COMPETITIVITÀ DELL’IMPRESA E TUTELA DEI LAVORATORI...

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COMPETITIVITÀ DELL’IMPRESA E TUTELA DEI LAVORATORI: OBIETTIVI COMPATIBILI IN AGRICOLTURA? Atti del seminario svoltosi a Roma, l’8 maggio 2013 INEA 2014 a cura di Maria Carmela Macrì

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COMPETITIVITÀ DELL’IMPRESA E TUTELA DEI LAVORATORI: OBIETTIVI COMPATIBILI IN AGRICOLTURA?

Atti del seminario svoltosi a Roma, l’8 maggio 2013

collana SISTEMA DELLA CONOSCENZA. Quaderni

INEA 2014

L’area Sistema della conoscenza in agricoltura sviluppa e realizza attività di studio e sup-porto alle amministrazioni centrali e regionali su tre filoni principali: il sistema ricerca nelle sue componenti principali e in relazione ai livelli istituzionali che lo promuovono (europeo, nazionale, regionale); i servizi di sviluppo regionali con particolare riferimento agli interventi previsti dalle politiche europee; gli aspetti sociali e culturali dell’agricol-tura quali fattori per lo sviluppo di nuovi percorsi produttivi e di attività di servizio alla collettività.Le iniziative di ricerca e consulenza vengono realizzate secondo un approccio olistico e relazionale che prende in considerazione l’apporto di tutte le componenti classiche del sistema della conoscenza (ricerca, servizi di assistenza e consulenza, formazione, tessuto imprenditoriale e territoriale) e coniuga il tema dell’innovazione quale obiettivo trasversale da perseguire per il miglioramento del sistema agricolo e rurale.

ISBN 9788881454419VOLUME NON IN VENDITA

2014

a cura di Maria Carmela Macrì

COMPETITIVITÀ DELL’IMPRESA E TUTELA DEI LAVORATORI: OBIETTIVI

COMPATIBILI IN AGRICOLTURA?

Atti del seminario svoltosi a Roma, l’8 maggio 2013

a cura di Maria Carmela Macrì

INEA 2014

Atti del seminario di studi organizzato dall’INEA a Roma, l’8 maggio 2013Il seminario e gli atti sono stati realizzati nell’ambito del progetto “Promozione del-la cultura contadina” finanziato dal MiPAAF (Decreto n. 0029277 del 27/12/2010) la cui responsabilità è affidata a Francesca Giarè e Sabrina GiucaIl volume è stato curato da Maria Carmela MacrìSi ringrazia Lucia Tudini per le preziose osservazioni

Segreteria di redazione: Roberta CaprettiCoordinamento editoriale: Benedetto VenutoImpaginazione grafica: Ufficio grafico INEA (Barone, Cesarini, Lapiana, Mannozzi).

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INDICE

Introduzione 5

Maria Carmela Macri

Capitolo 1

Capitale umano e sviluppo dei territori rurali: il caso della Sardegna 11

Roberto Furesi e Fabio A. Madau

1.1 Introduzione 11

1.2 Divari di sviluppo tra aree rurali e urbane 14

1.3 Classificazione delle aree rurali in Sardegna 16

1.4 Il modello di analisi 18

1.5 Risultati e discussione 21

1.6 Misure per il potenziamento del capitale umano 25

1.7 Conclusioni 29

Riferimenti bibliografici 30

Capitolo 2

Investimento in capitale umano e competitività dell’impresa agricola. Dalla teoria all’indagine empirica 35

Pietro Pulina

2.1 Introduzione 35

2.2 Capitale umano e impresa agricola familiare 36

2.2.1 Capitale umano e conoscenza 36

2.2.2 Capitale umano e agricoltura 38

2.2.3 Capitale umano e famiglia agricola 39

2.3 Una mappatura dei modelli di gestione delle imprese familiari italiane 41

2.4 L’indagine sul campo 44

2.4.1 La rilevazione diretta 44

2.4.2 Il focus group 49

2.5 Conclusioni 50

Riferimenti bibliografici

Capitolo 3

Sicurezza e flessibilità del lavoro: l’ambivalenza del welfare agricolo 56

Giuseppina Carrà, Gabriella Vindigni

3.1 Introduzione 55

3.2 Il modello europeo di flexicurity 56

3.3 Le forme di flessibilità in agricoltura 61

3.4 Gli ammortizzatori sociali 67

3.5 Politiche attive e ruolo della bilateralità in agricoltura 72

3.6 Considerazioni conclusive 75

Riferimenti bibliografici 77

Capitolo 4

Politiche di emersione ed inclusione sociale: le attività ed i progetti

del Mipaaf 83

Giuseppe Sallemi

4.1 Introduzione 83

4.2 S.O.F.I.I.A e altri progetti finanziati con i fondi per l’integrazione 87

4.3 Possibili (e auspicabili) sviluppi 90

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INTRODUZIONE

Maria Carmela Macri1

Lo sviluppo aziendale e la crescita economica sono processi all’interno dei quali la risorsa umana ha un ruolo fondamentale. Occorre dunque riflettere sulla relazione tra il lavoro e i fattori di contesto e personali che ne stimolano la sua qualificazione e la competitività delle aziende e del settore. Nelle economie avan-zate questo vale anche, e forse a maggior ragione, per il settore primario cui si chiede di garantire una serie di beni pubblici difficilmente contabilizzabili tramite gli indicatori economici convenzionali (protezione dell’ambiente e del territorio, tutela dell’identità e del patrimonio culturale) mentre crescono le pressioni sul lato dei costi e della competizione internazionale.

Per questo motivo, nel maggio 2013 l’INEA, nell’ambito del progetto “Pro-mozione della cultura contadina”, ha realizzato un seminario sul tema Compe-titività dell’impresa e tutela dei lavoratori: obiettivi compatibili in agricoltura? al quale hanno partecipato esperti e operatori del settore. Il seminario aveva l’obiet-tivo di riproporre la centralità del lavoro come fattore produttivo di tipo “cogniti-vo” che implica, anche quando è manuale, l’impiego di conoscenze acquisite più che di energia fisica (Rullani, 2008)2. Il perseguimento di un’elevata qualità delle produzioni e dei processi produttivi, la gestione di relazioni aziendali più comples-se, infatti, richiedono competenze professionali e imprenditoriali più sofisticate di quanto avveniva in passato. Di contro l’incentivo all’investimento in capitale umano in termini di remunerazione attesa nonché, più in generale, di condizioni di lavoro offerte dal settore (di cui la discontinuità è un elemento cruciale), può essere in-sufficiente. In particolare nelle aree meno dinamiche gli individui e le loro famiglie – che ancora costituiscono la spina dorsale dell’agricoltura italiana – preferiscono investire in formazione con la prospettiva di occupazione in altri settori o, addirit-tura, in altri territori. In questi casi l’offerta pubblica di formazione rischia di rima-nere un intervento sterile se non accompagnata da misure finalizzate a migliorare le opportunità del contesto. L’agricoltura italiana non è uniforme sia per ragioni

1 Ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA)

2 Enzo Rullani, L’economia della conoscenza nel capitalismo delle reti, in Sinergie n.76, 2008

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pedo-climatiche che ne condizionano le vocazioni colturali, sia per le diverse ca-ratteristiche aziendali, sia perché l’ambito in cui si inserisce – le infrastrutture disponibili, il clima di fiducia – non è neutrale per la riuscita e la produttività del settore. Pertanto ci sono comparti altamente redditizi e territori dove il primario si integra con la fase della trasformazione, andando a sostenere la rappresentazione dell’italianità che permea l’immaginario internazionale e aree dove l’agricoltura evoca il degrado ambientale, lo sfruttamento delle risorse umane e naturali e l’ar-retratezza culturale e tecnologica. Gli indicatori sviluppati difficilmente riescono a rappresentare questa eterogeneità ma, per quanto impreciso, un indicatore cer-tamente rilevante delle condizioni del mercato del lavoro è l’incidenza del lavoro non regolare. Secondo i dati di contabilità nazionale dell’Istat, nel 2012 il tasso di irregolarità per gli occupati in agricoltura era pari al 36%, mentre nella media dell’economia era il 10%. La stima in relazione alle unità di lavoro, seppur più contenuta, è tuttavia pesante: pari rispettivamente al 24,3% e al 12,1%. Questa grandezza riflette una gamma ampia di fenomeni che vanno da rapporti di lavoro totalmente non dichiarati a quelli formalmente regolari, dove però le ore dichia-rate non coincidono – in più o in meno – con le effettive, per ragioni di evasione contributiva e previdenziale o per permettere ai lavoratori (spesso familiari) di ac-cedere a benefici assistenziali. Ci sono poi le situazioni di estremo disagio che cozzano inesorabilmente con la collocazione dell’agricoltura italiana nell’empireo dei migliori produttori agroalimentari al mondo, al punto di suscitare numerosi tentativi di imitazione, nonché un vasto mercato della contraffazione. Eventi come i disordini scoppiati a più riprese a Rosarno hanno messo in luce situazioni di de-grado tanto inaccettabili da apparire inverosimili, ma confermate dalle inchieste e dagli arresti per il reato di “sfruttamento e riduzione in schiavitù” che seguirono. Si tratta di casi estremi, ma emblematici di una contraddizione tra un sistema produttivo moderno inserito in un contesto economico avanzato e l’inadeguatezza delle condizioni che offre.

In ogni caso la diffusione del lavoro non regolare segnala la mancanza di certezza e quindi la fragilità del lavoratore in quanto per definizione sogget-to debole della contrattazione. Sorprende dunque che l’irregolarità possa essere tollerata, percepita come inevitabile, addirittura giustificata con il costo ritenuto insopportabile per un settore schiacciato dalla concorrenza internazionale da un lato e da crescenti prezzi dei mezzi tecnici dall’altro. L’impossibilità di riconoscere le dovute tutele, prima tra tutte un’adeguata remunerazione, viene fatta discen-dere dalla scarsa capacità reddituale dell’impresa come se questa fosse un dato definito esclusivamente in via esogena e il lavoro, soprattutto se poco qualificato,

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l’unico fattore su cui scaricare le pressioni di una concorrenza internazionale spie-tata. Per recuperare competitività si continua a chiedere al lavoro una capacità di adattamento e di adeguamento che prescinde dalle problematiche sociali che questo determina. Si tratta di una strategia controproducente perché non crea le condizioni per uno sviluppo duraturo anzi spiazza le imprese che invece investono nella qualificazione e riorganizzazione delle risorse, nella valorizzazione delle pro-duzioni, nello sviluppo di nuovi prodotti e mercati. Inoltre, le condizioni lavorative offerte dal settore lo rendono poco appetibile, scoraggiando la partecipazione delle professionalità migliori e ostacolando la dotazione appropriata di capitale umano. Si rischia dunque di creare un circolo vizioso che fa avvitare il settore intorno a un’economia di basso profilo che non può perseguire gli obiettivi di qualità, sicu-rezza, identità culturale, tutela ambientale che costituiscono l’essenza distintiva dell’agricoltura comunitaria.

Il seminario, di cui sono qui raccolti i contributi, è stato un’occasione di con-fronto e di riflessione su ciò che condiziona l’accumulazione di capitale umano e le interazioni con il contesto economico e lo sviluppo rurale. Allo stesso tempo va considerata la necessità di modificare il paradigma normativo che vede la tutela dell’occupazione come obiettivo prioritario, a vantaggio di modelli che salvaguar-dino la capacità del tessuto economico di creare domanda e offerta di lavoro in quantità e qualità appropriate tenendo in considerazione le esigenze di flessibilità delle imprese moderne.

Tra i cambiamenti intervenuti nell’agricoltura che meritano particolare con-siderazione c’è la presenza degli stranieri che, a dispetto della loro importanza, spesso sono costretti al margine del sistema mortificando le loro potenzialità pro-fessionali e la loro imprenditorialità; per questi, sebbene in modo ancora insuffi-ciente, si comincia a immaginare, finalmente, strumenti specifici.

