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www.LaRecherche.it Maria Musik Copertina L’ammazzatora, Ex Mattatoio di Roma. Fotografia dell’autrice Ecco: brava così. Manda la testa indietro, ora girati e lasciati cadere. Non così, cazzo. Non sei una marionetta. Sei ferita, ti fa male, sanguini. Non c’è nessuno che ti viene a tirare su: sei sola. Allora, alzati, perdio! Alzati, alzati ti ho detto.

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L’ammazzatora, Ex Mattatoio di Roma. Fotografia dell’autrice

Ecco: brava così. Manda la testa indietro, ora girati e lasciati cadere. Non così, cazzo. Non sei una marionetta. Sei ferita, ti fa male, sanguini. Non c’è nessuno che ti viene a tirare su: sei sola. Allora, alzati, perdio! Alzati, alzati ti ho detto.

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eBook n. 128 Pubblicato da LaRecherche.it

[ Poesia e prosa ]

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SOMMARIO INTRODUZIONE dell’autrice POESIE E RACCONTI NOTE SULL’AUTRICE INDICE COLLANA LIBRI LIBERI [ eBook ] AUTORIZZAZIONI

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INTRODUZIONE dell’autrice

In questa pubblicazione troverete, per lo più, testi sul trapasso e sulla pulsione erotica. I primi sono stati già pubblicati, nel corso di poco meno di sei anni, su larecherche.it; i secondi, al contrario, benché quasi tutti datati, erano rimasti inediti. Si sente spesso dire che politica, morte e sesso sono argomenti da evitare quando ci si siede in salotto per una civile conversazione. Non è così per chi scrive ed evita accuratamente le conversazioni asettiche. Malgrado ciò, ho sempre eluso la pubblicazione di testi che avessero a che fare con l’erotismo a causa di una mia personale riluttanza a condividerli. Temevo, infatti, le pruderie, l’incapacità di distinguere il serio dal faceto nonché l’ironia di una voluta volgarità, la tentazione di includerli in un “genere” che ha, furbescamente, da sempre, solleticato la curiosità dei lettori. Non nascondo, in ultimo, il pudore. Sono, infatti, pochissime le persone con le quali ho condiviso tutti i miei scritti: solo a loro accordo totale fiducia perché posseggono una libertà interiore che li rende capaci di “leggere e basta”, sospendendo ogni giudizio morale, concentrandosi su forma e contenuto, senza retropensieri. Anche il fatto che buona parte della mia famiglia bazzichi larecherche.it è stato, sino ad ora, un notevole deterrente. Non c’entra la vergogna o la necessità di conservare intatti certi stereotipi che accompagnano i ruoli familiari ma di

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delicatezza nei loro confronti, di timore di turbarli portandoli nel mondo insidioso e selvaggio di Maria Musik, la donna che corre con i lupi, che scavalca il muro ad occidente per mangiare radici in un deserto brulicante di allucinazioni e segni di un tempo ancestrale sospeso fra mito e storia, quella che è già sepolta sotto le zolle del cimitero acattolico. Sono, però, giunta ad un punto del mio viaggio che mi impone di sollevare qualche velo. Gli anni vissuti sono, a voler essere ottimisti, il doppio di quelli che potrei essere destinata a vivere e, malgrado ciò che si potrebbe pensare, la saggezza che mi hanno recata in dono mi spinge, sempre più, ad abbandonare la “prudenza” ed il nascondimento. Per me la maturità è il tempo del rischio e della nudità. Questa “balorda” prefazione è, quindi, una sorta di password che autorizza i lettori de larecherche.it ad entrare in un’area riservata del mio sistema. Non avete tutti i “poteri” dell’amministratore ma, se vi fa piacere, potete curiosare in questa sottocartella “nascosta”. Probabilmente, dal punto di vista artistico, non sarà un’indimenticabile esperienza ma sappiate che è un piccolo dono per voi, un segno di fiducia e di stima, una colomba lasciata libera di raggiungervi per portarvi un messaggio: “ho deciso di fidarmi di te, amico lettore, mia terra”.

M. M.

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A Linda, Amelia e Marcello

Vedo le facce dei morti Non so se vogliono che resti

O vada.

Abelardo ed Eloisa – Cimitero di Père-Lachaise, Parigi.

Fotografia dell’autrice

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Fiori Ce sta ‘na vecchietta Che venne le viole. A quer sordatino ja detto: “Ce l’hai ‘na regazza? E portaje ‘n fiore”. E lui cià pensato E poi s’è fermato. Chissà se co’ ‘n fiore Glie dica de sì E se faccia all’amore. Ce sta ‘na vecchietta che venne le viole. Ce sta ‘na vecchietta che venne le rose. Te vede e te chiama “La compri ‘na rosa? Annamo ch’è tardi. È ora che vado a magnà” Ma che magnerà, Povero passerotto tutt’ossa. La vedi rinchiusa in quello scialletto E te disci: Gl’abbasta ‘na goccia de vino, Che drentro ‘n bicchiere c’affoga. “La compri ‘na rosa? “ Ce sta ‘na vecchietta che venne le rose.

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Ce sta ‘na vecchietta che venne li fiori dei morti. Vestita de nero Te venne ‘na dalia e ‘n lumino. Co’ l’occhi annacquati de pianto Te guarda E conosce er dolore Che porta la morte ner core. Te dà ‘nsieme ar cero Quei quattro fiammiferi Che er vento te sciupa Innanzi alla tomba. Ce sta ‘na vecchietta che venne li fiori dei morti. O meglio Ce stava quann’ero bambina E ancora portavo quer fiore Alla tomba de nonna. Ma mo’ è morta. E co lei er sentimento Der rosso lumino. Ma ‘n giorno ce torno. E sopra a la lastra de’ marmo de quer cimitero Ce lascio ‘n ber fiore E, forse, chissà Le parole, che mo nun ricordo, Per vecchio che more Per vecchio ch’è morto.

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Io ti riconosco, madre In ogni lacrima ed in ogni sorriso Io ti riconosco, madre Ed in ogni primavera Io ti amo. Ogni fiore raccolto È come fosse tuo. E se mai sognai la ricchezza L’ho sognata per te. Ed ogni rancore Che porto in spalla È per chi spense in te Una piccola luce di vita, Velò il tuo sguardo Armò d’ amarezza La tua tenera grazia. In ogni volto di bimbo Ed in ogni lettera dell’alfabeto Io ti riconosco, madre Ed in ogni poesia Ti amo. Ogni libro che è scritto È come fosse scritto per te

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E su ogni pagina Io pongo la mia dedica. Nel volto di mio padre Io ti riconosco, madre E nel volto di mio padre Io ti amo. Ogni suo gesto d’amore per te È come fosse per me Ed ogni sua carezza a me È come fosse anche tua. Io ti riconosco, madre Anche quando, con le parole, Non ti raggiungo.

