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Devo al lettore una motivazione sulla scelta di tre autori ai quali, in unarassegna di così ampia portata, ho dedicato tre piccole monografieprivilegiate.Franco Canale, Gelsomino D’Ambrosio e Alfredo Profeta possiedono, infatti,molte affinità che spiegano questa mia scelta. È stato molto divertente perme scoprirle, studiarle e confrontarle, spero lo siano anche per il lettoreattento al linguaggio delle immagini.La prima delle tre motivazioni è quella di tipo generazionale. Tutti e treappartengono alla seconda generazione di designer grafici, dal dopoguerra,che hanno scelto di dedicarsi alla comunicazione, talvolta comprimendo illoro talento per piegarlo alle esigenze di funzionalità comunicazionale, altrevolte liberandolo totalmente, anche a scapito della facilità, dellasemplificazione, che la funzione comunicativa richiede.La seconda motivazione è che nessuno dei tre ha avuto un itinerarioconvenzionale nella formazione di comunicatore, anche questa è unacasuale affinità; ma tutti intrattengono un rapporto denso e compromessocon le arti visive e la passione per il prorprio lavoro; ciascuno di loro necoltiva più di una, e le accudisce anche a costo di privilegiarle e di anteporleagli interessi professionali.La terza motivazione che mi ha spinto a legarli insieme è la condivisione diuna scelta di campo di tipo professionale, tutti e tre sono schierati ancheideologicamente dalla parte del design, e di una visione positiva della storia;insomma, per dirla con le parole di Alfredo Profeta, alla possibilità dicostruire un mondo migliore ci credono ancora.

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Come fa un napoletano, artista, illustratore, grafico a sfuggire all’oleografiadel pulcinellismo e del vesuvismo? Franco Canale1 ce l’ha fatta, perché hascelto il percorso più difficile, quello dell’interpretazione del genius loci, dellagrande madre, la storia dell’arte, della visione politica del proprio operare alservizio degli altri.Una vita professionale quella di Canale, spesa tutta nella stessa direzione,con coerenza, con passione, con testardaggine, con un nitido disegno eticoattraverso il quale filtrare la propria attività di «Grafico nel Corpo di Napoli»,come intitolava uno scritto del 19832.Franco non abita più lo studio di piazzetta Nilo, ma – in oltre vent’anni – si èspostato solo fino a Piazza del Gesù, è rimasto nel cuore di una città che nonlascia indifferenti, che impregna di sé, della sua storia millenaria e immensa,come delle sue turpitudini e meraviglie chiunque svolga un lavoro creativo.E non solo quello.Dicevo della testardaggine, del disegno etico che ha caratterizzato l’attivitàdi Canale, si tratta di una visione del lavoro che è anche la suacontraddizione, o meglio il suo conflitto interiore, che si dibatte più o menoconsapevolmente, più o meno dialetticamente, tra un’istanza estetica, unbisogno di misurarsi con la componente artistica di un lavoro che va svoltoal servizio del committente e un’esigenza di funzionalità comunicativa, quelbisogno di essere anche e comunque al servizio del fruitore, di stare dallaparte del destinatario dei propri messaggi di comunicazione visuale.Canale è sempre stato più vicino alla sfera etico-educativa del mestiere delgrafico, si tratta quasi di una militanza politico-professionale checondizionava anche le scelte della committenza.Il nostro comune marketing – se così possiamo chiamare l’attività diautopromozione – puntava ad una committenza pubblica, sociale, culturale,condivisa.In tutti questi anni Franco Canale ha lavorato tenendo ben chiari questiriferimenti, vivendo la sua dimensione di ricerca estetica, creativa,contaminando la sfera professionale del fare comunicazione con la storiadell’arte e del proprio territorio. Di questa cultura sono impregnate leimmagini che accompagnano la tipografia del Nostro. I grandi modelli, aiquali in una società di massa è difficile sfuggire, i Folon, i Lionni, i Pericoli,sono patrimonio dell’inconscio dell’autore, non già facili stilemi da replicare;le fonti primarie dell’iconografia sono le più diverse, dalla nuova fotografiaamericana, al Push Pin Studio ma sono frequentate senza sacralità.Ma la quota di artista che è presente nel patrimonio di esperienze e dicompetenze di ogni comunicatore risponde a tutto questo solo con glistrumenti di cui dispone: l’aumento di valori estetico-formali; è questa lastrategia di Canale, per questo nel suo lavoro è sempre più presente il Mito,la Storia, la grande Storia dell’Arte. Con questi elementi il pioniere protegge ilproprio territorio magico della comunicazione e si difende dallacontaminazione dello stile internazionale digitalglobalizzato; come la DOP,la denominazione di origine protetta, il design grafico originale, d’autore,dovrebbe chiedere la protezione.

