al proprio autoannullamento come individuo. 10. Essendo Dio ineffabile, quella di Eckhart è una teologia negativa. 2. Completa il passo inserendo negli spazi bianchi i termini opportuni fra quelli sotto indicati in ordine alfabetico:

Per Agostino la ragione umana da sola non può giungere alla …………1. Essa è infatti sempre mutevole e

incerta, e deve allora trovare non nell’esperienza ma in ……….2 le proprie conoscenze stabili. Il loro

riconoscimento si ha attraverso la …………3. La fede si fonda sulla …………..

4 della Scrittura. Tuttavia la

fede non può fare a meno della …………5, perché l’uomo ha l’obbligo di capire esattamente ciò in cui sta

credendo, anche se alcune di queste verità di fede gli sono superiori e lui non può acquisirle che grazie alla ………….

6.

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autorità – Dio – illuminazione – ragione – rivelazione – verità 3. Dopo aver letto questo passo di Gaunilone, rispondi alle domande che seguono e che riguardano Anselmo: “…alcuni dicono che in qualche parte dell’oceano vi è un isola, che … possiede un’inestimabile abbondanza di ricchezze e delizia e quest’isola … supera per abbondanza di beni tutte le altre terre abitate da uomini. Se qualcuno mi dice questo, io intendo facilmente quanto mi si dice, poiché in esso non vi è nessuna difficoltà. … Se costui … volesse assicurarmi che veramente non si può più dubitare dell’esistenza di quest’isola, io crederei che, così parlando, volesse scherzare” (Gaunilone, In difesa dello stolto, VI, 1-2; trad. it. in Anselmo, Proslogion, cit, pp. 179-181).

1. Trovi convincente o meno il passo, che presenta una struttura analoga all’argomento ontologico? 2. Se tu fossi Anselmo, come replicheresti all’argomentazione di Gaunilone? 3. Qual è il fondamento logico dell’argomentazione di Gaunilone?

4. Dopo aver letto il passo di Tommaso, svolgi gli esercizi sotto riportati: “E neppure segue necessariamente che appena compreso il significato del termine Dio, subito si abbia l’idea dell’esistenza di Dio: perché tra quelli stessi che ne ammettono l’esistenza non tutti capiscono che Dio è la cosa di cui non se ne può pensare una maggiore… Dato, inoltre, che tutti col termine Dio intendessero la cosa di cui non è possibile pensarne una più grande, non segue necessariamente che una tal cosa esista nella realtà. La realtà infatti che deriva come logica conseguenza non può esser superiore al valore del termine… Perciò l’essere di cui non se ne può pensare uno maggiore non può non avere l’esistenza: però nell’intelletto.” [Somma contro i Gentili, I, XXI; trad. it. Utet, Torino 1975, pp. 77-78] 1. Qual è il destinatario della polemica di Tommaso? 2. Per Tommaso la caratteristica di essere ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore risiede nell’essenza di Dio? 3. Tommaso sostiene la differenza fra l’existentia in intellectu e l’existentia in re? 4 Fai alcuni esempi di entità che possiedono solo l’existentia in intellectu. 5. Dopo aver letto il passo di Ockham, svolgi i tre esercizi sotto riportati: …nulla può essere conosciuto dall’uomo con le sue sole risorse naturali in un concetto semplice proprio di una determinata cosa, se questa cosa non è prima conosciuta in se stessa. L’assunto è evidente in base all’esperienza: diversamente si potrebbe dire che il colore può essere conosciuto nel concetto proprio di colore da un cieco dalla nascita, non essendoci più ragioni per affermare che Dio è conosciuto in un concetto proprio senza che sia stato prima conosciuto in se stesso, di quante ce ne siano per affermare la stessa cosa a proposito del colore… Ma è evidente che il colore non può essere conosciuto in un concetto proprio da un cieco dalla nascita, dunque nemmeno Dio sarà conosciuto dal viatore in un concetto semplice proprio. [Ordinatio, d. 2 q. 9; trad. it. in Guglielmo di Ockham, Scritti filosofici, Nardini, Firenze 1991, p. 173] 1. Che differenza c’è fra conoscere una cosa in se stessa e conoscerne il concetto proprio? 2. Fai alcuni esempi di oggetti che conosci in se stessi. 3. Il passo sostiene o nega, in maniera indiretta, la possibilità dell’argomento ontologico? 6. Dopo aver letto il passo di Eckhart, svolgi i tre esercizi sotto riportati: … a Dio non conviene l’essere, né egli è un ente, ma qualcosa di più alto dell’ente. Come, infatti, dice Aristotele, bisogna che la vista sia priva di ogni colore per poterli tutti vedere, e che l’intelletto non sia delle forme naturali per poterle tutte pensare – così anche io nego a Dio l’essere stesso e tali caratteristiche, in modo che egli sia causa di ogni essere e contenga in anticipo tutte le cose. In questo modo non viene negato a Dio quel che è suo, ma gli viene negato quel che non è suo.

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[Questione I, 12; trad. it. in Meister Eckhart, a cura di M. Vannini, Città Nuova, Roma 1991, p. 130] 1. Perché Dio non appartiene al campo dell’essere? 2. Questo implica che Dio non esista? 3. Il passo implicitamente presuppone o smentisce la teoria dell’analogia sviluppata da Tommaso?

Soluzioni 1. Perché non può avere nessuna caratteristica in comune con le creature. 2. Assolutamente no, al contrario solo così salvaguarda l’esistenza trascendente di Dio. 3. La smentisce.

Sez. C

Strumenti filosofici (Come utilizzare gli strumenti logici e argomentativi del filosofo)

IL METODO DELL’ANALOGIA Per Agostino alcune capitali verità di fede, come la Trinità, sono impossibili da comprendere per l’uomo, che ne ha notizia esclusivamente grazie alla rivelazione. Eppure anche in questo caso la ragione non è esonerata dal tentativo di dare un qualche senso a tali nozioni, mediante un metodo di comprensione indiretta che è quello dell’analogia. Esso consiste nello stabilire una “somiglianza” tra quei concetti a noi ignoti e qualcosa di noto che ci aiuti a farcene un’idea, per quanto approssimativa essa poi non possa che essere. “Conseguita la conoscenza di questa Trinità, per quanto è dato in questa vita, ogni creatura dotata di corpo, di anima, di intelligenza si comprende chiaramente che, in quanto è, è per opera di questa Trinità creatrice, e da essa ha la forma e il suo mirabile ordinamento. … Infatti ogni cosa, o sostanza, o essenza, o natura, o come meglio la si voglia chiamare, ha insieme queste tre proprietà: di essere realtà individuale, di distinguersi per la forma propria da tutte le altre, di inserirsi nell’ordine delle cose” (La vera religione, VII, 13; trad. it. Mursia, Milano 1987, p. 49). Dopo aver letto il passo di Agostino, rispondi alle domande che seguono: 1. Quante e quali sono le proprietà strutturali di ogni cosa creata? 2. Il creato è simile o dissimile rispetto a Dio? 3. L’uomo ha accesso diretto all’idea di Dio? Tommaso applica questo metodo generalizzandolo: poiché noi non sappiamo per conoscenza diretta che cosa sia Dio, dobbiamo parlarne usando gli attributi che riferiremmo alle realtà empiriche che conosciamo, rendendoci però conto che non si tratta esattamente della stessa cosa. Il concetto di analogia esprime il carattere sempre imperfetto e approssimativo della nostra conoscenza di Dio. 2. Dopo aver letto il seguente passo di Tommaso, svolgi gli esercizi proposti: “Poiché tutte le perfezioni delle creature si riscontrano in Dio in un grado più eminente, tutti quei termini che indicano in assoluto una perfezione, possono applicarsi sia a Dio che ad altre cose: tale è il caso del termini bontà, sapienza, essere, e altri consimili. Invece tutti quei termini che esprimono codeste perfezioni secondo le modalità proprie delle creature non si possono applicare a Dio se non per similitudine e metafora, vale a dire adattando le proprietà di una cosa ad un’altra” (Somma contro i Gentili, I, XXX, trad. it. cit., pp. 129-130). 1. Conosci un caso in cui la matematica adotta un procedimento di tipo analogico? 2. Costruisci qualche esempio di analogia che rappresenti una proporzionalità di concetti

