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“Arde il nostro cuore mentre spieghi le Scritture” Scrittura e Tradizione conversazioni di don Claudio Doglio Questo Corso Biblico è stato tenuto a Genova-Sestri Ponente nei mesi di aprile-maggio 2017 Riccardo Becchi ha trascritto con diligenza il testo dalla registrazione

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“Arde il nostro cuore mentre spieghi le Scritture”

Scrittura e Tradizione

conversazioni

di don Claudio Doglio

Questo Corso Biblico è stato tenuto a Genova-Sestri Ponente nei mesi di aprile-maggio 2017

Riccardo Becchi ha trascritto con diligenza il testo dalla registrazione

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 2

Sommario

1 – Paolo, Agostino, Lutero .................................................................................. 3 La Scrittura e l’interpretazione ........................................................................................ 3 L’apostolo Paolo .............................................................................................................. 4 Il vescovo Agostino ......................................................................................................... 4 Dalla liturgia alla scuola .................................................................................................. 5 Il professore Martin Lutero .............................................................................................. 6 L’impegno di studio della Parola di Dio .......................................................................... 7 La giustificazione per fede ............................................................................................... 7 Il commento di Lutero alla Lettera ai Romani ................................................................. 8 L’incontro dei fratelli è possibile ..................................................................................... 10

2 – Lutero commenta la Lettera ai Romani ....................................................... 10 La situazione storico-culturale del giovane Martin Luder ............................................... 11 Le novità nello studio biblico .......................................................................................... 12 Chi si riconosce peccatore confessa che Dio è giusto ...................................................... 13 Non per Dio, ma per noi! ................................................................................................. 14 La nostra natura è ricurva ................................................................................................ 15 Il peccato è una malattia molto grave .............................................................................. 17 Insieme peccatore e giusto ............................................................................................... 18 La Chiesa è l’infermeria per gli ammalati ....................................................................... 18

3 – La questione delle indulgenze ........................................................................ 19 L’importanza della penitenza ........................................................................................... 19 Una seconda tavola di salvezza dopo il Battesimo .......................................................... 20 Le norme possono produrre strani effetti ......................................................................... 21 Il cambiamento medievale della Penitenza ...................................................................... 21 Le pratica delle indulgenze .............................................................................................. 22 Le “strategie” economiche della Chiesa .......................................................................... 23 La reazione di Lutero: la realtà dei fatti e la leggenda ..................................................... 24 Due “peccati originali” .................................................................................................... 25 Dallo scontro alla condanna ............................................................................................. 26 Il Vangelo è il tesoro della Chiesa ................................................................................... 27

4 – Dal conflitto alla comunione .......................................................................... 28 Sulla via della riconciliazione .......................................................................................... 29 “Ecclesia semper reformanda” ......................................................................................... 30 L’irrigidimento delle posizioni ........................................................................................ 31 Il doloroso strappo ........................................................................................................... 32 Prigioniero della parola di Dio ......................................................................................... 32 Nuovi atteggiamenti di Lutero ......................................................................................... 33 Verso una riconciliazione ecclesiale ................................................................................ 34 “Sola Scriptura” ............................................................................................................... 35 Unità in una diversità riconciliata .................................................................................... 37

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 3

Il nostro argomento consueto è la Parola di Dio, ma questa volta vogliamo approfondire

in altro modo la Scrittura che è alla base della nostra vita cristiana. Vogliamo riflettere

sulla Scrittura legata alla Tradizione, cioè la lettura della Bibbia nella Chiesa da parte delle

persone che compongono il corpo di Cristo che è la Chiesa: ascoltano la Parola di Dio per

essere illuminati, nutriti, formati, educati a vivere.

Questo lavoro di studio biblico si colloca quest’anno a cinquecento anni dall’inizio della

Riforma protestante e quindi è un’occasione particolarmente propizia per riallacciare il

discorso e la conoscenza con i nostri fratelli evangelici riscoprendo le origini del loro

movimento religioso e valorizzando gli apporti positivi che ne sono venuti.

Nello stesso tempo siamo a un mese dalla visita di papa Francesco a Genova e quindi

l’attesa della visita del successore di Pietro ripropone questa tematica del ruolo del

magistero, della autorità ecclesiastica nella nostra vita cristiana, riproponendo un problema

che cinquecento anni fa era stato molto spinoso e pericoloso.

1 – Paolo, Agostino, Lutero

Vorrei quindi rivedere con voi alcuni aspetti dell’insegnamento di Martin Lutero senza

intenzione polemica né con atteggiamento apologetico, né di accusa né di difesa. Non

affrontiamo cioè la questione con tono dimostrativo di chi ha regione, cercando di mostrare

che lui sbagliava e che noi invece abbiamo ragione. Questo atteggiamento rovina il

dialogo, fa partire con un piede sbagliato. Per molto tempo, direi per secoli, è stato seguito

questo metodo da entrambe le parti, ma la polemica contro gli altri che sbagliano produce

solo divisioni, malessere, antagonismo.

Vogliamo invece riscoprire la bellezza del dialogo e la chiarezza delle idee, stiamo

perciò ai testi e cerchiamo di cogliere gli aspetti positivi che ci sono nelle varie realtà della

storia della Chiesa; in particolare in questo momento vogliamo chiarire la posizione di

Martin Lutero sulla Scrittura.

L’argomento è enorme e quindi non è possibile riassumerlo in pochi incontri, d’altra

parte la trattazione precisa, dettagliata, profonda, sarebbe decisamente esagerata per i nostri

interessi e per le nostre capacità. Nello stesso tempo però non voglio essere banale e

superficiale perché in queste cose il pericolo serio è la banalità. Ci sono anche programmi

televisivi che vengono presentati come culturali, ma che in realtà sono la fiera dei luoghi

comuni, una raccolta di banalità superficiali con punte polemiche abbastanza acide,

situazioni che non sono culturali e non aiutano a crescere, a maturare, a conoscere

serenamente la realtà.

La Scrittura e l’interpretazione

Partiamo dall’idea della Scrittura. Il mondo cristiano ha ereditato dalla tradizione ebraica

una raccolta di testi che chiamiamo la Bibbia. Questa antologia di opere letterarie – che si

dividono in Antico e Nuovo Testamento – abbracciano un millennio di storia; l’Antico

Testamento è così ampio, mentre il Nuovo Testamento è stato composto nell’arco di

cinquant’anni. Questi libri prodotti lungo secoli per l’Antico Testamento – e nell’arco di

una generazione per il Nuovo Testamento – sono diventati il punto di riferimento per tutti i

credenti.

La Scrittura è l’attestazione della rivelazione divina: Dio si è fatto conoscere, gli uomini

lo hanno conosciuto, lentamente hanno messo per iscritto queste esperienze e sono nati i

libri biblici molto diversi fra di loro. Il Nuovo Testamento ha un valore decisamente più

grande per noi perché è la pienezza della rivelazione: in Cristo si compie il progetto di Dio,

Gesù rivela pienamente Dio e porta a compimento il progetto di salvezza.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 4

Quindi nel Nuovo Testamento noi troviamo ciò che è fondamentale: non solo i vangeli,

ma anche le lettere di Paolo e degli altri apostoli sono documenti basilari. Se i vangeli

raccontano l’esperienza storica di Gesù narrando alcuni fatti e alcuni detti della sua

esperienza storica, sono le lettere degli apostoli che ne danno l’interpretazione e quindi gli

scritti apostolici hanno un grande rilievo per la nostra fede offrendo la chiave di lettura dei

vangeli.

Vi faccio un esempio semplice e importante. Che la morte di Gesù sia la causa della

nostra salvezza, nei vangeli non è scritto; viene raccontata la passione e la morte di Gesù,

gli incontri con il Risorto, ma che senso abbia quella morte nei vangeli non c’è scritto. Gli

apostoli lo dicevano a voce, lo predicavano, commentando il racconto della passione

spiegavano che quella morte è l’origine della salvezza: Cristo è morto per i nostri peccati, a

favore dei nostri peccati, non per farci peccare di più, ma per togliere i peccati, cioè per

metterci nella buona relazione con Dio. Quindi il senso della morte e della risurrezione di

Gesù noi lo troviamo spiegato nelle lettere degli apostoli. La teologia della Chiesa si basa

sulla teologia degli apostoli, sono loro che hanno vissuto quell’esperienza, l’hanno

interpretata e l’hanno proposta ai loro primi destinatari.

I testi messi per iscritto sono il documento fondativo della nostra fede cristiana che ha le

radici nella tradizione ebraica dell’Antico Testamento, ma la pienezza del frutto nella

interpretazione apostolica è nell’evento di Gesù. Quindi decisivo è l’evento di Gesù, quello

che lui ha fatto, ma il senso, il significato, il valore dell’opera di Gesù è spiegata dagli

apostoli. Morti gli apostoli, è rimasto il documento. Il documento biblico è il punto di

riferimento; i successori degli apostoli, di generazione in generazione, non hanno aggiunto,

ma hanno conservato quel patrimonio e lo hanno commentato. Non si sono aggiunti

ulteriori libri alla Bibbia, si è chiuso il canone, la misura dei libri è considerata finita. I

maestri nella Chiesa approfondiscono l’insegnamento, lo adattano alle nuove generazioni,

lo commentano, lo studiano, lo attualizzano, ma non vi aggiungono nulla.

In questa linea noi possiamo fissare tre nomi importanti: Paolo, Agostino, Martin Lutero

per avere un filo storico e logico. Potremmo fare tantissimi altri nomi, ma avendo preso

questo taglio cerchiamo di seguire questi.

L’apostolo Paolo

L’apostolo Paolo è il migliore interprete teologico dell’evento di Gesù e nelle sue opere

egli ha lasciato una interpretazione ottima di quello che è stata l’opera di Gesù: la sua

morte e la sua risurrezione.

I documenti scritti da Paolo sono Parola di Dio, non parola di Paolo. Paolo ha scritto nel

pieno possesso delle sue facoltà mentali, ma quello che egli ha messo per iscritto è

riconosciuto come ispirato, voluto dallo Spirito di Dio e guidato dal progetto rivelatore

divino. La spiegazione di Paolo è quella ufficiale, è quella buona, è la spiegazione divina, è

il senso giusto da dare all’evento di Cristo. Lo hanno riconosciuto tutte le Chiese. Tutte le

comunità, nate in quei primi anni, accolsero gli scritti paolini e nei secoli seguenti tutta la

Chiesa interpretò la figura e l’opera di Gesù in base alla spiegazione che ne aveva data

Paolo.

Il vescovo Agostino

Nel IV-V secolo emerge nella storia della Chiesa la figura del vescovo Agostino,

professore di retorica, nato in una famiglia per metà cristiana, ma divenuto cristiano solo

da adulto perché da giovane non era stato battezzato e si era allontanato dall’insegnamento

della madre Monica. Agostino riscoprì a Milano, dove aveva la cattedra di retorica, la fede

cristiana e la riscoprì ascoltando le prediche del vescovo Ambrogio.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 5

Da giovane aveva letto un po’ la Bibbia, l’aveva trovata brutta – lo dice lui stesso –

l’aveva letta in una brutta traduzione latina, una lingua poco elegante che lo aveva

allontanato; i racconti gli sembravano ingenui se non sciocchi e quindi aveva disprezzato la

Bibbia come letteratura minore, adatta solo per persone ignoranti. Sentendo invece

spiegare il testi biblici dal vescovo Ambrogio, Agostino ci ripensò, si accorse che non

erano così banali, che non erano così semplici, né così brutti: si innamorò della Scrittura e

proprio leggendo un versetto della Lettera ai Romani, dice lui stesso, iniziò il suo grande

cambiamento.

Un giorno, in piena crisi esistenziale, sentì un ragazzino che oltre il muro del giardino

cantava un ritornello “tolle et lege, tolle et lege” – “predi e leggi”. Ascoltò quella frase

cantata da un bambino senza particolare intenzione come un invito per lui stesso. Aprì il

libro biblico che aveva sul tavolo, gli capitò un versetto della Lettera ai Romani e da quella

parola in cui l’apostolo invitava a eliminare tutto ciò che è male e a rivestirsi di Cristo,

Agostino cambiò vita: si iscrisse come catecumeno, fece il percorso per la iniziazione

cristiana, venne battezzato in una notte di Pasqua e ritornò in Africa lasciando il lavoro e la

carriera, abbandonando tutta quella mentalità umana per dedicarsi a studiare la Bibbia.

In Africa visse dapprima in un monastero con l’intenzione di dedicarsi solo allo studio e

alla preghiera, ma venne chiamato a essere prete, poi venne chiamato a diventare vescovo e

passò il resto della sua vita a studiare e a insegnare. La grandezza del vescovo Agostino sta

proprio nella sua grande dedizione all’insegnamento, all’insegnamento popolare:

commentò per la sua gente salmo per salmo, versetto per versetto, tutti i 150 salmi,

commentò i Vangeli, commentò le Lettere degli apostoli perché aveva capito che la Parola

di Dio è il fondamento.

Sono passati quattrocento anni dal momento storico di Gesù, Agostino infatti vive

quattrocento anni dopo l’apostolo Paolo. Non aggiunge un altro libro biblico, ma

commenta il libro biblico, commenta alla gente il testo biblico e questo era un fatto

comune. Nell’antichità cristiana il compito dei vescovi era soprattutto quello di insegnanti,

catechisti del popolo; qualcuno lo faceva in modo egregio, qualcun altro come poteva.

Agostino è diventato famoso proprio per i testi che ha scritto, centinaia di suoi colleghi non

hanno lasciato nemmeno il nome come memoria, perché evidentemente le cose che hanno

detto non venivano scritte e non erano così pregevoli. Noi quindi lo consideriamo un uomo

particolarmente dotato, con una grande abilità, ma vogliamo considerarne l’azione

pastorale.

Agostino ci insegna che la Parola di Dio è il fondamento della vita cristiana ed è un

esempio di come la Bibbia si legga nella Chiesa. In quanto responsabile di una comunità

religiosa, con un popolo fatto anche di tanti analfabeti, egli si sentiva in dovere di spiegare

le Scritture, di farle leggere e di commentarle perché i suoi ascoltatori conoscessero la

Parola di Dio: il suo lavoro è di interpretazione del testo biblico. Quindi Agostino, ad

esempio, interpreta san Paolo: lo legge, lo commenta, cerca di applicarlo e spiega alla sua

gente come deve essere applicato questo testo.

Dalla liturgia alla scuola

Per molti secoli la Bibbia venne letta e spiegata in chiesa durante la liturgia; gli incontri

del popolo erano i momenti della formazione e la formazione consisteva nello studio della

Parola di Dio.

Con il Medio Evo, lentamente, la Bibbia divenne patrimonio non più del popolo, ma

prima dei monasteri e poi delle scuole: si ridusse nell’ambito chiuso dei monaci che

studiavano, ma meditavano per sé e non predicavano; poi nell’ambito delle scuole

universitarie venne studiata dai professori e spiegata agli studenti. Lentamente si è creato

un allontanamento fra la Bibbia e il popolo; mentre nei primi secoli la Bibbia era proposta

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 6

al popolo, lentamente è diventata patrimonio prima dei monaci e poi degli studiosi

scolastici, cioè il mondo della scuola.

Con il Medio Evo nascono anche le Università e le Università, sorte proprio in seno alla

Chiesa, avevano come uno degli argomenti più importanti la Bibbia. Non era però il

popolo che imparava le Scritture, erano gli studenti o, meglio, gli studiosi, quelli cioè che

avevano voglia di approfondire e di raggiungere una conoscenza di alto livello. La Bibbia,

quindi, finì in mano ai filosofi e la teologia divenne strettamente legata alla filosofia

scolastica, chiusa in un ambito di studio e letta con un criterio cerebrale, un po’ astratto,

dove bisognava schematizzare tutto, precisare, distinguere, catalogare.

Lo schema della teologia scolastica è meravigliosamente preciso, dettagliato, capace di

offrire spiegazioni per tutto: con criteri filosofici avevano inquadrato tutta la teologia

cristiana. La Bibbia alla fine diventava semplicemente il repertorio delle frasi per

dimostrare alcune idee; si è perso però il contatto diretto. I monaci nelle loro strutture

chiuse leggevano e meditavano, i professori analizzavano e fissavano i principi, la Parola

di Dio al popolo non veniva più comunicata.

Il professore Martin Lutero

Arriviamo così al terzo personaggio della nostra carrellata, Martin Lutero, e cerchiamo

di inquadrarlo storicamente in modo breve ed essenziale.

Martin Lutero nacque nel 1483 in un paese di Sassonia da una famiglia di contadini, una

famiglia naturalmente cattolica – erano tutti cattolici! – una famiglia abituata alla pratica

religiosa cattolica, ma pochissimo formata, piena più di superstizioni che di insegnamenti

evangelici. Il ragazzo, intelligente, frequentò la scuola di latino di alcuni religiosi e il padre

lo avviò all’Università a Erfurt; nel 1501 cominciò a frequentare quell’Università. Studiò

quindi in quell’ambiente scolastico, con professori di teologia e di filosofia, che gli

insegnarono la dottrina cristiana partendo dai principi della filosofia aristotelica.

Il giovane decide di farsi religioso e di entrare nell’Ordine agostiniano, nel 1505 prende i

voti e diventa frate agostiniano. Ecco perché ho accennato ad Agostino: perché il giovane

frate Martino diventa discepolo spirituale di sant’Agostino e in quell’ambiente studia le

opere di Agostino. Nel 1507, due anni dopo, viene ordinato prete, aveva 24 anni; in regola

secondo le abitudini del tempo, ha fatto un cammino di giovane intelligente e religioso che

ha scelto una vita di consacrazione e di studio. Come prete cominciò a predicare e continuò

a studiare.