Le relazioni sono presentate nell’ordine degli interventi al seminario. I primi due capitoli mostrano i risultati di un’analisi quantitativa relativa alla Sardegna che presenta la specificità di un territorio scarsamente popolato, con pochi poli urbani, dove risultano particolarmente accentuate le carenze tipiche delle aree rurali in termini di dotazione di infrastrutture, divario di reddito e di stock di ca-pitale umano e sociale che si esprime anche nella minore attenzione alla qualità dell’ambiente e alla salute dei cittadini.

In definitiva si appalesa l’esistenza di un circolo vizioso che rende difficile un’uscita spontanea dallo stato di arretratezza. In questi contesti è urgente un intervento finalizzato al potenziamento del capitale umano e sociale che agisca sia sul lato della domanda che dell’offerta. Infatti non sembra sufficiente accre-

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scere in quantità e qualità l’offerta di formazione scolastica e universitaria poiché, in mancanza di un contesto che presenti prospettive positive di collocazione, si rischia di alimentare il flusso di emigrazione intellettuale verso aree più promet-tenti del Paese o verso l’estero. Pertanto una politica efficace di potenziamento del capitale umano deve essere inserita in una strategia finalizzata a creare condizioni generali favorevoli e un clima di fiducia.

Il secondo capitolo affronta le tematiche dell’investimento in formazione come strategia della famiglia agricola. La dimensione familiare della struttura aziendale condiziona le scelte imprenditoriali sotto diversi aspetti già a partire dall’obiettivo canonico della massimizzazione del profitto che viene mitigato da altre esigenze come quelle organizzative, di stabilità finanziaria e tutela patrimo-niale. Allo stesso modo le caratteristiche specifiche delle risorse disponibili pos-sono modificare positivamente i rapporti di convenienza: la presenza di relazioni fiduciarie tende ad abbattere i costi di transazione e la natura mutualistica con-sente l’opportunità di ricorrere maggiormente a fonti di finanziamento interne al nucleo. La mescolanza di motivazioni e ambizioni dei componenti familiari con gli interessi aziendali è evidente e si riflette sulle scelte imprenditoriali in particola-re su quelle di lungo periodo che incidono sui percorsi di sviluppo della famiglia stessa. L’analisi empirica realizzata attraverso un’indagine campionaria condotta all’interno del distretto di Arborea ha messo in evidenza come non sempre gli in-teressi dell’azienda coincidano con quelli dei componenti della famiglia, cosicché l’investimento in formazione può non essere finalizzato allo sviluppo dell’azienda, ma mira alla collocazione in altri ambiti settoriali se non anche territoriali.

Il mercato del lavoro agricolo è caratterizzato da un’elevata esigenza di fles-sibilità connessa alle caratteristiche specifiche del settore, alcune insopprimibili, come la stagionalità, altre di tipo strutturale come la polverizzazione aziendale che determina la necessità da parte degli addetti di adottare strategie di pluriattività per ottenere une reddito sufficiente. In questo settore dunque servono strumenti di regolazione specifici che vengono letti nel terzo capitolo all’interno del modello della “flexicurity” che vorrebbe bilanciare le esigenze aziendali con le garanzie di tutela sociale. Il modello è finalizzato a conservare non l’occupazione in sé ma la “occupabilità” degli individui e si fonda su tre pilastri: basso livello di tutela della stabilità del rapporto di lavoro per lasciare massima libertà alle aziende in materia di assunzione e licenziamento; indennità di disoccupazione; assistenza al lavora-tore per il reimpiego. Il modello funziona se applicato nella sua integrità, altrimen-ti rischia di mettere il lavoratore in una grave condizione di fragilità che non giova nemmeno alla competitività del settore, soprattutto in un contesto, come quello

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italiano, dove l’inserimento degli immigrati ha consentito un ribasso delle condi-zioni economiche e delle tutele. A questo proposito, nell’ultimo intervento sono esposte alcune iniziative del Ministero delle politiche agricole finalizzate all’emer-sione del lavoro nero e all’inclusione sociale rivolte specificamente ai lavoratori stranieri. Gli stranieri sono infatti una risorsa importante per l’agricoltura italiana, sia come lavoratori dipendenti sia come imprenditori. Per i primi sono state messe in campo azioni di informazione circa i diritti dei lavoratori ma anche di formazio-ne precedente alla partenza per qualificare il lavoratore ancorché per un’attività stagionale. Inoltre sono stati avviati progetti di sostegno alla creazione di impresa per stimolare l’imprenditorialità in agricoltura degli stranieri a vantaggio degli in-dividui e del rinnovamento del settore.

L’intervento pubblico qualificato, nella forma della regolazione e del soste-gno laddove risponda a un interesse collettivo (European Commission, 2013)3, è certamente importante, ma se si vuole rimanere competitivi in un mondo dove i bisogni da soddisfare sono sempre più di tipo immateriale, è necessario che il set-tore in prima persona investa in dotazioni strutturali e organizzative, in formazione e qualificazione e, soprattutto, garantisca alle risorse umane il giusto riconosci-mento e l’adeguata valorizzazione.

3 European Commission, The Common Agricultural Policy after 2013. Your ideas matter, disponibile sul sito della Commissione http://ec.europa.eu/agriculture/cap-post-2013/debate/report/summa-ry-report_en.pdf

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Capitolo 1

CAPITALE UMANO E SVILUPPO DEI TERRITORI RURALI: IL CASO DELLA SARDEGNA

di Roberto Furesi e Fabio A. Madau 4

1.1 Introduzione

Le zone rurali sono oggetto da tempo di cospicui interventi finanziari pro-mossi dall’Unione Europea (UE) al fine di sostenerne lo sviluppo e ridurne il divario che le separa dal resto del territorio comunitario. In merito è sufficiente ricordare che soltanto nel corrente periodo di programmazione (2007-2013) le politiche di sviluppo rurale sono state finanziate per una cifra che supera i 96 miliardi di Euro (Commissione Europea, 2013).

Nonostante il continuo impegno dell’UE, l’obiettivo di colmare il divario che separa sul piano economico le zone rurali da quelle urbane rimane a tutt’oggi lar-gamente irrealizzato. Basti in proposito ricordare che lo scarto in termini di reddito pro-capite risulta, sulla base dei dati forniti dall’OECD (2013) per il 2009, di quasi 10 mila dollari a favore della popolazione che vive nei territori urbani (Fig. 1.1). Tale disparità riflette il ritardo nella crescita economica nel quale ancora versano i territori rurali europei, anche se tali aree non sono affatto omogenee per velocità di crescita e tipologie di sviluppo (Veneri e Ruiz, 2013). Non vi è dubbio che tra i fattori che più influiscono nella crescita e nel tipo di sviluppo economico vi sia la prossimità delle aree rurali con quelle urbane e metropolitane, in virtù della possibilità che le prime possano beneficiare della maggiore capacità delle aree

4 Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio (DipNeT) Università degli Studi di Sassari. Il presente lavoro rappresenta una sintesi del contributo, curato dagli stessi autori, dal titolo: Duali-smo rurale-urbano e ruolo del capitale umano in Sardegna, inserito come capitolo nel volume: Idda L. e Pulina P. (a cura di), Impresa agricola, capitale umano e mercato del lavoro, Milano, Franco Angeli, 2011.

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urbane nell’attrarre capitali e persone (Brezzi et al., 2011). Riguardo a quest ulti-mo aspetto, si fa presente che la popolazione nei territori rurali è cresciuta negli ultimi anni ad un tasso inferiore rispetto a quello riscontrato dalla popolazione nelle aree urbane (OECD, 2013). Da tempo, oramai, si è fatta pressante l’esigenza di attenuare questo disequilibrio e favorire processi di sviluppo in grado di colma-re il gap economico, sociale e infrastrutturale tra aree a diversa intensità demo-grafica, abitativa e produttiva, pur nella consapevolezza che tale processo debba avvenire entro i binari della salvaguardia e della valorizzazione delle peculiarità tipiche del mondo rurale e delle singole comunità locali (Falck, 1996). Presupposto essenziale affinché si possano promuovere adeguate misure di politica economica e innescare efficaci processi di sviluppo rurale è la conoscenza delle determinanti che stanno alla base delle disparità di crescita tra aree urbane e rurali. Plurimi e variegati per tipologia sono i fattori ai quali la letteratura economica ascrive un ruolo cruciale nel condizionare la crescita economica o, più in generale, lo sviluppo di un territorio e tra questi una posizione di preminenza è senz’altro riconosciuta al capitale umano (Ecosoc, 2001).

Figura 1.1 - Reddito pro-capite per tipologia territoriale – UE-27 (US $ a prezzi costanti al 2005)

Fonte: ns. elaborazioni di dati OECD (2013)

20.000

22.500

25.000

27.500

30.000

32.500

35.000

37.500

2000 2001 2005 2006 2009

Aree urbane Aree intermedie Aree rurali

2002 2003 2004 2007 2008

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Secondo i più, l’accumulazione di conoscenze – non solo attraverso la di-mensione più peculiare del capitale umano che è l’educazione formale – è un fat-tore esplicativo della produttività del lavoro e, nel contempo, produce numerose esternalità positive (Schultz, 1963; Becker, 1964; Lucas, 1988).

Riguardo il primo aspetto e con una prospettiva di osservazione limitata alle dinamiche intra e inter-imprenditoriali, la presenza di lavoratori più formati professionalmente e di imprenditori più preparati sotto il profilo tecnico ed or-ganizzativo consente di ovviare con più facilità al limite fisiologico dei rendimenti decrescenti derivanti dall’accumulazione del capitale fisico. Inoltre – a parità di al-tre condizioni – maggiori competenze si riflettono in salari più remunerativi e più ampie capacità creative e di accesso alla tecnologia e all’innovazione. Per quanto attiene invece al secondo aspetto, al crescere del livello del capitale umano au-mentano le possibilità di trasferire conoscenze nella popolazione che gravita nel territorio di riferimento e di creare un ambiente dinamico, virtuoso e favorevole all’accumulazione delle conoscenze.

Ne consegue che il capitale umano funge, nelle imprese, da leva per au-mentare la produttività e instaurare rendimenti crescenti e, nella società, da sti-molo per uno sviluppo economico e sociale duraturo nel tempo.

Sulla scorta di queste considerazioni, la presente nota si pone l’obiettivo di individuare le principali cause alla base delle differenze nello sviluppo economico tra aree rurali e urbane in Sardegna e il ruolo giocato dal capitale umano nel con-dizionare i processi di crescita nelle due aree.

L’interesse verso la Sardegna si spiega con il fatto che questa regione non fa eccezione dal contesto generale, ma allo stesso tempo presenta peculiarità assai spiccate – prime tra tutte la presenza di pochissimi poli urbani e un territorio in larga parte scarsamente popolato – che hanno contribuito nel corso del tempo a che le emergenze nelle aree rurali siano più acuite rispetto a quanto mediamente si rinviene nelle altre realtà europee. Tra queste, la scarsa dotazione infrastrut-turale delle aree interne e, a causa della poca diffusione di poli urbani, la scarsa capacità delle aree rurali di beneficiare degli effetti economici e demografici deri-vanti dallo sviluppo cittadino. Sul piano demografico, per esempio, basti pensare che in soli quarant’anni, dal 1961 al 2001, la percentuale di residenti nei comuni con oltre 10 mila abitanti – non tutti ovviamente assimilabili a vere e proprie aree urbane, ma invero poco numerosi nell’isola – è aumentata da poco più del 38% ad oltre il 52% (ISTAT, 1966; ISTAT, 2006).

Sotto il profilo economico e sociale, i dati più preoccupanti concernono il reddito pro-capite, che seppur sia piuttosto basso nel suo complesso, mostra un

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differenziale, in media, di quasi 4mila euro tra aree urbane e rurali (MEF, 2013) e la presenza di un divario piuttosto marcato in termini di stock di capitale umano, in quanto gli abitanti dei comuni rurali si caratterizzano per un livello medio di istruzione più basso rispetto a coloro che risiedono nei comuni urbani (Istat, 2013).

