Comunicazione sociale 2 0 - introduzione

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INTRODUZIONE Il Buono, l’Amico e il Simpatico, ovvero sul sociale della comunicazione LELLO E perché non vieni? GENNARO Perché sei antipatico! LELLO Ah, antipatico no. GENNARO Perché, mannaggia ‘a miseria, parli troppo. Nun fai dicere una parola a’na persona. LELLO Allora sono uno che parla troppo, non sono antipatico! GENNARO No. Si’ uno che parla troppo, antipatico! LELLO Vabbuò, hai sempre ragione tu… Massimo Troisi, Ricomincio da tre

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INTRODUZIONE

Il Buono, l’Amico e il Simpatico, ovvero sul sociale della comunicazione

LELLO E perché non vieni? GENNARO Perché sei antipatico! LELLO Ah, antipatico no. GENNARO Perché, mannaggia ‘a miseria, parli

troppo. Nun fai dicere una parola a’na persona.

LELLO Allora sono uno che parla troppo, non sono antipatico!

GENNARO No. Si’ uno che parla troppo, antipatico!

LELLO Vabbuò, hai sempre ragione tu… Massimo Troisi, Ricomincio da tre

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1 Cominciando dal due (punto zero) 2.0? Se state leggendo queste pagine vuol dire che non siete ancora stati nauseati dell’uso, e spesso, l’abuso delle formule alla due-punto-zero. Ha iniziato il web, poi sono arrivate molte altre realtà in una corsa affannosa all’ipermodernità tecnologica, alle virtù di una comunicazione che si fa strumento di raggruppamento e coinvolgimento, di inclusione e connessione perpetua. Persino la comunicazione pubblica si è fatta 2.0 e ha raggiunto questa soglia fatidica1.

Eppure quando in queste pagine si descriverà la comunicazione sociale nella sua versione due-punto-zero si intenderà raramente l’uso di strumenti informatici o di reti telematiche. In sostanza si accoglie lo spirito del “nuovo web” così come fa la pubblicistica sul tema, si coglie solo l’aspetto allusivo, metaforico, di questa novità. Si coglie solo l’aspetto superficiale, e forse retorico, della contemporanea enfasi sulla capacità dei new media di costruire comunità (seppur) “virtuali” e social network, di promuovere l’intervento attivo dei consumatori sotto forma di commenti e video o contenuti generati-dagli-utenti, di facilitare la collaborazione e cooperazione, ad esempio, per costruire programmi “open source” o le voci di Wikipedia “la più grande enciclopedia del mondo”…

Oppure, e – non lo nascondo – questa è la speranza: semplicemente questi aspetti rappresentano l’aspetto visibile perché mediato dalla tecnologia, spesso folkloristico perché ritratto solo nei suoi aspetti estremi o triviali, di un generale cambiamento di prospettiva o, addirittura di paradigma. La volontà di far entrare

1 Mi riferisco al testo di Alessandro Lovari e Maurizio Masini intitolato

Comunicazione pubblica 2.0 (2008) e dedicato proprio all’uso di queste soluzioni tecnologiche nell’ambito della Pubblica Amministrazione.

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sempre più persone nell’alveo della produzione culturale e della partecipazione democratica, la possibilità di assecondare la brama popolare di informare, discutere e anche litigare donando gratuitamente il proprio tempo o la propria creatività, quella di fondare un tessuto di collegamento tra le persone per consentirgli aggregazione, socializzazione e persino chiacchiera e amoreggiamento, quella di costruire momenti e pratiche di decisione collettiva e utilizzazione collettiva delle intelligenze e dei saperi non possono non essere ridotte a moda effimera o vocazioni utopiche quando divengono piattaforme informatiche utilizzate da migliaia o milioni di persone (e di imprese che fatturano altrettante migliaia di dollari). In qualche modo la fama di questi fenomeni, e gli appetiti giornalistici e commerciali che stimolano, colgono in qualche modo – e spero non venga giudicata come frutto di enfasi eccessiva –, uno certo spirito del tempo. Pare indubbio come sia lo sviluppo di “contenuti aperti” e del “web sociale”, come però della crescente integrazione delle competenze relazioni e della creatività diffusa nello spettro sociale nelle pratiche produttive e lavorative, la crescente esigenza di personalizzare i contenuti mediali e pubblicitari come i beni di consumo siano tutti aspetti, non solo dei nuovi strumenti comunicativi, ma anche della generale vocazione post-fordista tipica della società dell’informazione e delle reti.

