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COMUNICAZIONI ED INTERVENTI

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C O M U N IC A Z IO N I

ED I N T E R V E N T I

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COMUNICAZIONE DI RAIMONDO LURAGHI

ALCUNE CONSIDERAZIONI

SULLA STORIA DELLA RESISTENZA

Quando ci soffermiamo a considerare da un punto di vista generale i problemi storici della Resistenza, ci avviene talora di prestare qualche at- tenzione ad un fatto apparentemente banale e trascurabile: esser già tra- scorsi, cioè, dalla Liberazione, ben quattordici armi.

Si tratta di un periodo che rappresenta certamente una quantità del tutto irrisoria nel fluire del tempo : ma nella vita di un uomo o di una generazione, no. Quattordici anni: e quali anni! La grande rottura tra i vincitori della seconda guerra mondiale, seguita, aH’interno delle nazioni, dalla rottura tra le forze che avevano a suo tempo formato il fronte della Resistenza; la crisi sovietico-jugoslava; la guerra di Corea; eventi di portata ancora quasi incalcolabile, quali la rivoluzione cinese, il sorgere dell’India indipendente, il grandioso moto nazionale dei popoli arabi, la caduta delle dittature nell’America latina; i processi di epurazione nei partiti comunisti dell’Europa orientale; la morte di Stalin e la caduta di Beria; l’ascesa e la disfatta del maccartismo negli Stati Uniti; il XX Congresso del P.C.U.S. e l’insurrezione ungherese; la scoperta dell’energia nucleare e l’avvento deh l’era spaziale... Quali anni!

Valutandoli, non è possibile non avvertire quello che uno tra i più grandi storici della passata generazione, Adolfo Omodeo, chiamava in un memorabile suo scritto il senso del « distacco » (i). L ’età della Resistenza ci appare storicamente come un periodo conchiuso e irrevocabile. Certo : sul piano politico sta davanti a noi il problema di far procedere l’edifica­zione di un mondo che sia fondato sui valori umani e sociali per cui la Resistenza sorse e lottò: quel mondo che nella grande, generosa illusione degli anni ’22--’45 si pensava potesse sorgere d’un colpo all’indomani stesso della Liberazione. Solo in questo senso può avere un valore lo slogan « la Resistenza continua » : nel senso, cioè, di una trasposizione di valori che debbono però venir affermati in un clima del tutto nuovo e di fronte ad una problematica politica che non è più quella di un tempo. Diversamente diverremmo non degli studiosi che alla Resistenza si rivolgono e la inter­rogano onde meglio chiarire a se stessi il contenuto intimo, il succo di tali valori destinati a permeare un’azione culturale e politica del tutto nuova, ma dei laudatores temporis acti. E il laudator temporis acti è sempre rivolto al passato e non all’avvenire; in ogni caso il suo atteggiamento è quanto di più antistorico sia dato immaginare.

Sembrano considerazioni ovvie, ma solo apparentemente. Ciò che ad esse mi ha portato è stata l’impressione che si stia verificando un qualche

(1) Cfr. Adolfo Omodeo, Il distacco dal Risorgim ento, in « Il senso della storia », Torino, Einaudi, 1955, pagg. 444 e segg.

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cosa, ancora molto confuso e indistinto, ma i cui primi segni per altro si avvertono qua e là: qualche cosa, per intenderci, di analogo a quanto am cora l’Omodeo, studiando il ripensamento che degli anni rivoluzionari an­davano facendo i francesi del diciannovesimo secolo, definiva « il ritorno ideale della Grande Rivoluzione » (2). Questo ritorno ideale significava, appunto, il prendere alfine coscienza che l’età della Rivoluzione era chiusa, irrevocabilmente ed irrimediabilmente chiusa : ma, relegati gli aspetti do­lorosi e crudi (pur necessari e inevitabili a suo tempo) nel campo del con­tingente e del transeunte, brillava alfine di luce meridiana la verità che la Rivoluzione era stata un momento ineliminabile dej progresso umano, che essa aveva affermato e fondato un nucleo di valori imperituri, creando i presupposti per l’attuazione di un nuovo mondo e gettandone anche le scabre fondamenta: ma lasciandone la costruzione in retaggio agli anni a venire. Nello stesso istante in cui si acquisiva coscienza del distacco dalle polemiche amare e dai risentimenti di quell’era (che, per questo verso, veniva riconosciuta come irrevocabilmente trascorsa, ed estranea ormai alla nuova contingente polemica politica del tempo), essa ritornava « ideal­mente », apparendo in tal senso quanto mai viva, ispiratrice di tutta una civiltà in costruzione; e vincendo per ciò stesso in maniera definitiva sul piano etico e storico il dibattito con la reazione, in quanto si affermava, contro di essa, quale momento positivo della storia, di cui l’altra si rive­lava pura negatività.

Qualcosa di analogo sta verificandosi per la Resistenza, Certo, appena embrionalmente: il processo non può essere che assai lungo, e indubbia­mente non privo di contrasti. La presenza di un governo appoggiato aper­tamente sulla estrema destra è un dato di fatto quanto mai grave, e solo gli ingenui potrebbero sottovalutarlo. Tuttavia non sarebbe segno di grande acutezza ignorare mille sintomi, grandi e piccoli, i quali danno la sensa­zione che un ritorno ideale della Resistenza, sia in corso, o stia per verifi­carsi. Anche in Francia il ritorno ideale della Grande Rivoluzione si iniziò proprio mentre da Luigi XVIII si passava a Carlo X e da Martignac a Po- lignac: passaggio che non doveva tardare a rivelarsi ultima stanco con­traccolpo del riflusso reazionario. Gli è che, indipendentemente dalle evo­luzioni e dalle capriole di qualche corrente politica di scarsa chiaroveg­genza e di arido cuore, si ha la sensazione che la Resistenza stia lentamente iniziando a diventare patrimonio comune della coscienza nazionale, ed il fascismo scada definitivamente al livello di pura negatività che tale co­scienza respinge e condanna. Si fa un governo appoggiato sulle destre, ma ci si precipita a rendere omaggio alle Fosse Ardeatine; ma si manda (per la prima volta in tempo utile) ai Provveditorati ed ai Presidi la disposi­zione di celebrare il 25 aprile davanti alle scolaresche; perchè? La risposta mi pare chiara: perchè si ha una vergogna indistinta, un timore confuso dell’indignazione dell’opinione pubblica nella sua schiacciante maggioranza. Undici anni or sono, nel 1948, il Ministro dell’Interno Sceiba, membro di un governo che non si appoggiava certo sulle destre, non si peritò di

(2) Cfr. Adolfo Omodeo, Il ritorno ideale della Grande Rivoluzione, in « La cultura francese nell’età della Restaurazione », Milano, Mondadori, 1946, pagg. 185 e segg.

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proibire i cortei del 25 aprile, segno che non temeva una condanna morale da parte dell'intera opinione pubblica, ma solo il prevedibile sdegno del­l’opposizione : e non glie ne importava nulla.

Questo processo di penetrazione dei valori della Resistenza nella co­scienza nazionale è ben lungi dall’essere compiuto : è, anzi, lo ripetiamo, appena agli inizi. Si può assumere, come terminus a quo, l’anno 1955. Nel modo con cui fu celebrato il decennale della Resistenza si ebbero i primi sintomi. La stessa introduzione dell’insegnamento della Costituzione nelle scuole è un fatto positivo, anche se non sono mancati (e non mancheranno) i tentativi di deformazione e di stortura. Non dimentichiamo che alcuni anni or sono il governo non si peritò di minacciare addirittura provvedi­menti punitivi contro giovani studenti milanesi rei di volere, per l’ap­punto, studiare la Costituzione.

All’indomani della Liberazione, abbattuto il nemico comune, le forze politiche confluite al suo tempo nel fronte della Resistenza erano state portate a porre in rilievo i propri particolari obiettivi e, di fatto, a iden­tificare con essi la Resistenza stessa. Così essa, per le forze di tradizione liberale, diveniva esclusivamente un duello tra parlamentarismo e totali­tarismo; per le forze a tendenza socialista un episodio, sia pure particolare, della lotta di classe; eccetera. La Resistenza in effetti era stata tutto que­sto, ma non solo questo. In tale situazione, era umano e comprensibile che i partiti che avevano dato il maggior contributo di organizzazione e di sangue, fossero portati a identificare praticamente la Resistenza con i propri obiettivi; e che alcuni di altre parti politiche finissero di fatto per accettare essi stessi questa tesi, concludendo doversi quella esperienza dimenticare il più presto possibile, e spingessero tale loro denegazione sino a sia pur parziali concessioni al vecchio nemico abbattuto. Ciò avvenne in parte nel quadro della rottura, su scala mondiale, tra le grandi potenze vincitrici della Germania, e della conseguente «guerra fredda»; e si verificò non solo come distacco tra l’ala più conservatrice e quella più progressista della Resistenza, ma anche come disaccordo tra alcune delle stesse correnti avan­zate su una serie di questioni, il che ebbe per effetto, tra l’altro, di rallen­tare o blaccare l’attuazione delle misure sociali proposte dalla Resistenza.

Non furono molti per la verità che mantennero fermo il principio secondo cui la Resistenza non era stata patrimonio di alcuna parte, nè di alcun partito, nè di alcuna classe, nè si era identificata con alcun programma particolare, ma che, semmai, erano stati i partiti, durante il ventennio an­tifascista, ad adeguare i loro programmi attorno ad un patrimonio di valori comuni, ed era stato proprio questo che aveva reso possibile la Resistenza stessa. Ciò pur tenendo il debito conto dei maggiori o minori meriti di determinati partiti e di determinate classi sociali nella grande lotta (3).

Oggi, a quattordici anni di distanza, possiamo valutare tutto il merito

(3) Vedere a questo proposito il mio volume II movimento operaio torinese du­rante la Resistenza, Torino, Einaudi, 1958, in cui, di proposito, ho isolato la que­stione della Resistenza operaia. In effetti, pare possibile affermare, per la Resistenza, quanto già ebbero occasione di sostenere Albert Mathiez e Georges Léfebvre per la Rivoluzione francese: esistere cioè più rivoluzioni in una, condotte con intenti convergenti ma diversi da vari strati sociali.

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di Colui che già nel 1954 affermava, riprendendolo dal Pettazzoni, il valore «religioso» della Resistenza, precisando: «...sarebbe stoltezza negare che uno dei fondamenti della Resistenza e stata la lotta sociale, 1 aspirazione dei sofferenti verso la giustizia sociale; e sarebbe cecità non accorgersi che l’ossatura organizzativa fu data alla Resistenza da quei partiti antifascisti che avevano resistito clandestinamente o che si erano formati sotto il fa- seismo, e che in quel ventennio di oppressione tennero accesa la fiamma e gettarono i semi nelle coscienze.

« Ma, d’altro lato, neppure questo carattere religioso e morale, prima che sociale e politico, della-Resistenza, non si potrebbe negare senza cadere in altrettanta cecità in senso opposto » (4).

So bene che, a proposito di Piero Calamandrei, autore di queste linee, si è detto e scritto che egli sarebbe stato soltanto un poeta della Resistenza : dimenticando (o ignorando) evidentemente che poesia è conoscenza, sia pure conoscenza intuitiva e non concettuale: e che è preferibile in ogni caso il « poeta » ad un sedicente « storico » il quale, per correr troppo dietro al certo si lasci sfuggire il vero.

Con questo non si intende sostenere che le posizioni assunte dai partiti all’indomani della Liberazione (e le interpretazioni, diciamo così, « parti' tarie » della Resistenza) siano censurabili o illegittime. Il fine dei partiti (come degli uomini politici) non è la ricerca della verità storica, ma la vittoria della propria corrente e l’affermazione delle proprie concezioni. E ’ un fatto però che i primi storiografi della Resistenza (salvo, naturalmente, eccezioni), pur avendoci fornito opere serie e solide, frutto di attento esame delle fonti e di vasta dottrina e, in genere, filologicamente ineccepibili, non poterono per lo più elevarsi oltre una concezione partitaria della Resi' stenza. Tali concezioni appaiono tutte più o meno inadeguate. Ecco in­fatti lo storico di parte, diciamo così, liberale, il quale, intendendo la Resi- stenza come una lotta tra totalitarismo e parlamentarismo (e dimenticando esser queste due astrazioni, e la Resistenza, invece, cosa quanto mai con- creta) esclude di fatto dalla Resistenza stessa le correnti vivacemente criti- che del regime parlamentare borghese, in particolare i comunisti e il loro innegabile contributo di sangue e di sacrificio: come se fosse possibile con- cepire la Resistenza senza Gramsci e Gastone Sozzi, senza Giambone e Capriolo, senza i garibaldini di Spagna e d’Italia. Ecco d’altra parte lo sto- rico di tendenze opposte, che è portato a identificare di fatto la politica della Resistenza con quella dei partiti di estrema sinistra (e più spesso dei partiti comunisti) minimizzando gli errori della sinistra stessa, che ci furono e furono molti; non dando il giusto rilievo alla lunga, dura e spesso in- giusta polemica contro i socialisti e contro Rosselli; non intendendo che la lotta del proletariato fu una parte (importante fin che si vuole, ma sempre soltanto una parte) della lotta popolare contro il fascismo, e che le unità partigiane furono spesso composte prevalentemente di contadini.

