Considerazioni critiche

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DANILO CARUSO CONSIDERAZIONI CRITICHE

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Saggio di DANILO CARUSO / Palermo, ottobre 2014

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DANILO CARUSO

CONSIDERAZIONI

CRITICHE

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Cogito, ergo sum.

RENÉ DESCARTES

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INTRODUZIONE

n un mio precedente saggio, intitolato “Donne della libertà”, mi richiamai nella premessa al modello delle tappe fenomenologiche hegeliane. Qui voglio rievo-care più concretamente l’articolarsi del percorso dello Spirito assoluto aggre-

gando tre miei studi ciascuno esempio di uno dei suoi stadi dialettici: arte, religio-ne (una via di mezzo tra due livelli: le liturgie sono a loro modo un’estetica della verità), filosofia. In essi – a detta di Hegel – l’Assoluto raggiunge il massimo di conoscenza dopo aver ottenuto la completa libertà come Spirito oggettivo.

Quasi tutti gli esseri umani sono più o meno indaffarati per chiedersi che cosa sia quella “libertà” in cui agiscono o credono di agire.

L’uomo ha avuto fin dai tempi più antichi come esempio nella marcia di progresso nella civilizzazione la natura, ma se guardiamo alla natura non vi trove-remo niente che sia “libero” o “causa di libertà”: tutto segue infatti delle rigorosis-sime leggi (biologiche, fisiche, chimiche), in parole povere le cosiddette “leggi di natura”, per le quali non c’è deroga.

Ciò vuol dire che l’universo è una macchina con i suoi tanti ingranaggi col-legati da necessari nessi di causa-effetto.

Nelle bestie questa “necessità” è impressa dall’istinto. Ma anche l’uomo è biologicamente un animale inquadrato nella natura, quindi se è “libero” non lo è in quanto “animale”.

Se noi affermiamo la libertà d’azione degli esseri umani, dobbiamo conclu-dere che non gli è stata dotata dalla natura sensibile, invece che è inevitabile derivi da un piano spirituale distinto dalla materia.

L’uomo è sì un animale, però è particolare di fronte a tutti gli altri: è munito di ragione, cosa che questi non hanno (appunto non ragionano, non scrivono, non parlano fra di loro). La società umana ha un quid che la differenzia da quelle ani-mali: l’aggregarsi è in natura, ma l’umanità lo fa in forme notevolissime.

L’esercizio della libertà nella nostra società contemporanea è qualcosa che in certi casi può rivelarsi più sfumato e illusorio allorché si agisce in modo quasi inconsapevole.

La causa di questo problema sta nella centralità di sistema effettuale data all’economia, al profitto, all’arricchimento, a scapito degli altri valori.

Il capitalismo sfrenato priva l’uomo della sua libertà nel momento in cui lo induce – come fosse una bestia – a comportamenti mirati: mezzo fondamentale di ciò è la pubblicità. Spesso vengono creati prodotti commerciali senza che ce ne sia effettivo e reale bisogno, poi segue una pressante induzione pubblicitaria che sot-topone il soggetto alla maturazione di un istinto d’omologazione e d’acquisto.

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L’essere umano così trattato non appare tanto libero, diviene un automa spirituale. Quando pensiamo che le moderne tecnologie potrebbero sollevare l’umanità dai suoi principali problemi, e dal posto di essere strumento economico, notiamo che la gerarchia dei valori è quella che pone la ricchezza al primo posto.

La libertà – prerogativa umana che si esercita su un piano spirituale – pro-viene necessariamente da Dio (dato che in natura non esiste) ed è prova di una dimensione metasensibile.

L’uomo automatizzato (sotto vari aspetti) la perde: quando compra una co-sa anche se non gli serve, quando vota o (non vota) senza capire quello che fa, etc.

Sant’Agostino ha detto che Dio non è la causa del male, ne è l’origine: nel senso che avendo creato l’umanità libera le concedeva la possibilità attraverso la libertà di agire male.

L’imbrigliamento dell’uomo è conseguenza di un’ideologia di matrice eco-nomica che suggerisce della libertà un uso distorto per mezzo della riduzione dei soggetti umani al rango esclusivo di “consumatori”.

A questi capita di smarrire l’uso della ragionevolezza; e richiamandoci alle dottrine aristoteliche potremmo definirli dei “moderni schiavi”.

Per Aristotele i presupposti teorici della schiavitù erano scaturenti dal fatto che un individuo ritenuto sotto il profilo della razionalità non sviluppato e non evoluto era uguale a un animale, quindi non appartenente al genere umano.

Naturalmente ciò non vuol dire che chiunque fa la spesa o fa un acquisto è un automa: bisogna soddisfare gli aspetti esistenziali del soggetto (non credo che nessuno, per quanto profonda possa essere la sua visione, rinuncerebbe a compra-re quello che gli serve per vivere).

Quello che occorre è aprire gli occhi a un mondo che è celato da un velo, e-levarsi a un livello di lettura della realtà che emancipi da qualsiasi sirena.

Marx ha scandagliato la problematica capitalistica benissimo, ma i rimedi che il comunismo presentava erano peggiori dei mali che pretendeva di curare.

Il materialismo in sé e per sé è una negazione della libertà umana, come ab-biamo visto: l’uomo è libero in quanto creatura spirituale di Dio, non in quanto cittadino o altro. Noi rispettiamo lo Stato e le sue leggi perché si ispirano all’ordine che governa la natura e l’universo, creazioni di Dio (lo Stato e la fami-glia sono società naturali). La libertà serve per essere veramente liberi e riconosce-re il male. Essa è facoltà dell’anima immortale che rende nello spirito componenti di una comunità universale che è quella delle creature intelligenti di Dio.

La riscoperta della parte più nobile del patrimonio umano, la nascita di un nuovo umanesimo, possono migliorare la società dalle sue radici.

Rimangono sempre vive quelle parole che l’Ulisse dantesco rivolse ai suoi compagni: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza».

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1. IL SIMBOLISMO ESISTENZIALE

DI FRIDA KAHLO

a sensuale artista Frida Kahlo (1907-1954) nacque in Messico al tempo del cambio sociale rivoluzionario antiborghese. Donna di indole energica, sposò – due volte, la prima nel’29 – il famoso muralista Diego Rivera (1886-1957),

un comunista in auge nel panorama culturale di quel Paese latinoamericano (e che poi aiuterà Trotzkij in fuga). Le vicende biografiche di lei e della futura coppia (la colomba e l’elefante, li soprannominò la contrariata cattolica madre della pittrice), alimentate da dolorosi passaggi, hanno elevato la Khalo a emblema di tenace vita-lità. È possibile interpretare l’opera pittorica fridiana usufruendo di strumenti ana-litici provenienti da letteratura e psicologia.

Negli elaborati di Frida ci si imbatte – di più nel cosiddetto “diario” (se e-scludiamo le lettere e altri testi di carattere esclusivamente verbale) – nella presen-za di parole le quali entrano in simbiosi con la rappresentazione, ma si tratta sem-pre di un’immagine complessiva di alta qualità lirica.

In seguito al molto traumatico scontro stradale che la coinvolse la giovane Kahlo (che voleva fare il medico, e che mostrava già interesse alla “vita”) compre-se l’opportunità, prospettatale dal padre fotografo, di esprimere, in potenti figura-zioni, l’universo della sua interiorità provata. Per Frida la pittura costituisce la scelta di un linguaggio immediato agli occhi degli spettatori (un linguaggio co-munque non semplicistico), una forma semiotica tra le basilari della Civiltà occi-dentale (la cui idea dell’essere-delle-cose si lega al “visto”). Definirla una “poetes-sa dell’immagine” è un esito cui sono stato indotto da una serie di considerazioni.

L’accostamento di un paio di miei componimenti poetici (scritti intorno al 2004, quando ancora non mi interessavo di lei) con un suo dipinto (“Ciò che l’acqua mi ha dato”, datato 1938) e una sua annotazione lirica dal diario (dedicata al marito) ha fatto maturare un particolare percorso di lettura estetica all’interno del quale ho potuto cogliere delle tangenze concettuali.

De anima (versi endecasillabi sciolti)

L’anima mia è come un lago:molte sono le cose galleggiantevi, il cielo è la maglia di un ragno: il suo fondo rimane insondato.

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Nel quadro domina la presenza dell’acqua, metafora figurativa di un arché psichico (elemento distintivo del disordine originario adottato da cosmogonie an-tiche). Il significato dell’opera è analogo a quello dei miei versi. La vasca da bagno costituisce il bacino del lago su cui galleggiano i vissuti. Se ne vedono alcuni impor-tanti puntualizzati che riguardano le sfere personale (eros e thanatos), familiare, mondana; colpisce però la “realtà” concreta del piede destro per via del deficit ri-mastole a causa di una – in apparenza – poliomielite infantile (in età adulta nel 1953 metà della gamba le sarà amputata).