Non si può ignorare l’ampiezza di questa sfida, aperta a inedite possibilità almeno quanto colma di problemi, di trappole e di inganni corrispondenti alle illusioni e alle speranze che sta suscitando. Ma mentre questo è lo stato dell’arte, la comunicazione di pubblica utilità pare ancorata a paradigmi obsoleti e sfide del tutto arretrate. Non mi sto riferendo solo alla letteratura scientifica e la normativa italiana in materia, almeno non in via esclusiva. La questione è l’ennesima conferma di una certa arretratezza del sistema mediale e dell’approccio di larga parte della cultura intellettuale, politica, istituzionale e spesso anche imprenditoriale italiana che ha nella

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comunicazione di utilità sociale o comunque riferita a temi sociali un suo esempio evidente.

Il testo nasce proprio dall’esigenza, e dall’insoddisfazione, verso il modo in cui le campagne sociali come i manuali e la letteratura sul tema, sembrino ignorare le parole chiave della rinnovata centralità sociale nella comunicazione (e nella tecnologia). Centralità, occorre precisarlo in premessa, non del sociale inteso come società, come sinonimo di diffuso, comune, complessivo o universale, ma nel modo due-punto-zero di intenderlo: ovvero della centralità della partecipazione, delle reti sociali, della cooperazione volontaria e della spinta all’aggregazione sociale. Un settore della comunicazione che quindi deve rinnovarsi partendo proprio dalla sua radice sociale, dal connubio tra il dato originario di unione comunitaria e in quello futuristico della tecnologia come connettore di intelligenze. In questi termini la comunicazione sociale deve rifondarsi per affrontare insieme il suo passato e il suo futuro, dovrebbe mettere in gioco pratiche, sistemi di interessi e professionalità consolidate, ridefinire la propria vocazione e le tecniche che ne conseguono. In qualche modo ripartire dalla sua stessa “ragione sociale”, dalla sua stessa designazione.

1.1 Partendo dalle definizioni (passate e presenti)

Cosa si intende per comunicazione sociale? Perché una comunicazione si dice “sociale”? Cioè, quando è sociale la comunicazione? Non pare esistere una definizione univoca di comunicazione sociale. Appaiono fin troppo numerose le possibili declinazioni di chi usa questo termine. Ognuna assomma intenzioni e discipline specifiche. Ognuna viene utilizzata da attori pubblici e privati per designare la propria attività comunicativa. Il termine “sociale” la ingentilisce, la rende più accettabile e, sicuramente, più utile. Proprio per questo motivo appare necessario delimitarne i confini, stabilirne le peculiarità.

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In modo forse inguaribilmente accademico questo testo parte da un “ricognizione”, da un tentativo di decostruire lo stesso concetto di comunicazione sociale. Lo fa perché il campo della comunicazione sembra ancora in un momento fondativo di delimitazione e accreditamento pubblico quanto scientifico. Eppure, anche nel linguaggio comune si fa fatica ad intendersi. Destino comune con la benedetta-maledetta parola comunicazione: ogni persona sembra averne in testa un’interpretazione diversa, una discorde accentuazione del suo verso o del suo significato, dei contenuti possibili e delle tecnologie necessarie. Simile il risultato aggiungendo un aggettivo altrettanto polisemico come il termine “sociale”. C’è la tradizione della Chiesa Cattolica che usa la formula comunicazione sociale o comunicazioni sociali come semplice sinonimo dei processi comunicativi oppure chi rintraccia in questa figura una nuova tipologia di messaggi e pratiche produttive, un allargamento del campo di attività – storicamente più circoscritto e strutturato – della cosiddetta pubblicità sociale. Da questo riprende linguaggio, pratiche ed archivio storico traducendo in Italia un settore in ambito internazionale variamente etichettato, e affrontato, come Public campaigning o social marketing. La comunicazione sociale diventa, in questi termini, parte del settore di studi definito come comunicazione pubblica. Da questa riprende l’insieme di pratiche e gli strumenti di comprensione scientifica e normativa, oltre alle caratterizzazioni disciplinari. Questo testo non sfugge a questa tradizione2, ne trae origine ma la interpreta criticamente nella speranza di costruire un quadro più originale o coerente con la sua vocazione sociale, per quella che credo, e spero

2 Quasi nessuno degli autori citati «si sottrae al tentativo di proporre una

tassonomia della comunicazione dell’istituzione pubblica» (Grandi 2007) e della comunicazione pubblica in generale. In sostanza questo testo non farà eccezione.