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È cascata mamma S’è ‘nteso ‘n botto, senza manco ‘n fiato. “Oddio… mamma!” La cucchiarella m’è cascata dalle mano, so corsa e l’ho trovata a terra. Sembrava Gesù Cristo quanno l’hanno tirato giù, sotto alla croce. ‘Na goccia de sangue giù pe’ la tempia, l’occhi spauriti, le braccia e le gambe abbandonate, poggiata ar muro come quer sordato che ito piano giù doppo che l’hanno fucilato. È viva, me so detta, e piano piano me so messa a sede puro io. “Che hai fatto ma’? Pecchè nun hai chiamato?” - “C’era er pescetto drentro a quella boccia e quanno so passata ha fatto ‘n sarto e m’ha salutato… carino, dorce… m’ha salutato” – “Cazzo, ma’… er pesce… te saluta… Fatte vede, dove te fa male?” Dove gliè fa male! Er core gliè fa male se se commove perché no schifo d’animale gl’ha fatto ciao. A ma’, ma quanto sei sola chiusa drentro alla nebbia degl’anni già passati, dei ricordi che se mischieno, dei posti che nun arriconosci più? “Nun te spaventà che nun è gnente, fra ‘n po’ me tiro su”. Lo sai, ma’, chi mai ricordato? Quella della storia, quella della canzone: sì, insomma, quella… la madre del bastardo che doppo aveje aperto er petto, gl’ha strappato er core e poi s’è messo a core perché doveva da portallo alli cani della troja sua, pe’ daje da magnà. Poi, mentre che correva era cascato e er core della mamma aveva parlato: “Te sei fatto male, fijo?” A ma’: tu caschi, sanguini, ‘n sai manco ancora se te poi riarzà e penzi a me? No, ma’, così nun va: devi penzà ‘n po’ a

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te, almeno adesso piantela de’ mette sempre innanzi l’altri. Incazzete, urla, bestemmia. Lo so nun sei capace: nun te l’hanno imparato. Puro adesso che sei rincojonita, quando che soffri te preoccupi che l’altri nun se ‘ncomodino troppo. E io te sto a guardà come ‘na stronza: stai pe’ terra, te la sei fatta sotto per dolore, ciai l’occhi languidi e annaqquati, te vergogni ‘n po’ de fatte vede, così ridotta, dai fiji e dai nipoti. Solo mi padre nun te porta scanto. Lui ce lo sa, lui te capisce: è vecchio e stanco e mo gliè viè puro da piagne, che nun lo po’ vedè l’amore suo, la più bella der monno, buttata sur pavimento come ‘na cartaccia ciancicata. Adesso me direte: “Ma che ce stai a riccontà? Che c’è de’ strano: i vecchi cascheno, i vecchi moreno. ‘Ndo sta la novità?” La novità è che quella è mi madre e puro se ve sembro antica o strana, nun me ne frega gnente. Glie vojo dedicà ste du’ parole stentate prima che sia finita la storia della vita.

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24 febbraio Avevo tentato Dio – Mi piego Ti prego, che qualcuno mi abbracci! – Neanche un buongiorno, una mano levata Un raggio stentato di sole, una folata di vento Uno strappo alla regola fra le scrivanie appesantite. Un insulto, un digrignare di denti nel traffico ostile E il posto di blocco ha fermato tutti Ma non me Non me. Il tuo nome mi morde Mi strugge, mi chiama da dietro i fiori. E Lui non ti permette di venirmi a toccare. Ahi, Madre Oggi come allora Sei morta. Per mia mano, nella mia mano Mano nella mano E ti amo.

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Nonnobisnonno ha deciso di partire Nonnobisnonno ha deciso di partire. Ha richiesto un titolo di viaggio ma, si sa: i vecchi dimenticano gli occhiali dappertutto, senza non vedono da vicino e, così, s’è preso un cancro. Non c’è rimasto male più di tanto perché, alla fin fine, qualunque cosa va bene per raggiungere la meta. La sua, poi, è così agognata che, anche se il bagaglio pesa tanto, lo porta lamentandosi, ma solo un po’. Non sa bene dove andrà: in un posto bellissimo o, forse, nel Nulla. Ma anche se sarà il Nulla, è lì che troverà ad attenderlo la sua Linda sposa. Lo guardo mentre, curvo e claudicante, si muove lento per raggiungere la stazione di partenza. Lo accompagno e tento di aiutarlo a portare la borsa ingombrante: un manico lui, un manico io ed il peso è più sopportabile. Non posso fare a meno di pensare a come sarà difficile dirgli addio ma non posso essere egoista: mia madre è più di due anni che aspetta.

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Necrologio Te ne sei ito senza ‘na breccola. Er sor notaro m’ha fatto ‘na faccia quando che j’ho detto che nun c’era gnente. S’è pensato che s’eravamo fregato tutto prima che dicessi amen. Vajelo a dì, a uno che de li sordi ha fatto lo scopo della vita sua, che c’era ‘na vorta n’omo, cosìbonomacosìbonomacosìbonomacosìbono, che tutti lo pensaveno cojone.1 Riccontela a tutti la favola de quello che, per sessantacinqu’anni, ha pagato l’affitto pe’ nun dà alla sorella er dolore de lassà la casa de mamma sua. Dillo che proprio Quella, mentre che lui se stava a morì, j’ha dato ‘na cortellata ‘n panza dopo che, pe’ ‘na vita, nun aveva dovuto faticà ‘n’ora perché er fratello j’aveva lassato er tetto su la testa, fatto mette mano ar portafojo suo e ‘nzuppà er pane puro ner piatto ‘ndo magnava. Sussurrelo che ‘st’omo n’era capace de dì no a nisuno, che teneva la porta aperta perché puro li ladri, porelli, doveveno magnà. Vajelo a spiegà che era felice de fa regali a tutti perché se credeva d’esse Babbo Natale. E mentre che lo ricconti, dì puro che nun era ricco: che era ito a lavorà a dodic’anni, che a venticinque pensava che un libbro fosse ‘n tesoro e che era mejo digiunà la sera pur de compranne uno a fine mese. Fallo sapè che era comunista

1 A Roma c’è un detto che recita “Tre vorte bono, fesso”. Se superi le tre volte, passi automaticamente nella “categoria superiore”