Pertanto, lo studio costituisce un tentativo di approfondire la natura e l’enti-tà della relazione tra capitale umano – considerato con esclusivo riferimento alla componente educativo-formativa – e sviluppo economico – misurato attraverso un unico indicatore, vale a dire il reddito pro-capite, distintamente nei comuni urbani ed in quelli rurali. A tal fine, si è scelto di impiegare un modello econometrico interpretativo riconducibile alla proposta metodologica di Mincer (1974) e assai utilizzato in letteratura. I risultati consentono di esprimere una valutazione riguar-do al ruolo detenuto dal capitale umano nello spiegare le differenze di sviluppo economico tra le due tipologie territoriali in Sardegna e la sua importanza rispetto ad altri fattori ritenuti esplicativi della crescita reddituale.

1.2 Divari di sviluppo tra aree rurali e urbane

Come accade in tutte le aree interessate da un avanzato grado di sviluppo, anche in Sardegna i territori rurali si sono storicamente rivelati meno pronti e ca-paci di quelli urbani nel cogliere le opportunità di progresso economico. I fattori che possono spiegare questa diversa sensibilità sono molteplici. Ad esempio, non sono ininfluenti le minori dotazioni infrastrutturali di cui sono normalmente prov-viste le campagne rispetto alle zone urbanizzate e, dunque, i mancati benefici di cui le infrastrutture sono portatrici, sia in termini strettamente economici (aumen-to della produttività dei fattori, accesso alle nuove tecnologie ecc.) che con riguar-do al miglioramento delle condizioni sociali della collettività (Ahmed e Donovan, 1992). Rilevanti sono alche le differenze che sussistono tra aree rurali e urbane in ordine alla propensione all’imprenditorialità dei loro residenti, che si mostra soli-tamente più accentuata nelle città (Kulawczuk, 1988). Di grande peso è poi il ruolo del capitale sociale, anche se, da questo punto di vista, può accadere che le aree urbane si rivelino meno attrezzate delle campagne (Debertin, 1996).

Uno dei fattori che più di altri recita un ruolo determinante nel favorire lo sviluppo economico è poi rappresentato dal capitale umano (Lucas, 1993) e, in par-ticolare, dalla componente di questo costituita dall’istruzione scolastica. Ad essa infatti si devono gran parte delle conoscenze, competenze e metodologie cui le persone ricorrono per la risoluzione dei problemi (Becker, 1964; Shultz, 1963; Bi-

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shop, 1989) e per migliorare la loro posizione economica, tanto da potersi affer-mare l’esistenza una relazione strettissima tra livello di formazione scolastica e reddito dei cittadini (Sianesi e Van Reenen, 2002).

Gli effetti positivi prodotti dall’istruzione riguardano tanto i singoli indivi-dui che il complesso della società. Una maggiore istruzione consente un migliore apprendimento dei processi produttivi, una maggiore predisposizione alla risolu-zione dei problemi e un più facile accesso alle nuove tecnologie, tutti aspetti, que-sti, che accrescono la produttività e la remunerazione del lavoro. Una più elevata istruzione genera altresì numerose e significative esternalità positive. I lavoratori più istruiti possono, ad esempio, stimolare i colleghi meno dotati a raggiungere gradi superiori di efficienza, così come concorrono ad innalzare il livello tecno-logico della loro impresa attraverso una più intensa propensione al confronto di idee e l’apertura verso nuove tecnologie; né va trascurata la maggiore attitudine degli imprenditori ad innovare qualora dispongano di dipendenti adeguatamente preparati a valorizzare le nuove tecniche. Sul piano sociale, invece, un’istruzione superiore aumenta l’attenzione alla qualità dell’ambiente e della salute, rende la società più sicura, rafforza il senso di partecipazione degli individui alla vita comu-ne e consolida il grado di coesione.

La possibilità di conseguire questi vantaggi è alla base della scelta indivi-duale di accrescere il proprio livello di istruzione sopportando i sacrifici che ciò comporta in termini di mancati redditi e benefici immediati. La prospettiva di go-dere delle esternalità collegate all’istruzione spiega altresì il supporto con cui i governi finanziano la creazione e il funzionamento delle istituzioni scolastiche ed universitarie.

Nel caso specifico degli investimenti in istruzione nelle aree rurali occorre tuttavia non sottacere alcuni aspetti contraddittori. I singoli cittadini, infatti, sono dissuasi dall’investire in istruzione perché nelle zone rurali i relativi rendimenti (redditi futuri) sono relativamente bassi; d’altra parte, i rendimenti sono bassi per-ché le carenze formative della popolazione deprimono l’insediamento di attività più remunerative (Goetz e Rupasingha, 2004). Le autorità pubbliche, a loro volta, non potenziano, come dovrebbero, l’impegno per accrescere il livello di istruzione nelle aree rurali perché scoraggiate dal fatto che, molto probabilmente, le persone ivi formatesi abbandoneranno successivamente il territorio di origine per lavorare o completare gli studi altrove. Il pericolo che si abbia un elevato “brain drain” e che perciò la collettività possa subire il duplice danno dovuto alla sottrazione di capi-tale umano e alla perdita delle risorse impiegate nella sua accumulazione – dei cui benefici si avvantaggeranno le aree di immigrazione – può dunque indurre ad

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un minore impegno pubblico in tema di potenziamento dell’istruzione nelle zone rurali. D’altra parte, il rischio che su questo fronte si inneschi un pericoloso di-simpegno è accentuato dal fatto che i decisori politici non sempre dispongono di ampi e corretti riscontri oggettivi riguardo al ruolo che il capitale umano può reci-tare nella crescita economica di un territorio. Ciò vale in modo particolare per la Sardegna, dove queste tematiche non risulta siano state, fino a questo momento, specificamente approfondite.

1.3 Classificazione delle aree rurali in Sardegna

L’individuazione e la classificazione delle aree secondo la direttrice urbano-rurale è per sua natura operazione complessa, dal momento che manca una defi-nizione univoca di spazio urbano e spazio rurale e che il carattere rurale o urbano di un territorio difficilmente può prescindere dalle specificità stesse del contesto di riferimento e dalla scala territoriale adottata. A tal riguardo, diverse ed etero-genee sono le metodologie di classificazione proposte, a loro volta ancorate a ben specifici paradigmi concettuali. Per un approfondimento sulle questioni di ordine definitorio, concettuale e metodologico circa l’individuazione delle aree rurali in Italia si rimanda, per ragioni di spazio, alla vasta e articolata letteratura specia-lizzata (Somogyi, 1959; Merlo e Zuccherini, 1992; Brunori, 1994; Saraceno, 1994; Franceschetti, 1995; Blanc, 1997; Storti, 2000; Basile e Cecchi, 2001; Esposti e Sotte, 2002; Angeli et al., 2002; Franco et al., 2004, Anania e Tenuta, 2008).

Tra le classificazioni ad ampia scala territoriale e diffusa applicazione è bene però ricordare quelle proposte dall’OECD (2006) e dal Mipaf (2007), quest’ultima all’interno del Piano Strategico Nazionale (PSN) per l’attuale corso di programma-zione (2007-2013). Entrambe hanno individuato le aree rurali in Sardegna, pur con criteri e parametri di classificazione tra loro differenti. Ambedue, comunque, addi-vengono all’individuazione di un territorio interamente o quasi interamente rurale nella regione oggetto d’indagine. Nella fattispecie, l’OECD (2006), – sulla base dei due parametri di classificazione adottati, vale a dire la densità demografica e pre-senza di insediamenti urbani, – classifica l’intero territorio sardo come “prevalen-temente rurale”, mentre il Mipaaf (2007) – il quale introduce tra i parametri anche l’altimetria e l’incidenza della superficie agricola su quella complessiva – individua solo il 2% della superficie regionale come “urbana”, mentre il resto è da conside-rarsi rurale, pur a diverso grado di intensità.

In realtà, è vero che un’analisi macroscopica non può che suffragare l’idea

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che la Sardegna sia da considerare territorio rurale pressoché per la sua interez-za. La regione Sardegna si estende su una superficie superiore ai 25mila Km2 e conta una popolazione di un milione e 675 mila abitanti (ISTAT, 2011). La densità abitativa è pertanto pari a circa 70 ab/Km2, dato che colloca l’isola al terz’ultimo posto in Italia dopo la Val d’Aosta (39 ab/Km2) e la Basilicata (59 ab/Km2). Viep-più, se si guarda alla distribuzione della popolazione sul territorio, si constata che circa il 22% dei residenti (circa 400mila abitanti) si concentra nell’area metropoli-tana che gravita su Cagliari; area che nel suo insieme assomma solamente il 2% dell’intera superficie regionale (è la medesima area classificata come “polo urba-no” dal Mipaaf, 2007). Ne consegue che, al netto di questa porzione di territorio, la densità abitativa si riduce a soli 55 ab/Km2, il ché è già di per sé indicativo di una diffusa ruralità, così come lo è il fatto che l’agricoltura occupa una vasta superficie nell’isola.

Tuttavia, si è dell’opinione che la realtà sia più complessa di quanto appaia sul piano macroscopico e che ambedue le classificazioni illustrate non colgano appieno l’eterogeneità del territorio sardo. Gli indicatori proposti non spiegano, infatti, in misura adeguata le differenze significative che si riscontrano nel ter-ritorio isolano sul piano economico, produttivo e sociale. La soglia relativa alla densità abitativa (150 ab/Km2) pare indicata per un utilizzo su vasta scala territo-riale e poco pertinente a classificare territori quale quello sardo caratterizzati da scarsa densità, ma nei quali si rilevano disparità profonde tra aree sotto il profilo economico, abitativo e sociale e dello stock di capitale umano. Relativamente al parametro costituito dalla superficie agricola e considerato il carattere prevalen-temente estensivo dell’agricoltura sarda, inoltre, l’impiego a fini classificatori apre al rischio di sopravalutare la reale importanza economica e sociale del settore nel territorio.

Tenuto conto di questi limiti e dell’obiettivo del lavoro, si è scelto di classifi-care il territorio regionale secondo i parametri della densità demografica e dell’in-cidenza degli occupati agricoli sugli occupati totali (parametro che in Sardegna esprime meglio il senso della “rilevanza agricola” rispetto al dato della superficie). L’unità di indagine adottata è il comune, opzione peraltro assai diffusa sia nella letteratura nazionale che in quella internazionale. Si è consapevoli che i due pa-rametri selezionati non riassumono la complessità intrinseca alla definizione di ruralità. Pur tuttavia, essi riprendono i principali criteri seguiti sul tema (densità demografica e peso dell’agricoltura).

Al fine di evidenziare l’eterogeneità su scala regionale e di poter disporre di una raffigurazione del territorio sufficientemente articolata (quattro categorie)

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e con una base di Comuni rurali e non rurali ben rappresentata, per ambedue i parametri si è scelta una soglia discriminatoria pari al valore mediano. Si tratta, pertanto, di una classificazione che non si basa su parametri e valori “assoluti”, bensì su criteri di riferimento “relativi” che sono costruiti a partire dalle caratteri-stiche specifiche della Sardegna e tengono conto esclusivamente delle differenze intra-regionali.

La Tabella 1.1 riporta i valori soglia dei due parametri, le quattro categorie di classificazione individuate e il numero di Comuni classificati per ogni categoria (su un totale di 377 Comuni in cui è suddivisa amministrativamente la Sardegna).

Tab. 1.1 - Distribuzione dei Comuni della Sardegna per grado di ruralità.