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di convincere chi legge, dovrebbe essere tendenzialmente definito come un vero e proprio settore dell’universo della comunicazione.

Difatti sembrano esserci due motivi per soffermarsi nella definizione di un campo di studi o di un fenomeno, e, quindi, per scrivere libri o manuali su un argomento. Il primo fine è conoscitivo mentre il secondo è tradizionalmente definito come normativo. Il primo adotta definizioni che si configurano come strumenti euristici, come elaborazioni teoriche utili a meglio delimitare, analizzare e spiegare il fenomeno in oggetto. Il secondo invece adotta una definizione per indurre all’azione, per individuare delle tecniche rispetto ad altre, scegliere degli strumenti concettuali per inquadrare le attività svolte e da svolgere, costruisce un sapere direttamente finalizzato al suo uso, ad un saper fare. Spesso queste due finalità non appaiono ben distinte, e probabilmente questo testo non farà eccezione. La definizione di campagna o comunicazione sociale indica contemporaneamente uno spettro di pratiche e messaggi realizzati, una tipologia di produzione mediale – classicamente gli spot di pubblica utilità o le campagne realizzate da istituzioni o enti non profit – e quindi una griglia per indicare le modalità di scelta dei temi, degli interlocutori, dei linguaggi e delle finalità delle campagne realizzate ma spesso anche da quelle non ancora ideate.

In entrambi i casi la prospettiva (e definizione) offerta costruisce un sapere, un insieme di strumenti, prima concettuali che tecnici, per orientare l’azione. Le conoscenze articolate da questi testi costruiscono, infatti, campi di sapere, presupposti, discipline e metodologie da adottare nella pratica concreta. Ma non è tutto, l’importanza delle definizioni si evidenzia nel ruolo che svolge nella definizione dei percorsi formativi e finanche dei corsi di laurea universitari. Una studentessa, durante una delle mie recenti lezioni “leggendo” sullo schermo la slide che presentava la suddivisione tra tipologie di comunicazione pubblica che stavo illustrando, ha osservato come questa suddivisione corrispondesse esattamente ai

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corsi di laurea presenti nella nostra Facoltà. Il connubio tra pratiche produttive, alta formazione, forme dell’organizzazione e requisiti normativi riduce ancor più sensibilmente la distinzione tra il livello della ricerca scientifica ed intellettuale con quello della costruzione di politiche pubbliche, professionalità e tecniche comunicative. In questo modo, non solo si allenta definitivamente la distinzione tra intenti conoscitivi e normativi della produzione scientifica, ma si rivela la centralità di quest’opera di definizione: il dibattito e la manualistica intorno alla definizione di comunicazione pubblica o sociale diventa, infatti, sempre più una guida per la realizzazione delle attività e degli indirizzi di policy nel campo. Il modo in cui si disegna (e ritrae) l’architettura comunicativa diventa, quasi direttamente, indicazione per l’ingegnere che le costruisce.

1.2 Partendo dall’autore (collettivo) Chiarito in parte l’intento da cui muove è necessario precisare da quali attività e relazioni sociali nasce questa proposta. Innanzi tutto la necessità di delineare e declinare una definizione di comunicazione sociale innovativa nasce all’interno dell’Osservatorio sulla comunicazione sociale e l’editoria del Terzo settore Terza.com nato nel 2001 dalla collaborazione tra la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza e il Forum del Terzo Settore3. L’Osservatorio, incoraggiato e sostenuto dal Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione Mario Morcellini, dall’allora portavoce del Forum Edo Patriarca e dai responsabili del Gruppo Comunicazione ed Editoria del Forum del Terzo Settore Ivano Maiorella e Paola Scarsi, ha concentrato larga parte della sua attività proprio intorno a questo intento. Larga parte delle riflessioni qui articolate nascono proprio dagli stimoli e dalle occasioni di

3 Per maggiori informazioni sulle attività dell’Osservatorio:

http://terzacom.wordpress.com/.