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quanno che a Roma c’era er Fascio e che aveva smesso de scioperà quanno che esse de sinistra era diventata ‘na moda de li borghesi. Ma devi puro da dì che nun aveva mai sputtanato ‘n’operaio e che, pe’ questo, la fabbrica de li Milanesi nun j’aveva fatto fa cariera. Mettece, anche, che preferiva nun fa gli straordinari e tornà a casa pe’ vedè la moje e le fije. Dillo che l’aveveno fregato in tanti e che lui ce lo sapeva ma nun ritirava la fiducia nell’Omo e, ogni santa vorta, sorrideva e rimetteva mano ar core e puro alla saccoccia2. E ch’era ‘n Santo? Nun sbajava mai? No! De cazzate ‘na fatte tante ma quelle chiedete che ve le ricconti ‘n’antro. De mi’ padre, oggi, nun vojo sentì gnente che sia meno che bello all’occhi mia, anche se pe’ er resto de sto monno fracico era ‘n fallito. Sto a ricercà ner core i giorni che me faceva fa’ sega a scola3 pe’ portamme a vedè li musei o le chiese de Roma, che me comprava er palloncino a forma de conijo e me legava lo spago ar porzo pe’ risparbiarmi er dolore de vedello volà via, che me comprava ‘n cartoccio de fusaje4 tirate su dar secchio dall’omino delli giardinetti e me faceva segno de stamme zitta co’ mi madre ch’era “iggenista”, che s’arzava alla cinque der matino, anche si era domenica, e me portava ar mare a respirà lo jodio perché ‘n c’aveva core a vedemme boccheggià pe’ l’asma.

2 Tasca 3 Marinare le lezioni 4 Lupini (luppolo)

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Li devo ritrovà sti ricordi pe’ tojemme dall’occhi l’agonia, er dolore e, puro, la cattiveria de chi, amato, fino all’urtimo giorno, l’ha tradito. Lo devo da fa pe’ potemme guardà allo specchio, libbera dar rancore, e dimme: “A papà: anvedi come te rissomijo5!”.

5 Guarda come ti rassomiglio

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Tango del padre morto e dello psichiatra immaginario Padre, sei morto. Non rispettasti la promessa Di tornare e dirmi Se c’era il tuo Aldilà. Mi lasci qui da sola A ballare un tango Con lo sconosciuto.

Zitto, imbecille, Al diavolo Edipo e Freud Parlo d’amore: Tu, taci!

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Auguri, Padre! Sto qui che fumo E osservo le cineree volute Salire al cielo. Chissà che fine ha fatto La sigaretta che posi furtiva nel taschino Del tuo bel vestito/sudario. La stessa che ti lasciai, In barba al ringhio della cagna da guardia, Perché potessi gustarla Quando fosse sopraggiunta La certezza della morte. Unii, sopra il tuo cuore, La mia foto e la bionda amante. Se sei dove credevi di andare Ora, mia madre, Può riannusare vogliosa Il tuo odore colonia e tabacco.

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Il parto della Morte Alla morte si sono rotte le acque Ed ha partorito la notte. Monicelli è volato via Fra un sospiro ed un l’eutanasia. Sanguineti l’ha portato via il vento E Genova ha acceso tutto quel ch’era spento. Tout passe, tout casse Mentre l’Italia è alla canna del gas. Ripenso che se ne andò da sola la Morante Senza luce, né parole piante.

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I miei cari morti I miei cari morti Vengono a visitarmi E portano una sacca Che aprono, Piano piano, Restituendomi intatte Le trascorse primavere. Ecco che, fra mandorli in fiore, Zampilla la fontana Dove guizzarono pesci rossi E mani di bambini. Ritorna la mimosa Attaccata a gonne fluttuanti E a zoccoli che marciarono Battendo strade a divieto di transito. Salgono spirali di fumo Profumato di salsedine e notti stellate Ad illuminare il sabbioso spartito Per una chitarra accarezzata e percossa. Si fa carne l’aprile più bello Fragrante di talco e latte Dimentico di urla, ricolmo di vagiti E morsi voraci che dolci azzannarono i seni. Vengono i miei cari morti Lasciano una sacca vuota Per ricordarmi Che sono ancora viva.

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Così muore la madre di un Angelo A Manuela, nel giorno della neve a Roma

Partoristi senza Annunciazione Un Angelo E quando volò via Fu schianto. L’eco fu rombo Che occluse per anni L’orecchio E serrò gli occhi. Venne la neve E più non sopportasti Il freddo al cuore. Sei saltata giù Facendo a gara Con i fiocchi bianchi. Pesando di dolore hai vinto. L’Angelo ti ha raccolta E con le ali Ha coperto la tua nudità. Arrivato dal Padre Ha detto solo: “Questa è mia madre”.

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Ajò, Giuseppe A Giuseppe Pinna nel giorno della sua sepoltura

E socu a tempu passendi parò sempri burrulendi comu m’eti cunnisciutu6

Come uno sguaiato carrettiere La Morte ha sputato con mira perfetta E il suo scaracchio d’avorio È andato a baciare il boccino Scagliandolo fuori dal campo sterrato. Una mano infantile e crudele Ha sottratto al fiume la barchetta di carta Accartocciata e pressata Con una schicchera Fra pollice e indice L’ha lanciata nel nulla. Ma il nulla è inogniluogo Ed è lì che io Continuerò a sorriderti.

6 1 La più bedda di Gaddura (Nostra Signora di Locusantu, Regina di Gaddura) di Ciccheddu Mannoni (dal sito dell’Accademia della Lingua Gallurese). Trad: e il mio tempo sta passando/però sto sempre scherzando/come (quando) m’avete conosciuto.

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Ad Anna, a Giuliano e Roberto, a Roberto

“Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante.”

(Inferno, Canto V, versi 133-138)

Paolo e Francesca – Palazzo degli Elefanti, Catania.

Fotografia di Maria Musik

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Viola “Tempo fugit!” “Memento mori!” “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…” Viola avrebbe potuto continuare per ore ad elencare frasi e aforismi che avevano “illuminato” i secoli con la cinerea luce dell’unica vera certezza umana: la morte. Passata l’adolescenza, malgrado avesse più volte incrociato lo sguardo, tutt’altro che discreto e benevolo, della Signora, aveva potuto godere di quella insolenza che la giovinezza, senza merito alcuno, concede e che, in normali condizioni psicofisiche, permette di dimenticare che tutti abbiamo una data certa di scadenza. Ma l’inclemente, progressiva caduta dei fogli rendeva il calendario sempre più sottile. Cominciava ad aborrire tutto quanto era appeso alle pareti: il lunario e lo specchio erano i suoi più odiati nemici ma anche le foto, i poster, le cartoline e quanto aveva a che fare con il passato, non erano da meno. Se da un lato non poteva fare a meno dei ricordi con i quali era solita tappezzare i muri delle camere a lei più care e, soprattutto, il retro della vecchia libreria che era servita ad isolare una minuscola porzione della stanza comune, in modo da ricavare uno spazio che, con un po’ di prosopopea, chiamava studio, d’altra parte, quelle stesse effigi dei giorni trascorsi, la ferivano come un repentino raggio di sole che avesse penetrato le pupille di un prigioniero tenuto lungamente al buio.