Il suo superiore religioso agostiniano, Johann von Staupitz, lo apprezzò e lo raccomandò

a Federico III di Sassonia. La Germania di quei tempi era divisa in una quantità immensa

di staterelli e il principe di uno di questi stati, aveva organizzato una nuova Università a

Wittenberg, città non molto grande, ma nobilitata dal nuovo centro di studio. Il superiore

agostiniano gli raccomandò il giovane frate come uno dei possibili professori e frate

Martino venne mandato in questa Università e lì cominciò il suo insegnamento. Ma prima

dovette laurearsi in teologia e arrivò al titolo di Magister solo nel 1512: dall’anno seguente

cominciò a tenere le lezioni.

Nel 1510 era andato a Roma, mandato come delegato degli agostiniani in visita ufficiale.

Si raccontano tante sciocchezze su questo viaggio, mentre lui stesso disse di essere rimasto

molto ben impressionato da Roma. Quando, arrivando dalla via Flaminia, entrò in piazza

del Popolo, si inginocchiò per ringraziare il Signore della meraviglia che aveva fatto in

Roma. Pensate che in quegli anni Michelangelo stava dipingendo la volta della Cappella

Sistina, regnava felicemente papa Giulio II ed era un momento di grande splendore

umanistico. Che ci fosse corruzione, delinquenza e situazione negativa è vero, come c’è

anche oggi, ma non era una visione così negativa. L’esperienza di un superiore religioso

che arriva nella capitale religiosa e va in pellegrinaggio alla tomba degli apostoli fu per

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Martin Lutero una bella esperienza di fede; non ne tornò a casa scandalizzato e turbato.

Queste sono tutte leggende nate dopo, forse ricreate appositamente.

L’impegno di studio della Parola di Dio

Quando cominciò a insegnare, nel 1513, era professore di sacra Scrittura e tenne per due

anni di seguito corsi sui Salmi commentando uno per uno i Salmi; discepolo di

sant’Agostino, aveva letto le Enarrationes in psalmos di sant’Agostino e a sua volta

interpretò i salmi per i suoi studenti. Teniamo però conto che Martin Lutero mette insieme

questi due aspetti: è religioso e vive la vita del convento con le celebrazioni, le

meditazioni, la preghiera e la vita scolastica universitaria della docenza, incontra i giovani

a cui vuole dare una formazione biblica: è il suo compito.

Un elemento importante che segna la giovinezza di Martin Lutero è proprio il desiderio

di ritornare alla Bibbia, alla Parola di Dio senza il filtro della filosofia scolastica. Egli parte

dall’idea agostiniana di riprendere i Salmi e di leggerli per quello che sono, per ascoltare la

Parola di Dio e lasciarsi formare da quella parola. È un uomo di fede, un religioso in

ricerca, che legge i salmi, vuole capirli, li spiega agli altri per aiutarli e nello stesso tempo

li impara lui stesso. San Francesco di Sales diceva che per imparare ci sono tre metodi: il

primo è ascoltare, il secondo è leggere e il terzo, molto più efficace, è insegnare. Per

imparare bene bisogna insegnare, solo chi insegna impara veramente la lezione, cioè finché

non lo trasmetti a un altro non sei padrone del messaggio, c’è bisogno di questo lavoro di

ascolto, di studio e di trasmissione.

Martin Lutero quindi è partito con questa buona intenzione: un giovane, abile professore

di Scrittura in una recente struttura universitaria, in una zona abbastanza marginale della

Germania. Wittenberg non è una grande capitale, non è luogo importante e significativo

per la storia; gli studenti sono figli di contadini, di operai, di piccoli imprenditori che

vogliono fare carriera universitaria, studiare ed elevare la propria conoscenza e lui si

dedica alla spiegazione di questi testi. Quindi per due anni scolastici, 1513-14 e 1514-15,

spiegò i Salmi, poi passò al Nuovo Testamento; nel 1515-16 interpretò la Lettera ai

Romani, nel 1516-17 la Lettera ai Galati, nel 1517-18 la Lettera agli Ebrei. Sono gli anni

decisivi: nel 1517 si colloca quell’episodio leggendario della affissione della 95 tesi alla

porta della chiesa del castello di Wittenberg che viene considerato come il momento

iniziale della Riforma, ne riparleremo.

Noi ci fermiamo ancora qualche anno prima; negli anni 1515-16 Lutero commenta la

Lettera ai Romani, è un professore cattolico, un agostiniano, un frate che insegna in una

Università cattolica la sacra Scrittura, spiega la Lettera di san Paolo apostolo ai Romani e

scrive il testo in un volume notevole; contiene sono le sue dettagliate lezioni sul testo della

Lettera ai Romani, commentata parola per parola, ed è uno studio fondamentale che ha

dato inizio a quell’approfondimento biblico che gli ha cambiato la vita. Lo studio dei Salmi

lo aveva guidato in una mistica della relazione con Dio; la Lettera ai Romani, studiata

molto bene, gli accende una idea fondamentale che è la giustificazione per fede.

La giustificazione per fede

Non è però un’idea di Lutero, non è una idea protestante, è un insegnamento di san

Paolo, è una chiave di lettura dell’evento di Cristo:

“Cristo è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25).

È una espressione della Lettera ai Romani, è un testo di Paolo, è la Scrittura che sta a

fondamento. Agostino la commenta, Martin Lutero la commenta e noi adesso la

commentiamo, ma il punto di riferimento è sempre quella Scrittura.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 8

Quello che è interessante – e merita particolare attenzione da parte nostra – è il fatto che

questo giovane religioso, leggendo questo testo biblico, lo ha sentito in modo appassionato

come una parola che lo riguardava, che gli toccava la vita. Lui stesso ne parlerà come della

esperienza della torre, cioè un momento di particolare grazia in cui si è sentito illuminato

da questa parola che stava insegnando. Non faceva quindi come routine un insegnamento

di qualche cosa che non gli interessava, ma ci stava mettendo il cuore e l’anima, studiava

per capire lui e, a mano a mano che studiava, spiegava agli studenti; quelle cose che

studiava lo toccavano, lo interessavano, lo mettevano in crisi.

Studiando e insegnando la Lettera ai Romani Lutero scopre la serietà del peccato; si

rende conto della gravità del peccato e dell’opera straordinaria compiuta da Gesù Cristo

come liberatore dal peccato. L’idea della redenzione o, come dice insistentemente Paolo, la

giustificazione, è l’evento fondamentale. Cristo con la sua morte e risurrezione ci ha

giustificati, ci ha resi giusti, ci ha comunicato la giustizia di Dio, ci ha messi nella buona

relazione con Dio. Quest’opera è valida per noi adesso ed è l’elemento importante da

valorizzare.

Quello che ha mosso l’interesse, e poi anche l’atteggiamento propulsore verso l’esterno

di Martin Lutero, è stato lo scoprire come nell’ambiente cristiano ci fosse poco interesse

per questa realtà di fondo, per l’opera fondamentale compiuta da Cristo: per la liberazione

dal peccato c’era poco interesse, si dava per scontato di essere a posto. È però la situazione

di sempre, una comunità cristiana che ha le proprie abitudini, ha imparato certe pratiche,

certi ritmi, si considera giusta e a posto perché fa le cose che bisogna fare e non c’è la

tensione verso la santità, verso la pienezza della vita evangelica, ci si accontenta di un

atteggiamento rituale.

Quello che mosse le fibra più profonde di quest’uomo fu proprio il desiderio di superare

quella condizione di peccato e di riconoscere la potenza di Cristo che cura dalla corruzione

del peccato.

Avevo intenzione di leggervi parecchie pagine, ma il tempo è passato e allora vi leggo

solo l’inizio del commento alla Lettera ai Romani di Lutero; poi i pezzi forti li vedremo nei

prossimi incontri per avere un’idea del suo modo di procedere.

Il commento di Lutero alla Lettera ai Romani

Ecco il contenuto essenziale di questa lettera: da un lato essa distrugge, sradica e

annienta ogni sapienza e giustizia della carne, dall’altro stabilisce, istituisce ed esalta il

peccato.

La Lettera ai Romani distrugge e costruisce: distrugge l’autosufficienza umana, la

sapienza e la giustizia della carne, cioè la pretesa di sapere, la pretesa di poter fare quello

che è giusto. San Paolo distrugge questa pretesa umana e costruisce la consapevolezza del

peccato.

Perciò il beato Agostino, nel capitolo VII del suo scritto “Lo spirito e la lettera”, dice:

“L’apostolo Paolo lotta molto contro i superbi, gli arroganti e coloro che ripongono

eccessiva fiducia nelle loro opere”.

Vedete che il filo che avevo tracciato si ricostruisce subito? Martin Lutero commenta

san Paolo avendo letto il commento di sant’Agostino. C’è un filo storico: il fondamento è

la Parola di Dio; i padri della Chiesa lo hanno interpretato così come altri uomini nel corso

della storia, noi ritorniamo continuamente a quel testo fondamentale.

Nella Lettera ai Romani viene poi trattato quasi esclusivamente questo tema in

maniera così combattiva, e da così tanti punti di vista, da stancare bensì l’attenzione

del lettore sottoponendolo però a una fatica utile e salutare.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 9

Insistendo sempre su questo aspetto fondamentale san Paolo toglie all’uomo la pretesa di

salvarsi da solo. Lutero introduce questo testo con un’infinità di riferimenti biblici;

riprende Geremia costituito per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere. Dice

Lutero:

Bisogna demolire tutto ciò che si trova in noi, tutto ciò che ci piace in quanto proviene

da noi e si trova in noi per edificare e piantare tutto ciò che è fuori di noi e si trova in

Cristo.

Bisogna demolire il nostro modo di pensare per poter costruire quello di Cristo.

Si veda anche in Daniele l’immagine della pietra che distrugge la statua. Quella pietra

rompe la statua e poi la pietra diventa una montagna. È una figura cristologica quella

pietra che demolisce l’idolatria, la grande statua, è l’io dell’uomo, è l’autosufficienza

umana che viene demolita e quando crolla quella statua dell’autosufficienza il Cristo

che è la pietra, può diventare una montagna, riempie la vita. Dio infatti non ci vuole

salvare mediante la nostra propria giustizia e sapienza, ma per mezzo di una giustizia e

di una sapienza che provengono dall’esterno. Non mediante una giustizia che derivi e

nasca da noi, ma per mezzo di quella che viene a noi provenendo da un altro luogo.

Non mediante quella che germina dalla nostra terra, ma mediante la giustizia che viene

dal cielo.

Sono frasi che Lutero ha preso dai salmi e le ha prese sul serio: “La giustizia si affaccerà

dal cielo”. Allora la giustizia non è la mia, viene da fuori di me; io non mi salvo con la mia

giustizia, ma grazie alla giustizia che si affaccia dal cielo.

Perciò bisogna essere istruiti in una giustizia che proviene totalmente dal di fuori e ci è

estranea. A questo scopo, in primo luogo, bisogna sia estirpata la nostra propria

giustizia. Questo appunto si dice nel Salmo 44 “Dimentica il tuo popolo e la casa di

tuo padre”.

Con tale applicazione allegorica usa il metodo tradizionale, per interpretare il canto di

una principessa che si sposava con il re di Israele. Il versetto che dice: “Dimentica il tuo

popolo e la casa di tuo padre” viene spiegato in senso morale: se vuoi essere salvato

dimentica ciò che è tuo.

Così anche ad Abramo fu chiesto di uscire dalla sua terra. Similmente si dice nel

Cantico dei Cantici: “Vieni dal Libano, o sposa, tu sarai incoronata”.

La Sposa viene dal Libano, cioè dall’esterno, non da Israele.

Anche ogni esodo del popolo di Israele nei tempi antichi significò questo lasciarsi

dietro che ora viene interpretato come passaggio dai vizi alle virtù. Devi dimenticare

te stesso per ritrovare la giustizia di Dio. Ammesso anche che uno, per doti naturali o

spirituali che siano, goda presso gli uomini reputazione di uomo sapiente, giusto e

buono, non è detto che sia stimato allo stesso modo davanti a Dio, specialmente se egli

si ritiene tale. Pertanto in tutti questi casi è necessario che uno si mantenga umile.

Humilitas è un principio fondamentale agostiniano; nella regola di Agostino l’umiltà è

principio di fondo e Lutero lo mette come punto di partenza. Per lui umiltà vuol dire

riconoscere la propria indegnità.

È necessario che si mantenga umile come se non possedesse ancora nulla e attenda che

Dio, per pura misericordia, lo stimi giusto e sapiente.

Ed è proprio questo atteggiamento che determina la salvezza. Il Signore abbatte i

potenti, umilia i superbi, ma innalza gli umili. L’atteggiamento di partenza con cui Lutero

si muove a commentare la Lettera ai Romani è questa umiltà della persona umana che

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 10

riconosce il proprio peccato, ovvero la propria incapacità di giustizia e di sapienza per

fidarsi di Dio.

In questi anni e in queste opere Lutero sta sviluppando i principi fondamentali di quella

che sarà la tradizione luterana e quando verranno gli strappi, le polemiche, le contestazioni,

saranno proprio dovuti a una incomprensione su questi atteggiamenti di fondo.

L’incontro dei fratelli è possibile

Questo atteggiamento è corretto, è un punto di partenza buono, è insegnamento in un

ambiente cristiano che porta a piena conseguenza quella riflessione di Paolo sul senso

dell’opera di Gesù: chi salva è Cristo. La giustizia è la sua, è risorto perché noi

diventassimo giusti, a noi viene data la giustizia di Cristo. Questo è l’insegnamento della

Chiesa che si inserisce appunto come tradizione nella interpretazione della Scrittura che è

la rivelazione per la nostra salvezza.

Per questo primo momento ci fermiamo. La prossima volta riprenderemo questo tema

per approfondire alcune idee fondamentali della teologia luterana che, se non esasperate e

non contrapposte in modo un po’ troppo schematico, sono buone, valide e difatti la

possibilità di incontro oggi, di dialogo ecumenico, di condivisione del cammino, è

possibile perché la base è comune e la base è buona.

Due fratelli hanno lo stesso patrimonio, però se litigano è finita. Due fratelli sono molto

simili e molto diversi, se litigano sono una rovina. Se si accentuano i motivi di lite ne

avranno sempre di più per litigare ed è un danno. Se invece due fratelli nella loro

differenza valorizzano la base comune e il patrimonio che li rende simili, possono vivere in

pace e molto meglio, valorizzando l’uno i pregi dell’altro.

Se c’è un pregio che noi dobbiamo valorizzare in questo movimento luterano è proprio

l’impegno di avere riportato la Scrittura al popolo, di avere dedicato tempo, voglia,

passione, metodi – ad esempio la stampa appena inventata – per diffondere la Parola di

Dio, perché tutto il popolo conoscesse l’insegnamento fondamentale per la nostra salvezza.

2 – Lutero commenta la Lettera ai Romani

La Scrittura e la Tradizione sono un unico grande deposito per la nostra salvezza.

La Scrittura è l’attestazione della rivelazione: Dio si è fatto conoscere, ha parlato agli

uomini, ha rivelato se stesso e questa rivelazione è diventata un testo che possono leggere

tutti in tutti i tempi. Ma questa Scrittura, documento solido e fondante, viene trasmesso da

delle persone vive: non è una cosa, è una esperienza personale di fede documentata e

attestata in modo sicuro perché possa rimanere inalterata. Non è però un oggetto statico

come potrebbe essere una statua: è una realtà viva, trasmessa da persone vive che in tutte le

epoche si confrontano con questa realtà.

La Scrittura quindi non vive senza la vivente Tradizione della Chiesa, non ha senso in sé

se non c’è qualcuno che la legge, qualcuno che la ascolta, se non ci sono delle persone che

la vivono; per viverla bisogna conoscerla, per capirla bene bisogna interpretarla. La

Tradizione è proprio l’impegno che gli uomini e le donne di Chiesa, lungo tutti i secoli,

hanno messo per interpretare la rivelazione attestata nella sacra Scrittura.

Noi vogliamo esemplificare questo grande discorso teologico con l’insegnamento di un

personaggio importante nella storia della Chiesa – Martin Lutero – colui che ha dato

origine al movimento di Riforma della Chiesa nel 1500, abitualmente chiamato

protestantesimo; dal loro punto di vista però viene definita riforma evangelica, cioè

l’impegno di ritornare alle fonti evangeliche, alla base della Scrittura.

Tutto iniziò, per lo meno convenzionalmente, il 31 ottobre del 1517: quindi siamo nel

centenario, sono esattamente cinquecento anni fa.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 11

In questa occasione vogliamo conoscere un po’ meglio la persona di Lutero e il suo

contributo, perché non possiamo semplicemente chiudere il discorso come se fosse un

problema per noi cattolici. La realtà messa in moto da questo frate agostiniano tedesco è

stata una risorsa per la Chiesa, ha determinato tante problematiche, ha suscitato delle

difficoltà, delle contese, ma ha avuto anche aspetti positivi e noi vogliamo impegnarci a

riconoscere questi elementi positivi come contributo dato alla tradizione ecclesiale di

interpretazione della Scrittura.

Nell’incontro precedente avevo tracciato una linea ideale da san Paolo a Lutero,

passando attraverso sant’Agostino, per mostrare come, nel corso della vicenda storica,

persone diverse hanno contribuito all’interpretazione della rivelazione divina. Ci

soffermiamo questa sera in modo particolare su qualche pagina del grande commento che

frate Martino fece alla Lettera ai Romani nel corso dell’anno accademico 1515-1516,

prima del momento fatidico in cui cominciò la polemica con l’affissione delle 95 tesi. In

questo anno accademico, il professor Lutero, monaco agostiniano, insegnava nella giovane

Università di Wittenberg.

La situazione storico-culturale del giovane Martin Luder

Inquadriamo brevemente la situazione storica e culturale del tempo. La Germania in

quell’epoca era frammentata in una infinità di piccoli stati. Wittenberg era stata scelta

come nuova residenza dal principe elettore di Sassonia, Federico III Wettin, detto “il

Saggio”. La Sassonia geografica era molto più grande del suo territorio politico,

comprendeva infatti il Ducato di Sassonia, l’Elettorato di Sassonia e in più molti altri

piccoli stati. Molti di questi stati dipendevano dai vescovi, perché molti vescovi erano

principi della loro diocesi con problematiche molto complesse, con gravi conflitti fra

interessi economici, politici, amministrativi e religiosi.

