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CON IL NASTRO ROSA

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ALDO FORBICEFRANCESCO SCHITTULLI

CON IL NASTRO ROSA

Storie di donneche si sono riprese il futuro

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Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl – Cormano (MI)

ISBN 978-88-566-3616-1

I Edizione 2014

© 2014 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2014-2015-2016 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. – Stabilimento di Cles (TN)

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«Alle donne che, con la loro dignitosa sofferenza, mi hanno insegnato il valore dell’amore

per la vita umana.»

Francesco Schittulli

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Quella che presentiamo in questo libro è la storia auten-tica di una donna che abbiamo scelto di chiamare Lisa. Questa donna, che fa l’insegnante, è stata colpita da due tumori al seno e racconta come ha vissuto la malat-tia, come si è curata, come ha affrontato la sofferenza, ma anche i suoi rapporti col mondo dei medici, degli oncologi, delle strutture ospedaliere, con la sua fami-glia, con gli amici e i colleghi di lavoro. È una storia “comune”, simile a quella vissuta da decine di migliaia di donne di ogni età ammalate di cancro. Per questo, oltre alla storia di Lisa, raccontiamo quelle di tante altre che hanno lottato e ancora lottano con determinazione per vincere il cancro.

Storie autentiche di ragazze, di donne, storie di impie-gate, insegnanti, professioniste, casalinghe ammalate, che si confrontano e si scontrano anche con i familiari, per cercare di ritrovare una propria identità, di sopravvi-vere all’angoscia, alla paura, all’incertezza che le rendo-no protagoniste e vittime di un mondo che non riconosce loro la piena assistenza, le cure adeguate e il sostegno psicologico, economico e sociale di cui hanno bisogno.

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PROLOGO

«Il malato soffre più dei suoi pensieri che della stessa malattia.»

Friedrich Nietzsche

Qualche anno fa a Londra è nata una bambina ogm o, più esattamente, all’University College of Lon-don Hospital, ha visto la luce la prima bimba “cli-nicamente testata” contro il cancro ereditario al seno. La tecnica – definita diagnosi genetica pre-impianto – ha fatto superare ogni forma di eredita-rietà che affliggeva le donne della famiglia di suo padre da generazioni: un’alterazione genetica che induce a sviluppare tumori alla mammella già a vent’anni.

Lo specialista, che si chiama Paul Serhal, ha as-sistito la coppia in questione, per ovvi motivi ri-masta anonima, e ha dichiarato: «Questa bambina non avrà lo spettro di sviluppare questa forma di cancro genetico al seno o alle ovaie. E ai suoi geni-tori verrà risparmiato il rischio di infliggere alla loro figlia questa malattia. In ultima analisi è stata bloccata la trasmissione di questo tumore che ha colpito la famiglia per generazioni». E tutto per colpa di un’alterazione genetica – la proteina Br-Ca1 e BrCa2 – che quando funziona correttamente,

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contribuisce a impedire lo sviluppo di tumori, mentre in alcune “degenerazioni” ha l’effetto esat-tamente contrario.

Nel caso di questa famiglia, oltre ad aumentare sino all’80% la possibilità di ammalarsi di tumore al seno, avrebbe contestualmente aumentato del 50% le probabilità di contrarre anche un cancro al-le ovaie. Quella utilizzata in Gran Bretagna è una tecnica, controllata da un’autorità sanitaria (la Human Fertilisation and Embryology Authority), che non trova però consensi unanimi nel mondo scientifico.

Da anni è in corso un dibattito etico sullo “scre-ening genetico” che, secondo alcuni critici, potreb-be portare «all’eugenetica, ovvero» sostiene Jose-phine Quintavalle dell’Organizzazione per la bioetica «al tentativo di migliorare geneticamente la razza umana».

In altre parole, questa tecnica consente, in caso di procreazione assistita, di selezionare gli embrio-ni non affetti da gravi anomalie genetiche prima dell’impianto nell’utero.

Schematicamente, la diagnosi genetica preim-pianto, si snoda in questo modo:

a) le cellule uovo vengono fecondate in vitro;b) gli ovuli fecondati si lasciano sviluppare fino

allo stadio di 6-8 cellule;c) da ogni embrione viene prelevata una cellula

poi sottoposta a test genetici;d) in seguito vengono impiantati nell’utero ma-

terno solo gli embrioni sani.