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Fra le poche persone alle quali aveva confidato questo suo disagio, solo una, un amico di recente acquisizione, non si era profuso in rassicuranti esternazioni circa la sua età ancora “giovane” e le innumerevoli esperienze che ancora la attendevano. Soltanto lui aveva avuto il buon gusto di non esortarla a “lasciarsi andare” scivolando leggera dentro un improbabile “carpe diem” che, rescissi legami, chiuse le fauci a tutti i doveri di una vita adulta, le avrebbe consentito di godere una seconda esistenza. Viola si era trovata a chiedersi come mai fosse riuscito così facile ad una persona che da poco tempo aveva cominciato a considerare amica ed alla quale aveva dedicato tanto poco tempo ed attenzioni mentre il suo stato d’animo risultava incomprensibile a quelli con i quali aveva condiviso qualche decennio. Tutta questa storia della vita che comincia a cinquanta, sessanta anni era molto simile ad un volgare quanto effimero Gardland: gettarsi giù dalla più spericolata delle attrazioni per sentirsi vivi ed emotivi per arrivare, a fine corsa, col cuore in gola ed il fiato corto e farsi cogliere dall’ora di chiusura con uno stazzonato biglietto d’ingresso fra le mani, soli davanti ad un cancello chiuso. E una notte intera per pensare a quanta fila si fosse fatta per giungere al botteghino ed al prezzo dell’ingresso. Non era certo il modo migliore per dimenticare quel corpo che andava modificandosi appesantendosi, oltretutto, delle piccole, fastidiose patologie che si disvelavano ogni anno, quell’amato, odiato contenitore che non voleva più saperne di essere confacente alle pulsioni, le speranze, le passioni

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che, ancora, lo stramaledetto cervello andava insufflando nell’anima e nel sistema nervoso. Così, mentre guardava infastidita a quel darsi da fare di quasi tutte le sue coetanee, cinquantenni rampanti dedite ad ogni rito e modello atti a dimostrare quanto fossero ancora giovani ed attraenti, che si chiamavano, cinguettanti, “ragazzeeee!”, che esponevano a mo’ di trofeo compagni, imbarazzantemente belli e disdicevolmente tanto più giovani da chiedersi se ci fosse qualche tendenza pedofila nelle sempreverdi amanti, si sentiva al contempo altrettanto patetica a convivere con quella sua insoddisfazione, con quegli appetiti che certo non potevano essere placati da un ragazzino fresco di laurea, con quelle sue voglie di libertà sempre ripudiate in nome del senso di dovere e responsabilità al quale le era dolorosamente impossibile sottrarsi. A volte, chiuso sulle ginocchia, il consolatorio libro, (mai il best seller del momento, con maggiore frequenza lo scritto di uno sconosciuto autore o di un incosciente poeta, orgogliosa com’era di non saper nulla circa la solitudine dei numeri primi né di arredamento d’interni stile Sveva), pensava che se anche lei avesse posseduto quella insostenibile leggerezza dell’essere sarebbe stata meno schizofrenica. Poi, inorridiva al pensiero di come facessero, arrivate al dunque, a spogliarsi di fronte a qualcuno che, sino alla sera prima, aveva indugiato su sode tettine e marmorei glutei e che non aveva la minima idea del significato che era custodito da ogni imperfezione, ogni segno, ogni cicatrice

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che il tempo aveva disegnato, a volte con amore a volte con violenza, su di un corpo maturo. Non era comune senso del pudore: la nudità, intorno ai trenta anni, si era manifestata a Viola come una piacevole e gioiosa pratica. Affrancarsi dai vestiti era il segno di una liberazione interiore, la caduta di ogni schermo protettivo. Aveva scoperto la sua anima selvaggia, quella voglia di contatto completo con l’universo. Farsi vedere nuda per lei equivaleva a dare la possibilità all’altro di entrare in contatto con il suo sé più profondo. Lo svestirsi non era abbinato per forza al sesso. Togliersi le scarpe come arrivava su un prato o su una spiaggia era divenuto un bisogno. Attraverso le piante dei piedi poteva divenire erba, acqua, rena, muschio, roccia. Essere nuda non aveva nulla a che fare con il sentirsi bella o sicura della propria capacità di sedurre: era aprirsi all’universo, accettando tutta la debolezza e la fragilità di cui era portatrice e lasciarsi raggiungere per entrare in un rapporto profondo e sincero, in uno scambio di emozioni con un’entità naturale altra. L’erba, la sabbia, il mare, il vento, la pioggia avevano sempre risposto generosi alla sua offerta: gli uomini no! Almeno, non quelli ai quali aveva accordato la propria fiducia. Più semplici, ignari di tutta questa complessità, volevano solo chiavare, senza indugiare e godere delle sensazioni lente e ritmiche come la risacca, troppo impegnati a saziare, il più in fretta possibile, una sana e naturale voglia, ubbidendo alle pulsioni senza darsi alcuna possibilità di imparare ad attendere, a guardare, a toccare in funzione di un duplice

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beneficio: entrare in una comunicazione totale e, al contempo, avere un orgasmo. Non si trattava di pensare all’equivalenza “sesso=amore” ma riuscire ad intravedere come il coito potesse essere un atto che andava ben al di là del soddisfacimento di un bisogno. L’esemplificazione più banale ma, al contempo, più efficace era quello di pensarsi a tavola davanti ad una pietanza mai assaggiata prima: si poteva divorarla in pochi bocconi per godersi, dopo, la pancia piena oppure prendersi del tempo per osservare come fosse stata disposta nel piatto e che colori e consistenza avesse, odorarla per intuirne il sapore, poi, assaporarla cercando di indovinare gli ingredienti, gustarla facendo scivolare il boccone fra lingua e palato, interrompersi per sorseggiare la bevanda più giusta per accompagnarla, fosse tè verde al gelsomino od un vino pregiato o semplice acqua fresca che nettava la bocca preparandola ad assaporare meglio. Era certamente più soddisfacente il sesso come “atto di conoscenza” che, fosse stato pure quello coniugale, come atto, quasi dovuto. Quindi, la castità era giunta spontanea: se non poteva avere quello che veramente desiderava, allora, non avrebbe più voluto altro. Non si sarebbe accontentata, neanche per amore, perché l’amore poteva esprimersi senza il sesso ma il “sesso ignorante” non era che una patetica imitazione di una scopata. Un altro frutto che il tempo aveva fatto maturare era l’assoluta repellenza che provava verso ogni “genere di generalizzazione”.