Il principe elettore di Sassonia, Federico III, aveva scelto di porre la propria residenza in

questa cittadina di Wittenberg. Era un città piccola di duemila abitanti, una sola parrocchia

al centro dedicata a Santa Maria, una cittadina sul grande fiume Elba, quindi uno snodo

commerciale che poteva diventare importante.

Questo principe volle lanciare la città e la progettò secondo nuovi criteri. Siamo in pieno

umanesimo, all’inizio del 1500: fondò la residenza, cioè il castello dove sarebbe andato ad

abitare come principe elettore e vi fondò l’Università. La popolazione aumentò perché,

diventando la sede del principe, molti confluivano in essa: essendo una città in costruzione

c’era molto lavoro. Dalle campagne molti lavoratori si avvicinarono quindi alla città e

diedero la loro manodopera per la costruzione. Inoltre l’edificazione di una università

nuova di zecca serviva per attirare pensatori e studenti.

Fu proprio in questa giovane università, dove insegnavano giovani professori, che iniziò

la storia della Riforma protestante. Il superiore agostiniano Staupitz indirizzò a questa

nuova università il giovane professore Martin Lutero che si era appena laureato nel 1512 e

dall’anno seguente cominciò a tenere lezioni nell’università. L’università era attigua al

convento degli agostiniani, era una realtà piccola, aveva 400 studenti con quattro facoltà:

Teologia, che coinvolgeva anche la filosofia, Giurisprudenza, cioè il diritto, Medicina e

Arti, quelle che noi oggi chiameremmo scienze umanistiche. Quattro facoltà molto distinte

fra di loro con 400 studenti; vuol dire che molti giovani dalla regione si erano trasferiti in

città per accrescere il loro sapere e avere una posizione migliore nella società.

Di questi 400 studenti, quelli della Facoltà di Teologia saranno stati una cinquantina. I

professori, cioè le cattedre, erano 44, quindi non moltissime; i professori si conoscevano

tra loro e avevano una vita intellettuale notevole e condivisa. Quindi questo professore –

monaco agostiniano, in una università cattolica, in una regione cattolica – insegnava

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 12

teologia cattolica a dei giovani studenti tutti cattolici. Sembra ridicolo sottolinearlo, ma è la

realtà perché non c’era altro.

In questo ambiente si venne a creare un clima di ricerca e di innovazione. Federico il

Saggio era un uomo intraprendente, colto, moderno, potremmo dire, un umanista che aveva

investito tutto nella prestigiosa università che stava costruendo. Però, pensate, era anche un

collezionista di reliquie, un appassionato ricercatore di reliquie, voleva avere dei pezzetti

sacri di tutti i santi e nel suo castello c’erano sale intere dedicate a tali raccolte di reliquie.

Era un atteggiamento di tipo superstizioso, perché probabilmente pensava che tutte queste

reliquie di santi lo avrebbero aiutato, gli avrebbero garantito la salvezza. Da parte di questo

personaggio c’è un comportamento strano e ambiguo: è un colto dell’epoca moderna, ma è

ancora legato a una mentalità medioevale, arcaica, più superstiziosa che religiosa.

Le novità nello studio biblico

L’Università di Wittenberg invece cominciò a produrre dei risultati molto interessanti

perché i professori – tutti molto giovani, sui 30/40 anni – avevano idee nuove, stavano

costruendo nuovi progetti e Martin Lutero fu proprio uno dei più impegnati in questo

lavoro di ristrutturazione dell’Università: una delle prime cose che vollero fare era quella

di avere una cattedra di greco e una cattedra di ebraico.

Lutero, che era il titolare della cattedra di Sacra Scrittura, sosteneva che per poter

leggere le Scritture bisogna che gli studenti sappiano il greco, bisogna che studino anche

l’ebraico; non le sapeva quasi nessuno a quei tempi, erano rarissimi i conoscitori di queste

lingue antiche. Lui stesso invece si impegnò a studiarle e questi giovani docenti ottennero

dal principe elettore il finanziamento per altre due cattedre. Arrivarono così due nuovi

professori, dopo essere stati ricercati in tutta la Germania. Prese la cattedra di greco il

giovane Philipp Schwarzerdt, detto alla greca “Melantone” (1497-1560), che era un

professore di greco conoscitore perfetto della lingua classica a soli vent’anni. Fu

insegnante di Lutero, lo aiutò a capire bene il testo greco e Lutero si impegnò perché lui

studiava solo in latino, faceva lezione in latino leggendo il testo biblico in latino.

Lutero quindi era già a un livello notevole perché in Germania parlavano abitualmente

tedesco; si rendeva però conto che, per capire bene il testo biblico, era necessario

padroneggiare le lingue originali. Il Nuovo Testamento è stato scritto in greco, bisogna

leggerlo in greco; l’Antico Testamento è stato scritto in ebraico, bisogna leggerlo in

ebraico. Trovarono come professore di ebraico, anzitutto l’anziano e dotto Johannes

Reuchlin (1455-1522), poi sostituito da altri nuovi docenti. Questi sono i nomi che hanno

fatto la storia della cultura in Germania.

Questi nuovi professori diedero la possibilità a quella facoltà di essere all’avanguardia e

Lutero poté permettersi nel suo commento di spiegare – ad esempio – i termini che si

adoperano in ebraico per indicare il peccato. Ne riconosce tre, si è fatto spiegare bene la

differenza, e quando legge il latino sa che nell’originale ebraico ci sono vocaboli diversi;

acquista quindi una notevole capacità di interpretazione che in quell’ambiente proprio non

c’era. Questo è un aspetto importante perché sta nascendo la ricerca moderna, scientifica:

uno studio delle Scritture bibliche non semplicemente come atto devozionale, ma come

ricerca accademica con l’approfondimento necessario per ogni disciplina.

Ma questo professore è un monaco, è un religioso convinto che studia le Scritture non

per interesse accademico, ma per una passione personale, con un afflato religioso: gli

interessa quello che dice la Scrittura e gli interessa per la vita. Dunque, il suo lavoro non è

tanto di predicazione popolare in questo momento della sua esistenza quanto di

insegnamento accademico, ma lo fa da religioso credente.

Ha dedicato due anni accademici al commento ai Salmi, poi incomincia a spiegare la

Lettera ai Romani e dice:

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 13

Questa lettera è l’apice vero e proprio del Nuovo Testamento, è l’evangelo in forma

assolutamente pura, essa merita davvero che un cristiano non solo la conosca a

memoria, parola per parola, ma la mediti ogni giorno nutrendosene come del pane

quotidiano dell’anima.

È un po’ un’esagerazione del giovane professore che, entusiasta per questo testo, dice

che bisognerebbe conoscerlo a memoria. Per Lutero questo testo diventa il nutrimento

quotidiano dell’anima cristiana e lui dedica a questa Lettera di san Paolo – che è un

autentico monumento, un testo davvero pregevole e importante – un intero anno di

insegnamento e tutte le sue lezioni, della durata di due ore ogni giorno, vengono raccolte e

pubblicate. Questo commento di Lutero è condotto sul testo latino della lettera ed è fatto in

latino, però il professore si è documentato sul testo greco e, là dove ci sono riferimenti

all’Antico Testamento, sa anche padroneggiare l’ebraico.

Questo gli permette un passo in avanti che lo porta a contestare lo schema scolastico. Si

chiama scolastico in genere quel procedimento che era abituale nelle scuole di teologia

dove la filosofia aveva preso il posto della ricerca biblica. Si era infatti ormai

schematizzata la dottrina cristiana con una impostazione filosofica, per lo più aristotelica:

si spiegava tutto, ma rimanendo nello schema ideale, astratto. La Scrittura si adoperava per

fondare certi argomenti: un versetto qui, un versetto là e si giustificava questa frase,

quest’altro dogma; era un discorso filosofico.

Lutero entra in conflitto, come uomo di Chiesa, con questa impostazione scolastica

troppo filosofica; ritiene che sia necessario tornare alla fonte e non è una fonte arbitraria,

non è un altro filosofo che gli piace di più di Aristotele, è la Parola di Dio. Ha ragione,

bisogna riconoscere che è stata una esigenza seria, autentica, valida: si è trattato di studiare

sistematicamente un testo biblico. Lutero lo ha fatto con i Salmi, con la Lettera ai Romani,

poi con la Lettera ai Galati, quindi con la Lettera agli Ebrei, non prendendo una frase qui,

una frase là per giustificare lo schema che avevano già in testa i teologi scolastici, ma

cercando di capire la sacra Scrittura in sé e di ricavarne l’insegnamento.

Chi si riconosce peccatore confessa che Dio è giusto

Il commento alla Lettera ai Romani è un’opera pregevole ed è il fondamento che Lutero

pone per tutte le future impostazioni che produrranno anche degli effetti negativi, ma la

base di partenza è buona.

Voglio offrirvi adesso alcuni esempi di suoi commenti al testo della Lettera ai Romani

dove l’apostolo Paolo sostiene la grande dottrina della giustificazione per fede, dove cioè

insegna che la salvezza viene da Gesù Cristo ed è efficace in noi grazie alla fiducia con cui

ognuno accetta l’opera della salvezza operata da Cristo. Non diventiamo giusti con le

nostre forze, ma per grazia di Dio, siamo salvati per la misericordia che Dio ci ha

concesso; accogliere questa grazia è un atteggiamento di fede.

Un punto interessante da cui Lutero parte è il versetto – che cita san Paolo nella Lettera

ai Romani – del Miserere. Qualcuno di voi, probabilmente i più anziani, ricorderanno

proprio la formula latina che Lutero aveva sotto gli occhi e che commentava ai suoi

studenti:

“Ut iustificieris in sermonibus tuis et vincas cum iudicaris —

Affinché tu sia giustificato nelle tue parole e vinca quando sei giudicato” (Sal 50,6).

Si domanda Lutero: “Ma come facciamo a giustificare Dio? Chi può giustificare Dio?”.

Non è però Dio in sé che viene giustificato, ma “nelle sue parole”, cioè viene ritenuto

giusto in quello che ha detto. Che cosa ha detto Dio? Nel salmo precedente (Sal 49) ha

detto: “Il suo popolo Israele è peccatore, tutta l’umanità è segnata dal peccato”. Dio

afferma che c’è una situazione diffusa di peccato: come si fa a giustificare Dio nelle sue

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 14

parole? Ritenendo che abbia ragione. Come si fa a dimostrare che Dio ha ragione davvero?

Accettando di riconoscersi peccatori! Infatti il versetto precedente del salmo confessa:

“Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te,

contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto” (Sal 50,5-6).

Se io dico di non essere peccatore, affermo che Dio mente e non è giusto. Ha detto che

tutti sono peccatori e io invece ritengo di non esserlo. Se lo contesto, se lo critico, se lo

accuso, vengo sconfitto da lui, cioè “lui vince quando viene giudicato”. C’è una situazione

paradossale, dice Lutero: chi riconosce di essere peccatore, dà ragione a Dio e viene

salvato; chi invece non ammette di essere peccatore dà torto a Dio e viene condannato. È il

paradosso: chi si considera peccatore viene salvato, chi si considera giusto viene

condannato.

Dio è giustificato nelle sue parole quando il suo dire è da noi accolto e ritenuto giusto

e verace, ciò accade mediante la fede prestata alle sue parole. Invece è giudicato nelle

sue parole quando si reputa falso e ingannevole il suo dire. Ciò accade a causa

dell’incredulità e della superbia dei pensieri del nostro cuore, appunto come cantò la

Beata Vergine [WA 56, 212]

Fa riferimento al Magnificat: “Dio disperde i superbi nei pensieri del loro cuore”. Chi

sono i superbi? Quelli che non accettano la Parola di Dio, quelli che non vogliono

riconoscersi peccatori.

Infatti la nostra sapienza non solo non crede e non si sottomette alle parole di Dio, ma

pensa anche che non siano parole di Dio, anzi crede di essere essa stessa in possesso

delle parole di Dio e presume di essere verace. Tale è appunto la stoltezza dei giudei,

degli eretici e di tutti gli uomini di dura cervice, ma Dio riesce vincitore nelle sue

parole quando la sua parola ha il sopravvento su tutti coloro che cercano di ottenere il

contrario, come è avvenuto con l’evangelo che trionfa sempre e sempre ha trionfato.

La verità infatti vince su tutto. Dio, pertanto, è giustificato in coloro che in umiltà

rinunciano al loro modo di pensare e gli credono, mentre vince in coloro che si

rifiutano di credergli, lo giudicano e lo contraddicono [213].

Lutero trova un altro supporto importante per questo concetto nelle parole di Simeone

dove si dice che Gesù è un segno di contraddizione. Il vecchio Simeone infatti dice che

quel bambino “è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele”: la caduta di quelli

che gli si oppongono e la risurrezione di quelli che lo accettano. Dunque, il punto di

partenza di questa riflessione è il riconoscere che io ho torto e Dio ha ragione. Non sono io

che insegno a Dio come si fa; quello che trovo nelle Scritture lo accetto, non lo critico, non

lo contesto, non pretendo di saperla più lunga di Dio. Non so io, meglio di Dio, qual è la

situazione, accetto questa parola e riconosco la mia condizione di peccatore.

Non per Dio, ma per noi!

A questo punto un passaggio in avanti è dato proprio dalla constatazione del modo con

cui le persone religiose si comportano e fa notare con abilità che è necessario fare tutto per

Dio, non per noi, mentre molte volte si fanno anche le cose buone, le cose belle, le cose

religiose, per il proprio interesse, per il proprio gusto.

Se ci esaminiamo con diligenza troveremo sempre in noi almeno un resto della carne,

in forza del quale siamo inclini a cercare noi stessi, mal disposti nei confronti del

Le citazioni delle opere di Lutero fanno riferimento all’edizione ufficiale di Weimar detta Weimarer

Ausgabe (WA), seguita dal numero del volume e dal riferimento alle pagine: il commento alla Lettera ai

Romani è pubblicato nel volume 56. D’ora in poi si cita solo il numero di pagina, perché i riferimenti sono

sempre a WA 56.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 15

bene, portati al male. Infatti, se in noi non ci fosse tale resto del peccato e cercassimo

Dio con cuore puro, certo la nostra realtà umana si dissolverebbe immediatamente e

l’anima si leverebbe in volo verso Dio. Il fatto però che l’anima non voli a Dio è segno

che essa non riesce a staccarsi da un certo vizio della carne finché non sia liberata per

grazia di Dio, ciò che ci si deve attendere al momento della morte. Nel frattempo

bisogna gemere sempre con le parole dell’apostolo: “Chi mi libererà da questo corpo

di morte? C’è sempre da temere che Dio ci abbandoni ad immergerci ancora più a

lungo. Perciò bisogna sempre pregare e operare affinché la grazia e lo spirito crescano,

mentre decresca e sia distrutto il corpo del peccato [258].

Questa è una idea molto importante. Non possiamo parlare di salvezza come di una cosa

statica, ma di una realtà in divenire.

Finché non siamo nell’eternità beata non siamo sicuri della salvezza e la salvezza deve

crescere e l’attaccamento alla carne deve diminuire.

È facile – dice – purché si abbia un minimo di diligenza, scorgere la malvagità della

volontà nell’amare il male e nell’evitare il bene in cose che riguardano il corpo. La si

nota per esempio nei casi in cui ci sentiamo portati alla libidine, all’avarizia, alla gola,

alla superbia, all’onore, mentre rifuggiamo dalla castità, dalla generosità, dalla

sobrietà, dall’umiltà, dalla vergogna. Dico che è facile avvertire come, in queste cose,

cerchiamo e amiamo noi stessi, ripiegati e ricurvi su di noi almeno con il cuore, se

proprio non possiamo esserlo con le opere. È chiaro che siamo inclinati verso di noi di

fronte a queste cose palesemente cattive [258].

Ma c’è un altro problema, più profondo…

Per quanto riguarda le realtà spirituali, cioè intelligenza, giustizia, castità, pietà, è

molto difficile vedere che per caso non cerchiamo noi stessi anche in esse. Infatti

l’amore per tali realtà, essendo onesto e buono, molto spesso ci trattiene imponendosi

a noi come meta. Ci impedisce di orientare e di restituire a Dio queste cose in modo

che noi non le facciamo perché piacciano a Dio, ma perché ci dilettano e ci procurano

pace nel cuore, oppure perché siamo legati dagli uomini. In questo modo però non le

facciamo per Dio, ma per noi stessi. Ce ne dà la prova la tentazione, infatti se a

motivo di queste cose siamo disapprovati, oppure se Dio ci priva delle dolci tentazioni

che sperimentiamo in esse e ci toglie la gioia del cuore, subito le trascuriamo, oppure

ripaghiamo con la stessa moneta coloro che ci disapprovano e ci difendiamo [258].

Facciamo delle cose buone per noi stessi, amiamo noi stessi anche facendo il bene. La

prova è che se ci criticano per quello che abbiamo fatto, smettiamo di farlo; se non ci sono

riconoscenti ci arrabbiam. Succede perché non le facciamo per Dio, ma le facciamo per

noi. Che cosa vuole dimostrare? Che noi, partecipi della grazia di Cristo, pur salvati

attraverso i sacramenti, restiamo peccatori, siamo inclinati al male e l’opera di Cristo, che

ci è data nella Chiesa attraverso i sacramenti, non ci ha resi automaticamente santi. Non

solo non evita i grandi peccati, ma a livello profondo nell’atteggiamento dell’anima manca

questa capacità.

La nostra natura è ricurva

Vuol dire che la nostra condizione attuale è un problema. L’uomo di fede sta ragionando

sulla condizione di peccato che vede attorno a sé nelle persone cristiane che dovrebbero

essere salvate. Invece si rende conto che sono ancora impregnate di peccato.

La nostra natura … è ricurva in modo così profondo su di sé che non solo piega verso

di sé gli ottimi doni di Dio e ne gode, anzi si serve anche di Dio per ottenere questi

beni, ma non si rende neanche conto di cercare ogni cosa, Dio compreso, per se stessa

in modo iniquo, storto e perverso [304].