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Con questa tecnica “rivoluzionaria” è possibile diagnosticare, oltre al cancro al seno e alle ovaie, l’anemia falciforme, l’emofilia A e B, la fibrosi cisti-ca, la talassemia e diversi tipi di distrofia.

Ma in Italia le resistenze di molti scienziati e medici sono forti. In base alla nostra legge, infatti, è esplicitamente vietato utilizzare la tecnica del reimpianto. Vi sono però molti altri medici che so-stengono il contrario, come per esempio Umberto Veronesi.

«Sono vent’anni» ha dichiarato l’illustre oncolo-go «che mi batto per la possibilità della diagnosi reimpianto. Non ha proprio senso che, quando si può migliorare la salute e la vita delle persone, vi si rinunci. Nel caso inglese l’eugenetica non c’en-tra nulla: si è data semplicemente la possibilità a una bambina, a una futura donna, di vivere più sana e serena.»

Il caso della bambina inglese rimane dunque, al-meno per il momento, isolato. Anche all’estero (Gran Bretagna compresa) ci si muove con molta cautela perché si tratta di un terreno (etico) minato.

Negli ultimi decenni l’oncologia ha fatto passi da gigante, trovando farmaci risolutivi (un tempo li si definiva “miracolosi”) per molti tumori. Ma per diverse neoplasie questi farmaci non bastano e il cancro ritorna, purtroppo, troppo spesso in for-me anche più aggressive.

Oltre seicentomila donne nel mondo hanno un cancro al seno, combattono una battaglia quotidia-na, divisa fra trattamenti, controlli clinici, famiglia

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e lavoro. E molte donne continuano, per quanto possibile, a lavorare. A tanto si aggiungono anche i risvolti economici da dover gestire. Perché curar-si un tumore costa (e molto), nonostante il Servizio Sanitario Nazionale si faccia carico di molte spese e costi per terapie e farmaci.

Infatti, secondo un’indagine della Lilt (la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori), le donne arrivano a spendere nove stipendi tra visite spe-cialistiche ed esami medici, soprattutto al fine di “evitare” le lunghe liste di attesa. Il che significa “investire” per “trattamenti sanitari” almeno 3.500 euro, oltre ai 9.000 euro perduti per la ridu-zione del reddito a causa della malattia. A questo si devono poi aggiungere i costi per le trasferte e quelli per gli aiuti domestici. Una cifra sensibil-mente rilevante, per non dire molto “pesante”, per numerose famiglie.

Consideriamo poi che l’incidenza della malattia continua a essere in crescita: il tumore al seno rap-presenta infatti circa il 29% complessivo delle dia-gnosi di cancro, a fronte del 27% degli anni No-vanta. L’unico aspetto positivo è però rappresentato dalla mortalità ridottasi di oltre il 40%. In particola-re, la mortalità si è più che dimezzata nelle donne che effettuano regolarmente gli esami clinico-stru-mentali. In altre parole, la diagnosi precoce si è ri-velata uno strumento molto efficace per combatte-re e vincere il cancro.

Del resto, anche recenti ricerche hanno confer-mato questi dati. I risultati dello studio Eurocare,

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che ha preso in esame oltre 3 milioni di malati di cancro di 23 paesi europei, rivelano che in Italia la stima di sopravvivenza per tutti i tipi di cancro è del 49,8% negli uomini e del 59,7% nelle donne.

Vediamo qualche esempio, per le diverse forme di cancro: per i tumori al seno si arriva all’82,7% (la media europea è del 79,4%); per il linfoma di Hodgkin, 80,5% (Europa, 80,1%); per la prostata, 79,1% (in Europa, 76,4%); per il collo dell’utero, 64,7% (in Europa, 68,6%). Prognosi più sfavorevoli per il nostro paese riguardano gli ammalati al fe-gato, al pancreas, al polmone e al cervello.

Complessivamente in Italia, ogni anno, si regi-strano 364.000 nuovi casi di tumore: 202.500 (56%) negli uomini e 162.000 (44%) nelle donne. In prati-ca, 1.000 nuovi casi al giorno (nel 2012), con più di 4 milioni di persone coinvolte (familiari e altre per-sone che assistono i pazienti), con il 33% di disabi-lità riconosciute dall’Inps e con il 4% della popola-zione che ha registrato una diagnosi di tumore.