Una visione del genere nei primi storiografi della Resistenza era quasi inevitabile: ad essi spetta comunque il merito di aver aperto la strada. Oggi

(4) P iero C a l a m a n d r ei, Uomini e città della Resistenza, Bari, Laterza, 1955, pag. 14. Il discorso ivi riprodotto fu pronunziato nel 1954.

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dobbiamo ricordare che Tucidice e Guicciardini furono storici grandissimi perchè, pur essendo in essi ancora palpitante l’esperienza vissuta dei gran­diosi eventi che imprendevano a narrare, seppero tuttavia elevarsi ad un punto di vista umano e universale.

Il ritorno ideale della Resistenza nella coscienza degli italiani come patrimonio comune, come dato nuovo di civiltà, deve essere prima di tutto visibile attraverso l’opera di coloro che la Resistenza imprendono a studiare per lasciarne il retaggio alle generazioni future. Solo così essa apparirà ve­ramente ai giovani come cosa loro, come un momento insostituibile della evoluzione umana, come il dato da cui dovranno partire per edificare una più alta civiltà, e senza il quale non c’è che la prospettiva del ritorno in­dietro, verso la barbarie. Così essa si porrà, accanto all’antichità classica, al cristianesimo, al liberalismo, al socialismo, come uno dei valori insostitui­bili senza i quali la civiltà stessa si distrugge; come il più vicino nel tempo, e quello quindi, in ogni caso, da cui si deve partire per ogni progresso futuro.

Solo in questa maniera sarà liquidato definitivamente il sofisma dei neofascisti per cui la Resistenza dovrebbe apparire come una lotta tra un gruppo di partiti e un altro partito il quale rimase soccombente, ma (guar­da un po’ !) poteva anche aver ragione; e si vedrà come essa fosse in realtà la lotta della civiltà contro il regresso, della umanità contro la giungla; la lotta tra coloro i quali si ponevano come continuatori di tutto quanto l’umanità ha costruito per mano di Socrate e di Marx, di S. Paolo e di Galileo, di Platone e di Rousseau, e coloro i quali a questa concezione volevano opporre la mistica del sangue e della razza; la filosofia del man­ganello, dell’olio di ricino e della forca; il neopaganesimo e i campi della morte; i roghi dei libri e le stragi razziste.

Se il ritorno ideale della Resistenza crea i presupposti per un ripen­samento dell’esperienza storica della Resistenza stessa, questo ripensamento può e deve a sua volta accentuare e facilitare quel ritorno ideale, contri­buendo a fondare definitivamente i valori della Resistenza come dato da cui non si possa prescindere, come sine qua non, nell'animo delle giovani generazioni, indipendentemente dalle qpinioni politiche o religiose dei singoli : « Qualcosa che sta sulla terra : qualcosa che continua, che conti­nuerà, se noi vorremo » (5).

(5) P. C alamandrei, o p . cit., pag. 18.

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IN TER V EN TO DI PIERO CALEFFI

Farò alcune considerazioni di ordine marginale. Poiché il prof. De Rosa haimpostato su basi storiche e non storiografiche la sua relazione, io intervengo su un punto che mi sembra essenziale dal punto di vista storico : sugli atteggiamenti, cioè, del Partito Popolare nel dopoguerra. Col suffragio universale i cattolici irrom- pono nella vita attiva politica per agire come remora alla irruzione socialista, e per strappare alla vecchia classe dirigente risorgimentale alcuni settori importanti che servano di passaggio per la maggiore influenza della Chiesa sulla società italiana, fino al 1914 ad essa ostile.

Per fare questo tolgono, necessariamente, base parlamentare e base elettorale alla vecchia classe dirigente, tolgono, è vero, una parte di adesioni dell'elettorato proletario al partito socialista, ma soprattutto tolgono voti ai partiti conservatoritradizionali e risorgimentali.

Da ciò il dovere del partito cattolico, togliendo l’ iniziativa alla vecchia classe dirigente, di offrire una alternativa nella confusione del dopoguerra : da ciò, incerto senso, il dramma e la remora. Ad un certo momento la classe dirigente cat­tolica politica pensa molto più al suo fine storico futuro che non al suo fine imme­diato, quindi agisce come i massimalisti socialisti che per volere tutto non hanno niente. Anche gli uomini politici dell’Aventino prima e della Concentrazione poi, hanno capito troppo tardi che il fascismo è un male organico della società italianae non un foruncolo sul corpo della società italiana. Questo mi sembra molto im­portante da stabilire se vogliamo essere obiettivi, ma dobbiamo anche vedere le responsabilità di ciascuna corrente politica in quel periodo.

Dire, poi, che nel luglio 1922 una collaborazione ad un Governo tra socialisti e cattolici era ancora possibile e che avrebbe salvato l ’Italia dal fascismo, mi sembra molto azzardato. E ’ come quando si dice che una collaborazione dei riformisti al Governo di allora avrebbe potuto salvare l’ Italia dal fascismo.

Nel 1922 io ricordo — e lo ha ricordato anche Poggi direttamente e indiretta­mente — che era già troppo tardi, perchè gli organi dello Stato erano già fasci­stizzati.

Perchè non ricordare, ad esempio, l ’influenza esercitata dalla Magistratura? La Magistratura ha cominciato a condannare gli antifascisti nel 1920 e nel 1922 io stesso mi sono preso un anno dalla Corte d’Assise di Mantova per un articolo non scritto da me su un giornale da me diretto. Ci siamo presi un anno — io e l’ autore confesso dell’articolo nel quale si parlava della fascistizzazione dell'esercito che era in pieno atto.

Comunque nel 1922 era troppo tardi, non c’era più niente da fare in quel senso; c’era molto da fare in senso sovvertitore facendo intervenire la piazza. Ad esempio, dopo il delitto Matteotti per almeno tre mesi vi era la possibilità facendo intervenire la piazza di sovvertire la situazione. Questo per quanto riguarda l’ esposizione sto­rica del prof. De Rosa.

Ora me la prendo con Battaglia. La relazione del prof. Battaglia, secondo me, ha avuto due lacune: di una, la prima, è scusato perchè egli ha detto prima che avrei dovuto intervenire io stesso. E ’ quindi assolto da questa lacuna.

L ’altra si riferisce all’apporto dei socialisti alla Resistenza contro il fascismo durante il ventennio e alla lotta armata dopo.

Ora è vero che il socialismo è stato il partito della sconfitta, quindi per un certo periodo di tempo è stato paralizzato nella sua azione, e i propri « esuli in Patria », come venivano chiamati, si sono sbriciolati e sono passati in parte ai comunisti (i giovani specialmente) e in parte a G. L . Molti sono rimasti con legami fragili e deboli in rapporto tra loro, soprattutto quelli della mia generazione.

C ’è un libretto che dà un apporto alla storia della Resistenza, ed è quello di Renato Carli-Balloja; si tratta di un libro che non ha pretese di grande respiro

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storico, ma che rappresenta un documento molto serio — non è vero, Battaglia? — e che dà un apporto decisivo agli studi sulla Resistenza.

lo in quel periodo, dal ’29 in avanti appartenevo ai gruppi G. L ., e solo più tardi sono rientrato nel partito socialista; quindi sono obiettivo in materia.

U n’altra lacuna, della quale Battaglia è assolto, è quella relativa alla biblio­grafia sui campi di eliminazione, sui campi di sterminio. Qui si tratta di un’altra « resistenza ». Resistenza a che cosa? Qui non si tratta soltanto di lotta armala, ma di resistenza a se stessi. Difatti la resistenza qui si trasferisce proprio nel campo del salvataggio della propria coscienza morale e politica.

Ricorderò un episodio che ho riportato proprio nella Rivista dell’Istituto Storico e del quale sono stato testimone. Si tratta di un episodio terribile e nello stesso tempo meraviglioso. Durante l’ aprile del 1945 — il periodo più brutto della vita nei campi di sterminio — ho visto una colonna di un centinaio di ebrei incolonnati per andare alla camera a gas; essi sapevano di andare a morire, eppure avevano il coraggio di cantare i loro inni. Questa è « resistenza » che si trasferisce in altro campo, che viene fatta in altro modo.

Si può citare il libro di Primo Levi, un classico del genere, e dal punto di vista letterario è stupendo, anche se poco conosciuto.

C ’è anche il libro di Teresa Noce, forse dal punto di vista letterario più inno­cente, ma che pure ha un grande valore; ci sono quelli di Fergnani e di De Mar­tino; ci sono anche quelli francesi tradotti in italiano, ma questi non riguardano la nostra Resistenza. 11 fatto che non sia abbondante questa bibliografia si può spiegare col fatto che non sono molti i ritornati. C ’è un altro libro scritto subito dopo la Resistenza da Piero Valenzano, un giovane « borghese » nipote di Badoglio, che consta di 130-150 pagine, nel quale si nota una freschezza e una innocenza di argomentazioni che pure hanno il loro valore.

U n’ultima osservazione ed ho finito. Parri ed io abbiamo presentato al Senato un ordine del giorno, proprio invitando il Governo ad estendere l ’insegnamento della storia fino alla Costituzione. L ’ordine del giorno è stato accettato dal Governo come raccomandazione, con la dichiarazione che l’ approvazione è demandata al Consiglio superiore dell’Istruzione. Questo è avvenuto nell'ottobre dell’anno scorso e ancora non si sono visti i frutti di questa promessa governativa; speriamo che il nuovo Ministro dell’ Istruzione attui o solleciti questa innovazione nello studio della storia.

IN T ER V EN T O DI LAU RA CONTI

Mi ricollego ad alcune delle cose dette dal prof. Battaglia, del quale ho ascoltato con grande interesse la relazione. E ascoltandola mi sono convinta che vi è vera­mente un maturarsi contemporaneo e indipendente delle stesse esigenze presso di­verse persone e in ambienti diversi, tale per cui a un certo punto, senza neppure uno scambio di idee preliminare, si finisce con l’avvertire la medesima necessità.

Difatti, il prof. Battaglia ha accennato alla necessità, che oggi si avverte, di raccogliere la stampa clandestina della Resistenza, e mi sembra che i convenuti abbiano manifestato il loro accordo con tale giudizio. Sono quindi convinta che sarà accolta con soddisfazione da questo Convegno la notizia che, maturando ormai l’esi­genza di raccogliere questa documentazione e di portarla a conoscenza di tutti coloro che ancora non hanno potuto conoscerla, si è deciso di iniziare una raccolta totale. L ’Istituto Feltrinelli, a Milano, raccoglie, in originali o in microfilm o in fotocopia, tutto il materiale di propaganda diffuso clandestinamente tra il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945. Parallelamente ci si dispone a pubblicare il repertorio bibliografico completo di tale materiale. Questo lavoro, che ha avuto inizio un anno fa, potrà essere pronto l’anno venturo o fra due anni.

Sinora la raccolta è stata condotta con sondaggi sporadici più che con una ricerca veramente sistematica, soprattutto allo scopo di renderci conto delle diffi­coltà e degli ostacoli che avremmo incontrato. Difficoltà ed ostacoli esistono real-

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mente, ed è inutile ch’io mi soffermi a descriverli ad un pubblico che li conosce già: e del resto a queste difficoltà hanno accennato sia il prof. Battaglia che il signor Pansa. Tuttavia possiamo ritenere che ostacoli e difficoltà non siano tali da impedire che un proficuo lavoro possa essere svolto: tanto è vero che, in un anno di sondaggi sporadici, sono riuscita a censire 480 testate di periodici, e a schedare sinora circa 3500 tra numeri di giornali e riviste, opuscoli, manifesti, volantini. Oggi pertanto possiamo esser sicuri che il nostro lavoro andrà a buon termine, e pertanto ci sentiamo in grado di darne qui comunicazione ufficiale.

Ci è sembrato giusto un criterio di raccolta che abbracci non solo il materiale stampato (o ciclostilato o manoscritto) clandestinamente, ma, in modo più vasto, il materiale che ebbe circolazione clandestina nell’Italia occupata dai tedeschi: sia che esso venisse preparato nell’ Italia occupata, sia che provenisse dall’ Italia liberata, o dalle zone liberate al di qua della Linea Gotica, o dalla Svizzera o dall’Inghilterra: purché esso venisse preparato allo scopo di circolare negli ambienti della Resistenza italiana.

Non ci siamo limitati alla sola stampa, ma abbiamo raccolto materiale ciclosti­lato, dattiloscritto, e anche manoscritto; e non solo in lingua italiana, ma in lingua tedesca, francese, slovena, ladina.