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confronto con le realtà del terzo settore offerte da questa stretta collaborazione.

Essendo frutto di un dibattito e lavoro comune alcuni tratti della definizione che qui verrà proposta sono stati già stati esposti dalle persone che hanno coordinato con me l’Osservatorio come Barbara Mazza (2005; 2006b; 2006a) e Andrea Volterrani (2003; 2005; 2006b; 2008), e sono confluiti in un generale raccordo teorico e nella contestualizzazione, in primo luogo, del rapporto tra comunicazione, capitale sociale e società civile offerta dal volume Oltre l’individualismo curato da Mario Morcellini e Barbara Mazza (2008b). Per quanto mi riguarda ho avuto alcune occasioni di delineare il nostro contributo alla definizione e alle possibili pratiche di comunicazione sociale e del terzo settore in alcuni interventi alcuni dei quali sono stati raccolti e rielaborati in questo volume4. Ulteriore occasione di indagine e riflessione su questi temi è stata fornita dai alcuni progetti di ricerca sulle capacità e le strategie comunicative delle organizzazioni non profit (conclusioni riassunte nei capitolo 9) e una ricerca5 sui media non maistream e le tv di quartiere, il movimento delle cosiddette Telestreet (rintracciabile nelle riflessioni presenti nel capitolo 8). Il testo è frutto della

4 I paragrafi (3.3 e 11.5) dedicati alla descrizione critica della concezione

tradizionalmente emersa di comunicazione di pubblica utilità è stata pubblicata in due riviste (2005; 2006b), si può affermare che il resto del volume, e soprattutto l’impostazione generale del testo, è invece debitore di un altro saggio (2008a), pubblicato nel volume curato da Carla Bertolo Comunicazioni sociali (2008). Quell’intervento mirava a dimostrare la stessa tesi espressa nelle occasioni precedenti adottando però, in modo simmetrico, una modalità costruents rispetto a quella destruents adottata nei primi interventi (e paragrafi). Una diversa impostazione che si ripercuoteva nello stile in cui sono scritti, diversità che ho cercato in parte di mantenere in questa sede.

5 Come nel caso precedente un progetto cofinanziato del Ricerche di Rilevante Interesse Nazionale (Prin) del MIUR.

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ricchezza e della varietà di quelle discussioni e di quegli incontri almeno quanto delle limitate capacità di chi l’ha redatto, che, com’è tradizione, si accolla la responsabilità dei suoi difetti.

1.3 Partendo dal lettore (modello) Chiarita anche la sua origine potrà essere forse quindi più chiaro a chi si rivolge, chi ne è l’interlocutore, con chi vuole iniziare e proseguire una conversazione. Certo, si tratta di un monologo, ma un soliloquio in forma scritta che, come si è chiarito, segue una lenta opera di dialogo e osservazione. La lettura del libro è consigliabile principalmente a due figure: a chi già si occupa di sociale e comunicazione nella pubblica amministrazione, nel terzo settore o nelle imprese (responsabili), e a chi studia e quindi diverrà, speriamolo, una delle figure precedenti.

Questo duplice destinatario ideale, si riflette nel duplice intento del volume. State leggendo un testo che ha due obiettivi: costituisce una proposta e un’illustrazione, presentare un’ipotesi e guidare i primi passi al suo interno. È, quindi, insieme un saggio critico e un manuale. Contiene una tesi da dimostrare ma, nello stesso tempo, fornisce degli elementi e delle letture per sperimentarla. Critica un insieme di definizioni e approcci alla comunicazione sociale ma per farlo deve spiegarli e scomporli, in qualche modo facilitarne la comprensione. Forzatamente però la sua scrittura come la sua “vocazione accademica” parla alle altre persone che studiano o compiono attività di ricerca in questo ambito: si rivolge a studiosi e studiose del settore nella speranza di contribuire al dibattito scientifico su questi temi, cercando di arricchirlo e proporre nuove dimensioni conoscitive e strumenti di comprensione ma anche a chi opera o opererà in questo settore sperando di fornire idee innovative e possibili spunti per l’azione. Per questo motivo, se chi legge ci consente un peccato di ambizione, intendo questo testo come la prima tappa di un processo, per lo meno come prima parte di un’opera che dovrà essere completata da altri volumi. Questa è