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 16

Cioè ognuno di noi è ripiegato su di sé; è una immagine che ripete molte volte per

indicare una chiusura nel proprio io. Il punto delicato è proprio qui, l’alternativa fra Dio e

io. Anche chi adora Dio e dice di seguirlo e ne ha accolto la salvezza, è ricurvo e ripiegato

sul proprio io. Quindi vuol dire che il problema è serio, il problema è complicato. Certo!

Proprio per questo Lutero insiste molto sul peccato originale. Da attento studioso di

Agostino ha dato un grande peso al problema della colpa originale, mentre invece la

teologia scolastica – almeno quella di Scoto e di Occam, che era la più diffusa al suo tempo

– dava poco peso alla rovina della natura umana e riteneva abbastanza facile essere salvi e

amare Dio con tutto il cuore.

Lutero invece parte dallo studio biblico e sottolinea, alla scuola di Paolo e di Agostino,

che la natura umana è ferita dal peccato.

La colpa originale è la privazione totale del corretto funzionamento e della capacità di

esercizio di tutte le facoltà, tanto del corpo, quanto dell’anima; insomma, dell’uomo

intero interiore ed esteriore. È la stessa inclinazione al male, la nausea nei confronti

del bene, la ripugnanza della luce e della sapienza, è amore dell’errore e delle tenebre,

fuga e orrore di fronte alle opere buone e corsa verso il male [312].

Lutero calca molto la mano su questa situazione del male che domina l’uomo ed è una

osservazione realistica. È il principio del 1500 e lui aveva davanti una umanità religiosa,

ma piena di peccato; cinquecento anni dopo noi abbiamo davanti una umanità poco

religiosa, ma piena di peccato, con la differenza forse che noi, un po’ come gli scolastici

medioevali, rischiamo di banalizzare questa situazione e di dire che “in fondo siamo tutti

buoni”.

Avete notato come, di fronte a ogni atto delinquenziale che i telegiornali ci riportano, i

vicini di casa dell’assassino dicono che “era una brava persona, uno normale”. Quindi vuol

dire che il tuo vicino di casa, brava persona che ti saluta, può essere un assassino da un

momento all’altro o noi stessi, brave persone, possiamo diventare delinquenti: un colpo di

rabbia e fa sì che delle persone normali siano degli assassini e quello che noi chiamiamo

“normale” o diciamo “brava persona” in realtà nasconde un male profondo. Questa natura

curva verso di sé, tale chiusura in sé è il danno della colpa originale, si fa sentire, è pesante

e inclina al male. Perciò la salvezza non è una cosa così semplice, non è che una

benedizione cambia il cuore e la mente. Ce ne rendiamo conto?

L’impegno di Lutero è stato quello di superare una mentalità banale della religione per

cui: bisogna andare in chiesa! … e andiamo in chiesa; bisogna sentire Messa! … e

sentiamo Messa. Quello che si dice non ci interessa, quello che dobbiamo fare moralmente

non lo facciamo, ma siamo stati a Messa, abbiamo fatto il nostro dovere, siamo salvi,

siamo a posto, raccogliamo le reliquie, diciamo le preghiere che dobbiamo dire, poi

viviamo come vogliamo e siamo convinti di essere a posto e di essere santi. Non è vero!

Questa è una mentalità ipocrita e illusa.

Il punto di partenza, leggendo la Lettera ai Romani, per Martin Lutero è stato proprio

questo: ha scoperto la serietà del peccato e la gravità della corruzione umana. Ritorna

infatti alla lettura dei padri

Le cose stanno proprio come giustamente le esposero i santi Padri antichi: il peccato

originale è il fomite stesso, la legge della carne, la legge delle membra, la debolezza

della natura, il tiranno, la malattia d’origine. È come il caso di un ammalato la cui

malattia mortale non consiste soltanto nella mancanza di salute di un membro, ma si

configura, oltre che come perdita della salute di tutte le membra, anche come

debilitazione di tutti sensi, di tutte le facoltà, cui si aggiunge la nausea di ciò che è

salutare e il desiderio di ciò che è nocivo [313].

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 17

Il peccato è una malattia molto grave

Quando uno è malato seriamente, anche se il male lo ha solo in un organo, tutto

l’organismo sta male e non riesce più a fare niente e non riesce a essere interessato o a

pensare. Il peccato originale è una malattia mortale che ci sta rovinando. A questo punto

Lutero introduce alcune immagini classiche, mitologiche, rilette in chiave morale.

È dunque questa l’Idra dalle molte teste, il mostro molto tenace con cui combattiamo

nella palude di Lerna, cioè in questa vita, fino alla morte. Qui incontriamo Cebero che

latra senza che lo si possa far tacere e Anteo che è invincibile finché lo si lascia a terra

[313].

Sono tutti personaggi sconfitti da Ercole. L’Idra era un mostro con tante teste, da ogni

testa tagliata ne spuntavano due e nessuno riusciva a combattere questo mostro. Il peccato

è così, io taglio qualcosa e a ogni taglio il peccato ricresce e raddoppia. Anteo era un

gigante che prendeva energia dalla terra. Ercole è riuscito a sconfiggere l’Idra di Lerna non

perché ha tagliato le teste, ma perché gliele ha cicatrizzate, ha legato Cerbero e ha

sollevato da terra Anteo; non poggiando con i piedi per terra non ha più avuto l’energia

terrena. Lutero legge queste figure come simbolo di Cristo: il nostro Ercole è Cristo che

sconfigge il male, lui solo può sconfiggerlo, io no. Finché Anteo resta per terra ha la forza

di schiacciarmi, ci vuole qualcuno che lo sollevi.

In materia di peccato originale non ho trovato in nessun teologo una soluzione così

chiara come quella fornita da Gerardo Groot nel suo trattatello: “Beato l’uomo (che

trova in te il suo aiuto)” in cui egli non parla da filosofo temerario, ma da sano teologo

[313].

Qui emerge la polemica contro quelli che il frate agostiniano considera filosofi temerari.

Dunque, la situazione negativa dell’uomo è paragonata a quella di un ammalato: in un

passo molto bello nel suo commento, sempre sulla scorta della lettura patristica, Lutero

interpreta la parabola del buon samaritano come la vicenda generale dell’uomo.

Quell’uomo malcapitato sono io, è ogni persona umana. Cristo è il buon samaritano.

È come il caso di un ammalato il quale presta fede al medico che gli promette

guarigione certissima. Nel frattempo, ubbidendo al comando del medico nella

speranza della guarigione promessa, si astiene da ciò che gli è stato proibito per non

ostacolare la guarigione promessa, per non fomentare la malattia finché il medico

adempia ciò che ha promesso. È forse sano questo ammalato? No! Ma è insieme

ammalato e sano. In realtà è malato, ma è sano per la sicura promessa del medico al

quale egli crede. Il medico, da parte sua, lo considera già come sano poiché è sicuro di

guarirlo, infatti ha già incominciato a curarlo e non ha considerato per lui questa

malattia come una condanna a morte [272].

La salvezza è una convalescenza. Cristo è il medico, io sono il malato, la malattia

mortale non mi uccide perché Cristo sta curandomi. Io però non sono ancora sano, sto

diventando sano, sono in via di guarigione. Per poter guarire devo fare quello che mi dice il

medico, devo evitare quello che il medico mi proibisce perché altrimenti ricado, torno

indietro e la guarigione non si realizza.

L’immagine della salvezza come una terapia che tende alla salute piena è molto

importante e ci aiuta a essere consapevoli dell’impegno che dobbiamo metterci nel nostro

cammino di salvezza. Cristo è il medico, promette la salvezza, ci guarirà, ma per intanto

siamo ancora malati, abbiamo ancora difetti e peccati, siamo in via di guarigione. Continua

il commentatore:

Allo stesso modo Cristo, il nostro samaritano, prendendosi cura del suo malato, cioè

dell’uomo mezzo morto, l’ha portato alla locanda per curarlo e dopo avergli promesso

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 18

una guarigione totale e perfetta ha cominciato a guarirlo per la vita eterna. Non gli

imputa il peccato, cioè le sue concupiscenze per la morte, ma nella speranza della

guarigione promessa gli vieta frattanto di fare e di omettere ciò che potrebbe

ostacolare la guarigione e fomentare il peccato. È forse perfettamente giusto? No, è

insieme peccatore e giusto [272].

Insieme peccatore e giusto

Su questa formula (simul peccator et iustus) i teologi si sono scontrati per secoli, molti

hanno sostenuto che la formulazione di Lutero era sbagliata e che bisognava correggerla.

Se però non la prendiamo con atteggiamento polemico, dobbiamo riconoscere che contiene

una profonda verità. La condizione dell’uomo salvato, cioè la nostra condizione di persone

credenti che hanno ricevuto i sacramenti e che vivono in grazia di Dio, è quella di

peccatori e giusti insieme. Giustificati da Dio, resi giusti e tuttavia sappiamo di essere

ancora peccatori contemporaneamente:

peccatore in realtà, ma giusto grazie alla considerazione di Dio; è perfettamente sano

nella speranza, mentre in realtà è peccatore, possiede l’inizio della giustizia, ma tende

sempre di più alla giustizia [272].

I teologi scolastici hanno pensato – dice – di poter rimuovere facilmente il peccato in un

batter d’occhio, invece Agostino e Ambrogio si esprimevano in un modo molto diverso.

Cita a senso una frase di sant’Ambrogio: «Io pecco sempre perciò mi comunico sempre».

La frase autentica di sant’Ambrogio è: «Io che pecco sempre devo avere sempre la

medicina» (De sacramentis, IV,6,28). Intendeva dire: proprio perché sono sempre

peccatore, faccio la comunione proprio per diventare santo. Cioè ho bisogno dell’aiuto

della grazia e del sacramento per diventare santo, perché non lo sono ancora.

Ero in lotta con me stesso – confida – non sapendo che la remissione del peccato si

verifica senz’altro, mentre il toglimento dello stesso non avviene se non nella speranza

[274].

Mi sono quindi accorto che quelli che dicevano che la salvezza è facile, sbagliano.

Perciò è un delirare puro e semplice il loro sostenere che l’uomo potrebbe con le sole

sue forze amare Dio sopra tutte le cose e fare le opere comandate dal precetto... O

stolti, o Sawtheologen! [274].

In mezzo al latino gli scappa un’espressione in tedesco ed è un’espressione volgare:

“troie di teologi”. Qui si è infuocato e davanti ai suoi studenti chiama quegli altri professori

scolastici, che insegnano che la salvezza è cosa facile, Sawtheologen, cioè letteralmente

“teologi scrofa”. Nel senso volgare è sentito anche da noi come insulto: il loro sbaglio sta

nel ritenere che la salvezza sia una cosa banale.

La Chiesa è l’infermeria per gli ammalati

Sempre in questo passo, solo un po’ più avanti, ha una immagine che noi conosciamo

molto azzeccata e affascinante:

La Chiesa è il ricovero, l’infermeria per persone ammalate, destinate a essere guarite.

Il cielo, invece, è il palazzo dei sani e dei giusti [275].

Quando papa Francesco parla di ospedale da campo, usa una immagine “luterana”; con

ciò non si vuol dire che sia negativa, è infatti una bella immagine. “La Chiesa è

l’infermeria per le persone ammalate, mentre il cielo è il palazzo dei sani”. I santi sono

guariti, noi non siamo ancora guariti e allora? Allora l’atteggiamento che permette la

salvezza è l’umiltà di chi riconosce di essere ancora ammalato e l’impegno a vivere bene la

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 19

convalescenza per diventare sano. È il desiderio di diventare sano, è proprio la tensione

verso la guarigione piena.

Molto più avanti nel commento alla Lettera ai Romani Lutero insiste sul tema della

penitenza, che gli sta molto a cuore:

L’uomo è sempre peccatore, sempre penitente, sempre giusto! Proprio perché si pente

diventa giusto da non-giusto. Dunque, il pentimento è il termine medio tra l’ingiustizia

e la giustizia [442].

Questa bella espressione condensa in tre punti la situazione umana:

1. Ingiustizia è il punto di partenza,

2. Giustizia è il punto di arrivo,

3. Pentimento è il punto intermedio

E noi in quale situazione siamo? Non siamo ingiusti, lontani da Dio, reietti, dannati, ma

non siamo nemmeno santi, perfetti, totalmente giusti: siamo in una dimensione

penitenziale, siamo cioè in un cammino di maturazione.

Se ci pentiamo sempre, ammettiamo di essere sempre peccatori, tuttavia siamo per ciò

stessi giusti e veniamo giustificati; in parte siamo peccatori, in parte giusti. Non siamo

nient’altro che penitenti… Nessuno è così buono da non poter diventare migliore;

nessuno è così cattivo da non poter diventare peggiore, finché non perveniamo alla

nostra forma finale [442].

Vuol dire che ognuno di noi può migliorare o può peggiorare, può andare avanti verso la

giustizia piena o può andare indietro verso l’ingiustizia piena. Quindi siamo in una

condizione di cammino penitenziale.

La scoperta che Lutero fece nell’anno (1516) in cui commentò la Lettera ai Romani e

che lo ha appassionato, è stata proprio la gravità del peccato e la necessità di un impegno

penitenziale. La prima delle 95 tesi, che l’anno seguente comincerà a diffondere, dice

proprio che “La vita cristiana è penitenza”. Ma di quel fatto importante delle 95 tesi, la

questione delle indulgenze e come sono andati i fatti iniziali della Riforma, parleremo la

prossima settimana.

3 – La questione delle indulgenze

«Quando il Signore e maestro nostro Gesù Cristo ha detto “Fate penitenza” ha inteso

chiedere ai fedeli di conformare tutta la loro vita allo spirito di penitenza».

Questa è la prima delle 95 tesi di Martin Lutero; il tema della penitenza gli stava molto a

cuore, lo aveva elaborato per alcuni anni commentando nell’Università di Wittenberg la

Lettera ai Romani. Era un momento di particolare crisi personale per quel monaco il quale

si stava dibattendo con passione sul problema della giustizia con la paura della condanna.

Se Dio è giusto e applica la giustizia – avendo il monaco Martin Lutero consapevolezza

del proprio peccato – temeva che la giustizia di Dio l’avrebbe condannato e con questa

paura ha ricercato il senso profondo della rivelazione depositata nelle Scritture.

L’importanza della penitenza

Dopo avere commentato i Salmi, che sottolineano molto la condizione dell’uomo

peccatore che chiede la salvezza a Dio, questo professore ha trovato nella Lettera ai

Romani una risposta: la giustizia di Dio viene concessa gratuitamente ed è l’opera di Gesù

Cristo che rende l’umanità giusta, partecipe della vita divina. Questa giustizia che viene

data all’uomo lascia tuttavia ancora spazio al peccato e purtroppo la persona, anche

giustificata per fede, continua a portare in sé le conseguenze del peccato, l’inclinazione al

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 20

male e il fonte della concupiscenza per cui, anche se è giusto per grazia, l’uomo resta

contemporaneamente anche peccatore.

La situazione nella esperienza di Chiesa, sostiene il monaco Martino, è quella degli

ammalati in via di guarigione: la Chiesa è l’ospedale per i convalescenti. La giustizia è la

prospettiva futura, il peccato è la condizione passata, il nostro presente – dice – è

esperienza penitenziale. La penitenza è il passaggio dal peccato alla giustizia.

Questo discorso si radica in una questione teologica molto importante e frequentemente

dibattuta nella teologia medioevale. Lutero infatti parte proprio da questo problema della

penitenza che è anche il nome di un sacramento. Il sacramento della penitenza è quello che

chiamiamo confessione o, con linguaggio più moderno, riconciliazione, ma il suo nome

proprio è Penitenza.

Soffermiamoci a chiarire questa realtà ecclesiale importante, complessa e difficile; lo è

da sempre ancora oggi perché è un sacramento che forse più di ogni altro permea la vita e

chiede un coinvolgimento esistenziale.

Una seconda tavola di salvezza dopo il Battesimo

Nella prassi della Chiesa antica si parlava di Penitenza come di una seconda tavola di

salvezza dopo il naufragio del Battesimo: veniva intesa come una eccezione che si poteva

fare una volta nella vita di ciascuno qualora il battezzato avesse commesso un peccato

grave tale da metterlo fuori della comunione ecclesiale.

Pertanto nei primi secoli, al tempo dei padri della Chiesa, la penitenza era un sacramento

eccezionale, straordinario, che si poteva ricevere una volta sola nella vita se ce n’era

bisogno, ma era auspicabile che non ce ne fosse bisogno. Era considerato un salvataggio in

extremis. Se uno, dopo il Battesimo, faceva di nuovo naufragio, la Chiesa gli concedeva

una seconda tavola di salvezza. La chiamavano così perché non avevano i salvagente,

usavano le tavole; nel naufragio chi si trova in mare si aggrappa a un legno che lo aiuta a

stare a galla. Il sacramento della Penitenza era quindi un fatto straordinario e riservato solo

per coloro che avevano commesso gravi peccati, tali da metterli fuori della vita della

Chiesa.

Il Battesimo veniva celebrato da adulti, quindi gli adulti che chiedevano il Battesimo si

impegnavano a una vita corretta. Se commettevano qualche errore grave perdevano la

grazia battesimale e potevano ricorrere in via straordinaria alla penitenza, ma una vola

sola. Per noi è un discorso strano, difficile da capire, eppure pensate che per i primi 5-6-7

secoli la Chiesa visse con questo sistema e i grandi santi che noi conosciamo, dei primi

secoli, non si sono mai confessati, non hanno mai celebrato il sacramento della penitenza

perché era riservato ai grandi peccatori.

La mamma di sant’Agostino non aveva fatto battezzare il figlio da piccolo perché non si

usava, ma quando era già grandicello, vedendo che era un ragazzo intelligente e ribelle,

non lo volle far battezzare da giovane perché riteneva probabile che si sarebbe allontanato,

era quindi meglio posticipare il Battesimo. Dato che era considerato un sacramento molto

serio – e il battezzato aderiva a Cristo con l’atteggiamento che oggi noi abbiamo per i

religiosi o per i preti – ricevere il Battesimo voleva dire fare una scelta di vita che

comportava un impegno per tutta la vita di comportamento buono, costante. Si venne a

creare quindi una situazione per cui molti ritardavano il Battesimo, si facevano iscrivere

all’albo dei catecumeni come desiderosi del Battesimo, ma non si facevano battezzare.