Questa la fotografia, lo stato dell’arte, del cancro in Italia. Bisogna aggiungere poi che sono state censite un milione e duecentocinquantamila per-sone che hanno superato la soglia dei cinque anni dalla diagnosi senza ricadute o riprese di malattia e sono ritornate alla vita normale, cioè lavorano, praticano sport, hanno figli. Convivono insomma, relativamente bene, con una malattia da conside-rare ormai cronica, alla pari del diabete, dell’iper-tensione, dell’artrosi.

Le grandi carenze denunciate sono però quelle

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legate ai servizi per i nuovi bisogni derivati in par-ticolare dalla sopravvivenza che, per fortuna, è in progressivo aumento rispetto al passato.

Ricordiamo, infatti, che la maggior parte dei tu-mori si presenta intorno ai sessant’anni. E un seco-lo fa era proprio questa l’aspettativa di vita, men-tre oggi si sono superati gli ottanta. Un’indagine del Censis di pochi mesi fa ha rivelato che ogni an-no, per la cura dei tumori, vengono spesi 36,4 mi-liardi di euro. Di questa gigantesca cifra fanno par-te anche i sussidi per i malati, che ammontano complessivamente a un miliardo e 100 milioni di euro, pari a poco più del 3% del costo sociale totale. Una situazione che lo stesso Censis definisce così: meno redditi, più costi.

È sicuramente per queste ragioni che il 77,3% degli intervistati ha giudicato, nonostante alcune criticità, di “buon livello” i servizi sanitari forniti, mentre vengono ritenuti “insufficienti” l’assisten-za domiciliare e le tutele economico-sociali.

Oggi si sa molto di più, come vedremo anche di seguito, sulle trasformazioni di una cellula, da normale a cancerosa. Sappiamo molto dei fattori mutageni ambientali: alimentazione, radiazioni, sostanze chimiche, emissioni inquinanti e lavora-zioni a rischio che possono accelerare il processo tumorale. Con gli anni si determinano mutazioni genetiche che, attraverso tappe multiple favori-scono poi la formazione e lo sviluppo del cancro. Il cancro infatti sappiamo essere una malattia am-bientale su base genetica. E l’ambiente, prodotto e

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modulato dall’uomo, è tutto ciò che circonda l’es-sere umano.

Per la leucemia, ad esempio, mezzo secolo fa la diagnosi stabiliva “una” leucemia mieloide acuta. Oggi se ne conoscono più di otto sottotipi, ognuno corrispondente a una lesione molecolare diversa. Anche per i tumori alla mammella esiste una cata-logazione differenziata. Ma ancora oggi il succes-so del trattamento dei tumori è affidato alle mani dei senologi-chirurghi: nessun cancro della mam-mella “guarisce” senza alcun atto chirurgico. E in Italia ogni anno si ammalano circa 46.000 donne di cancro alla mammella. E in Europa sono oltre 600.000 le donne che hanno vissuto un cancro del-la mammella.

Un grande oncologo, l’indiano Siddhartha Mu-kherjee (autore di L’imperatore del male, una sorta di biografia del cancro), ha scritto che chirurghi e chemioterapisti per tutto il Novecento si sono scontrati come avversari di partiti ideologicamen-te diversi, dimenticandosi spesso dei pazienti. «La medicina» ha sottolineato «non è una scienza esat-ta ma umanistica, perché ha il compito di curare gli esseri umani, che sono ognuno diverso dall’al-tro. Di fronte al paziente, il medico avrebbe sem-pre il dovere di ammettere l’incertezza. Perchè l’incertezza è la vera base della medicina.»

Come dimostra la storia di Lisa e di altre donne colpite senza alcun preavviso dal cancro al seno.

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LA SCOPERTA, LA PAURA

«Vivere la vita ci ricorda che ogni attimo è pre-zioso, dovremmo tutti averne consapevolezza. Cavalcare l’onda del momento, inspirare ed espirare con serenità e trasformare ogni attimo di vita in senso compiuto per i nostri desideri.La vita si compie un passo alla volta ed è ciò che fai in questo momento che ti porta verso il domani.Oggi esiste, domani sarà sempre e solo domani. Vivi l’oggi, perché oggi è vita. Assaporala.»