Di sicuro lo stile apparirà – nel caso di tutta la produzione kahloista – quel-lo del Surrealismo teorizzato da Breton, il quale apprezzò la pittrice messicana in-cludendola nel novero degli artisti del “surreale”. Ma egli commetteva l’errore, spiegato dalla stessa Frida, di non intuire il senso interiore e reale di un fare arte che del sogno aveva solo l’abito, e per giunta di forte spessore psicologico, dato il legame nella fase elaborativa dei contenuti con le vicissitudini. I problemi alla spi-na dorsale, di cui testimonianza vivissima “La colonna spezzata” del ’44, si acutiz-zeranno nell’ultimo decennio di vita: in detto dipinto ella utilizzò il simbolo di una colonna ionica danneggiata.

L’autenticità della Kahlo, eccellente di per sé (a suo dire i surrealisti cono-sciuti a Parigi nel ’39 erano sgradevoli), rimane infatti insondata sul fondo della va-sca (dove lei si trova). La sua maglia del ragno è l’attrattiva mediante la quale ha in-trappolato gli ammiratori di ogni epoca. Estasi (versi liberi) Magia di un momento, fusione, ricongiungimento cosmico, contemplazione reciproca, chenosi di animi, incrocio di libido. Unus alterae, altera uni. E duobus unum. Dal “diario” di Frida Kahlo Diego, principio Diego, constructor Diego, mi niño

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Diego, mi novio Diego, pintor Diego, mi amante Diego, mi esposo Diego, mi amigo Diego, mi padre Diego, mi madre Diego, mi hijo Diego, yo Diego, universo Diversidad en la unidad ¿Por qué lo llamo Mi Diego? Nunca fue ni será mío. Es de él mismo.

I temi strutturali della lirica al marito muralista li ho in ugual maniera ri-trovati nella mia poesia: il procedere della fusione nel componimento fridiano ha principio con Diego, e continua con una sequenza di determinazioni di tale “sostan-za” a guisa di categorie essenziali del suo essere, sequenza culminante nel ricon-

giungimento cosmico dei versi «Diego, yo / Diego, universo». Un’atmosfera metafisica e mistica circonda tutta questa notazione poetica,

la quale proietta in modo simile al mio verseggiare, alla volta, ma non solo, di un piano di spiritualità filosofica appartenuta al Romanticismo tedesco di Hegel e Schopenhauer: vedasi l’unione di opposti in un terzo attraverso una sintesi e la fuga dall’empirico dell’io che si fa io puro contemplante (non dimentichiamo che il padre di Frida era un Ebreo ungherese cresciuto in Germania).

La a) «Diversidad» b) «en la unidad» è argomento molto complesso rivisto nei miei versi a) «Unus alterae, altera uni» e b) «E duobus unum». Qui essi mo-strano soprattutto un fondo platonico rievocante il mito dell’androgino narrato da Aristofane nel “Simposio”.

Nel fascino esercitato dalla Kahlo risalta prepotentemente la grazia andro-gina. Durante il suo vivere – come reazione alla condotta fedifraga del marito – ella intrattenne rapporti amorosi con uomini e donne (tra costoro il profugo Tro-tzkij, teorico della rivolta proletaria globale, braccato dai sicari di Stalin).

Questo complesso di fattori, a mio avviso, indica in Saffo un’equivalente e-stetico – fatte salve tutte le distanze individuali, culturali e storiche – dell’artista messicana.

I metri artistici saffico e fridiano sono parificabili: le esperienze e l’esistenza sono al centro della loro weiliana attenzione, entrambe rappresentano il proprio sentire. L’“Autoritratto con i capelli tagliati” (1940), risalente al temporaneo peri-

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odo in cui la Kahlo si separò da Rivera, esprime ad esempio la medesima matrice di disagio del frammento 31 (edizione Voigt) che fa percepire nella sua fisiologia il turbamento saffico. Il lesbismo (un cui frutto è “Due nudi nel bosco” del ’51) la ac-comuna ancora alla “decima Musa”, e la Casa azul, nella quale abitò, si trasforma in una sorta di tiaso (vi passarono i citati Breton e Trotzkij).

Addirittura lei stessa richiama Saffo, nel ’49 in un testo critico su Diego, af-fermando che costui avrebbe ottenuto una lieta ospitalità presso l’isola “lesbica”. L’attribuzione a una tipologia di simbolismo esistenziale di tutta l’opera kahloista non pare dunque arbitraria.

Ha invece esagerato tanto chi ha innalzato Frida a un dio, e ne ha fondato persino un culto religioso. Si tratta di un’assurdità la quale non ha niente a che spartire con un approccio serio e ragionevole alla creatività, al pensiero e alla bio-grafia di questa pittrice: l’orientamento politico marxista (negli anni Venti il mari-to la raffigurò in camicia rossa che dà fucili al proletariato sul murale “Distribu-zione delle armi”) e quello religioso ateo-panteista sarebbero stati validi motivi di rifiuto di una cosa del genere. Sembra chiaro in tale fatto ne abbiano distorto la figura, difficile parlare di fraintendimento.

La morte di Frida Kahlo si vela del sospetto di un’eutanasia. Il tema della sofferenza si rivela centrale, ma non esclusivo, nei suoi quadri. La sua esistenza fu la più dinamica possibile nonostante vari aborti, una trentina di interventi chirur-gici (conseguenza dell’incidente quand’era diciottenne) e l’ulteriore ipotesi di una malattia congenita.

L’ultimo lavoro, completato in prossimità della scomparsa, contiene scritto l’emblematico titolo: “VIVA LA VIDA”. Oggi lei appare inoltre un’icona del fem-minismo (a tal proposito si veda “Qualche piccola punzecchiatura”, datato 1935, ispirato da un omicidio), tuttavia sarebbe stata la prima a non gradire l’essere dei-ficata. Si è d’altro canto adoperata, accanto all’individuale catarsi dal malessere (grazie alla sublimazione artistica, di cui exemplum, dopo un penoso aborto spon-taneo, “Henry Ford Hospital” del ’32) per un progetto apologetico del suo ego che definirei di narcisismo scientifico.

Dipingendo la propria grande personalità in non pochi, intensi e significa-tivi autoritratti, la Kahlo ha fatto giustizia nei confronti dei suoi problemi (uno fu il marito che la tradì anche con una sorella).

Di questi “Le due Frida” (1939), dove ella mette in campo uno sdoppiamen-to interiore, è tra i più particolari e belli. Se guardiamo quella foto in cui lei sta alla sinistra del quadro, notiamo un movimento dialettico hegeliano di tesi-antitesi-sintesi; da destra: la Frida amata, la Frida lasciata da Rivera e la Frida reale (pro-venuta dall’esperienza del divorzio).

La scissione, adottante due modelli di abbigliarsi (uno tipico messicano, uno europeo), ne rievoca altresì l’origine mista: il nonno paterno era ungherese,

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quello materno indio (più dettagliata la genealogia nel precedente “I miei nonni, i miei genitori e io”). Il suo narcisismo non ha un valore negativo; forse qualificare la voglia di vivere e di emergere in questa maniera sarà improprio, però nella circo-stanza della Khalo la dimensione estetica risulta visibile, e la sua positività risiede nella vocazione intellettuale.

Spregevole quel narcisismo, utopistico, di chi sul vuoto costruisce velleità di-sarmate: il Narciso del mito era bello, e per i Greci il bello era pure una virtù. Il bello fridiano è una virtù nell’arte e nella vita.

Nella produzione artistica non esiste il brutto, chi asserisce brutto un elabo-rato si contraddice: o quella non è un’opera d’arte (e perciò non è capace di con-durci al bello) o chi giudica rimane vincolato al criterio del “piacevole” senza ele-varsi al comprendere l’artisticità e il bello. Oltre alle mie due piccole tangenze poe-tiche col mondo di Frida, piacevole la scoperta che, come me, indulgesse a giochi verbali (lei nelle lettere) impastando lingue diverse: senza dubbio un sintomo di vivacità mentale.