Categoria n. %

Comuni urbani 136 36,1

Comuni profondamente rurali 134 35,5

Comuni rurali (alto livello di occupazione agricola) 55 14,6

Comuni rurali (bassa densità demografica) 52 13,8

TOTALE 377 100,0

Fonte: ns. elaborazioni

L’incidenza dei Comuni “urbani” e di quelli “profondamente rurali” è pres-soché la medesima (circa il 36%), mentre la restante quota è distribuita in maniera quasi omogenea tra i Comuni nei quali una sola delle dimensioni è da ritenersi “rurale”, vale a dire la densità abitativa (14% circa) o il peso degli occupati agricoli sugli occupati totali (14,6%). Riguardo a queste due ultime categorie, si tratta di Comuni che possiamo considerare “rurali intermedi”. Pertanto, i Comuni “rurali” nel loro insieme ammontano a circa il 64% dell’intera costellazione di Comuni del-la Sardegna (241 comuni rurali e 136 urbani).

1.4 Il modello di analisi

Gli effetti del capitale umano sullo sviluppo dei territori regionali sono sta-ti valutati inquadrandoli nel contesto teorico proposto da Mincer (1974), il quale prevede che la funzione di guadagno degli individui sia collegata al loro grado di istruzione, sia nella sua espressione formale rappresentata dallo stock di cono-scenze costituito lungo un determinato percorso scolastico (education), sia nella

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sua componente informale rappresentata dall’insieme di saperi, competenze e abilità correlati all’esperienza lavorativa (experience).

La funzione di guadagno è costruita regredendo, a livello di comune, il red-dito pro-capite del 2008 rispetto ad un set di variabili includente indicatori relativi sia al capitale umano che ad altri aspetti di tipo demografico, economico e sociale. Le variabili indipendenti sono riferite ad epoche antecedenti a quella del reddito pro-capite onde evitare fenomeni di endogeneità statistica dei regressori e riflet-tere al meglio l’idea che il processo di accumulazione di conoscenze produca, al pari di qualunque altro investimento, i propri rendimenti (incrementi di reddito) in modo non immediato ma procrastinato nel tempo.

La forma funzionale del modello è la seguente:

1.4 Il modello di analisi

Gli effetti del capitale umano sullo sviluppo dei territori regionali sono stati valutati

inquadrandoli nel contesto teorico proposto da Mincer (1974), il quale prevede che la funzione di

guadagno degli individui sia collegata al loro grado di istruzione, sia nella sua espressione formale

rappresentata dallo stock di conoscenze costituito lungo un determinato percorso scolastico

(education), sia nella sua componente informale rappresentata dall’insieme di saperi, competenze e

abilità correlati all’esperienza lavorativa (experience).

La funzione di guadagno è costruita regredendo, a livello di comune, il reddito pro-capite del

2008 rispetto ad un set di variabili includente indicatori relativi sia al capitale umano che ad altri

aspetti di tipo demografico, economico e sociale. Le variabili indipendenti sono riferite ad epoche

antecedenti a quella del reddito pro-capite onde evitare fenomeni di endogeneità statistica dei

regressori e riflettere al meglio l'idea che il processo di accumulazione di conoscenze produca, al

pari di qualunque altro investimento, i propri rendimenti (incrementi di reddito) in modo non

immediato ma procrastinato nel tempo.

La forma funzionale del modello è la seguente:

i = 1, 2….N

dove Yi rappresenta la variabile dipendente per l’i-esima osservazione (comune), xi rappresenta il

vettore (1 per K) delle variabili indipendenti, ß è il vettore (1 per K) dei parametri associati a

ciascuna variabile indipendente ed ei costituisce il termine di errore della funzione.

In tabella 1.2 sono riportate le variabili impiegate nel modello e alcune statistiche descrittive

suddivise per le due popolazioni di Comuni a cui esso è stato applicato.

La variabile dipendente (Yi) è rappresentata dal “reddito medio pro-capite” comunale relativo

all'anno 2008. Il reddito è quello che scaturisce dalle dichiarazioni effettuate ai fini

dell’applicazione dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (Irpef) ed è tratto dal sito Comuni-

italiani.it (2011) che elabora tale dato sulla base di valori forniti dal Ministero dell’Economia e delle

Finanze.

dove Yi rappresenta la variabile dipendente per l’i-esima osservazione (co-mune), Xi rappresenta il vettore (1 per K) delle variabili indipendenti, ß è il vettore (1 per K) dei parametri associati a ciascuna variabile indipendente ed ei costituisce il termine di errore della funzione.

In tabella 1.2 sono riportate le variabili impiegate nel modello e alcune sta-tistiche descrittive suddivise per le due popolazioni di Comuni a cui esso è stato applicato.

La variabile dipendente (Yi) è rappresentata dal “reddito medio pro-capite” comunale relativo all’anno 2008. Il reddito è quello che scaturisce dalle dichiara-zioni effettuate ai fini dell’applicazione dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fi-siche (Irpef) ed è tratto dal sito Comuni-italiani.it (2011) che elabora tale dato sulla base di valori forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Lo stock di conoscenze acquisite tramite l’istruzione è espresso attraverso la quantità di cittadini di età superiore ad anni 19 provvisti di un diploma di scuola secondaria di secondo grado (X1). Il dato è desunto dal Censimento della popola-zione residente e delle abitazioni (ISTAT, 2006) e risulta riferito all’anno 2001. Per cercare di tener conto anche della “qualità” dell’istruzione, il modello prevede l’im-piego delle variabili “dimensioni medie delle classi” (X2) e “dispersione scolastica” (X3), entrambe riferite al 2001 e desunte dal quattordicesimo Censimento della popolazione (ISTAT, 2006). La componente informale dell’istruzione (experience) è rappresentata nel modello attraverso una variabile proxy costituita dalla “età degli individui”, che nel nostro caso è espressa come età media comunale riferita al 2002 (ISTAT, 2011) espressa sia in forma lineare (X4) che in quella quadratica (X5).

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Tab.1.2 - Statistiche descrittive per le variabili del modello econometrico

Variabile Comuni rurali Comuni urbaniMedia c.v. Media c.v.

Reddito pro-capite (€/residente) Y 6.672 0,178 7.954 0.202Incidenza diplomati (19-52 anni) (%) X1 18,9 0,242 24,3 0,283N. alunni / classi scuola primaria X2 11,4 0,499 15,5 0,320Abbandono scolastico (%) X3 13,1 0,323 12,8 0,269Età media della popolazione X4 42,8 0,067 40,0 0,058Età media della popolazione 2 X5 1.839 0,137 1.608 0,019Densità abitativa (ab/Km2) X6 34,0 0,812 150,4 2,216Occupati agricoli / occupati totali (%) X7 19,1 0,397 8,1 0,500Tasso di attività lavorativa (%) X8 41,4 0,124 45,6 0,101Tasso disoccupazione (%) X9 21,7 0,311 22,6 0,237Addetti pubblico / addetti privato (%) X10 14,6 0,832 8,8 0,924Indice spostamento quotidiano (%) X11 36,0 0,140 41,0 0,124SLL rurale X12 - - - -SLL disoccupazione X13 +5,8 4,720 -7,9 2,815

Fonte: n.s. elaborazioni su dati ISTAT (2006; 2007; 2009) e www. Comuni-italiani.it (2011)

Tra le variabili non riferite al capitale umano si sono considerate la “densi-tà demografica” (X6), la “incidenza degli occupati agricoli” (X7) e alcuni indicatori legati al mercato del lavoro. Con riferimento a questi ultimi si è ipotizzato che la funzione di guadagno sia spiegata dal “tasso di attività lavorativa” (X8), dal “tasso di disoccupazione” (X9) e dal “peso degli addetti nell’amministrazione pubblica” (X10) rispetto al totale. Per i primi due, ci si aspetta di rilevare un effetto positivo del tasso di attività lavorativa e una relazione inversa tra tasso di disoccupazione e reddito; relativamente al terzo fattore, invece, la scelta di introdurre una variabile indipendente che riflette l’incidenza del lavoro pubblico trova riscontro in altri studi che hanno valutato il ruolo del capitale umano nelle aree rurali (Goetz e Rupasing-ha, 2004). A causa di differenze salariali tra chi è impiegato nel settore pubblico e chi in quello privato, del fatto che spesso l’amministrazione pubblica è concentrata nei centri principali, del ruolo che talvolta ha il settore pubblico nel generare un indotto economico anche nel settore privato, è possibile che tale variabile riesca a spiegare eventuali differenze di reddito tra territori diversi e, nella fattispecie, tra aree rurali e urbane. Anche le tre variabili connesse con il lavoro sono state rica-vate dai dati riportati nel quattordicesimo Censimento della popolazione (ISTAT, 2006), per cui sono da riferire all’anno 2001.

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Un fattore che condiziona i redditi di una comunità è il grado di apertura della stessa nei confronti del territorio. Sempre attingendo alla base informativa censuaria (ISTAT, 2006), è stata inserita una variabile che indica la percentuale di “persone che quotidianamente si spostano dal comune di residenza per motivi di lavoro e/o di studio” (X11).

Infine, si è tenuto in considerazione l’ambiente in cui ciascun comune gravi-ta, e in particolare la dinamicità dell’intero territorio rispetto al mercato del lavoro e la prossimità a centri abitati di maggiori dimensioni e capaci di fungere da polo di attrazione per i comuni più piccoli e svantaggiati. A tal fine ci si è riferiti al Sistema Locale del lavoro (SLL) prevedendo due variabili: l’appartenenza di un comune ad un “SLL rurale” (X12) e la “dinamica del tasso di disoccupazione del SLL” (X13) di ri-ferimento. La prima è una variabile dummy che assume valore pari ad uno nel caso in cui il comune osservato insista su un SLL dove il centro abitato più importante (in termini di abitanti) è un comune urbano ed è invece pari a zero nel caso in cui è rurale. La seconda variabile esprime il tasso di disoccupazione su un periodo di quattro anni (dal 2004 al 2008) – calcolato sulla base dei dati forniti da ISTAT (2007; 2009) – ed è, come detto, riferita anch’essa al SLL.

1.5 Risultati e discussione

Il modello è stato applicato separatamente al gruppo dei Comuni rurali e a quello dei Comuni urbani. Le elaborazioni sono state effettuate avvalendosi del software statistico SPSS 12.0.

I risultati evidenziano per entrambi i gruppi di comuni una forte correlazione tra le due variabili riferite all’esperienza (“Età media dei residenti” ed “Età2”) e un elevato livello di multicollinearità. Per questo motivo il modello è stato rivaluta-to impiegando la sola variabile “Età media”. I risultati (coefficienti standardizzati) sono riportati nelle tabelle 1.3 e 1.4.

L’adattamento del modello di regressione ai dati risulta significativo in am-bedue i gruppi, con capacità di adattamento superiore nei Comuni urbani (R2 cor-retto = 0,660 vs R2 corretto = 0,402 nei Comuni rurali). E’ evidente che il modello trascura alcuni fattori esplicativi i differenti valori di reddito, quali, ad esempio, quelli attinenti al capitale sociale, anche se deve aggiungersi che l’R2 corretto sti-mato non differisce granché da quello rilevato in altre ricerche sul tema (Goetz e Rupasingha, 2004).

Le variabili che misurano il grado di istruzione formale – ”incidenza dei di-

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plomati” e “tasso di abbandono della scuola dell’obbligo” – risultano significati-ve in entrambi i gruppi di Comuni, mentre non è tale la “dimensione media delle classi”. Il segno della prima variabile è positivo e il valore del coefficiente piuttosto elevato (rispettivamente 0,399 e 0,432 per i Comuni rurali ed urbani). Anzi, in en-trambi i tipi di territorio il peso dei diplomati risulta il fattore che maggiormente incide sulle differenze di reddito tra i Comuni, con una prevalenza apprezzabil-mente maggiore nei territori urbani rispetto a quelli rurali. Si tratta di un’infor-mazione certamente importante, che suggerisce un ruolo centrale dell’istruzione nel favorire lo sviluppo economico. Al di là del valore assoluto riportato da questo parametro, se si guarda al rapporto tra esso e gli altri parametri associati alle va-riabili significative, si nota che tale rilevanza appare più marcata nei Comuni rurali. In altri termini, i risultati stimati indicano che il ruolo esercitato dall’istruzione nel condizionare lo sviluppo delle Comunità locali è relativamente più importante nei territori rurali.

