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Copyright© Esselibri S.p.A. 23 La morte prematura – thanatos áoros, come la chiamavano gli antichi greci – sembra toccare la sensibilità della civiltà classica in modo partico- lare, a partire dai suoi albori, se è vero che questo tema è tra i più cari alla poesia omerica e tra i più presenti alla riflessione dei suoi eroi. Sotto il segno di thanatos áoros ci appaiono la poesia e l’esperien- za biografica di Erinna, poetessa greca del IV secolo a.C., nativa di Telo, un’isoletta dell’arcipelago di Rodi. I suoi versi, infatti, cantano l’amica d’infanzia, Bauci, morta prematuramente, proprio quando aveva lasciato Telo per iniziare la sua vita matrimoniale. D’altra parte, sappiamo che la stessa Erinna si sarebbe spenta di lì a poco, anch’ella giovanissima, a soli diciannove anni, vittima di quello stesso destino avverso di cui i versi commossi rivolti all’amica sem- brano farsi presagio. Presenza effimera, che però seppe lasciare traccia di sé con i suoi versi, se è vero che Meleagro di Gadara, nel comporre, intorno al 100 a.C., la sua “ghirlanda” di epigrammi – una vasta antologia della migliore produzione greca relativa a questo genere poetico – vi inse- rì tre poesie di Erinna, mentre un poeta come Asclepiade di Samo, a cui dobbiamo le scarse notizie su di lei, la ricordò tra le grandi poe- tesse greche e le volle rendere omaggio in un suo epigramma: « La dolce fatica di Erinna, questa: non grande – il dono di una fanciulla di diciannove anni – ma di tant’altre più valida. Che Il canto dell’adolescenza e della morte prematura: Erinna di Telo (IV secolo a.C.)

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La morte prematura – thanatosáoros, come la chiamavano gli antichigreci – sembra toccare la sensibilitàdella civiltà classica in modo partico-

lare, a partire dai suoi albori, se è vero che questo tema è tra i più carialla poesia omerica e tra i più presenti alla riflessione dei suoi eroi.Sotto il segno di thanatos áoros ci appaiono la poesia e l’esperien-za biografica di Erinna, poetessa greca del IV secolo a.C., nativa diTelo, un’isoletta dell’arcipelago di Rodi. I suoi versi, infatti, cantanol’amica d’infanzia, Bauci, morta prematuramente, proprio quandoaveva lasciato Telo per iniziare la sua vita matrimoniale. D’altraparte, sappiamo che la stessa Erinna si sarebbe spenta di lì a poco,anch’ella giovanissima, a soli diciannove anni, vittima di quellostesso destino avverso di cui i versi commossi rivolti all’amica sem-brano farsi presagio.Presenza effimera, che però seppe lasciare traccia di sé con i suoiversi, se è vero che Meleagro di Gadara, nel comporre, intorno al 100a.C., la sua “ghirlanda” di epigrammi – una vasta antologia dellamigliore produzione greca relativa a questo genere poetico – vi inse-rì tre poesie di Erinna, mentre un poeta come Asclepiade di Samo, acui dobbiamo le scarse notizie su di lei, la ricordò tra le grandi poe-tesse greche e le volle rendere omaggio in un suo epigramma:

«La dolce fatica di Erinna, questa: non grande – il dono di unafanciulla di diciannove anni – ma di tant’altre più valida. Che

Il canto dell’adolescenza e della morte prematura:

Erinna di Telo(IV secolo a.C.)

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se Ade non era con lei precipitoso, chi vanterebbe un nomepari al suo?»

(trad. di A. Angelini)

Della sua opera il tempo sembrava aver cancellato definitivamente,al di là dei tre epigrammi citati da Meleagro, ogni altra traccia, quan-do un papiro scoperto a metà del secolo scorso ci ha restituito una

discreta quantità diframmenti del suopoemetto in esame-tri, che ricordava lafigura di Bauci, daltitolo La Conocchia.Si tratta di versi deli-cati e vivaci, con cuila giovane poetessaevoca i giochi, i pic-coli impegni e i primidolori infantili, condi-visi con la sua amicadi sempre; di questopoemetto riportiamouno dei frammenti

più ampi, nella prestigiosa traduzione di Salvatore Quasimodo.Che cosa avrebbe potuto dare alla letteratura greca e universalequesto genio poetico che si era tanto precocemente manifestato, seil destino non avesse assegnato ad Erinna una vita così breve? Nonè possibile prevederlo. Tuttavia la morte prematura ce la consegna,per così dire, fermata per sempre in quella tenera dimensione ado-lescenziale, fatta di sogni ingenui e sentimenti puri, come certi eroiomerici – in primis Achille – per i quali la morte gloriosa sul campoha fatto sì che la loro immagine rimanesse fissata per sempre in unincorrotto splendore giovanile.

