IL SIMBOLICO COME CIFRA DI GRAVITAZIONE NELLO … Il simbolico come cifra... · Il simbolico nel...
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IL SIMBOLICO COME CIFRA DI GRAVITAZIONE
NELLO SPAZIO NOETICO
di Giuseppe LIMONE
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1. Una premessa. Il simbolico nel percorso noetico.
Questo scritto intende presentare brevi approcci a una ricerca in corso,
mantenendo – nella sua intenzione seminariale – tutte le tracce della
provvisorietà. Si tratta di discutere, qui, un’idea emergente da contributi diversi
– anche da ambiti disciplinari diversi. L’idea che l’attività del pensiero in quanto
tale – della ‘noesis’ qua talis – sia, più o meno consapevolmente, catturata in un
campo di gravitazione – e la valutazione del ‘se’, del ‘come’, del ‘quanto’ di
questa cattura e dei suoi esiti critici.
Si farà, pertanto, riferimento a un confronto fra testi, fra modelli, fra
idee, fra ragioni. Allo scopo di tracciare appunti per un viaggio. In cui tener
conto di tre livelli: il livello della cosa; il livello dell’idea; il livello della parola.
Ma sapendo quanto questi livelli possano essere fra loro intrecciati. Interagìti.
Innestati. Per seguire una specifica pista: costringere modelli diversi a
confessarsi – per pensarne l’impensato.
L’idea dell’attrazione – e, con essa, della gravitazione – ha una storia
antica. Perché è storia di una metafora antica. E’ possibile coglierne sviluppi fin
dal mito dell’androgino di Platone. Se infatti guardiamo l’itinerario percettibile
che va dal mito omerico di Circe al mito platonico dell’androgino al mito ebraico
della ricomposizione fra parti di documento al mito medievale del Graal al mito
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goethiano delle affinità elettive fino al mito romantico del viaggio di formazione,
tutto l’itinerario mitografico sembra girare intorno a una metafora precisa:
quella – appunto – dell’attrazione. Ed è noto come e quanto la stessa scoperta di
Newton sulla gravitazione universale s’inserisse all’interno di una grande
metafora ben presente nel Settecento, nella quale era nascosta una specifica
pregnanza mitica. Quella dell’attrazione magica fra corpi. Né è cosa peregrina
sottolineare come nella stessa ricerca matematico-astronomica di Keplero gli
specialisti abbiano individuato l’agire di una metafora trinitaria1.
La strategia metaforica, quindi, non è necessariamente impresa estetica o
ornamentale, perché ben a ragione può essere legata a una strategia metafisica,
la cui struttura teorica comandi a – o sia comandata da – una strategia
epistemologica. E – ci ricorda Popper – un’idea metafisica non è necessariamente
una fallacia della fantasia, perché, anzi, può costituire il preciso modo in cui
nasce e si fa largo un’idea scientifica forte. La quale resta in attesa del tempo
maturo in cui potrà vestirsi di calcoli logici e di proposizioni controllate.
Da quando – partendo da prospettive diverse – Michel Foucault, Hans
Blumenberg, Thomas Kuhn e Jean Piaget hanno insistito sul nocciolo metaforico
che abita in ogni rottura di percorso gnoseologico – il nocciolo metaforico che
vive nell’idea nuova –, il discorso epistemologico sui percorsi della scienza ha
cambiato i suoi fuochi, spostando l’attenzione dall’accumulo quantitativo dei dati
1 Cfr. anche la stessa interpretazione ‘metaforica’ che il teologo protestante Andrea Osiander aveva dato nel 1543 del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico e i diversi esiti critici in Giordano Bruno. Sul punto vedasi anche, in Filosofia. Storia del pensiero occidentale, a cura di Emanuele Severino, vol. III, i saggi di Adriano Carugo e di Sergio Moravia: p.643, p. 626 ss., p. 610 e passim.
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conoscitivi alla struttura qualitativa del modello in cui quei dati – come in
un’invisibile struttura-guida – vanno a incardinarsi. Ma, c’è un ma. L’idea
capace d’imporre una cesura e una struttura non è calcolabile – non è deducibile
– dal percorso fino a quel punto seguìto. E la nuova metafora istituisce di fatto un
nuovo specifico campo di gravitazione.
La ‘metafora’, quindi, può avere non solo valore estetico, ma altro peso
specifico: euristico, conoscitivo, epistemologico. Peso specifico che non riguarda
soltanto il percorso diacronico della scienza, ma anche i molteplici sentieri
sincronici che l’attività conoscitiva dell’uomo nel conoscere il reale si dà.
In questo senso, il presente intervento mette – necessariamente per cenni
– a confronto una pluralità di modelli, pertinenti ad ambiti disciplinari diversi,
per interrogarne l’eventuale sovrapponibilità – ed eventualmente il senso.
2. Il simbolico all’interno di una teoria della comunicazione.
Quando si parla di ‘simbolo’ e di ‘simbolico’, solo apparentemente si
parla di una ‘cosa’. Si parla, in realtà, di un fenomeno. Fenomeno che accade
all’interno dei molteplici mondi che costituiscono l’evento della comunicazione.
Un tale fenomeno è, a ben vederlo, un duplicarsi e un congiungersi forte fra
luoghi mentali, tra significati. Congiunzione che si rivela, ad attraversarla,
evento di attrazione. Di legame. Di osmosi. Di gravitazione. Di cui è utile cercare
gl’indicatori.
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A partire da Charles Morris, come è noto, si suole distinguere nel
fenomeno complesso del ‘comunicare’ un asse sintattico (fatto della composizione
dell’unità espressiva), un asse semantico (fatto della significazione dell’unità
espressiva), un asse pragmatico (fatto della relazione – fra un emittente e un
ricevente – a partire dall’unità espressiva).
Ma una tale distinzione non basta. Bisogna, ad avviso del sottoscritto,
integrarla in due punti essenziali.
Il primo. Saper cogliere nel complessivo fenomeno del ‘comunicare’ un
livello debole e un livello forte. Collocando al livello debole il grado del
comunicare noetico – al limite, formalizzato. E, al livello forte, il grado del
comunicare vissuto2 - al limite, archetipico. Siamo – all’altezza di questo secondo
grado – davanti all’operare di un bisogno, di un desiderio, di una fede, di una
credenza, di una suggestione, di una fascinazione, di una carica emozionale, di un
coinvolgimento che si fa gravitazione. Declinazioni diverse di vissuto che
obbediscono a una medesima legge.
Il secondo punto. Occorre, a nostro avviso, saper innovare la proposta
strutturale di Morris, inserendo nell’articolazione degli assi predetti un asse
ulteriore, che chiameremmo fenomenologico. Un asse che individui cioè –
nell’ambito dell’unità espressiva – il grado di vissuto e/o di appartenenza al reale.
Sapendo che l’appartenenza al vissuto è una forma di appartenenza al reale.
2 Sul punto rinvio a Giuseppe LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegomeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli 2000, pp. 61 ss.
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Perché il vissuto, oltrepassando il mentale, abbatte il limite che divide il mentale
dal reale.
Che cosa, nel complessivo fenomeno del ‘comunicare’ al livello forte, si
osserva? Si osserva che in ogni caso – con qualunque asse si abbia da fare
(sintattico, semantico, pragmatico, fenomenologico) – tutte le componenti di ogni
asse appaiono catturate all’interno di un fenomeno unico di congiunzione che è
osmosi, legame, attrazione, coinvolgimento, gravitazione.
E guardiamo con ordine. Nella congiunzione sintattica forte (rapporto
fra parti strutturali combinate in un tutto) possiamo individuare quei fenomeni di
interazione mutante fra parti che – ad esempio – i gestaltisti avevano collocato
sotto la forma delle ‘illusioni ottiche’. Si pensi alle leggi gestaltiche: alla
vicinanza, alla somiglianza, alla chiusura, al destino comune, alla pregnanza o
buona forma, all’esperienza precedente – e si pensi altresì ai significativi esiti
delle ricerche gestaltiche sul rapporto figura/sfondo, sul movimento strutturale
fra la grandezza e la forma delle parti, sulla direzione delle aree nel campo3.
Non solo. Anche nella congiunzione semantica forte (rapporto
significante/significato) possiamo cogliere un fenomeno di interazione mutante:
quello per cui l’unità semantica – si pensi all’espressione poetica o d’arte – non
può essere ricondotta al mero gioco sommatorio di un ‘significante’ e di un
‘significato’.