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3. Chi è il primo filosofo che ha parlato del carattere analogo di “essere”? Se l’analogia indica un’uguaglianza di rapporti, allora secondo alcuni studiosi moderni e contemporanei essa possiede una importanza notevole nella formulazione di ipotesi o teorie scientifiche, mentre per altri è in grado di svolgere un ruolo esclusivamente esplicativo o di suggerire nuove teorie al semplice livello dell’immaginazione, cioè come ausilio psicologico, ma senza possedere alcun rigore. I due passi riportati sono tratti l’uno da La teoria fisica del fisico e filosofo francese Pierre Duhem (1861-1916), testo fondamentale della filosofia della scienza uscito nel 1914, l’altro da Fisica, gli elementi, del fisico scozzese Norman Campbell (1880-1949), libro uscito nel 1920 e appartenente alla sua riflessione sulla scienza. 3. Leggi i seguenti due passi e rispondi quindi alle domande poste sotto: “La teoria dell’elettrostatica si compone di un insieme di nozioni astratte e proposizioni generali, formulate nel linguaggio chiaro e preciso della geometria e dell’algebra, collegate fra loro secondo le regole di una logica severa. Tale insieme soddisfa pienamente la ragione di un fisico francese, la sua propensione per la chiarezza, la semplicità e l’ordine. … Un libro [Duhem si riferisce a O. Lodge, Teorie moderne dell’elettricità, pubblicato nel 1890] espone una nuova teoria: si parla solo di corde che si muovono sulle pulegge, che si avvolgono su tamburi, che infilano le perle, … ruote dentate che ingranano le une nelle altre, che trascinano le cremagliere. Convinti di entrare nel campo pacifico e accuratamente ordinato del ragionamento deduttivo, ci troviamo invece in una officina” (P. Duhem, La teoria fisica, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 79-80). “…le analogie non sono ‘ausili’ nella costruzione delle teorie; sono una parte assolutamente essenziale delle teorie, senza la quale le teorie sarebbero del tutto prive di valore e indegne di tale nome. Spesso si suggerisce che l’analogia conduce alla formulazione di una teoria, ma che, una volta che la teoria è stata formulata, l’analogia è servita al suo scopo e può essere espunta o dimenticata. Tale suggerimento è assolutamente falso e pericolosamente fuorviante” (N. R. Campbell, Physics, the Elements, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1920, p. 129). 1. Che posizione l’autore del primo brano sostiene nei confronti dell’analogia? 2. Che posizione l’autore del secondo brano sostiene nei confronti dell’analogia? 3. Sei a conoscenza di qualche analogia usata per spiegare una teoria scientifica?

Sez. D Piano di discussione

1) Perché, se ho fede, dovrei capire? 2) Perché, se posso comprendere, dovrei aver fede? 3) Si ha fede o non si ha, oppure se ne può avere in diversa misura? 4) Posso condividere la fede con qualcuno? Posso trasmetterla? Posso riconoscerla in un altro? Se sì, come? Se no, perché? 5) Se credere è una decisione, essa sopravviene in un preciso momento o un po’ alla volta? Se è la nostra decisione a far scaturire la fede, significa che ne siamo la causa? 6) Per credere in Dio devo credere anche, o prima, a qualcos’altro? 7) C’è chi sostiene che si può credere e comprendere, altri che si deve credere senza comprendere, c’è chi pensa di poter comprendere senza credere e chi né comprende, né crede. Provate ad argomentare insieme le diverse posizioni. 8) La Chiesa ha a che fare con la fede, i Padri della Chiesa con la filosofia… perché la Chiesa dovrebbe trovare paternità nella riflessione filosofica?

Bibliografia minima

Mt. Fumagalli - M. Parodi, Storia della filosofia medievale, Laterza, Bari 1989. É. Gilson, La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1973. W. Weischedel, Il dio dei filosofi, il melangolo, Genova 1988, vol. I.

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9. SCHEDA DIDATTICA

SCHEDA DIDATTICA SUL PROBLEMA

Prerequisiti

sommario inquadramento storico dei filosofi citati

capacità di analisi del testo, sapendone individuare i nessi centrali

capacità di riconoscere termini specifici della disciplina

capacità elementare di valutare un argomento razionale: distinguere la tesi e i motivi a supporto

conoscere la valenza del principio di causa

Obiettivi

Conoscenza Acquisizione di un lessico specifico relativamente alle nozioni di:

religione

fede

autorità

illuminazione

teologia naturale

teologia rivelata

misticismo

teologia superlativa

Competenza Avviare l’utilizzo del lessico filosofico

Saper collocare storicamente gli autori affrontati

Focalizzare i nuclei teorici delle diverse posizioni

Capacità Analizzare e confrontare le diverse concezioni che assume il tema della fede diversi autori

Analizzare le diverse soluzioni proposte al problema

Confrontare tra le diverse soluzioni individuandone specificità e premesse

Sintetizzare il problema negli aspetti comuni rilevati nei diversi autori

Attualizzare il problema

Programmazione Tre lezioni

Termini illustrati

Lessico filosofico impiegato nell’esposizione del problema

analogia causa / effetto reminiscenza

argomento ontologico concetto scetticismo

autorità contingenza teologia negativa

fede contraddizione verità

illuminazione cosmologia volontarismo

misticismo ente Existentia in intellectu e in re

prova a posteriori esperienza autofagia

prova a priori idea Priorità causa effetto

rivelazione immaterialità Causa prima

teologia naturale motore immobile analogia

teologia rivelata principio Argomento ontologico

teologia superlativa Conoscenza intuitiva Petizione di principio (diallele)

nominalismo

realtà

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10. TESTI A INTEGRAZIONE

PAOLO, I LETTERA AI CORINTI, CAP. I Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. [E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

AGOSTINO, LA RICERCA DI DIO HA LUOGO NELL’ANIMA UMANA Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio. Che è ciò? Interrogai la terra, e mi rispose: «Non sono io»; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovano in essa. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con anime vive, e mi risposero: « Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi ». Interrogai i soffi dell’aria, e tutto il mondo aereo con i suoi abitanti mi rispose: « Erra Anassimene, io non sono Dio». Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: « Neppure noi siamo il Dio che cerchi», rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo: « Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui»; ed essi esclamarono a gran voce: «È lui che ci fece». Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte, la loro bellezza. Allora mi rivolsi a me stesso. Mi chiesi: «Tu, chi sei?»; e risposi: «Un uomo». Dunque, eccomi fornito di un corpo e di un’anima, l’uno esteriore, l’altra interiore. A quali dei due chiedere del mio Dio, già cercato col corpo dalla terra fino al cielo, fino a dove potei inviare messaggeri, i raggi dei miei occhi? Più prezioso l’elemento interiore. A lui tutti i messaggeri del corpo riferivano, come a chi governi e giudichi, le risposte del cielo e della terra e di tutte le cose là esistenti, concordi nel dire: «Non siamo noi Dio», e: «È lui che ci fece ». L’uomo interiore apprese queste cose con l’ausilio dell’esteriore; io, l’interiore, le ho apprese, io, io, lo spirito, per mezzo dei sensi del mio corpo. Interrogai sul mio Dio la mole dell’universo, e mi rispose: «Non sono io, ma è lui che mi fece». Non appare a chiunque è dotato compiutamente di sensi questa bellezza? Perché dunque non parla a tutti nella stessa maniera? Gli animali piccoli e grandi la vedono, ma sono incapaci di fare domande, poiché in essi non è preposta ai messaggi dei sensi una ragione giudicante. Gli uomini però sono capaci di fare domande, per scorgere quanto in Dio è invisibile comprendendolo attraverso il creato. Senonché il loro amore li asservisce alle cose create, e i servi non possono giudicare. Ora, queste cose rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare; non mutano la loro voce, ossia la loro bellezza, se uno vede soltanto, mentre l’altro vede e interroga, così da presentarsi all’uno e all’altro sotto aspetti diversi; ma, pur presentandosi a entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per l’altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce

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ricevuta dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono. Mi dice la verità: «Il tuo Dio non è la terra, né il cielo, né alcun altro corpo»; l’afferma la loro natura, lo si vede, essendo ogni massa minore nelle sue parti che nel tutto. Tu stessa sei certo più preziosa del tuo corpo, io te lo dico, anima mia, poiché ne vivifichi la massa, prestandogli quella vita che nessun corpo può fornire a un altro corpo. Ma il tuo Dio è anche per te vita della tua vita. Che amo dunque, allorché amo il mio Dio? Chi è costui, che sta sopra la mia anima? Proprio con l’aiuto della mia anima salirò fino a lui, trascenderò la mia forza che mi avvince al corpo e ne riempie l’organismo di vita. Non con questa forza potrei trovare il mio Dio; altrimenti anche un cavallo e un mulo, privi d’intelligenza, ma dotati della medesima forza, per cui hanno vita anche i loro corpi, potrebbero trovarlo. C’è un’altra forza, quella con cui rendo non solo viva, ma anche sensitiva la mia carne, che mi fabbricò il Signore, prescrivendo all’occhio di non udire, all’orecchio di non vedere, ma all’uno di farmi vedere, all’altro di farmi udire, e così a ciascuno degli altri sensi prescrizioni proprie secondo le loro sedi e le loro attribuzioni; e così io, unico spirito, compio azioni diverse per loro mezzo. Trascenderò anche questa mia forza, poiché ne godono anche un cavallo e un mulo, che infatti hanno essi pure la sensibilità fisica. [Le confessioni, X, 6.8-7.11; trad. it. Einaudi, Torino 19754, pp. 199-201]