L’imperatore Costantino venne battezzato in punto di morte.

Quando Agostino invece arrivò alla scelta di fede, a trentatré anni maturò la decisione di

diventare cristiano: quella scelta del Battesimo fu una scelta coerente di vita. Pochi anni

dopo divenne prete, poi vescovo e si mantenne sempre fedele all’ideale cristiano, quindi

non celebrò mai il sacramento della Penitenza.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 21

Anche Ambrogio era stato scelto come vescovo ancora catecumeno, cristiano di buona

famiglia cristiana, di Roma, ma non battezzato, catecumeno, perché era questa l’abitudine.

Quando da governatore di Milano lo scelgono come vescovo della grande città, Ambrogio

è da battezzare: fu battezzato il 30 novembre e ordinato vescovo il 7 dicembre. Tutto in

una settimana. Altro che corso di preparazione e anni di seminario: in una settimana

Battesimo, Cresima, Comunione, tutti gli Ordini minori e l’Episcopato e riuscì perfino un

bravo vescovo, senza nessuna preparazione. Lo disse lui stesso qualche anno dopo: “Ho

cominciato a insegnare prima di aver studiato”. Si è trovato nella condizione del vescovo

che insegnava al popolo le Scritture e la vita cristiana e lui… aveva da imparare tutto. Si

dedicò a uno studio intenso e fece notevoli progressi.

Perciò, vedete, la situazione nel IV secolo era questa: uomini di grande spiritualità, che

hanno reso un enorme servizio alla vita della Chiesa, erano adulti non battezzati; quando

furono battezzati rimasero fedeli al loro impegno e non celebrarono il sacramento della

Penitenza. Questo lo si può applicare a quasi tutti i santi dell’era patristica e quindi alla

grande maggioranza delle persone.

Le norme possono produrre strani effetti

Le regole funzionano se le persone sono intelligenti e le accolgono con quella

indispensabile sensibilità cristiana. Molte volte invece le regole vengono date per assolute

e la gente – cioè le persone una per una in genere – prende queste regole e se le adatta a

proprio modo. Se il Battesimo chiede una esigenza di vita cristiana seria non si celebra il

Battesimo, lo si ritarda, si chiede il Battesimo in punto di morte. Si era così venuta a creare

una situazione in cui tutti i cristiani erano catecumeni e non c’erano di battezzati per cui

tutti andavano a Messa e nessuno faceva la Comunione perché non erano battezzati;

aspettavano di diventare vecchi per ricevere il Battesimo, era addirittura il sacramento più

consueto in punto di morte: si chiamava il prete per dare il Battesimo al morente. Capite?

Era una situazione assurda. Però era venuta fuori da una scelta molto valida, che consisteva

nel dire: il Battesimo è una cosa seria, bisogna aderire al Signore bene.

È lo stesso fenomeno che sta succedendo adesso con il Matrimonio: con la paura che il

Matrimonio fallisca lo si rimanda e allora si inizia la convivenza senza il Matrimonio… poi

lo faremo, poi vedremo. Va a finire che fra qualche anno faremo i Matrimoni al

cinquantesimo anniversario; là dove funziona la convivenza al cinquantesimo anno,

celebreremo il matrimonio con i figli e i nipoti. Cambia però completamente

l’impostazione. Il sacramento è pensato per aiutare la vita degli sposati, se arriva alla fine

non ha più senso, diventa semplicemente una corona di fiori per ornare un giorno di festa;

comprendiamo però che possa essere serio non celebrare il sacramento se non si è convinti.

Certe volte i preti lo dicono ai fidanzati: per celebrarlo male, per farlo per abitudine, perché

ci tiene tua nonna, è meglio non farlo, lo fai quando sei pronto.

Le regole dei sacramenti e della vita morale sono pensate in genere; quando vengono

applicate in specie, nei casi concreti, producono delle deformazioni e questo è un problema

costante della Chiesa. Dare delle indicazioni nobili, alte, valide per tutti – e nello stesso

tempo fare attenzione ai singoli casi, non lasciare degenerare le abitudini, correggere il tiro

per riportare il comportamento nella strada giusta – non è cosa assolutamente facile.

Questo con la storia del sacramento della penitenza si è verificato più volte.

Il cambiamento medievale della Penitenza

Il sacramento era entrato in crisi verso la fine dell’epoca antica e quindi si cercò di

rivalorizzare il sacramento, indirizzandone il fine alla correzione e al miglioramento della

vita cristiana, non lasciandolo come una eccezione straordinaria per i grandi peccatori, ma

facendola diventare un strumento di correzione per tutti.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 22

Si pensò quindi di dire: si può ripetere più volte; questa possibilità di ripetere più volte la

Penitenza rese possibile il Battesimo dei bambini, dando quindi la possibilità di recuperare

lo stato di grazia, qualora si commettessero dei peccati gravi.

Furono i monaci, soprattutto i monaci irlandesi, che portarono questa novità di una

Penitenza intesa come direzione spirituale: era legata specialmente al consiglio dei monaci

che ascoltano la persona, la aiutano a correggersi e offrono la grazia sacramentale del

perdono come un aiuto per correggere i peccati e migliorare la vita cristiana.

Il Medio Evo è caratterizzato da questa prassi della penitenza monastica, dove viene data

l’assoluzione, ma condizionata dalla penitenza. Si creano pertanto dei libri chiamati

Tariffari; non c’erano le tariffe economiche, ma contenevano le indicazioni di penitenze

adatte ad ogni tipo di peccato. La Penitenza come sacramento diventa così una serie di

pratiche di penitenza per correggere i vari difetti. I confessori pertanto avevano dei manuali

che suggerivano le penitenze più opportune. A seconda del peccato che veniva confessato

veniva data una pena, ed erano spesso attività pesanti, perché nascevano dall’ideale dei

monaci di una austera penitenza. Potevano essere quaresime di digiuno, pellegrinaggi,

impegni di carità, erano penitenze serie, impegnative, proprio perché miravano a una

correzione.

Nascono con una buona intenzione: correggere le cattive abitudini, dare un impegno di

preghiera, non un Pater-Ave-Gloria, ma lunghe serie di preghiere per quaranta giorni o per

un anno intero o anni di impegno penitenziale. Pensate: dare come penitenza di andare a

Santiago di Compostela a piedi vuol dire chiedere a una persona di stare fuori casa un anno

con una fatica immensa. Prima di partire per il pellegrinaggio i penitenti facevano

testamento, perché non sapevano se sarebbero tornati. È molto diverso da un viaggio

turistico dei nostri tempi. Queste penitenze così pesanti finivano però per non essere fatte e

venivano cambiate.

Si creò il sistema della penitenza delegata. I monaci erano specializzati in queste cose e

potevano farle anche a nome di altri. Se io avevo avuto dal confessore l’impegno di

digiunare per tre quaresime, voleva dire 120 giorni, se io non me la sentivo di fare una

penitenza del genere e chiedevo al monaco di farla a nome mio, dal momento che lui

faceva penitenza sempre, digiunava tutto l’anno, accettava di fare 120 giorni di digiuno a

nome mio. Però, capite, assumendosi un tale impegno a nome mio, aveva bisogno di una

ricompensa. Io facevo una bella offerta al monastero e il monaco si incaricava di fare la

penitenza a mio nome.

Se ci ragionate, il sistema è corretto, perché è una collaborazione fraterna: lui fa

penitenza a nome mio perché siamo fratelli e c’è una comunicazione di grazia. Io, avendo

disponibilità economiche, lo aiuto nella sua vita religiosa, quindi il criterio di base è

corretto. Se le persone lo avessero usato correttamente avrebbe potuto funzionare, in

quanto mutua offerta di aiuto. Il guaio è che veniva banalizzato il tutto: chi aveva

disponibilità di soldi facilmente pagava, non faceva penitenza e quindi non gli serviva a

niente la penitenza che faceva il monaco, perché non c’era da parte sua la volontà di

correggersi. D’altra parte il monaco lo faceva per interesse economico e quindi non era un

gesto di collaborazione fraterna per il bene delle anime, ma mosso solo dal’interesse

economico: offriva un guadagno. Quella situazione divenne quindi sempre più corrotta.

Le pratica delle indulgenze

In contemporanea si introdusse il sistema delle indulgenze. Le indulgenze sono una

offerta che la Chiesa proponeva ai fedeli come eliminazione delle pene dovute alle colpe.

La colpa viene rimessa nel sacramento, ma la pena deve essere scontata. L’offerta della

indulgenza rientra in quello schema tariffato, dove si può ottenere l’indulgenza con

qualche gesto penitenziale o con qualche offerta. Lentamente si venne a creare l’abitudine

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 23

che l’offerta era chiesta direttamente: non ti davo nemmeno i quaranta giorni di digiuno,

ma ti chiedevo, per ottenere l’indulgenza, una certa offerta.

Questo sistema – se a livello teorico poteva funzionare, qualora ci fossero delle persone

equilibrate, sagge, desiderose veramente di una vita morale buona – di fatto era una

situazione degenerata, gravemente scorretta, che si era moltiplicata nel corso dei secoli e la

Penitenza, come sacramento, era finita proprio in una condizione di disprezzo. Era stata

sostituita da questa prassi delle opere penitenziali: visite a santuari, offerte di danaro,

acquisto di lettere credenziali, come gesti di carità a favore della Chiesa che garantivano la

salvezza senza il coinvolgimento personale.

Agli inizi del 1500 papa Giulio II decise di ricostruire la Basilica di san Pietro perché era

fatiscente. Era stata edificata al tempo di Costantino, ma ormai era in pessime condizioni;

erano stati fatti molti lavori di manutenzione, ma non reggeva più. Il grande pontefice

savonese Della Rovere decise quindi di fare una nuova Basilica e fece demolire la vecchia

Basilica di san Pietro per costruire l’attuale che conosciamo molto bene. Per portarla a

compimento ci volle però un secolo: tutto il 1500 è caratterizzato nella vita di Roma dalla

costruzione della enorme Basilica di san Pietro. Servivano soldi, servivano molti soldi e

tutti i modi potevano essere buoni pur di avere tanti soldi.

Noi adesso guardiamo la Cappella Sistina e ammiriamo le opere di Michelangelo, ma

Michelangelo si faceva pagare e si faceva pagare bene. Raffaello è nato nello stesso anno

di Lutero (1483), ma hanno due vite molto diverse: il principe dell’umanesimo che realizza

bellissime opere pittoriche per esaltare una umanità luminosa e il riformatore che invece

sottolinea una dimensione negativa dell’uomo, inclinato al peccato e bisognoso di

redenzione. Raffaello si faceva pagare bene e quindi, per realizzare quelle belle opere

dell’umanesimo cristiano, servivano tanti capitali: si chiedeva perciò a tutto il mondo

cristiano che ogni fedele contribuisse per la gloria della Chiesa, per l’onore dell’apostolo

Pietro.

Le “strategie” economiche della Chiesa

A Giulio II nel 1513 successe papa Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico. Giovanni

de’ Medici è un principe dell’umanesimo fiorentino e da papa vuole esaltare, proprio

attraverso Raffaello, questa mentalità umanistica: quello che aveva iniziato Giulio II, con

l’indulgenza giubilare, Leone X continuò in grande stile.

Per arrivare vicino a Lutero dobbiamo però prendere in considerazione un altro

personaggio: Alberto arcivescovo di Magdeburgo, uno degli antenati degli Hohenzollern, i

regnanti della Prussia. È un principe tedesco che, a 23 anni, per diventare arcivescovo di

Magdeburgo, dovette comperare dal papa il pallio, ornamento liturgico simbolo

dell’arcivescovo. Il contributo richiesto era quantificato in 24.000 fiorini d’oro. Non solo,

ma Alberto l’anno seguente (1514) volle diventare primate di Germania e avere anche

l’arcivescovado di Magonza, che comportava il titolo di Principe elettore del Sacro

Romano Impero. Era proibito dal diritto canonico avere due arcivescovadi, però si poteva

fare una dispensa e la dispensa era molto costosa, equivaleva a un altro arcivescovado, altri

24.000 fiorini con qualche supplemento. Alberto, volendo queste cariche, trovò i soldi.

Roma aveva bisogno dei soldi e andarono d’accordo tutti e due. Alberto si indebitò con i

banchieri Fugger di Augusta e in quegli anni aveva 50.000 fiorini di debito. Leone X

propose ad Alberto di Magdeburgo una campagna di predicazione delle indulgenze e il

contratto fra di loro era di fare a metà ciascuno. Metà dell’incasso sarebbe andato a Roma e

metà sarebbe rimasto ad Alberto, il quale aveva bisogno di pagare i debiti che aveva fatto

per pagare Roma. Queste cose le sappiamo noi moderni perché abbiamo avuto la

possibilità di accedere agli archivi, ma la gente di allora non sapeva nulla di tutto questo.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 24

Alberto, arcivescovo di Magdeburgo, convocò un gruppo di domenicani e affidò loro

l’incarico della predicazione delle indulgenze. A capo di questo gruppo c’era un

domenicano di nome Johannes Tetzel, un tipo valido, molto abile nel parlare, ma

teologicamente non era molto ferrato: era schierato con la struttura di potere e aveva

ricevuto l’incarico di vendere il maggior numero di indulgenze possibili.

Il principe di Wittenberg, Federico III il Saggio, proibì la predicazione delle indulgenze

nel suo principato: non voleva infatti che venissero a prendere i soldi ai suoi sudditi,

temeva una fuga di capitale e quindi nella zona di Wittenberg quei predicatori non

arrivarono mai. La gente però si spostava e andava nelle città vicine dove sapeva che si

offriva la salvezza e queste indulgenze costavano poco, erano offerte a persone anche

semplici, di bassa condizione, quindi non erano cifre riservate ai ricchi, erano offerte a

tutti, ma, si sa, con tanti secchielli di sabbia di costruisce la Basilica a Roma.

Il problema però era nel disprezzo della penitenza, nella illusione che veniva data a

queste persone semplici che per essere salve, per andare in paradiso, bastasse ottenere

questo titolo. Era un’opera di bene, era un aiutare la Chiesa, ma veniva inteso come

comperare la salvezza. Avete dei defunti? Li volete mandare in paradiso? Allora comperate

l’indulgenza. Quindi cominciate ad avere due genitori, magari anche dei nonni, degli altri

parenti, una zia che vi ha lasciato la cascina e… non le volete regalare almeno una

indulgenza? Ognuno ragionava poi secondo i propri criteri, ma tutto questo era lontano

dall’impegno personale e c’era un danno per l’impegno nella salvezza: si dava per scontato

che quelle opere, quei gesti, quei soldi, ottenessero la salvezza senza nessun impegno

personale.

Proprio nell’anno in cui Lutero finiva il commento alla Lettera ai Romani impegnandosi

a spiegare ai suoi studenti universitari la necessità della penitenza, della penitenza seria,

della convalescenza dell’ammalato peccatore che deve rispondere alla grazia di Dio per

poter tendere alla piena giustizia, si sentono queste voci di una predicazione diffusa che la

gente accetta facilmente.

La reazione di Lutero: la realtà dei fatti e la leggenda

In quell’anno Lutero era predicatore nella chiesa parrocchiale, era responsabile della

predicazione e si accorse che la gente era affamata di questi regali, di queste indulgenze

che semplificavano la strada e garantivano la salvezza a poco prezzo. Girava una formula

che quel predicatore Tetzel adoperava ed era una immagine che colpiva la fantasia:

“Quando la moneta suona nella cassetta, l’anima vola in paradiso”. Si pensava che proprio

il suono che la moneta fa nella cassetta produce automaticamente l’effetto di mandare

l’anima in paradiso. È un discorso semplice che conquista, la gente semplice – ancora oggi

– è attratta dalle rose di santa Rita, dalle candele, dagli oggetti devozionali. Sono tutte cose

per incamerare soldi: devi pagare la candela, devi pagare la rosa, però (si dice) è benedetta

ed è di santa Rita! E cosa serve? A qualcosa serve! Oggi ci sono tanti devoti che

continuano a fare queste opere; guardate che non è molto cambiata la cosa! Cambiano le

forme, ma la mentalità è sempre la stessa. Quando benediciamo le palme abbiamo la chiesa

stracolma, se a Pasqua benedicessimo le uova ne avremmo certo più gente, se a ogni

domenica benedicessimo qualcosa avremmo più partecipanti e nella raccolta si

incasserebbe di più...

La situazione morale della penitenza unita al nuovo capitalismo che stava nascendo

produssero una miscela esplosiva e la miccia fu accesa a Wittenberg, ma il 31 ottobre del

1517 Martin Lutero non affisse alla porta della chiesa del castello nessun manifesto con le

95 tesi. Questa è una leggenda, creata un secolo dopo dalla propaganda protestante che ha

formulato l’immagine idealizzata del fondatore della Riforma. I documenti storici,

attualmente rivisitati dagli stessi studiosi luterani, hanno smontato questa ricostruzione.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 25

Il 31 ottobre del 1517 il monaco Martin Lutero scrisse una lettera all’arcivescovo di

Magdeburgo, il principe Alberto, dicendogli in coscienza di aver sentito predicazioni a suo

nome di cose che non stanno né in cielo né in terra; quindi la mossa iniziale fu privata,

segreta. È una lettera in cui un pastore – professore universitario di sacra Scrittura – di

fronte a un insegnamento così distorto si pone un problema di coscienza. Il fatto dunque

non fu una presa di posizione polemica, bensì una lettera di chiarimento. Questa lettera è

conservata nell’archivio reale di Svezia; come ci sia arrivata non lo so, ma c’è ancora la

lettera autografa firmata dal monaco di Wittenberg. È scritta in latino: difatti non è per il

popolo e non è pensata come una sintesi teologica. In fondo alla lettera compare l’elenco

delle 95 tesi; è semplicemente un insieme di frasi che Lutero mise in appendice a quella

lettera per far notare all’arcivescovo Alberto che la predicazione delle indulgenze non

funzionava: si sarebbe potuta mettere in discussione in ambito accademico.