La stessa che la portò a formarsi una coscienza politica e a militare nelle file comuniste. Il suo desiderio di personale sanità e di benessere universale, in un co-smo che Simone Weil voleva non sistematicamente pervaso dalla Provvidenza di-vina (ma vittima dell’intrinseco meccanicismo), si trasferisce, con quello slancio che la contemporanea filosofa francese vedeva nella paritetica forza evocatrice dell’ideale comunicato al prodotto artistico, in uno degli ultimi dipinti dal provo-catorio titolo, quasi profetico, pieno dell’umano calore che ha l’immagine: “Il mar-xismo guarirà gli infermi”. Alle spalle un volto di Marx, lei gettate le stampelle – in un anticipo di quella che vogliamo credere vera beatitudine – si regge in piedi da sola.

2. L’ORIGINE IDEOLOGICA

DEL CRISTIANESIMO

l Cristianesimo, la religione sorta in concomitanza con la svolta governativa imperiale di Roma, sviluppò le sue radici nel seno dell’Ebraismo alessandrino dopo che l’Egitto e il Vicino Oriente (soprattutto palestinese) avevano perso la

loro indipendenza politica. La precedente, e non a torto – dall’ottica ufficiale giu-I

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daica – deprecata, traduzione in greco antico del Tanak (la cosiddetta “versione dei settanta”) fu l’originaria esperienza a fungere da ponte affinché il gruppo più progressista d’Israele potesse avere accesso alla ricchezza filosofica e scientifica greche. Questi ambienti, la cui capitale culturale era Alessandria d’Egitto, avevano adottato una forma mentis più moderna e più aperta grazie alle opportunità offer-te dalla famosissima biblioteca, depositaria della migliore sapienza antica.

Il ripensamento del Giudaismo operato sotto le categorie dottrinarie prove-nienti dalla Grecità mirava alla costruzione di un pensiero religioso universale, che non fosse dunque rivolto ai soli Ebrei. La loro fede era nata come identificativo di un circoscritto insieme stanziatosi tempo addietro in Palestina.

Costoro vivevano in un orizzonte mentale enoteistico, riservando alla pro-pria nazione il patronato della divinità principale. La corrente ebraica alessandrina abbandonò la via nazionalista, la quale di fronte a Roma non poté altro che racco-gliere un insuccesso finale durante la guerra giudaica (66-70) con la conseguente diaspora. La dialettica dentro a Israele tra progressisti filoromani e integralisti in-dipendentisti ebbe nel I sec. un andamento contemplante la vittoria dei primi e la sconfitta dei secondi.

La potenza dominante, sebbene fosse abbastanza liberale nel settore religio-so (purché non ledessero gli interessi romani nell’amministrazione sul territorio), vincolava all’osservanza e all’ordine, e non poteva tollerare il disegno di un auto-nomo regno israelitico basato su un assetto teocratico totalitario. Il destino di un simile desiderio era chiaro al Giudaismo più avanzato e lungimirante di cultura greca. Il solo campo su cui erano in grado di battere i Romani era quello intellettu-ale, ossia convertendo l’Impero dall’interno e senza far ricorso alla violenza.

La filosofia ebraica di Alessandria (con Filone in testa) volle presentare ai conquistatori qualcosa di non apertamente sovversivo. Quanto questi Giudei fos-sero del tutto consapevoli dell’intenzione di elaborare le fondamenta di un credo universale non è facile coglierlo appieno, infatti a tal proposito (manifestatosi ne-gli sviluppi storici) si anteponeva una strutturale esigenza di sopravvivenza e di inquadramento nello spazio sociopolitico dell’Impero.

I due motivi di sprone (non venire assimilati all’integralismo religioso e-breo di Palestina – e quindi assurgere a nemici del governo costituito – e il tentati-vo di giudaizzare Roma attraverso strumenti culturali greci in segno di rivalsa allo scacco militare) appaiono complementari. Tuttavia accadde che l’Ebraismo orto-dosso sopravvivesse a quest’impresa, quasi fosse coscienza critica della di essa genesi, il che ne comportò il suo totale rigetto.

L’antisemitismo fu la risposta dialettica alla volontà della fede giudaica ri-spettosa delle origini, e pertanto più autentica, di mantenere in qualsiasi modo il tipo di culto e la teologia retaggio del passato. L’obiettivo dei Giudei grecizzati era di tranquillizzare i Romani sulla di loro personale (apparente) innocuità. Ad hoc i

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Vangeli lasciano a Cesare quel che è di Cesare e l’Epistolario paolino addirittura acco-glie e giustifica il provvidenziale status portato dall’Impero. L’accusa di deicidio cadde in pieno sul popolo ebraico, il quale nelle sue organizzazioni estremistiche perseguiva l’indipendenza politica. L’incendio dell’Urbe di epoca neroniana (64) sembra essere stato l’11 settembre di Roma antica: questo cominciò a divampare dalla zona del Circo Massimo, un’area di quartieri non disagiati, accompagnato dalla profezia che avrebbe voluto il crollo del dominio romano allorché la capitale fosse stata distrutta dalle fiamme.

L’ipotesi di un attentato terroristico di messianisti giudei pare alquanto plausibile. Detto messianismo, incentrato sulla figura di un liberatore, che restau-rasse uno Stato israelitico fuori dell’orbita romana, finì letteralmente col suicidarsi all’assedio di Masada (73). A partire dal periodo dei Flavi ai nazionalisti fonda-mentalisti ebrei non rimase che mettersi da parte, dispersi, e aspettare tempi mi-gliori per la rinascita del Sionismo.

I messianisti non sono da confondere coi Cristiani: i primi erano espressio-ne dell’ideologia palestinese reazionaria, i secondi figli di un compromesso della coscienza giudaica maturato in Alessandria d’Egitto al cospetto di allettanti stimo-li intellettuali e del bisogno pratico di adattamento alla propria realtà storica nel Mediterraneo orientale.

Chi ha raccontato nell’antichità quegli avvenimenti creò ad arte il perso-naggio del Nerone incendiario, quando è lo stesso Svetonio (esponente della sto-riografia ostile a questo imperatore in quanto avversario del conservatorismo se-natoriale) ad assolverlo da responsabilità tramite il riconoscimento di meriti nella gestione dell’emergenza.

Del fare di Nerone il mostro distruttore della capitale approfittarono oltre ai nostalgici della vecchia repubblica (imperniata sul Senato, sulla sua classe lati-fondista e sulla centralità italica) anche gli altri cui conveniva che la responsabilità dell’atto distruttivo stesse alla larga da Israele (alla luce di un giudizio migliore, il romanzo “Quo vadis”, quantunque scritto molto dopo, suggella questa tradizione di potenziale distorsione).

La letteratura evangelica si sforzò in tutti i modi di esorcizzare lo spirito di ribellione antiromano, di cancellare il ricordo degli eventi controproducenti grazie a una presumibile modificazione degli inquietanti fatti reali. L’esperienza rivolu-zionaria appare velata, a volte in maniera maldestra, dalla proposta di un’innovativa etica la quale si rivelerà per la società romana più eversiva di una tentata rivolta.

La crisi imperiale risultò il terreno fertile su cui far fiorire il progetto di una religione universale (o cattolica): la fase espansiva si era attenuata, il calo demo-grafico toglieva linfa, il proletariato era in disagio (materiale e spirituale). Queste occasioni prestarono il fianco a un proselitismo che avrebbe cambiato la natura

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dell’Impero (al cui servizio era un’efficiente rete di collegamento stradale attraver-so la quale il Cristianesimo accelerò la sua diffusione).

Successivamente alla resistenza di circa un secolo e mezzo, nel 313 Roma ammise la liceità del culto cristiano, il quale era parecchio antitetico rispetto alla mentalità dei dominatori.

La nuova fede aveva attratto le masse popolari perché garantiva un risa-namento di giustizia sociale nell’aldilà e una beata vita eterna in premio ai merite-voli, mentre una speculare punizione sarebbe toccata ai malvagi. Niente di simile si era sentito prima, fatta riserva per la filosofia platonica. L’autarchia suggerita dai cinici era stata l’isola di rifugio mentale prediletta dalle classi più povere.

Adesso, grazie al Cristianesimo, era possibile pensare qualcosa di meglio a garanzia dell’eventuale riscatto dei torti e delle avversità subiti. Ciò finì per spo-stare il baricentro ideologico della concezione esistenziale romana dalla vita mon-dana all’attesa del paradiso. La civiltà grecoromana giocava la vita hic et nunc, la dimensione post mortem non era carica dei valori datile dai Cristiani, valori così invitanti agli occhi di coloro che aspiravano alla felicità.

Il Cristianesimo non coinvolse solo ceti bassi, affascinò pure gli istruiti. Ri-guardo al popolo il passaggio dal paganesimo a un credo universalista fu agevola-to dal fatto che l’opera di edificazione del Cattolicesimo badò al mantenimento di schemi devozionali e teologici aviti allo scopo di consentire un’adesione non traumatica all’adepto nel corso del cambiamento e di consentirgli di vedere parte della sostanza delle vecchie religioni nel moderno culto.