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1 Riprendo in parte il testo dipresentazione, scritto con GelsominoD’Ambrosio, per il catalogo della mostra

di Canale a Napoli, Castel Nuovo, 15settembre 2006, in Canale, 2006.2 Canale, 1983.

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È difficile scrivere di un compagno con il quale ho condiviso solamente gliultimi quarant’anni. Ho cominciato questo testo al presente ed è doloroso oratrasformarlo al passato; tuttavia, non intendo essere neutrale né distaccato.Gelsomino D’Ambrosio un itinerario tra arte e design. Non sempre questedue anime possono convivere in un equilibrio sereno; il designer devecomprimere la dimensione emotiva della creatività per farla confluire nellarazionalità della produzione industriale e si tratta di una schizofreniafaticosamente ricomponibile; spesso l’artista tenta di sottrarre al designertutto il nutrimento della componente razionale per travasarlo nella sferaestetica; Gelsomino, pur con una lucidissima consapevolezza, aveva decisoche nella sua vita la ricerca estetica doveva prevalere e sopravanzare tutto,doveva venire prima di tutto, anche prima della «convenienza» dellaproduzione industriale, ma senza rompere del tutto l’equilibrio dialettico.Gelsomino è stato uno dei pochi autori che si è occupato dicomunicazione e che possedeva talenti molteplici, difficilmente presentiin una sola persona, raramente così fortemente interiorizzati.Scenografo e illustratore, artista e designer, ha sempre saputo tenerenitidamente distinte le sue qualità professionali, nessuna contaminandol’altra, nessuna confusa – se non volutamente – nell’altra e ha sempresaputo donarsi il privilegio di scegliere con cura i suoi maestri.Ha coltivato con intensità le sue tante passioni: la Storia dell’Arte, ilBarocco ha rappresentato la sua cifra espressiva più amata; la letteratura,possedeva interamente gli autori italiani più raffinati, Leonardo Sinisgalli,Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi, Giorgio Soavi, Luciano Bianciardi,ma l’elenco sarebbe troppo lungo. Ha studiato scenografia nell’Accademianapoletana con Franco Mancini ed è stato a bottega da Pier Luigi Pizzi, hapercorso il territorio per la ricerca etno-musicologica, poi ha cantato latarantella alla Scala di Milano, suonando la tammorra.In ogni settore delle sue attività ha percorso sempre, con grandeleggerezza, solo l’eccellenza.Le sue passioni originarie sono state il teatro e la scenografia, hafrequentato questa disciplina, forse più d’ogni altra, in costante equilibriotra la scienza e l’arte, prima nella messa in scena, dal K Teatro di Rino Meleal Teatrogruppo, con l’evoluzione della ricerca nella cultura popolare finoalla metà degli anni settanta, poi nella messa in pagina, come recita iltitolo di un suo recente libro, fondendo le nostre attività nello StudioSegno, che fondammo nel 1973. Poi con Giovanni Vietri, nel 1984, lo studiodivenne una vera impresa.Mino (così lo chiamavamo in pochissimi) si è formato su libri letti perpassione, per piacere, prima che per dovere, alimentando sempre di piùsia la dimensione artistica che quella scientifica. Questa ricchezza, questamolteplicità, è tutta presente nel suo lavoro, impastata – come a luipiaceva dire – contaminata nello spettacolo della sintesi visiva cheraccoglie i materiali più diversi, sapientemente armonizzati in unadialettica costantemente in bilico sapiente tra disegno e design.E qui entra in gioco il rapporto con la tecnologia ed il disegno nel progettodi design.Mino non ha mai scelto tra tecnofilia e tecnofobia; ha vissuto il rapporto conle protesi tecnologiche (utilizzando da bravo scenografo anche gli umani conuna funzione protesica) come un male necessario, convinto com’era di sapertrarre da ogni cosa, uomini e macchine, le immagini funzionali al suodisegno, anche quando il suo disegno era necessariamente design.