Lutero scrisse anche all’ordinario della diocesi in cui si trovava Wittenberg, Hieronymus

Schulze, vescovo di Brandeburgo, il quale gli rispose dicendo di non intromettersi in quel

discorso, di lasciar perdere l’argomento. Alberto invece non gli rispose. La lettera non gli

arrivò velocemente. Luero la spedì a Magdeburgo, ma il principe non era in quella sede,

ma a Magonza. La segreteria aprì la lettera e quindi la rispedì con un biglietto di

accompagnamento alla cancelleria di Magonza. Il principe la lesse un mese dopo e,

anziché rispondere al mittente, inviò alla sua cancelleria a Magdeburgo un messaggio che

metteva in guardia dal toc care “il santo affare delle indulgenze”. Scrivendo in uno strano

tedesco-latino, chiama la faccenda heylig negocium indulgentiarum, cioè: santo negozio

delle indulgenze. Inoltre Alberto scrive a Roma, cioè alla curia romana per denunciare il

pericoloso intervento, chiedendo che si apra un processo inhibitorius contro questo monaco

che ha messo il naso in una questione che non lo riguarda, perché Roma lo ammonisca ad

astenersi in futuro da ogni attacco all’indulgenza con prediche, dibattiti e libri.

Lutero, in buona fede, scrisse contro le indulgenze proprio a colui che aveva organizzato

tutto quel negocium e che aveva l’interesse in una grossa rendita da quella predicazione.

Lutero invece si era appellato a lui come al massimo garante della fede cristiana e gli aveva

scritto proprio con il desiderio di un pastore che vuole sapere come muoversi, dal momento

che tale situazione gli sembrava proprio sbagliata.

La lettera di risposta dunque non arrivò. Ma Lutero nel seguente mese di novembre

fremeva nell’attesa e perciò scrisse ad alcuni amici per sapere che cosa ne pensassero. In

tal modo l’elenco delle 95 tesi venne ricopiato a mano più volte e mandato ad amici e

colleghi. Il testo è scritto in latino, quindi lo potevano leggere solo professori di teologia:

lo inviò a questi amici domandando pareri, chiedendo se, secondo loro, c’erano delle cose

sbagliate, se si potevano utilizzare quelle formule per contrastare l’insegnamento scorretto.

Non era sua intenzione divulgare la questione, ma fatto sta che nel gennaio del 1518

cominciò a girare a stampa in tutta la Germania questo elenco di 95 tesi sulle indulgenze.

Qualche stampatore, venuto in possesso di una lettera manoscritta, fiutando un probabile

affare, la stampò e quindi la moltiplicò: così la giovane invenzione della stampa fece in

modo che nel giro di qualche mese – senza che Lutero lo sapesse – in tutta la Germania

girava questo foglio che piacque a moltissimi.

La notizia di questa diffusione giunse anche a Wittenberg e nel corso del 1518 Lutero

venne a sapere che tutta la Germania parlava della sua presa di posizione e che le sue idee

avevano ottenuto un enorme consenso.

Due “peccati originali”

Ecco, il punto delicato forse è proprio qui: si vennero a scontrare due atteggiamenti

peccaminosi e il peccato produce guai.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 26

Il primo atteggiamento peccaminoso è quello delle autorità ecclesiastiche che non

risposero, ma si chiusero in difensiva e, senza entrare nel merito della questione teologica,

attaccarono la persona, pensando che fosse, come era, solo un semplice frate di provincia,

uno che aveva messo il naso in una faccenda che non lo riguardava. Successe come a fra

Cristoforo nei Promessi Sposi: poiché si era intromesso nelle vicende di don Rodrigo,

venne trasferito dal padre provinciale. Così anche le autorità ecclesiastiche pensarono di

risolvere il problema, facendo tacere quel frate che si occupava di cose che non lo

riguardavano. Questo è un atteggiamento peccaminoso: il rifiuto di un confronto diretto,

senza la considerazione seria della teologia e della persona che ha posto la questione.

L’altro l’atteggiamento negativo è quello di Lutero che, dal desiderio di conoscenza, di

approfondimento, di comprensione della verità, è passato alla fierezza di sentirsi guida di

un vasto movimento popolare. Il consenso che aveva suscitato ha sviluppato un certo

orgoglio, una specie di vanità e lui cavalcò questa situazione che non aveva voluto e non

aveva cercato. Si trovò improvvisamente a essere ascoltato da un’assemblea grande come

la Germania e si trovò ad avere un uditorio enorme, non quei 15/20/30 studenti di

Wittenberg, ma migliaia, milioni di persone che erano disponibili ad accettare la sua

impostazione.

Quella occasione lo portò a guidare la rivolta, mentre dalla parte opposta il silenzio e la

durezza di risposta moltiplicarono il problema. Così, da questi due peccati, scoppiò una

situazione negativa che in partenza avrebbe potuto essere corretta e fruttuosa.

Dato che ormai le sue tesi erano diffuse, ne parlavano tutti e non poteva più ritirarle,

doveva spiegare la situazione. Perciò nel 1518 fece una predica in, , sull’indulgenza e sulla

grazia e la fece pubblicare a stampa. Così verso la fine di marzo 1518 Lutero pubblicò per

la gente un sermone in lingua tedesca «Sull’indulgenza e la grazia» (Sermo von Ablass und

Gnade). Questo pamphlet ebbe uno straordinario successo e procurò rapidamente a Lutero

larga fama in tutta la Germania. Egli insisté più e più volte sul fatto che, fatta eccezione per

le prime quattro proposizioni, le tesi non erano sue affermazioni definitive, ma piuttosto

proposizioni scritte allo scopo di essere discusse.

Dallo scontro alla condanna

Sempre nello stesso anno 1518 Lutero commentò le 95 tesi e scrisse in latino le

Resolutiones, cioè le spiegazioni, e le mandò a molti colleghi universitari, ma le dedicò al

papa. Visto che l’arcivescovo non rispondeva, Lutero scrisse una lettera a papa Leone X

come accompagnamento delle Resolutiones.

In questa lettera Lutero professa di riconoscere nella voce del papa la voce di Cristo che

governa, parla nella Chiesa e gli dice: «Attesto …». È interessante notare questo termine –

in latino protestor – che costituisce un gioco linguistico inconscio, che anticipa quello che

sarà il nome stesso del movimento luterano.

«Attesto [protestor] di non voler dire o affermare nulla se non ciò che è contenuto

innanzitutto nella sacra Scrittura, poi nei padri della Chiesa, nel diritto ecclesiastico e

nel decreti del papa».

E termina…

«Spero con questa mia attestazione di aver detto abbastanza chiaramente che io posso

sì sbagliare, ma che non si potrà fare di me un eretico – Ac mea protestatione credo

satis manifestum fieri quod errare quidem potero, sed ereticus non ero».

In latino adopera il termine protestatione che però non indica una protesta, bensì una

testimonianza, un attestato di intenzione. Conclude con una formula decisa: “Eretico non

sarò!”. Se questa lettera fosse stata presa in considerazione – e ci fosse stata una risposta

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 27

teologica sul merito – forse le cose sarebbero andate diversamente, ma anche questo testo

non venne accolto, non venne data a Lutero una risposta sull’argomento.

Dopo vani tentativi di chiarimento, papa Leone X decise di agire per proteggere la «fede

ortodossa» da coloro che «distorcono e alterano le Scritture» in maniera tale che esse «non

sono più il Vangelo di Cristo». Così il 15 giugno 1520 il papa pubblicò la bolla Exsurge

Domine, che condannava 41 proposizioni tratte da varie pubblicazioni di Lutero. Anche se

si possono trovare tutte negli scritti di Lutero e sono citate correttamente, sono estrapolate

dai loro rispettivi contesti. La bolla pontificia definisce questi articoli come «eretici,

scandalosi, falsi, offensivi per le orecchie pie, o (…) capaci di sedurre le menti degli

uomini semplici o in contraddizione con la fede cattolica », senza specificare quale di

queste qualificazioni si applichi all’uno o all’altro articolo.

Nella prima espressione Exurge Domine (= Sorgi, Signore) il papa chiedeva al Signore

che sorgesse a difendere la sua Chiesa contro i nemici e, poco dopo, adoperando

un’immagine del Salmo 79 (v. 14), paragona la Chiesa ad una vigna devastata dal cinghiale

del bosco. Lutero viene qualificato come un cinghiale che è entrato nella vigna del Signore

e quindi bisogna eliminare l’intruso che rovina. Alla fine della bolla, il papa si rammarica

che Lutero abbia evitato di rispondere a tutte le sue offerte di discussione, e dichiara di

conservare la speranza che Lutero faccia esperienza di una conversione del cuore e si

ravveda dei suoi errori.

Il Vangelo è il tesoro della Chiesa

La situazione effettivamente era diversa. Le 95 tesi non sono state pensate come una

opposizione alla Chiesa, ma come una presentazione di argomenti, da discutere in ambito

accademico, contro una situazione di vistoso abuso. Quindi quello che si sviluppò poi nella

mentalità teologica protestante contro la religiosità delle opere è dovuto a questo problema

iniziale. Noi oggi siamo molto più vicini di quanto possiamo immaginare, perché con la

nostra mentalità cattolica odierna riteniamo assolutamente infondato, immotivato e

immorale, questo atteggiamento della vendita delle indulgenze, cioè la pretesa di

comperare o vendere la salvezza. Riteniamo infatti che leggere la Bibbia sia la strada

principale per poter conoscere il Signore e che la salvezza venga da Lui per grazia.

Facendo riferimento alla raccolta economica legata alle indulgenze, Lutero sostiene che

il papa non sappia quello che avviene in Germania; infatti – afferma – se lo sapesse,

sarebbe disposto piuttosto a bruciare la basilica di san Pietro. Vi leggo due tesi centrali:

50. Si deve insegnare ai cristiani, che se il papa conoscesse le estorsioni compiute dai

predicatori di indulgenze, preferirebbe che la basilica di San Pietro andasse in cenere,

piuttosto che di vederla edificata con la pelle, la carne e le ossa delle sue pecore.

51. Si deve insegnare ai cristiani che il papa - come è suo dovere - è disposto ad

elargire il suo danaro - e, se ve ne fosse il bisogno, anche vendendo la basilica di San

Pietro - a molti di quei fedeli ai quali i predicatori di indulgenze estorcono danaro.

Il papa sarebbe pronto a dare i soldi a questa gente piuttosto che prenderglieli e

venderebbe san Pietro per poterli aiutare. La polemica è dovuta al fatto che viene

trascurato il Vangelo, mentre questo dovrebbe essere predicato soprattutto. La situazione è

sempre attuale perché il problema di fondo è l’animo con cui aderiamo al Vangelo. Molte

di queste tesi sostengono proprio la necessità di insegnare il Vangelo al popolo.

53. Nemici di Cristo e del papa sono coloro i quali nelle chiese, per predicare le

indulgenze trascurano la parola di Dio.

54. Si offende la parola di Dio, quando in una stessa predica si riserva alle indulgenze

uno spazio eguale o maggiore di quello ad essa dedicato.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 28

55. È senza dubbio intenzione del papa, celebrare le indulgenze, che costituiscono una

cosa di non grande importanza, con una sola campana, una sola processione e una sola

cerimonia, riservando al Vangelo, che è la cosa più grande, cento campane, cento

processioni, cento cerimonie.

62. Il vero tesoro della Chiesa è il sacrosanto Evangelo della gloria e della grazia di

Dio.

Lutero desiderava ardentemente che il popolo cristiano conoscesse la Parola di Dio e

chiedeva che la Chiesa si impegnasse a diffondere il Vangelo di Cristo. Questo oggi

l’abbiamo compreso bene e siamo pienamente d’accordo.

Le tesi di Lutero dunque volevano anzitutto mettere in evidenza l’impegno personale

nella penitenza. Quello che conta nella vita cristiana non è la fase rituale o formale, ma il

coinvolgimento personale. Ripeto la prima tesi con cui ho cominciato:

1. Quando il Signore e maestro nostro Gesù Cristo, ha detto: "Fate penitenza", ha

inteso chiedere ai fedeli di conformare tutta la loro vita allo spirito di penitenza —

Dominus et magister noster Iesus Christus dicendo `Penitentiam agite etc.’ omnem

vitam fidelium penitentiam esse voluit.

Tutta la vita deve essere penitenza, cioè conversione, cambiamento. Gesù ha cominciato la

predicazione così: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino, convertitevi e

credete al Vangelo”. Nel testo latino “convertitevi” è Penitentiam agite (= fate penitenza):

questa è la frase che cita Lutero. Gesù ci ha chiesto di vivere una vita penitenziale, cioè di

conversione, di cambiamento, di guarigione e di credere al Vangelo: questo è

fondamentale.

All’arcivescovo di Magonza Lutero chiedeva che prendesse posizione a favore del

Vangelo, ma quello era troppo preoccupato dei 50.000 fiorini d’oro che doveva restituire ai

banchieri Fugger e il Vangelo lo lasciò in seconda posizione, se non in terza o quarta. Eh

sì! Dobbiamo pensarci seriamente, perché quella storia antica riguarda anche noi e con i

nostri piccoli (o grandi) giri e raggiri, anche di tipo economico, possiamo rovinare una vita

evangelica che invece deve essere di penitenza e di fede nel Vangelo.

Il 31 ottobre del 1517 non successe niente di eclatante, fu però l’inizio di una riforma

salutare, partendo dall’idea che “Ecclesia semper reformanda – la Chiesa è sempre da

riformare”. Lo stesso vale per la vita di ciascuno di noi: è sempre da riformare! Se

partiamo con questa idea possiamo averne un beneficio.

4 – Dal conflitto alla comunione

«Mi sembra fondamentale che la Chiesa cattolica porti avanti coraggiosamente

l’attenta e onesta rivalutazione delle intenzioni della Riforma e della figura di Martin

Lutero nel senso di una Ecclesia semper reformanda, nel grande solco trattato dai

Concilî come pure da uomini e donne animati dalla luce e dalla forza dello Spirito

Santo».

Sono parole del discorso di papa Francesco quando, il 15 novembre del 2015, visitò la

chiesa luterana di Roma, pregando insieme a quella comunità. L’anno scorso, proprio a

fine ottobre per inaugurare l’anno del V centenario dell’inizio della Riforma, papa

Francesco è stato in Svezia, una nazione fortemente luterana, per celebrare insieme alla

comunità luterana la memoria di questo evento epocale della storia della Chiesa.

Dobbiamo riconoscere che le cose per fortuna stanno cambiando; in genere vediamo il

peggioramento e notiamo le cose che vanno male; è bene invece impegnarci a vedere

anche il miglioramento e riconoscere le cose che vanno bene.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 29

Sulla via della riconciliazione

Il dialogo ecumenico ha fatto dei grandi passi in avanti e oggi possiamo dialogare

fraternamente e – su moltissime questioni – siamo riconciliati. Sebbene abbiamo delle

abitudini, delle tradizioni e anche qualche dottrina differente, ciò che è importante è che la

base è comune e c’è una relazione di fraternità che in passato mancava.

È questo il primo centenario della riforma che celebriamo in clima ecumenico. Noi nel

1917 non c’eravamo a festeggiare il centenario precedente, ma sappiamo che il clima era di

forte tensione come nel 1817 e nel 1717. Infatti per secoli, per cinque secoli, le due

comunità cristiane – quella luterana e quella cattolica – si sono fatte guerra a vicenda

considerandosi reciprocamente opera del diavolo e accusando gli altri di sbagliare e di

rovinare il Vangelo. Loro accusavano i cattolici, noi accusavamo i luterani e questo

atteggiamento di polemica ha creato dei solchi enormi che sono diventati fossati. Ognuno,

chiuso nell’arroganza della propria verità, riteneva che l’altro sbagliasse e ogni volta che si

apriva bocca era in tono polemico per dire che l’altro era eretico.

Questo capita anche nei rapporti familiari e comunitari; se si intraprende una via

polemica, l’altro sbaglia sempre, qualunque cosa dica la dice male e non c’è più dialogo.

Quando due coniugi litigano, la colpa generalmente non è tutta da una parte. Può capitare

qualche volta, ma in genere c’è sempre un concorso di colpa. Quando, da pastore, io

ascolto le confessioni, mi capita talvolta di sentire le due versioni, prima una parte, poi

l’altra e mi sembra davvero di essere un personaggio di Pirandello che si domanda: “Ma

dov’è la verità?”. Sono due mondi diversi che mi raccontano le stesse situazioni, ma in

modo completamente diverso. Chi dei due ha ragione? Uno dei due sta mentendo? Oppure

tutti e due deformano un po’ la realtà a proprio vantaggio, scusandosi e accusando; alla

fine non si ha la percezione di come stiano davvero le cose.

Per poter litigare – diceva un antico padre del deserto – bisogna essere in due, perché se

uno comincia a insultare e l’altro non risponde, la lite non si innesca; se invece l’altro

risponde per le rime, scoppia la lite. Per litigare bisogna essere in due, ma anche per fare la

pace, analogamente, bisogna essere in due, perché se uno offre disponibilità e l’altro non

l’accetta, non è possibile alcuna riconciliazione.

Oggi abbiamo compreso che la strada del dialogo è la via fondamentale. Il dialogo

fraterno come per le realtà familiari e comunitarie, così anche in grande stile per le chiese,

è la via maestra, è quella che porta buoni frutti.

In questa linea, papa Francesco ha detto che è fondamentale che la Chiesa Cattolica porti

avanti coraggiosamente l’attenta e onesta rivalutazione delle intenzioni della Riforma e

della figura di Martin Lutero. Nel nostro piccolo è quello che abbiamo cercato di fare

chiarendo la situazione con attenzione e onestà storica, rivalutando le buone intenzioni che

all’inizio il monaco agostiniano, professore di sacra Scrittura a Wittenberg, Martin Lutero,

aveva per correggere una situazione negativa. Purtroppo però quelle buone intenzioni di

partenza hanno lasciato presto il posto alla polemica e al conflitto.