Questi sono gli obiettivi che abbiamo perseguito, in una ricerca che viene resa difficile da circostanze che non ho nessuna intenzione di sottolineare ad un pubblico che già le conosce.

Faccio appello però alla conoscenza che tutti voi avete delle difficoltà che si frappongono al nostro lavoro, per esprimere la speranza che molti di voi ci vorranno aiutare. Approfitto di quest’occasione anche per ringraziare gli amici di diverse città, che in questi primi scandagli ci hanno finora aiutati (amici di Torino, di Alessandria, Firenze, Genova, Ancona, eccetera). Forse non ho dato ancora risposta a tutti coloro che ci hanno scritto e ci hanno mandato del materiale: sappiano però questi amici che il loro materiale è stato raccolto e schedato, e ci ha permesso di portare a circa 3500 le voci del nostro schedario. Spero che, al prossimo Convegno, potremo, col vostro aiuto, portare un bilancio positivo dell’ iniziativa che abbiamo preso.

IN TER V EN TO DI LAZZARO MARIA DE BERNARDIS

Io non sono uno storico, ma soltanto un generico cultore dei problemi relativialla ricerca scientifica, ma penso di poter fare qualche considerazione di metodo inmerito agli argomenti trattati oggi in questo Convegno. Mi spiace anzitutto che irelatori abbiano avuto il torto di fare la parte del leone a scapito della discussione,che sarebbe stata la parte più utile, e invece è rimasta soffocata, come giustamente ha rilevato il dott. Pirelli.

Io credo che l’Istituto Storico abbia già notevolmente mutato la sua fisionomia, ma può anche essere interessante sapere come si va compiendo questa evoluzione verso una struttura di carattere più rigorosamente scientifico.

La nostra esperienza ligure ci conferma che questa evoluzione è già in atto, e quindi, anche se noi non dovessimo studiare specificatamente questo problema strumentale, il cambiamento si verificherebbe egualmente in modo spontaneo.

Questo Convegno ha avuto, mi pare, un difetto fondamentale; uno dei relatori ha fatto della storia e l’altro della storiografia della Resistenza.

Questo difetto si è ripercosso un po’ negativamente su di una riunione la quale ha avuto, indubbiamente, vari aspetti positivi: anzitutto il concorso notevolissimo di intervenuti, che mi pare maggiore di quello dei precedenti convegni indetti dal- l’Istituto Storico della Resistenza. Ciò mi sembra dimostrare che questa evoluzione dell'Istituto ci potrà far perdere qualcuno per strada, ma ci farà trovare altri com­pagni di lavoro per l’attività avvenire; mi sembra quindi confortante che questo apparente inaridirsi delle funzioni del nostro Istituto su argomenti di carattere scien­tifico, non ci abbia indebolito internamente, ma anzi, in certo senso, rafforzati.

Altro dato saliente di questo Convegno mi sembra sia stato il primo contatto

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fra la nostra generazione, che è stata attrice e nello stesso tempo raccoglitrice di fonti, e quella dei nostri figli, che sottoporrà a critica storica le fonti, che noi ab­biamo predisposto (o avremmo dovuto predisporre), e comincerà a giudicarci.

Gli interventi del dott. Pansa e del dott. Merli, degli autentici giovani, mi hanno particolarmente impressionato, in quanto hanno espresso una fede, un convinci­mento democratico forse più profondo e cosciente di quello che non abbia avuto la nostra generazione.

Quindi, se noi vogliamo fare un esame di coscienza (in quanto molti di noi non hanno più oggi quel coraggio a cui ha fatto riferimento il prof. Battaglia nella sua relazione, di saper troncare, di sapere dividere chiaramente certe responsabilità) mi sembra che questo Convegno assuma un significato polemico, in quanto segue di poche ore la quasi generale glorificazione avvenuta a Genova di un uomo, di cui non voglio fare il nome per carità cristiana, ma che ha prostituito se stesso e la scienza ai fini più abietti e criminali.

Noi dobbiamo quindi fare una autocritica di carattere scientifico: il compito di predisporre per le nuove generazioni queste fonti della storia della Resistenza, l’ab­biamo adempiuto? Io per primo devo fare un esame di coscienza, perchè è avvenuto che la nostra generazione, la quale ha vissuto questi avvenimenti, è stata poi as­sorbita in impegni di carattere politico o amministrativo; ed è significativo che gli studi più notevoli sulla storia della Resistenza siano stati compiuti da uomini ap­partenenti a movimenti rimasti un po’ al margine della vita politica del Paese, men­tre esponenti di partiti, che hanno avuto un impegno più intenso in questo periodo, hanno raccolto in minore abbondanza quelle fonti, di cui i giovani dovranno neces­sariamente avvalersi, cosicché potrebbe verificarsi che la vera entità delle varie forze politiche, che hanno concorso alla lotta di Resistenza, fra cento anni potesse essere erroneamente valutata in base ad elementi estrinseci, come la carta stampata e l’ in­chiostro adoperato.

Vorrei infine riferirmi ad un altro argomento: un conto è lo studio scientifico, il quale implica questa raccolta di fonti, da offrire alle nuove generazioni perchè esse elaborino la storia, e un altro conto è la storia come formazione morale delle nuove generazioni; sotto questo secondo aspetto ci troviamo in una situazione assurda e paradossale, in quanto i programmi scolastici stabiliscono che si debba cessare lo studio della storia al 1918, e poi, con Ja nuova disciplina dell’Educazione Civica, far studiare ai giovani la Costituzione. Chissà perchè questi poveri giovani debbono trovarsi improvvisamente di fronte alla Costituzione Repubblicana, senza sapere che è successo da Vittorio Veneto in poi, tale da spiegare la caduta della Monarchia e il sorgere della Repubblica. Il problema dell’ insegnamento della storia mi sembra quindi fondamentale, e a coloro che asseriscono non essere troppo opportuno far studiare la storia recente perchè materia troppo incandescente e intrinsa di politica, io domando se i nostri antenati si erano forse preoccupati del fatto che coloro, i quali avevano realizzato l’unità d ’Italia, avevano anche combattuto, per esempio, contro i Borboni, e intendessero quindi stabilire un’assurda equidistanza fra i Piemontesi, che accoglievano le bande dei volontari di tutta Italia, e i Borboni, che ad essi si opponevano. Questi scrupoli non li ebbero i nostri antenati, e proprio non capisco perchè invece dovremmo averli noi.

Un ultimo rilievo: si è voluta escludere l’eventualità di istituire cattedre uni­versitarie di Storia della Resistenza, così come ne esistono per la storia antica, me­dioevale, moderna e del Risorgimento. Io trovo che è un’impostazione sbagliata: d’accordo che questa ripartizione di cattedre ha la funzione del- tutto arbitraria di tagliare a fette i secoli e assegnare ad ognuna un periodo, in cui poter meglio ap­profondire i problemi specifici, ma pensiamo in tempo a questo problema delle eventuali cattedre di Storia della Resistenza, perchè altrimenti correremo il rischio di vedere magari istituite cattedre di Storia del Fascismo, perchè il Risorgimento si può anche far arrivare fino al 1918, ma da questo punto comincia, in un certo senso, la Storia del Fascismo. Giustamente stamane è stato rilevato che con la Storia del Fascismo inizia la Storia dell’Antifascismo o della Resistenza, che giunge fino alla costituzione della Repubblica. Il problema in fondo è lo stesso: si può chiamare Storia del Fascismo o Storia della Resistenza, perchè Fascismo e Resistenza ne sono le due facce, ma, allo stesso modo come i nostri antenati hanno creato la « Storia del Risorgimento » per accentuare polemicamente il fatto storico considerato premi-

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nente nella valutazione generale, cosi questo periodo, anche senza escludere la pos- sibilità di valutare serenamente gli elementi ad essa contrapposti, dovrà essere qua­lificato come « Storia della Resistenza ».

IN T ER V EN T O DI STEFA N O MERLI

L ’Istituto Rodolfo Morandi, portata a termine la ricerca relativa alla pubblicazione delle Opere di Morandi, ha ripreso un lavoro che già era incluso nel suo programma fin dalla prima assemblea dei soci. Si tratta cioè di una bibliografia generale del pensiero politico e delle vicende storiche dell’antifascismo italiano per un primo censimento e controllo critico generale delle fonti di studio del periodo dal 1919 al 1945.

L ’esigenza di una guida od anche di un semplice repertorio bibliografico è ancora a tutt'oggi, talmente sentita che nel 30 Congresso di studi sulla storia del movimento di Liberazione, tenuto a Firenze lo scorso anno, Mario Bendiscioli ne rilevava la lacuna e invitava gli studiosi ad iniziative in questa direzione. Non è che manchino contributi su determinate questioni o periodi; anzi il lavoro bibliografico lo troviamo presente fin dall’infanzia di questi studi, sia come lavoro a sè con fini puramente strumentali, sia come discorso critico sulle fonti come necessaria premessa al lavoro interpretativo.

t ’ appunto tenendo presente l ’esperienza già acquisita in questo campo che l’Istituto Morandi si è trovato in grado di avviare con buone prospettive di successo un’opera che richiede un notevole impegno redazionale e che è nuova e senza pre­cedenti nejia pubblicistica italiana perchè sorge con intenti non puramente eruditi e settoriali, ma con aperture metodologiche e problematiche che riteniamo siano desti­nate ad influire positivamente sugli studi a venire.

E che l ’ iniziativa sia stata presa da un Istituto che vuole ispirarsi al patrimonio di idee e di esperienze di un uomo e di una corrente politica in vario modo deter­minanti per il periodo che vogliamo studiare, è un fatto da tenere presente e da mettere in luce perchè ci pare che da esso discenda una conferma e un insegna­mento. La conferma riguarda, come già faceva notare alcuni anni fa il Vaccarmo, il carattere a-ufficiale e a-governativo di questi studi come riflesso dell’ « autonomia » che ha assunto la lotta popolare contro il fascismo; dalla quale osservazione discende l ’insegnamento che l ’ impegno politico non esclude ma anzi è alla base del ripensa­mento storico-critico.

Ci è parso onesto fare questa premessa per non dare l’ impressione che si è caduti nell'errore (dal quale metteva già in guardia il Valeri nel convegno del ’53) di fare confusione tra la probità e rigorosità scientifica e quella che non è impar­zialità dello storico ma tutt’al più indifferenza erudita di fronte ai problemi; impar­zialità che nel nostro caso sarebbe garantita da un generico « antifascismo » e da un eclettico « a-fascismo ». A noi è parso onesto di rifiutare tale agnosticismo, anzi di precisare nel concreto lavoro di ricerca le nostre premesse interpretative, convinti che da esse si debba partire per dare una nervatura metodologica e critica al lavoro bibliografico iniziato, per renderlo oltre che un utile repertorio di consultazione anche un testo stimolante per le ulteriori e più ambiziose ricerche.

In questo senso possiamo anzi risolvere subito la dibattuta questione termino­logica e giustificare la nostra scelta dei termini a quo e ad quem dal 1919 al 1945 appunto con una visione della storia dell’ antifascismo italiano che abbia allargato l ’ esame da alcuni aspetti o momenti di esso (il politico; il militare ecc.) all’esame complessivo di una lotta politica che ritrova le sue radici storiche a contatto delle forze motrici della rivoluzione antifascista.

Tenendo presente il carattere strumentale che deve avere ogni bibliografia, si è deciso di assegnare alla documentazione dei momenti centrali e periodizzanti del-

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l ’antifascismo (e cioè crisi dei vecchi partiti e lotta contro le squadre fasciste: fuo- ruscitismo e fronti interni; insurrezione armata) tre distinti settori di lavoro (cui corrisponderà presumibilmente la separazione in volumi) comprensivi rispettivamen­te degli anni 1919-1926: 1926-1943 (25 luglio o 8 settembre); 1943-1945. La guida vuole appunto essere la documentazione, la più ricca possibile, (salvo naturalmente alcune riserve selettive di carattere qualitativo che riteniamo utili fare per non appe­santire il lavoro con contributi di poco conto) e filologicamente rigorosa di questi tre momenti con lo scopo di influire sugli studi italiani in una duplice direzione: su quelli della Resistenza propriamente detti per esaminare perfino nei contributo minore ma di qualche interesse documentario la validità delle forze antifasciste nel ventennio e nell'odierno schieramento politico italiano; contribuire inoltre ad una ricostruzione unitaria della nostra storia recente in cui l’ antifascismo non appaia più come un momento marginale ed episodico, ma come il filone centrale che la percorre e la spiega.

Naturalmente questa ricostruzione storiografica di cui si vuol dare per così dire le nervature, s ’ impegna a ritrovare la sua validità generale oltre che nelle conside­razioni di metodo accennate sopra, nella serietà e scrupolosità filologica e critica con cui sono censite e vagliate le fonti documentarie.