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Ho sempre tentato di rimproverargli l’utilizzo dei collaboratori come«pennelli» della sua «pittura», ma sapevo che le pulsioni sono anche piùforti della razionalità, anche più forti della consapevolezza e della suaintelligenza, del suo disarmante buon senso.Ha saputo vivere da sempre la sua contraddizione, ciascuno ha la sua:essere uomo che deve lavorare nel team, ma voler rimanere testardamenteautore. Ed è passato dal teatro al design senza risolverla.Perché questa è un’altra chiave di lettura dei suoi talenti, saper restare neldisegno – nel senso più denso e profondo della sapiente voluttà del segnografico – e saper gestire la complessità progettuale dei sistemi di design.Negli ultimi anni il suo prepotente bisogno di autorialità individualistica,l’esigenza di imprimere e far emergere un segno personale anche neiprogetti di design, lo ha portato ad una sorta di ritorno alle nostre origini,quando le nostre strade si sono incontrate e, per molti anni, fuse.Dunque se oggi non esisteva più «Una persona come noi due» (il librettodi racconti che pubblicammo per i nostri vent’anni di lavoro insieme1)Segno Associati aveva guadagnato – con tutte le contraddizioni – quelloche io definivo un brand: D’Ambrosio come marchio di Segno Associati; unconcetto che naturalmente nessuno avrebbe potuto capire.Nel suo lavoro emergeva una visione della comunicazione personale, inparticolare questo era possibile nei manifesti, nei quali tendeva a faremergere l’autore rispetto ad ogni progetto. Per sostenere questa cifraaveva recuperato anche l’uso più frequente del disegno, il suo segnovoluttuoso e potente. Voleva evitare ogni equivoco tra il suo lavoro ed ilnostro, voleva firmare ogni progetto con la riconoscibilità, consapevolecom’era di non poterlo fare diversamente.Questa dinamica ci ha portato in qualche modo alle origini del nostrosodalizio, quando «litigavamo» anche per ore (avevamo tempo allora) peruna soluzione formale che fosse la mediazione delle nostre due visioni,che sintetizzerei proprio nella contrapposizione tra disegno e design.Era stato Filiberto Menna a farci riflettere su questa problematica, dopoche Rino Mele e Angelo Trimarco ci spinsero a lavorare insieme per laseconda rassegna teatrale (del 1974). Come tutte le intuizioni prematuredei grandi intellettuali, Filiberto l’aveva già annunciata con più di vent’annidi anticipo. Come aveva perfettamente fotografato i tipi: lui il«melanconico», io il «mercuriale».Il problema era quello di coniugare la metodologia della produzioneindustriale propria dei sistemi di design con il segno grafico d’autore, nelsenso della riconoscibilità stilistica del segno. Per me questo significavaspingere troppo il versante «artistico», privilegiare l’area della esteticità inluogo di quella della funzionalità comunicativa. Per me il design dovevatrovare un difficile ma inequivocabile equilibrio tra l’istanza estetica equella della funzionalità comunicativa; Mino tentava lo sbilanciamento,privilegiava il dominio dell’estetica, cercava tenacemente la via delle arti.Infinite volte lo avevo spinto a percorrere la strada della ricerca estetica percompensare la sua pulsione artistica, per liberare l’artista dal designer.Nasce forse anche per questo, nel 2004: «Scenografica. Dalla messa inscena alla messa in pagina»2, un libro ed una mostra nei quali lasciafinalmente volare la sua dimensione di artista e di poeta.Poi il lavoro, l’impresa, ci ha tolto il tempo di «litigare» con serenità eprofondità e ciascuno ha percorso le proprie strade senza poterle discuterecon l’altro; le nuove tecnologie, il marketing, i nuovi itinerari della ricerca,

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della didattica, ci hanno ulteriormente allontanato. Ma nel frattempo ècambiato anche il mercato, la concorrenza, la comunicazione; è propriocambiato il mondo.Ci è mancato il tempo di progettare una separazione creativa per tradurlain una nuova ricchezza.È stato troppo poco il tempo per accorgerci che non avevamo più tempo.