3 Vedi KATZ, Psicologia della forma, Boringhieri, .
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E, procedendo nell’articolazione indicata, non a caso nella congiunzione
pragmatica forte (rapporto emittente/ricevente) si coglie quel fenomeno di
interazione fra soggetti (reali o virtuali) che fa – o tende a fare – degli attori
della comunicazione osservata un unico campo di gravitazione.
Non basta. Il fenomeno di ‘gravitazione’ è rilevabile anche nella
congiunzione fenomenologica forte (rapporto mentale/reale), là dove possiamo
cogliere come nella dimensione simbolica forte l’intero campo gravitazionale
generato renda sostanzialmente indistinguibili fra loro il mentale e il reale.
Può, inoltre, verificarsi, fra le componenti coinvolte in ogni asse – e fra
gli assi medesimi – l’agire di una forza che costantemente si comunica dall’uno
all’altro piano del fenomeno, realizzando una figura unitaria che si costituisce e
si comprende nel legame.
Né bastano queste distinzioni, se si osserva che il mondo dei significati
influenza da ogni lato i soggetti della comunicazione e i significati stessi, sicché le
precedenti distinzioni (rapporto sintattico all’interno del significante, rapporto
semantico fra significante e significato, rapporto pragmatico fra emittente e
ricevente, rapporto fenomenologico fra mentale e reale) si rivelano solo alcune
dimensioni all’interno di un fenomeno difficilmente esauribile in un numero
definito delle stesse.
La comunicazione, nel suo operare, mette in orbita un complesso di
componenti congiunte che ben potrebbero denominarsi ‘massa simbolica’. Una
‘massa’ simbolica che, all’interno di una teoria della comunicazione, sarà
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avvertibile a più coordinate. Massa sintattica, massa semantica, massa
pragmatica, massa fenomenologica. Un’unica massa ‘comunicazionale’, fatta di
componenti diverse in un unico campo di gravitazione. Ossia, una massa
simbolica intesa come massa linguistica complessa. Donde nasce, sotto l’effetto
della forza gravitazionale che cattura le componenti del gioco, un preciso e
speciale incurvarsi del campo in cui queste si muovono: lo spazio della
comunicazione. Né la metafora fisica ha, qui, un puro significato metaforico.
Essa intende, infatti, guardare ben oltre di sé.
Il nome simbolico diventa, in un tale contesto, indicatore di un fenomeno
di attrazione di cui è, al tempo stesso, espressione e parte indissociabile.
Indicatore paradossale di un campo di forza di cui è parte.
Se ne possono trovare indicazioni analogiche in campi disciplinari
diversi. Si pensi alla fisica e ai suoi concetti di ‘massa’, di ‘campo’, di ‘buco
nero’. Del ‘collassarsi’ delle masse. Delle quattro forze dell’universo. Di un
universo da comprendere lungo assi diversi di attrazione4.
Può accadere – perciò – che una massa reale si comporti come una massa
linguistica. E che una massa linguistica si comporti come una massa reale.
Massa reale, massa concettuale, massa linguistica si rivelano tre centri di
coinvolgimento reale all’interno della comunicazione.
4 Sul punto, vedi Brien GREENE, L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima, Einaudi, Torino 2000. .
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Le leggi di Canetti e le leggi della Gestalt rivelano – qui – un che di
comune. Mostrando una sovrapponibilità relativa che dà a pensare.
A ben guardare c’è, infatti, nel simbolico forte, una precisa tendenza
all’espansione, così come nelle caratteristiche della massa reale di cui parla
Canetti. Espansione che, nel caso della massa concettuale, va dalla cosa al
concetto e dal concetto al nome (come può osservarsi anche nel fenomeno della
dignità del nome proprio e del fascino della pubblicità). E, allo stesso modo, può
osservarsi come ci sia, nel simbolico forte, una precisa tendenza alla buona
forma e al destino comune, proprio come effettivamente si constata nelle
caratteristiche della massa percettiva di cui si occupa la teoria gestaltista.
Non basta. C’è, nel simbolico forte, una declinazione della forza
gravitazionale – della potenza nel senso di Rudolf Otto. Da questo punto di vista,
le ‘affinità elettive’ di Goethe possono essere considerate una forma narrata di
questa potenza della gravitazione5.
Il fenomeno simbolico appare quindi – complessivamente – come un
fenomeno di gravitazione in cui risultano coinvolti – a più livelli e in più assi
(anche eventualmente intrecciati fra loro) – significante e significato, emittente e
ricevente, mentale e reale. Coinvolgimento che è congiunzione forte, in cui la
reciproca comunicazione di caratteristiche fra i terminali della congiunzione
rende per notevoli aspetti indissolubile il rapporto.
5 Sul punto ci permettiamo rinviare a: Giuseppe LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997.
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Se ne guardino esempi diversi nelle illusioni ottiche, nella prospettiva,
nella poesia, nello slogan, nel motto di spirito, nel riso, nell’incanto, nella
solennità. E si guardi, in particolare, al motto di spirito. All’operare in esso di
una forma di condensazione, anche attraverso l’impiego cangiante di un
medesimo materiale linguistico. Il ‘doppio senso’ ne è una precisa messa in
forma6.
Si aprirebbe, qui, un ulteriore campo di analisi, che non abbiamo il
tempo di sondare. Quello per cui, all’interno del nesso ‘emittente/ricevente’, può
ulteriormente e fruttuosamente articolarsi il rapporto fra ‘emittente’ (produttore
di significato) e ‘significato’ (rapporto poietico) e il rapporto fra ‘ricevente’
(fruitore di significato) e ‘significato’ (rapporto ermeneutico). Rapporti che
possono essere anche, in notevole misura, considerati indipendenti l’uno
dall’altro. Infatti, si può produrre un significato per l’altro come se il ricevente
ci fosse, anche se mai ci sarà. E si può interpretare un significato in relazione a
un emittente come se un emittente ci fosse, anche se un emittente non c’è mai
stato. E’ la storia della civiltà.
3. Il simbolico all’interno di una teoria della cognizione.
La teoria epistemologica contemporanea osserva che non si conosce se
non attraverso modelli – consapevoli o inconsapevoli che siano. Si pensi, in
proposito, a una pluralità di modelli possibili, epistemologicamente significanti.
6 Vedi Sigmund FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Newton Compton, Roma 1992, ad es., p. 50 e p. 41.
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Non basta, in questo senso, citare la svolta ermeneutica. Per la quale, come è
noto, il linguaggio costituisce il campo costituente necessario – l’imbuto – in cui
l’essere diventa e può diventare pensiero. Ciò che è da osservare, in proposito, è
che i modelli conoscitivi storicamente sedimentati diventano, in questa ottica,
plessi strutturali specifici che si fanno, in quanto griglie gravitazionali del
conoscere, modelli simbolici essi stessi. Perché esercitano una specifica forza
gravitazionale sul costituirsi del pensiero. Si osservino, in questo senso, alcuni
modelli.
a. Il modello di Elias.
Una delle capacità specifiche di Norbert Elias, sociologo con vocazione
filosofica, è stata quella di mettere in luce un preciso campo di gravitazione
esercitato – sul pensiero – dal linguaggio.
<<Una volta – egli scrive – ho letto la storia di un gruppo di uomini che
salivano su una torre sconosciuta. La prima generazione arrivò al quinto piano,
la seconda al settimo, la terza al decimo. Col tempo, i discendenti arrivarono
sino al centesimo piano, ma lì giunti la scala sprofondò. Gli uomini si stabilirono
così a quel piano. Col tempo, dimenticarono che i loro antenati avevano vissuto
ai piani inferiori e scordarono come essi erano giunti sino al centesimo piano.
Vedevano il mondo e se stessi dalla prospettiva del centesimo piano senza sapere
come gli uomini fossero giunti fin lì. Sì, essi ritenevano che le idee che si erano
fatti da quella prospettiva fossero le idee comuni a tutti gli uomini …>>7.
7 Norbert ELIAS, Saggio sul tempo, Il Mulino, Bologna 1986, p. 160.
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Il campo concettuale, qui, non è soltanto una rete strumentale, perché
esercita – sul pensiero – un preciso campo di gravitazione.
b. Il modello di Girard.
E’ stato, come è noto, René Girard a ipotizzare e mettere in luce un
comportamento specifico nel rapporto sociale fra gli uomini. Egli osserva come
la caduta delle differenze fra gli uomini scateni la cosiddetta ‘crisi sacrificale’:
un comportamento (individuale e collettivo) al cui fondo c’è l’individuazione di
un ‘capro espiatorio’ assunto come scarica liberatrice. Un meccanismo di
concentrazione (mentale e psichica) si fa, così, inconscia azione di liberazione.