Tab. 1.3 - Risultati del modello econometrico – comuni rurali

Variabile Coefficiente st. t Sign. (p)

Costante α - -2,051 0,048 ***Incidenza diplomati ß 1 0,399 6,287 0,000 ***Abbandono scolastico ß 2 -0,263 -3,529 0,148 *N. alunni / classi ß 3 0,016 0,238 0,812Età media ß 4 0,177 1,914 0,057 **Età media 2 ß 5 - - -Densità abitativa ß 6 -0,150 -2,838 0,005 ***% Occupati agricoli ß 7 -0,226 -4,228 0,000 ***Tasso di attività ß 8 0,107 1,271 0,205Tasso disoccupazione ß 9 -0,115 -1,715 0,088 **% Addetti pubblico ß 10 0,038 0,579 0,563Indice spostamento ß 11 0,310 3,183 0,002 ***SLL rurale ß 12 -0,019 -0,376 0,708SLL disoccupazione ß 13 -0,061 -1,114 0,267R2 0,432R2 corretto 0,402Variazione di F (sign.) 0,000N. osservazioni = 241

*** significatività per α = 5% ** significatività per α = 10% * significatività per α = 15 %

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La variabile “tasso di abbandono scolastico”, mostra invece un segno nega-tivo in ambedue i gruppi, a dimostrare un effetto depressivo dell’abbandono scola-stico sui redditi percepiti dalla popolazione.

L’altra variabile relativa alla dotazione di capitale umano, la “età media dei residenti”, appare significativa esclusivamente nei comuni rurali. Il segno positivo (0,177) indica che il reddito pro-capite in questi comuni tende a crescere all’au-mentare dell’età dei residenti. Si può dedurre, quindi, che l’esperienza costituisce un fattore di sviluppo nelle comunità rurali, anche se – dato che il modello ha escluso la variabile “Età2” – non si è in grado di verificare se questo fattore mani-festi un effetto negativo dopo una certa età.

Riguardo agli altri regressori del modello si nota che la “densità abitativa” e la “incidenza degli occupati in agricoltura” mostrano valori significativi in entram-bi i gruppi. Il valore del coefficiente suggerisce che nei territori rurali la densità demografica, quando è relativamente alta, si ripercuote negativamente sulle ca-pacità del territorio di generare reddito. Questo potrebbe spiegarsi considerando proprio l’indicatore scelto per misurare la ricchezza locale. Il reddito pro-capite nelle aree economicamente svantaggiate e destinatarie di sostanziosi contributi pubblici finalizzati a colmare il ritardo di sviluppo, tende sovente a crescere con la diminuzione della densità, poiché l’effetto di tali contributi si distribuisce su un numero relativamente esiguo di persone. Il livello di presenza dell’agricoltura, non evidenzia, come detto, un effetto favorevole sui redditi, ma anzi sussiste una rela-zione inversa tra l’incidenza degli occupati in agricoltura in un dato anno e i redditi dichiarati dalla popolazione dopo oltre un lustro. Se da un lato, questo risultato può essere atteso – in quanto nelle economie sviluppate il peso economico dell’a-gricoltura sta progressivamente decrescendo – dall’altro, non vi è dubbio che que-sta informazione muova ad una più ampia riflessione circa il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo economico delle aree rurali. Infatti, se si riconosce che l’agricoltura è una componente costitutiva delle zone rurali ne deriva che lo sviluppo di queste risulterebbe in parte compromesso o limitato proprio dal ruolo detenuto dal setto-re primario. Si tratta ovviamente di un’evidenza empirica che necessita di essere corroborata da altri studi, ma che, almeno con riferimento alla Sardegna, può for-nire un’informazione utile per i policy makers.

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Tab. 1.4 - Risultati del modello econometrico – comuni urbani

Variabile Coefficiente st. t Sign. (p)

Costante α - 1,785 0,095 **

Incidenza diplomati ß 1 0,432 5,021 0,000 ***

Abbandono scolastico ß 2 -0,455 -2,478 0,015 ***

N. alunni / classi ß 3 0,075 1,100 0,274

Età media ß 4 0,079 0,942 0,348

Età media 2 ß 5 - - -

Densità abitativa ß 6 0,096 1,658 0,100 **

% Occupati agricoli ß 7 -0,206 -3,127 0,002 ***

Tasso di attività ß 8 0,430 4,008 0,000 ***

Tasso disoccupazione ß 9 -0,215 -2,782 0,006 ***

% Addetti pubblico ß 10 0,050 0,846 0,846

Indice spostamento ß 11 -0,186 -1,490 0,139 *

SLL rurale ß 12 -0,043 -0,787 0,433

SLL disoccupazione ß 13 0,030 0,572 0,568

R2 0,691

R2 corretto 0,660

Variazione di F (sign.) 0,000

N. osservazioni = 136

*** significatività per α = 5% ** significatività per α = 10% * significatività per α = 15 %

Relativamente alle variabili esplicative dell’occupazione, il “peso degli occu-pati nel settore pubblico” non risulta significativo in ambedue i gruppi, al contrario di quanto riscontrato per il “tasso di disoccupazione”, mentre il “tasso di attività” mostra significatività statistica solo nei comuni urbani, dove si rivela addirittura il secondo fattore in ordine di magnitudo (0,430). Per quanto riguarda nello specifico il tasso di disoccupazione, esso contribuisce negativamente sia nei comuni rurali (-0,115) che in quelli urbani (-0,215) alla determinazione del reddito pro-capite negli anni successivi alla rilevazione del dato.

Per concludere, le variabili riferite ai SLL non si rivelano significativamente esplicative dei redditi in ambedue le popolazioni; lo è invece – seppur con segno contrastante – la variabile “indice di spostamento quotidiano” della popolazione in altri comuni. In particolare, nei comuni rurali il segno e la magnitudo stimati per questo indicatore (0,310) mostrano come il cosiddetto “pendolarismo” eserciti un’influenza decisamente favorevole sui redditi della popolazione, e ciò probabil-

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mente a causa dell’innescarsi di un circolo virtuoso di relazioni economiche e so-ciali inter-comunali.

1.6 Misure per il potenziamento del capitale umano

I risultati ricavati dal presente studio permettono di affermare che il gap di capitale umano che separa le aree rurali da quelle urbane ha un ruolo determi-nante nel produrre il differenziale di reddito tra l’uno e l’altro tipo di territorio. Il ripianamento di questo differenziale non può dunque prescindere da interventi che accrescano la dotazione di capitale umano. Tradizionalmente, questi interventi mirano a potenziare l’offerta di conoscenza ed il sistema, in primis quello scolasti-co, che presiede alla sua formazione. Alle azioni sul fronte dell’offerta di capitale umano devono essere tuttavia affiancate quelle sul lato della domanda (Franzini e Raitano, 2005), al fine di interrompere quella sorta di circolo vizioso che vede, da un lato, gli individui scegliere bassi standard educativi laddove manca un siste-ma produttivo capace di valorizzare il fattore conoscenza e, dall’altro, le imprese human-capital-intensive desistere dall’investire in territori contrassegnati da un modesto livello formativo.

Con riferimento alla Sardegna le iniziative sul fronte della domanda di capi-tale umano sono rese particolarmente complesse dal fatto che il tessuto produtti-vo è formato da imprese piuttosto piccole che, in quanto tali, non sempre mostra-no un’adeguata propensione ad innovare e ad utilizzare competenze qualificate. A questo si aggiunga che tali imprese sono per lo più di tipo familiare, per cui mancano o scarseggiano figure manageriali e tecniche formate. Non si deve infine dimenticare che le imprese sarde sovente operano in settori maturi e a basso tas-so di innovazione tecnologica (Barca, 1999; Cipollone e Visco, 2007).

Precisate queste difficoltà di fondo, si possono comunque individuare alcuni obiettivi verso cui indirizzare le misure a favore della domanda di capitale umano.

Il primo tra questi consiste nel favorire la formazione di imprese ad alto con-tenuto di capitale umano attraverso appropriati sistemi di accountability (Federici e Ferrante, 2006). I programmi comunitari di sviluppo rurale, ad esempio, dovreb-bero sostenere con più forza le imprese capaci di dimostrare oggettivamente il possesso di un elevato patrimonio formativo in capo al proprio management e al proprio personale.

Un secondo piano di intervento dovrebbe riguardare il potenziamento delle dimensioni aziendali, quale pre-condizione per accrescerne l’inclinazione ad inve-

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stire in tecnologia e conoscenza. Un’attenta politica di incentivi fiscali e di agevo-lazioni creditizie, unitamente alla predisposizione di strumenti finanziari creati ad hoc possono costituire utili strumenti per raggiungere il suddetto scopo.

Altro aspetto sul quale è richiesta una azione incisiva riguarda la necessità di creare condizioni di maggior concorrenza economica nella aree rurali e, con essa, una più forte spinta all’innovazione. A tale proposito appare indubbio che ogni forma di sostegno all’agricoltura che risulti, come in passato, sostanzialmen-te indipendente dagli andamenti di mercato finisca per deprimere la propensione delle imprese ad investire per accrescere la propria competitività, mentre sono da auspicare forme di sussidio che puntino a coniugare l’esercizio delle funzioni so-ciali assolte dall’agricoltura (tutela ambientale, gestione del paesaggio, sviluppo delle aree rurali ecc.) con il confronto sul mercato, che continua ad avere un ruolo preminente nell’incentivare le imprese ad investire. Analoghe considerazioni pos-sono farsi riguardo all’abbattimento delle barriere all’entrata di nuove aziende in tutti i settori attivi nei territori rurali, al deciso contrasto ad ogni tipo di accordo collusivo tra imprese finalizzato a conferire loro un ingiustificato potere contrat-tuale nei confronti di acquirenti e venditori, alla drastica semplificazione di ordine amministrativo e burocratico, tutti obiettivi che, se raggiunti, potrebbero far cre-scere la concorrenza e, con questa, l’investimento in conoscenza.

Non andrebbero inoltre trascurate misure – rientranti prevalentemente nella sfera della politica fiscale – volte ad incentivare gli investimenti delle imprese nel campo della ricerca e in quello della formazione delle risorse umane. Dal pri-mo punto di vista, non si può non rilevare l’inerzia che mostrano le aziende attive nel mondo rurale quando chiamate a promuovere le innovazioni tecnologiche che potrebbero rendere più efficienti i loro processi produttivi o aiutarle a creare nuovi prodotti o anche a migliorare quelli già esistenti. Inerzia che si ritrova quando si esamina l’impegno in tema di formazione, manageriale e tecnica, che appare per lo più carente e prevaricato da un approccio al sapere incentrato soprattutto sul learning by doing se non addirittura su un diffuso empirismo.

Da ultimo si ritiene possano rivelarsi assai utili le azioni pubbliche volte a sensibilizzare le imprese verso la realizzazioni di prodotti contraddistinti da ele-vata qualità e buona specificità, alle quali sono inevitabilmente sottesi processi produttivi improntati su risorse umane ben qualificate e orientati al miglioramento continuo del prodotto e delle conoscenze. Occorre impegnarsi affinché sia rimossa l’idea che la competitività possa guadagnarsi, almeno nei contesti in cui è inserita la Sardegna, facendo leva su un basso costo del lavoro (Franzini e Raitano, 2005). Viceversa serve operare a che le imprese comprendano che solo puntando su alti

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standard qualitativi delle produzioni e, dunque, sul rafforzamento degli asset in-tangibili costruiti su pacchetti di conoscenza e formazione di elevato livello e di aggiornamento continuo, è possibile raggiungere risultati soddisfacenti e duraturi.