Allora successe che al politeismo si sostituissero i santi, o che la Madonna e Cristo palesassero analogie con Iside e Osiride, e così via, come per la venerazione di immagini sacre. In rapporto alla teologia e alla morale evangelica sono evidenti, come ben constatò Simone Weil tramite argomenti – da differente punto di vista – rilevanti anticipazioni del Cristianesimo nella cultura Greca antica, i portati ap-punto della Grecità nel sistema dottrinario cattolico.

La raffinatezza intellettuale del monoteismo congiunta a un’etica dell’amore attirò le simpatie dei ceti colti. Un messaggio universale di fratellanza non poteva lasciare insensibili molti.

Emerge però che tale novità non era il prodotto dell’Ebraismo, bensì della civiltà greca colto e teorizzato in modo nitido la prima volta da Giudei grecizzati. E non è un caso che la Weil ponesse Romani ed Ebrei sul medesimo piano negati-vo di valutazione storica e spirituale. Il Cristianesimo libero impiegò non molto a diventare l’unico credo legale (editto di Teodosio, 391): le altre forme di religiosità furono bandite, e i cristiani da perseguitati politici si erano tramutati in persecuto-ri religiosi.

Il popolare ideale di una felicità ultraterrena destabilizzava la pedagogia classica dell’impegno sociale, demoliva gli incoraggiamenti verso un’attitudine

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eroica a beneficio di Roma, in pratica polverizzava il mos maiorum già di per sé in difficoltà. Le persecuzioni a danno dei Cristiani furono la fisiologica risposta nei confronti di coloro che con la loro obiezione allo Stato e la predicazione di conse-guenza sovvertitrice turbavano da fanatici la res publica e l’impianto educativo: costoro sostituivano agli eroi di guerra i martiri della fede.

In una società per vari tratti cristianizzata la religione unica fu adottata dall’Impero nel tentativo di salvarsi dai suoi mali: un solo credo avrebbe dovuto cementare l’unità collettiva in un rinvigorito blocco statale (magari rilanciandolo nella sua missione di espansione portatrice di civiltà).

Sennonché ciò non ebbe luogo, anzi pagani e Giudei furono presi di mira, l’Impero s’indebolì definitivamente e crollò lasciando un vuoto in Europa colmato dalla Cristianità medievale.

La storiografia che fa iniziare il Medio Evo dall’editto di tolleranza di Co-stantino forse non sbaglia: proprio allora iniziò quel periodo di metamorfosi in re-gime totalitario del Cristianesimo.

È sempre Simone Weil a ricordare che il modello del totalitarismo fu intro-dotto nella storia europea dalla Chiesa cattolica. Il Cattolicesimo aveva appreso infatti da Israele lo schema statale teocratico, aggiungendoci la tendenza al potere secolare, di cui la “falsa donazione di Costantino” è clamorosa conferma.

I Cristiani trascinarono con sé inoltre deleteri pregiudizi di matrice ebraica: la misoginia, l’omofobia, l’avversione al progresso scientifico. La caccia alle stre-ghe, agli omosessuali, ai credenti in dottrine diverse (in maniera particolare se contestatrici del Cattolicesimo ufficiale) sono indici di una visione non ancora ma-tura. La strategia di sfruttare e coltivare l’ignoranza comune aveva una base nella narrazione di Genesi a proposito del cosiddetto peccato originale.

Il racconto parla di un divieto e di due alberi. Quello della conoscenza del bene e del male simboleggia l’etica autonoma, quello della vita la scienza. Il ser-pente raffigura la medicina.

All’uomo è vietato acquisire da sé consapevolezza delle cose negative poi-ché sarebbe morto se avesse saputo come procurarsi la morte attraverso il guada-gno della possibilità di uccidere.

Nel Tanak ogni vivente è soggetto a morte, non esiste una nozione di im-mortalità, e l’ulteriore mangiare dall’albero della vita avrebbe spodestato la casta sacerdotale – compromettendone la morale eteronoma e la presunta capacità di provvidenziale agire – dalla prerogativa di rappresentare e interpretare il divino in terra.

La scienza e la ragione mettono in secondo piano le religioni e i loro rap-presentanti nel rapporto di mediazione tra Dio e l’essere umano. L’Ebraismo ales-sandrino aveva scelto di avvalersi della filosofia greca, dalla quale i pensatori cri-stiani prenderanno i mattoni dell’impalcatura teologica.

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L’idea di un’anima immortale è di Platone, non proviene dal mondo giu-daico, nel quale riguardo all’etica c’è poco di “evangelico” (fenomeno notato non solamente dalla Weil che rintraccia il concetto di compassione già nell’Iliade).

Per via dell’assenza di un evidente spirito neotestamentario nel Tanak, il Vecchio Testamento ebbe alcuni momentanei problemi a essere inserito nel canone cattolico delle Sacre Scritture: non tutti lo accoglievano di buon grado, e non tutti ritenevano il Dio veterotestamentario (non appieno amorevole) lo stesso del Nuo-vo Testamento.

La distruzione dell’umanità col diluvio e i casi di Abramo e Giobbe (esem-plari di un ossequio perfetto fino alla richiesta di un omicidio e alla sottomissione alla sofferenza) ne sono alcune prove. Il sentimento dell’adesione alla sofferenza umana e la speranza nell’aiuto divino hanno coabitato nella riflessione cristiana con diversi lati oscuri: la teoria di guerra santa, giusta davanti agli ideali della fede fu nei secoli svariate volte promossa, però mal si concilia – assieme agli altri mali – a una visione di amore universale.

Nei suoi studi teologici giovanili Hegel comprese la dinamica di mediazio-ne tra la religiosità giudea e il pensiero greco – curata da personalità come Filone di Alessandria – durante la gestazione del Cristianesimo, che a sua volta rilevò un problema nevralgico lasciato ancora insoluto dai Greci: il tema della morte del giusto apertosi in seguito alla condanna di Socrate.

La letteratura evangelica affrontò, tra l’altro, lo svolgimento di una soluzio-ne trattando della vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo: il giusto non può mo-rire, non deve morire, Dio lo salva e lo accoglie. Questo è l’apice di quel profondo confronto di idee. Ciò nonostante l’Impero romano non riuscì a scampare dal suo futuro di declino.

Tramite lo stoicismo, contenuti del quale confluirono nell’ideologia cristia-na (di nuovo Simone Weil li evidenzia), i Romani avevano avuto in comune con gli Ebrei l’etica del dovere, attiva nel costume semitico. Il fondatore della filosofia stoica, Zenone di Cizio, l’aveva laicizzata, e Roma l’aveva adottata a sostegno del-la sua politica.

Il dovere del cittadino romano era un comandamento laico paragonabile nella forma agli obblighi di un Giudeo nei confronti di Dio. L’esperimento del Cri-stianesimo assorto a religione unica e totalizzante (un Dio – uno Stato – un popo-lo) schiacciò la laicità dell’imperativo morale e mutò il volto della sovranità stata-le. Dato che nessun cristiano poteva servire due padroni, il vecchio Stato – precedente dio-in-terra – fu scavalcato nelle importanze dell’esistenza e si dissolse sotto le pressioni barbariche; viceversa la Cristianità perdurò integra in funzione di egida unificante, sin quando le dispute dottrinarie cominciarono a dividerla e a fare dell’Europa un insanguinato campo di contese religiose alimentate dal sonno della ragione.

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3. ELEMENTI DI GIUSNATURALISMO 3.1. SULL’ANTISPECISMO

i racconta che (in questo imitando i giainisti orientali) Giordano Bruno, du-rante un periodo di detenzione, invitasse un suo compagno di prigionia a non uccidere un ragno perché, credendo nella trasmigrazione delle anime,

sosteneva che un corpo animale potesse ospitarne una: perciò, anche se indiretta-mente, si collocava in una corrente di pensiero di tangenza antispecista.

L’antispecismo è oggi una posizione sostenuta da alcuni vegetariani radica-li (veganisti) che richiedono il riconoscimento di diritti umani a tutto il resto del mondo animale, in primis quello alla vita. Per quanto concerne il veganismo chi-unque è libero di scegliere la sua alimentazione (nella speranza che sia completa e sufficiente). Riguardo all’antispecismo l’equiparazione più o meno assoluta degli esseri senzienti sullo stesso piano del diritto non è valida: 1) la ragione ci differenzia dagli animali (questi non hanno forme di comunicazione così evolute e complesse come le nostre da dar vita a un consorzio sociale); 2) l’uomo ha grazie alle mani – cosa nell’antichità già sottolineata da Galeno – un primato pratico-artigianale unico che lo distingue ulteriormente da chi ha arti (zampe) incapaci di costruire oggetti complessi (manufatti); 3) le bestie fra di loro per nutrirsi si uccidono (ciò è nella natura: non si vede il mo-tivo per cui l’uomo non debba adeguarsi a questa legge).