La tesi di Girard è chiara: “L’ordine, la pace e la fecondità riposano
sulle differenze culturali. Non sono le differenze, ma la loro perdita a provocare
la rivalità pazza, la lotta a oltranza tra gli uomini di una stessa famiglia o di una
stessa società”8. E continua: “Quindi, come nella tragedia greca, come nella
religione primitiva, non è la differenza, bensì la sua perdita a causare la
confusione violenta”9.
Nel momento in cui si azzerano le differenze fra gli individui, nasce la
crisi che conduce alla necessità sacrificale10.
Il campo psichico individuato dagli uomini esercita sugli stessi – sul loro
comportamento e sul loro pensiero – una precisa forza direzionatrice.
c. Il modello di Canetti.
8 R. GIRARD, a violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1992, p. 77. 9 Op. cit., p. 79. 10 Su questi temi vedi anche la lucida analisi di R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Bologna 1997.
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E’ stato, d’altra parte, Elias Canetti a sottolineare alcuni aspetti cruciali
del comportamento degli uomini nel momento in cui essi si trasformano in
massa.
Egli mette in luce, in questa ricerca, la scarica. E scrive: “Il principale
avvenimento all’interno della massa è la scarica. Prima, non si può dire che la
massa davvero esista: essa si costituisce mediante la scarica. All’istante della
scarica i componenti della massa si liberano delle loro differenze e si sentono
uguali … Nella scarica si gettano le divisioni e tutti si sentono uguali. In quella
densità, in cui i corpi si accalcano e fra essi quasi non c’è spazio, ciascuno è
vicino all’altro come a sé stesso. Enorme è il sollievo che ne deriva. E’ in virtù di
questo istante di felicità, in cui nessuno è di più, nessuno è meglio d’un altro, che
gli uomini diventano massa”11.
Canetti osserva inoltre – con geniale finezza – che, nel momento in cui si
dà la trasformazione degli uomini in massa, il comportamento dei singoli si
capovolge. Si ha un rovesciamento radicale del bisogno di sicurezza. Infatti, il
timore di essere toccati, che ogni singolo vive, qui si trasforma in un paradossale
bisogno: nel bisogno di essere vestiti da quel compatto insieme fisico che
protegge12. Non solo. La massa, nel momento in cui si fa tale, vive una necessità
espansiva che la costringe a crescere senza sosta. Fino a poter trasformarsi – da
massa aperta – in massa chiusa. In questa sua nuova fase, la massa si fa
11 Elias CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, pp. 20-22. 12 Elia CANETTI, Massa e potere, cit., pp. 17-18.
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istituzione e, in quanto tale, trasforma la sua crescita in regole di ripetizione. Lo
spazio si fa tempo. Lo spazio di crescita, tempo di ripetizione.
Si potrebbe obiettare che, qui, Canetti sembra confondere, a partire da
un gesto metaforico, uomini e cose. Ma egli è ben consapevole della sua sfida. E,
infatti, distinguendo fra ‘cristalli di massa’ e ‘simboli di massa’, lucidamente
preciserà: <<Definisco cristalli di massa quei piccoli e rigidi gruppi di uomini,
ben distinti gli uni dagli altri e particolarmente durevoli, che contribuiscono alla
formazione delle masse>>13. E continua: <<Definisco simboli di massa le unità
collettive che non sono costituite da uomini e tuttavia vengono sentite come
masse. Tali unità sono il grano, la foresta, la pioggia, il vento, la sabbia, il mare e
il fuoco. Ciascuno di questi fenomeni contiene caratteristiche essenziali della
massa. Pur non essendo costituito da uomini, esso ricorda la massa e sta
simbolicamente al suo posto nel mito e nel sogno, nel discorso e nel canto>>14.
Ma la somiglianza non significa confusione: <<Conviene distinguere in
modo preciso e inconfondibile questi simboli dai cristalli. I cristalli di massa si
presentano come un gruppo di uomini che spicca per la sua coesione e unità. Essi
sono intesi come unità, sono vissuti come unità, ma sempre sono composti da
uomini che davvero agiscono – soldati, monaci, un’intera orchestra. I simboli di
massa invece di per sé stessi non sono mai uomini, e vengono soltanto sentiti
come massa>>15.
13 Elias CANETTI, Massa e potere, cit.., p. 88. 14 Elias CANETTI, op.cit., p. 90. 15 Elias CANETTI, op. cit., p. 90.
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Epperò, d’altra parte, l’esigenza di non confondere non può condurre
all’errore di non capire quello che pur resta un fondo comune: <<Un loro esame
approfondito può sembrare, a prima vista, non appropriato al tema. Vedremo
però che così sarà possibile avvicinare la massa stessa in modo nuovo e
fruttuoso. L’osservazione dei suoi simboli fa cadere su di essa una luce naturale;
sarebbe sciocco chiudersi dinanzi a tale luce>>16.
Ma Canetti aveva già individuato quattro caratteristiche della massa: “1.
La massa vuol sempre crescere … 2. All’interno della massa domina
l’eguaglianza … 3. La massa ama la concentrazione … 4. La massa ha bisogno
di una direzione …”17.
Da un lato, quindi, c’è il comportarsi delle unità della natura (‘simboli di
massa’). Dall’altro lato, il comportarsi della ‘massa’ e dei suoi ‘cristalli di
massa’ opera come unità della natura. Dall’altro lato ancora, un tale
comportarsi è percepito dall’osservatore come unità della natura. Per giunta e
infine, questo percepire è investito di un significato che pretende di andar oltre la
mera impressione per toccare la dignità della teoria. In realtà, il comportamento
dell’uomo è investito di una luce che lo pone tutto intero – corpo e pensiero –
all’interno della natura. Una luce che non è solo luce prospettica. E’ una teoria.
16 Elias CANETTI, op. cit., p. 90. Si veda in Canetti anche la ‘muta del lamento’ (p. 124): “La vicinanza fisica di coloro che appartengono alla muta, la loro densità, è sommamente importante …”. E si veda anche la similitudine istituita fra il comportamento degli uomini e quello degli spermatozoi (op. cit., p. 297). . 17 Elias CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, pp. 34-35 e ss. Vedi anche p. 32.
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Si guardino anche le penetranti osservazioni di Canetti sulla “massa di
fronte a sé stessa”18. Quella per la quale tutti siamo in una medesima piazza a
guardare un medesimo centro che ci avvince. A guardar bene, è tempo d’oggi.
Tutti a guardare le mutande della Levinskij. O gli zebedei di Taricone. Tutti a
guardare gli arcana notturni del cosiddetto “Grande fratello”. Nella persuasione
comunicata che guardare un uomo per ventiquattr’ore di seguito significa
conoscerlo tutto. Stando all’interno di un’attrazione specifica fra esibizionisti e
guardoni. Di cui i media sono la consapevole struttura mediatrice.
d. Il modello di Edelman.
E’ stato Edelman, d’altra parte, a svolgere una precisa analisi delle
istituzioni a partire dai loro linguaggi. Linguaggi esaminati come cariche
simboliche ad alto tasso di persuasione e di manipolazione19. Non si dimentichi,
in questo senso, che in quella che chiamiamo ‘istituzione’ si consumano profili
decisivi dell’uomo operante in società. Basti pensare all’istituzione in quanto
realizza – mette in forma – bisogni come il senso dell’appartenenza, il senso della
rappresentanza e il senso dell’identità.
e. Il modello di Otto.
Ci riferiamo, qui, all’analisi che Rudolf Otto sviluppa sul sacro20. Il
<<sacro>> – detto da Otto anche il <<santo>> – è, per lui, innanzitutto, il
<<numinoso>>. Che cos’è il numinoso? E’ il sovrappotente, il tremendo, il
deinòs. Ciò verso cui e a partire da cui l’uomo vive la sua inermità radicale. La 18 Elias CANETTI, op. cit., pp.33-34. 19 Vedi sul punto Murray EDELMAN, Gli usi simbolici della politica, Guida, Napoli 1987. 20 R. OTTO, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 1989.
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sua impotenza radicale. Il suo nulla. Il numinoso è, nel suo fondo, una reazione
radicale dell’anima, non spiegabile per concetto. Quella reazione che si
accompagna allo <<sgomento>>21. Otto dice anche <<il fondo dell’anima>>. Un
<<a priori>>.