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I bianchi cavalli smaniosisi levano dritti sulle zampecon grande strepito: il suono della cetrabatteva in eco sotto il portico vasto della corte.O Bauci infelice, io gemendo piango al ricordo.Queste cose della fanciullezza hanno ancora calorenel mio cuore, e quelle che non furono che gioiasono cenere, ormai. Le bambole stanno riversesui letti nuziali; e presso il mattinola madre cantando più non recail filo sulla rocca e i dolci cosparsi di sale.A te fece paura da bambina la Mormòche ha grandi orecchie e su quattropiedi s’aggira movendo intorno lo sguardo.E quando, o Bauci amata, salisti sul letto dell’uomo,senza memoria di quello che giovinetta ancoraavevi udito da tua madre, Afroditenon fu pietosa della tua dimenticanza.Per questo io ora piangendoti non ti abbandono;né i miei piedi lasciano la casa che m’accoglie,né voglio più vedere la luce del giorno,né lamentare con le chiome sciolte; ho pudoredel cupo dolore che mi sfigura il volto.

[Da La Conocchia, trad. di S. Quasimodo]

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Di mani giovanili è questo ritratto. Prometeo caro,anche tra gli uomini vi è chi ti eguaglia in abilità:questa giovane, se chi l’ha ritratta con tanta verosimiglianzaavesse aggiunto anche la voce, sarebbe Agartide in tutto e

per tutto.

[Dall’Antologia Palatina, VI, epigramma 352]

O stele, e voi mie sirene, e tu urna di pianto,che custodisci per l’Ade le poche mie ceneri,a quelli che passano davanti al mio sepolcro rivolgete un saluto,siano essi cittadini oppure stranieri.E dite anche questo: che la tomba mi accolse giovane,mio padre mi chiamava Bauci e fui nativadi Tino, perché lo sappiano; e che la mia compagnaErinna per me sulla tomba scrisse queste parole.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 710]

Sono della sposa Bauci. O tu che passiaccanto alla stele compianta, di’ questo all’Ade sotterraneo:“Ade, tu sei invidioso”. E il bel sepolcro che tu guarditi annuncerà la sorte terribile di Bauci;perché con le fiaccole con cui si cantava Imeneoil padre dello sposo accese il rogo per lei.E tu, o Imeneo, mutasti il canto gioioso di nozzenei lamentosi accenti del funebre compianto.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 712; trad. di P. Volpe Cacciatore]

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Di questa poetessa, vissuta tra il IV e il IIIsecolo a.C., non è possibile né ricostruire un

preciso percorso biografico né conoscere quelle che certamenteerano le sue opere più impegnative. Infatti, benché il suo nome cisia stato tramandato come quello di una delle più grandi poetesseliriche dell’antichità, di lei possediamo solo 21 epigrammi, sparsi invari libri dell’Antologia Palatina. Questa Antologia è una vasta rac-colta di epigrammi di svariati autori, suddivisi in 15 libri in base a cri-teri formali o di contenuto. Anche nel campo dell’epigramma, però,Ànite riveste un ruolo importante. Questa forma di poesia breve elapidaria, prima adoperata solo sporadicamente dai poeti e destina-ta prettamente ad usi pratici (su una tomba, su un regalo, su unvoto), diventa con Ànite un vero e proprio genere letterario, passan-do, per così dire, dall’oggetto al libro, cioè dall’uso pratico alla fun-zione letteraria. Ànite dunque è considerata unanimemente comecolei che per prima diede una degna forma artistica a questo gene-re di poesia minore, il che ci è confermato dalla bellezza e dalla deli-catezza dei 21 testi rimasti.Originaria della città di Tegea, in Arcadia, regione montuosa dellaGrecia, Ànite fu molto apprezzata ai suoi tempi, tanto da essere defi-nita l’«Omero al femminile». Nella sua città le fu dedicata perfinouna statua.La sua ispirazione predilige gli argomenti tratti dalla vita quotidia-na e rivela un forte sentimento della natura, il tutto travasato nelmondo degli affetti, vissuti con una sensibilità che traspare in tuttigli epigrammi. Non si può non sorridere di tenerezza di fronte a una

Una pacifista ante litteram:

Ànite di Tegea (IV-III secolo a.C.)