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1 Una persona come noi due, Edizioni10/17, Salerno, 1992. Il volumetto raccoglieracconti di Antonio Castaldi, RedentaFormisano, Luigi Giordano, Vito Maggio,Rino Mele, Generoso Picone, con cinqueversi di Edoardo Sanguineti.

2 Gelsomino D’Ambrosio, Scenografica.Dalla messa in scena alla messa inpagina, Edizioni 10/17, Salerno, 2004.Il libro contiene uno testo critico di AdaPatrizia Fiorillo.

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Liceo classico, una giurisprudenza senza entusiasmo, poi Alfredo Profeta hafatto molti mestieri: impiegato, elettricista teatrale a Londra, regista teatralea Napoli, dirigente di un’azienda editoriale, libraio, redattore e grafico, criticomusicale, grafico professionista.Ma è interessante considerare come tutto torna con coerenza nella storia diun itinerario formativo, anche avventuroso e ricco, come quello di Profeta,che ha incontrato nel suo percorso, artefice l’editore Gaetano Macchiaroli,molte figure di intellettuali, di napoletani-europei, come Giorgio Amendola,Luigi Compagnone, Ermanno Rea, Paolo Ricci, Riccardo Ricciardi, ManlioRossi-Doria, Maurizio Valenzi, Vittorio Viviani, e tantissimi altri artisti,letterati, politici, editori, che gli hanno segnato le strade e il destino, nellacultura, come nella professione, nella visione politica.La sua dimensione professionale nasce e si sviluppa dunque intorno a tregrandi insegnanti: il primo maestro è il libro, ma non il libro inteso solocome oggetto di book design, certamente anche quello, ma il libro vissutonella sua più tradizionale e nobile funzione: lo studio non finalizzato, lostudio per passione, per curiosità, per amore, direi.Da libraio (lui con più dotta umiltà scrive «commesso di libreria»),a dirigente editoriale, a progettista grafico, c’è un curioso itinerario alcontrario, che va dalla progettazione, alla gestione, alla vendita ed alconsumo del libro nella sua vita, ma sempre al centro dei suoi interessi.Una conferma ulteriore, se mai ce ne fosse bisogno, che il book design nonpuò essere attività da neofiti o da frequentatori occasionali dell’oggetto libro.Né potrà dire molto, alle giovani generazioni, una lunga frequentazione delpiombo delle linotypes, nel rapporto con gli operai della tipografia, laddove siimparavano regole professionali e di vita insieme, dove gli intelletuali deldesign grafico apprendevano dal proto le regole di base della buona pagina.Il secondo maestro di Profeta è una maestra – ed è anche molto seduttiva –è la musica. Appassionato musicofilo, ma anche esperto musicologo e criticomusicale, con la musica convive da tutta la vita, al punto da diventare eglistesso produttore di musica, fabbricatore di quel meraviglioso strumento dicomunicazione che è il disco. Alfredo ha fondato e cura con testardaggine econ passione una piccola ma sofisticata casa di edizioni musicali, la «Imprintrecords»; è autore di tutto, dalle scelte al design delle confezioni; è totalepadrone di ciò che ama e che vuol condividere con altri.La musica, i libri e la grafica, dunque, sono parte importante del suoprogetto di vita, con una precisa poetica: «ho tentato di trascodificare nellinguaggio grafico che ho provato a darmi, il rigore razionale e la spigolosaimprevedibilità di un assolo di sassofono (come quelli di Charlie Parker, diJohn Coltrane, di Eric Dolphy o di Ornette Coleman, per chi è in grado diintendere cosa voglio dire)»1.Anche Profeta è di quelli che hanno sognato di cambiare la società, ilmondo, ma «per sgombrare il campo da ogni possibile equivocainterpretazione, alla possibilità di costruire un mondo migliore ci credeancora»2.1 Profeta, 1997: 31.2 Ivi, p. 31.

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