Ecco quindi avviato il discorso sul « problema delle fonti » e sull'« uso dei docu­menti contemporanei » che è presente fin dai primi dibattiti sulle « possibilità e limiti d ’una stona critica degli avvenimenti recenti ».

Vogliamo però prima di tutto giustificare l’ esclusione dalla nostra ricerca delle carte inedite e di ogni materiale archivistico, la cui descrizione o utilizzazione è compito degli istituti specializzati o dei singoli ricercatori. Abbiamo quindi limitato l’esame al materiale edito (volumi e opuscoli) per il cui reperimento ci siamo avvalsi o ci avvaleremo delle bibliografie generali o parziali che già esistono; dei cataloghi delle principali biblioteche specializzate italiane e straniere ta titolo puramente indi­cativo segnaliamo: la biblioteca dell'lsiituto Gramsci, dell’A .N .P .I. Nazionale, del­l’Istituto di Storia moderna e contemporanea, del Centro di Documentazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma; della Biblioteca Feltrinelli e dell’Istituto storico della Resistenza a Milano; per quanto riguarda 1 fuorusciti o 1 gruppi operanti all’interno baseremo le nostre ricerche a Zurigo e a Parigi alla Biblioteca di « Docu­mentazioni contemporanee » e al Museo della guerra; ricerche settoriali e riscontri verranno fatti sugli schedari, non altrimenti utilizzabili, della Biblioteca di Brera, del Museo del Risorgimento e Comunale di Milano oltre che alla Biblioteca Nazionale di Firenze).

La ricerca verrà inoltre estesa allo spoglio dei principali organi (settimanali e mensili) di corrente e delle principali riviste di cultura storico-politica a datare dal *9*9-

Le enunciazioni di carattere metodologico accennate all’inizio di questa nota valgono certamente anche per quanto riguarda il reperimento delle fonti (che per la natura degli avvenimenti che studiamo richiede, come abbiamo visto, particolari adeguamenti cui cercheremo di conformarci di volta in volta), ma in modo speciale nella elaborazione storiografica e critica cui, nell’economia dell’opera, verrebbero sot­toposti i singoli contributi.

Per elaborazione storiografica intendiamo la disposizione del materiale per pro­blemi, questioni e momenti storici secondo la loro successione cronologica, in modo da offrire al lettore e allo studioso non una ponderosa massa di materiale amorfo, ma (per quanto necessariamente schematico, abbozzato e tendenziale) un quadro dei nodi centrali del periodo, quali risultano dal materiale stesso schedato e quali sono colti dal senso storico dei curatori. Vorremmo per tal modo superare l ’aridità e l ’agno­sticismo del nudo repertorio bibliografico, di quello che il Febvre chiama « cimitero » di titoli, per dare una bibliografia « evolutive », per usare sempre l’espressione del Febvre, « una guida allo studio » cioè, che pur non perdendo per quanto riguarda la completezza e la funzionalità (questa garantita dagli indici alfabetici e analitici) le caratteristiche migliori del repertorio, sia appunto un’opera stimolante e problema­tica, e sia essa stessa, per quanto solo in nuce e accennata, un’opera di storia.

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Ecco quindi a nostro avviso come le preoccupazioni metodologiche che abbiamo messo avanti all’ inizio non vengono a inficiare con schematismi o apriorismi l'archi' tettura del lavoro, ma rendono anzi questo vigile e sensibile ai problemi storici. Le medesime preoccupazioni vogliamo anzi condurre nella schedatura delle fonti, nel senso di ricercare nella fortuna editoriale di un volume e nelle successive edizioni e ristampe le tappe spirituali delle generazioni dell’antifascismo; nel controllo critico, attraverso una breve scheda descrittiva, della tendenza, del valore intrinseco e docu' mentario dei singoli contributi anche attraverso il richiamo agli studi, articoli e re- censioni più impegnate.

Le osservazioni che abbiamo fatte non hanno la pretesa di esaurire tutte le questioni di metodo e di dettaglio nè di aver dato una risposta definitiva ai quesiti che possono sorgere; ma solo quella di abbozzare lo schema di un’opera che susciterà indubbiamente l ’interesse degli studiosi e che nelle speranze dei curatori dovrà fissare il primo bilancio critico e documentario su venti anni di lotte politiche.

IN T ER V EN T O DI GIAMPAOLO PA N SA

Mi limiterò ad esporre alcune osservazioni che mi sono suggerite da una diretta esperienza di studio. Infatti, proprio in questi giorni, ho portato a termine un lavoro sulla Resistenza nella provincia di Alessandria, lavoro che mi è costato tre anni di ricerche e che costituisce la mia tesi di laurea in Scienze Politiche all’Uni' versità degli Studi di Torino.

Per prima cosa vorrei ricordare al prof. Battaglia che non è del tutto esatto che i giovani della generazione seguente a quella che ha « fatto » la Resistenza non si siano occupati o non intendano occuparsi di storia del movimento di Liberazione. Non mi riferisco unicamente al mio caso personale: esiste tutto un fervore di studi che deve essere aiutato ed incoraggiato poiché ha già dato buoni risultati. Mi limi­terò qui a ricordare due lavori usciti in questo ultimo periodo: ha Lotta di L ike- razione nella Provincia di Vercelli, di Gianni Zandano (Soc. Ed. T ip . Eusebiana, Vercelli 1958) e Partigiani in vai Chisone, di Angela Trabucco (Tipografia Subalpi­na, Torre Pefiice 1959). Sono opere di giovani che non hanno combattuto la lotta di Liberazione. Purtroppo i risultati delle loro ricerche sono immeritatamente poco conosciuti, poiché la pubblicazione di questi studi è stata curata da enti pub­blici o da case editrici improvvisate ed è mancata — come manca tuttora — un’or­ganizzazione che ne assicurasse la diffusione. Questi lavori — assieme ad altri di autori meno giovani, come la Storia della Resistenza nel Piacentino, di A . La Rosa (edito a cura dell’Amministrazione Provinciale di Piacenza, 1958); Le origini della Resistenza militare nel Veneto, di Teodolfo Tessati (« Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza nel Veneto », Neri Pozza editore, Venezia 1959) e l ’ottimo lavoro di Mario Giovana sul C .L .N . regionale piemontese, pubblicato parzialmente dalla Rassegna dell’Istituto Nazionale — occupano un posto a sè nel quadro degli studi sul movimento di Liberazione. E a mio parere, il prof. Battaglia avrebbe potuto utilmente soffermarsi ad illustrare questa nuova fase della storiografia della Resi­stenza poiché in essa si concreta il nuovo indirizzo che stanno assumendo gli studi di cui questo Convegno si occupa.

Questa nuova fase mi sembra caratterizzata da due elementi essenziali. Primo: gli autori sono in genere dei giovani che, per età, non hanno potuto vivere la Resistenza, pur credendo ancora oggi, e sinceramente, negli stessi ideali che ani­marono i combattenti della lotta di Liberazione. Essi perciò sono in grado di guar­dare al tormentato periodo della guerra partigiana con un distacco sereno e disin­cantato e, a differenza dei « resistenti », possono giudicare l’esperienza degli anni ’43-’45 liberamente e in modo spregiudicato, senza vedersi costretti a coinvolgere in tale giudizio quanto di personale può esserci in essa. Secondo: dal terreno della memorialistica e della polemica politica si cerca di passare —■ anche se ancora con risultati non del tutto soddisfacenti — a quello della ricerca condotta secondo criteri scientifici, dell’ accurata e onesta ricostruzione dei fatti, dell’ analisi critica degli av-

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venimenti. In altre parole, la Resistenza viene finalmente studiata — quanto a rigore metodologico ed accuratezza filologica —• nello stesso modo nel quale si stu­diano, ad esempio, il Medio Evo o il Risorgimento. Si avverte sempre, ed è ine­vitabile, la partecipazione appassionata agli ideali politici che mossero la lotta di liberazione e soprattutto la presenza di quella « spinta » morale che sostanzia il puro e semplice interesse, storiografico ed evita i pericoli della vuota erudizione, ma l’an­golo visuale di questi nuovi « storici » è assai diverso da quello di coloro che hanno vissuto la Resistenza.

Per ora questa « nuova corrente » si è provata solo in lavori di carattere mono­grafico, limitati a settori circoscritti, a distinte regioni della geografia partigiana. Oggi, infatti, con l ’organizzazione veramente minima di cui può disporre chi si av­ventura in imprese di questo genere, non è ancora possibile effettuare ricerche su settori più vasti. Del resto, questa volontaria limitazione di temi corrisponde ad una necessità reale, che è quella di preparare il materiale di base indispensabile per tentare una seria ricostruzione storica del movimento di Resistenza. Non dobbiamo dimenticare che a quattordici anni dalla conclusione della lotta lo stato attuale degli studi non ci permette ancora di delineare un quadro completo e preciso della Resi­stenza italiana. Ci troviamo in queste condizioni perchè la storiografia della Resi­stenza ha seguito un cammino inverso a quello logico. In altre parole, invece di affrontare una serie di dure ricerche « particolari » che costituiscono l’indispensabile fase preliminare di qualsiasi ricostruzione storica di ampio respiro, si è preferito lavorare a sintesi di carattere generale. (E un analogo errore si è commesso nella scelta degli argomenti: si è studiato molto l’ attività del «centro» — C .L .N .A .I., Comando Generale del C .V .L ., questioni politiche di interesse nazionale, ecc. •—• trascurando quasi del tutto la « periferia », mentre non vi è stato movimento più « decentrato » della Resistenza italiana). Per la verità, i lavori di carattere generale si sono dimostrati utilissimi per determinare nelle linee essenziali le vicende dei movimento di Liberazione e per offrire un quadro d’ insieme del fenomeno storico, senza del quale non sarebbe oggi possibile compiere un’ulteriore opera di appro­fondimento. Anch’io mi sono servito, e con profitto, di questi lavori. Mi è stato utile soprattutto quello del prof. Battaglia: senza la sua Storia della Resistenza italiana forse non avrei potuto scrivere }a mia tesi di laurea sulla lotta di liberazione nell’Alessandrino. Ma detto questo, occorre rilevare che tutti questi studi — quello del Battaglia come i libri di Longo, di Salvadori, di Carli-Ballola —- non possono certo essere considerati completi e definitivi, poiché i risultati a cui approdano sono spesso molto generici e assai incerti. Essi riflettono, è vero, un impegno e un rigore storiografici che sono per lo più sconosciuti a molta della nostra letteratura sulla guerra partigiana, ma d’altra parte risentono negativamente dell’uso indiscri­minato di fonti evidentemente parziali e troppo spesso imprecise, non sempre at­tendibili o comunque di valore piuttosto scarso. Mario Delle Piane, recensendo su Il Ponte del febbraio 1958 la Storia della Resistenza di Renato Carji-Ballola, ha chia­ramente dimostrato come le inesattezze e gli errori di informazione trovino talvolta un credito inaspettato e rimbalzino da un lavoro all’altro. Ora, gli errori di fatto — vale a dire, quelli derivanti da una cattiva informazione — sommandosi, possono falsare (e talvolta in modo irrimediabile per la difficoltà di risalire alla fonte origi­naria) il quadro degli avvenimenti e possono portare quindi a gravi errori di valu­tazione. E ’ vero che rimediare a questa situazione non è facile. Chi si accinge al compito veramente ingrato di tentare una storia generale della Resistenza italiana, non può, per ragioni assai evidenti, accertare singolarmente l ’attendibilità di tutte le fonti sulle quali lavora. E ’ necessario che questo controllo e questa scelta fra materiale « buono » e materiale « cattivo » vengano effettuati in via preliminare e si accompagnino ad una prima opera di revisione e di sistemazione di quanto sino ad oggi si è venuto scrivendo sull’argomento. Ciò può essere fatto solo attraverso indagini pazienti ed accurate svolte sistematicamente su settori circoscritti e me­diante studi di carattere monografico. E ’ questa la strada che mi pare si debba battere: oggi o mai più, poiché ogni mese, ogni settimana di ulteriore attesa non fanno che accrescere le difficoltà che già ora si frappongono ad una seria ricostru­zione della storia del movimento di Liberazione. Non mi illudo sulla natura e sulla complessità degli ostacoli che è necessario superare per raggiungere questo risultato. Io stesso ho una discreta esperienza personale delle notevoli difficoltà che lo stu­dioso della Resistenza — lo studioso serio che non intende rimanere nell’ ambito

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delle incerte generalizzazioni o della retorica astratta — incontra nel suo lavoro. E penso che non sia inopportuno spendere qualche parola in proposito.