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piccola lacrima versata da una bambina che seppellisce amorevol-mente un grillo e una cicala, suoi compagni di giochi; come non sipuò restare indifferenti di fronte alla rievocazione della morte di ungiovinetto soldato (che ci ricorda il dramma dei bambini-soldato dioggi) o davanti al ricordo del sacrificio di tre ragazze morte permantenere la loro purezza minacciata dai Galli invasori (come nonpensare agli “stupri etnici” perpetrati nella martoriata ex Jugoslavia,di recente memoria? Ma, come è stato scritto, «la barbarie dell’oggiha sempre qualcosa di nuovo e più perverso rispetto a quella diieri»).In effetti uno spunto di riflessione, che va al di là dell’epoca dell’au-trice per trasmettere un messaggio valido in ogni tempo, è presentein quasi tutti gli epigrammi di Ànite. Si legga ad esempio il pensierodedicato allo schiavo Manes: la morte ha reso quest’uomo, che invita era solo una proprietà di qualcuno, pari al più potente dei re.Si può estrapolare, come è stato fatto, dai soli 21 epigrammi di Àniteuna vera e propria poetica, che oggi diremmo ispirata ad un’ideolo-gia pacifista ed egualitaria. In tutti i testi di questa poetessa sirispecchiano infatti una grande aspirazione all’armonia e all’unioneed una grande avversione per tutto ciò che è separazione e discor-dia. Certo, come Saffo, Ànite non saprebbe mai opporsi alla guerra,ma, anche quando esalta l’eroismo dei combattenti, lo fa da unpunto di vista “femminile”, come nell’epigramma in cui si rivolge algiavellotto del guerriero, offerto in voto in un tempio, auspicandoche resti sempre lì, e che la sua funzione sia solo quella di ricorda-re il valore del guerriero che l’ha posseduto. Né ci aspetteremo, d’al-tronde, in questi epigrammi, un femminismo ante litteram, quantopiuttosto una spiccata sensibilità femminile, conforme peraltro alleregole sociali del tempo: così, ad esempio, è con vera commozioneche ella piange il destino di una ragazza morta prematuramente,prima di poter godere delle nozze che la sua bellezza le prometteva-no. La poetica di Ànite è dunque caratterizzata da questi sentimen-ti e queste aspirazioni, in massima parte pienamente condivisibilida noi, uomini e donne del XXI secolo.

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Fermati qui, giavellotto uccisore di uomini,e il triste bronzo non grondi di sangue nemico:ma stando in riposo nell’alto tempio marmoreodi Atena, annuncia l’eroismo del cretese Echecratide.

[Dall’Antologia Palatina, VI, epigramma 123]

A un grillo, usignolo dei campi,e a una cicala, ospite delle querce,piangendo molte lacrime infantili,una tomba comune fece Miro.Ade crudele le strappò di colpoi suoi amati trastulli.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 190; trad. S. Quasimodo]

Piango la vergine Antibia, per la quale moltigiovani pretendenti erano andati alla casa del padre,dietro la fama della sua bellezza e saggezza; ma di tuttila rovinosa Moira ha fatto rotolare lontano le speranze.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 490]

Amata patria, o Mileto, morimmo,negandoci agli ignobili furoridei barbari Galli, noi tre fanciulle

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della città, che la tremenda guerracostrinse a ugual sorte.Non patimmo né bestiale violenza,né giuste nozze, ma in Ade trovammolo sposo, il difensore.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 492; trad. di S. Quasimodo]

Quest’uomo, da vivo, era solo Manes lo schiavo;ora, da morto, vale quanto Dario il Grande.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 538]

Invece del dolce talamo e dei sacri imeneila madre ti ha innalzato su questa tomba di marmouna giovane vergine che ha le tue misure e la tua bellezza,o Tersi: potrebbe parlare, anche se sei morta.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 649]

T’hanno messo fra i giovani, Proarco, pur essendo tu un bambino,e in un cupo dolore hai gettato, morendo, la casa di Fidia tuo padre;ma una bella frase canta sopra di te la pietra tombale:che moristi combattendo per la cara patria.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 724]

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Ricordiamo questa poetessa per duemotivi: innanzitutto perché era di Locri,