Lutero, abbiamo detto, stava meditando seriamente e personalmente la Scrittura: è

partito da un corso accademico sui Salmi, poi ha spiegato la Lettera ai Romani. Lì ha

trovato un nutrimento per la propria vita spirituale e l’ha fatta diventare insegnamento di

teologia in modo corretto, con una impostazione valida dove vuole sottolineare la grande

opera di salvezza compiuta dal Signore. La giustificazione per fede, la salvezza per grazia,

è un insegnamento basilare della Scrittura e la tradizione cristiana ha sempre presentato

questo insegnamento come valido e basilare. Il problema si è posto quando è diventato

scontro con le istituzioni, cioè nei confronti della gerarchia ecclesiastica.

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 30

“Ecclesia semper reformanda”

Papa Francesco ha adoperato in quella occasione della visita alla Chiesa luterana di

Roma una espressione tradizionale di epoca patristica: “Ecclesia semper reformanda”, cioè

la Chiesa deve sempre essere riformata. Quindi il termine “riforma” – che è stato applicato

al movimento di Lutero e a tutto il resto del mondo protestante – è semplicemente una

forma di questo impegnativo lavoro di correzione degli atteggiamenti ecclesiali, perché le

cose tendono sempre a degenerare.

Lo vediamo nella nostra vita personale. Se prendiamo una brutta abitudine nel giro di

poco la situazione peggiora. Se uno ad esempio rimane tanto seduto ha difficoltà a

camminare; se per qualche motivo deve stare a letto per parecchio tempo alla fine non è

riposato, è invece più debole. Se si seguono dei comportamenti sbagliati si degenera nella

vita fisica, nella vita morale, nella vita spirituale. Questo vale per la persona da un punto di

vista fisico, da un punto di vista morale, vale per le famiglie. Se di fronte a certe difficoltà

non si interviene a correggere, le difficoltà crescono, perché siamo inclinati al male; il

rischio è quello della degenerazione, tendiamo ad andare verso il male e c’è bisogno di una

riforma continua: bisogna correggersi, non bisogna lasciarsi andare. Il lavoro di riforma, di

correzione, è però faticoso e comporta sempre un andare contro corrente: fare qualcosa che

costa fatica.

Nell’antichità il termine latino reformatio si riferiva all’idea del cambiamento di una

situazione presente negativa ritornando ai tempi positivi e migliori del passato. Nel

Medioevo il concetto di reformatio fu molto spesso usato nel contesto delle riforme

monastiche. Diversi ordini monastici si impegnarono in riforme per arrestare e contrastare

il rilassamento della disciplina e riportare al primitivo rigore il proprio stile di vita

religioso. Uno dei movimenti di riforma più importanti si sviluppò nel X secolo

nell’Abbazia di Cluny. Ma nella storia della Chiesa ci sono stati molti eventi di riforma,

molti interventi religiosi di correzione e di cambiamento. Molti ordini religiosi sono nati e

sono stati riformati.

Dopo il mondo benedettino sono nati gli Ordini mendicanti, francescani e domenicani, e

la loro nascita è stata una riforma notevole. Prima i monaci erano chiusi nei monasteri, i

frati invece hanno cominciato un nuovo stile di vita nelle città; cambiava la struttura della

società cristiana e dalle grandi campagne, caratterizzate dai monasteri come fari di civiltà,

era nata l’attività urbana con il commercio, il mondo dei mercanti. La gente si riuniva nelle

città piuttosto che nelle campagne e i monaci non erano in città. I frati invece sono andati a

costruire la chiese nelle città; l’impegno di san Francesco e di san Domenico è stato

notevole per ridare un grande impulso alla vita cristiana.

Dante insiste nella Divina Commedia sul grande ruolo apostolico che hanno avuto

Francesco e Domenico, ma lui – vivendo un secolo e mezzo dopo questi due grandi

fondatori – riconosce che francescani e domenicani sono decaduti, non sono più come

erano all’origine. A metà del 1100 gli Ordini mendicanti (francescano e domenicano)

erano fiorenti, veramente evangelici; nel 1300 erano decaduti e si era riprodotto la

situazione di prima. Perciò Dante denuncia la necessità di riformare questi Ordini perché

hanno tutti i difetti che dovevano correggere.

Ecclesia sempre reformanda! Nel 1100 andava male, nel 1300 andava di nuovo male,

nel 1500 andava ancora male; cambiate il numero dell’anno e … va sempre male, se non si

interviene a correggere. Quindi quel movimento che è nato da Lutero era la risposta a una

esigenza costante, vera, necessaria di riforma della Chiesa.

Dopo le lettere – in cui alla fine del 1517 allegava le 95 tesi sulle indulgenze – nell’anno

seguente Lutero scrisse le Resolutiones, consegnando a papa Leone X il commento alle 95

tesi. In questo testo afferma…

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 31

La Chiesa ha bisogno di una riforma e questa non può essere il compito di un solo

uomo, cioè il pontefice, né di molti, cioè i cardinali, come ha dimostrato l’una e l’altra

cosa l’ultimo Concilio, ma di tutto il mondo, anzi di Dio soltanto. Ma il tempo di

questa riforma lo conosce solo colui che ha fondato i tempi.

Lutero afferma che c’è bisogno di una riforma nella Chiesa e questa è una esigenza

valida: la ribadiamo noi oggi, come la sosteneva san Francesco nel 1100. Dal desiderio di

riforma, dalla percezione di una necessaria riforma al diventare operativi per cambiare

effettivamente le cose, il passo è enorme.

L’irrigidimento delle posizioni

Lutero non immaginava davvero di mettere in moto una riforma come è venuta fuori. Il

suo intento, in partenza, non era quello di creare un sconvolgimento tale, né di dare origine

a una nuova realtà di Chiesa. La sua intenzione era di correggere un travisamento concreto

che si presentava in quell’anno 1517, perché una predicazione molto diffusa era ritenuta

scorretta e chiedeva che si ponesse un limite a certe affermazioni che erano considerate

aberranti: si rovinava infatti la mentalità cristiana del popolo.

Da quel momento le cose precipitarono e si vennero a creare diverse situazioni negative.

Onestamente dobbiamo parlare di un autentico concorso di colpa. Da parte cattolica le

autorità infatti non risposero a Lutero, dall’altra parte Lutero – forte del grande consenso

che improvvisamente ottenne in tutta la Germania senza che egli avesse voluto la

divulgazione di quegli scritti – divenne sempre più esigente.

Roma era preoccupata che le idee espresse da Lutero potessero minare la dottrina della

Chiesa e l’autorità del papa. Per questo Lutero venne convocato a Roma per rispondere

davanti al tribunale ecclesiastico della sua visione teologica. Ma non ci andò perché aveva

paura di essere arrestato ed eliminato. Quindi su richiesta del principe elettore di Sassonia,

Federico III il Saggio, il processo fu trasferito in Germania, alla Dieta imperiale di

Augusta, dove il mandato di interrogare Lutero venne affidato al card. Caietano, un grande

esperto di teologia. Nel mandato papale era scritto che Lutero doveva ritrattare o, nel caso

si fosse rifiutato, al cardinale veniva conferita la facoltà di metterlo immediatamente al

bando o di arrestarlo e condurlo a Roma. Il Cardinal Caietano parlò con Lutero, ma fu un

dialogo fra sordi. Prima degli incontri, il cardinale teologo aveva studiato con molta

attenzione gli scritti del professore di Wittenberg e aveva persino scritto dei trattati su di

essi. Tuttavia interpretò il pensiero di Lutero collocandolo all’interno del proprio schema

concettuale e perciò lo fraintese riguardo alla certezza della fede, pur esponendo

correttamente i singoli punti della sua concezione. Da parte sua, Lutero non aveva una

grande confidenza con la teologia del cardinale, e l’interrogatorio, che consentì solo un

confronto limitato, non fece che esercitare su Lutero una pressione a ritrattare, senza

nemmeno offrirgli l’opportunità di comprendere la posizione del cardinale. È davvero

tragico che due dei teologi più eminenti del XVI secolo si siano incontrati in occasione di

un processo per eresia. È l’esempio doloroso di una situazione dove due parti in conflitto

hanno già intrapreso due strade diverse, non si capiscono e non fanno lo sforzo di capirsi.

Lutero si è impuntato sul tema della Bibbia e continua a ripetere che devono

dimostrargli, in base ai testi biblici, che le cose che insegnano sono corrette e che quello

che lui contesta è sbagliato. Il Cajetanus invece lo rimprovera di rifiutare l’insegnamento

dei papi e porta i documenti della scolastica tradizionale. È un dialogo fra sordi. Uno dice:

non mi interessano i tuoi documenti pontifici, voglio citazioni dalla Bibbia; l’altro gli

obietta: devi smetterla di rifiutare questi documenti, sono importanti. Ognuno resta sulla

propria posizione. Avrebbero potuto considerare l’uno i documenti, l’altro gli argomenti

biblici: creare un dialogo vuol dire ascoltare l’altra persona, prenderla sul serio. I due

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 32

invece litigarono senza ascoltarsi e ciascuno dei due continuò a ripetere la propria

posizione.

Intanto il consenso intorno a Lutero cresceva, molti intellettuali lo lodarono e gli

dichiararono la propria disponibilità a collaborare; molti imprenditori tedeschi si accorsero

che il movimento poteva essere cavalcato e quindi ingrossarono le fila della protesta. Da

Roma ci fu chiusura senza risposte. Lutero continuava a chiedere risposte bibliche a quel

problema, da Roma gli venne l’ingiunzione: “Ritratta quello che hai detto”. Lui ribadisce:

“Dimostratemi biblicamente che sbaglio”.

Il conflitto sulle indulgenze dunque si sviluppò rapidamente diventando un conflitto

sull’autorità. Per Lutero, la curia romana aveva perso la sua autorità con l’insistere su di

essa solo formalmente, invece di argomentare sulla base della Bibbia. All’inizio della

contesa, l’autorità teologica delle Scritture, i padri della Chiesa e la Tradizione canonica

rappresentavano per Lutero un’unità. Nel corso del conflitto, quando egli giunse alla

conclusione che le norme ecclesiastiche, così come venivano interpretate dai rappresentanti

della curia romana, erano in contrasto con le Scritture, questa unità si spezzò. Da parte

cattolica la controversia riguardava non tanto la supremazia delle Scritture, con la quale i

cattolici concordavano, quanto piuttosto la corretta interpretazione delle stesse.

Quando Lutero non vide un fondamento biblico nelle dichiarazioni di Roma o ritenne

che tali dichiarazioni addirittura contraddicessero il messaggio biblico, egli cominciò a

pensare al papa come l’Anticristo. Con questa accusa, certamente scioccante, Lutero

intendeva che il papa non permetteva a Cristo di dire quanto Cristo voleva dire e che il

papa si era posto al di sopra della Bibbia anziché sottomettersi alla sua autorità. Il papa

sosteneva che il suo ministero era istituito iure divino («per diritto divino»), mentre Lutero

non riusciva a trovare la dimostrazione biblica di questa affermazione.

Il doloroso strappo

Con la bolla Exsurge Domine (15 giugno 1520) papa Leone concesse a Lutero 60 giorni

per ritrattare i suoi «errori», o sarebbe incorso nella scomunica. Il teologo Johannes Eck,

che pubblicò la bolla Exsurge Domine in Germania, invitò a bruciare le opere di Lutero.

Come reazione, il 10 dicembre 1520 alcuni teologi di Wittenberg bruciarono un certo

numero di libri, equivalenti a quelli che in seguito sarebbero diventati noti come corpus del

«diritto canonico», insieme ad alcune opere di oppositori di Lutero; egli, a sua volta, gettò

nel fuoco la bolla papale. In tal modo fu chiaro che Lutero non era disposto a ritrattare. Il 3

gennaio 1521 Lutero fu scomunicato con la bolla Decet romanum pontificem.

Secondo le leggi del Sacro romano impero della nazione tedesca, chi veniva

scomunicato doveva venire anche messo al bando imperiale. Tuttavia i membri della Dieta

imperiale richiesero che un’autorità indipendente interrogasse Lutero. La responsabilità

della gestione di un personaggio così pericoloso era dell’imperatore: nel 1519 sacro

romano imperatore era diventato Carlo V, nato nel 1500. Quindi nel 1521 la Dieta convocò

Lutero appena scomunicato a Worms: la Dieta era la riunione dei grandi principi del Sacro

Romano Impero, si riuniva in città diverse e nel 1521 si riunì a Worms. Lì fu convocato

Lutero e davanti all’imperatore, difensore della cattolicità, comparve questo monaco.

Lutero si era aspettato di dover affrontare una discussione davanti alla Dieta, ma gli fu

chiesto solo se avesse scritto certi libri che stavano lì su un tavolo e se fosse disposto a

ritrattare. L’imperatore ventunenne non fece altro che chiedergli di convertirsi, di pentirsi,

di chiedere scusa, di ritrattare quello che aveva detto.

Prigioniero della parola di Dio

A questo invito a ritrattare Lutero rispose con le celebri parole: «Se non sarò convinto

mediante testimonianze delle Scritture e chiare ragioni – poiché non credo né al papa né ai

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 33

concili da soli, poiché è evidente che spesso hanno errato e si sono contraddetti – io resto

convinto dei passi delle Scritture da me citati e la mia coscienza è prigioniera delle parole

di Dio. Perciò non posso né voglio ritrattare, poiché non è sicuro né giusto agire contro

coscienza. Che Dio mi aiuti. Amen».

Questa è la frase che effettivamente segnò lo spartiacque. Compare la parola “coscienza”

e sembra dare inizio all’era moderna dell’uomo singolo che, in forza della propria

coscienza, si oppone all’istituzione e dice: “Non credo né al papa, né ai Concilî da soli;

credo solo alla parola di Dio attestata nelle Scritture”. Lutero dice di non poter ritrattare e

di non voler ritrattare per motivi di coscienza: in pratica fa obiezione di coscienza. Ritiene

la propria coscienza “prigioniera della parola di Dio”. L’uomo libero, di fronte

all’istituzione ecclesiastica, ammette di essere prigioniero della parola di Dio ed è una

immagine potente ed efficace: Io sono legato dalla parola di Dio e quella parola è talmente

importante che segna e determina ogni scelta della mia vita per cui non posso fare

diversamente.

«Qui sto saldo, che Dio mi aiuti» è scritto in tedesco a grandi caratteri nella piazza di

Worms dove c’è la statua del riformatore, la piazza che commemora quell’evento

importante del 1521; da questo momento le cose cambiano, qui c’è veramente rottura.

In risposta, l’imperatore Carlo V pronunciò un importante discorso nel quale espresse le

sue intenzioni. L’imperatore osservò che discendeva da una lunga dinastia di sovrani che

avevano sempre considerato loro dovere difendere la fede cattolica «per la salvezza delle

anime» e che egli aveva lo stesso dovere. L’imperatore sostenne che un singolo frate

errava quando la sua opinione era in contrasto con tutto il cristianesimo degli ultimi mille

anni. Quindi la Dieta di Worms mise al bando Lutero, che doveva essere imprigionato o

addirittura giustiziato, e ordinò ai governanti di sopprimere l’«eresia luterana» con

qualunque mezzo. Ma dal momento che le argomentazioni di Lutero apparvero convincenti

a molti dei principi e delle città, questo ordine non fu eseguito. Alcuni potenti lo difesero e

lo fecero sparire, lo misero al sicuro, lo protessero e da questo momento inizia una nuova

fase.

Nuovi atteggiamenti di Lutero

A partire da questo momento decisivo l’atteggiamento di Martin Lutero non è più

conciliante, né propositivo, non è più meditativo, né legato alla ricerca personale della

verità delle Scritture, ma assume delle connotazioni nuove.

Anzitutto Lutero diventa un divulgatore e la cosa che gli sta soprattutto a cuore è far

conoscere al popolo la parola di Dio, le Scritture, e quindi si impegna nella traduzione

della Bibbia. Era un grande lavoro accademico! Con il consiglio dei professori avevano già

introdotto a Wittenberg la Cattedra di greco e di ebraico per poter leggere le Scritture nella

lingua originale superando quindi il latino, ritornando cioè alle fonti. Adesso questo

desiderio di scoperta della verità biblica si traduce in desiderio di divulgazione. È logico

che il popolo non usi greco ed ebraico, non è interessato a questo archeologismo, ma non

capiva nemmeno il latino e allora diventa necessario far conoscere la Bibbia al popolo

nella lingua parlata. Quindi Lutero stesso, con molti collaboratori, esperti delle lingue

bibliche, intraprende la traduzione della Bibbia in lingua corrente cioè in tedesco. La

stampa, da poco inventata, diventerà uno strumento validissimo per la divulgazione di

queste opere.

Da questo punto di vista dobbiamo quindi riconoscere in Lutero un desiderio

appassionato di far crescere il popolo cristiano nella conoscenza della Scrittura ed è un

vantaggio. Noi oggi siamo in una situazione analoga, sapendo che veniamo da secoli di

ignoranza biblica e questo desiderio di far conoscere le Scritture è riemerso con il Concilio

Vaticano II. Il poter ascoltare nella liturgia la parola di Dio letta nella lingua che tutti

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 34

parliamo e conosciamo facilmente è stato un successo, una riforma che noi cattolici

abbiamo attuato pochi anni fa, ma siamo arrivati a riconoscere che quell’atteggiamento era

corretto. La necessità di ricerca scientifica e di divulgazione, cioè di comunicazione

popolare, era ed è una strada buona, necessaria, da percorrere.

Però, insieme a questo atteggiamento positivo, in Lutero emerge il carattere polemico.

Anche i suoi amici, a cominciare da Melantone, che pure è affezionato a Lutero e lo segue

per tutta la vita, riconoscono in lui un carattere forte e dominante, facilmente irascibile che

aggredisce e ama la polemica. È venuto così fuori il carattere combattivo di quell’uomo.