AGOSTINO: FEDE, RAGIONE E AUTORITÀ Se si adduce una ragione, per quanto si voglia sottile, contro l’autorità delle Sacre Scritture, una simile ragione trae in errore a causa dell’apparenza della verità; infatti non può essere vera. Se d’altro canto, a una ragione evidentissima e sicura si cercasse di contrapporre l’autorità delle Sacre Scritture, chi fa questo non comprende e oppone alla verità non il senso genuino delle Scritture, che non è riuscito a penetrare, ma il proprio pensiero, vale a dire non ciò che trovò nelle Scritture, ma ciò che trovò in se stesso; come se fosse in esse. [Lettera 143, 7; trad. it. in Agostino, Opere, Le lettere, 1, Città Nuova, Roma 1971, p. 339] E questo insegnamento della fede, affinché s’imponga con l’autorità, è ordinato dalla misericordia di Dio. Gli avvenimenti presenti invece, per quanto attiene alla creatura, sono percepiti come fluenti nel movimento e divenire del corpo e dell’anima. Ma tutto ciò di cui in essi non abbiamo esperienza non può essere oggetto di un’altra qualunque conoscenza. Tutti questi fatti, passali o futuri, relativi a varie creature, ci sono proposti come oggetto di fede dall’autorità di Dio. Di essi alcuni sono già trascorsi prima che noi potessimo percepirli, altri non sono ancora arrivati ai nostri sensi. Essi servono moltissimo a fortificare la nostra speranza e a stimolare la nostra carità facendoci ricordare, attraverso la serie ordinatissima dei tempi, che Dio non abbandona la nostra liberazione. Devono dunque esser creduti senza alcuna esitazione. Ma ogni errore che si arroga il ruolo dell’autorità di Dio si deve respingere soprattutto se viene confutato perché crede o afferma che oltre la creatura v’è qualche altra determinazione del divenire, ovvero che una qualche determinazione del divenire esiste nella sostanza di Dio o se vuol dimostrare che la medesima sostanza sia più o meno che Trinità. Ed è proprio a spiegare, nei limiti consentiti dalla religione, la Trinità, che sta all’erta la vigile difesa della fede ed è indirizzato tutto il suo interesse. Non è qui il posto di trattare dell’unità ed eguaglianza della Trinità e della proprietà delle singole Persone. Infatti proporre su Dio Signore, creatore, causa esemplare e provvidenza di tutte le cose, alcuni temi che attengono alla fede più elementare e con cui vantaggiosamente è aiutato un proposito che ancora ha bisogno di latte e che inizia ad elevarsi dalle cose terrene alle celesti, è molto facile a farsi e da parecchi è stato già fatto. Ma trattare l’intero argomento e svolgerlo in maniera che ogni intelligenza umana sia convinta, per quanto è concesso in questa vita, dall’evidenza del ragionamento, non può apparire per qualsiasi uomo, e certamente per me, impresa agevole e facile, non solo in termini di discorso, ma perfino col solo pensiero. Ora dunque, per quanto siamo aiutati e per quanto ci è permesso, continuiamo ciò che abbiamo intrapreso. Si devono credere senza incertezza tutti i fatti che, per quanto attiene alla creatura, ci vengono narrati come passati e preannunciati come futuri e che servono a proporci la perfetta religione stimolandoci al puro amore di Dio e del prossimo. Ed essi si devono difendere contro gli increduli in maniera che o la loro miscredenza sia schiacciata dal peso dell’autorità, ovvero si mostri loro, per quanto è possibile, prima di tutto che non è da ignoranti credere tali cose; poi che è da ignoranti non crederle. Tuttavia è necessario

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respingere una falsa teoria, non tanto su oggetti passati o futuri, quanto piuttosto su oggetti presenti e soprattutto immutabili, e per, quanto è concesso, confutarla con dimostrazione evidente. [Il libero arbitrio, III, 21, 60; trad. it. in Agostino, Opere, III, 2, Opere filosofico-dogmatiche, Città Nuova, Roma 1976, pp. 357-358] Se le argomentazioni (che, ammonendoci all’esterno, mentre internamente siamo illuminati dalla stessa verità, ci fanno comprendere la falsità di quelle affermazioni) non fossero precedute nel nostro cuore dalla fede che ci rivesta di sentimenti religiosi, non ascolteremmo invano le verità in esse contenute? In questo processo conoscitivo la fede svolge la parte che l’è propria e in conseguenza la ragione trova qualche chiarimento dei problemi indagati. Pertanto alla falsa ragione è da preferire senza dubbio non solo la vera ragione con cui comprendiamo le verità che crediamo, ma anche la fede nelle verità che ancora non abbiamo comprese. Ad ogni modo è meglio credere ciò ch’è vero, per quanto non ben capito, che pensar di capire come vero ciò che al contrario è falso. La fede infatti ha i suoi occhi, con cui vede in certo modo ch’è vero ciò che ancora non vede chiaro e coi quali vede con assoluta certezza che ancora non vede chiaro ciò che crede. Orbene, chi mediante la vera ragione capisce ciò che prima riteneva certo solo per fede, è senz’altro da preferirsi a chi desidera ancora di capire ciò che crede. Qualora poi costui non sentisse nemmeno un tale desiderio e considerasse quale solo oggetto da credere le verità che ancora dovesse intendere, ignorerebbe a che giova la fede. Infatti la fede ispirata dal sentimento religioso non vuol restar separata dalla speranza e dalla carità. Il fedele quindi deve credere quel che ancora non vede in modo da sperare e amare di vedere in futuro. [Lettera 120, 8; trad. it. in Agostino, Opere, Le lettere, 2, Città Nuova, Roma 1969, p. 1199]

2. ANSELMO: L’ARGOMENTO ONTOLOGICO DIO NON PUÒ ESSERE PENSATO NON ESISTENTE 1. Questa cosa dunque esiste in modo così vero ché non si può pensare che non esiste. Infatti si può pensare che esista qualcosa che non si può pensare non esistente; ma questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente. Dunque, se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore può essere pensato non esistente, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non è ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. E ciò è contraddittorio. Dunque qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste in modo così vero che non si può pensare non esistente. 2. E questo sei tu, o Signore Dio nostro. Dunque tu, o Signore Dio mio, esisti in modo così vero, che non puoi essere pensato non esistente. E a buon diritto. Se infatti una qualche mente potesse pensare qualcosa migliore di te, una creatura si eleverebbe sopra il creatore e giudicherebbe il creatore. E ciò è troppo assurdo. Di fatto tutte le altre cose esistenti, eccettuato te solo, possono essere pensate non esistenti. Tu solo dunque hai l’esistenza nel modo più vero e maggiore di ogni a1tra cosa, poiché ogni altra cosa non esiste in modo così vero e perciò ha una minore esistenza. 3. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: “Dio non esiste”» (Sal. 14, 1 e 53, 1), quando è così evidente alla mente razionale che tu esisti più di ogni altra cosa? Perché, se non perché è stolto e insipiente? IN CHE MODO PUÒ L’INSIPIENTE AVER DETTO IN CUOR SUO CIÒ CHE NON PUÒ ESSERE PENSATO 1. Ma in che modo può aver detto in cuor suo ciò che non poteva pensare? O in che modo non poteva pensare ciò che ha detto in cuor suo, quando «dire nel cuore» e «pensare» sono la stessa cosa? 2. Se poi veramente lo ha pensato, anzi poiché veramente lo ha pensato avendolo detto in cuor suo, e contemporaneamente non lo ha detto in cuor suo, poiché non poteva pensarlo, allora non vi è un solo modo con cui si dice nel proprio cuore o si pensa qualcosa. 3. In un modo infatti una cosa è pensata, quando si pensa la voce che significa questa cosa, e in altro modo quando si intende ciò che propriamente è questa cosa. Nel primo modo si può pensare che Dio non esiste; ma nel secondo modo no. Certamente nessuno che intenda ciò che è Dio può pensare che Dio non esiste, anche se egli dice in cuor suo queste parole senza dar loro alcun significato o dando loro un diverso significato. Dio è infatti ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. Chi intende bene questo, intende anche che egli esiste in modo tale che egli nemmeno nel pensiero può non esistere. Chi dunque intende che Dio così esiste, non può pensare che egli non esiste.