L’uomo, consegnato al fatto irrevocabile della propria soccombenza al
numinoso – alla irresistibile sua tremendità – deve poterglisi affidare. Non può
non farlo. Deve poter scegliere di farlo. E – qui – il tremendo può anche essere
soltanto l’altra faccia del meraviglioso. Di ciò che irresistibilmente cattura,
coinvolgendo in un’area di gravitazione.
Non a caso, all’origine ancestrale del potere c’è il ‘ius vitae ac necis’.
Dove, se il ‘ius necis’ esprime il tremendo davanti al quale procombe la nostra
fragilità, il ‘ius vitae’ esprime, d’altra parte, il meraviglioso – il transfert di vita –
che erompe dall’inatteso miracolo della mancata irrogazione della morte.
Ma Otto va oltre. La traduzione del ‘numinoso’ in termini razionali è
una necessità della ragione. La quale, nel tentarne un’elaborazione razionale,
fallisce, ma, pur fallendo, non può rinunciare al suo fine. E la ragione, pur
gravitando intorno a questa sua necessità, non può non sapere della forza intorno
a cui gravita e della propria strutturale povertà. Il ‘numinoso’, infatti, non può
essere detto attraverso determinazioni razionali. Non solo. Il numinoso non può
essere detto nemmeno attraverso determinazioni ontologiche, fossero anche –
nell’intenzione – ultrarazionali.
21 Op. cit., p. 21.
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Il poetico è – qui – ineluttabilmente preso in una rete. In cui fa
esperienze cruciali, ma da cui non può uscire.
L’analisi di Otto ci mostra un particolarissimo accesso al mondo
simbolico. Coglibile, a nostro avviso, in due punti essenziali. Da un lato, lo
strettissimo nesso esistente fra il simbolico e la forza. Dentro il simbolico opera
infatti, metabolizzata in più modi e in più mondi, una forza di gravitazione.
Dall’altro lato, il declinarsi di questa forza secondo tonalità diversificate, che
possono andare dallo sgomentevole al sublime al meraviglioso al bello al delicato
a tutte le altre possibili ancora22: tutte tonalità del vissuto in cui un’unica forza,
come in un larghissimo spettro cromatico, si frantuma restando una.
f. Il modello di Platone. Il modello di Goethe. Il modello di Benjamin.
A ben vedere, il mito dell’androgino di Platone e la metafora delle
affinità elettive di Goethe – su cui Walter Benjamin ha sviluppato un celebre
saggio23 – appartengono a un medesimo approccio conoscitivo: il darsi, nei
rapporti umani, di forze gravitazionali la cui individuazione costituisce un varco
preciso per illuminare la realtà.
g. Il modello di Matte Blanco.
E’ stato, come è noto, Ignacio Matte Blanco, a sostenere che il pensiero
umano opera sulla falsariga di due logiche. Qui, con Matte Blanco, andiamo ben
oltre una mera griglia epistemologica che faccia da centro gravitazionale del
22 R. OTTO, Il sacro, cit. 23 Ci permettiamo richiamare una nostra analisi in G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, pp. .
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pensiero, perché, nella sua ricerca, si tratta della pretesa teorica di individuare
centri strutturali e imprescindibili del pensare.
L’approccio di Matte Blanco, infatti, offre l’occasione di pensare il
simbolico in maniera rigorosa. Egli mostra come nella mente umana operino due
logiche: una riconducibile al principio di generalizzazione, l’altra al principio di
simmetria. Secondo la prima, il sistema inconscio tratta una cosa individuale
(persona, oggetto, concetto) come se fosse un membro o un elemento di un
insieme o classe che contiene altri membri; tratta questa classe come sottoclasse
di una classe più generale e tratta questa classe più generale come sottoclasse di
una classe ancora più generale, e così via. Secondo l’altra logica, governata dal
principio di simmetria, il sistema inconscio tratta la relazione inversa di
qualsiasi relazione come se fosse identica alla relazione diretta. Cioè, tratta le
relazioni asimmetriche come se fossero simmetriche. Se Giovanni è padre di
Pietro, Pietro è padre di Giovanni. Nascono da questo principio di simmetria
conseguenze importanti come: 1. Non può esserci successione; 2. La parte è
identica al tutto (‘il braccio è parte del corpo, il corpo è parte del braccio’); 3.
Tutti i membri di una classe sono trattati come uguali fra loro e uguali alla
classe di riferimento. Sicché due elementi di una classe diventano identici – e
identici anche alla classe di cui fanno parte (‘Pietro è Giovanni’). 4. Classi
opposte possono coincidere fra loro (Essere vivo = essere morto). 5. Non può
esserci più relazione di contiguità fra parte e tutto. Se la logica aristotelica è un
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pensare asimmetrico (‘distinguente’), la logica dell’emozione che abita
l’inconscio è un pensare simmetrico (‘identificante’).
E’ evidente come in questa metodica il problema dell’inconscio venga
affrontato non a partire dall’indagine sulla sua energia (irrazionale o arazionale
che sia), ma a partire dalla sua ‘logica’.
Non solo. E’ noto che Sigmund Freud aveva individuato alcune
caratteristiche strutturali dell’inconscio: 1. Assenza di contraddizione reciproca
fra le presentazioni dei vari impulsi – e, in più, l’assenza di negazione; 2.
Spostamento; 3. Condensazione; 4. Assenza di tempo; 5. Sostituzione della realtà
esterna con quella psichica24. Ciò che dall’analisi strutturale di Matte Blanco si
scopre è che queste caratteristiche strutturali sono in realtà leggibili come
specificazioni e varianti di un unico principio logico: quello simmetrico.
Ma un ulteriore passo è, a questo punto, possibile. Non è difficile
osservare come, in realtà, il ‘pensare simbolico’ – se lo si assume nel significato
del simbolico forte – sia in larga misura assimilabile alle caratteristiche strutturali
di questo pensare inconscio. Del pensare inconscio, cioè, che opera secondo il
principio della simmetria. Per esempio, secondo il principio per cui una parte
dell’insieme viene trattata logicamente come l’intero insieme. Né, d’altra parte, è
difficile osservare che c’è un ‘pensare dialettico’ che acquisisce in larga misura
connotati dallo stesso principio della simmetria (coincidenza della parte col
24 Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1981, p. 42.
21
tutto, coincidenza degli opposti, reciproco richiamo fra gl’inversi,
sovrapposizione degli inversi).
Non è questa la sede per un discorso sviluppato altrove25, ma può
mostrarsi – lungo un percorso che congiunga Leibniz e Jung, Matte Blanco e
Cassirer – che il ‘pensiero simbolico’, come pensiero dell’inconscio, e il ‘pensiero
dialettico’, come pensiero del conscio, sono, da questo punto di vista, due modi
diversi di esprimere una possibile intersezione fra ‘principio simmetrico’ e
‘principio della generalizzazione’. In questa luce, le due logiche di cui parla Matte
Blanco non appartengono a zone separate, ma possono costituire due coordinate
di un solo volume: il pensiero. Dentro il quale il noetico è catturato all’interno di
una gravitazione emozionale.
Se le due logiche appartengono a un unico volume, il pensiero, una tale
considerazione mostra, a ben vedere, due distinti profili. Da un lato,
l’appartenenza – nel topos del conscio – della logica inconscia a quella conscia:
una sua forma possibile è il pensare simbolico. Dall’altro lato, l’appartenenza –
nel topos dell’inconscio – della logica conscia a quella inconscia: una sua forma
possibile è quello che chiameremmo ‘l’inconscio intelligente’.
In generale, possiamo dire a questo punto che, se il pensare si avvale
sempre di modelli epistemologici o cognitivi, una delle forme di gravitazione del
25 Corso di perfezionamento – Seminario ‘Simboli e politica’, 17.4.1997, Istituto Suor Orsola Benincasa.
22
pensare è, appunto, il modello mentale cui esso si sottomette per conoscere. Che
si costituisce, in quanto tale, come forma simbolica.
Vorremmo richiamare, a questo proposito, l’attenzione su un punto.