la città della Calabria che è stata in questiultimi anni al centro delle cronache per l’omicidio Fortugno, maanche per la riscossa antimafiosa dei giovani, che hanno giustamen-te rivendicato alla loro terra un’antica cultura di cui non solo la poe-tessa Nosside fu esponente, ma anche il primo legislatore occidenta-le, Zaleuco (secolo VII a.C.). L’altro motivo è che, pur essendo soprav-vissuti di Nosside solo 12 epigrammi, la sua personalità poetica, chesi ricava da vari indizi, è di grande interesse.Vissuta tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., Nosside era notaagli antichi come poetessa lirica e non come epigrammatista. Il suomodello è Saffo, ed ella lo dichiara apertamente in un epigramma,che abbiamo riportato qui in antologia, nel quale immagina l’epitaf-fio che vorrebbe sulla propria tomba. In esso l’autrice sembra volersiparagonare alla grande poetessa di Lesbo, invitando il viaggiatoreimmaginario, che sta recandosi presso la tomba di Saffo a Mitilene,a soffermarsi per porgerle il saluto, perché anche lei fu una poetes-sa, cioè fu “cara alle Muse”.C’è effettivamente qualcosa che avvicina Nosside a Saffo. Entrambe,infatti, sono state oggetto di notizie biografiche maligne e tendenzio-se: se di Saffo si sono divulgate soprattutto le presunte tendenzeomosessuali, di Nosside si diceva nell’antichità che fosse un’etera, ele si attribuivano alcune poesie di contenuto spinto (i cosiddetti Cantilocresi). La critica moderna ha tentato di sfatare questa leggenda:certe azioni, come quella di portare solennemente, insieme con la

La poetessa di Locri:

Nosside (IV-III secolo a.C.)

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madre, una veste o un peplo al tempio di Giunone (come leggiamonell’epigramma 265 del libro VI dell’Antologia Palatina), si addiceva-no a donne di alto rango, e non certo a prostitute (anche se, in veri-tà, in Grecia esisteva la prostituzione sacra, connessa a riti religiosi;ma Giunone era la dea del matrimonio, mentre quella dell’amoresensuale era Venere). Un ulteriore indizio dell’appartenenza diNosside ad un ceto sociale elevato è costituito dal tono epico con cuirende omaggio ai suoi compatrioti per la loro vittoria contro il popolodei Bruttii, come apprendiamo da un altro epigramma.

Cosa pensasse poi Nosside dell’amore,quello sensuale, è facilmente ricavabi-le dall’epigramma 170 del libro V, dovela poetessa afferma che sputerebbeanche il miele dopo aver assaggiatol’amore, che è la cosa più dolce di tutte.Chi ama è amato da Cipride, cioè daVenere, e può cogliere non comuni fiorima rose, che sono i fiori più belli (tral’altro la rosa sembra simboleggiare la

poetessa Saffo, che amava particolarmente questo fiore).Ma per Nosside (come anche per Saffo e per le altre poetesse gre-che) l’amore non è solo il legame che unisce una donna ad un uomo,ma è anche il legame dell’amicizia. Ecco perché la poetessa di Locrimette tanta grazia nel dipingere nei pochi versi di un epigramma lacapacità di far ridere del poeta comico Rintone di Siracusa, di cui ellacompose l’epitaffio, o la bellezza di un’amica, come nell’epigramma605 del IX libro dell’Antologia Palatina, in cui l’amica Callò viene vistaattraverso un ritratto (un pinax, cioè un quadro) che ella stessa haportato in voto al tempio di Venere.Qualcosa di quanto abbiamo appena detto si può cogliere nei pochiepigrammi che riportiamo qui, ma è un vero peccato che la più impe-gnativa produzione poetica di Nosside, che fu soprattutto una poe-tessa dell’amore, non ci sia giunta.

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Non c’è nulla più dolce dell’amore.Quale dolcezza lo supera? Sputoanche il miele. Così Nosside dice.Solo chi non è amata da Cipridenon sa quali rose siano i suoi fiori.

[Dall’Antologia Palatina, V, epigramma 170; trad. di S. Quasimodo]

Giunone onorata, che spesso venendo dal cieloguardi l’odoroso promontorio Lacinio, accoglila veste di bisso tessuta da Teofili di Cleocacon Nosside, figlia nobile.

[Dall’Antologia Palatina, VI, epigramma 265; trad. di M. Gigante]

Sarà lieta Afrodite dell’offertadi questa piccola cuffia che Sàmitaha tolto dal suo capo.Perché è bella e odora lieve del nettareche la dea sparge sul suo bell’Adone.

[Dall’Antologia Palatina, VI, epigramma 275; trad. di S. Quasimodo]

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Passa con riso squillante vicinoa me, e poi dimmi una parola amica.Io sono Rintone di Siracusa,un piccolo usignolo delle Muse.Colsi la mia edera con parodiedella tragedia.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 414; trad. di S. Quasimodo]

O straniero, se navigando andraia Mitilene dai bei cori, doves’accese il fioredelle grazie di Saffo, di’ che carafui alle Muse e che nacqui nella terradi Locride. E continua la tua viaappena saprai che il mio nome è Nosside.

