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Comunicare per vincere

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Comunicare per vincere

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Le circostanze della prima guerra

mondiale esplicitano il valore “politico”

della comunicazione e il suo ruolo

decisivo nel governo dell’opinione

pubblica, in relazione a obiettivi vitali

come la mobilitazione del fronte

interno e il sostegno popolare, la

perorazione della propria causa

presso i Paesi neutrali, il

mantenimento del morale nazionale e

l’erosione di quello nemico.

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L’uso della comunicazione viene dunque percepito come uno snodo sensibile dell’azione bellica, secondo solo a quelli inerenti la condotta militare e diplomatica, l’organizzazione in senso lato e la produzione di armi. Si tratta però di un terreno «professionale» ancora in gran parte vergine, che tende a innestare sulle comunicazioni «ufficiali» gli stimoli della nascente pubblicità e le strategie di gestione delle informazioni usate nello spionaggio.

Carl Hans Lody, fucilato come

spia tedesca il 6 novembre 1914

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I primi tentativi di mettere in piedi

organi di propaganda deputati alla

gestione della comunicazione

tendono pertanto, almeno all’inizio,

a usare di più il pedale del freno,

puntando al consolidamento del

controllo dell’informazione, entro

un’ottica che considera ancora la

libertà di stampa un impaccio e mira

soprattutto a mantenere scorrevole

e lubrificata la catena di comando.

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Censura

Non essendoci piena contezza dei mezzi più adatti al compito e con idee ancora vaghe sulle sinergie possibili, l’azione propagandistica di tipo «propositivo» si limita a fomentare e instradare l’entusiasmo patriottico con gli strumenti a disposizione, primo fra tutti la stampa (manifesti, pamphlet, ecc.) mentre invece scattano con prontezza i meccanismi di controllo dell’informazione che possono contare su uno strumento già pronto e ben conosciuto: la censura.

André Gill, «Madame Anastasie», L'Éclipse, 19 luglio 1874

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Censura

«La censura è una indispensabile

arma di guerra: il suo compito è

quello di mantenere le persone in

un’atmosfera di totale ignoranza e

inossidabile fiducia nelle autorità e

di permettere un indottrinamento

illimitato in modo da farli resistere,

nonostante perdite e privazioni

terribili, fino alla fine a alla

completo abbattimento del

nemico».

Eberhard Demm

http://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/censorship

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Lo sforzo per evitare, o per nascondere, ogni flessione dello spirito patriottico, della volontà di sacrifico e della fede nella vittoria (che diventerà più gravoso col passare dei mesi), estende la sorveglianza ad ogni aspetto della vita sociale: dalle fonti estere alle lettere dei soldati, dalle notizie d’agenzia a tutte le pubblicazioni e agli spettacoli, ma la partita più importante è quella che si gioca attraverso la grande stampa quotidiana.

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Stampa di massa

La grande stampa è il solo mezzo di comunicazione davvero moderno, la forma di intermediazione più importante fra la macchina statale, l’opinione pubblica e le masse popolari, di cui sono già state collaudata le grandi potenzialità ma non ancora la disponibilità a uniformarsi in modo funzionale con gli obiettivi politico-militari dei Governi.

Francis Luis Mora, Subway

Riders in New York City (1914)

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Stampa di massa

La stampa è infatti tutt’altro che un blocco monolitico;

la disparità degli orientamenti politici e degli interessi

economici delinea nel mondo dell’informazione un

panorama variegato di schieramenti diversi, a volte

contrapposti.

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Stampa di massa

Negli anni precedenti la guerra, ad

esempio, una parte dei giornali

inglesi (soprattutto quelli di

Harmsworth), aizza sentimenti

antitedeschi, ma al Daily Mail, al

Times e all’Observer si oppone

un’area liberale (Daily News, Daily

Chronicle, Westminster Gazette) che

confida nelle intenzioni pacifiche

della Germania ed è convinta che gli

altri giornali fomentino a bella posta

l’isterismo bellicista.