Come c’è, nella fenomenologia della cognizione, il sottomettersi del pensare a un
modello mentale per conoscere – ossia un ‘calarsi’ del modello inappreso della
ragione nel modello appreso di una sua forma sedimentata –, allo stesso modo,
nell’ambito di una fenomenologia della comunicazione, può osservarsi il
sottomettersi del comunicare a un modello scenico per esprimere un
‘personaggio’ o una ‘figura’ – ossia un calarsi del modello inappreso della
ragione nel modello appreso di una sua forma sedimentata. Su questo punto, le
analisi di Erving Goffman sono ormai classiche. In ogni caso, ci si trova davanti
a forme strutturate di pensiero su cui il pensiero tende a gravitare. Ci si trova
davanti a forme simboliche.
4. Un quesito.
Che cosa la sovrapponibilità di questi modelli ci dice? Che in essi opera –
come in un’intuizione inconscia – il nocciolo di un’idea. L’idea che dentro la
conoscenza del vissuto ci sia un vissuto della conoscenza e che in questo vissuto
operi un’attrazione, una gravitazione segreta – la storia di un modello mentale o
di una fascinazione emozionale che ne delimita il cammino. E che, nel
delimitarlo, paradossalmente lo apre.
23
Ma una tale incidenza del simbolico non ha solo come bersaglio l’agire.
Ha anche un altro bersaglio: il pensare che vive in quell’agire.
Eppure, un’ulteriore finestra sembra aprirsi a questo punto. Che non
riguarda più soltanto il pensare abitante l’agire, ma anche lo stesso pensare
teorico che guarda quell’agire e quel pensare in quell’agire.
Accade, in questa prospettiva, un fatto nuovo. Il ‘noetico’ sembra girare
all’interno del ‘vissuto’ come una farfalla catturata nella luce.
In due sensi diversi, però, che vanno opportunamente distinti.
Esistono i condizionamenti simbolici del fare. Ed esistono i
condizionamenti simbolici del pensare abitante quel fare. Ma – ci si può
domandare a questo punto – esistono anche i condizionamenti simbolici del
pensiero come tale, ossia del pensiero teorico che pensa quel fare abitato dal
pensare?
Si osservi come ci siano, nella vita del pensiero, concetti che vi svolgono
una funzione coercitiva o quasi-coercitiva. La cui coercitività appare soprattutto
nel momento in cui il loro agire rivela un paradossale cammino. Si pensi ai
paradossi del tempo, del fondamento, dell’inizio, della totalità, della libertà26.
Aggiungerei anche gli effetti quasi coercitivi, sul valutare, del fatto compiuto.
Non sono i soli, ma sono significativi.
5. Dal ‘modello gravitazionale’ al ‘modello-cornice’.
26 Vedi più oltre nel testo.
24
Esiste una possibile svolta nel modello gravitazionale che pensa l’agire.
E’ quello che noi chiameremmo il “modello cornice”. Se ne possono trovare
tracce in Norbert Elias, in Elias Canetti, in René Girard, ma già molto prima: in
Immanuel Kant.
Il modello cornice apre modalità diverse al modello della gravitazione.
Perché esso, mentre rende intelligibile il dato aprendolo al luogo – al
modello – in cui si costituisce, apre al tempo stesso il modello alla chance della
variazione.
Il ‘modello cornice’ rende possibile, all’interno del ‘modello
gravitazionale’, la chance della libertà.
Si guardi all’intuizione di Elias. E precisamente a quanto egli afferma sul
bisogno degli uomini di parlare e su quello di disciplinare l’aggressività.
Elias osserva, in proposito, che bisogna distinguere, nel corso
dell’evoluzione storica dell’uomo, fra capacità inapprese e modelli sociali appresi.
Fra il modello inappreso di parlare e il modello sociale appreso del linguaggio che
in concreto satura quel modello-capacità. Fra il modello inappreso di disciplinare
la propria aggressività e il modello sociale appreso di disciplinarla. Ed Elias fa, a
questo proposito, un’illuminante osservazione. Noi lessicalmente distinguiamo
fra l’‘imparare a parlare’ e l’‘imparare una lingua’ come se fossero attività
diverse. In realtà, dentro questa distinzione così semplice abita una sapienza
inesplorata. Infatti, le due attività individuate – imparare a parlare e imparare
una lingua – sono diverse solo in quanto, nel caso dell’ ‘imparare a parlare’, noi
25
intendiamo l’imparare a parlare la prima lingua. Dentro la distinzione lessicale
abita una distinzione inconscia più profonda: quella che percepisce come nell’
‘imparare a parlare’ sia in gioco il costituirsi della capacità inappresa, del
modello inappreso, laddove nell’ ‘imparare una lingua’ è in gioco il saturare
quella capacità già costituita – quel modello precostituito – con modelli appresi.
Nella lingua vive una sapienza sedimentata, tutta da disoccultare. Giambattista
Vico lo sapeva.
Nasce, così, in Elias, un rapporto preciso fra modello inappreso e modello
appreso. Rapporto che individua, nel corso dell’evoluzione storica dell’uomo, la
storia di una particolare attrazione: quella fra il modello inappreso che
abbisogna di implementazione e il modello appreso che abbisogna di una
sedimentazione storico-sociale. E’ il nascere di una singolare attrazione fra
cornice e riempimento. Che è anche, in qualche misura, attrazione fra natura e
storia, fra strutture cogenti e libertà. Inutile dire che, già a partire da Kant, se ne
possono cogliere le emergenze nelle ‘forme trascendentali’.
Del resto, a ben guardare, il desiderio mimetico di Girard – ossia quel
desiderio che desidera ciò che gli altri desiderano, quale che sia il desiderato –
ricalca esattamente lo stesso itinerario. Qui,non si desidera, infatti, ciò che è
oggettivamente degno di desiderio ma ciò che è da altri desiderato, e solo per questo
esser desiderato27. Come dire che il desiderio funge da modello cornice. Un
modello cornice affacciato su un varco a riempimento mobile, la cui identità
27 Sul punto vedi R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna, .
26
dipende non dal desiderio stesso, ma da ciò che quel desiderio sceglie come
spazio cornice in cui attendere lo svelarsi del dato. Lo stesso imprinting di cui
parlano i biologi sta dentro questa forma.
6. Dall’oggetto della conoscenza al soggetto della conoscenza: i
condizionamenti simbolici del pensiero.
Diremo quindi che non solo l’agire e nemmeno soltanto il pensare che sta
in quell’agire sono simbolicamente condizionati, ma anche lo stesso pensare
teorico che quell’agire e quel pensare “conoscono”? E’ inutile nascondersi che il
parlare di condizionamenti simbolici del pensiero teorico in quanto tale apre una
precisa ferita narcisistica all’interno delle pretese del pensiero. A cui il pensiero
non può non cercare di sottrarsi. Infatti, in tale prospettiva, i condizionamenti
simbolici del pensiero non valgono più solamente per i soggetti pensanti in
quanto attori, ma anche per gli stessi pensanti in quanto spettatori teorici di sé
stessi attori. Certo, c’è un fenomeno simbolico vissuto – e pensato dal di dentro –
e c’è un fenomeno simbolico pensato – guardato noeticamente – dal di fuori. Ma
una tale distinzione non toglie che, sia nell’una sia nell’altra dimensione, si
colgano condizionamenti strutturali che incidono sul pensare.
Si guardi, in proposito, ad alcuni concetti forti esprimenti questa
gravitazione coercitiva all’interno del noetico. Si tratta di concetti la cui
‘coercitività’ è tutta da pensare. Si pensi a concetti come quelli di ‘Origine’, di
27
‘Totalità’, di ‘Libertà’. Il pensiero, nel riflettere su sé stesso in quanto riflettente,
si accorge di correre lungo precise reti simboliche che gli segnano la via.
Pensare l’originario. Che cos’è mai questa ‘origine’, questo ‘inizio’? Un
inizio nel tempo? Un inizio del tempo? Ma un ‘inizio del tempo’, quand’anche
non fosse inizio nel tempo, non presupporrebbe pur sempre ancora il tempo?
Non potendosi trattare di ‘inizio’ temporale, sarà inizio ‘logico’? E che cosa è
mai questo ‘inizio logico’? Posto che ogni pensare avviene nel tempo, non è
sospettabile che esso sia, ancora una volta, un modo mascherato per
presupporre ciò che ci si è vietato di presupporre, cioè il tempo? Il ‘prima’ in
quanto ‘tempo logico’ di un ‘inizio’ non sarà per caso il fantasma nascosto di un
‘tempo detemporalizzato’? L’ ‘inizio’ non sarà per caso il fantasma
radicalizzato del ‘prima’? Non si tratterà – col dire ‘inizio’ – di un modo
mascherato di attivare, nel luogo nobile del pensare, il nostro bisogno di pensare
l’inizio – archetipo ineludibile – diventandone, di fatto, in uno speciale
branchement, i terminali pensanti?