Il prof. Battaglia ha ricordato di essersi servito delle numerose pubblicazioni che sono apparse subito dopo la Liberazione: memorie di protagonisti della lotta, diari di formazione, opuscoli commemorativi, ecc. Per conoscenza diretta — sia pure li­mitata, quanto ad estensione « geografica », alla provincia di Alessandria e, par­zialmente, a quella di Genova — posso affermare che il 90% di queste fonti sono di scarsissima utilità ai fini di una esatta ricostruzione degli avvenimenti. Ho stu­diato con attenzione queste pubblicazioni: l ’unica che mi sia stata veramente utile è il libro scritto da un partigiano genovese, Giovanni Battista Lazagna, Ponte rotto - Stona della Divisione Garibaldina « Pman-Cichero » (Edizioni del Partigiano, Ge­nova 1946), opera singolare, di notevole valore, quasi sempre assai precisa, che mi è stata di indispensabile aiuto per ricostruire le vicende della lotta di Liberazione in uno dei più delicati ed importanti settori dell’Alessandrino, la zona montana com­presa fra le valli Scrivia e Gurone. Tutte le altre fonti a stampa (compresi gli articoli rievocativi pubblicati sui fogli quotidiani e sui periodici nell’immediato periodo post-insurrezionale) mi sono servite a ben poco: anzi, agli inizi del mio studio, quando non ero ancora passato alla fase delle ricerche vere e proprie sul materiale d ’archivio ed alla raccolta delle testimonianze, mi hanno spesso indotto in gravi errori di valutazione e di prospettiva. In questo settore è quindi più che mai neces­saria un'attenta analisi delle fonti. La revisione critica di quanto sino ad oggi è stato pubblicato sulla Resistenza deve essere iniziata subito e proseguita sistema­ticamente, direi spietatamente, anche a costo di veder crollare qualche mito, se non si vuole che tutto quello che si va scrivendo o si scriverà sul movimento di Libera­zione risulti segnato da questo vizio d’origine.

Anche la stampa clandestina e i giornali partigiani debbono essere usati con estrema cautela. Le ragioni sono diverse. Innanzitutto, le notizie di carattere mili­tare pubblicate da questi fogli sono spesso assai imprecise. Mi spiego con un esem­pio. Un comando di brigata, dopo aver portato a termine una serie di azioni o respinto un rastrellamento nemico, inviava un rapporto al comando di divisione. Questo compilava sullo stesso argomento ed in base al primo rapporto una seconda relazione che veniva mandata al comando di zona il quale, a sua volta, riassumeva il rapporto della divisione per inserirlo in un bollettino periodico destinato anche all’ufficio stampa del comando. In base agli elementi forniti dal c. z., il partigiano incaricato di compilare il giornale di zona scriveva la notizia destinata alla pubbli­cazione. In virtù di questi « passaggi », la versione finale del fatto era spesso assai diversa da quella contenuta nel rapporto iniziale. Anche per quel che riguarda gli argomenti di carattere non strettamente militare, la stampa clandestina e di forma­zione spesso è una fonte assai poco sicura. Per le questioni politiche — può essere spiacevole riconoscerlo ma è la realtà — tranne rare eccezioni, si offrivano ai lettori affermazioni di principio mentre in pratica si seguivano linee di condotta assai diverse. Molti scritti, poi, avevano carattere propagandistico. Ad esempio, rifarsi unicamente agli articoli de II Partigiano (organo della 3a Div. Garibaldi « Cichero » e poi della 6a zona operativa ligure) per ricostruire la storia di quella « zona libera » e per studiare i problemi sollevati dai rapporti fra patrioti e civili nella così detta « repubblica di Torriglia », sarebbe poco serio o per lo meno avventato.

Maggiore importanza rivestono le fonti archivistiche. Senza la loro attenta con­sultazione non è possibile fare seriamente storia della Resistenza. Per la mia tesi mi sono servito dei documenti dell’Archivio Storico della Fondazione C .V .L ., dell’A r­chivio dell’ Istituto Storico della Resistenza in Piemonte e dell’Istituto Storico della Resistenza in Liguria e dell’Archivio Storico delle Brigate Garibaldi, quest’ultimo recentemente depositato presso l’ Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, ed ho utilizzato anche ciò che mi è stato possibile raccogliere presso privati. A questo proposito debbo ricordare che parecchio materiale, e spesso di notevole importanza, è conservato da ex-resistenti, da organizzazioni politiche e da associazioni partigiane. Bisogna convincere tutti costoro a versare agli archivi quanto è in loro possesso, poiché altrimenti tutto questo materiale (relazioni, rap­porti, e soprattutto fotografie) andrà irrimediabilmente perduto. Attraverso contatti personali (poiché solo questi possono produrre qualche risultato) gli istituti collegati con l ’Istituto Nazionale dovrebbero iniziare e portare a termine al più presto questa

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raccolta. Il problema non è nuovo ed è già stato discusso ma non si è ancora fatto nulla, mentre anche su questo terreno è necessario fare presto, lottando contro il tempo e cercando di superare le notevoli difficoltà di ordine pratico e di ordine economico che indubbiamente esistono.

Anche la documentazione d'archivio va considerata con attenzione e sottoposta ad un attento esame critico. Non dimentichiamo che numerosi documenti venivano compilati per ottenere uno scopo pratico. Anche in questo caso un esempio può chiarire ciò che intendo dire. Uno dei problemi più difficili, fra i molti che ho dovuto risolvere, è stato quello dell'accertamento della consistenza numerica delle forma­zioni. Non mi sembra una questione di secondaria importanza, se è necessario, come mi pare che lo sia, stabilire anche quale sia stato l’apporto « quantitativo » della nostra popolazione alla resistenza attiva contro il nazi-fascismo. Gli elenchi che in proposito sono reperibili negli archivi non sempre costituiscono una fonte attendibile poiché non di rado le cifre riportate sono « gonfiate » e non trovano alcun riscontro nella situazione reale. In una richiesta di aiuti in fondi o in armi al C .L .N . pro­vinciale od agli organismi regionali, il comando di una brigata composta di 150 uomini — conoscendo le limitate disponibilità degli organi centrali— nella speranza di ricevere contributi in misura adeguata, comunicava di avere in formazione 200 o 250 uomini. Senza tener conto, poi, della megalomania di non pochi comandanti di formazione che pur di avere diritto al titolo di brigata o di divisione conteggiavano fra gli effettivi della propria unità persino i contadini del vicino cascinale che si limitavano ad ospitare — e spesso malvolentieri — l’ intendenza partigiana. E ’ per questa ragione che sono propenso a considerare con un certo scetticismo le stati­stiche più o meno ufficiali sulla consistenza delle formazioni del C .V .L . Se per di più sono state compilate in base alla situazione finale — intendo dire quella del­l’aprile 1945 — esse non sono accettabili da uno storico onesto. Gli « eroi della sesta giornata » non possono evidentemente essere considerati dei « resistenti », an­che se per avventura il loro apporto può essere stato utile nella fase insurrezionale. E in realtà, nelle ultime due o tre settimane di lotta, quasi dovunque si è verificata una notevole inflazione degli organici. Per la provincia di Alessandria questo è stato un fenomeno pressoché generale, con l’unica eccezione della 411 D iv. Garibaldi - Pinan-Cichero ». Per il resto si è assistito al caso di « divisioni » che sino all'ini­zio di aprile contavano non più di 400-500 effettivi e che scesero poi nei centri abi­tati con 1000-1500 uomini.

Ancora due osservazioni sul problema dell’attendibilità dei documenti. Gli ar­chivi pullulano di relazioni, rapporti, « diari storici » compilati subito dopo la Libe­razione. Nella grande maggioranza dei casi si tratta di materiale pericoloso per le condizioni nelle quali è stato prodotto. Gli autori di questi documenti non sempre sono dei cronisti fedeli e onesti : la loro tendenza — del resto spiegabilissima — ad accentuare l’ importanza del contributo offerto alla lotta dalla propria formazione, falsa le dimensioni reali degli avvenimenti. Se lo studioso si affida a questo materiale acriticamente, corre il pericolo di commettere errori di valutazione piuttosto gravi. Bisogna infine ricordare che quasi tutti i documenti della Resistenza possono essere facilmente falsificati: si tratta per lo più di semplici fogli dattiloscritti e chiunque abbia una modesta esperienza in merito può produrre in poco tempo e con una certa facilità un intero carteggio. E ' necessario, perciò, stare molto attenti.

E veniamo al terzo momento, il più delicato ed importante, quello della rac­colta delle testimonianze personali dei protagonisti della lotta. A mio avviso dovrebbe essere il momento conclusivo della fase delle ricerche, poiché la testimonianza può essere raccolta e utilizzata proficuamente solo quando l’ intervistatore possiede già una buona conoscenza dei fatti o degli argomenti attorno ai quali il testimone viene interrogato. Se debbo essere sincero, non mi sono accorto subito dell’importanza che riveste questa fonte, ma dopo mesi di esperienze negative alle prese con un mate­riale a stampa o documentazioni d ’archivio incerti o contradditori, la testimonianza personale mi ha aiutato a risolvere molte fra le questioni più delicate. Anche questo sistema, naturalmente, presenta aspetti positivi e negativi. Questi ultimi sono evi­denti e penso non sia necessario soffermarcisi a lungo. Molti testimoni non ricor­dano bene o non « vogliono » ricordare. Sono ormai passati quindici-sedici anni dal periodo della Resistenza e purtroppo la memoria dell’uomo è piuttosto labile. Inoltre la testimonianza può essere viziata da malintese pregiudiziali di natura politica, per

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cui l’intervistato non riesce mai a dimenticare completamente quella che è la sua posizione attuale e ne resta influenzato. Mi sono sempre preoccupato di accertare quale fosse la posizione politica dell’intervistato e questo accorgimento mi ha per- messo di utilizzare meglio il materiale raccolto nell’intervista. Esistono poi situa- zioni psicologiche più complesse. Ad esempio, chi, pur avendo « resistito » nel *43-*45, oggi si è adeguato al conformismo generale, nella testimonianza rivela talvolta la tendenza ad accentuare gli aspetti negativi della sua esperienza ed a sottovalutare la portata del fenomeno partigiano.

Per quel che riguarda lè tecniche d'intervista, personalmente ho seguito diversi sistemi. In breve, i risultati delle mie esperienze sono questi: il questio­nario generico, redatto secondo un formulario tipico ed invariabile, non serve a nulla. 11 questionario dettagliato, vale a dire quello nel quale non si pongono do­mande indifferenziate ma si « stimola » l ’ interrogato ricordandogli figure di com­pagni di lotta, avvenimenti determinanti, circostanze, luoghi e date che si riferi­scono direttamente alla sua esperienza partigiana, serve già di più ma non risolve ancora completamente il problema di ottenere una « buona » testimonianza. Estre­mamente utile è invece il contatto personale, il colloquio diretto fra lo studioso e il testimone o, meglio ancora, più testimoni — non più di due o tre — soprattutto quando questi sono stati convocati per deporre sugli stessi argomenti. Utilissimo è interrogare sul medesimo avvenimento due testimoni che abbiano assistito ai fatti oggetto dell’intervista da diversi ed a volte opposti angoli di vista: ad esempio, sui contrasti fra le formazioni, raccogliere la testimonianza contemporanea di ele­menti delle unità interessate; o, per accertare la reale consistenza numerica ed efficienza militare di un’unità, interrogare sull’argomento il comandante militare della formazione e l’organizzatore di città o il componente del C .L .N . U n’esperienza in­teressante è quella di chiedere al comandante della formazione A notizie sulla for­mazione B, e viceversa. In questo caso, però, è necessario procedere con cautela an­cora maggiore, poiché la testimonianza può essere viziata da vecchi rancori risa­lenti al periodo della partigianeria o da elementi passionali o sentimentali che non debbono sviare lo storico.

Gli svantaggi e i pericoli della testimonianza sono largamente bilanciati dai van­taggi che sono numerosi e assai importanti. Per me questo è un argomento affasci­nante che varrebbe la pena di essere trattato a lungo. Per ragioni di tempo mi limi­terò ad alcune semplici osservazioni. Innanzitutto, la testimonianza non solo per­mette di controllare gli elementi di fatto offerti dal materiale a stampa e dalla docu­mentazione d’archivio, ma colma le numerose lacune di queste fonti. Ad esempio, è indispensabile ricorrere alle testimonianze personali per ricostruire con esattezza gli avvenimenti del periodo iniziale della lotta; per seguire passo a passo la nascita e il processo di sviluppo, spesso tortuoso e incerto, delle prime bande partigiane; per avere un'idea sufficientemente chiara dell’ attività di tutti quegli organismi — in primo luogo i C .L .N . — per i quali la documentazione scritta è pressoché inesistente. Le testimonianze personali, poi, sono più che mai indispensabili per ricostruire quella che potrebbe essere chiamata la storia « interna » della Resistenza, cioè quel­l’aspetto della lotta di liberazione che non ha lasciato traccia di sé non solo nella documentazione d'archivio ma neppure nella diffusa memorialistica del dopoguerra, per l ’atteggiamento di eccessiva riservatezza che molti protagonisti della lotta hanno mantenuto di fronte al problema di una onesta e veritiera ricostruzione storica. Questa storia « segreta » — che è poi quella vera e l’unica che permetta di com­prendere meglio e appieno la storia « esterna » (cioè la storia politico-militare) — è quella che si riferisce, ad esempio, ai rapporti e ai contrasti fra le formazioni, i comandi e gli uomini della Resistenza; alla vita interna del movimento (ad esempio, costume, mentalità, modo di vivere dei combattenti dell’ esercito partigiano); alle caratteristiche ed alle dimensioni reali di certe figure e di certi avvenimenti, carat­teristiche e dimensioni che a volte sono assai difficili da individuare attraverso l ’in­trico delle troppo numerose trasfigurazioni retoriche e delle interessate ricostruzioni « ufficiali ». A questa storia « interna » o « segreta » appartengono anche le pagine meno belle della lotta di Liberazione. La nostra guerra partigiana è stata anche una rivoluzione e nessuna rivoluzione avviene mai all’ acqua di rose. Bisogna fermarsi anche su questi fatti se si vuole avere un quadro veritiero e non agiografico di questo fenomeno storico. Del resto la Resistenza ha tutte le carte in regola per

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difendersi da sola, ed egregiamente, e non ha bisogno di interessati difensori d’uffi- cio. E ’ per questa ragione che mi paiono esagerate le preoccupazioni di non pochi storiografi o memorialisti della Resistenza che per un timore eccessivo di quel che può pensare l ’altra parte, rischiano — come purtroppo qualche volta è già avve­nuto — di affogare nella oleografia o di imbalsamare nella retorica la storia del movimento di Liberazione.