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Anche in Francia esiste una situazione simile, mentre in

Germania i giornali, più direttamente ispirati dal governo,

hanno sostenuto con zelo la politica espansionista, pur

senza invocare direttamente la guerra. Tuttavia, anche

qui esiste una stampa socialdemocratica «pacifista» che

denuncia il bellicismo dello Stato maggiore.

Stampa di massa

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Stampa di massa

Questa situazione, che

potrebbe rappresentare un

ostacolo per il

raggiungimento di un

pieno feeling fra politica e

informazione, subisce

modifiche sostanziali nel

momento in cui il

precipitare della crisi porta

allo scoppio della guerra.

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La guerra

L’entrata in guerra:

• Annulla in gran parte la divisione della stampa in

schieramenti diversi e oscura il pacifismo;

• Introduce un conflitto implicito fra deontologia

professionale e patriottismo;

• Pone la questione della censura e del rapporto con

le autorità politiche.

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Le differenze di orientamento politico e la presenza

di correnti ‟internazionalisteˮ e ‟pacifisteˮ, che

avrebbero potuto marcare posizioni diverse

sull’opportunità della guerra, vengono

completamente travolte dalla marea nazionalista, che

scompagina anche quasi tutti i partiti socialisti e

disgrega di fatto la Seconda Internazionale.

Nazionalismo

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Ideologia

In secondo luogo, l’etica del giornalismo, già

sensibile alle sirene dell’indipendenza dal potere

politico e della separazione tra fatti e opinioni, deve

confrontarsi con un «lealismo» che esige di scender

a patti con la deontologia e con la verità,

narcotizzando all’interno l’esercizio della critica e

istituendo all’esterno una dicotomia esasperata fra

«buoni» e «cattivi».

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Controllo

Infine, l’invadenza della tutela burocratico-politica,

dei vincoli al segreto militare e la stessa autocensura

volta patriotticamente a non danneggiare lo sforzo

bellico, provocano l’irrigidimento del mercato delle

notizie e il restringimento della libertà professionale.

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La congiuntura politica e il clima ideologico tendono

ad annullare ogni voce di opposizione e si crea

ovunque la situazione un po’ paradossale che vede

le autorità –spaventate dall’indisciplina dei giornali o

semplicemente da un’informazione «libera» -

stringere i freni della censura e, sull’altro versante, la

stampa ispirata dal fervore patriottico gareggiare in

deferenza verso lo Stato e gli apparati militari.

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Questo schema resterà alla base del rapporto fra politica e comunicazione fino alla fine del conflitto, ma subirà anche delle trasformazioni importanti. Anzitutto, di tipo geo-politico, poiché la sua configurazione specifica nei vari contesti, la capacità accompagnare le svolte significative degli eventi bellici e di amalgamarsi con le esigenze propagandistiche emergenti, nonché il grado di efficacia raggiunto caso per caso dipenderanno anche dalle differenze socioculturali tra i vari paesi, dal livello di sviluppo e dalle qualità peculiari dei rispettivi sistemi di comunicazione.

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A livello generale, i punti nodali del conflitto sono tre:

1. L’ondata patriottica che nei primi mesi di guerra nasconde i problemi sotto il tappeto dell’entusiasmo;

2. La disillusione della guerra di trincea, che obbliga a una più paziente e per certi aspetti più subdola taratura degli strumenti comunicativi;

3. Il momento finale del conflitto, che a seconda dell’esito rinsalda le compagini nazionali in modo diverso, preludendo alla riconversione comunicativa del dopoguerra e instillando qualche dubbio nell’entusiasmo per la comunicazione propagandistica.

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Ai problemi posti dalla gestione delle fasi della guerra si aggiungono le dinamiche nuove poste dalle esigenze politiche di una società ormai di massa in un contesto così delicato, stante la disponibilità di una comunicazione strutturata di dimensioni notevoli, che, almeno nei contesti più avanzati, rivelano l’inadeguatezza della disciplina militaresca e inducono gli uffici di propaganda più accorti a impostare l’attività secondo un timbro «propositivo», che sollecita forme di organizzazione più adeguate, nuove ipotesi di sviluppo e la sperimentazione di tecniche inedite, alimentando un clima che avrà nel dopoguerra un’influenza profonda sul funzionamento della comunicazione di massa.