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4. Ti ringrazio, o buon Signore, ti ringrazio, poiché ciò che per tuo dono prima ho creduto, ora, essendo da te illuminato, lo intendo anche con la mia mente in modo così chiaro che, anche se io non volessi credere che tu esisti, non potrei non intenderlo. [Anselmo d’Aosta, Proslogion, capp. II-IV; trad. it. Rizzoli, Milano 1992, pp. 81-93]

LE OBIEZIONI DI GAUNILONE 1. A ciò si aggiunga quanto si è sopra accennato, ossia che, come non posso, dopo averlo udito, pensare né avere nell’intelletto questo ente (che è più grande di tutte le cose che si possono pensare e che è detto non potere essere altro che lo stesso Dio) nello stesso modo in cui penso o ho nell’intelletto una cosa che conosco nella sua specie o nel suo genere, così non posso pensare o avere nell’intelletto lo stesso Dio, che pertanto proprio per questo motivo posso pensarlo anche non esistente. 2. Non conosco, infatti, che cosa sia quest’ente in se stesso né posso formarmene un’idea da qualcosa che gli sia simile, poiché tu stesso lo asserisci tale che nessuna cosa gli può essere simile. Infatti se udissi dire qualcosa di un uomo a me del tutto sconosciuto, di cui ignorassi la stessa esistenza, potrei pensarlo nella sua realtà di uomo mediante quel concetto speciale o generale per cui conosco che cosa sia un uomo o che cosa siano gli uomini. E tuttavia potrebbe accadere che il mio interlocutore mentisse e che quell’uomo da me pensato non esistesse, tuttavia io lo penserei in una vera realtà, che non è quell’uomo individuo, ma l’uomo in generale. 3. Quando sento dire «Dio» o «l’ente più grande di tutte le cose», non posso dunque averlo nel pensiero o nell’intelletto così come avrei nel pensiero o nell’intelletto la falsa conoscenza di quell’uomo, poiché quello posso pensarlo in una realtà vera e a me nota, ma Dio non posso pensarlo se non per la parola; e per la sola parola a mala pena o per nulla può pensarsi qualcosa di vero, poiché, se davvero si pensa così, non tanto è pensata la parola stessa, che è una realtà in sé vera essendo il suono delle lettere o delle sillabe, quanto è pensato il significato della parola udita; ma non è pensata così come è pensata da colui che sa che cosa sia solito essere significato da quella parola e pertanto da costui è pensata secondo una realtà anche se vera solo nel pensiero, ma è pensata come è pensata da colui che non sa il significato solito della parola e pertanto la pensa solo per il sentimento dell’animo causato dall’audizione di quella parola e tenta di immaginarsi il significato della parola udita. E sarebbe un miracolo se mai potesse giungere alla verità della cosa. 4. Chiaramente, dunque, così e non altrimenti ho nel mio intelletto questo ente quando sento e intendo uno che dice che vi è un ente più grande di tutte le cose che si possono pensare. 5. E ciò si è detto a proposito dell’affermazione secondo cui quella somma natura sarebbe già nel mio intelletto. 1. Alla dimostrazione poi che essa necessariamente, esiste nella realtà, poiché, se non esistesse, qualsiasi ente reale sarebbe più grande di lei e perciò essa non sarebbe più l’ente più grande di tutte le cose, che si è già dimostrato éssere nell’intelletto, rispondo: se si deve dire che è nell’intelletto ciò che non può essere pensato sul modello di nessun ente reale, non negò che questo ente in un qualche modo è nel mio intelletto. Ma poiché da questo essere nell’intelletto non si può affatto concludere che sia anche nella realtà, certamente non gli concedo l’esistenza reale, fino a quando ciò non mi sia dimostrato con un argomento inconfutabile. 2. Se qualcuno mi dice che questo ente deve esistere, poiché altrimenti questo ente, che è più grande di tutte le cose, non sarebbe più grande di tutte le cose, costui non sufficientemente bada a chi sta parlando. Infatti io non ammetto ancora, anzi nego o dubito, che quell’ente sia maggiore di ogni cosa vera, e non gli concedo altro essere che quello, se si può dire,«essere», che si ha quando l’animo tenta di immaginarsi una cosa del tutto sconosciuta solo per il fatto che ha sentito delle parole. 3. In che modo, dunque, mi si può dimostrare che questo ente, più grande di tutte le cose, esiste nella realtà, poiché è noto che esso è più grande di tutte le cose, quando io, finora, nego o dubito ancora che ciò sia noto, al punto che non ammetto che questo ente più grande di tutte le cose sia nel mio intelletto o nel mio pensiero nemmeno in quel modo in cui esistono molte cose dubbie e incerte? 4. Infatti prima devo essere certo che questo ente più grande di tutte le cose sia in modo reale e vero in qualche parte, poi, finalmente, per il fatto che è più grande di tutte le cose, sarei certo che egli sussiste anche in se stesso.

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2.3. LE RISPOSTE DI ANSELMO 1. Tu (chiunque tu sia che dici che un insipiente può dire queste cose) dici che ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non è nell’intelletto in modo diverso dall’ente che non pub nemmeno essere pensato secondo la verità di una qualunque cosa; e tu dici che l’esistenza nella realtà di questo ente, che io dico «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore», non si deduce dal fatto. che esiste nell’intelletto in modo più valido di quanto si deduce l’esistenza certissima dell’«Isola Perduta» dal fatto che, quando è descritta con le parole, chi ascolta non dubita che essa è presente nel suo intelletto. 2. Io invece dico: «Se “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore” non è inteso o pensato né è nell’intelletto o nel pensiero, allora certamente Dio non è “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore” né è inteso né è pensato né esiste nell’intelletto o nel pensiero». Quanto questo conseguente sia falso, me lo provano in modo del tutto certo la tua fede e la tua coscienza. Dunque «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore» è veramente inteso e pensato ed è nell’intelletto e nel pensiero. Dunque o le cose con cui ti sforzi di dimostrare il contrario non sono vere oppure da esse non segue ciò che tu supponi di poter concludere. 3. Inoltre tu credi che dal fatto che si intenda «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore» non segua che questo ente sia nell’intelletto e che, se è nell’intelletto, non segua che sia nella realtà; io dico con certezza: se può essere pensato esistente, è necessario che esista. Infatti «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore» non può essere pensato altrimenti che esistente senza alcun inizio. Invece tutto ciò che si può pensare esistente, ma non è, può essere pensato esistente con un inizio. Dunque «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore» non può essere pensato esistente e non esistere. Se dunque si può pensare esistente, necessariamente esiste. 4. Inoltre, se può anche solo essere pensato, è necessario che esista. Nessuno, infatti, che neghi o dubiti che esista qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, nega o dubita che, se esistesse, non potrebbe non essere sia nella realtà che nell’intelletto. Altrimenti non sarebbe ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. Ma tutto ciò che può essere pensato e non esiste, potrebbe non essere sia nella realtà che nell’intelletto, se esistesse. Dunque, se può anche solo essere pensato, «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore» non può non esistere. 5. Ma ora supponiamo che non esista, se può anche essere pensato. Ma tutto ciò che può essere pensato e non esiste, se esistesse, non sarebbe «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore». Se dunque fosse «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore», non sarebbe ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. Questo è del tutto assurdo. È dunque falso che non esista qualcosa di cui non possa pensarsi nessuna cosa maggiore, se può anche solo essere pensato. Ed è ancora più falso, se può essere inteso ed essere nell’intelletto. [Trad. it. in Anselmo d’Aosta, Proslogion, Rizzoli, Milano 1992, pp. 171-179 e pp. 187-191]

3. TOMMASO: TIPI DI VERITÀ SU DIO Ma poiché non è identico il modo di manifestare ogni tipo di la verità, ché secondo l’ottima osservazione di Aristotele riferita da Boezio, «è proprio dell’uomo saggio accontentarsi in ciascuna cosa di capire quanto la natura di essa comporta« (Ethic., I, c. 2; cfr. De trinit., c. 2), prima di tutto è necessario vedere quale sia il modo possibile di manifestare la verità proposta. Ora, tra le cose che affermiamo di Dio ci sono due tipi di verità. Ce ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana: come, p. es., l’unità e trinità di Dio. Altre invece possono essere raggiunte dalla ragione naturale: che Dio esiste, p. es., che è uno, ed altre cose consimili. E queste furono dimostrate anche dai filosofi, guidati dalla luce della ragione naturale. Che tra le nozioni riguardanti Dio ce ne siano di quelle le quali superano del tutto l’ingegno dell’uomo è evidentissimo. Principio infatti di qualsiasi conoscenza di ordine razionale è l’intellezione della natura di una cosa; poiché, come Aristotele spiega, principio della dimostrazione è la quiddità. Cosicché le proprietà che noi conosciamo di una cosa dipendono dal modo di comprenderne la natura. Se quindi l’intelletto umano comprende la natura di determinate cose, p. es., della pietra o del triangolo, nessuna nozione relativa ad esse supera la capacità della ragione umana. Ma questo non avviene nella nostra conoscenza di Dio. Poiché l’intelletto umano non può arrivare a conoscerne l’essenza mediante le sue capacità naturali, essendo costretto nella vita presente a iniziare la conoscenza dai sensi; e quindi le cose che non cadono sotto il dominio dei sensi non possono essere