Pensare la totalità. Come pensare la totalità se lo stesso pensiero che la
pensa ne fa parte? E come non pensarla se è vero che il pensiero l’assume come
sua permanente cornice? Si può passare sotto silenzio che quasi tutti i paradossi
logici nascano da questa pretesa di dire la totalità?
Pensare la libertà. Si può pensarla? Si può non pensarla?
“La filosofia … – dicevamo in altra sede – non può pensare l’originario,
non può pensare la totalità, non può non pensare la libertà. Ma, se la filosofia
28
non può pensare l’originario e la totalità, è anche vero che non può non pensarli;
e, d’altra parte, se essa non può non pensare la libertà, è anche vero che non può
pensarla: pensarla sarebbe oggettivarla, e la ‘libertà’ non si lascia oggettivare.
La flagranza è fuori del suo raggio di percezione.
La filosofia, cioè, di fronte all’originario, alla totalità e alla libertà, non
può pensarli e non può non pensarli. Il suo asintotico approssimarsi a ‘idee’
inapprossimabili è il costitutivo limite del suo pensiero. Essa quindi, la filosofia,
non può non pensare – e non può non pensarsi – se non sul limite dell’
‘originario’, della ‘totalità’, della ‘libertà’. Lo fa anche quando dice di non farlo.
Rinunciare a farlo, sarebbe rinunciare a filosofare28”.
E’ un pensiero che percorre, in parte, lo stesso tessuto argomentativo di
Elias: “Queste domande rappresentano uno degli imperativi caratteristici della
modalità dominante del discorso e del pensiero. Tale modalità consiste in
un’impellente necessità intellettuale di individuare degli inizi assoluti. Anche in
questo contesto, dunque, si scoprono dietro alle finzioni, che possono essere
altamente contraffatte e spesso oscure, domande circa le origini. Bisogna partire
dai dati sociali per comprendere gl’individui? Bisogna partire dalle azioni
individuali per comprendere dei fenomeni sociali come il linguaggio? La risposta
è semplice, ma contrasta con alcune convenzioni della conoscenza e del pensiero
profondamente radicate che hanno un fermo ancoraggio nelle lingue
tradizionali. Molti aspetti del mondo reale, che è l’oggetto dell’esplorazione
28 G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, p. 43.
29
scientifica, hanno spesso un carattere processuale con riconoscibili punti di
transizione verso una nuova fase, ma privi di un inizio assoluto. A prescindere
da cosa si pensi del big bang, che viene talvolta considerato come un inizio dal
nulla, il nostro universo nella sua interezza fa parte di un processo privo di
inizio. Fare riferimento a un inizio assoluto fornisce un sicuro punto di ancoraggio
per la necessità umana di orientamento, ma la sicurezza che ne deriva à
ingannevole. Ci si assicura la pace dell’intelletto smettendo di porsi domande …”29.
Come dire: non ci sono solo gli effetti ‘quasi-coercitivi’ del percepire,
messi in luce dalla teoria della Gestalt. Vi sono altri effetti ‘quasi-coercitivi’ del
pensare, messi in luce da una teoria della comprensione.
Si pensi, fra gli altri, come si diceva, agli stessi effetti quasi coercitivi che
derivano – nel valutare – dal fatto compiuto.
Le stesse kantiane ‘idee della ragione’ si rivelano, a ben guardare,
strutture di gravitazione del pensiero nelle quali, sotto le quali e a partire dalle
quali si agita la vita nella sua ricerca essenziale di un ordo. Bisogna saper andare
con Kant oltre Kant. Sapendo che ciò non significherà liberarsi di Kant.
Il noetico stesso appare, in realtà, catturato all’interno di un’area di
gravitazione. Di emozionalità. Di attrazione. Non solo in quanto agisce, ma anche
in quanto pensa scientificamente l’agire e il suo stesso pensare. Lo stesso pensare
storicistico, a ben guardare, ne sia consapevole o no, sta dentro questa rete.
29 N. ELIAS, Teoria dei simboli, Il Mulino, Bologna 1998, p. 57. Il corsivo è nostro.
30
7. I punti ciechi dei modelli. La crisi.
Il simbolico rivela, pertanto, in filigrana una teoria dei limiti della
cognizione che ne costituisce la crisi. Ma crisi salutare.
Il pensare – potrebbe infatti obiettarsi – è catturato in una rete. Se ne
desumerà quindi che non possiamo pensare? O se ne desumerà, invece, che sono
appunto queste le strutture possibilitanti il pensare?
I ‘concetti coercitivi’ di cui si diceva sono illuminanti in proposito. Si
tratta di dimensioni noetiche che non possiamo pensare e che, al tempo stesso,
non possiamo non pensare.
La ragione ha bisogno di modelli per pensare – di modelli in cui pensare.
E’ essa stessa, al suo livello, un grande modello preformato, un grande modello-
cornice. Potremmo dire, col linguaggio di Norber Elias: è un modello inappreso.
Ma l’esperienza teorica raffinatissima degli ultimi secoli ci dice – e la stessa legge
di Gödel intende provare – che i modelli non riescono ad essere esaustivi. Nessun
modello riesce ad essere esaustivo. E, soprattutto, nessun modello riesce ad
essere esaustivo in quella specifica sua azione centrìpeta che tutto intende
catturare.
L’esperienza teorica e metateorica ci dice che questi modelli – modelli
appresi – sviluppano sempre, prima o poi, una reazione verso sé stessi, nascente
all’interno di sé stessi nei confronti di sé stessi.
31
All’interno di un corpo teorico compatto viene a costituirsi – a un tratto
– un centro di tensioni che fa da contraccolpo alla massa. Al cui interno una
nuova ‘figura’ si leva, all’inizio apparsa come semplice sfondo.
Nel modello si apre una faglia di crisi – una fenditura.
Può riconoscersi, qui, l’efficacia specifica di un criterio di lettura di
questo fenomeno: il modello figura/sfondo. E’ un modello messo in luce, come si
diceva, dalla Gestaltpsichologie nell’analisi della percezione. Data un’identità che
emerge dallo scontro fra le parti costituenti, ciò che era sfondo, può diventare
figura. E viceversa.
Non solo la scarsità delle risorse cognitive perìmetrano il limite del
modello, ma le forze stesse che non riescono a chiuderlo, appaiono specificamente
costituire ciò che gli sfugge. Il centripeto della figura si dissolve come sfondo.
Aprendo a un centrifugo che si fa figura.
A ben vedere, le stesse idee kantiane, indicazioni di limiti, possono
leggersi doppiamente: come perimetrazioni di sfondi o come emergenze di figure.
Dicevamo che ogni modello appreso dalla ragione – la ragione come
modello inappreso – conosce il suo punto di crisi.
Vediamo la crisi nel modello di Elias Canetti. “Chiunque appartiene a
tale massa porta in sé un piccolo traditore, che vuole mangiare, bere, amare,
stare tranquillo”30.
30 Elias CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 27. Sul punto, vedi anche Roberto ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna, 1997.
32
Vediamo la crisi nel modello di René Girard. Si tratta, qui, della
necessità del ricostituirsi della differenza come rimedio per evitare la crisi
sacrificale.
Vediamo la crisi nello stesso modello della Gestaltpsichologie. Possono
osservarsene alcune forme nell’importanza attribuita alla componente
dell’esperienza percettiva passata, nelle oscillazioni possibili all’interno della
figura e nelle oscillazioni percettive possibili tra figura/sfondo.
Vediamo la crisi nel modello epistemologico della modernità. Possiamo
incontrarlo in due forme.
a. Il modello sistemico della complessità come modello post-moderno.
Si guardino gli essenziali punti di crisi individuati da Edgar Morin nel
paradigma epistemologico della ‘modernità’: il caso, l’incertezza, la
contraddizione, l’impossibile totalità. E si vedano le caratteristiche emergenti del
nuovo modello, dallo stesso Morin individuate: ‘dialogicità’ (fra princìpi
necessariamente plurali), ‘ricorsività’, ‘ologrammaticità’31. Gli stessi teoremi
dell’incompletezza di Gödel, negando la possibilità di costruire il sistema totale,
paradossalmente realizzano un’apertura del sistema. Al livello non del suo
contenuto ma del suo fondamento.
Possiamo vedere, in questa luce, omologa crisi nel modello umanista.