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Si verrà così a creare nel corso del conflitto una specie di

«tenaglia manipolatoria» volta a «imprigionare» la

comunicazione tra il freno della repressione e l’acceleratore

della persuasione. Da una parte agiscono il controllo delle

notizie (con un’interpretazione più elastica del concetto di

verità e un uso disinvolto degli «accenti»), dall’altro la

creazione di realtà «alternative» attraverso il modellamento di

un epos narrativo popolare che nei casi più eclatanti si giova

di una sinergia inaspettatamente scorrevole fra la stampa e gli

agenti della propaganda, che sortirà effetti quasi miracolosi,

soprattutto laddove la comunicazione è più sciolta e la

collaborazione più intensa.

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La questione deve essere trattata sul piano tattico, analizzando gli strumenti usati dai Governi per esercitare il controllo del sistema dei media e indirizzarne l’attività verso il sostegno agli obiettivi politico-militari e, di riflesso, la percezione del ruolo e delle responsabilità dei media di fronte allo svolgimento di un preciso compito di mediazione sociale.

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Ma anche sul piano strategico, ove vanno esaminate

le conseguenze sociali e i problemi morali che la

crescita di un’azione di propaganda strutturata e

moderna induce nella valutazione sociale e nelle

forme organizzative delle comunicazioni di massa.

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La verità

In guerra la prima vittima è la verità

Eschilo

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La verità

Il giornalista e saggista australiano Phillip Knightley ha affermato che durante la Prima guerra mondiale «furono deliberatamente dette più bugie che in qualunque altro periodo della storia e tutto l’apparato statale si mise all’opera per sopprimere la verità».

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La verità

«Le notizie veritiere e imparziali semplicemente scomparvero sui giornali americani a partire più o meno dalla metà di agosto del 1914».David Copeland (Elon University, North Carolina), The Media’s Role in Defining the Nation: The Active Voice, Peter Lang, 2012, p. 190.

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La verità

Mario Isnenghi ha affermato: «La ragion d’essere dei giornali in tempo di guerra non risulta preminentemente quella di fornire notizie, quanto piuttosto di velarle, negarle o fabbricarle ad arte. Preminente, in effetti, è vincere e dunque bisogna (…) non favorire inavvertitamente il nemico, (…) non avallare sentimenti ‟disfattistiˮ nel proprio campo».

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La verità

Il discorso vale per i giornali più prestigiosi, dove comunque è possibile cogliere una gamma di sfumature, ma «ancor più rozza e demagogica finisce per essere, fatalmente, la stampa popolare, che trivializza ulteriormente i luoghi comuni patriottici dei giornali destinati alle classi colte».

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Somiglianze

Il sostegno alla patria in pericolo si manifesta dappertutto secondo schemi piuttosto simili: la foga «interventista» e la sottovalutazione della guerra; la spiegazione univoca delle proprie ragioni e l’incitamento alla partecipazione attiva di tutto il Paese; l’appiattimento sul ruolo di «portavoce» del Governo; l’esaltazione delle rispettive imprese militari e la glorificazione della sagacia dei comandanti e del valore dei propri soldati, cui si accompagna, in modo complementare, la denigrazione del nemico.

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Verità nascoste

I giornalisti che scrivono della guerra, come i pochi

fotografi ammessi nelle zone operative, sono

ostacolati da numerose restrizioni e sottoposti agli

stessi obblighi dei militari: non possono dire dove

sono o fare riferimenti precisi a luoghi e unità di

combattimento, né menzionare qualcuno che non sia

il comandante in capo.

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Verità nascoste

Di conseguenza, ciò che si propone al pubblico non sono propriamente «informazioni», ma «storie» di eroismo e sacrificio, condite da vaghe promesse di vittoria. Si comunica cioè la necessità della lotta e la fiducia nel successo finale.

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Falsità

John Jewell (Scuola di

giornalismo, media e

Cultural Studies,

Università di Cardiff).