La testimonianza personale, intesa come contatto diretto con i protagonisti della lotta, riveste infine un’importanza determinante e del tutto particolare quando — come si è verificato nel mio caso — lo studioso è un giovane che non ha parte­cipato alla lotta ed ha quindi una conoscenza solo indiretta del fenomeno attorno al quale sta lavorando. In questo caso l’ affidarsi alla testimonianza, cioè cercare l’incontro con i « personaggi » del suo lavoro, aiuta lo storico a riportare i fatti e gli uomini che sta studiando alle loro proporzioni reali; evita il pericolo, nel quale io stesso ero incorso all’inizio, di crearsi dei « miti » pericolosi; costringe a ricor­dare continuamente che gli « eroi » della Resistenza sono degli individui normali, con le qualità e i difetti comuni a tutti gli uomini; permette di individuare meglio le componenti psicologiche di certi atteggiamenti e quindi a spiegare e a compren­dere meglio il meccanismo riposto di certi avvenimenti; permette, in sostanza, di fare alla ricostruzione storica, al racconto una dimensione umana. Il ricorrere alle testi­monianze personali mi ha permesso di conoscere tutto quello che nessun documento avrebbe mai potuto dirmi. Mi ricordo che la mia prima preoccupazione era di porre domande in apparenza tanto semplici da sembrare banali, ma in realtà, per me che non ho fatto la Resistenza, estremamente importanti per evitare di costruirmi una « mia » guerra partigiana, oleografica o di maniera, o di trasfigurare fatti e persone con il rischio di perdere di vista la realtà: chi erano, in concreto, questi « resistenti »? cosa facevano e come vivevano prima dell’8 settembre del ’43? come e perchè erano entrati nel movimento? quale era la loro educazione, il loro livello culturale? cosa pensavano « in privato » della guerra, della politica, del nemico, dei loro capi, dei partiti antifascisti? come affrontavano i disagi e la disciplina della vita partigiana? quali erano i rapporti fra di loro all'interno delle formazioni? e con la popolazione civile? e via di questo passo, sino al punto di raccogliere testimonianze particolareggiate sulle figure principali, ad esempio quelle dei comandanti. E vi prego di credere che tutto questo non è uno sterile soffermarsi su dettagli irrile­vanti: a volte possedere elementi sicuri sul carattere e sulla mentalità di un coman­dante partigiano può essere utile per spiegare fatti in apparenza assai lontani e diversi, come il comportamento della sua formazione durante un rastrellamento o un particolare indirizzo tattico nell’ attività di offesa. Tutto questo richiede un lavoro sfibrante, soprattutto se le ricerche sono condotte da una sola persona, ma penso che sia l ’unico sistema per conoscere da vicino il fenomeno della Resistenza e della guerra partigiana, e intenderlo per quello che realmente esso è stato.

Ancora qualche parola sul problema delle fonti avversarie e poi avrò finito. Co­me aveva già osservato Teodolfo Tessari al Convegno di Firenze dello scorso anno, la ricostruzione storica della Resistenza è resa ancor più diffìcile dalla mancanza pressoché totale della documentazione di parte nazi-fascista. In pratica gli studi sul movimento di liberazione sono condotti per il 95% su fonti partigiane o antifa­sciste e solo per il 5% su fonti nemiche. E ’ un inconveniente al quale non è facile porre rimedio. Il materiale fascista conservato negli archivi è piuttosto povero e molti documenti hanno un valore alquanto scarso. La maggior parte dei documenti è stata distrutta dagli stessi avversari negli ultimi giorni di guerra; un’altra parte è andata perduta nelle inutili devastazioni subite dalle sedi fasciste nelle giornate in­surrezionali; e una piccola parte si trova in possesso di privati che non sempre sono disposti a mettere a disposizione dello studioso tali documenti. Nel corso delle mie ricerche ho potuto reperire qualche documento repubblicano e numerosi documenti tedeschi ma si tratta certamente di una percentuale minima del materiale ancora esistente. Ho cercato di rimediare a questa deficienza tentando di raccogliere testi­monianze personali anche in campo fascista, ma nessuno dei « repubblichini » da me interpellati ha voluto raccogliere il mio invito. Anche la stampa della R .S.I. offre scarsi elementi allo studioso della Resistenza. Le notizie sulla guerra partigiana sono piuttosto rare e quasi sempre scheletriche. Il Popolo di Alessandria, ad esempio, che pure passava per uno dei più feroci giornali antipartigiani della Repubblica Sociale,

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ha sempre ignorato nel modo più completo resistenza di un movimento clandestino antifascista e non ha mai pubblicato nulla che avesse una sia pur minima connes- sione con la situazione militare e politica della provincia durante i venti mesi della « guerra civile ». E ’ una lacuna grave non solo perchè spesso la documentazione di parte avversaria può offrire una diretta conferma delle tesi antifasciste (ho ritrovato, ad esempio, un rapporto compilato nell’agosto del ’44 dal Commissario capo del­l’ Ispettorato Speciale di Polizia distaccato presso la Prefettura di Alessandria, che contiene giudizi durissimi sui componenti della Brigata Nera locale, la « Attilio Prato ») ma soprattutto per il fatto che allo storico viene a mancare, se l ’espres- sione è lecita, il termine di paragone, la verifica della documentazione partigiana, con il risultato di accentuare sempre più quello che forse è il vizio di fondo dei nostri studi sulla Resistenza, cioè il difetto di produrre storie « a senso unico », vale a dire lavori nei quali i resistenti, gli antifascisti, i partigiani si muovono da soli sulla scena combattendo contro un nemico pressoché invisibile, che si rivela solo per le conseguenze che la sua fantomatica presenza produce sull’altra parte. E ’ un fatto, questo, al quale troppo spesso non si porta attenzione: ma che effetto farebbe una storia del Risorgimento che ignorasse completamente tutto ciò che riguarda gli austriaci?

Concludendo, per fare storia della Resistenza in modo serio e onesto è ne­cessario superare tutte le difficoltà che ho cercato di delineare sommariamente. Ri­peto, non è facile, ma occorre buona volontà e soprattutto decisione: occorre muo­versi subito, altrimenti fra qualche anno gli storici della Resistenza dovranno seria­mente pensare a cambiar mestiere.

IN T ER V EN T O DI CLAUDIO PAVO NE

Farò qualche breve osservazione su due o tre argomenti dei molti e interessanti emersi in questo Convegno. Mi sembrerebbe infatti inutilmente pesante ricordare il titolo di qualche altro libro o articolo, oltre quelli di cui hanno parlato i relatori, i quali poi ci offriranno certo nel testo scritto quello che non hanno avuto tempo di esporre a voce.

Battaglia ha ricordato le disparità di interpretazione sorte intorno alle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. Io credo che, oltre e forse più an­cora delle sforzature politiche e ideologiche nelle varie direzioni, siano da respingere le letture estetizzanti, le quali veramente offendono l’ impegno morale di quei caduti. Impegno, tuttavia, che non può essere colto partendo dal presupposto, che talvolta si dà frettolosamente per scontato, della ovvia e integrale sincerità di quei documenti, che deriverebbe dalla altrettanto facile e naturale sincerità dell’uomo di fronte alla morte. Non intendo naturalmente sostenere che le lettere siano insincere, ma sol­tanto che non è affatto facile mettere a nudo il fondo di se stessi quando si è con­vinti di essere giunti al passo estremo, e in particolare a quel tipo di passo violento. Ancor più difficile è poi trasferire sulla carta ciò che allora si scopre, o si crede di scoprire, in se stessi: e questo a prescindere dalle cautele imposte dal timore di nuocere, con dichiarazioni compromettenti, ai destinatari delle lettere. Insomma, se non vogliamo limitarci alle commozione che Je lettere suscitano, e se intendiamo avvalercene come fonte storica, dobbiamo mettere da parte l ’idea che si tratti di documenti di interpretazione comoda e immediata: renderemo così un omaggio in­sieme alla onestà della ricerca e alla memoria di quegli uomini.

Se dovessi ora fare un’osservazione di carattere generale sui lavori finora svoltisi nel Convegno, direi che uno dei punti che più andrebbero approfonditi è quello di sutura fra Ja relazione De Rosa e la relazione Battaglia. E questo in due sensi.

Innanzitutto, va affrontato il problema della differenza tra l ’ antifascismo delle origini, quello su cui soprattutto si è soffermata la relazione De Rosa, e l’ antifascismo manifestatosi durante la Resistenza. Che fra i due fenomeni vi sia continuità, non c’è dubbio; che questa continuità rappresenti il grande filone della storia della de­mocrazia italiana, è anche fuor di discussione. Ma vanno pure valutate le differenze,

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che derivano dall’ accumulo di esperienza fatto dalle più vivaci correnti antifasciste, le quali seppero mettere a frutto la lezione di venti anni di storia, ponendosi pro­blemi essenziali sulla natura del fascismo (fenomeno italico, rivelazione degli italiani agli italiani, o fenomeno mondiale?), sulla crisi degli istituti della democrazia parla­mentare, sulle linee generali di sviluppo della società moderna, sia di quella borghese che di quella socialista. Mi permetta De Rosa, a questo riguardo, di notare nel suo rimpianto per la mancata formazione del governo Sturzo-Treves-Turati la tendenza a trasferire agli anni fra il 1919 e il 1922 il paradigma di governo tripartito (demo- cristiani, comunisti, socialisti) che fu possibile sperimentare solo dopo la Liberazione, e di cui De Rosa, in altri suoi scritti, ha ideologizzato la funzione.

L ’altra direzione di studio suggerita dal rapporto fra le relazioni De Rosa e Battaglia è strettamente collegata a quella ora accennata, e riguarda l’ incontro, av­venuto durante la Resistenza, di cui costituisce uno degli aspetti salienti, fra l ’anti­fascismo qualificato nelle sue varie correnti politiche formatesi nell’esilio e nelle carceri, e l’antifascismo dei giovani nati durante il ventennio, che poco o nulla sapevano del primo, e che pure giunsero all’8 settembre preparati a compiere una scelta rapida e precisa. Diverso è il tipo di documentazione cui occorre far ricorso per ricostruire questi due filoni, entrambi essenziali alla Resistenza. Per il primo vale, come ha mostrato De Rosa, la documentazione propria delle ricerche di storia politica e di storia del pensiero politico, anche se l’esilio e la clandestinità rendono particolarmente arduo il reperimento delle fonti specifiche: diciamo specifiche perchè è impossibile, e se ne acquisterà sempre più la coscienza, fare la storia dell’antifa­scismo se non nel contesto della storia generale d ’Italia, d’Europa e, almeno dopo un certo momento, del mondo.

Per il secondo filone la ricerca è più difficile, più frantumate le fonti: e ciò può contribuire a spiegare come ancora si sia compiuta poca strada in tale direzione. Andrebbero esaminati carteggi privati e ricordi di famiglia: andrebbe valutato ciò che la cultura di cui era permessa la circolazione in Italia potè fornire di alimento liberatore, accanto al molto soffocatore: sarebbe da valutarsi quella « lezione dei fatti » tanto onnipresente nella storia quanto difficile ad essere coita dallo storiografo; occorrerebbe infine, finché si è in tempo, integrare tutto ciò con il ricorso a metodi diretti di indagine, suscitatori di preziosa memoria, come questionari, inchieste, ecc.