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capite dall’intelletto umano, se non in quanto la loro conoscenza deriva dalle cose sensibili. Ora, le cose sensibili non possono condurre il nostro intelletto a scorgere in esse la quiddità della natura divina: poiché si tratta di effetti che non adeguano la virtù della causa. Tuttavia dalle cose sensibili il nostro intelletto viene condotto a conoscere di Dio che esiste, ed altre perfezioni che si devono attribuire al primo principio. Ci sono quindi delle cose divine che la ragione umana può raggiungere, e altre che ne trascendono del tutto la capacità. La stessa conclusione si può facilmente dedurre, considerando i vari gradi dell’intelligenza. Confrontando infatti due individui, uno dei quali percepisce intellettualmente una cosa con più acutezza dell’altro, vediamo che colui il quale possiede l’intelletto più e conosce molte cose che l’altro è affatto incapace di capire. Ciò è evidente nel caso dell’uomo dei campi del tutto impreparato alle sottili considerazioni della filosofia. Ora, l’intelletto di un angelo supera l’intelletto umano più di quanto l’intelletto del migliore filosofo non superi l’intelletto del più rozzo ignorante: poiché quest’ultima distanza rientra nei limiti della specie umana, mentre questi sono trascesi dall’intelletto angelico. Un angelo infatti conosce Dio da effetti tanto più nobili quanto la natura angelica, che serve all’angelo per conoscere Dio, è superiore alle cose sensibili e all’anima stessa con la quale l’intelletto umano sale alla conoscenza di Dio. L’intelletto divino poi supera quello angelico, più di quanto quello angelico non superi l’intelletto umano. Infatti l’intelletto divino adegua con la sua capacità la propria sostanza, e quindi ne conosce perfettamente l’essenza e quanto c’è in lui d’intelligibile: invece l’angelo con la propria conoscenza naturale non può conoscere l’essenza di Dio; perché la sostanza stessa dell’angelo, di cui questi si serve per arrivare a conoscere Dio, è un effetto che non adegua la virtù della causa. Perciò l’angelo con la sua conoscenza naturale non può comprendere tutto ciò che Dio conosce in se stesso: né, d’altra parte, la ragione naturale è sufficiente per capire tutto ciò che l’angelo conosce con la sua capacità naturale. Perciò come sarebbe sommamente pazzo l’ignorante il quale affermasse che son false le asserzioni dei filosofi, perché egli non è in grado di capirle, cosi e più ancora sarebbe sommamente stolto l’uomo, se ritenesse false le rivelazioni delle cose divine trasmesse per il ministero degli angeli, per il fatto che non è possibile investigarle con la ragione. La cosa appare anche più evidente dalle deficienze che riscontriamo ogni giorno nella nostra conoscenza. Ignoriamo infatti molte proprietà delle cose sensibili, e anche in quelle apprese dai sensi non siamo in grado di scoprire perfettamente il perché di molteplici aspetti. Perciò la ragione umana a molto maggior ragione deve ritenersi incapace con i propri concetti d’investigare quanto riguarda l’essere più sublime. Si accorda con questo l’asserzione di Aristotele, il quale di secondo libro della Metaph., che «il nostro intelletto rispetto ai primi enti, i quali, in natura sono evidentissimi, si comporta come l’occhio del pipistrello rispetto al sole». Anche la Scrittura rende testimonianza a codesta verità; poiché in Giobbe (XI, 7) si legge: « Puoi tu scrutare le vestigia di Dio, e giungere alla perfezione dell’Onnipotente?». E ancora [XXXVI, 26] : «Ecco, Dio è cosi grande da vincere la nostra scienza ». E S. Paolo afferma (I Cor., XIII, 9) : « Parziale è la nostra conoscenza». Perciò quanto si dice di Dio, anche se non è possibile investigarlo con la ragione, non si deve subito respingere come falso, alla maniera dei Manichei, e di molti altri increduli. Le verità rivelate Essendoci dunque due serie di verità riguardo alle cose di Dio, la prima raggiungibile dalla ragione, mentre la seconda trascende qualsiasi capacità dell’ingegno umano, è conveniente che entrambe vengano proposte all’uomo da Dio come materia di fede. In proposito bisogna prima di tutto notare in che condizioni si trovino quelle verità che sono raggiungibili dall’indagine razionale, perché a nessuno sembri inutile la loro presentazione come oggetto di fede dall’ispirazione soprannaturale, dal momento che sono raggiungibili dalla ragione. Seguirebbero infatti tre inconvenienti, se codeste verità fossero lasciate alla sola indagine razionale. Primo, che pochi uomini avrebbero la conoscenza di Dio. Poiché i più si troverebbero impediti dal raggiungere i risultati di una ricerca scientifica, sarebbero cioè negati alla scoperta della verità, per tre motivi. Alcuni lo sarebbero per la loro complessione, che rende moltissimi inadatti allo studio. Cosicché costoro con tutto il loro impegno non sarebbero capaci di raggiungere il grado supremo della conoscenza umana, che consiste nella cognizione di Dio. Altri sono impediti dai bisogni familiari. Tra gli uomini infatti molti sono costretti a curare gli interessi temporali, così da non poter impiegare tanto tempo nella ricerca e nella contemplazione, per poter giungere al fastigio dell’indagine umana,

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cioè alla conoscenza di Dio. Finalmente altri sono impediti dal pigrizia; poiché per conoscere quanto la ragione può sapere di Dio, è necessaria la previa conoscenza di molte cose, dal momento che quasi tutta la filosofia è ordinata alla conoscenza di Dio. Infatti la metafisica, che ha per oggetto le cose divine, viene insegnata per ultima tra le discipline filosofiche. Perciò non si può arrivare all’indagine delle suddette verità, se non con grande fatica di studio; fatica che pochi si rassegnano ad affrontare per amore del sapere pur avendone Dio posto in tutte le anime il desiderio naturale. Secondo inconveniente: quegli stessi che raggiungessero la conoscenza o la scoperta di codeste verità, ci arriverebbero difficilmente e dopo lungo tempo: sia per la profondità di esse, che richiede da parte della ragione umana un lungo esercizio, sia per le molte conoscenze prerequisite di cui abbiamo parlato, sia perché in gioventù l’anima, agitata tra i moti contrastanti delle passioni, non è adatta all’esercizio di una conoscenza così alta, ma «diviene prudente e savia nell’acquietarsi», come si esprime Aristotele nel settimo libro della Physic. Perciò il genere umano resterebbe nelle più fitte tenebre dell’ignoranza, se per conoscere Dio non avesse altra via che la ragione; qualora la conoscenza di Dio, che è il massimo coefficiente della perfezione e della bontà, fosse riservata a pochi, che poi non ci arriverebbero se non dopo lungo tempo. Il terzo inconveniente sta nel fatto che nelle investigazioni della ragione umana il più delle volte si mescola il falso, a cagione della debolezza nostra nel giudicare sotto le impressioni della fantasia , Perciò presso molti resterebbero dubbie anche le cose rigorosamente dimostrate, non afferrando essi il valore delle dimostrazioni; e soprattutto vedendo i pareri contrastanti di coloro che sono considerati sapienti. E anche nelle verità dimostrate talora si mescola qualche falsità, che non deriva dalla dimostrazione, bensì da ragioni probabili o sofistiche, considerate come vere dimostrazioni. Ecco perché era necessario che le verità divine fossero presentate agli uomini con certezza assoluta come materia di fede. Perciò la divina bontà provvide salutarmente a comandarci di tenere per fede anche le verità conoscibili con la ragione: affinché tutti possano con facilità essere partecipi della conoscenza di Dio, senza dubbi e senza errori. Di qui le parole della Scrittura: «Non camminate più, come camminano i gentili, nella vanità dei loro pensieri, con l’intelligenza ottenebrata » (Efes., IV, 17, 18). E ancora: «Tutti i tuoi figli saranno istruiti dal Signore » (Is., LIV, 13). Le cose che non possono essere investigate dalla ragione sono verità di fede A qualcuno forse potrà sembrare che all’uomo non si debbano proporre a credere cose che la ragione non è in grado di investigare; poiché la sapienza divina provvede a ciascun essere secondo la sua natura. Perciò bisogna qui dimostrare che era necessario venissero proposte all’uomo come materia di fede anche cose che sorpassano la ragione. Ebbene, nessuno tende con desiderio e con impegno verso cose che non conosce. Ora, avendo la divina provvidenza, come vedremo in seguito, preordinato l’uomo a un bene più alto di quello sperimentabile nella vita presente, era necessario che la mente umana venisse iniziata a cose più alte di quelle raggiungibili al presente dalla nostra ragione; imparando cosi a desiderare e a perseguire beni che trascendono la nostra condizione attuale. E questo compete soprattutto alla religione cristiana, che promette in modo singolare beni spirituali ed eterni. Ecco perché in essa si riscontrano molti insegnamenti che superano le capacità umane. Invece l’antica legge, in cui c’erano promesse di beni temporali, aveva proposto poche cose superiori all’indagine della ragione umana. – Del resto anche i filosofi hanno seguito lo stesso criterio, nel distaccare gli uomini dai piaceri sensibili, per condurli all’onestà: mostrarono cioè che esistono beni superiori a quelli sensibili, capaci di offrire godimenti superiori a coloro che attendono alle virtù attive e a quelle contemplative. Anzi è necessario che agli uomini vengano proposte come cose di fede verità di codesto genere, per avere di Dio una conoscenza più vera. Allora soltanto infatti noi conosciamo Dio veramente, quando lo crediamo superiore a quanto l’uomo è capace di pensarne: poiché la realtà divina trascende la conoscenza naturale dell’uomo, come sopra abbiamo notato, perciò dall’esser proposte all’uomo verità divine superiori alla ragione, si conferma nell’uomo l’opinione che Dio è qualcosa di superiore a quanto è possibile pensare. C’è poi in questo un altro vantaggio, cioè il freno della presunzione che è madre dell’errore. Ci sono invero alcuni così presuntuosi del proprio ingegno, che immaginano di poter misurare con propria intelligenza la natura divina, ritenendo per vero quello che loro sembra tale, e falso quello che non li persuade. Affinché, dunque l’animo umano liberato da siffatta presunzione potesse giungere a ricercare