Tradizionalmente da secoli si mangia carne bovina, ovina, suina, etc. Non dovrebbe piacere invece che si mangi carne di cavallo perché per millenni ha ser-vito l’umanità nobilmente. D’accordo che gli animali, esseri sensibili, vadano tute-lati tra i viventi, e che certo tipo di loro inserimento nella produzione (alimentare e lavorativa) li maltratti e li sfrutti, pare però evidente, d’altro canto, che l’uomo sia al vertice della piramide ontologico-naturale e che abbia quel ruolo guida, similare ai filosofi-governanti della repubblica platonica, su tutto il resto.

Se il bue tira l’aratro, il muratore costruisce la casa: ognuno dà il suo contri-buto, né il bue è contadino, né il muratore è architetto. Va bene che l’architetto non mangia il muratore, tuttavia chiamare “necrofagia” il cibarsi di carni animali è i-perbolico: sin dalla preistoria l’uomo ha cacciato le bestie similmente a quanto queste facevano con i propri simili.

È comprensibile e rispettabile il riguardo per “l’essere” in tutte le sue forme animate, ciò nonostante è razionalmente e naturalmente (avverbi sinonimi) lecito uccidere, senza far soffrire, alcuni animali per nutrirsene. Ciò non è primitivo, ma inserito nell’ordine della realtà. In tutti i confronti normali emerge un pensiero preponderante: non interessa in primis andare a uccidere gli animali per mangiar-

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li, la preoccupazione è che le carenze alimentari possano compromettere la salute umana. Un leone non ci “penserebbe” due volte a cibarsi di noi: è possibile ucci-derlo per legittima difesa?

Nel modo in cui lui non diventa vegetariano – e probabilmente avrebbe problemi salutistici – è lecito all’uomo rimanere carnivoro per questioni di ap-provvigionamento nutrizionale? Una diversa visione dell’argomento è idealmente condivisibile, però si scontra immediatamente con aspetti di pragmatismo: la na-tura stessa ha insegnato a consumare carne. Ammettiamo la possibilità di un cam-biamento purché ci siano le debite garanzie e questo atteggiamento di sensibilità venga accolto da una maggioranza.

Il rapporto umano col mondo animale dev’essere impostato alla collabora-zione per la comune sopravvivenza: noi daremmo solo prodotti vegetali alle be-stie? E se ciò non bastasse, le faremmo morire? Parlando di piramide socionaturale non si allude a una dittatura: se ci fossero altri animali al nostro posto forse fini-rebbe come nel film “Il pianeta delle scimmie”, le parti si invertirebbero. Nella na-tura è un ordine, non un insieme caotico in evoluzione.

I valori si desumono dal diritto naturale, e questo non rende l’esistenza a-nimale inferiore: l’uomo è soprattutto un’altra cosa, un essere intellettualmente e spiritualmente più complesso e completo con abilità manuali nettamente superio-ri. Nella mentalità ci potrebbe essere quella evoluzione auspicata. Il tema della sof-ferenza è un tema universale, anche le piante soffrono e muoiono, non per questo rinunceremmo a segare alberi da legna. La società capitalista avanzata non ha ri-guardo né tutela per la natura. Una parte di flora e di fauna serve in ogni caso an-cora oggi per sopravvivere. Non è da escludere che in futuro gli uomini possano fare a meno di danneggiare l’ambiente e di uccidere gli animali.

Quello stesso che gli antispecisti sostengono è un segno particolare di di-stinzione tra la sfera umana e la sfera animale. Costoro pongono l’accento sul con-cetto di esistenza in maniera estensiva raggruppando tutti gli esseri animati senza grado, mentre è proprio l’aspetto intensivo a costituire la discriminante di base (mors tua vita mea). Non si danno specie all’interno della razza umana, dove i con-notati somatici non indicano una misura differente di partecipazione alla ragione. 3.2. IL PRIMATO INVIOLABILE DELLA PERSONA

i è completato in Argentina nel maggio 2012 l’iter parlamentare di una legge che ha sancito il diritto del malato grave (e in caso di sua incapacità a deter-minare con piena facoltà, per suo conto, dei familiari o di altri soggetti rico-

nosciuti) a rinunziare a qualsiasi forma artificiale di sostegno sanitario alle funzio-ni biologiche vitali dell’organismo laddove questo non offra motivo di recupero o

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non sia attuato in un contesto che abbia speranza di positivi cambiamenti (non è concesso ai medici causare direttamente il decesso del paziente in alcun modo: eu-tanasia attiva). In Italia, dove il vuoto legislativo crea ambiguità e confusione sul tema dell’applicabilità del testamento biologico (che stabilirebbe l’inderogabile vo-lontà personale in merito), quando i dibattiti di cronaca si soffermano, metteno in evidenza l’opposizione radicale tra due schieramenti.

Uno è quello del pensiero che si richiama alla dottrina della Chiesa cattoli-ca, assolutamente contrario a tutti i tipi di morte dignitosa, l’altro è quello laico che riafferma un diritto universale di ogni individuo: la libertà di decidere matura-mente di ciò che riguarda la propria persona. È comprensibile perfettamente l’insegnamento di natura religiosa che vorrebbe la difesa della vita a tutti i costi, ma non è parimenti possibile nello spazio pubblico poter introdurre delle norme che contraddicano il diritto di natura.

È pienamente lecito che la Chiesa esplichi il suo magistero senza essere o-stacolata in ciò, ma il diritto all’eutanasia esula come normativa dalla religione: se un ammalato vuole porre fine alla propria esistenza deve essere libero di farlo come possibilità concessa dalle leggi, nessuno può negargli quel diritto senza ne-gargli la piena sovranità nell’ambito della propria persona e così distruggere la sua libertà.

Costui non può essere condannato da un altro principio – che tutti condivi-diamo, del valore della vita – a una sofferenza a oltranza: sia libero di scegliere se-condo coscienza. La liceità non comporta che tutti se ne avvalgano, ma che siano liberi di potervi accedere. Nel rispetto della libertà del sofferente può radicarsi il messaggio della Chiesa, che non è messaggio normativo, ma messaggio di fede e di spiritualità non vincolante lo Stato nella sua legislazione. Lo Stato deve tutelare i diritti naturali del cittadino lasciandolo libero di compiere la sua scelta, che egli compie secondo le sue credenze (di qualsiasi sorta esse siano).

Il caso dell’eutanasia è molto delicato: se questa non deve essere praticata non lo dovrebbe a un divieto di carattere giuridico, che sarebbe innaturale, lo do-vrebbe a una consapevolezza di fede o di convinzione diversa che rispetti pur sempre la volontà del sofferente. Costui sia posto nelle condizioni di scegliere, e quindi lo faccia preferendo la via che gli sembra migliore. Il cardinale Carlo Maria Martini si era espresso anni addietro contro l’accanimento terapeutico, e la manca-ta somministrazione di farmaci a un malato incurabile sarebbe un’eutanasia passi-va. Alcuni sacerdoti sono a essa favorevoli.

La proposta del cardinale Martini non fu insensata o anticristiana, è il mas-simo che nel contesto del magistero cattolico si potrebbe concedere. Però al di fuo-ri della sfera religiosa lo Stato dovrebbe render ammissibile la facoltà di un sogget-to che versa in gravissimo disagio per malattia di porre fine alla propria vita se lo vuole e come lo vuole: anche con causa esterna diretta e non solo naturalmente

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sospendendo la terapia. Permettere questo è un atto di umanità, anche nella sua controversia e nella sua paradossale ragionevolezza, impedirlo sembra più inu-mano di tanti altri ragionamenti.

Il magistero cattolico parla della vita come un valore assoluto, però questo assolutismo non può calarsi automaticamente in una realtà imperfetta senza ap-punto cozzare contro alcuni problemi come vediamo. La realtà quotidiana è il luogo in cui non tutti hanno gli stessi ideali, e dove non è lecito imporre modelli totalitari. Di fronte a tutte le disparate posizioni va concesso ciò che è possibile ammettere in linea con lo ius naturae. L’errore assolutistico è, per dare un esempio nella dimensione della res publica, compiuto allorquando lo Stato consente l’aborto senza fare una rigida distinzione di casi.