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Era stufa del menu scritto dai luoghi comuni più vieti che etichettano gli uomini come fossero prodotti di banco: � marito: prodotto D.O.C. meglio se di provenienza

regionale sicura (marito e buoi dei paesi tuoi) � amante: neurotrasmettitore monoaminico, presente nei

tessuti animali ma anche in alcune piante, nella frutta, nei batteri ed, in forti quantità, nei veleni di vespe e scorpioni;

� amico: “Si prega la gentile clientela di guardare ma non toccare”;

� collega: pericoloso competitor, specie in formato giacca, cravatta e palmare di ultima generazione;

� gay: il “migliore amico delle donne” perché è maschio e femmina insieme. (dio, che cazzata: ci crede solo Julia Roberts);

� figlio: proprietà privata da proteggere dalle altre donne che sono tutte mignotte;

� ragazzo della figlia: “inseminator”, pericoloso integratore di concepimento indesiderato;

� sconosciuto, alla fermata del bus: possibile violentatore; � sconosciuto, con cane, di sera: possibile violentatore; � sconosciuto, fermo al semaforo, di notte: possibile

violentatore. Ovviamente, anche ogni donna, viaggia accompagnata dal proprio bugiardino che ne elenca la componente principale e tutte le possibili complicazioni ed effetti collaterali. Ad esempio, Viola era conosciuta quale un ottimo calmante ma con pericolosissimi addittivi quali ironia, indipendenza e,

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il più allergizzante di tutti, un’inguaribile, testarda tendenza verso la solidarietà. Nel complesso molto utile ma una gran rompipalle. Alla fine, rimaneva solo la domanda: “cosa succederebbe se tutti ci staccassimo l’etichetta, ci levassimo la maschera e ci spogliassimo? Sarebbe più facile incontrarsi oppure ci faremmo reciproco orrore?”.

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Cigno Scopa Ma fallo in silenzio Scopa bene, Lento, Maestoso e pericoloso Come cigno Che apre le ali Sullo specchio del lago. La mia pelle In mille onde riconoscenti Ti bagnerà. Ma alla fine Non chiedere Se mi è piaciuto. Resta cigno. Non diventare oca E se proprio Devi starnazzare Lascia che mi giri Su un fianco.

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Da oggi cominci a pagare 50 euro normale 20 orale 25 anale 75 tutto il baccanale. E poi vediamo… Dove lo vuoi fare? In ascensore? Optional: pagare! Sopra a un bel tetto? Tegole: pagare! Nel confessionale? Sacrilegio: pagare! Da oggi cominci a pagare.

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Dalle confessioni di una puttana mancata E se davvero l’unica cosa importante di me fosse la vagina? Se quel rombo che, a braccia levate e mani aperte e unite, sbattevo in faccia al mondo con le altre compagne, in un passato, così passato da essere ormai storia, non era un simbolo di lotta politica ma l’incosciente presagio di una verità da scoprire da donna? Solo una fica: passaggio per chi costretto a nascere vuole uscire, per chi voglioso vuole entrare, per chi affamato vuole fantasticare! Un umido tunnel, un piccolo, elastico buco è alla fine il bene più prezioso. È merce costosa e il prezzo lo decidi tu; non sempre. a volte anche il cliente, perché il cliente ha sempre ragione (nella misura in cui gli dai spazio di contrattazione)! Anche la valuta con cui vuoi essere pagata per darla la puoi decidere tu. Devi essere furba; che cosa ti serve: di sentirti desiderata, compagnia, la fuga dalla morte, piacere senza complicazioni, complicazioni senza piacere, soldi? Beh, se la sai vendere bene puoi avere quello che vuoi. Attenta, però il cliente è solo un cliente e la fica è solo merce: non baciare, non ti innamorare perché allora cominci a regalarla, peggio a donarla e, via, sempre più in basso, a pagare tu per darla. E il prezzo non lo fai tu e neanche decidi più la valuta. Potresti trovarti strozzata da un mutuo inestinguibile, a tasso variabile e senza scadenza.

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E, allora, sapete che penso? Che l’ho data troppo poco, non l’ho venduta e non l’ho fatta fruttare. E, che cazzo, mi sono stufata di pagare il mutuo ad un prezzo così salato che non mi resta più molto per comprarmi quello che voglio veramente. E al prossimo che dice “Porca puttana” gli sputo in faccia, perché di porco, in questo porco mondo ce n’è a tonnellate e niente è meno simile a un maiale di una donna.

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Eros, purtroppo, non è un gokart Il sesso, purché disgiunto dall’amore, è il solo anestetico che io conosca in grado di annientare l’atroce dolore di vivere, il subdolo cancro depressivo che ti porta dentro urla spaventose di disperazione. Almeno è l’unico, prese le giuste contromisure – usa il profilattico e non ti innamorare – che non aggiunge devastanti effetti collaterali alla cura. Con l’alcool rischi di vomitarti l’anima sulle scarpe e pisciarti addosso. Calarsi con una pilloletta colorata, un francobollo, una striscia o una pera? No, grazie. A parte che rischi di fotterti quel neurone solitario che ancora gira nei vuoti meandri della tua testa esposta per troppi anni alle immagini venute fuori dal buco del culo di un colon catodico, il fatto che, dopo esserti bagnata il naso nella polvere d’angelo, ti possa ritrovare con un ictus od un infarto su una lurida barella del Policlinico Casilino ad aspettare il tuo turno per morire (i vecchi vengono prima… sono gli unici più inutili di te), sinceramente, mi pare alquanto inquietante. Bene che ti vada perdi la libido: inammissibile! Ci si potrebbe dare al gioco: ma a chi va di ritrovarsi fuori dall’Airterminal Ostiense, pieno di pulci, a guardare la suole delle scarpe di quelli che ti scavalcano per non sporcarsi? Allora, vada per il sesso, meglio se puro, tanto da avere un orgasmo da overdose. Le maniglie dell’amore sono, in realtà, efficaci maniglioni anti-panico. Ti ci attacchi e voli via, lontano dalla morte, dal senso di inutilità, di inadeguatezza. Quando sei nuda, coperta