In ordine ai possibili interventi sul versante dell’offerta di capitale umano non può non sottolinearsi il forte coinvolgimento che, rispetto ad essi, devono ave-re il sistema scolastico e universitario. D’altra parte, gli investimenti pubblici in formazione possono esser resi complicati dalle condizioni non favorevoli dell’isola. In specie nelle zone rurali, i costi unitari di questi investimenti possono crescere considerevolmente in relazione alla bassa densità abitativa, alla scarsa infrastrut-turazione e ad un certo isolamento geografico, con la conseguenza di rafforzare il rischio che gli stessi risultino economicamente e socialmente insostenibili.

In tale contesto, un primo obiettivo che dovrebbe darsi il decisore politico consiste nell’innalzare il grado di partecipazione della popolazione alla “forma-zione di base”. Al riguardo serve ricordare che la Sardegna presenta una situa-zione assai grave. Si pensi al riguardo che, al 2010, ben il 54,0% dei sardi con età compresa tra i 25 e i 64 anni è munito del solo titolo di scuola media secondaria inferiore, mentre in Italia il dato si ferma al 44,8% e nell’UE-27 scende addirit-tura al 27,3% (Eurostat, 2011). Lo scenario non muta in misura significativa se il confronto riguarda i cittadini – sempre nella medesima fascia di età compresa tra 25 e 64 anni – provvisti del diploma di scuola secondaria di secondo grado, che in Sardegna si rilevano essere il 33,6% del totale contro il 40,4% dell’Italia e il 46,8% dell’UE27 (Eurostat, 2011).

Le politiche di stampo strettamente formativo devono accompagnarsi ad interventi volti a migliorare l’ambiente familiare e le potenzialità di affermazione delle giovani generazioni in campo socio-educativo (Heckmann, 2000). Alcuni in-dicatori tradizionalmente utilizzati per rappresentare il livello di disagio familiare mostrano, per la Sardegna, una situazione non certo ottimale. Nel periodo 2003-2009, ad esempio, i nuclei familiari mono-genitore sono passati da 20 mila a 25 mila unità, mentre l’incidenza delle famiglie collocate sotto la soglia di povertà è cresciuta, tra il 2004 e il 2009, dal 15,4% al 21,4% del totale (ISTAT, 2010). Visto il ruolo cruciale che l’ambiente familiare recita nel determinare la quantità e la qualità di conoscenze acquisite dagli individui, in special modo quelle assunte nei primissimi anni della loro esistenza, è indispensabile che siano approntate ade-guate politiche di aiuto alle famiglie più in difficoltà sul piano economico, sociale e culturale (Cegolon, 2009). D’altra parte è dimostrato che le azioni a sostegno

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dell’apprendimento si rivelano tanto più efficaci quanto più sono precoci5 . È perciò utile che le politiche formative siano particolarmente incisive proprio nelle prime fasi del percorso scolastico, posto che nessun intervento di recupero attuato negli anni successivi potrà eguagliarle in efficacia ed efficienza.

Agli impegni sul fronte della formazione di base e di sostegno alle famiglie meno dotate di un solido background economico-culturale, deve necessariamen-te affiancarsi uno sforzo altrettanto intenso volto a migliorare negli individui la dotazione di conoscenze di grado avanzato. Nelle aree rurali, tuttavia, la scelta, tanto individuale quanto collettiva, di potenziare l’alta formazione si rivela spesso problematica. Serve in proposito ricordare che, come già evidenziato, questi ter-ritori vivono, più di altri, il «dilemma di base» che vede gli individui investire poco in conoscenza perché scoraggiati dalle modeste aspettative di reddito, che a loro volta sono basse perché le imprese skills intensive sono dissuase dall’interveni-re in queste aree causa la carenza di lavoratori qualificati (Goetz e Rupasingha, 2004). Così come è utile rammentare che tale dilemma può essere sciolto soltanto promuovendo una simultanea azione di progresso dell’offerta e della domanda di capitale umano (Franzini e Raitano, 2005). La complessità della scelta suddetta è altresì determinata dal fatto che un alto livello di formazione – universitario o post-universitario – si abbina solitamente ad un elevato grado di specializzazione, per cui si pone il problema di verificare la congruità di tale specializzazione con le caratteristiche delle zone rurali e con i percorsi di sviluppo che nelle stesse si intende seguire. Vi è in altri termini il rischio che la domanda di capitale umano qualificato espressa dalle zone rurali – che verosimilmente ricercano alte com-petenze nei loro settori trainanti (agricoltura, agro-industria, piccola industria manifatturiera, turismo, ecc.) o in alcuni ambiti strategici per il loro sviluppo (co-municazioni, sistemi relazionali tra imprese, marketing, ecc ) – non riesca ad in-tercettare pienamente l’offerta che origina dal sistema educativo. Infine, occorre rammentare le implicazioni negative che può avere lo scarso popolamento delle aree rurali sull’economicità dell’investimento in alti standard scolastico-univer-sitari. Come spesso accade anche per altri interventi di natura pubblica, questi investimenti presentano costi medi per fruitore molto alti, tanto che gli stessi sono sovente giudicati non convenienti. Di ciò occorre essere consapevoli, onde evitare

5 Lo sviluppo delle abilità cognitive di un individuo, che Heckmann (1995) riassume nel quoziente di intelligenza, si promuove soprattutto nei primissimi anni dell’infanzia, mentre per quello delle abilità non-cognitive (spirito di adattamento, propensione alla socializzazione, capacità di concen-trazione, pianificazione ed organizzazione dello studio, determinazione, senso di responsabilità, ecc.) si rivela proficuo soprattutto il periodo dell’adolescenza (Dahl, 2004).

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che, come già accaduto in passato, siano promosse e realizzate iniziative dalla efficacia e dalla economicità quanto meno dubbie6 . La doverosa attenzione ai pa-rametri di convenienza economica, lungi dal rifiutare a priori l’utilità degli investi-menti in alta formazione, impone altresì la ricerca di soluzioni (sistemi telematici per la formazione a distanza, borse di studio per studenti fuori sede, sostegno alla mobilità, ecc.) ideate e confezionate in modo tale che gli abitanti delle aree rurali possano fruire efficacemente di un sistema formativo qualificato, anche se questo non dovesse risultare ubicato nel loro territorio di residenza.

1.7 Conclusioni

La ricerca ha permesso di evidenziare come la diversa dotazione di capi-tale umano sia in grado di spiegare una parte non irrilevante del differenziale di crescita che separa le aree rurali da quelle urbane della Sardegna. Nelle prime rispetto alle seconde, l’investimento in formazione appare, tuttavia, un po’ meno redditizio, pur mantenendosi, comunque, in posizione preminente tra le determi-nanti la crescita economica di un territorio.

Questo induce ad una prima generale conclusione: la spinta all’accumu-lazione di capitale umano è più forte nelle aree urbane che non in quelle rurali, dove i rendimenti si riducono per effetto, evidentemente, di alcune caratteristiche negative presenti nel territorio. Da questa conclusione ne deriva che l’impegno per colmare il gap di sviluppo tra campagna e città agendo sul fronte del capitale umano abbisogna di interventi specificamente progettati con riguardo alle pecu-liarità delle zone rurali, e ciò con riferimento tanto alle politiche formative quanto alle azioni indirizzate alle strutture economiche che dovranno utilizzare questo capitale.

La seconda conclusione generale deriva dal rilevare che la presenza di una forte componente agricola rappresenta uno dei vincoli che più limitano la crescita delle aree rurali. La ricerca dimostra, difatti, che più è marcato il peso dell’agri-coltura in un dato territorio più il suo reddito tende a progredire lentamente. Ne scaturisce, pertanto, una situazione paradossale, per la quale l’attività agricola è, ad un tempo, il perno del sistema economico delle aree rurali ma anche il fattore che più ne limita la crescita.

Entrambe le precedenti conclusioni conducono all’ultima considerazione di

6 Il riferimento non può non andare all’esperienza non sempre pienamente positiva dei corsi univer-sitari attivati presso le cosiddette sedi decentrate.

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sintesi del lavoro, ovvero all’urgenza di approntare una politica per le aree rurali che sia realmente forgiata sulle caratteristiche di questi territori e che ponga il rafforzamento del capitale umano al centro della sua azione. Troppo spesso le po-litiche di sviluppo rurale si fondano su iniziative poco legate alle peculiarità delle aree su cui intervengono o che, tutt’al più, si limitano a riprodurre pedissequa-mente interventi e modelli pre-esistenti e poco innovativi. La conseguenza è che l’integrazione tra agricoltura e altre attività economiche, che dovrebbe costituire uno degli assi portanti lo sviluppo di queste aree, rimane spesso blanda, con l’ef-fetto, dunque, di perpetuare il paradosso di un’agricoltura che è, nel contempo, fulcro e freno dello sviluppo rurale. Tali politiche, inoltre, non sempre assegnano al capitale umano l’attenzione che imporrebbe il suo ruolo propulsivo sulla crescita. Ciò vale, peraltro, per la stessa politica scolastica-educativa (la cui proposta for-mativa non appare sempre adeguata alle istanze di sviluppo delle aree rurali), così come per ogni altro ambito di policy – fiscale, creditizio, ecc. – capace di incidere su questa particolare forma di capitale, che viene invece lasciato spesso inattivo. L’alto valore strategico del capitale umano, ribadito anche dal presente studio, può viceversa essere pienamente sfruttato se si accresce l’impegno verso la sua accu-mulazione – con apposite politiche scolastiche, ma anche di supporto alle famiglie e agli studenti – e se si cura, in pari tempo e con atteggiamento volto a sviluppare tutte le possibili sinergie, ogni aspetto atto a migliorare la domanda di questo ca-pitale da parte delle imprese.

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Capitolo 2

INVESTIMENTO IN CAPITALE UMANO E COMPETITI-VITÀ DELL’IMPRESA AGRICOLADalla teoria all’inDagine empirica

Pietro Pulina 7

2.1 Introduzione

L’agricoltura attraversa una fase storica improntata, da un lato, sull’accen-tuazione delle condizioni di scarsità delle risorse produttive a fronte dei crescenti bisogni alimentari del genere umano e, dall’altro, sul riposizionamento della pro-pria missione intorno a diverse funzioni – quali quelle di carattere paesaggisti-co-ambientale o di supporto allo sviluppo dei territori rurali – che rappresentano altrettante fonti di creazione di valore che integrano quella primaria legata alla fornitura di prodotti alimentari (OECD, 2001; Marotta e Nazzaro, 2012). La profonda integrazione del settore nei mercati dei prodotti e dei fattori ha inoltre reso proble-matiche le relazioni verticali delle imprese, le quali soffrono le conseguenze di una posizione di oggettiva debolezza strutturale e funzionale nei rapporti di potere con gli interlocutori collocati a monte e a valle lungo la filiera (Musso, 1996). In questo frangente, la gestione delle aziende agricole esige nuove competenze professio-nali e capacità amministrative ben diverse da quelle che in passato ne caratteriz-zavano la conduzione. Diventa pertanto indispensabile capire quale ruolo può svol-gere l’investimento in capitale umano nella nuova epoca di scarsità, concorrenza e multifunzionalità che fa da sfondo allo scenario operativo in cui sono condotte le attività agricole. In particolare, occorre aver ben presente quali sono i presup-posti favorevoli ad un’accumulazione di tale risorsa, quali sono i soggetti idonei

7 Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio (DipNeT) Università degli Studi di Sassari Università di Sassari [email protected]

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a farsi carico della sua formazione e conservazione e, non ultimo, quali politiche possono risultare più efficaci nel supportare uno sviluppo agricolo contraddistin-to dalla qualificazione del lavoro. La conduzione prevalentemente familiare delle aziende agrarie italiane suggerisce la necessità di tener conto della particolare natura, delle finalità e delle dinamiche relazionali che caratterizzano il ciclo di vita dell’istituto famiglia nel momento in cui si devono valutare le scelte delle imprese relative a questi aspetti.