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con modestia la verità, era necessario che Dio proponesse all’uomo delle nozioni che superano del tutto l’intelligenza umana. Un altro vantaggio poi è quello cui accenna Aristotele nel decimo libro dell’Ethic. Volendo infatti un certo Simonide convincere un uomo a disinteressarsi delle cose di Dio, per applicare il proprio ingegno alle cose umane, col pretesto che « l’uomo deve intendersi delle cose umane e il mortale di quelle mortali », il filosofo replica dicendo che «l’uomo deve innalzarsi per quanto è possibile alle cose immortali e divine». Ed ecco perché nell’undicesimo libro De Animalibus afferma, che per quanto sia poca la nostra conoscenza delle nature superiori, tuttavia questo poco è più amato e desiderato di tutta la conoscenza che abbiamo delle nature inferiori. E nel secondo libro del De Coelo et Mundo insegna che, sebbene i problemi relativi ai corpi celesti non possano avere che una soluzione modesta e solo probabile, tuttavia produce in chi l’ascolta un grande godimento. E da tutti questi argomenti appare evidente che la conoscenza delle cose più sublimi, per quanto imperfetta, conferisce all’anima la più grande perfezione. Perciò, sebbene la ragione umana non possa capire pienamente ciò che la trascende, tuttavia acquista cosi una grande eccellenza, ritenendo almeno per fede codeste verità. Ecco perché nell’Ecclesiastico, III, 25, si legge: «Ti sono state mostrate molte cose che sorpassano la comprensione umana»; e nella I Cor., II, 10 s., S. Paolo afferma: «Nessuno conosce i segreti di Dio all’infuori dello Spirito di Dio: ma Dio ce li ha rivelati mediante il suo Spirito». Legittimità dell’ammissione per fede Prestando fede a codeste verità, che la ragione umana non è in grado di controllare, non si fa un atto di leggerezza, quasi «prestando fede a dotte favole», secondo l’espressione di S. Pietro (II Piet., I, 16). Poiché la stessa sapienza divina, che tutto conosce in modo completo, si degnò di rivelare i suoi segreti agli uomini; mostrando il suo intervento e la verità del suo insegnamento e della sua ispirazione con argomenti adatti: confermando cioè cose che sorpassano la conoscenza naturale con opere visibili superiori alle capacità di tutta la natura. Vale a dire con la guarigione prodigiosa di malattie, con la resurrezione dei morti, con le mutazioni miracolose dei corpi celesti, e, cosa ancora più mirabile, con l’ispirazione interiore delle menti umane, così da riempire col dono dello Spirito Santo uomini ignoranti e semplici, facendo loro conseguire all’istante somma sapienza ed eloquenza. In considerazione di ciò, per l’efficacia delle prove suddette e non già per violenza di armi, né per attrattiva di piaceri e, cosa mirabilissima, in mezzo alla tirannia dei persecutori, una turba innumerevole non solo di persone semplici, ma anche di uomini sapientissimi, abbracciò la fede cristiana; nella quale vengono predicate cose che trascendono qualsiasi intelletto umano, mentre insegna a tenere a freno i piaceri della carne, e a disprezzare tutte le cose del mondo. Ora, l’adesione degli animi dei mortali a codeste cose è insieme il più grande dei miracoli, ed esige l’intervento manifesto dell’ispirazione divina, per disprezzare le cose visibili nel solo desiderio di quelle invisibili. E questo non avvenne improvvisamente o per caso, ma per disposizione divina, com’è evidente dalla predizione fattane in precedenza dagli oracoli di molti profeti, i cui libri sono stati conservati religiosamente fino a noi, come testimonianza della nostra fede. Di tale conferma si ha un accenno in quelle parole della Scrittura, in cui si dice che la salvezza umana, « fu annunziata prima dal Signore, poi ci è stata confermata da quelli che l’avevano udito, mentre Dio aggiungeva la sua testimonianza con segni e prodigi e coi doni dello Spirito Santo » (Ebr., II, 3). Questa mirabile conversione del mondo alla fede cristiana è segno certissimo degli antichi miracoli, cosi da non esser necessaria la loro ripetizione, apparendo essi evidenti nei loro effetti. Sarebbe infatti il più strepitoso dei miracoli, se il mondo fosse stato indotto a credere cose tanto ardue, a compiere azioni tanto difficili e a sperare cose tanto alte da uomini semplici e poveri, senza prodigi mirabili. Sebbene Dio non cessi, anche ai nostri giorni per confermare la fede, di compiere miracoli per mezzo dei suoi santi. Coloro invece che introdussero sette erronee procedettero per vie del tutto contrarie, com’è evidente nel caso di Maometto, il quale allettò i popoli con la promessa di piaceri carnali, ai quali essi sono già propensi per la concupiscenza della carne. Inoltre diede precetti conformi a codeste promesse, sciogliendo le briglie alle passioni del piacere, in cui è facile farsi ubbidire dagli uomini carnali. In più egli non diede altri insegnamenti all’infuori di quelli che qualsiasi persona mediocremente istruita può dare facilmente e comprendere col suo ingegno naturale; anzi, le verità stesse che egli insegnò sono mescolate a favole e a dottrine falsissime. E neppure si servi di miracoli soprannaturali, che costituiscono la sola testimonianza adeguata della rivelazione divina, in quanto un fatto visibile, il quale non può attribuirsi che a Dio, mostra essere ispirato da Dio colui che insegna questa data verità. Ma

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disse di essere stato inviato con la potenza delle armi: il quale contrassegno non manca neppure ai briganti e ai tiranni. Inoltre a lui inizialmente non credettero uomini pratici delle cose divine ed umane, ma uomini bestiali abitanti nel deserto, del tutto ignari delle cose di Dio; e servendosi poi del loro numero, egli costrinse gli altri ad accettare la sua legge con la forza delle armi. E neppure ebbe anteriormente la testimonianza dei profeti precedenti; anzi egli guasta tutti gli insegnamenti del Vecchio e del Nuovo Testamento con racconti favolosi, come risulta dalla lettura della sua legge. Ecco perché con astuzia egli proibisce ai suoi seguaci di leggere i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, per non essere tacciato di falsità. Perciò è evidente che coloro che credono in lui compiono [oggettivamente] un atto di leggerezza. Verità di fede e ragione Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i princìpi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codesta verità. Infatti: I. I princìpi cosi innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che è impossibile pensare che siano falsi. E neppure è lecito ritenere che possa esser falso quanto si ritiene per fede, essendo confermato da Dio in maniera così evidente. Perciò essendo contrario al vero solo il falso, com’è evidente dalle loro rispettive definizioni, è impossibile che una verità di fede possa essere contraria a quei princìpi che la ragione conosce per natura. 2. Inoltre, le idee che l’insegnante suscita nell’anima del discepolo contengono la dottrina del maestro, se costui non ricorre alla finzione; il che sarebbe delittuoso attribuire a Dio. Ora, la conoscenza dei princìpi a noi noti per natura ci è stata infusa da Dio, essendo egli l’autore della nostra natura. Quindi anche la sapienza divina possiede questi princìpi. Perciò quanto è contrario a tali princìpi è contrario alla sapienza divina; e quindi non può derivare da Dio. Le cose dunque che si tengono per fede, derivando dalla rivelazione divina, non possono mai essere in contraddizione con le nozioni avute dalla conoscenza naturale. 3. In più, ragioni contrarie legano l’intelletto nostro al punto da non poter procedere alla conoscenza della verità. Perciò se Dio ci infondesse conoscenze contrastanti, impedirebbe al nostro intelletto di conoscere la verità. Il che non si può pensare di Dio. 4. Inoltre, ciò che è naturale non può essere mutato finché permane la natura. Ora, opinioni contrastanti non sono compatibili nel medesimo soggetto. Dunque non è possibile che Dio infonda nell’uomo un’opinione, o una fede, incompatibile con la sua conoscenza naturale. Di qui le parole dell’Apostolo: «Il messaggio è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, cioè il messaggio della fede che vi predichiamo» (Rom., X, 8). Ma poiché le verità di fede superano la ragione, alcuni sono portati a considerarle come ad essa contrarie; il che è impossibile. Ciò è confermato da quelle parole di S. Agostino: «Quanto viene manifestato dalla verità in nessun modo può essere in contrasto sia col Vecchio, che col Nuovo Testamento» (2 Super Gen. ad litt., c. 18). Da ciò si ricava con chiarezza che tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede, non derivano logicamente dai principi primi naturali noti per se stessi. E quindi essi non hanno valore di dimostrazioni; ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche, e quindi si possono sempre risolvere. [Somma contro i Gentili, I, III-VII; trad. it. Utet, Torino 1978, pp. 62-73]