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dal corpo dell’altro che ti schiaccia, ti dimentichi pure di essere brutta e vicina alla data di scadenza. Quel frugarti in cerca di un’erezione perfetta, ti mettono al riparo persino dal senso del ridicolo. E puoi pensare a quel che cazzo ti pare o a niente, se questo ti fa venire meglio. Non fai male a nessuno, anzi fai bene a chi lo fa bene. Aggiungici che, in caso di mancanza di materia prima, c’è il “fai da te” che, alla facciaccia di tutte le stronzate che ti hanno raccontato, funziona alla grande. Però, bisogna essere bravi. Ci sono regole da seguire. Primo: devi essere sola. Reprimere i movimenti non aiuta. Secondo: devi imparare a respirare. Quando ti masturbi rischi di andare in apnea. Il ritmo cardiaco e della respirazione devono aumentare piano, in sincrono perfetto con l’accendersi delle fantasie, il crescendo della storia che ti stai immaginando, i movimenti delle tue mani. Terzo: devi conoscerti bene e capire quando ti farà un gran bene e quando, invece, è meglio evitare perché l’unico risultato sarà quello di ritrovarti più affamata di prima e con un senso di vago disgusto per te stessa. Ultima avvertenza: ricordarsi che il più delle volte non basta un dito per cacciare la morte. Ci vuole un corpo intero che si frappone fra te e l’eterna nemica. Eros, purtroppo, non è un gokart ma una duetto decappottabile.

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Scambio di ruoli Se fossi uomo e tu donna t’avrei stretta forte fra le braccia t’avrei baciato il volto e le labbra. Ti avrei frugata ed accarezzando ogni dolore, tramutato il lamento in gemito. Ti avrei presa, nell’algido tramonto per riempire di me il tuo vuoto profondo.

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La pace nel mondo! Un giorno un uomo mi ha chiesto? “Che cosa guardi per prima cosa in un maschio?”. Domanda al quanto stupida. Con il più ineffabile dei sorrisi, ho risposto: “Il culo, che altro!” Imbarazzo totale. Uno sguardo basito mi ha trapassato, confermandomi che il verdetto doveva essere: “Lo sguardo e le mani”. C’era tutto, in quella occhiata delusa: “Ma come… da una donna come te? Che trivialità. Che spudoratezza!” Già, da una donna matura e intellettuale come me ci si aspettano altre risposte. Esempio: “Se potessi esprimere un desiderio, certa che si avveri, cosa chiederesti?”

“La pace nel mondo!” “Chiedimelo. Chiedimelo ora.” Se ci fosse qui la lampada di Aladino e, sfregandola, ne uscisse il Genio, gli chiederei di darla a me una sfregatina: lui è un gran pezzo di giovane mediorientale, rinchiuso da decenni, solo soletto, in una lampada. E, comunque, da contratto deve ubbidirmi! Come secondo desiderio gli chiederei di pensare come una donna mentre lo fa e come terzo… “Quando hai finito, sparisci! Sei libero.” Già immagino la scena. Mi salta addosso, ci rotoliamo nudi nella sabbia rovente, lui è sopra di me e… che succede? Si sposta, si lascia cadere al mio fianco e, umiliato e offeso, dice: “Scusami, non è per te. Per carità: sei bellissima e sai

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come far impazzire un genio. Non so cosa mi sia capitato. È la prima volta, te lo giuro. Sai, sarà perché è passato tanto tempo, lo stress… sempre ad esaudire desideri, un orario di lavoro infame, niente domeniche, poche ferie. Oppure, ecco ci sono: è ansia da prestazione. Una donna come te, merita di più, lo so e non mi sono sentito all’altezza. No, no, non posso mentirti così: non c’è nulla che non vada in te. Sono io, io. Non volevo ammetterlo neanche a me stesso: sono gay!” O.K. Adesso, richiedimelo. “Se potessi esprimere un desiderio, certa che si avveri, cosa chiederesti?” “La pace nel mondo!”.

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Sesso a secco Maledetto morbo! Imponi dighe di lattice ad impedire che il caldo immissario fluisca nel lago sotterraneo. Facciamo l’amore in tintoria, a secco, privati dell’umido che illanguidisce il piacere. E nelle narici non più odore di sesso ma puzza di caucciù.

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Regina A Marilina

“Davanti alla contabilità ed alla povertà dei sentimenti, l’uomo irraggiungibile obbliga il cuore dell’amante regina a svegliarsi e a sanguinare. Del resto, una donna eccellente, farebbe di tutto per andare oltre la noia. Anche rischiare la vita, la reputazione, i nervi per un uomo che non può essere tutto suo” (Margherite Duras) Ed il pugno chiuso della regina giace adagiato come conchiglia sulla sabbia. Nessuno la raccoglie, neanche il bambino che voglia adornare il castello di sabbia. Il braccio è prostrato e solo il mare lo sfiora. Ma il mare viene e si ritrae lasciandolo inerte. Se solo potesse schiudere le dita e lasciare che la perla, custodita, rotoli lontano. Ma è regina e non può che rimanere seduta nel freddo del suo trono. Verrà la morte a ghermirla prima che alcuno abbia veramente posseduto il suo corpo/fuoco, la sua anima/rugiada, la sua mente/diamante.

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Copertina Aveva deciso di farsi fotografare da un professionista. Il suo primo libro sarebbe uscito a sue spese, niente editore e, quindi, certo non sarebbe stato un volume di pregio: la tipografia non era certo un’opera pia e la sua capacità d’investimento non era quella di un Creso. Considerando, poi, che le copie le avrebbe regalate non si poteva contare su una qualunque forma di rientro di denaro. Ma la copertina, la c o p e r t i n a, quella doveva essere come la voleva lei, doveva essere speciale, doveva dire, a tutti quelli che avrebbero preso in mano quel libro, che era stato scritto da qualcuno che aveva qualcosa di diverso da dire, anzi, da urlare. E la foto non poteva essere il solito primo piano di occhialuta intellettuale con libreria per sfondo. Quella non era lei. Se doveva essere il suo manifesto, quell’immagine doveva parlare. La vita, la sua vita, come quella di tutti gli uomini che si accorgono di essere vivi, era stata un andare al macello. Però, aveva attraversato i corridoi del mattatoio a testa alta, come un nobile toro decaduto, come la giumenta dalle lunghe corna che un tempo era stata la più fertile. Un incedere lento e dignitoso che non aveva mai richiesto funi tirate e pungoli. Il suo sangue, ogni volta, aveva dissetato la polvere e le sue carni saziato avidi e anemici commensali. E tutte le volte, come fenice, era rinata alla sua morte, sorgendo ora dalia ora rovo, dalla terra ematica. Così aveva studiato tutti i particolari.