[Dall’Antologia Palatina, VII, epigramma 718; trad. di S. Quasimodo]

Callò alla casa della aurea Afrodite portòil pinax, dopo avervi dipinto un’immagine disé perfettamente uguale. Con quale gentilezza sta:vedi quanta grazia fiorente. Salute a lei cheha una vita immune da rimprovero.

[Dall’Antologia Palatina, IX, epigramma 605; trad. di P. Volpe Cacciatore]

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Se dalla Grecia antica sono giuntefino a noi, accanto alla voce immortale di

Saffo, quelle di altre poetesse, della produzione poetica femminilea Roma non esiste alcuna testimonianza, eccetto i versi diSulpicia. Si tratta di 6 brevi composizioni, definibili come una sortadi “biglietti d’amore” che la poetessa invia al suo amato, taleCerinto, di cui è ignota l’identità. Circa quaranta versi di poesiaautentica e raffinata, che la tradizione ci ha consegnato, peraltro,all’interno di una più vasta raccolta, il Corpus Tibullianum, chemescola alla produzione del più celebre Tibullo quella di altri poeti,tra cui appunto una donna: Sulpicia. L’assenza di riferimenti a unavoce femminile nelle testimonianze degli antichi, e forse una pre-giudiziale misogina, hanno fatto sì che per secoli fosse miscono-sciuta dai più l’identità di questa poetessa, e questi versi fosseroattribuiti a Tibullo o ad altri poeti della sua cerchia. Oggi, però, l’at-tribuzione a Sulpicia delle 6 composizioni appare pressoché una-nimemente riconosciuta. Di questa poetessa sappiamo ben poco: di famiglia di rango eleva-to, era figlia di Servo Sulpicio Rufo – come ella stessa ci dice – e diValeria, sorella di Messalla Corvino, che, alla morte del padre, divie-ne il tutore della nipote. Messalla era un influente uomo politico, maanche il sostenitore di un circolo di poeti, la cui frequentazione –possiamo immaginare – dovette spingere la giovane verso la poesia.Ma la presenza di questa voce femminile è anche il segno di unasocietà che cambia: dal modello dell’antica matrona romana, custo-de del focolare domestico, si sta passando, alla fine dell’età repub-

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L’unica voce di poetessadella letteratura latina:

Sulpicia (seconda metà del I secolo a.C.)

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blicana, a quello di una figura femminile più evoluta e presente nellavita pubblica, capace di condividere interessi che erano per tradizio-ne prerogativa di una comunità esclusivamente maschile. Sono glianni in cui Ortensia, la figlia del grande oratore Q. Ortensio Ortalo,difende nel foro la causa delle ricche matrone, cui Ottaviano avevachiesto una tassazione per le spese militari, e Cinzia, l’amante delpoeta Properzio, si esibisce pubblicamente nell’arte del cantoaccompagnato dalla cetra e nella composizione di versi. Si tratta, tuttavia, pur sempre di un consapevole rovesciamento dei

valori tradizionali, operato affron-tando il giudizio della società con-servatrice e benpensante.Questa consapevolezza si leggeanche nei versi di Sulpicia,

soprattutto in quelli in cui annun-cia gioiosamente la propria espe-

rienza amorosa, senza remore e timori del giudizio della società,giacché «vergogna maggiore mi sarebbe / averlo tenuto nascosto /di quanto sia infamante / averlo rivelato a tutti»; o quando contrap-pone alla virtù di facciata la sua sincera confessione: «ma questopeccato m’è dolce; / m’infastidisce atteggiarmi a virtù».Il carattere indipendente di questa donna si manifesta anche neiconfronti dello zio e tutore, quando, in un altro componimento, loinvita a lasciarla in pace, e a non imporle di andare con lui (proba-bilmente nelle sue tenute presso Arezzo), mentre ella non desiderache restare vicino al suo amore.Una voce che ci sorprende e ci conquista tuttora, «per l’intensitàdella passione» e per quella «franchezza a un tempo candida e spu-doratamente disinibita con cui la rivela» (M. Ramous).

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Venuto è infine amore

Venuto è infine amore,e vergogna maggiore mi sarebbe averlo tenuto nascosto di quanto sia infamante averlo rivelato a tutti.Commossa dai miei versi,Citerea l’ha portato a me,deponendolo sul mio seno.Ha sciolto le promesse Venere:racconti le mie gioie chi gode fama di non averle mai avute.Io non vorrei affidare parola a tavolette sigillate,per il timore che qualcuno le legga prima del mio amore.Ma questo peccato m’è dolce;m’infastidisce atteggiarmi a virtù:tutt’al più si dirà ch’eravamo degni l’una dell’altro.

[Dal Corpus Tibullianum, III, 13; trad. di M. Ramous]

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