Questa nota si prefigge di riportare schematicamente gli esiti di un’indagine svolta in Sardegna sui temi appena accennati, di cui si dà conto in maniera deci-samente più dettagliata in una monografia recentemente data alle stampe (Idda e Pulina, 2011)8 . In particolare, nel capitolo che segue il tema sarà inquadrato sul piano teorico e su quello applicativo attraverso una schematica rassegna degli avanzamenti di conoscenza finora osservabili in letteratura. Seguirà un resocon-to dell’indagine sul campo condotta nel comprensorio di Arborea, in provincia di Oristano, caratterizzato da specifiche condizioni operative che sono apparse ideali allo svolgimento dell’inchiesta. Alcune considerazioni di carattere riassuntivo con-cluderanno lo scritto.

2.2 Capitale umano e impresa agricola familiare

2.2.1 Capitale umano e conoscenza

Il rinnovato interesse della ricerca scientifica e della politica nei confron-ti del capitale umano proviene, da un lato, dall’affermazione di una visione della crescita di natura endogena (Lucas, 1988; Grossman e Helpman, 1991), in cui la disponibilità di tale risorsa assume valenza primaria e, dall’altro, dalla complessa connotazione assunta dalle dinamiche in atto nello scenario economico globale – riassumibili nelle parole d’ordine della globalizzazione, dell’ICT, del cambiamento climatico e della differenziazione demografica (Visco, 2009) – che impongono posi-zionamenti competitivi fondati anche su qualificate dotazioni di lavoro. Tale presa di coscienza induce, in prima battuta, ad affrontare le implicazioni e gli ambiti di

8 Il volume riproduce i risultati di un Programma di Ricerca di Rilevanza Nazionale, finanziato dal MIUR, sul tema del capitale umano in agricoltura. In questa nota si fa riferimento alle attività svolte in Sardegna, sotto la responsabilità scientifica dell’Autore, da Graziella Benedetto, Roberto Furesi, Lorenzo Idda, Fabio A. Madau, Elia Orrù e Maria Paola Sini.

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indagine della cosiddetta “economia della conoscenza”.Entrando nello specifico, un primo aspetto di assoluta importanza consiste

nella natura della conoscenza, nel momento in cui la si assimila ad un bene pub-blico, seppure impuro (Pilati, 2006), la cui disponibilità in capo ad una comunità potrebbe perciò non risultare ottimale. Ai fini dei ragionamenti che seguiranno, oc-corre fin da ora tener ben presente la distinzione che separa la conoscenza espli-cita, codificabile e trasmissibile a distanza, da quella tacita, il cui valore specifico è circoscritto ad un ambito prettamente contestuale. Allo stesso modo, la risorsa co-noscenza vive una propria dinamica di formazione e distruzione in cui, da una par-te, operano le azioni individuali e collettive di apprendimento, mentre dall’altro si osservano gli effetti dell’obsolescenza e dell’efficacia del ricambio generazionale.

Soffermandoci sulla fase formativa (learning), occorre rimarcare come una significativa frazione di conoscenze individuali e collettive possa maturare attra-verso l’azione individuale o l’interazione fruttuosa tra individui con specifico rife-rimento a precisi contesti locali. Ciò implica che tali saperi potrebbero perdere si-gnificato al di fuori di tali ambiti, i quali però sono allo stesso tempo contraddistinti dalla disponibilità di un simile irriproducibile patrimonio rispetto ad altri territori. Pur nei limiti consentiti dalla necessità di non farsi intrappolare in un circoscritto paniere di competenze, che potrebbe ostacolare eventuali introduzioni di innova-zioni tecnologiche ed organizzative a supporto di un percorso di crescita (Lodde, 1999), godere di una ricchezza di saperi contestuali può rappresentare un elemen-to di differenziazione decisivo nel posizionamento competitivo di un sistema locale.

Sebbene rappresenti un fenomeno che conduce alla formazione di dotazioni individuali sul piano operativo, l’investimento in capitale umano, al pari della sua conservazione e valorizzazione, assume valenza anche collettiva e sociale, allor-ché si ripensa alla sua natura di bene pubblico ed alla natura interattiva di diversi processi di apprendimento. Proprio nella qualità delle interazioni risiede uno dei presupposti fondamentali dell’efficienza dell’investimento: in altri termini, la for-mazione di capitale umano può avvalersi di favorevoli condizioni relative alla dota-zione di capitale sociale in capo ad un sistema locale. Allo stesso tempo, quest’ul-timo patrimonio si alimenta anche di adeguati apporti di saperi e competenze che favoriscono la formazione ed il perdurare di quel clima di fiducia che dovrebbe permeare l’interazione tra gli individui di una collettività che intende intraprendere un percorso di sviluppo. Si verifica, dunque, la possibilità di instaurare un circolo virtuoso tra capitale umano e capitale sociale (Benedetto, 2011), i quali – alimen-tandosi a vicenda – potrebbero supportare la crescita dei sistemi locali agevolando soluzioni cooperative attraverso l’abbattimento dei costi di transazione. È chiaro

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che il clima di fiducia di cui sopra può instaurarsi solo a seguito di una provata af-fidabilità degli individui, della presenza di networks relazionali e della garanzia di istituzioni efficienti (Ostrom e Ahn, 2003; North, 1994): tutte condizioni che esigono un’adeguata qualificazione delle risorse umane coinvolte.

2.2.2 Capitale umano e agricoltura

Passando alle specifiche tematiche inerenti all’agricoltura, alcune conside-razioni di carattere generale suggerirebbero di propendere, in prima battuta, verso una minore esigenza di dotazioni di capitale umano rispetto ad altri settori. Ciò deriverebbe dalla relazione di complementarità che lega i servizi del capitale fisico con il lavoro qualificato, laddove quella con il generico sarebbe di natura preva-lentemente sostitutiva (Griliches, 1969), e dalla oggettiva difficoltà che il settore primario incontra nella concorrenza per il drenaggio di risorse finanziarie desti-nate all’arricchimento del patrimonio di impianti ed attrezzature delle imprese. In realtà, a ben pensarci, anche in campagna – di certo nella zootecnia, ma anche presso le coltivazioni – si è ormai diffuso un processo di specializzazione e divisio-ne del lavoro che esige un non trascurabile apporto di operatori qualificati. Si può a questo proposito affermare con Huffman (2001) che la non adeguata formazione degli operai e degli imprenditori agricoli rappresenta una condizione in grado di escludere determinati sistemi dalla transizione verso un’agricoltura caratterizza-ta dall’introduzione di nuove tecnologie. Le stesse molteplici attività finalizzate a creare ulteriore valore che si aggiunge a quello prodotto dal core business azien-dale, insieme alle sempre più complesse mansioni amministrative imposte dall’in-tegrazione con i mercati dei prodotti e dei fattori e da un’azione progressivamente invasiva e impegnativa della politica agraria, hanno contribuito ad aggiornare il profilo di competenze necessarie alla conduzione ed alla gestione dell’attività agri-cola. A sua volta, lo sviluppo endogeno dei territori rurali presuppone l’adozione di strategie di innovazione tecnologica e di approccio ai mercati senza per questo rinunciare alle specificità consolidate dei sistemi di produzione, tra le quali rien-trano le pratiche agricole ed il patrimonio di conoscenze in capo agli operatori (van der Ploeg, 2006). È anzi proprio la valorizzazione di tali risorse a caratterizzare il posizionamento competitivo dei sistemi territoriali.

Si profila dunque una ben precisa connotazione del capitale umano, la cui dotazione è frutto di scelte multilivello che coinvolgono a vario titolo individui, fa-miglie, aziende, istituzioni e comunità. Nell’ambito rurale assume particolare im-

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portanza la dimensione familiare, di cui si darà conto in maniera più dettagliata qui di seguito.

2.2.3 Capitale umano e famiglia agricola

La famiglia del coltivatore continua a rappresentare la spina dorsale dell’a-gricoltura italiana: secondo le ultime rilevazioni censuarie risulta di provenienza domestica oltre l’80% delle giornate di lavoro prestate nelle aziende italiane (Istat, 2012). Nel calderone delle imprese agricole familiari è possibile rinvenire un’am-pia gamma di tipologie di impresa, differenziate per volume d’affari, logiche ge-stionali, relazioni funzionali interne e con i mercati. Tuttavia, possono allo stesso tempo essere rimarcati alcuni tratti distintivi che le contraddistinguono rispetto ad altre forme di conduzione:- l’obiettivo classico del massimo profitto è affiancato per dignità e rilievo da

quelli inerenti la ricerca di un assetto stabile delle condizioni finanziarie e strutturali dell’azienda e della famiglia (Gasson et al., 1988);

- le relazioni fiduciarie interne, insieme alla più fluida circolazione delle in-formazioni, possono consentire significative economie sul piano dei costi di transazione;

- la natura mutualistica che permea l’essenza stessa dell’istituto familiare potrebbe consentire all’azienda il ricorso a fonti di finanziamento interne al nucleo che potrebbero rivelarsi decisive per la sopravvivenza o lo sviluppo dell’unità produttiva; occorre però precisare, a questo proposito, che la suc-citata esigenza di stabilità e tutela del patrimonio familiare potrebbe indurre l’imprenditore ad adottare strategie d’investimento conservative piuttosto che promuovere innovazioni percepite come eccessivamente incerte;

- l’accesso per via ereditaria al patrimonio aziendale, ed in particolare alla risorsa terra, consente a nuove generazioni di agricoltori di superare il più alto gradino che ne ostacolerebbe l’ingresso nel settore.Ai fini della nostra discussione è bene sottolineare come gli aspetti appena

elencati convergano tutti nell’affermare una maggiore rilevanza, per le imprese fa-miliari, ricoperta dalle decisioni di lungo periodo, dal momento che queste spesso si intrecciano con le scelte di sviluppo della comunità domestica. Tra queste ulti-me appare di particolare rilevanza quella relativa al ricambio generazionale nella conduzione e nell’attività agricola e, in quest’ambito, dell’investimento in capitale umano in seno alla famiglia. A questo proposito, si tenga innanzitutto presente che

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tale scelta viene maturata spesso non in maniera puntuale nel tempo, ma a segui-to di un lungo ed articolato processo che coinvolge le sfere individuali, interessan-done aspirazioni e propensioni, così come l’ambito collettivo familiare, nel quale potrebbero trovare occasione di manifestarsi posizioni di autorità e potere diffe-renziate che interagiscono con dialettiche non sempre lineari, ma talvolta aspre. A condizionare lo sviluppo e l’esito di un simile processo concorrono le specifiche condizioni della famiglia, ovvero la sua struttura e la fase del ciclo di vita che at-traversa, insieme al contesto economico e istituzionale nel quale l’impresa opera.

Appare ormai accertato dalla ricerca empirica che se, da un lato, la scelta del nuovo conduttore avviene prevalentemente all’interno del nucleo allorquando le condizioni di redditività dell’azienda sono più favorevoli (Simeone, 2006), dall’al-tro la presenza di giovani in famiglia preluderebbe all’orientamento verso colture più remunerative (Simeone e Spigola, 2004) e, soprattutto, alla migrazione dalle aree rurali. Questo caso è particolarmente significativo per il tema qui trattato, in quanto tale fenomeno interessa prevalentemente i membri della famiglia che hanno goduto dei più rilevanti sforzi di investimento in formazione e qualificazione. Si verifica insomma una sorta di brain drain, favorito da maggiori rendimenti degli investimenti in capitale umano, ed in particolare attraverso l’istruzione formale e codificata, in settori extra-agricoli. Il vantaggio delle conoscenze contestuali ha modo di prevalere in condizioni di scarsa dinamicità sul piano dell’adozione di in-novazioni tecnologiche (Russo, 2003), tipiche delle aree arretrate, anche se in alcu-ni studi ne è stata evidenziata l’importanza anche in sistemi rurali all’avanguardia, come quello piemontese (Corsi, 2009).