Da monaco era dominato dalle passioni, ma cercava di reprimere questi istinti, si sentiva

muovere il sangue, si considerava peccatore in quanto pieno di pulsioni anche violente; una

volta liberato da quella struttura religiosa si lascia andare: è un grande capo, un leader che

trascina folle, ha moltissimi discepoli e seguaci, si sente quindi forte e usa tutta la sua forza

combattiva, perciò la polemica diventa il suo pane quotidiano. Succede lo stesso anche

nell’ambito politico: molti leader diventano grandi facendo polemica, criticando gli altri

più che non proponendo le strade da seguire.

In questa direzione Lutero evolve aumentando l’atteggiamento polemico fino a diventare

un duro oppositore del papa; arriva a esagerare. Se prima criticava solo un aspetto

ecclesiastico – la predicazione delle indulgenze – lentamente ha allargato la sua critica a

tante altre realtà. Se ci pensate, è abbastanza semplice: se io comincio a rimproverare una

persona per un aspetto, nel momento in cui litigo con quella persona, non va più bene

niente di quella persona e si tirano fuori tutti i difetti possibili e immaginabili. Se uno

comincia ad aprire il sacco… poi non si ferma più e: “già che te ne ho dette tante, te ne

dico ancora delle altre”, poi mi viene in mente anche qualcos’altro del passato e tiro fuori

tutto. Così purtroppo successe in quegli anni in cui venne veramente demonizzata la Chiesa

Cattolica e ripetutamente Lutero parlò del papa come dell’anticristo: il papato – disse – è

creazione del diavolo, il papa è colui che si oppone a Cristo e quindi bisogna rifiutare e

questa è certamente una esagerazione.

Presa questa strada sbagliata, la si è tenuta per secoli, continuando a ripetere che il papa

è l’anticristo. È logico che da parte cattolica si dicesse che quelli che disprezzano così il

papa sono gravi eretici. Il blocco si era creato, la separazione era inevitabile e per colmare

fossati del genere ci vogliono decenni se non secoli di attività di riconciliazione.

In quegli anni Lutero maturò l’autocoscienza di profeta, cioè finì sempre più per

considerarsi chiamato da Dio come grande profeta della riforma: ha inteso la propria

persona come provvidenziale. Il Signore lo ha chiamato per riformare la Chiesa e lui ha

iniziato a utilizzare un linguaggio apocalittico, escatologico – che circolava in

quell’ambiente e in quel periodo – diventando annunciatore di situazioni negative e di

prospettive di salvezza attraverso una scelta radicale di questa linea evangelica.

Maturando in questa direzione Lutero diventa sempre più pessimista e quindi insiste

sulla peccaminosità dell’uomo, sostenendo che non facciamo niente di bene, mai; l’uomo

non viene salvato, resta sempre cattivo, continua a peccare fortemente, l’unica possibilità

di salvezza è di credere in modo più forte, ma la condizione umana è quella di peccatori,

gravemente peccatori, sempre, comunque.

Verso una riconciliazione ecclesiale

Questa ultima fase, che determinerò lo scontro, è quella che ha creato l’immagine

negativa di Lutero. È invece necessario, per poter dialogare, conoscere tutti i vari aspetti e

fare pulizia dei luoghi comuni unilaterali. La propaganda protestante aveva già fin

dall’inizio presentato il giovane Martin Lutero come l’araldo della riforma evangelica

contro la Chiesa, analogamente il mondo cattolico lo aveva demonizzato fin dall’inizio.

Invece bisogna rivalutare attentamente e in modo onesto le intenzioni e la figura: è quello

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 35

che abbiamo cercato di fare, analizzando come si possa degenerare con delle buone

intenzioni di partenza.

Oggi, dopo quattro secoli di conflitto, l’ultimo secolo è caratterizzato dal dialogo e ci

stiamo avvicinando alla comunione fraterna, cioè alla comprensione vicendevole perché da

parte luterana quell’atteggiamento polemico e oppositore è venuto meno e da parte nostra

cattolica molte istanze che il mondo riformato aveva avanzato le abbiamo accolte.

Uno dei punti fondamentali su cui ci troviamo riconciliati è l’apprezzamento delle sacre

Scritture: tutti i cristiani oggi concordano nel valorizzare la Bibbia e nel ritenere che il

tesoro della Chiesa è il Vangelo di Cristo. È una delle 95 tesi, è una tesi che noi possiamo

tranquillamente accettare e sostenere che effettivamente il tesoro della Chiesa è il Vangelo

di Cristo. Vogliamo quindi dare grande spazio alla predicazione del Vangelo, allo studio,

alla meditazione del Vangelo e di tutta la sacra Scrittura.

L’esagerazione però ha portato ad alcune affermazioni luterane assolute:

Sola Scrittura, sola Fede, sola Grazia, solo Cristo, a Dio solo gloria.

Sono i cinque capisaldi del mondo riformato. Sottolineando quel “solo” con un

atteggiamento esclusivista, rivelano un tono rigido e una posizione fissista: è necessario

invece moderare tono e posizione.

Che solo Cristo sia il Salvatore non c’è dubbio. Siamo perfettamente d’accordo anche

noi: solo Cristo salva. Che la gloria vada a Dio solo siamo d’accordo, non alle creature,

non alle istituzioni. Il cardinal Siri aveva in questo senso un motto episcopale molto

protestante: “Non nobis Domini – Non a noi, Signore” (ma al tuo nome dà gloria). È un

principio luterano: “Soli Deo gloria”, ma era pure un principio della tradizione spirituale

cristiana comune. Anche l’espressione “sola fides” è adoperata da san Tommaso d’Aquino

nell’inno eucaristico Pange lingua: “Se il senso viene meno (et si sensus deficit), per

confermare il cuore sincero (ad firmandum cor sincerum) basta la sola fede (sola fides

sufficit). Forse tanti preti che in passato hanno parlato male di questa idea luterana, cioè

della sola fede, non avevano mai considerato che la formula è tomista e che i cattolici la

cantano da secoli nell’inno di adorazione del Santissimo Sacramento.

Per cui, vedete, assolutizzare una formula è sbagliato. San Tommaso ha inserito la

formula in quell’inno per dire che non possiamo pretendere di dominare, di capire, di

spiegare; per avere certezza è sufficiente la sola fede, basta la fede. Quando in ambito

luterano la usano teologicamente è per dire che per la salvezza è necessaria unicamente la

fede, contrapponendola alle opere; ma già al tempo di Lutero e pochi anni dopo la sua

morte ci furono conflitti fra i suoi discepoli perché alcuni, soprattutto Melantone, sosteneva

che le opere della carità cristiana erano necessarie, ci volevano come conseguenza della

fede. Invece i duri e puri volevano assolutamente che si dicesse “non serve niente”, quindi

il comportamento è inutile, la morale non serve, basta la fede. Questa esagerazione

polemica ha prodotto delle conseguenze negative.

“Sola gratia” vuol dire che Cristo ci salva per grazia, per amore, non per i nostri meriti.

È vero, ma la salvezza, data gratis, ti abilita a vivere bene, quindi come conseguenza della

salvezza è necessario vivere bene, altrimenti non siamo salvi, non siamo resi capaci di una

vita buona.

“Sola Scriptura”

Questo è il punto di partenza, è quell’atteggiamento su cui Lutero si è impuntato: “solo

la Bibbia”. Tutto quello che si fa nella Chiesa deve essere fondato biblicamente, se non è

nella Bibbia non si deve fare. Con questo criterio venne tagliata una infinità di cose, eppure

la Scrittura è fondamento indispensabile.

Come abbiamo visto il conflitto, partito da una controversia su questioni dottrinali

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 36

(indulgenze e penitenza), passò rapidamente a una controversia sull’autorità nella Chiesa.

In casi di conflitto tra autorità diverse, Lutero poteva considerare solo la Scrittura come

giudice di ultima istanza, perché si era dimostrata un’autorità efficace e potente, mentre le

altre autorità traevano semplicemente da essa la loro forza. Perciò Lutero considerava la

Scrittura come il principio primo (primum principium), sul quale tutte le affermazioni

teologiche devono direttamente o indirettamente fondarsi. Come professore, predicatore,

consigliere, egli praticava la teologia come interpretazione coerente e complessa della

Scrittura. Era convinto che i comuni cristiani e i teologi dovessero non solo attenersi alla

Scrittura, ma anche vivere e rimanere in essa. Egli la chiamava «la matrice di Dio nella

quale egli ci concepisce, ci porta in grembo e ci dà alla luce».

Il giusto modo per studiare la teologia, secondo Lutero, è un processo che si compone di

tre fasi: oratio (preghiera), meditatio (meditazione) e tentatio (sofferenza o prova).

Invocando lo Spirito Santo perché sia lui il maestro, si dovrebbe leggere la Scrittura alla

presenza di Dio, in preghiera, e meditando nel contempo sulle parole della Bibbia, si

dovrebbe essere attenti alle situazioni della vita che spesso sembrano contraddire quello

che là viene trovato. Attraverso questo processo, la Scrittura dimostra la sua autorità

vincendo quelle tentazioni. Come disse Lutero, «prestate attenzione al fatto che la forza

della Scrittura sta in questo: che non viene cambiata in colui che la studia, ma che essa

trasforma assimilandolo a sé e alla sua forza colui che la ama». In questo contesto

esperienziale diventa ovvio che una persona non solo interpreta la Scrittura ma viene anche

interpretata da essa, e questo è ciò che dimostra la sua potenza e la sua autorità.

La Scrittura rende testimonianza alla rivelazione di Dio; quindi un teologo dovrebbe

seguire con attenzione il modo in cui la rivelazione di Dio è espressa nei libri biblici

(modus loquendi Scripturae), altrimenti la rivelazione di Dio non sarebbe pienamente

considerata. Le molteplici voci della Scrittura sono integrate in un insieme unitario

mediante il loro riferimento a Gesù Cristo: «Togliete Cristo dalle Scritture, e cos’altro vi

troverete?». In tal modo «quello che insegna Cristo» (was Christum treibet) è il criterio col

quale affrontare il problema della canonicità e dei limiti del canone. È un criterio

sviluppato dalla Scrittura stessa e, in alcuni casi, applicato in maniera critica a libri

particolari, come la Lettera di Giacomo.

Lutero stesso solo di rado usò l’espressione «sola Scriptura». La sua preoccupazione

primaria fu che nulla potesse rivendicare un’autorità più alta della Scrittura, ed egli si

rivoltò con la più grande severità contro chiunque e qualsiasi cosa alterasse o sostituisse le

affermazioni della Scrittura. Ma anche quando asseriva l’autorità della sola Scrittura, egli

non leggeva la Scrittura da sola, ma lo faceva con riferimenti a contesti particolari e in

relazione alle professioni di fede cristologiche e trinitarie della Chiesa antica, che per lui

esprimevano l’intento e il significato della Scrittura. Continuò ad apprendere la Scrittura

attraverso il Piccolo e il Grande catechismo, che egli considerava come brevi sintesi della

Scrittura, e svolse la propria interpretazione facendo riferimento ai padri della Chiesa, in

special modo Agostino. Fece anche ampio uso di altre interpretazioni più antiche e attinse

a tutti gli strumenti disponibili della filologia umanistica. Elaborò la propria interpretazione

della Scrittura in diretto dibattito con le concezioni teologiche del suo tempo e con quelle

delle generazioni precedenti. La sua lettura della Bibbia era basata sul l’esperienza e

praticata coerentemente all’interno della comunità dei credenti.

Secondo Lutero la sacra Scrittura non si contrappone all’intera tradizione, ma solo alle

cosiddette tradizioni umane. Di queste egli dice: «Noi deploriamo le dottrine degli uomini

non perché degli uomini le abbiano pronunciate, ma perché non sono altro che menzogne e

bestemmie contro le Scritture. E le Scritture, benché siano state scritte anch’esse da

uomini, non sono né di uomini né da uomini ma da Dio». Quando Lutero valutava un’altra

autorità, la questione decisiva per lui era se questa autorità oscura la Scrittura o ne coglie il

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 37

messaggio e, in tal modo, lo rende significativo in un particolare contesto. Grazie alla sua

chiarezza esteriore, il significato della Scrittura può essere individuato; grazie alla potenza

dello Spirito Santo, la Scrittura può convincere il cuore umano della propria verità, la

chiarezza interiore della Scrittura. In questo senso la Scrittura è interprete di se stessa.

La Scrittura però è inserita in una tradizione vivente, in una comunità di persone che

dialogano, che vivono e che hanno delle esperienze. Quindi la Chiesa, quando parla di

tradizione, non pensa semplicemente a delle abitudini, ma a tutto il patrimonio della

esperienza che le generazioni che ci hanno preceduto hanno fatto.

Oggi noi cattolici ci troviamo d’accordo con molte posizioni luterane e possiamo

valorizzare alcuni aspetti della tradizione riformata; la loro esperienza ad esempio di

catechismo e di liturgia popolare è un modello positivo. Lutero, è uno dei primi autori di

catechismo, sostenitore del catechismo diffuso presso i bambini. Ha pubblicato il piccolo

catechismo e il grande catechismo, elaborato da lui personalmente: lo fece stampare e

divulgare perché tutti i bambini lo conoscessero. Se lo volete cercare, lo trovate in libreria

e se lo leggete probabilmente non riuscite a trovarvi niente di negativo. A sua volta il

Concilio di Trento elaborò un catechismo proprio per reagire al catechismo che aveva

scritto Lutero. Noi oggi abbiamo l’esigenza di trasmettere il catechismo e di utilizzare dei

metodi per raggiungere le persone, per formare le nuove generazioni, ma questa è una

esigenza che è nata nel 1500, grazie a questa impostazione di riforma. Anche questo è

tradizione. Quindi, di fronte al problema della “sola scrittura”, oggi siamo molto più vicini

di quel che può sembrare.

Unità in una diversità riconciliata

“In questo ambito vi è unità in una diversità riconciliata”. È una bella espressione che è

stata adoperata in alcuni documenti ed è ripresa spesso nei dialoghi ecumenici: diversità

riconciliata. Abbiamo delle sfumature differenti, ci sono ancora dei problemi, delle

differenze sussistono, ma c’è una diversità riconciliata e quello che è importante è

l’atteggiamento dialogico e fraterno. Se dell’altro impariamo ad apprezzare le qualità e a

vedere i pregi, è allora possibile anche che io migliori e che lui corregga quei difetti che

ancora ha.

È stato elaborato qualche anno fa un documento molto bello che vi raccomando. Se

avete un po’ di interesse a questa realtà leggete questo documento, che si può facilmente

trovare in libreria; è intitolato Dal conflitto alla comunione, commemorazione luterano-

cattolica comune della Riforma nell’anno 2017. È un testo scritto da teologi luterani e

cattolici, firmato dal vescovo cattolico di Fulda e dal vescovo luterano di Helsinki. È un

testo semplice e preciso, che racconta la storia e chiarisce la teologia. Queste vicende, che

per sommi capi vi ho raccontato, vengono riprese e vengono sviluppate le motivazioni

delle differenze e delle somiglianze, proponendo la diversità riconciliata nell’unità. È

proprio il cammino che noi dobbiamo fare in questo senso ecumenico, ma anche in tutti gli

altri sensi possibili.

Dobbiamo passare dal conflitto alla comunione. È necessario cioè passare

dall’atteggiamento conflittuale all’atteggiamento comunionale, dalla lotta al dialogo, dalla

reazione contro un nemico all’accoglienza di un fratello. Se matura in noi questo stile, la

Scrittura ha portato effetto, perché la Bibbia non è un oggetto da museo, da studio

archeologico, ma è una parola viva che deve muovere delle persone vive oggi e far nascere

un atteggiamento diverso capace di dialogo, di comunione, di fraternità. Scrittura e

Tradizione servono per farci diventare comunità accoglienti e riconciliate.

In quella visita alla Chiesa luterana di Roma, il 15 novembre 2015, papa Francesco

aveva preparato un discorso che venne pubblicato, ma non lo lesse. Parlò invece a braccio

e concluse il discorso con queste parole:

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C. Doglio – Scrittura e Tradizione 38

A me piace, per finire, quando vedo il Signore servo che serve; mi piace chiedergli

che lui sia il servo dell’unità, che ci aiuti a camminare insieme. Oggi abbiamo pregato

insieme. Pregare insieme, lavorare insieme per i poveri, per i bisognosi, amarsi

insieme con vero amore di fratelli. Ma Padre, siamo diversi perché i nostri libri

dogmatici dicono una cosa e i vostri dicono l’altra. Ma un grande vostro esponente ha

detto una volta che c’è l’ora della diversità riconciliata. Chiediamo oggi questa grazia,

la grazia di questa diversità riconciliata nel Signore, cioè nel Servo di Yahweh, di quel

Dio che è venuto tra noi per servire e non per essere servito.

Anch’io voglio chiudere proprio con questa richiesta al Signore, da fare insieme come

preghiera abituale, come stile della nostra vita cristiana: chiedere la grazia di una diversità

riconciliata, capace di rispettare le diversità che esistono anche fra di noi, le grandi,

molteplici diversità che devono essere riconciliate in una comunione dove tante persone

diverse formano un tutt’uno organico, non una massa retta da un dittatore che veste tutti

allo stesso modo, fa cantare a tutti la stessa canzone e marciare allo stesso ritmo. Questo

non è la Chiesa, la Chiesa è un corpo fatto di tanti pezzi diversi, ma organicamente

coerente e unito.

La Scrittura e la Tradizione ci insegnano, nonostante gli infiniti sbagli che abbiamo

fatto, a valorizzare la diversità e a vivere da riconciliati passando dal conflitto alla

comunione. Facciamolo diventare il nostro desiderio e la nostra preghiera e la celebrazione

di questo quinto centenario dell’inizio della Riforma potrà diventare un’occasione

autentica per riformare la nostra vita e farci passare dal conflitto alla comunione.

Grazie per l’attenzione e auguri di ogni bene!