Due concetti come l’eutanasia e l’aborto, totalmente osteggiati o sostenuti, nella quotidianità dovrebbero essere rivisti in modo elastico adattandoli al concreto e tenendo sempre presenti i principi universali che ispirano le nostre azioni. L’interruzione di gravidanza sempre possibile contraddice il valore della vita at-traverso questo suo assolutismo pratico. Si sbaglia ancora a negarla completamen-te come diritto e a renderla d’altro canto, per così dire, liberalizzata: nessuna delle due concezioni si adegua al mondo.

La prima perché trascura una varietà di casi, come nell’eutanasia, da rende-re ammissibili; la seconda perché seppellisce completamente il diritto alla vita dell’embrione che dovrebbe avere uno statuto giuridico di persona in potenza. Non è una buona cosa o tutto sì o tutto no: in tutti i casi di gravidanze normali l’aborto voluto è una prassi innaturale e non dovrebbe essere legale (per prevenirle ci sono i sistemi contraccettivi, lo Stato al posto di fare una legge non perfetta avrebbe do-vuto e dovrebbe educare il cittadino a conoscerli e inoltre sanare situazioni o pre-testi di disagio socioeconomico); casi in cui l’interruzione di una gestazione po-trebbe essere consentita sono quelli ragionevoli in cui si demanderebbe ai soggetti interessati (o nell’eventualità di impedimento a chi stabilito dalla legge) la risolu-zione di un conflitto etico: 1) rischio di pericoli per la gestante (che sia libera di scegliere); 2) rischio di un’esistenza gravemente disagiata per il nascituro (che scelgano i ge-nitori); 3) gravidanze conseguenza di atti di violenza. In questi casi nessuno dovrebbe sindacare delle altrui decisioni: chiunque le prenderà come crede.

La possibilità è libertà: chi rifiuta l’aborto terapeutico e l’eutanasia non ri-vendicherà questi diritti e non li metterà in atto. Nel caso dell’aborto non sarebbe possibile generalizzarlo al di fuori di quei circoscritti casi previsti. Le leggi do-vrebbero scaturire come migliore mediazione – che non è relativismo – tra le esi-genze dell’universale e del pratico: questo non accade in ogni caso. Alla Chiesa è demandata la materia della morale di carattere religioso, lo Stato è il contenitore di

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tutti nel mondo d’ogni giorno (e non tutti questi sono cattolici): da ciò proviene questa dicotomia laico/religioso, che deve essere mediata sapientemente nel ri-spetto di tutte le posizioni fatti salvi i diritti della persona.

Allo Stato compete un altro piano in cui il cittadino opera e dove si dovreb-be prendere cura di lui senza essere concorrenziale con la dimensione spirituale che rimane, nella sostanza, un fatto di carattere singolarmente intimo (il che non significa non riconoscere e non rispettare la manifestazione esteriore e pubblica di una qualsiasi religiosità che rispetti i valori universali dell’uomo). 3.3. LA FINESTRA SBAGLIATA

d aprile del 2010, per la prima volta in Italia, è stato celebrato religiosamen-te, in una chiesa valdese di Trapani, uno sposalizio tra due donne lesbiche. Nel giugno 2011 lo Stato di New York (componente di questa particolare

serie iniziata nel 2001 dall’Olanda) ha emanato una legge (marriage equality act) che consente il matrimonio civile tra soggetti del medesimo sesso.

In Italia il disegno di legge Bindi-Pollastrini del 2007, che non arrivò a esse-re approvato dal Parlamento, per il riconoscimento giuridico delle cosiddette u-

nioni di fatto, intendeva dare soddisfazione a uno stato di disagio in cui per una lacuna legislativa è possibile che incorrano i soggetti che vi si trovano coinvolti.

Lo Stato non può non prendere atto di tali situazioni in cui due o più indi-vidui non legati da strettissimi legami di parentela naturale si trovano a convivere al fine di un mutuo sostegno. È lecito e legittimo disciplinare una casistica di pos-sibili casi che partano esclusivamente dal fenomeno della convivenza costante, che, poiché non può essere trascurato nella sua rilevanza fattuale dalle istituzioni (che regolano il vivere societario) merita un’attenzione che lo ponga all’interno di norme precise per chiarire diritti e doveri di tali cittadini.

Costoro sono inseriti in questo contesto di fatto: negarlo è illecito, e vorreb-be dire trascurare agli occhi del diritto una forma associativa. Qualsiasi associa-zione deve vivere in società essendo riconosciuta e riconoscibile, in armonia nor-mativa con tutto il resto del consorzio sociale in cui si presenta.

Il progetto di legge dell’allora governo Prodi era però parziale in tali aspet-ti: parlava solamente delle coppie legate da vincoli sentimentali. Il motivo sarebbe stato nel voler dare accoglimento alla richiesta di legalizzare in qualche modo le unioni omosex. Non si possono negare a degli associati conviventi diritti e doveri, nonostante ciò questo non può maturare sulla base del comportamento sessuale: l’essere omosessuali non è fonte di riconoscimento giuridico. Ciò è dimostrato sto-ricamente. Nell’antica Grecia, dove l’omosessualità era considerata sotto il profilo antropologico normale, nessuno pensò di elevare questi legami al rango di qualco-

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sa dotato di diritti e doveri. Le inclinazioni sessuali fanno parte della sfera del pri-vato, nella quale lo Stato non deve entrare, e da cui per il resto i contenuti non de-vono essere pubblici perché appunto attinenti a una dimensione che non lo è.

Il matrimonio legittimo è giuridicamente disciplinato per il fatto che contri-buisce alla crescita del corpo sociale: se dalle unioni eterosessuali non ci fosse la facoltà di nascita dei figli anche questo farebbe parte delle cose di carattere inte-gralmente privato. Ma qui lo Stato non prende atto della situazione partendo da un riconoscimento di fattori sessuali; nel matrimonio normale lo Stato tutela i co-niugi poiché possono avere dei figli, e di questa eventualità ne coglie gli aspetti sociali (l’impotentia cöeundi è fattore annullante).

Da coppie gay è biologicamente impossibile che nascano dei figli, quindi anche sul piano del diritto naturale dette unioni non sono giuridicamente rilevanti sotto gli aspetti della sessualità. Gli omosessuali sono liberi nel loro privato di te-nere la condotta che vogliono; nessuno, né tanto meno lo Stato, può condannarli o discriminarli.

Le legislazioni contro di loro partono anch’esse da principi non naturali: è naturale e ragionevole che un cittadino abbia la libertà nel suo massimo grado le-cito consentito nella società dalle leggi giuste, e nel suo privato, a maggior ragione, dove lo regolano le proprie scelte di vita: quando queste ledono la società nella sua interezza costui compie un reato; l’inclinazione all’omosessualità non è un rea-to. Lo Stato deve essere sanamente aconfessionale e interprete del diritto di natu-ra. Per questo motivo i Greci antichi né la condannarono né la legittimarono, ma la lasciarono al di fuori delle cose pubbliche, mantenendola sul piano pedagogico in uno schema culturale più ristretto (senza dimenticare però che essa era più gene-ralizzata e diffusa).

Il disegno di legge che parlava di coppie usava impropriamente alcuni ter-mini, soprattutto nel definirle costituite da persone unite da legami sentimentali: è ammissibile dare legittimazione solamente all’associazione in quanto tale (quelle con più di due componenti non rientravano nella disciplina dei casi previsti e ne restavano fuori). Andava preferibilmente riconosciuta qualsiasi forma aggregativa stabile che al momento non avesse avuto accoglimento in un sistema di diritti e doveri dei componenti.

Alla coppia eterosessuale in questo quadro era assegnato un matrimonio civile di serie B, e il motivo è chiarissimo: senza definirlo matrimonio un tale stato di unione eterosessuale era parificato a quello omosessuale: calava di grado il ma-trimonio civile e gli si avvicinava l’unione omosessuale (il che avrebbe voluto at-traverso questo espediente creare una certa uguaglianza). Ma, con tutto il rispetto, la coppia gay non potrà mai avere uguaglianza biologica con una eterosessuale (per i motivi che sono già stati detti); ragion per cui questo incontro formale a me-tà strada tra due realtà differenti era puramente artificioso. In parecchi avevano

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protestato in difesa dei principi della famiglia tradizionale riconosciuta dal diritto di natura. Questo è il non plus ultra dei ragionamenti giuridici per tutti: sia per chi lo interpreta come ordine dato da Dio alla natura e alla realtà sociale, sia per chi lo vede come contenuto dato dalla pura ragione nell’esercizio spontaneo delle sue prerogative. Su questo piano tutti gli esseri umani devono necessariamente ritro-varsi; il modo in cui ne giustificano l’origine non è tanto pertinente agli argomenti discussi, ma che il diritto naturale sia universalmente rispettato da tutti è necessa-rio (pena l’esclusione dalla civiltà). Le varie morali d’ispirazione confessionale ve-dono e trattano la realtà in modi diversi: perciò si discute il tema in maniera libera, unicamente in termini di antropologia e di razionalità.