Un settore particolare di tale indagine sarebbe quello sui combattenti della guerra 1940-43, che poi numerosi parteciparono alla Resistenza. E ’ augurabile una raccolta di lettere come quella che Omodeo compì per gli ufficiali del 1915-18 nel suo volume Momenti della vita di guerra. Alcune opere di carattere memorialistico già ci consentono un primo approccio con -l’argomento. Sarebbe sopratutto impor­tante approfondire l ’indagine sul rapporto di continuità o di rottura avutosi, nella coscienza dei singoli combattenti, fra l ’esperienza precedente e quella posteriore all’8 settembre del 1943. Alcuni dei problemi fondamentali che la Resistenza dovè affrontare, e sulla cui soluzione il giudizio è ancora aperto, potrebbero così essere riguardati sotto un rivelatore punto di vista. Penso, ad esempio, al dilemma fra la priorità della lotta al tedesco in quanto straniero, come nemico di tipo tradizionale, e la lotta al fascismo e al nazismo in quanto reazione e tirannia, in Italia e nel mondo. E ’ indubbio che vi furono nella Resistenza anche combattenti che si senti­rono sorretti da un massimo di continuità fra la guerra « legittima » del 1940-43 e quella posteriore contro la Germania, resa pure « legittima » dalla formale, se pur tardiva, dichiarazione del regio governo. L ’onor militare, la fedeltà alla bandiera o al giuramento costituirono spinte essenziali per quel tipo di resistenti. Ma in molti fra coloro che avevano fatto l’esperienza del 1940-43 fu proprio quella a offrire il terreno su cui germogliarono la ribellione e la rottura: in un senso che in alcuni potè limitarsi a una domanda di resa di conti ai singoli responsabili di tanto massa­cro, ma che assunse in altri il significato di una esplicita richiesta di integrale rinno­vamento della società italiana.

Penso pertanto che lo storico non potrà esimersi dal valutare cosa rappresentò nella Resistenza l ’uscita dalla doppia verità che angustiò fra il 1940 e il 1943 molti giovani ricattati daj senso del dovere verso quella che si diceva essere la patria in armi. L ’avere insegnato che certe questioni di fondo non si possono risolvere col metro formale della legalità rimarrà infatti uno dei meriti fondamentali dell’antifa­scismo e della Resistenza, quello che, sia detto qui di sfuggita, permetterà sempre di

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considerare nulla più che propaganda di bassa lega la campagna neofascista contro i traditori che impedirono alla famosa petroliera di giungere in tempo.

Anche la questione della componente legittimista della Resistenza può servire a ricondurci sul terreno che dovrebbe essere proprio di questo Convegno, quello della valutazione dei risultati storiografici.

Mi sembra che oggi sia matura una svolta negli studi sulla Resistenza, una svolta che, mettendo definitivamente da parte Je tentazioni oleografiche cui accen- nava Battaglia, spinga a una considerazione più articolata delle varie correnti che confluirono in quel gran movimento, sforzandosi di meglio precisare la individualità di ognuna di esse. Si tratta, insomma, di intraprendere un lavoro di analis, che permetta poi di raggiungere la sintesi come un risultato, invece che darla per scontata come un presupposto. Se è lecito un paragone con gli studi sul Risorgimento, po­tremo ricordare che condizione essenziale del loro progresso è stata la rottura del quadro dei quattro grandi, Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini, con­vergenti allo stesso fine per vie diverse e per decreto della divina provvidenza. Indispensabile è stato cominciare a considerare quegli uomini, e non solo essi, come portatori di esigenze distinte; e l’intensità del soddisfacimento di ciascuna di esse nella soluzione unitaria avutasi è stata giustamente ritenuta elemento essenziale del giudizio da dare sulla soluzione medesima. Il Risorgimento, inteso come sforzo per portare l’ Italia al livello della civiltà moderna, non ha affatto sofferto da questo riesame critico: ne è uscito, al contrario, chiarito nelle sue caratteristiche essenziali.

Lo stesso crediamo si debba dire della Resistenza, senza alcun timore di mano­metterne il patrimonio morale, che non può, anzi, non venire accresciuto da una più completa conoscenza della verità storica. In tale quadro, problemi centrali come quello dell’unità della Resistenza, possono essere considerati ricostruendo la tensione da cui essa unità, nel corso della lotta, scaturiva, ed esaminando quale delle molte­plici voci di quel coro sia riuscita in definitiva a farsi maggiormente valere. Si dirà che questo è senno del poi : ma la storia si fa sempre, in un certo senso, col senno del poi; e il poi è, per gli studiosi della Resistenza, l’Italia che dalla Resistenza è di fatto uscita.

IN T ER V EN T O DI GIO VAN NI PIRELLI

Poiché siamo giunti a un’ora in cui chi parla più di cinque, dieci minuti rischia di sembrare inopportuno, l’ intervento piuttosto impegnativo che avrei voluto fare in questa sede si limiterà alla premessa e alla conclusione.

Mi riallaccio alle ultime parole della relazione del prof. Battaglia il quale ha dato questo giudizio conclusivo sull’opera dell’ Istituto storico: quello che ha fatto finora l ’Istituto Storico è stato miracoloso, ma ciò che si richiede adesso è un salto qualitativo.

A me sembra che negli anni dal i95o-’5 i in poi tutto è mutato in Italia rispetto agli studi sulla Resistenza; e per una ripresa di coscienza dei suoi valori e per le molteplici iniziative editoriali e per il nuovo rapporto con il mondo accademico e per altri, noti motivi. Tutto è cambiato — mi scusi il prof. Parri se parlo in un modo un poco aggressivo — salvo l’Istituto Storico della Resistenza, che continua ad agire come se si trovasse in una situazione per cui il solo fatto d'esistere rappre­senta un miracolo. Questa affermazione cosi perentoria evidentemente richiede­rebbe una illustrazione. Illustrazione che non avrebbe uno scopo polemico ma vor­rebbe soltanto porre alcune premesse per affrontare il problema posto dal prof. Bat­taglia: la necessità, oggi, di un salto qualitativo.

Penso che sarebbe stato opportuno dedicare questo nostro Convegno, se non integralmente, almeno in gran parte ai problemi organizzativi dell’Istituto. Ciò non è stato possibile. Limitiamoci qui ad una constatazione.

Nella situazione attuale, se dovesse continuare, sono convinto che l’ Istituto porterà avanti il lavoro archivistico in corso e continuerà a prendere preziose ini-

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ziative, come ha fatto finora, ma rischia di non realizzare mai quella che è la sua reale funzione: essere, cioè, un centro operante di studio.

Quale può essere la conclusione di questo mio abbozzo di intervento? La con­clusione, evidentemente, è una sola: discutere, approfondire il problema. Mi per­metto di chiedere a Parri e ai membri del Consiglio dell’ Istituto di allargare una volta tanto la loro discussione ad un certo numero di persone le quali, per la loro attività, e, direi, per il loro spirito di critica anche polemica, anche aggressiva nei confronti dell’Istituto, possano dare un contributo di idee e soprattutto un contri­buto di esperienza.

Io pregherei di prendere in esame l’opportunità di una riunione da convocarsi in un tempo relativamente breve, in cui vengano dibattuti i problemi di carattere organizzativo, in cui si esaminino le fonti di finanziamento e le possibilità di allar­garle. Insieme ai problemi che si riferiscono direttamente all’Istituto si veda come le varie iniziative — di cui abbiamo avuto esempio negli interventi della Conti e di Merli — possano, attraverso l’ Istituto, avere collegamento ed aiuto.

IN TER V EN TO DI ALFREDO POGGI

Ho chiesto la parola, egregio prof. De Rosa, per citare a lei alcuni fatti e per fare una osservazione. I fatti li narro non come storiografo, ma come uno che li ha vissuti.

Quando accadde il rivolgimento fascista in Italia, noi, giovani di sinistra, sentimmo subito il grave pericolo che incombeva sull’ Italia e prendemmo posizione di lotta decisa.

Nell’ottobre 1922 ero già in contatto con i fuorusciti di Parigi. Il famoso roman­ziere francese Barbusse, che dirigeva una rivista, per mezzo del comune amico Meu­nier, mi invitò a mandare subito una relazione su quanto era successo in Italia. Que­sta relazione fu pubblicata nell’ultimo numero del 1922, quindi, caro De Rosa, fu una relazione scritta quasi in trincea.

Le osservazioni che ho potuto fare allora erano impressioni di chi, in corpore suo, aveva vissuto le tragiche giornate che, chi ha i capelli bianchi, ricorderà certa­mente. La stampa di quei tempi aveva già osservato che era sciocco credere che il fascismo si fosse impadronito dello Stato per il vantaggio di altri. Era intuitivo che coloro i quali aspettavano che il fascismo potesse — come venne detto stamattina, citando alcuni nomi, tra cui quello di Giolitti — fare la sua « marcia » in aiuto di qualche vecchio partito italiano, erano fuori strada.

Altro avvenimento che sottopongo alla sua osservazione di storiografo è che la crisi di Facta avvenne certo per quei fatti a cui lei ha accennato, ma soprattutto per un’allora diffusa sfiducia nello Stato, malanno che vediamo ripetersi nella demo­crazia che, per essersi perduta in piccole lotte personali, non ha saputo risolvere pienamente il problema costituzionale. Nel 1922 vedemmo perfino un capo dei radi­cali, Fon. Di Cesarò, prestarsi a dar man forte al fascismo.

La conclusione quindi è un po’ diversa da quella cui lei ha accennato e si ac­costa a quanto ha detto il Dr. Zanetti.

In questa mia relazione, fatta quando ancora si sentivano gli spari per le strade e con i carabinieri che, sull’ attenti, salutavano i fascisti in marcia per Roma, io os­servo quindi che tutto il movimento fascista fu un movimento prodotto dalla corru­zione dello Stato d ’ Italia, incapace di risolvere i più urgenti problemi sociali: fu crisi dello Stato.

Io, allora, vidi il fascismo in questo senso e continuo a vederlo in questo senso: il fascismo in Italia è stato prodotto da questa corruzione interna dello Stato. Si potrà osservare che questa corruzione fu prodotta dalla inefficienza politica dei Governi Facta, Giolitti, Bonomi, durante i quali il fascismo si andò affermando. L'unità sta­tale aveva ceduto: i partiti liberali in genere e (scusatemi la frase che uso ancora) i partiti della borghesia, cioè i partiti della classe dirigente avevano permesso che entro

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lo Stato sì rafforzassero le forze che poi avrebbero abbattuto lo Stato stesso. E questo fecero per paura del socialismo.

Perchè insisto su questa interpretazione del fascismo come frutto della corru­zione dello Stato borghese?

Vi insisto perchè oggi io — ve lo confesso — vedo dinnanzi a me un analogo pericolo: quello che è successo in Francia può anche succedere domani in Italia. In Francia con l’appoggio della socialdemocrazia dell’on. Mollet si è permesso che le forze reazionarie di destra si armassero, si preparassero e quindi era tardivo ogni tentativo di arrestare la reazione, dopo che essa aveva potuto armarsi sotto gli occhi bendati del governo Mollet.

Se oggi noi continuiamo a permettere le varie alleanze coi fascisti, e nelle am­ministrazioni comunali, nelle amministrazioni statali, noi, cari amici, cari resistenti, cari partigiani giovani, noi domani, potremo trovarci dinanzi ad una eguale crisi. Perciò noi dobbiamo temere queste alleanze, se vogliamo che lo Stato italiano evolva veramente verso una reale democrazia. Ecco perchè noi dobbiamo persuaderci che la Resistenza continua, perchè il pericolo di allora può ripetersi domani. Dobbiamo dire a noi stessi che la lotta contìnua perchè i nemici interni se sono lasciati nella loro azione, possono essere pericolosi domani. Occorre opporci con la critica continua ed aperta, dobbiamo vigilare perchè le libertà democratiche non siano intaccate e perchè le forze reazionarie non diventino forti tanto da non poter essere più trattenute.

Questo mio intervento vuol solo correggere le conclusioni cui è pervenuto il prof. De Rosa, poiché ritengo che il fascismo sia un bubbone che è spuntato da un organismo ammalato e può spuntare domani da un organismo colpito dalla stessa malattia.

IN TER V EN TO DI GIORGIO VACCARINO

Ringrazio la Presidenza per il ripetuto invito a prendere la parola. Per parte mia avrei preferito ascoltare soltanto gl’ interventi altrui. A parte infatti considerazioni di fondo che vorrei più a lungo meditare, cosi aH’improvviso non ho a disposizione che una serie di osservazioni marginali, che non giungono a toccare la sostanza delle due relazioni, sotto molti aspetti assai interessanti.

Il prof. Battaglia accenna all’ importanza della stampa politica clandestina ita­liana anche sotto l ’aspetto della .produzione quantitativa. Il confronto con quella degli altri paesi europei tornerebbe, egli dice, a suo vantaggio, in quanto essa an­novera tirature anche di 20.000 copie. Mi risulta al contrario che proprio una delle caratteristiche della Resistenza francese è stata la diffusione massiccia di giornali e opuscoli clandestini. I numeri del clandestino « Combat » raggiunsero nel 1944 le 300.000 copie di tiratura, oltre i 100.000 esemplari clandestini di altre testate che le tipografie di questa organizzazione facevano uscire mensilmente. Così almeno attesta il libro di Henri Michel e di Marie Granet, eminenti esponenti dell’Istituto storico francese della Seconda guerra mondiale e della Resistenza.