Stephen Littleword

Prima della tempesta

Quella mattina l’acqua del soffione della doccia mi sembra molto intensa, forte, persino oppres-siva. Mi frusta, mi percuote la pelle abbronzata e un po’ screpolata perché non mi sono preoccupata troppo dei raggi del sole. La schiena, i fianchi e i seni mi sembrano poco idratati, forse perché non mi sono preoccupata di comprare creme solari griffate a protezione cinquanta come quelle che esibivano le mie amiche. L’intensità e l’uniformità dell’abbronzatura non mi hanno mai impensieri-ta, gli uomini mi guardano comunque con interes-se, anzi quasi con evidente desiderio. Ho 42 anni, sono alta un metro e 75, ho i capelli biondi e una

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pelle chiarissima e soavemente lentigginosa, quin-di non passo inosservata. Quanto al peso, viaggio intorno ai sessanta chili, anche perché sono molto attenta alla dieta.

Mentre l’acqua mi batte sulla schiena, sul collo e sul seno con improvvisa insistenza, scopro per la prima volta una lieve macchia, o meglio non pro-prio una macchia, ma comunque qualcosa di ano-malo che attira la mia attenzione.

Chiudo il bocchettone della doccia e comincio a ispezionarmi le “tette” ancora bagnate e insapona-te, palpandole lentamente. Un amico medico mi ha detto che bisogna tastarle in senso circolare, dall’esterno verso l’interno. Poi premo i capezzoli, andando con preoccupazione crescente verso le ascelle. Non so se sia la paura che si sta impadro-nendo del mio cervello, ma ho subito la sensazio-ne che qualcosa non vada: vicino all’ascella, la pel-le del seno destro non mi sembra normale. Forse è una mia impressione, ma l’areola sembra un po’ alterata, leggermente arrossata. Però non avverto alcun dolore, né interno né superficiale.

Forse è un segno del ciclo mestruale che si sta avvicinando? Eppure le altre volte non era acca-duto nulla di tutto questo. Avverto una sensazione nuova, come se nel mio corpo fossero in corso dei cambiamenti, con segnali inquietanti, che non mi lasciano per niente psicologicamente tranquilla. Continuo a ripetermi: cosa devo fare? Cosa mi sta succedendo? Devo parlarne con mio marito e con i miei figli?

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Esco dalla doccia con un solo pensiero: chiama-re Giulia, il mio medico di famiglia, che conosco da anni e con cui mi sento in confidenza.

«Giulia, meno male che ti ho trovata...»«Cosa succede, stai male?»«No, almeno non credo, ma ho qualcosa di stra-

no su un seno: non mi fa male, ma mi sembra di-verso, vedo una specie di macchia, di arrossamen-to, non so... È pericoloso? Non sarà mica un tumore, o magari qualcosa legato al ciclo mestruale?»

«Stai tranquilla, vedrai che non è niente, può ac-cadere, dopo tanto mare, magari è solo l’abbronza-tura che va via o una puntura di insetto. Non so, è difficile dirlo per telefono, vieni a trovarmi e ve-dremo di che si tratta.»

Io però non mi sento tranquilla. Anche perché, come insegnante, mi sono documentata sul cancro al seno e so che è una malattia femminile molto fre-quente. Ho letto sui giornali che in Italia una don-na su nove si ammala di tumore alla mammella. Mi capita spesso di parlarne, a scuola, nelle classi do-ve insegno italiano. Le mie alunne, che hanno dai 14 ai 16 anni, mi chiedono se il cancro possa colpi-re le ragazze giovanissime e come si forma. Allora sono costretta a documentarmi, a cimentarmi con termini incomprensibili, almeno per chi non si è mai occupato di medicina. Ogni volta rimando la risposta al giorno dopo, in modo tale da poter con-sultare internet o qualche testo di medicina o tele-

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fonare a un amico medico, meglio se oncologo. Sono fortunata, in pochi hanno la possibilità di avere a portata di mano medici esperti e testi scientifici per conoscere meglio una malattia seve-ra come il cancro.

Altrimenti, come avrei fatto a capire la differen-za tra “carcinoma duttale infiltrante” e “carcinoma in situ”?