Proviamo a vedere, infatti, il modello di un uomo assunto come universale, tale
che di esso non solo ogni singolo uomo sia la specificazione, ma che di ogni
31 Sul punto, E. MORIN, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993. .
33
singolo uomo sia la misura. L’idea che un preciso e completo concetto di uomo
possa comprendere/misurare ogni uomo concreto è l’idea di una griglia
concettuale che totalizzi ogni singolo. Classificandolo secondo le caratteristiche
giudicate essenziali. Decretandone inclusioni ed esclusioni. Individuandone
misure. A ben guardare, l’idea di ‘persona’ è, di questo modello umanista, non
l’attuazione, ma la crisi.
Se si guarda, quindi, al concetto di ‘persona’ come a una prospettiva
precisa sull’uomo concreto, può scoprirsi come un simile approccio
epistemologico abbia consonanze cruciali col paradigma contemporaneo della
‘complessità’32 – quindi col modo complesso di concepire l’uomo. Infatti:
1. Il sistema complesso, in quanto strutturalmente incapace di
unificare in un centro logico unico, senza incertezze e senza
contraddizioni, l’insieme dei dati conoscitivi, non riesce a
‘com-prendere’ ogni singolo evento in una griglia tutta
determinata. Allo stesso modo, la ‘persona’ è un ‘singolare’.
2. Il sistema complesso, in quanto contrasta sia un’epistemologia
atomistica sia un’epistemologia olista, coglie ogni componente
del reale come ologrammatica, ossia come contenente in sé
stessa quasi tutto il reale. La ‘persona’ è un ‘singolare’ in
strutturale legame ‘simpatetico’ coll’insieme.
32 Sul punto: Edgar MORIN, introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993; Il metodo, Feltrinelli, Milano 1994; Il paradigma perduto, Feltrinelli, Milano 1994; AA.VV. Le défi du XXI siècle. Relier les connaissances, Journées thématiques conçues et animées par E. Mori, Editions du Seuil, Paris 1999.
34
3. Il paradigma della complessità nasce dalla crisi dei paradigmi
deterministici – sia nella variante atomistica sia in quella
olistica – seguìta ai successivi scacchi teorici subìti dalle scienze
classiche nei più diversi settori disciplinari tra la fine
dell’Ottocento e gli sviluppi del Novecento, scacchi che, come è
noto, vanno sotto il nome complessivo di ‘crisi dei fondamenti’.
Non va dimenticato, in proposito che l’ ‘individuo’ s’impone
come il nome dell’uomo nel paradigma della modernità, la cui
fondamentale struttura epistemologica è atomistico-meccanica.
La ‘persona’ è, invece, lo sguardo epistemologico – ben prima
che etico – sull’uomo, in quanto intende di fatto andar oltre
ogni paradigma atomistico o olistico, quale che sia.
Del resto, i punti di crisi emergenti dalla bioetica nascono da due precise
situazioni epocalmente nuove. Infatti, da un lato, a scienza dei trapianti mette in
luce l’insufficienza radicale di un criterio assiologico fondato sull’uomo-in-
generale. Ciò che è in questione, infatti, non è (più) l’uomo, ma quest’uomo. E,
dall’altro lato, l’ingegneria genetica e le nuove ricerche sulle specie viventi
mettono in luce, anche dal versante opposto, la medesima insufficienza radicale
dell’ ‘uomo-in-generale’. Ciò che nell’ingegneria genetica appare in questione,
infatti, non è solo l’uomo come specie, ma gli stessi suoi confini di specie. Da due
opposti versanti, emerge dall’urgenza dei fatti sia la questione dell’uomo come
singolo, sia la questione dell’uomo come specie.
35
b. Il modello personalista come modello post-umanista.
In un simile contesto, assume un significato più forte il modello
personalista. Là dove questo modello – l’ ‘idea’ di ‘persona’ – non è (più) la
realizzazione del modello umanista, ma l’esplosione della sua crisi.
Si pensi a un testo letterario, Il piccolo principe di Antoine de Saint-
Exupéry. Un testo letterario può avere strati filosofici profondi, che nemmeno il
testo letterario conosce.
Il piccolo principe, giunto sulla terra, vede delle rose, che assomigliano
tutte al suo fiore. <<E si sentì molto infelice. Il suo fiore gli aveva raccontato che
era il solo della sua specie in tutto l’universo. Ed ecco che ce n’erano cinquemila,
tutti simili, in un solo giardino (cap. XX). E si disse: <<Mi credevo ricco di un
fiore unico al mondo e non possiedo che una qualsiasi rosa>> (ibidem). Il fiore,
che egli riteneva <<singolare>>, da quel momento, non lo è più. Infatti, egli
credeva che fosse <<il solo della sua specie in tutto l’universo>>. Egli credeva,
quindi, che la sua singolarità coincidesse col suo genus. Nel momento in cui le
cinquemila rose gli mostrano all’improvviso che quel suo fiore è solo uno dei
tanti, la sua singolarità non c’è più. Quel fiore è perduto.
Che cosa può rifarlo singolare?
<<In quel momento comparve la volpe>> (cap. XXI). Il piccolo principe
le chiede di giocare. <<Non posso giocare con te>>, disse la volpe, <<non sono
addomesticata>>.
36
<<Che cosa vuol dire ‘addomesticare’? E’ una cosa molto dimenticata.
Vuol dire ‘creare dei legami’ …>>. <<Creare dei legami?>>. <<Certo>>, disse la
volpe, <<Tu, fino ad ora, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.
E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che
una volpe uguale a centomila volpi. Ma, se tu mi addomestichi, noi avremo
bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica
almondo>>. <<Comincio a capire, disse il piccolo principe>>. <<C’è un fiore …,
credo che mi abbia addomesticato>> (cap. XXI).
La singolarità della rosa, che sembrava irrimediabilmente perduta per il
semplice fatto dell’esistenza di altre rose, ora qui si ricostituisce attraverso uno
speciale rivolgersi: l’ ‘addomesticare’.
<<Non si conoscono che le cose che si addomesticano>>, disse la volpe.
(ibidem).
Lo sguardo dell’altro, nello stabilire con me dei legami e nel conoscermi
come singolarità, mi costituisce come tale.
Se la rosa è genus, essa non è più singolarità. L’uno diventa nessuno.
L’eis, oudeis. Ma nel modello della modernità e nel modello umanistico è
l’inverso ad accadere. Ciò che per il modello della modernità è l’ ‘accidentale’,
per il modello della complessità può essere il non prescindibile. E, d’altra parte,
ciò che per il modello umanistico è l’accidentale, per il modello personalistico è
l’essenziale.
37
Non solo. La rosa implode come rosa allorché e perché diventa il suo
genus. Ma ridiventa rosa nel momento in cui viene riconosciuto il legame che
riscopre in essa la sua singolarità. C’è un nesso essenziale fra singolarità e
legame. La singolarità è il legame. L’idea da Edgar Morin scorge nel principio
della ‘ologrammaticità’ come costitutiva del modello della complessità, dice il
medesimo punto: la singolarità della ‘cosa’ nel modello complesso è il suo
legame.
8. Oltre la crisi. Per alcune riflessioni finali.
A ben guardare, pur attraverso percorsi diversi e indipendenti, il
sentiero epistemologico che conduce fuori dalla modernità (‘complessità’), si
rivela omologo all’altro sentiero che conduce fuori dall’umanesimo
(‘personalismo’).
Accade, infatti, in entrambi i percorsi – per strade diverse – la dura
replica della ‘differenza’. Dal cui evento residua una ‘singolarità’ che si sottrae
per definizione al ‘griphos’, alla rete.
Qui, a ben vedere, l’idea antica della ‘persona’ – nata da storie diverse e
intersecate – può rivelarsi nuova. Come la battistrada inconsapevole dell’idea
‘postmoderna’ della complessità.
La ragione – modello inappreso – abbisogna di modelli appresi. Ma,
d’altra parte, ogni modello appreso, percorso nelle sue varie possibili chances,
rivela, presto o tardi, i suoi punti di crisi.
38
Un modello dice il suo limite. In due modi. 1. Indicandolo come soglia di
uno sfondo. 2. Indicandolo come aprente a una figura.
Vediamo i due modelli della complessità e dell’umanesimo. Il modello
della complessità, dicendo il proprio limite come sfondo, dice la sua
incompletezza. E – nella sua incapacità strutturale di totalizzare ciò che è ‘dato’ –
al tempo stesso realizza la propria specifica ‘apertura’ essenziale. L’apertura a
quell’altra figura che cangia la prima in semplice sfondo.