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Il set per gli scatti sarebbe stata l’antica “ammazzatora” di Roma, ex lager da tempo in disuso. Uno dei recinti per il bestiame, con i capannoni per il ricovero dei bovini come sfondo, era il posto prescelto. Si era accordata con il fotografo per scattare di notte, perché la notte è il non luogo infestato dai poeti. Era arrivata alla sera dell’appuntamento preparando minuziosamente tutto l’occorrente. Si era tinta i capelli rossi striandoli di nero blu. Li aveva fatti tagliare cortissimi, schizzati via in ciocche, lasciando che solo alcune rimanessero più lunghe, come serpentelli giocosi, a ricadere sulla nuca. Aveva coperto il viso ed il collo di un fondotinta chiarissimo e compatto e gli occhi marcati, come quelli di una Medea, con un kajal indiano, nero e speziato, figlio unico del Gange. Indossò un abito nero dismesso da un’amica: niente spalline, corpetto rigido a strizzare seni e vita, gonna a corolla, sostenuta da rigido tulle. Messo il solito cappotto, aveva stipato tutti gli accessori dentro una sacca. Puntuale, scese dall’auto e, al parcheggio, trovò l’uomo ad aspettarla. Aveva visto i suoi scatti e sapeva che avrebbe fatto bene. Quello che si chiedeva era se sarebbe stato all’altezza di seguirla nella sua follia. Certo i fotografi sono abituati a tutto ma avrebbe retto il confronto? Gli andò incontro con un sorriso sghembo sulla faccia che mal s’intonava col rosso carminio che inondava le labbra. “Buona sera: sei pronto?” Tanto valeva partire col tu, visto che gli avrebbe mostrata l’anima.

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“Pronto!” Di poche parole: meglio! Raggiunsero il recinto e, sotto lo sguardo impassibile dell’uomo, si tolse il cappotto. Sedendosi su una cassetta di frutta abbandonata in un angolo, si era tolta le calze rimanendo a gambe e piedi nudi. Poi aveva aperto la sacca, ci aveva frugato dentro a lungo e ne aveva tratto una scatola di carboncini, con la punta temperata a dovere. Cominciò a scrivere singole parole sulle braccia e sulle gambe. Poi, si era rivolta all’altro. “Mi aiuti?” Gettata la sigaretta, si avvicinò: “Che devo fare?” “Io detto e tu scrivi. Se avessi potuto l’avrei fatto da sola, ma non sono una contorsionista, anzi, non sono neanche più tanto elastica”. Rise rauca e nervosa. “Dove?” “Cominciamo dal collo e le spalle” “Sotto la nuca?” “Sì: lì scrivi TAGLIO” “Fatto. E poi?” “Sulle spalle e la schiena, dove ti viene meglio, scrivi PESO GIOGO CURVA TRAMONTO AMORE OCCIDENTE “O.k. E adesso, dove scrivo?”

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“Sui polpacci: CORRI DANZA SCAPPA FERMA Sui calcagni scrivi VOLA, due volte” Adesso, per favore, scrivi sul petto ALBA CUORE MARE ORIENTE” “Finito?” “No: manca una parola!” Sollevò la gonna: “Qui, sopra l’elastico, scrivi FICA.” L’uomo la guardò e gli scappò detto: “Ma tanto quella non si vede, no?” Subito dopo, avrebbe voluto mordersi la lingua per aver fatto quella domanda. Sarebbe già stato un casino scattare dopo tutto quel menarsi a fare graffiti sul corpo di una fottuta artista strafatta. “Già non si vede: ma tu ed io sappiamo che c’è scritto. E questo fa la differenza!” “Va bene: iniziamo.” “Sì… no, aspetta!”. Si tolse gli slip e glieli ficcò in tasca. “Anche questo non si vedrà ma tu ed io sapremo che non li porto!” Poi, improvvisamente mansueta, gli chiese: “Adesso cosa faccio? Dove mi metto?”

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Cazzo era ora, adesso gioco io, pensò lui. “Comincia a muoverti nel recinto. Fa quello che vuoi. Poi, vediamo!” Impacciata e insicura iniziò a girare in tondo, proprio come una bestia presa e ignara di dove si trova, alla ricerca di un’uscita. Il ronzio della fotocamera che andava come un treno, le rimbombava nelle orecchie. Poi, piano piano, divenne una sorta di ritmo, infine, una musica. Cominciò a muoversi seguendo l’armonia. Non percepiva più il flash o, meglio, non con gli occhi: lo sentiva sulla pelle e bruciava. A volte levava le braccia al cielo, a volte girava su se stessa. Fu un attimo: un pezzo di vetro acuminato le tagliò il piede, proprio sotto la pianta. Cadde a terra, come una bambola rotta. Vide il sangue fiottare, poi il dolore le fece reclinare la testa, prima all’indietro, poi in avanti. L’uomo non si fermò e continuò a scattare. Si alzò e zoppicando, si appese alla sbarra metallica del recinto. “Ecco: brava così. Manda la testa indietro, ora girati e lasciati cadere. Non così, cazzo. Non sei una marionetta. Sei ferita, ti fa male, sanguini. Non c’è nessuno che ti viene a tirare su: sei sola. Allora, alzati, perdio! Alzati, alzati ti ho detto.” Lei si tirò su furiosa e cominciò a seguire tutti gli ordini che le venivano impartiti. Ogni tanto, improvvisava, trasgredendo a ciò che le veniva urlato. Furono poche manciate di minuti. Le parole cominciavano a colare in gocce di sudore ed umido notturno, sfumandosi nel candore della pelle.

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Alla fine, si accasciò a terrà stremata e scoppiò in lacrime. Il fotografo smise di scattare, ripose la macchina nella borsa e si avvicinò. Si accovacciò accanto a lei e le coprì le spalle con il cappotto. Rimase in silenzio per un po’, poi, la sollevò, prese la sua sacca e le disse: “Dai: ti accompagno fino al bagno, così ti dai una lavata e ti rassetti”. Camminarono lentamente. La donna trascinava la gamba, imprecando e tirando su con il naso. Sparì dietro la porta della toilette e, quando, ricomparve, indossava jeans e maglione. Completamente struccata, i capelli domati, gli occhiali tornati al loro posto. Si avviarono in silenzio verso il parcheggio. “Allora, ciao. Ti aspetto martedì a studio e ti scegli la foto. “ “ Sì, magari scegliamo insieme.” Salì in macchina e mise in moto. L’uomo la guardò allontanarsi, cercò le chiavi nella tasca del giubbotto e scoppiò in una risata. Tirò fuori un gomitolo di pizzo nero e pensò che avrebbe sviluppato alcune fra le foto più belle che avesse mai fatto.