Una differenza importante quella tra carcinoma infiltrante o invasivo (in grado cioè di “occupare” i tessuti circostanti, diffondendosi a distanza fino a provocare metastasi) e carcinoma in situ, che in-vece non sviluppa metastasi e rimane confinato all’interno dei lobuli mammari.

Quale di questi tumori potrei avere? mi chiedo ora. Ma perché, poi, dovrei avere un cancro? Ho sempre fatto una vita sana. Non fumo, bevo solo qualche bicchiere di vino rosso ogni tanto, non amo i dolci e la carne rossa, anche perché non sono mai indicate nelle diete; accompagno i miei figli in palestra e ne approfitto anch’io; quando posso, nuoto e vado in bicicletta. Perché mai quel “mo-stro” dovrebbe colpire proprio me, che seguo uno stile di vita sobrio e ho un’alimentazione salutare, quasi biologica, che tra l’altro consiglio a tutte le mie amiche?

Corro subito dalla dottoressa, ma Giulia ha avu-to un’emergenza: ha dovuto lasciare l’ambulatorio perché il figlio piccolo ha avuto un incidente in pa-lestra. Al suo posto c’è un medico sostituto.

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Vorrei rimandare, ma poi penso che è meglio ca-pire il prima possibile di che si tratta. E forse un dottore maschio, che non mi conosce, mi garanti-rebbe di più sul piano della schiettezza, e potrebbe dirmi senza parole di circostanza come stanno ve-ramente le cose.

Il dottor Tommaso mi chiede di stendermi sul lettino col seno scoperto. Mi vergogno un po’, an-che perché sono anni che vengo visitata da un me-dico donna. Mi palpa più volte il seno, mi invita a mettermi in posizione eretta, a braccia alzate, e poi piegata. Il suo viso è inquieto, anche se non mi sembra che possa essere un esperto di tumori, vi-sta la sua giovane età e l’assenza di una specifica specializzazione, a quanto mi ha riferito.

Una volta rivestita, il dottore mi invita a sedermi.«Signora,» mi dice senza troppi preamboli «mi

auguro di sbagliarmi, ma lei ha un nodulo che po-trebbe essere un tumore alla mammella. In ogni caso, sono necessari esami urgenti. Non si preoc-cupi, oggi con gli interventi chirurgici e le moder-ne terapie si guarisce, non si muore più come una volta.»

Lo ascolto in silenzio, quasi assente, come se stesse parlando di un’altra donna: mia madre, mia sorella, una mia parente o un’amica del cuore. Non riesco a proferire una sola parola... Ma piano piano la paura diventa terrore, come se mi trovassi già alla fine di un tunnel, in fondo al quale non appare la luce, ma il volto di mio marito Jacob e quello dei miei due figli di sei e sette anni, Emilio e Bruno.

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Il dottor Tommaso sembra preoccupato. Si è re-so conto che forse è stato troppo diretto, poco di-plomatico, anche se ha cercato subito di corregge-re il tiro con il suo: «Non si preoccupi». Ormai il vaso è rotto e non si può più riaggiustare.

Di solito, penso, quando qualcuno deve comu-nicare la morte di una persona ai parenti stretti non dice mai: «Suo marito o suo padre è morto», ma prende qualche precauzione, utilizzando peri-frasi e frasi di circostanza: «Suo marito ha avuto un grave incidente, sta lottando, ma forse ce la farà». E solo dopo pochi minuti annuncia che «non ce l’ha fatta». La parola “morte” non viene mai pro-nunciata, così come i medici un tempo non utiliz-zavano mai l’altrettanto terrorizzante parola “can-cro”. «Un male incurabile» dicevano, o qualcosa del genere, forse perché il tumore non era conside-rato una malattia, come universalmente viene ri-conosciuta oggi, ma semplicemente una sorta di “maledizione”, “un destino avverso”, una “fatali-tà”, “un male oscuro”. Un linguaggio che veniva mutuato dai media e che, ancora oggi, si fa fatica a sradicare.

Esco sconvolta dall’ambulatorio. Non guardo neppure i semafori rossi, evito a malapena i pas-santi frettolosi che mi sballottano da una parte all’altra del marciapiede. Non mi ricordo più dove ho parcheggiato la mia utilitaria e allora distratta-mente entro in un bar e chiedo ad alta voce un caf-

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fè, facendo girare diversi clienti, forse convinti che io sia un po’ alticcia, o magari “fatta”.