Uno dei caratteri di maggior rilievo della letteratura resistente italiana è stata invece la sua elevata politicizzazione, dovuta alla lunga preparazione teorica dei suoi quadri dirigenti, vissuti in esilio o nelle carceri e ai confini fascisti. Di più il diffuso desiderio di ripensare politicamente, dopo vent’anni di oscurantismo e di repressione, faceva della letteratura politica un bene largamente richiesto in Italia dagli antifascisti consapevoli.

Il prof. Battaglia stabilisce un confronto tra la scarna e antiretorica semplicità delle lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana e la complessità e forse la letteraria dovizia delle analoghe lettere degli uomini del Risorgimento. A parte le differenze di linguaggio e di costume che quasi un secolo di mezzo poteva com­portare, è da osservare la prevalente partecipazione popolare alla Resistenza e il minor numero percentuale di intellettuali e di letterati rispetto alla cospirazione risorgimentale. Con ciò io non escluderei dalle lettere dei resistenti, nonostante tutta la loro elementarità e schematicità, una componente retorica che esse

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indubbiamente presentano. La retorica dei semplici di fronte al sacrificio ed alla morte, nei suoi luoghi comuni è pur sempre retorica. Ciò che importa è che essa qui non veli mai — a differenza delle lettere dei combattenti di parte avversa — le vigorose ragioni ideali che hanno spinto il condannato nella sua azione, della cui necessità egli è pienamente consapevole quanto della libera scelta che egli ha fatto: mai alcuna ombra di pentimento e di disperazione turba i combattenti della libertà che vanno a morire.

Non direi neppure, come dice il Battaglia, che l’assenza o meglio la scarsezza di politicizzazione in queste lettere sia dovuta al fatto che esse venivano scritte in prigione e trasmesse attraverso il carceriere o il cappellano, ma piuttosto al fatto che la maggior parte di questi uomini non si intendeva affatto di politica in senso specifico. Del resto, neppure possono dirsi prive di sensibilità politica; così come sono state scritte esse sono già a sufficienza eloquenti: forse che la speranza in un mondo nuovo, una volta vinti gli oppressori, che spesso in esse ricorre, non offre già di per sè un contenuto essenzialmente politico?

Dissento dal Battaglia quando osserva che il libro su « Papà Cervi » rappresenta il solo incontro in Italia di un autore con il suo protagonista o testimone, giacche i lavori compiuti dal nostro Istituto storico o sotto la sua guida e con il suo aiuto sono tutti fondati, oltre che sulla ricerca della spesso rara documentazione, sulla si- stematica interrogazione dei testimoni delle vicende. Per esempio soltanto a Torino, per una pubblicazione di più autori in collaborazione effettuata a cinque anni dalla Liberazione, molte decine di persone furono pazientemente e ripetutamente interrogate.

E neppure credo che la ricerca bene organizzata, sia pure anonima o più propria- mente d ’ufficio, delle testimonianze mediante lettere e circolari sia metodo destinato a fallire. Posso ricordare quanto è stato fatto e ottenuto -— assai più che da noi —■ dall’Istituto francese, che ha seguito questo metodo con successo. Se mai sarebbero da studiare meglio i questionari e tutte le modalità relative.

Rimpiango infine che l'interessante relazione del prof. De Rosa non sia giunta, per la limitatezza del tempo, a svolgere il tema fondamentale della storiografia sull’ antifascismo, per cui mi è tolta per ora la possibilità di intervenire.

IN T ER V EN T O DI ARMANDO Z A N E T T I

L ’ invito a partecipare a questo Convegno, rivoltomi dall’ Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione, è stato evidentemente suggerito dal proposito dell’Istituto di allargare il campo dei suoi studi, finora limitati alla storia della «Resi­stenza » in senso stretto, dal 1943 al ’45. Studiosi e uomini d ’azione si rendono conto sempre più chiaramente che le forze morali e intellettuali, che animarono la lotta armata cóntro l ’occupazione nazifascista, si erano accumulate e maturate in quel lungo periodo della resistenza morale e politica, all’ interno e nell’emigrazione detta dei « fuorusciti », che va dalla Marcia su Roma fino alla caduta di Mussolini il 25 lu­glio 1943 ed oltre, fino alla vittoria finale delle forze della Libertà.

Dal 1926 al ’43 fuoruscito volontario, partecipe e osservatore insieme della lunga, bella battaglia contro la dittatura (dopo averla, finche mi fu possibile, combattuta a viso aperto in patria) mi permetterò di dare al prof. De Rosa e agli altri giovani stu­diosi che hanno partecipato a questo Convegno, alcune indicazioni che potranno aiutarli ad orientarsi nell’ immensa mole del materiale, su cui si dovrà un giorno ricostruire la storia del fuoruscitismo.

Una prima distinzione politico-cronologica è già stata suggerita da Aldo Garosci ed a me pare utile per chiunque affronti la materia. Si possono distinguere grosso modo tre periodi nella storia del fuoruscitismo :

1) il primo è quello dei primissimi emigrati (tra cui Sturzo, Nitti, Salvemini, Gobetti, Amendola), personalità in vista obbligate materialmente o moralmente a passare la frontiera per sottrarsi a persecuzioni personali accanite, odiose e diretta- mente fomentate dal dittatore e dai suoi immediati collaboratori nell’ illusione di

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stroncare così ogni possibilità di resistenza. Esso va dall’affare Matteotti al no- vembre 1926;

2) il secondo va dal 1926 (i decreti del terrore sono del 9 novembre, immediata­mente consecutivi al vero o falso attentato Zamboni a Bologna) fino all’inizio della guerra di Spagna (1934-35, più o meno). E ’ il periodo classico dell’ emigrazione della classe politica vera e propria — parlamentari, giornalisti politici, organizzatori sin­dacali, amministratori comunali, dirigenti di partiti. Abbandonano l’ Italia, quasi tutti clandestinamente, molti con grave pencolo, migliaia di elementi politici attivi, non solo dei partiti marxisti e repubblicano, ma anche popolari (oggi democristiani), de­mocratici di sinistra (massoni o no), liberali iscritti o non iscritti al Partito Liberale Italiano, come gli altri soppresso e divenuto illegale.

Emigrano tutti coloro che, essendo troppo noti, anche solo nella loro provincia, dovevano scegliere tra la sottomissione, la prigione o l ’esilio. I giovani, gli ignoti, potevano restare e continuarono, organizzando la resistenza clandestina interna, in contatto stretto coi fuorusciti e le loro organizzazioni.

Ad un certo momento, io potei scrivere, in un opuscolo del 19 31, pubblicato in lingua francese in Belgio e che l’Istituto ha avuto la cortesia di ripubblicare inte­gralmente in traduzione italiana, che la nostra emigrazione politica differiva da tutte le altre perchè rappresentava, non una minoranza espulsa e destinata a graduale sparizione, ma una « maggioranza politica » che continuava momentaneamente fuori dai confini, sicura di ritornare e di riprendere il governo del paese, la lotta contro una dittatura di minoranza violenta, impostasi quasi per sorpresa. Rimando gli stu­diosi a quel mio libretto che, riletto a ventott’anni di distanza, appare non solo a me oggettivo, direi, fedele fotografia di una emigrazione politica, probabilmente senza eguali nella storia.

Quella situazione in cui tutti gli antifascisti (i comunisti non erano ancora usciti dalla clandestinità nella loro azione all’estero), nonostante le divergenze d'opinioni e le rivalità dei partiti e delle organizzazioni, operavano in fraterna solidarietà e col­laborazione — e con essi i non pochi isolati, anarchici ed altri — fu rotta, in so­stanza, per effetto deila guerra di Spagna, conseguenza di quella d ’Africa e prodromo della Seconda Guerra Mondiale;

3) già nel 1936 si presenta in tutte le sue nuove caratteristiche, il terzo periodo della storia del fuoruscitismo. I comunisti escono dall’ombra e, parallelamente alla formazione de) Front populaire in Francia, invitano i socialisti e virtualmente tutti i fuorusciti alla formazione di un blocco di sinistra. Non è il caso di parlarne qui, giacche il programma di portare al governo un blocco di sinistra è tuttora un pro­blema tipico della situazione politica interna italiana — e in questa sede non mi pare opportuno entrare in merito.

Ritorniamo dunque al secondo periodo (1926-33) per fissare due punti importanti.a) Si rimprovera, a posteriori, ai fuorusciti del secondo periodo, quello dominato

nel gioco politico palese dalla famosa « Concentrazione », di non aver saputo unirsi, di non aver creato un’organizzazione unica, non foss’altro per l ’agitazione in Italia. L ’accusa non regge, per quel che abbiamo detto. Era in esilio quasi tutta la classe politica italiana legittima; ora, la politica di un grande paese di quaranta milioni di abitanti non poteva ridursi ad un’organizzazione unica. C ’erano bensì organizza­zioni, come la Lega dei Diritti dell’Uomo, con funzioni diremmo di Croce Rossa dell’ assistenza ai profughi, che ci univano tutti, dalla destra all’ estrema sinistra, ivi compresi i senza-partito. Ma era impossibile, inconcepibile, sarebbe stato dannoso sopprimere la feconda, ampia, coraggiosa discussione d’idee e di programmi e riva­lità di partiti, miranti ciascuno a riprendere e ad allargare le sue posizioni in una Italia libera, in cui eravamo sicuri di ritornare (non individualmente, beninteso, molti caddero per vial).

b) Un altro punto fondamentale, della cui importanza sempre meglio si accor­geranno gli studiosi, è la straordinaria vitalità morale e fecondità intellettuale del­l ’antifascismo emigrato italiano.

Dopo la rivoluzione francese e Napoleone, qualcuno dei ritornati si vantò di « aver saputo sopravvivere ». Noi ex-fuorusciti, a chi ci domandasse che cosa ab­biamo fatto in quei vent’anni, potremmo fieramente rispondere: anche se non aves-

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simo fatto altro, abbiamo pensato. Abbiamo studiato, abbiamo scritto. Il fuorusci- tismo ha rivelato una schiera di scrittori politici, e anche non politici, di prim’ordine; altri già noti ne ha rinnovati e vivificati in una battaglia per la libertà che fa onore all'Italia e aggiunge un grosso capitolo alla sua letteratura, anche se talvolta neces­sità —• o coscienza dell’ importanza della nostra battaglia — ci ha spinti a scrivere in francese o in altre lingue.

Quando nel 1934, con Guglielmo Ferrerò, ventilammo l’idea di un ampio studio critico sulla letteratura dell’antifascismo, in poche settimane di lavoro preparatorio, io potei proporre una prima lista di duecento volumi di almeno cinquanta autori diversi; tra questi, oltre i nominati, Sforza, Silone, Francesco Luigi Ferrari, Silvio Trentin, Rosselli, Buozzi, due Nitti oltre al già illustre presidente del Consiglio, Egidio Reale, e molti altri, senza contare i giovanissimi allora alle prime armi. Poi, come spesso accade nella vita e soprattutto nelle difficoltà materiali dell’esilio, non se ne fece nulla, ma io inviterei i giovani studiosi di oggi a riprendere quelle ricerche e quel tema. Troveranno che noi, coi nostri libri, le nostre riviste, la nostra intensa attività giornalistica (ci fu un momento in cui decine di grandi giornali a Parigi, a Londra, a Bruxelles, in America, in Germania si onoravano di collaborazioni poli­tiche di fuorusciti italiani, da Sforza e Sturzo e Nenni ai più modesti e oggi mo­mentaneamente dimenticati professionisti) abbiamo in certo modo proposto, svilup­pato e approfondito la critica dello Stato moderno e la demolizione ideale del nazio­nalismo, prevedendone il crollo catastrofico, che questa seconda guerra ha realizzato.

Che cosa è stata la Seconda Guerra mondiale? Voi più giovani, voi partigiani, voi uomini della fase finale e decisiva della Resistenza lo sapete: una gigantesca guerra civile tra europei, che ha visto italiani contro italiani, francesi contro francesi, jugoslavi contro jugoslavi e anche tedeschi contro tedeschi, gettando le basi di una nuova forma di fratellanza ed unità europea in cui i vecchi confini si stanno can­cellando ineluttabilmente.

I fuorusciti italiani sono stati in qualche modo i precursori e gli annunciatori di questa nuova realtà, i divulgatori di un nuovo ideale di libertà e di solidarietà umana, tra i popoli che aprirono agli esuli porte fraterne, prima ancora che in patria. E i fatti ci stanno dando ragione; tenetelo presente nei vostri studi sul ven­tennio, che precedette l ’epopea della Resistenza e la fase finale della Liberazione.