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quella in cui si declinano intenzioni, i confini e i requisiti di una definizione e delle sue pratiche, nei prossimi anni mi impegnerò (e ci impegneremo) nelle attività di resoconto (più analitico) delle indagini che abbiamo realizzato e realizzeremo su questo campo e delle indicazioni, persino più pragmatiche, di come progettare, realizzare e far vivere esperienze di comunicazione delle socialità, dei diritti e della cittadinanza attiva.

In questo senso il libro è pienamente frutto dell’attività didattiche che chi scrive ha svolto negli ultimi anni cercando di illustrare questo approccio a persone che svolgono attività di volontariato che ho avuto modo di incontrare nel tempo e alle persone iscritte ai corsi di laurea in «Scienze della comunicazione sociale e istituzionale» e, ora, di «Comunicazione e pubblicità per pubbliche amministrazioni e non profit» della Sapienza. Cercando di spiegare la comunicazione sociale, i suoi stili e le sue tecniche, ho dovuto confrontarmi non solo con gli strumenti teorici ma anche con la fatica e l’inesauribile piacere di doverli rendere comprensibili e, spesso, plausibili a quelle platee, con la necessità di rispondere alle obiezioni e alle domande, con l’esigenza di scovare esempi e casi concreti per illustrarne meglio le ripercussioni. Credo che parte di questo sforzo sia rintracciabile nella sezioni del testo più comprensibili e in molti degli aneddoti citati. Confido sia un buon esempio di un possibile connubio virtuoso tra ricerca scientifica e didattica di cui purtroppo si perde sempre più spesso traccia nella regolazione delle università come nelle esigenze organizzative degli atenei.

Quasi naturalmente il testo è dedicato a chi opera nel sociale, a chi – spero – troverà in queste pagine semplicemente una conferma, una qualche sistematizzazione e spero qualche strumento utile, ad una pratica relazionale e comunicativa, una cultura della solidarietà e della partecipazione, che è già in atto. Una speranza in alcuni casi confermata dalle reazioni ai miei scritti precedenti e al momento in cui ho avuto occasione di parlarne dal vivo. Ricordo ancora, qualche anno fa, quando Ivano Maiorella, a conclusione di una

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lezione rivolta ai giovani volontari e volontarie del servizio civile nazionale in cui avevo declinato sinteticamente l’approccio qui proposto in modo esteso, mi disse di aver ritrovato nelle mie parole l’esigenza di fondo da cui era nata la nostra collaborazione, la comune insoddisfazione delle definizioni correnti e il fulcro dell’attività che svolgeva nelle associazioni in cui lavorava da anni6. Probabilmente non una verifica risolutiva, ma almeno un buon viatico.

6 Ancora più recentemente ho avuto occasione di aver conferma della

rispondenza di queste idee con la pratica delle associazioni di volontariato e del Terzo settore. Il Centro Servizi “Bottega del Volontariato” e dell’UILDM di Bergamo hanno voluto invitarmi ad un convegno su questi temi, le persone che lavorano in quel centro servizi e la presidente della sezione di Bergamo dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare Edvige Invernici mi hanno più volte manifestato di trovare un positivo riscontro tra i miei interventi e il dibattito che si svolgeva nella loro realtà associativa. Sono infinitamente grado a loro per questo e per la pubblicazione degli atti del convegno che è stata distribuita in allegato al settimanale Vita nell’estate del 2008; parti di quel mio intervento sono riprese nelle conclusioni e nel capitolo 11.