Non me ne importa niente. Seduta a un tavolino, comincio a riflettere, ponendomi sempre la stessa domanda: sarà vero?

Perché me la ripeto ossessivamente? A influen-zarmi è forse una storia apparsa su una rivista che leggo ogni settimana. Una signora di qualche anno più giovane di me (ma con un marito e due figli, come me) si stava curando per un cancro alla mam-mella scoperto due anni dopo i controlli e le visite mediche. Un noto oncologo le aveva più volte ripe-tuto: «Cara signora, sia serena, va tutto bene, non si lasci prendere dall’ansia e dalla paura. Lei non ha nulla di serio, non si preoccupi. E poi perché si do-vrebbe rovinare un bellissimo seno come il suo?».

L’articolo raccontava un clamoroso caso di ma-lasanità (uno dei 570 registrati nei primi mesi del 2013 e messi sotto inchiesta dal parlamento). Si tratta di errori procedurali nella diagnosi, spesso banali, ma che possono compromettere la vita al paziente.

Inevitabilmente comincio a pensare agli errori commessi per il disinteresse, l’apatia, la superficia-lità di diversi medici, infermieri e operatori sanita-ri: lo scambio di sacche di sangue che ha ucciso un pensionato di 76 anni all’ospedale di Grosseto, il decesso di un ragazzo di 17 anni in un altro ospe-dale toscano, la donna siciliana morta in un’auto-ambulanza perché dopo due ore di attesa non è stata trasferita in un’altra struttura e così via.

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E se anche nel mio caso si trattasse di un errore? E se, per eccesso di zelo o per evitare future de-nunce e procedimenti giudiziari (come è avvenuto nel caso della donna raccontato dal settimanale), il dottor Tommaso, privo di esperienza specifica, avesse preferito azzardare l’ipotesi peggiore sba-gliando così diagnosi?

È possibile, ma per accertare la verità devo an-dare avanti. Non mi resta altro da fare che consul-tare un oncologo serio, anzi un chirurgo accredita-to nel campo delle malattie del seno.

E naturalmente, prima di tutto, devo parlarne con mio marito. Che però è in viaggio verso l’Africa.

La mia storia

All’ambulatorio di Brindisi, mentre aspetto, ini-zio a riflettere sulle ragioni che mi hanno spinta a ritornare in Puglia. È vero, in questa terra sono na-ta, ma dopo la laurea in lettere all’Università di Bari sono fuggita, con sofferenza e con rabbia. Avevo comunque voglia di cambiare aria. Certo, le mie radici sono qui, dove ancora vivono mio pa-dre e mia madre, a cui sono profondamente legata, ma mi considero una cittadina del mondo: ho sem-pre desiderato conoscere nuovi paesi, nuovi mon-di, culture diverse da quelle mediterranee, che cre-do di avere assimilato e studiato a lungo. In questo mi sono sentita solidale con le mie due sorelle, Si-mona e Carla: la più piccola è emigrata a Barcello-

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na ancora prima della mia partenza, complice ov-viamente l’amore (si è invaghita di uno scienziato catalano), mentre l’altra si è fidanzata con un pro-fessionista milanese, che poi ha sposato.

Con loro non ho mai potuto avere un rapporto molto stretto: ovviamente voglio bene a entrambe, ma c’è sempre stata anche una certa rivalità. An-che quando eravamo ragazze, un po’ d’invidia per i miei successi, per le mie scelte professionali e persino per i ragazzi che mi giravano intorno. Pe-rò l’affetto non è mai venuto meno. Ora, ripercor-rendo le tappe della mia vita, mi rendo conto che sono stata un po’ egocentrica e mi sono preoccu-pata soprattutto di me stessa, ricordandomi di tanto in tanto solo dei miei genitori. Ma questo credo avvenga in molte famiglie, soprattutto se so-no disperse in più paesi, magari persino in conti-nenti diversi.