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Vergine deposta Nel letto, raggomitolata su di un fianco, la mano destra che stringe lievemente il seno sinistro. Sento il cuore pulsarmi fra le dita. Scandisce la rabbia per quella mano che non è la tua. La tua di chi? E che ne so! Mi basterebbe non fosse la mia. Vorrei fosse la tua e non fantasia. Sono come un vergine deposta, morta casta, sul cui volto scorre una lacrima. Tutti pensano sia stata la paura: ma no, era la stizza di morire intatta, senza aver dato via quel fiore che tutti immaginano di marmo e, invece, è carne.

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Miagolare pallido e assorto Un gatto miagola accorato Nella notte che suda. Gli rispondo con un lamento Languidamente filtrato dalle grate. Questa estate È un doloroso amplesso Che impudico Si strappa di dosso le lenzuola E disturba gli impotenti silenzi Della città deserta.

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NOTE SULL’AUTRICE

Avrei potuto essere “la donna dalla voce rauca” di Cesare Pavese, il Robert di Oscar Wilde, Céleste per Marcel Proust, Raminou, il gatto di Suzanne Valadon o Charlie, il cane di Steinbeck. Invece, sono Maria e sono Bruna, donna che corre con i lupi in un mitico deserto e miagola alla luna con i gatti nei vicoli di Roma. Lavoro, leggo, scrivo, amo, prego e protesto. Fumo

molto, dormo poco. Credo nella parità, adoro la differenza e trovo ambigua l'uguaglianza. Niente mi irrita come le etichette e le date di scadenza. Non porto l’orologio, odio gli ombrelli, mi piacciono le scarpe ma, se potessi, girerei perennemente scalza. Compro i miei abiti sulle bancarelle e mi vesto come se ancora fosse il 1977. Rimpiango i lunghi capelli biondi della giovinezza, gli amori che non ho osato vivere, il non poter ricordare la nascita di mia figlia e di non averne partoriti od adottati altri. L’unico concorso a cui ho partecipato (con poca convinzione e nessuna raccomandazione, per fortuna…) fu quello dell’INPS e il solo premio che vinsi una bambola cinese alla riffa parrocchiale per le missioni. I miei scritti sono pubblicati su larecherche.it perché mi piace condividerli e, soprattutto, perché voglio un bene dell’anima a Roberto e Giuliano; quelli non divulgati li

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distruggerà W. dopo la mia morte (che si ricordi di formattare il mio HD prima di “venire a pisciare sulla mia tomba” come, amorevolmente, è solito dirmi).

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INDICE SOMMARIO ............................................................................... 2 INTRODUZIONE dell’autrice ................................................... 3 Dedica-esergo .................................................................................... 5 Fiori ............................................................................................... 6 Io ti riconosco, madre ....................................................................... 8 È cascata mamma ......................................................................... 10 24 febbraio ................................................................................... 12 Nonnobisnonno ha deciso di partire ............................................... 13 Necrologio ..................................................................................... 14 Tango del padre morto e dello psichiatra immaginario ..................... 17 Auguri, Padre! .............................................................................. 18 Il parto della Morte ....................................................................... 19 I miei cari morti ............................................................................ 20 Così muore la madre di un Angelo ................................................ 21 Ajò, Giuseppe ............................................................................... 22 Viola ............................................................................................ 24 Cigno ............................................................................................ 31 Da oggi cominci a pagare ............................................................... 32 Dalle confessioni di una puttana mancata ...................................... 33 Eros, purtroppo, non è un gokart ................................................... 35 Scambio di ruoli ............................................................................ 37 La pace nel mondo! ....................................................................... 38 Sesso a secco .................................................................................. 40 Regina .......................................................................................... 41 Copertina ...................................................................................... 42

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Vergine deposta ............................................................................. 48 Miagolare pallido e assorto ............................................................ 49 NOTE SULL’AUTRICE ......................................................... 50

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COLLANA LIBRI LIBERI [ eBook ] (...) 107 Isola, Costanzo Rapone [Romanzo]

108 Il pellegrino e il morto, Giuseppe Bisegna [Poesia]

109 L’alba di Solange, Sergio D’Amaro [Romanzo]

110 Florentia, Roberto Mosi [Poesia]

111 Nell’erba il punto, Federica Galetto [Poesia]

112 La fiaba, la parola, la luce, Guglielmo Peralta [Teatro]

113 Da Illiers a Cabourg, Aa. Vv. [Antologia]

114 La Luna è nuova, Alessandro Franci. [Poesia]

115 La nozione di tempo in Ockham, Proust e Bergson,

Gabriella Galbiati [Saggio]

116 Lavoro, delusioni e alieni, Gianpaolo Borghini [Romanzo]

117 Darsgana de Malchut, Gian Maria Turi [Racconto]

118 Ex silentio, Massimo Cacia [Poesia]

119 A musical analogue, Peter Houle [Saggio]

120 Tutto è visibile, Patrizio Dimitri [Poesia]

121 Cinque passi, Anna Belozorovitch [Poesia e fotografia]

122 Cattedrali, a cura di G. Brenna e R. Maggiani [Calendario 2013]

123 L’ordine delle cose, Roberto Perrino [Poesia]

124 Scena della violenza, Andrea Leone [Poesia]

125 Una domenica mattina, Letizia Dimartino [Poesia]

126 Caffè Rosa, Nicla Pandolfo [Racconti]

127 Il segno semplice, Meth Sambiase [Poesia]

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Questo libro elettronico (eBook) è un Libro libero proposto in formato pdf da LaRecherche.it ed è scaricabile e consultabile gratuitamente. Pubblicato nel mese di febbraio 2013 sui siti: www.ebook-larecherche.it www.larecherche.it eBook n. 128 A cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani Per contatti: [email protected] [ Senza l’autorizzazione dell’autore, è consentita soltanto la diffusione gratuita dei testi in versione elettronica (non a stampa), purché se ne citino correttamente autore, titolo e sito web di provenienza: www.ebook-larecherche.it ]

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L’autore, con la pubblicazione del presente eBook, dichiara implicitamente che i testi da lui proposti e qui pubblicati, sono di propria stesura e non violano in nessun modo le leggi sul diritto d’autore, e dà esplicito consenso alla pubblicazione dei propri testi, editi e/o inediti che siano, in esso contenuti, pertanto solleva LaRecherche.it e relativi redattori e/o curatori da ogni responsabilità riguardo diritti d’autore ed editoriali; se i testi fossero già editi da altro editore, l’autore dichiara, sotto la propria responsabilità, che i testi forniti e qui pubblicati, per scadenza avvenuta dei relativi contratti, sono esenti da diritti editoriali, o, nel caso di contratti ancora in corso, l’autore dichiara che l’editore, da lui stesso contattato, consente la libera e gratuita pubblicazione dei testi qui pubblicati.