OCKHAM: CIÒ CHE È POSSIBILE DIMOSTRARE SULL’ESISTENZA DI DIO Ci si domanda se si può dimostrare a sufficienza, tenendo conto della conservazione delle cose, che esiste una prima causa efficiente. Pare di no: Poiché conservare è lo stesso che produrre: ora, se l’esistenza di una prima causa efficiente non è dimostrabile in base alla produzione delle cose, non lo sarà neppure in base alla conservazione. Al contrario: Tutte le cause che conservano nell’essere un effetto vi concorrono tutte insieme: perciò se in dette cause si desse un processo all’infinito si darebbe un’infinità di cause in atto; cosa questa impossibile; dunque, ecc. Alla domanda dico brevemente che si deve rispondere affermativamente. E lo dimostro. È evidente, che una cosa qualsiasi prodotta da qualcuno, fino a quando permane nell’essere è pure realmente conservata da qualcuno; ora è certo, che un tale effetto è prodotto, quindi, fino a quando continua ad esistere, è conservato da qualcuno. Di questo qualcuno che lo conserva, io domando: è a sua volta producibile da un altro o no? Se no, allora è una causa efficiente prima e quindi anche causa

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conservante, poiché chi conserva, produce. Se poi cotesto conservatore a sua volta è prodotto da altri, circa quest’altro mi pongo le stesse domande di prima; e così o bisognerà procedere all’infinito o arrestarsi a un essere che conserva gli altri senza aver bisogno di essere conservato a sua volta: una causa efficiente di tal fatta è una causa efficiente prima. Ora non ci può essere processo all’infinito nelle cause conservanti; in tal caso si darebbe un’infinità di cose in atto, che è cosa assurda. Infatti ogni essere che ne conserva un altro, mediatamente o immediatamente, esiste insieme all’essere conservato; quindi ogni essere conservato richiede in atto tutte le cause conservanti. Non ogni cosa prodotta invece esige in atto tutte le cause, che la producono mediatamente o immediatamente. Quindi sebbene sia possibile un processo all’infinito nelle cause produttive senza per questo ammettere un’infinità di cose in atto, tale processo all’infinito nelle cause conservanti risulta impossibile senza un’infinità di cose in atto. Pare che questo argomento – interviene l’avversario – valga tanto se riferito alla prima causa efficiente, come alla prima causa conservante. Ecco come: Qualche cosa è prodotta. Della causa che l’ha prodotta mi domando: o è una causa che produce, senza essere stata a sua volta prodotta, e in tal caso mi trovo di fronte a quel che voglio, oppure è stata a sua volta prodotta da un’altra causa: e tuttavia non si può andare all’infinito ed occorre perciò far capo a qualche cosa che produce senza essere stato a sua volta prodotto. Si dimostra l’assunto quanto alle cause essenzialmente ordinate in primo luogo, perché nelle cause essenzialmente ordinate, tutte le cause sono richieste per produrre l’effetto; se fossero quindi infinite, si darebbe un’infinità numerica in atto. In secondo luogo, perché le cose prodotte nella loro totalità sono causate, e non da un qualche cosa che entri nella loro serie, poiché in tal caso una cosa sarebbe causa di se stessa; sono causate dunque da un qualche cosa che non è a sua volta prodotto ed è fuori perciò dalla serie delle cose prodotte. Allo stesso modo è chiaro che nelle cause ordinate accidentalmente la serie delle cose prodotte nella loro totalità è prodotta in atto e non da qualcuna della serie, poiché in tal caso questa, causando tutta la serie, causerebbe anche se stessa: quindi la serie delle cose prodotte ha come causa un qualche cosa che è fuori di tutta la serie stessa. E allora una delle due: o questa causa è incausata, e resta così dimostrato il nostro assunto; oppure è causata a sua volta da cause essenzialmente ordinate, e in tal caso vale la prima parte della nostra argomentazione. Ecco la mia risposta: tenendo conto della sola produzione, non è possibile dimostrare a sufficienza l’impossibilità di un processo all’infinito, almeno nel caso delle cause ordinate accidentalmente, e in senso rigoroso nemmeno nel caso di quelle essenzialmente ordinate. Quanto alla prima parte dell’argomentazione, relativa alle cause essenzialmente ordinate, osservo, come risulta da quanto abbiamo detto più indietro, che alla semplice produzione dell’effetto le cause essenzialmente ordinate non concorrono tutte insieme. A proposito dell’una e l’altra conseguenza osservo, che tanto le cause essenzialmente ordinate come quelle ordinate accidentalmente, nella loro totalità sono causate, ma non da una sola cosa che faccia parte della serie, oppure che sia fuori serie; ma una prima cosa è prodotta da una sola cosa, che fa parte della serie, e un’altra da un’altra, e così all’infinito. Badando alla sola produzione non ci sono argomenti sufficienti per dimostrare il contrario; e perciò non segue affatto che una medesima cosa sia causa di tutta la serie, e che quindi sia causa di se stessa, poiché una cosa sola non è mai causa di tutte. Tornando all’argomento principale dico, che restringendo le nostre considerazioni alla sola produzione di una cosa, in quanto implica immediato passaggio dal non essere all’essere, non è possibile dimostrare l’esistenza di una causa efficiente prima; ma se per produzione di una cosa, intendiamo anche il suo permanere nell’essere, cioè anche la sua conservazione, allora [l’esistenza di una causa efficiente prima] si può dimostrare con buoni argomenti. [Quaestiones super libros Physicorum, q. 136; trad. it. in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, vol. IV, 1, 1973, pp. 145-1460]

ECKHART La via del distacco 1. Da te stesso devi cominciare e abbandonare te stesso. In verità, se non fuggi prima da te stesso, troverai ostacoli e inquietudine dovunque tu fugga. Chi cerca la pace nelle cose esteriori – luoghi o modi, gente o opere, paese lontano, povertà o umiltà, qualsiasi cosa, per quanto grande –, la cerca nel nulla e