Il che significa che il modello, dicendo il suo limite, può generare come
figura la singolarità piena dell’evento che lo circoscrive.
E, d’altra parte, il modello dell’umanesimo – come modello dell’uomo in
generale – dicendo il suo limite come sfondo, dice la sua incapacità di totalizzare
il suo oggetto – l’uomo – che pur lo caratterizzerebbe come modello. E,
delineando come figura ciò che va oltre quel limite, può generare la singolarità
inespugnabile di quell’uomo concreto che, resistendo al modello, lo circoscrive.
Il singolo nasce come luogo di resistenza. C’è un’intuizione precisa che
attraversa l’opera di Giuseppe Capograssi. E’ l’idea che l’individuo si scopre tale
nel momento in cui si sente colpito. Il sistema che lo punisce, fa emergere in lui
contemporaneamente la certezza dell’essere singolo e la certezza dell’essere
legato33. Il sistema, individuando nella società come suo oggetto un colpìto,
costituisce il colpito in figura. E al colpìto può accadere, ora, di scoprire sé stesso.
33 G. CAPOGRASSI, Introduzione alla vita etica, in Opere, III, Giuffrè, Milano 1959, pp. 90 ss.
39
Come singolo, come unico, come fragile, come legato. Nella custodia della cui
precarietà radicale emerge il pudore. La cui fenomenologia ìndica altrove: alla
necessità della distanza, del rispetto, della dignità.
Si è ricondotti, così, dal potere al pudore. E dal pudore al potere.
Come in Canetti. Nella cui analisi del fenomeno della ‘massa’, dal timore
di essere toccati, tipico del pudore, genialmente si passa all’osservazione del suo
capovolgimento. Al bisogno di essere toccati, tipico dell’uomo nella massa.
Infatti, il bisogno di essere toccati cela il timore di essere colpiti. Sentendosi
vestito di massa, il pudore può farsi potere. Rovesciandosi da area di difesa in
area di potenza. Stando fuori della massa, si torna al pudore. In quello stato
interiore in cui ci si sente differenti e non massificati. Timore di essere toccati e
bisogno di essere toccati. A ben vedere, due modi opposti di declinare un
medesimo timore. Quello di essere esposti.
Concludiamo. La ragione è modello inappreso che ha bisogno – essenziale
bisogno – di modelli appresi. Ma ogni modello appreso rivela, presto o tardi, i
propri limiti di struttura. Che, indicando uno sfondo, aprono a una figura. E
dalla reazione di ogni modello appreso rispetto a sé stesso diventano osservabili
aspetti nuovi. Come nella crisi dello stesso modello ‘umanista’. Si osservi. Dal
modello umanista in crisi nascono tre assi dell’intuizione personalista.
Vediamoli. L’uomo concreto rifiuta di farsi totalizzare. Ossia di farsi
chiudere in una formula che lo riduca alle sue caratteristiche. O alle sue
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espressioni. O alla sua condizione di separatezza sommata. Che cosa una tale
‘totalizzazione’, in realtà, nega? E che cosa, invece, essa afferma? Diremmo tre
cose.
La prima. L’unicità dell’uomo concreto. Ossia, la sua differenza radicale.
L’ esigenza indefettibile di spazio. Un uomo non è fungibile. Un uomo non è
l’insieme delle sue appartenenze. Un uomo non è l’insieme dei suo dati.
La seconda. L’inesauribilità dell’uomo concreto. Ossia, l’esigenza di dare
spazio alla sua ‘profondità’. Un uomo non è l’insieme delle sue espressioni. Si
veda l’esigenza della “riservatezza”. Si veda la considerazione dell’uomo come
insuscettibile di giudizi definitivi.
La terza. La relazionalità dell’uomo concreto. Ossia, l’esigenza di capire
che l’uomo non è solo ciò che è in quanto separato dagli altri e dall’insieme. Un
uomo è i suoi legami. La vertigine di viscerale consonanza che in determinati
momenti topici prende un uomo per l’altro – per gli altri – è un preciso indizio
fenomenologico di questa condizione radicale.
Possiamo scoprire – così – tre assi dell’individuo. O meglio: tre assi
dell’individuo elevato al grado di valore. Sono gli assi a partire dai quali
scopriamo un crinale specifico: il luogo della ‘persona’.
Si tratta di tre assi che non sono frutto di una constatazione empirica,
ma di una fede razionale. Nascente da un’opzione – non necessitata ma possibile
– dell’intelligenza comprendente. L’uomo che, sentendosi uomo, si stupisce
dell’esistenza di una fede in Dio, dovrebbe innanzitutto stupirsi di credersi un
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uomo. L’esistenza dell’uomo, infatti, non è un puro fatto, ma il risultato di una
fede. La cui radice è un’idea. Conseguìta, appunto, lungo tre assi.
L’asse dell’unicità. Ossia, il divieto di abusare – per conoscere l’uomo
concreto – della categorizzazione per esaurirne l’identità.
L’asse dell’inesauribilità come imprevedibilità. Ossia, il divieto di
abusare – per conoscere l’uomo concreto – della previsione oggettivante e del
giudizio definitivo.
L’asse della relazionalità, del legame. Ossia, il divieto di abusare – per
conoscere l’uomo concreto – dell’atomizzazione, della divisione, della
frantumazione metodologica, ossia di quella specifica logica che spezza per
conoscere.
Si tratta – qui – di una scoperta che nasce da una specifica meditazione
sulla crisi dei modelli. Che apre a una riflessione. E che oggi apre, non a caso,
alla soglia dei diritti fondamentali, frutto d’epoca.
Dicevamo della ragione catturata nel gioco del simbolico in tutte e due le
forme: sia in quanto agente sia in quanto pensante il suo agire. Che ne è – a
questo punto – di questa seconda ragione che, esaminando la vita, vi appare
irretita?
Ma la ragione è catturata in quanto modello appreso. Perché essa – in
quanto modello inappreso – abbisogna di modelli appresi.
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Ma – dicevamo – nessuno di questi modelli riesce ad essere esaustivo.
Ognuno sperimenta la sua crisi. Anzi, ogni modello, nel dire la sua crisi come
figura, apre a quello sfondo che, diventando figura, indica il possibile contro-
agire di un modello antagonista.
La ragione, pur irretita nel griphos, lo è come modello appreso. Il quale,
irretendola, la delimita in quanto modello inappreso. Ma la ragione, pur irretita,
non cessa di essere ragione. Essa, pur inventando modelli appresi, resta modello
inappreso. Ponendosi come la consapevolezza e la testimonianza del proprio
percorso. Come la storia del proprio percorso. Storia ragionata. Essa, modello
che abbisogna di modelli, diventa anche la sperimentazione in vivo del suo essere
catturata nella rete di modelli antagonisti in cui realizzarsi come ragione.
Ogni modello appreso dalla ragione, in quanto luogo della sua
gravitazione, è pur sempre una declinazione del simbolico. Perché, come
dicevamo con Rudolf Otto, ogni simbolico è simbolica di una potenza. E, per
certi aspetti almeno, ogni ragione è nella sua rete.
Ma, d’altra parte, ogni modello, in quanto potenza gravitazionale che
cattura il suo oggetto, reca al suo interno la contropotenza che, mettendola in
crisi, le sfugge.
Ci domandiamo. In questa frattura, c’è un luogo specifico della ragione?
E, se c’è, qual è? Forse, a questo punto, la ragione può riapparire dentro
orizzonti e compiti nuovi. Infatti, se è vero che essa può essere catturata in un
campo simbolico che la condiziona, è anche vero che, non essendo quel campo
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esaustivo, essa avverte anche l’altro campo simbolico che al primo non fa che
sfuggire.
La ragione appare ben delineata quindi, in un tale contesto,
intercettandola nel luogo in cui si accampa tra la forza che condizionandola la
dice e l’altra forza che, contrastandola, le sfugge. Tra la sua prima e la sua
seconda figura, nell’invertirsi degli sfondi. Là dove nasce, forse, a un preciso
metalivello, la medesima ragione come istanza nuova. Come la ragione di
un’oscillazione assiale che cerca, nel proprio percorso, ragioni – altre ragioni. La
ragione diventa, così, ragione di ragioni. Come la capacità ponderatrice di scelte
e legami che, fra più forze e da più forze, fra più modelli e da più modelli, a
sempre nuovi livelli emerge e matura.
Giuseppe LIMONE
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