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2 Ricominciando da tre Prima di affrontare la lettura del testo è necessario forse spendere qualche riga per illustrare il senso della piccola citazione cinematografica con cui si aprono queste pagine. È la prima scena dalla celebre film di debutto di Massimo Troisi. Il film si apre con le urla di Lello – interpretato da Lello Arena – che chiama ripetutamente da sotto le sue finestre il protagonista del film. Accoglie quindi Gaetano (Massimo Troisi), dopo averlo interrotto mentre vedeva il telegiornale, invitandolo ad uscire con un gruppo di amici, per andare al cinema. C’è una persona che ne invita un’altra ad uscire di casa, entrare in un gruppo, avere una forma di socialità. Lo fa urlando, intervenendo in modo rumoroso e invadente. Come si scoprirà presto, è una caratteristica tipica del suo modo di comunicare. Infatti, l’altro se ne lamenta immediatamente. Lello è uno che “parla troppo”, è ingombrante, fa dei monologhi, non permette il dialogo. Pur se a fin di bene, eccede in comunicazione…

Anche per questo risulta antipatico. Proprio per questo è un antipatico. Cioè, il suo essere invadente invece di facilitarla, rende difficile la loro amicizia, la loro socialità. Da questo piccolo apologo, ho ricavato lo spunto per illustrare due distinti modi di comunicare corrispondenti, a mio avviso, ai diversi modelli di comunicazione sociale in cui si articola l’intero volume. Il primo è quello del Buono, colui che – come Lello – interviene anche rumorosamente per una buona causa. Il secondo e il terzo sono quelli dell’Amico e del Simpatico. L’Amico insegue l’affinità, il piacere di intrecciare rapporti duraturi; il Simpatico è capace, solo per la sua presenza, di suscitare legami, di creare la situazione adatta perché si crei un ambiente sociale, perché si instaurino amicizie. A queste tipologie di atteggiamento, del tutto ideali, corrispondono le modalità uno-punto-zero e due-punto-zero di praticare la

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comunicazione sociale: l’utilità dei messaggi contro il diletto delle relazioni.

In questo modo spero di contribuire al processo di determinazione di una definizione di comunicazione sociale originata da quella di utilità e solidarietà sociale. L’aggregazione in tre tipologie credo renda più agevole ricostruire e catalogare quelle già disponibili: così numerose e dai confini particolarmente liquidi7. In genere convergono intorno alla finalità di sensibilizzare in merito a determinati temi o di promuovere comportamenti o atteggiamenti tra la cittadinanza. Al loro interno è possibile rintracciare non solo un quadro molto preciso di attori, temi e destinatari, ma anche un ben delineato modello comunicativo8.

Nella prima parte del testo, esaminandole in modo analitico, metto in dubbio la tenuta logica e metodologica dell’argomentazione che le sorregge, delle conseguenze che ha nei termini della progettazione delle campagne e dello stile dei contenuti così realizzati. Nella seconda parte, invece, evidenzio i principali problemi in termini dell’efficacia di questo modello di intervento comunicativo e dei suoi presupposti empirici nel quadro della riflessione sugli effetti della comunicazione mediatica. Inoltre si riassumono una serie di alternative a quello schema: provenienti da altre discipline (come la pedagogia), dalla riflessione

7 Nicoletta Bosco usa una metafora particolarmente evocativa per

rappresentare questa difficoltà, un analogia ripresa dall’opera di Camilleri: il tentativo di dare una “forma all’acqua” (Bosco 2005, 47)

8 In sostanza il testo parte proprio dalla costatazione dei limiti di questo approccio e, della speranza di scoprire – con le parole di Pina Lalli – cosa succede quando «abbandoniamo l'idea di definire la comunicazione sociale in base al tipo di soggetto promotore e se rinunciamo definitivamente a quella strana e davvero riduttiva ipotesi di considerare i suoi oggetti come non controversi» (2008, 17).

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internazionale (come quella sviluppata dall’UNESCO) oppure dalla storia e dall’analisi delle esperienze già realizzate nell’ambito dei movimenti sociali o dell’universo dei cosiddetti community media. La terza ed ultima parte si dedica a riassumere i tratti caratterizzanti l’approccio qui proposto in tre direzioni: a) illustrare quale siano gli esempi, le ricerche e le prassi proprie di un modello che favorisca e faccia esprimere il “sociale della comunicazione”; b) evidenziare quali siano le possibilità e le politiche (pubbliche) che la comunicazione pubblica e le istituzioni possano mettere in campo per stimolare il modello simpatico di comunicazione; c) precisare la definizione di comunicazione sociale qui articolata in completamento di quelle già disponibili sia per alcune differenze nella struttura del rapporto comunicativo che in quello dell’ambito in cui può essere più corretto inserirle.