In Puglia ho insegnato a lungo letteratura italia-na nelle scuole medie superiori, ma non ero con-tenta. Mi sentivo in gabbia e anche il rapporto che avevo con il mio fidanzato non mi soddisfaceva: lui era troppo geloso, mi voleva tutta per sé, ero totalmente succube della sua cultura. Era docente universitario e critico letterario e aveva un caratte-re forte, che lo faceva diventare spesso prepotente ed egoista. Avevo paura di sposarmi con un ma-schilista che mi concedeva poca autonomia e si comportava come un “padre padrone”. Volevo be-ne a quell’uomo più grande di me, che mi aveva aiutato a “crescere”, ma mi sentivo soffocare, mi

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consideravo una sua appendice, senza una vera autonomia. Era sicuramente un mio complesso, un’insicurezza che non ero riuscita a superare nemmeno con l’aiuto dei miei familiari, dello psi-cologo del mio liceo e del mio amico parroco.

Quella sofferenza è durata qualche anno. Alla fine ho deciso di partecipare a un concorso indetto dal ministero degli Esteri, riservato ai docenti, per addetti culturali delle ambasciate italiane. Mi so-no impegnata all’inverosimile. Ho studiato notte e giorno per gli esami a Roma. Ce l’ho fatta, anche se mi sono classificata al ventiseiesimo posto. Quando mi sono arrivati i risultati ero raggiante: i miei genitori erano commossi ma anche addolora-ti, perché questo significava che sarei partita per un paese straniero, per di più molto lontano dal-l’Italia.

Appena ho aperto la lettera sono scoppiata in lacrime. Piangevo di gioia per aver vinto il concor-so, di tristezza al pensiero di dovermi separare da mio padre e da mia madre. Ma anche di sollievo per essere riuscita a “liberarmi” da quel fidanzato dispotico. Sentimenti contraddittori, ma che se-gnavano un momento decisivo di svolta nella mia vita.

Pochi giorni dopo sono volata a Roma, al mini-stero degli Esteri, dove mi hanno assegnato la de-stinazione: dovevo partire per il Mozambico, co-me addetta culturale all’ambasciata italiana di Maputo. Ero felice per la nuova esperienza che mi accingevo a iniziare, ma anche terrorizzata, perché

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dopo la decolonizzazione il Mozambico era preci-pitato in una sanguinosa guerra civile tra il gover-no del Frelimo e l’opposizione anticomunista del-la Resistenza nazionale mozambicana (Renamo), sostenuta dal Sudafrica. Nel 1992 un accordo fra queste due forze politiche ha consentito, per la pri-ma volta, libere elezioni. In quella realtà di difficile transizione verso la democrazia non era facile ope-rare per la diffusione della lingua italiana e per la formazione culturale degli insegnanti. Ed era pro-prio di questo che mi dovevo occupare, tra mille ostacoli. Eppure per cinque anni, dal 1998 al 2003, ho lavorato con passione sia all’università della capitale sia in ambasciata.

Può sembrare strano, ma quel paese dalla storia così travagliata era molto attento alle novità che ve-nivano dall’Europa e in modo particolare dall’Ita-lia. Certo, la lingua italiana non era una priorità per gli studenti e per i professori mozambicani, ma esercitava una certa attrazione, anche perché molti giovani pensavano di emigrare e quindi la conoscenza di una lingua straniera poteva esser loro utile. E poi l’ambasciatore “premeva” per di-mostrare a Roma che noi italiani ci davamo da fare per sponsorizzare la nostra lingua e la nostra cul-tura.

In quella terra africana ho trovato anche l’amo-re, il compagno della mia vita: un intraprendente ambasciatore svedese che, dopo un breve fidanza-mento, ho deciso di sposare. Anche se quella fret-tolosa scelta avrebbe potuto comportare conse-

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guenze non del tutto positive. Innanzitutto sono stata costretta a lasciare l’Africa, perché mio mari-to, come succede a tutti i diplomatici, è stato tra-sferito in Nicaragua. Per me il trasloco da un con-tinente all’altro non è stato facile, tanto che, non riuscendo a ottenere dalla Farnesina il via libera per l’America Latina, ho dovuto chiedere un’aspet-tativa, cioè un periodo di riposo non retribuito, che in origine doveva essere di pochi mesi, ma che alla fine è durato quasi quattro anni e mezzo.