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non trova pace. Chi cerca così cerca male: più si allontana e meno trova quel che cerca; come uno che ha perduto la strada, più si allontana e più si fuorvia. Cosa si deve fare dunque? Bisogna prima di tutto abbandonare se stessi: così si abbandona tutto. 2. In verità, se un uomo abbandonasse un regno o il mondo intero e mantenesse se stesso, non avrebbe abbandonato nulla. Invece un uomo che abbandona se stesso abbandona tutto, anche se mantiene ricchezza, onori e tutto quanto. Infatti chi abbandona la propria volontà e se stesso abbandona tutte le cose, come se esse fossero in sua proprietà e pieno possesso. Veglia dunque su te stesso e abbandona te stesso là dove ti trovi: questa è la cosa più importante. 3. Devi sapere che non vi è uomo tanto distaccato in questa vita che non possa ancor di più rinunciare a se stesso. Vi è un giusto scambio e un equo compenso per cui, nella misura in cui abbandoni tutto, nella stessa misura – né più né meno – Dio penetra in te con tutto ciò che ha, come tu hai lasciato in tutto quello che è tuo. Comincia dunque da questo e offri per questo quanto puoi: è così che troverai la vera pace, e non in altro modo. 4. Non si deve pensare tanto a ciò che si fa, quanto invece a ciò che si è. Se tu sei giusto, anche le tue opere sono giuste. Non pensare che la santità si fondi sulle opere; la santità si deve fondare sull’essere, perché non sono le opere che ci santificano, ma siamo noi che dobbiamo santificare le opere. 5. Dio vuole che in tutte le cose noi rinunciamo alla nostra volontà. Niente rende veramente uomo come la rinuncia alla propria volontà. In verità, senza questa rinuncia della volontà in tutte le cose non si compie davvero nulla davanti a Dio. Se si giunge a rinunciare completamente alla nostra volontà e a spogliarci per Dio di tutte le cose, esteriori e interiori, allora abbiamo compiuto tutto – e niente in precedenza. 6. In verità, una persona totalmente spoglia di se stessa sarebbe tanto avvolta da Dio da non potersi toccare senza toccare prima lui, e tutto ciò che dovesse arrivare a essa dovrebbe giungervi passando per Dio: da ciò essa prende il suo carattere e sentore divino. 7. L’uomo deve esercitarsi a non cercare né volere alcunché come bene proprio, ma a trovare e cogliere Dio in ogni cosa. Dio non ha mai fatto e non fa alcun dono perché lo si possegga e si trovi la pace nel dono; al contrario, tutti i doni che egli ha fatto in cielo e in terra, li ha fatti per fare un unico dono: se stesso. 8. L’uomo deve imparare a spogliarsi di se stesso in tutti i doni e a non mantenere nulla di proprio, né cercare alcunché – né ricompensa, né utilità, né soddisfazione, né dolcezza, né fervore, né regno dei cieli, né volontà propria. Dio non si dona mai, e non si è mai donato, a una volontà estranea. Egli non si dona che alla volontà propria: dove trova la sua volontà propria egli si dona e penetra con tutto quello che è. 9. Una sola opera ci compete: l’annientamento di noi stessi. Tale annientamento però, per quanto grande sia, rimane imperfetto se Dio stesso non lo compie in noi. 10. Perché io rinunci a me stesso per lui, Dio diverrà del tutto il mio proprio bene, con tutto quello che è e che può offrire. Egli diverrà mio mille volte di più di un oggetto acquistato e tenuto in una cassa. Mai uomo ha avuto qualcosa di suo, quanto Dio sarà mio, con tutto ciò che è e che può. 11. Nella misura in cui sei in Dio, sei in pace. Nella misura in cui sei lontano da Dio, non sei in pace. È in pace ciò che è solo in Dio. Quanto in Dio, tanto in pace. 12. Il puro distacco è al di sopra di tutte le cose, giacché ogni virtù ha in qualche modo di mira le creature, mentre il distacco è libero da ogni creatura. 13. Io lodo il distacco più dell’amore. Ciò che di migliore ha l’amore è che esso mi obbliga ad amare Dio, ma il distacco obbliga Dio ad amare me. Infatti ogni cosa desidera raggiungere il suo luogo naturale; il luogo naturale di Dio è l’unità e la purezza, ed è proprio quello che il distacco produce: bisogna dunque che necessariamente Dio si doni a uno spirito distaccato. 14. In verità, devi sapere che quando lo spirito libero permane in un vero distacco, esso costringe Dio a venire verso il proprio essere. Se potesse permanere senza alcuna forma e senza alcun accidente, assumerebbe lo stesso essere di Dio. 15. Io lodo il distacco più dell’umiltà. Infatti l’umiltà può esistere senza distacco, mentre il perfetto distacco non può esistere senza perfetta umiltà, giacché la perfetta umiltà tende all’annullamento di sé. Ora il distacco è tanto vicino al nulla che non può esservi niente tra il perfetto distacco e il nulla: perciò non può esservi distacco senza perfetta umiltà.

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Cerchi dunque la perfetta umiltà chi vuole giungere al perfetto distacco, e così si avvicinerà alla divinità. Che Dio stesso, supremo distacco, aiuti tutti noi a giungervi. Amen. 16. Il perfetto distacco non vuole né questo né quello. Vuole essere, ma non essere questo o quello, perché chi vuole essere questo o quello vuole essere qualcosa, mentre il distacco non vuole essere nulla. Perciò lascia essere tutte le cose davanti a sé, senza importunarle. 17. Sappilo: essere vuoto di ogni creatura è essere pieno di Dio, ed essere pieno delle creature è essere vuoto di Dio. 18. Io lodo il distacco anche più della misericordia. Infatti essa consiste nel fatto che l’uomo esce da se stesso per andare verso le miserie del prossimo, e così il suo cuore si turba. Invece il distacco permane in se stesso e non si lascia turbare da nulla, perché quando l’uomo è turbato da qualcosa non è come deve essere. 19. Ora domanderai cosa è il distacco, per essere così nobile in se stesso. Devi sapere che il vero distacco consiste nel fatto che lo spirito resta insensibile alle vicissitudini della gioia e del dolore, dell’onore e del disprezzo, quanto una montagna di piombo è insensibile a un vento leggero. 20. Il distacco immutabile conduce l’uomo alla più grande somiglianza con Dio. Infatti Dio è Dio per il suo distacco immutabile ed è proprio dal distacco che egli ha la sua purezza, semplicità e immutabilità. Perciò, se l’uomo deve divenire simile a Dio, questo avviene con il distacco. Esso conduce l’uomo alla purezza, dalla purezza alla semplicità, dalla semplicità all’immutabilità. 21. Devi sapere che l’uomo esteriore può agire, mentre l’uomo interiore permane del tutto libero e insensibile. Ecco un paragone: una porta si apre e si chiude intorno a un cardine. Io paragono la tavola della porta all’uomo esteriore e il cardine all’uomo interiore; ora, se la porta si apre o si chiude, la tavola si muove di qua o di là, ma il cardine permane immobile al suo posto. Lo stesso è in questo caso, se comprendi bene. 22. Ora io domando ancora: qual è la preghiera di un cuore distaccato? Rispondo che la purezza del distacco non può pregare, giacché colui che prega desidera ottenere qualcosa, o che Dio gli tolga qualcosa. Ma un cuore distaccato non desidera niente e non ha niente da cui desideri essere liberato. Perciò esso è distaccato da ogni preghiera, e la sua preghiera non consiste in altro che nell’essere conforme a Dio. Questa è tutta la sua preghiera. 23. La conformità con Dio deriva dall’essere sottomessi a Lui, e più l’uomo si sottomette alla creatura, meno è conforme a Dio. Ma un cuore puro e distaccato è libero da tutte le creature: perciò è completamente sottomesso a Dio, e così nella massima conformità con Lui totalmente aperto all’influsso divino. 24. Chi vuole riconoscere la nobiltà e l’utilità del perfetto distacco deve considerare le parole che Cristo ha pronunciato sulla propria umanità, quando disse ai suoi discepoli: «È necessario che vi lasci, perché, se non vi lascio, non verrà a voi lo Spirito santo» (Gv 16, 7). È come se dicesse: Voi avete trovato troppa gioia nella mia presenza, e per questo motivo non potete ricevere la gioia perfetta dello Spirito santo. Abbandonate dunque le immagini e unitevi all’essere senza forma, perché la consolazione spirituale di Dio è fine, e si offre solo a chi rifiuta le consolazioni della carne. [Il distacco; trad. it. in La via del distacco, Mondadori, Milano 1995, pp. 113-118] La ricerca di Dio Con semplicità di cuore cercatelo [Dio]. Si noti in questa espressione che come l’uno e l’ente si convertono, così anche la semplicità e l’intellettualità. Infatti la radice prima e la natura della intellettualità è la semplicità. Lo si dimostra: 1) perché solo ciò che è semplice ritorna con se stesso su se stesso con ritorno completo, per questo nel libro Sulle cause si dice che Dio conosce se stesso e tutte le cose per mezzo della sua essenza; 2) perché il simile si conosce per mezzo del simile (per es. la terra per mezzo della terra), mentre ciò che è dissimile non conduce ma allontana dalla cognizione, per es. la specie del colore non conduce alla cognizione del sapore, e la specie di Martino non conduce alla cognizione di Pietro, altrimenti si scambierebbe una cosa con un’altra, e oggetto dell’intelletto non sarebbe il vero… Questo è quello che si dice: con semplicità di cuore cercatelo. Significa anche questo: non mirare ad altro, non cercare altro, nessuna altra cosa te muova tranne Dio. Perché se nessun’altra cosa ti muoverà, il suo peso sarà leggero, poiché solo ciò che è supremo muove, la cui mozione è soavissima. Infatti, ho notato altrove, che quanto più è alto l’essere che muove, tanto più è soave la sua mozione. Colui infatti che cerca qualche cosa fuori di Dio o oltre Dio o anche con Dio, costui non sente bene di Dio. Infatti niente vi può essere fuori di Dio, né alcuna cosa è migliore di Dio,

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M16 CHE COS’È LA FEDE?

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neppure estensivamente; altrimenti non sarebbe infinitamente buono. Per questo specialmente premette: nutrite sentimenti di bontà verso Dio, e poi aggiunge: con semplicità di cuore cercatelo. [Commentario sul libro della Sapienza; trad. it. in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, vol. IV, 1, 1973, p. 1565]