Spesso l’illustrazione di questi tre modelli idealtipici è affiancata da un piccolo schema sinottico che raffronta – non senza qualche forzatura – le tre tipologie, sintetizzandone per parole chiave le caratteristiche distintive. In questo senso, la maggior parte dei riferimenti bibliografici relativi al secondo e al terzo modello proposto non sono usati per conferirgli una nuova configurazione teorica o rivederli criticamente, né tanto meno – o non del tutto – per commentarli in un’opera di scrittura di “libri su altri libri”9, al contrario servono – “semplicemente” – a confermare l’idea di un cambiamento nel modo di intendere la comunicazione che non è costruito nel vuoto delle idee o delle pratiche. Anzi intende

9 È Manuel Castells, nella sua ultima fatica, a proporre l’intento di

quell’opera: «che in alcun modo va vista come il tentativo di partecipare al dibattito teorico. Non scrivo libri su altri libri. Uso le teorie, qualsiasi teoria, nello stesso modo in cui mi auguro che sarà usata la mia teoria da chiunque altro: come una cassetta degli attrezzi da utilizzare per capire la realtà sociale» (Castells 2009, XXIII).

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rassicurare chi legge sull’esistenza di una vasta riflessione internazionale sul tema, di uno “stato dell’arte” del dibattito di altre discipline vicine agli intenti educativi e di pubblica utilità che già da tempo ha affrontato le aporie dei modelli tradizionali in direzione di un approccio fondato sul dialogo, la cooperazione e la partecipazione. Tre possibili modelli di operatività, tre configurazioni, che possiamo sintetizzare in via del tutto preliminare riprendendo gli aspetti più evidenti della pratica comunicativa:

Modello campagna. Si tratta della costruzione di grandi o piccoli interventi circoscritti nel tempo e messi in atto attraverso i sistemi di comunicazione di massa (spot televisivi e radiofonici, materiale promozionale o divulgativo, grandi eventi,…). In questo caso la definizione dei temi, delle modalità e dei contenuti stilistici degli interventi non coinvolge direttamente né coloro che li attueranno, né i target, visto anche l’alto costo di queste modalità di intervento comunicativo.

Modello narrazione. Si tratta delle attività di comunicazione puntuali e diffuse (interventi nelle scuole o nei luoghi di incontro, spettacoli e performance live, piccoli eventi, diffusione in strada attraverso banchetti informativi,…). Sono le azioni di sensibilizzazione e informazione adottate prevalentemente dalle associazioni di volontariato e di terzo settore diffuse sul territorio. Interventi caratterizzati non solo da budget e costi modesti, ma contrassegnati dalla forte componente narrativa, da ambiti relazionali e modalità esperienziali.

Modello relazione. Si tratta delle pratiche di sensibilizzazione o intervento compiute dall’”attivazione” delle persone più o meno direttamente implicate nel tema o problema sociale, spesso attraverso le associazioni di volontariato o promozione sociale. In questo caso l’intervento di comunicazione avviene raramente attraverso i mass media, ma soprattutto attraverso la conoscenza

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diretta del tema e dei problemi correlati oltre che a pratiche personali o comunque “ravvicinate” di azione comunicativa.

I tre modelli possono essere considerati come del tutto alternativi l’un l’altro o essere utilizzati insieme in modo complementare10. In ogni caso è del tutto eterogeneo il modo in cui essi si rapportano alle tematiche, gli intenti che li animano, le modalità di relazione che li caratterizzano. In qualche modo (ri)cominciamo da questi tre.

10 È di questo avviso ad esempio Giovanna Gadotti quando, già nel 1992

scriveva: «molte campagne sociali che hanno ottenuto buoni risultati invitavano infatti i cittadini oltre che ad assumere comportamenti adeguati alle necessità di convivenza civile anche a far pressione sui pubblici poteri e sulle aziende di mercato affinché fossero adottati quei provvedimenti e quelle misure necessarie a soddisfare e risolvere i problemi oggetto della campagna sociale», (Gadotti 1992, 72); ma ritorneremo su questo tema in conclusione.