Nessun liberale avrebbe probabilmente difficoltà ad accettare delle norme per il riconoscimento di diritti e doveri anche di coppie omosessuali nel momento in cui queste siano inserite in una cornice legislativa più ampia che raccolga tutta la casistica associativa, senza parlare di persone (etero o omosex) unite da vincoli affettivi. Tre che convivono non sono una coppia, tuttavia convivono: meritano ugualmente attenzione.

Era preferibile non parlare di coppie, ma solamente di “associazioni” dal numero di componenti indefinito: pure una casa di accoglienza per anziani sareb-be potuta rientrare in questa tipologia associativa, per fare un esempio. Su più grande scala occorreva individuare i vari casi da riconoscere davanti alla legge: passando sì da questa “finestra” le unioni di omosessuali (giuridicamente spoglia-te degli aspetti sessuali accidentali) potevano essere accolte più serenamente. Non va trascurato che la legittimazione dell’unione eterosessuale di fatto non interes-sava molto agli individui in essa coinvolti perché già avevano la possibilità del matrimonio civile se volevano regolarizzare la propria posizione, e poi perché scelgono la convivenza per il fatto stesso di non gradire vincoli giuridici. Una pro-spettiva nuova che si potrebbe offrire, e non esclusivamente agli anziani, è quella di varare in Italia una legge per associazioni di mutuo sostegno.

Vale a dire tramite essa dare l’opportunità ai cittadini di unirsi, con forma contrattuale, in nuclei che abbiano lo scopo di garantire e fornire un aiuto recipro-co tra i componenti. Questi naturalmente avrebbero la medesima residenza. I gruppi di reciproca assistenza sarebbero composti da una pluralità di soggetti (an-che più di due, e di qualsiasi sesso); i loro membri verrebbero equiparati di fronte alla legge a congiunti di primo grado (a meno che non vi sia esplicito accordo per rispettare l’esistenza di gradi naturali). Perciò per esempio avrebbero dopo un numero di anni predefinito: 1) diritto alla pensione di reversibilità; 2) diritto a ereditare.

Queste aggregazioni non sarebbero giuridicamente equiparabili alla fami-glia normale (vi potrebbe essere qualche circostanza d’eccezione). Nessuno avreb-

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be facoltà di associarsi se non compiuta la maggiore età (nell’ipotesi di minorenni potrebbe altrimenti decidere chi ne abbia la potestà): un’adozione stricto sensu non sarebbe possibile, l’ingresso di minori dovrebbe essere approvato comunque da un organo statale. I nati in un simile consorzio sarebbero componenti di diritto.

A tutela di questi, e di eventuali minorenni associati in un secondo momen-to della loro vita, lo Stato potrebbe decidere, assecondando il loro sano e naturale sviluppo, un tipo di affidamento (adozione o accoglienza in strutture apposite). Questo schema associativo darebbe sistemazione a particolari legami (che non verrebbero disciplinati come tali ma obliquo modo): 1) coppie eterosessuali non sposate civilmente; 2) coppie omosessuali; 3) poligamia islamica.

Alcuni in relazione a questi ultimi aspetti giudicheranno il progetto delle associazioni di mutuo sostegno contraddittorio e moralmente dannoso quando in re-altà non lo è: 1) chi non è sposato e convive more uxorio non è obbligato se non vuole a sposarsi, tuttavia né la coppia né eventuali figli dovrebbero rimanere illegittimi; 2) allo stesso modo per i gay: lo Stato non può promuovere né riconoscere unioni omosessuali, a esso non interessa in questa materia l’orientamento sessuale, conta solo l’associazione (nella specifica situazione e in tutte le altre, fin quando qualco-sa non si tramuti in reato).

Questo espediente sarebbe la via di mezzo tra due estremi: la legge argentina del 2010 che legalizza i matrimoni gay – con la modifica del codice civile – equipa-randoli a quelli eterosessuali (e consente quindi le adozioni), e le vigenti legisla-zioni di Paesi afroasiatici a danno degli omosessuali (in alcuni casi condannabili alla pena di morte o all’ergastolo). 3) Ugualmente nei confronti di cittadini islamici con più mogli non c’è motivo ra-zionale di pregiudizio a loro sfavore (basta ricordare che il diritto greco-antico e quello romano prevedevano il concubinato): questa forma d’inquadramento – che non è concubinato – sanerebbe la loro posizione rimuovendo un ostacolo nella ri-duzione della distanza tra culture diverse.

Il matrimonio monogamico resterebbe l’unico riconosciuto e tutelato pub-blicamente, ciò nonostante se uno vuol convivere con più donne si tratta di fatti privati in cui lo Stato non può intromettersi se non maturano in tale contesto dei crimini.

La legge istitutiva delle associazioni di mutuo sostegno sarebbe conforme al diritto di natura.

Va compreso che nel mondo non esiste solamente l’Occidente cristiano (cat-tolico, ortodosso, protestante) e che il valore della libertà è uno dei diritti inaliena-bili dell’essere umano.

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3.4. STATO E RELIGIONI

a sfera pubblica e quella religiosa interagiscono nel singolo individuo e so-cialmente. L’uomo è un essere che per sua natura si associa in forme stabili: lo Stato e la famiglia. Se questi due enti riguardano aspetti generali del ma-

nifestarsi della sua essenza, anch’essi hanno un’universalità che si estende all’intera umanità. Stato e famiglia legano tra di loro soggetti perché la ragione li riconosce necessari e naturali (senza di questi non ci sarebbe ordine sociale).

Hanno dunque una validità oggettiva per tutti gli uomini nonostante le lo-ro molteplici sfaccettature storiche. Ogni sistema statale poggia su un complesso di norme che a suo modo dovrebbe interpretare il diritto di natura (o di ragione) nel diritto positivo (le leggi e i codici emanati).

Questo diritto positivo dovrebbe garantire un adeguamento quanto miglio-re ai valori dell’essere umano preso in sé e per sé (cioè naturalmente e spoglio di convinzioni particolari che non vedono una condivisione totale). La ratio accomu-na la globalità dei soggetti umani e li distingue dalle bestie, ed essa è il fondamen-to del diritto positivo (benché questi impianti normativi si diversifichino).

L’essere-in-uno-Stato e l’essere-in-una-famiglia sono inerenti alla dimen-sione esteriore oggettiva del cittadino. Le religioni positive non esistono in natura, e apparentemente di ognuna non se ne può parlare in maniera universale come per i concetti di Stato e famiglia.

È naturale l’esigenza religiosa, ma molte religioni partono da una rivelazione cui la ragione non può giungere. La religiosità riguarda la sfera interiore e sogget-tiva del cittadino: l’esteriorità delle forme di culto è ovviamente ammissibile fin quando queste rispettino la ratio, che Dio stesso ha dato agli uomini, e gli altri ade-renti a un differente credo. Le guerre prodotte da motivazioni religiose e le simili persecuzioni animate da visioni integraliste sono state tra le cose più insane e in-fauste della storia.

Nessun principio naturale autorizza alcuno a imporre agli altri l’assunzione delle proprie credenze e il rispetto delle sue norme di culto poiché l’interiorità di costoro, che non è spazio pubblico, con la pertinente libertà, sarebbe violata. Sap-piamo che non esiste una sola forma religiosa accettata universalmente da tutti: ognuno ritiene che i diversi siano dalla parte sbagliata. Viene da pensare a Simone Weil che affermò che ogni religione è la vera religione.

Nella profondità di questo ragionamento si comprende come l’adesione re-ligiosa è un fatto di coscienza individuale. È naturalmente desiderabile – e questo non è relativismo – che ciascuno inserito in un sistema di culto viva la sua fede li-beramente senza turbare e senza essere turbato e che tutti abbiano facoltà di cerca-re e trovare Dio come vogliano. Per il fatto che le religioni possano essere in con-trasto e che storicamente ciò ha prodotto pagine negative è opportuno che non si

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approprino dello spazio pubblico: il che non significa emarginare il dialogo. Non è bene che una parte di un tutto sopraffaccia l’intero. Gli Stati confessionali e quelli che proclamano ufficialmente l’ateismo perseguono due eccessi. Una legge è buo-na perché è riconosciuta tale dalla ragione, perché è utile e positiva, perché incon-tra il favore degli onesti, e non perché piace a una categoria.