In Nicaragua in piena guerra civile imperversa-va la guerriglia, anche se nella capitale Managua, dove vivevamo, la situazione appariva relativa-mente tranquilla. Le condizioni igienico-sanitarie della città e dell’intero paese erano pessime, e il tutto era aggravato dalla diffusa povertà della po-polazione. I virus erano presenti ovunque e dove-vamo persino far bollire l’acqua, quando mancava quella imbottigliata.

Nonostante tutte le precauzioni, sono rimasta ugualmente vittima della dengue, una malattia in-fettiva totalmente sconosciuta in Occidente ma molto diffusa nelle zone tropicali e subtropicali, dove è presente una zanzara (i medici la chiamano Aedes aegypti) che trasmette l’infezione, in una for-ma che i sanitari definiscono “urbana”. La trasmis-sione avviene tramite una puntura, dopo che la zanzara si è a sua volta infettata pungendo un sog-getto malato. Questa è la modalità di contagio più frequente, ma ce ne sono anche altre, per esempio tramite scimmie malate (forma “silvestre” o “della

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giungla”). A ogni modo, per questa malattia, che si manifesta con febbri altissime, cefalee, emorragie e dolori ossei e articolari, non esiste né vaccinazio-ne né terapia specifica, quindi la prevenzione si basa unicamente sulla “guerra” alle zanzare. Ho vissuto notti infernali, senza poter prendere alcu-na medicina; mi hanno curato con trasfusioni di plasma. Se ci ripenso ora, posso aggiungere che la dengue fa molte più vittime del cancro: ogni anno colpisce milioni di persone nelle regioni tropicali e le vittime sono diverse migliaia, quasi sempre po-vera gente. Per la diagnosi e la terapia dei tumori, invece, negli ultimi trent’anni sono stati fatti passi da gigante, ma per la dengue siamo ancora fermi alla preistoria. Io stessa ho pensato di non farcela, anche perché i medici non garantiscono nulla: si procede per tentativi. Mi ritenevo fortunata per-ché godevo dei privilegi derivanti dall’essere la moglie di un ambasciatore e quindi avevo più pos-sibilità di altri di guarire, ma – mi chiedevo – un povero contadino quante probabilità aveva di ca-varsela?

A Managua, non essendo più (temporaneamen-te) un’insegnante e neppure una diplomatica, non sapevo cosa fare. Decisi dunque di lavorare come volontaria all’orfanotrofio municipale, dove vive-vano centinaia di bambini abbandonati a causa della guerra civile e della miseria.

Lì mi affezionai particolarmente a due di loro, che poi decisi di adottare. Non avevamo figli e mio marito, che da giovane non amava i bimbi («sono

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troppo impegnativi», ripeteva sempre), finì co-munque per condividere la mia scelta.

Uno dei bambini era denutrito. La madre biolo-gica aveva portato all’orfanotrofio due gemelli nati prematuramente: uno era morto; l’altro, Emilio, non era più stato cercato. Ho provato a lanciare ap-pelli anche per radio, ma la madre non si è mai pre-sentata. I genitori dell’altro bambino, Bruno, erano morti durante l’attacco di un commando dei con-tras, e nessun parente si era mai fatto vivo. Così i due piccoli, di tre e quattro anni, hanno trovato dei nuovi genitori. Ora parlano inglese e italiano e “ma-sticano” anche un po’ di svedese, quando di tanto in tanto ci rechiamo a Stoccolma dai nonni paterni.

Dal Nicaragua mio marito è stato trasferito in Zambia ed è stato quindi inevitabile seguirlo, con i bambini. Ero contenta del mio ritorno in Africa, anche se i bambini, ancora piccoli, mi creavano nuovi problemi organizzativi. Nonostante questo mi sono trovata subito bene, perché anche lo Zam-bia, come il Mozambico, è una ex colonia porto-ghese e quindi riuscivo a comunicare con tutti sen-za difficoltà. Il paese aveva subito dittature e guerriglie, massacri, epidemie e repressioni, dun-que muoversi e inserirsi nella comunità era com-plicato. Ogni giorno, anche se avevo riconquistato il rango di diplomatica (lavoravo come addetta culturale all’ambasciata italiana di Lusaka), dove-vo sudare sette camicie per far capire che non ave-vo un obiettivo politico ma solo quello di promuo-vere la lingua italiana.