Di fatto, i cronisti svolgono un ruolo di propagandistico,

sfornando esempi di coraggio e abnegazione, invitando

al sacrificio e favorendo il reclutamento, proteggendo

l’alto comando dalle critiche e occultando gli aspetti più

spiacevoli del grande massacro. Tanto che alcuni

materiali appaiono oggi ripugnanti e grotteschi.

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Verità nascoste

L’inviato Herbert Russell scrive sul primo giorno della battaglia della Somme, il più disastroso: “Buon progresso in territorio nemico. Si dice che le truppe britanniche si siano battute valorosamente e abbiamo preso molti prigionieri. È stata una giornata positiva per Gran Bretagna e Francia”.

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Verità nascoste

Il tenente Ulrich Burke scrive nel 1916: «quando abbiamo letto i giornali, ci siamo infuriati… tu leggi sui giornali “Niente sul fronte occidentale”. Il fatto che hai avuto cinquanta uomini uccisi e altrettanti feriti non sembra meritare una menzione. Infastidiva tutti in modo terribile sentir dire “Solo piccole scaramucce sul fronte occidentale”».

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Verità nascoste

I tedeschi non sono da meno e raccontano così la battaglia delle Argonne (1918): “Ben presto mettemmo in campo mezzi superiori rispetto ai francesi e, poiché le nostre truppe non hanno rivali in perseveranza, tenacia e combattività, un forte senso di superiorità le animò durante lo scontro fra i boschi (…). Non potendo il nemico resistere agli attacchi, le truppe germaniche avanzavano lentamente ma inesorabilmente”.

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Verità nascoste

Ognuno dei contendenti cerca di valorizzare i successi e minimizzare le sconfitte, ma gli alleati riescono a condurre questa strategia con più equilibrio rispetto ai tedeschi, più bravi e pignoli nell’eliminare gli aspetti negativi. Ciò alimenta infatti un’illusione che, nel momento della sconfitta, farà pagare al Paese, colto alla sprovvista, un prezzo più alto, promuovendo la leggenda della «pugnalata alle spalle» inventata da un alto comando che non accetta il fallimento.

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Verità nascoste

Quando gli scontri sul fronte occidentale cominciano a

mietere centinaia di migliaia di vittime, si rafforza nei

governi la volontà di «tutelare» l’opinione pubblica

dall’orrore della tragedia, poiché la consapevolezza delle

sue proporzioni potrebbe renderla intollerabile.

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Verità nascoste

Charles Prestwich

Scott, storico direttore

e proprietario del

Manchester Guardian,

annotò il racconto

di David Lloyd

George su un incontro

col giornalista Philip

Gibbs, di ritorno dal

fronte occidentale:

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Verità nascoste

“Io ho ascoltato da lui ieri sera la più impressionante e commovente descrizione, fra tutte quelle che io abbia mai sentito, di ciò che la guerra significa veramente. Anche l’uditorio di politici e giornalisti incalliti era vivamente turbato. Se la gente davvero sapesse, la guerra finirebbe domani. Ma naturalmente essi non sanno e non possono sapere.

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Verità nascoste

I corrispondenti non scrivono la

verità e i censori non la farebbero

mai passare. Ciò che ci mandano

non è la guerra, ma soltanto

un’immagine graziosa della guerra

in cui tutti compiono atti di valore. È

una cosa orribile, oltre la

sopportazione umana, e sento di

non poter andare avanti con

quest’affare sanguinoso.Registrato il 28 December 1917 da Charles P. Scott, in

Philippe Knightley, The First Casualty. The War

Correspondent as Hero and Myth-Maker from the Crimea

to Kosovo, Baltimore et al. 2002 [1975], pp. 116s.

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Verità nascoste

Nonostante ogni tutela, alla fine i dispacci che parlano del glorioso progresso verso la vittoria non corrispondono più all’esperienza né di quelli al fronte né di quelli che stanno a casa. La gente comune capisce, per la prima volta forse, che i giornali non necessariamente gli dicono la verità. La credibilità del giornalismo di guerra esce ridimensionata dal suo cedimento alla tentazione propagandistica, determinando nelle opinioni pubbliche occidentali una perdita di fiducia nei confronti del sistema dell’informazione che richiederà anni per essere riguadagnata.