La corretta ratio, con cui Dio ha creato l’uomo sin dall’origine e che precede temporalmente la Rivelazione, viene prima delle fides. La morale non può far rife-rimento a precetti storicamente contingenti e particolari. Le impalcature dogmati-che di ogni religione valgono parzialmente solo per chi vi aderisce, e se queste non arrecano danno al consorzio sociale non si può laicamente sindacare a priori di nessuna teologia. Se ci sono precetti contrari alla sana ratio sono evidentemente da abolirsi ovunque. Il relativismo prescrittivo e dogmatico pone in conflitto i culti, ma la ragione può consentire il dialogo affinché fra i loro componenti non ci siano tentativi vicendevoli di sopraffazione. Lo Stato giusto dovrebbe garantire questo senza farsi condizionare in quanto il potere della sua azione è universale.

Anche gli atei hanno il diritto di stare in uno Stato equilibrato e funzionante (come tutti del resto), il fatto che non credano nell’esistenza di Dio non è materia di diritto pubblico. Tutte le religioni singolarmente prese stanno allo Stato come il diritto privato sta a quello pubblico. Ci possono essere partiti di esplicita ispira-zione religiosa, i quali però riflettono il concetto di pars.

Hanno diritto ineccepibile di esistere nell’insieme più ampio delle libertà: possono mostrare la bontà delle loro idee con la ragione, che è il linguaggio uni-versale tra gli uomini, ma indubitabilmente non ottenere il potere politico per tra-sformarsi in regimi totalitari (così come d’altro canto non sarebbe neanche condi-visibile il regime totalitario della sola ratio). Fides et ratio vanno assieme in quanto sono due aspetti inscindibili della vita: laddove vi è equilibrio, vi è ordine e pace; dove questo viene a mancare vi è disordine e contrasto.

La mediazione è quel punto che può positivamente soddisfare tutti all’interno della casa comune. Pare conveniente che lo Stato rimanga un arbitro su-per partes. L’insegnamento del Vangelo è quello di agire caritatevolmente verso Dio e verso il prossimo. L’universalità di questo messaggio d’amore coglie l’intera umanità: tra i non cristiani ci sono evangelici in pectore come l’opposto tra i sedi-centi. Seguire il Vangelo comporta azione, non spunto di disputa dottrinale.

La semplicità e la ragionevolezza dell’insegnamento di Gesù Cristo mostrano che un vero modello di Stato avrebbe l’eticità evangelica senza essere confessiona-le poiché le due forme coinciderebbero. Varrebbe a dire: due facce della stessa medaglia che ridarebbe unità alla persona umana come creatura di Dio prima da un lato e come essere sociale e naturale poi dall’altro. Chi seguisse principi pratici della sua religione universalmente validi non vedrebbe in questo Stato un limite alla sua fede.

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3.5. PER LA MORATORIA DELLA PENA DI MORTE

a molte parti proviene la richiesta affinché gli Stati le cui legislazioni pre-vedono la pena capitale provvedano a una sospensione delle esecuzioni e all’adozione di misure punitive diverse. Una civiltà moderna e progredita

sul modello della nostra dovrebbe sul serio riflettere su tale questione e fare un passo avanti nella maturazione spirituale, portando questo messaggio di civile progresso in quelle aree della Terra che risentono del freno della crescita per vari motivi. Il diritto all’esistenza è, con quello alla libertà e alla proprietà, uno di quelli di norma inviolabili. Nel momento in cui i singoli soggetti si aggregano in un gruppo sociale e danno origine naturale allo Stato delegano a quest’ultimo la dife-sa di tutti i diritti della persona per mezzo della limitazione e della repressione dei comportamenti arbitrari che arrecano nocumento (i reati).

Come forma punitiva un individuo può ricevere una restrizione della liber-tà (con l’arresto) e la privazione di qualcosa che gli appartiene (denaro o altro leci-tamente o meno acquisito). Tutto questo è possibile perché libertà e proprietà sono accidenti separabili del soggetto: togliendo a qualcuno, con l’infliggergli una pena, la libertà o delle proprietà non si distrugge il reo, e il diritto naturale alla vita non viene violato. L’adozione della pena di morte è contraddittoria perché uno Stato non potrebbe sopprimere un criminale a cui pure per lo ius naturae dovrebbe rico-noscere il diritto all’esistenza, la cui tutela gli verrebbe delegata: questa pratica non è compatibile con la razionalità del diritto di natura.

Ogni punizione amministrata dovrebbe inoltre poter essere sospendibile in qualsiasi momento in caso di errore giudiziario, ma a una condanna capitale non c’è rimedio. Nella storia questa massima punizione è entrata nelle leggi quando i governi hanno voluto avocare a sé il compito della vendetta di un grave torto – per lo più un omicidio – evitando la faida e provvedendo legalmente all’uccisione del colpevole (pensiamo alle leggi draconiane o al codice di Hammurabi). In passato la difficile gestione di una comunità ha legittimato questi provvedimenti legislativi così severi, però oggi l’evoluzione sociale e del diritto richiede forme più consone. L’applicazione della pena di morte talvolta è stata addirittura un invito a delin-quere in modo più grave come per esempio laddove il reo di furto venne equipa-rato all’assassino: ciò spingeva i ladri a uccidere le loro vittime per non lasciare testimoni, tanto furto e omicidio prevedevano la stessa sanzione.

Oggi va rivista radicalmente la funzione della carcerazione. Alla sentenza capitale sarebbe preferibile sostituire una di ergastolo (con le sue possibilità di ria-bilitazione del condannato a seconda del caso). L’internamento in un istituto di pena deve avere l’obiettivo in generale di correggere. Questa realtà dovrebbe esse-re di carattere produttivo: se le carceri fossero trasformate in aziende assolvereb-bero meglio il loro compito di detenere coloro che hanno contratto un debito verso

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la società in cui vivono, debito che costoro risarcirebbero con l’essere posti nella più o meno lunga condizione di non reiterare il reato privati della libertà e anche con un concreto e positivo produttivo operato che valga anche a contribuire per un eventuale indennizzo economico ai congiunti della vittima.

Definire queste attività lavori forzati non è il caso dato che il loro valore pe-dagogico-giudiziario sarebbe diverso da quello espresso da questa definizione. In Italia, dopo l’Unità, la condanna a morte fu abolita dal Codice Zanardelli alla fine dell’Ottocento, fu reintrodotta dal fascismo, e di nuovo abolita con l’avvento della repubblica (anche nel codice penale militare). Diversi altri paesi – per esempio il Re-gno Unito – la mantennero costantemente e per maggiore tempo. Al momento fra quelli che non migliorano le proprie leggi in materia emergono la Cina e gli USA (all’interno degli States si diversificano: non tutti adottano la pena capitale).

Il progresso del diritto ha dovuto parecchio alla riflessione illuministica di Cesare Beccaria che esprimeva una posizione di contrarietà alla prassi della pena capitale (ritenuta d’altro canto da Immanuel Kant giusta posizione verso chi per motivi ideali infrange le leggi dimostrando così scarso attaccamento alla vita e vi-ceversa per coloro che con motivazioni più pratiche se ne rendono indegni).

Tale riflessione è esposta esposta in “Dei delitti e delle pene”, che rappre-senta una prospettiva di ammodernamento dei sistemi giudiziari, di cui si sente eco pure nell’insegnamento sociale della Chiesa cattolica. Al n. 2267 il “Catechi-smo ufficiale” dice: «L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, sup-posto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ri-corso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicu-rezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla di-gnità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di as-soluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 56)».

Il comandamento non uccidere dell’Antico testamento utilizza un verbo che non dice non-uccidere-in-assoluto bensì non-uccidere-senza-un-valido-motivo (come potrebbe essere la legittima difesa, del singolo e della società, consentita dal Cate-chismo). Quel non uccidere va inteso nel migliore senso possibile (nel modo in cui riecheggia d’altronde il diritto naturale): non c’è un ragionevole motivo a favore della condanna a morte di qualsiasi criminale nonostante l’ondata emozionale possa sostenerla. La nostra cultura e la nostra spiritualità non consentono più la sopravvivenza di istituzioni incivili.

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Indice

Introduzione pag. 1

1. Il simbolismo esistenziale di Frida Kahlo pag. 3

2. L’origine ideologica del Cristianesimo pag. 7

3. Elementi di giusnaturalismo pag. 13

3.1. Sull’antispecismo pag. 13

3.2. Il primato inviolabile della persona pag. 14

3.3. La finestra sbagliata pag. 17

3.4. Stato e religioni pag. 21

3.5. Per la moratoria della pena di morte pag. 23

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Palermo

ottobre 2014