Risulta pertanto innegabile che il processo di investimento in capitale uma-no in agricoltura produce esiti differenziati e, talvolta, avversi in funzione delle specifiche condizioni economiche, sociali ed istituzionali dell’ambiente locale in cui opera l’impresa familiare. Da ciò derivano importanti indicazioni di carattere normativo. Innanzitutto, l’efficacia delle politiche in materia di promozione della formazione di capitale umano in agricoltura esige un’azione non circoscritta al mero aspetto formativo o di tutela e diffusione di saperi e competenze, ma deve inserirsi in una strategia di più ampio respiro volta a far sì che quelle favorevoli condizioni di contesto di cui si è appena parlato trovino opportunità di realizzarsi e protrarsi stabilmente nel tempo. In quest’ambito, per quanto rilevanti e decisive nella differenziazione dei sistemi locali nell’arena competitiva, le conoscenze con-testuali non possono sottrarre spazio ed attenzione dei decisori politici rispetto a quelle codificate, ormai imprescindibili per coloro che intendono affermarsi nelle dimensioni della multifuzionalità, sostenibilità e competitività che caratterizzano

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il Modello Agricolo Europeo (European Commission, 2003).È allo stesso tempo necessario considerare che la dotazione di conoscenze

in capo ad una collettività rurale può trovare fonte e collocazione presso ambiti alternativi a quello familiare o comunque prettamente aziendale. Da questo punto di vista, l’assistenza tecnica privata e pubblica assolve già di fatto oggi una funzione operativa di promozione, diffusione e rinnovamento di conoscenze presso la collet-tività degli operatori che risulta produrre una dotazione esterna alle imprese ma interna al territorio rurale. In determinati ambiti ciò conduce a diversi gradi di di-sattivazione delle sfere decisionali in capo all’azienda, soprattutto sul piano dell’a-dozione di nuove tecniche produttive o di vere e proprie innovazioni tecnologiche. Tuttavia, ciò che conta è che attraverso queste nuove fonti di conoscenza condivisa e diffusa è possibile far fronte ai limiti della famiglia e dell’impresa agricola nella promozione degli investimenti in capitale umano. Appare altresì evidente che tale condivisione e diffusione non può prescindere da un livello minimo piuttosto alto della qualità delle interazioni sociali e delle istituzioni locali. Ritorna pertanto im-periosamente la priorità politica di un’attenzione rivolta prevalentemente ai conte-sti economici ed istituzionali nelle azioni di promozione dello sviluppo del capitale umano in agricoltura.

Le congetture teoriche e le risultanze empiriche riportate in letteratura di cui si è dato conto finora sono state sottoposte ad una verifica desk e sul campo in Sardegna. Di tali attività si riferisce qui di seguito.

2.3 Una mappatura dei modelli di gestione delle imprese familiari italiane

Preliminarmente all’indagine sul campo si è deciso di ricercare eventuali ricorrenze nella diffusione di manodopera qualificata nelle imprese agricole. Per far ciò si è proceduto ad un’analisi a tavolino dei dati censuari allo scopo di eviden-ziare, da un lato, la relazione tra il fenomeno ed alcuni rilevanti aspetti strutturali e, dall’altro, di caratterizzare i diversi ambiti territoriali sulla base degli stessi pa-rametri. Al momento di chiudere l’indagine non erano ancora stati pubblicati i dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura. Attualmente, peraltro, non si dispone dei dati aggiornati delle altre fonti impiegate. Viene pertanto qui riportato il quadro riferito all’anno 2000, che a questo punto assume un valore storico e, soprattutto, esemplificativo delle argomentazioni di cui si è finora trattato. L’unità territoriale di osservazione adottata è quella provinciale.

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Un primo passo della trattazione dei dati ha riguardato l’elaborazione di una regressione logistica, il cui esito è riportato in tabella 2.1.

Tabella 2.1 – Regressione logistica

(variabile dipendente: gg. lavoro agricolo qualificato/gg. lavoro totali)

Variabili Coefficienti Err st t P

costante -3,420 0,834 -4,103 0,000***

sup proprietà/sup totale -0,459 0,500 -0,918 0,361

sup az >50 ha/ sup totale -0,576 0,344 -1,671 0,098*

sup az fam/sup totale -0,932 0,471 -1,981 0,051*

sup seminativi/SAU 0,401 0,186 2,156 0,034**

n allevamenti/n aziende -1,004 0,278 -3,615 0,001***

n az con trattrici/n aziende 2,108 0,266 7,912 0,000***

n lavoratori < 29 anni/n lavoratori agricoli 3,384 1,511 2,239 0,028**

n lavoratori maschi/n lavoratori agricoli 0,422 0,429 0,986 0,327

Devianza 11,164 Err st regr 0,346R2 0,675 R2 corr 0,643F (9,63) 21,455 Prob (F) 0,000Log-verosim -31,714

Fonte: Istat (2003); ns elab

Premesso che, in questa circostanza è stato adottato un criterio estrema-mente restrittivo nei confronti della definizione di lavoratore qualificato, riservan-dola esclusivamente a coloro che dispongono di un titolo di diploma o di laurea in Scienze Agrarie, l’esercizio statistico suggerisce alcune interessanti riflessioni:- il parametro, tra quelli introdotti, che risulta più intimamente legato alla

dotazione di manodopera qualificata è la disponibilità di un parco trattrici di proprietà; ciò appare interessante specialmente nel momento in cui si connette la presenza di determinate competenze con un assetto strutturato del patrimonio aziendale;

- altrettanto rilevante appare il legame diretto con l’estensione dei semina-tivi e quello inverso con la diffusione degli allevamenti, a rappresentare un orientamento produttivo di fondo, ancorché non sistematico;

- è invece da considerarsi al tempo stesso banale e pregnante la significati-vità del coefficiente di regressione positivo connesso all’incidenza di mano-dopera giovanile, che conferma la stretta connessione, già evidenziata, tra

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ricambio generazionale e investimento in formazione e istruzione;- sembra di qualche rilievo osservare la relazione inversa dell’incidenza di

lavoratori qualificati con la presenza di imprese con manodopera prevalen-temente familiare, che può essere interpretata nel senso di una tendenza a privilegiare l’integrazione con salariati di tale dotazione di competenze op-pure nel ricorso al mercato del lavoro da parte di conduttori familiari quali-ficati.Ciò che maggiormente premeva nella lettura dei dati era però la dimensio-

ne territoriale del fenomeno. Si è pertanto proceduto ad un’analisi discriminante delle 103 province italiane suddividendole a priori in 4 gruppi sulla base di due dimensioni: la prima è la collocazione in una regione del centro-nord o del sud, mentre la seconda riguarda il posizionamento al di sopra o al di sotto della media nazionale del parametro inerente la quota di superficie totale agricola appannag-gio delle imprese a manodopera esclusivamente o prevalentemente familiare. I quattro gruppi sono stati caratterizzati con tre funzioni discriminanti sulla base di diverse variabili esplicative, la figura 2.1 riassume in maniera schematica le indi-cazioni derivanti dall’analisi9.

Figura 2.1 – Mappatura delle province italiane mediante analisi discriminante

9 Per i dettagli di carattere tecnico e statistico si rimanda a Idda e Pulina (2011).

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Soffermandoci sulle prime due funzioni discriminanti, che spiegano circa il 95% della varianza, occorre subito evidenziare come la massima parte della dif-ferenziazione dei modelli gestionali delle imprese agricole italiane avvenga lungo l’asse nord-sud. In particolare, se nel Mezzogiorno si verifica una maggiore inci-denza dei lavoratori agricoli sul totale degli occupati e delle colture permanenti sulla SAU, al centro-nord le imprese si caratterizzano per la proprietà delle trattri-ci, la maggiore partecipazione degli ultracinquantacinquenni, la più ampia esten-sione superficiale media, la più diffusa attività di allevamento e, non ultima, la più marcata frammentazione in più corpi fondiari. In questi contesti territoriali trovano albergo più favorevole i lavoratori diplomati o laureati.

Le province in cui si ricorre con maggiore frequenza al lavoro familiare ma-nifestano, tra i caratteri prevalenti, la più alta quota di superficie agricola utilizzata e dei seminativi in particolare, nonché il più diffuso impiego di mezzi meccanici in generale. Ma la vera dicotomia che le separa da quelle che arruolano più diffusa-mente salariati riguarda il rapporto con la risorsa fondiaria, acquisita più spesso in affitto.

Le condizioni più favorevoli e appetibili per l’attrazione di manodopera quali-ficata sembrano dunque risiedere nell’agricoltura del Centro-Nord, caratterizzata da maggiori investimenti in attrezzature, presenza di salariati e orientamento pro-duttivo verso i seminativi. L’esito di tale rappresentazione non è banale sul piano normativo, nel momento in cui, per affrontare i problemi relativi alla promozione dell’accumulazione di capitale umano nel settore agricolo, sollecita politiche che non si esauriscano al solo momento formativo e dell’istruzione istituzionale ma che abbraccino strategie di sviluppo mirate per specificità locali, e che contempli-no le più ampie dimensioni sociali, economiche ed istituzionali, imprescindibili per creare le condizioni favorevoli alla dotazione di tali risorse.

2.4 L’indagine sul campo

2.4.1 La rilevazione diretta

La complessità del fenomeno in esame, difficilmente schematizzabile a ta-volino o per via teorica, richiede approfondimenti specifici che si avvalgano di pun-tuali riscontri empirici. Allo scopo di chiarire la natura e la portata delle relazioni

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che legano la dotazione di capitale con le caratteristiche peculiari delle famiglie coltivatrici è stata condotta un’indagine su un campione di imprese agricole che operano nel comprensorio di Arborea (OR) in Sardegna. Le attività produttive pre-valenti di quest’area sono l’allevamento bovino da latte e l’orticoltura, oltre che il vivaismo. La popolazione del territorio di Arborea mostra un forte senso identita-rio, frutto di un’azione politica che nel secolo scorso ha promosso la bonifica e la colonizzazione della Piana di Terralba, consolidato da un’azione costante e perva-siva degli organismi cooperativi locali. Se a ciò si aggiunge il considerevole volume di fatturato che il sistema agro-alimentare è in grado di realizzare con consistenti e qualificati flussi di prodotti destinati ai mercati regionali e nazionali, ci si rende facilmente conto di quanto il caso studio rappresenti un ideale laboratorio nel qua-le sottoporre a verifica ipotesi di lavoro inerenti l’investimento in capitale umano in agricoltura, che coinvolgono scelte di lungo periodo, anche di carattere intergene-razionale, e condizionamenti dell’assetto funzionale delle relazioni sociali.

A fronte di un universo di circa 300 aziende, si è proceduto alla rilevazione dei dati strutturali di un campione rappresentativo di 83 unità produttive e delle caratteristiche più significative delle famiglie coinvolte nella loro gestione. La rac-colta dei dati è avvenuta per intervista nel 2010 ed ha prodotto una mole di infor-mazioni che è stata sottoposta a diversi trattamenti statistici.

Un primo livello di analisi ha riguardato la caratterizzazione delle famiglie in profili sintetici attraverso l’analisi fattoriale. Le variabili introdotte spaziano dall’incidenza di giovani o anziani alla numerosità del nucleo o al titolo di studio dei diversi membri. Sono emersi 8 profili caratteristici derivanti dalla combinazione di 3 principali discriminatori, corrispondenti ad altrettanti fattori ruotati: l’ampiezza della famiglia, la prevalenza o meno del lavoro familiare nelle aziende condotte e il livello di qualificazione del lavoro familiare (tab. 2.2).

La distribuzione del campione sembra rivelare una prevalenza di tipologie caratterizzate dall’alto titolo di studio dei lavoratori familiari. Occorre in realtà os-servare che i parametri diagnostici dell’elaborato statistico suggeriscono cautela nell’affidare eccessiva fiducia, nello specifico caso, al potere discriminatorio delle tre dimensioni adottate.

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Tabella 2.2 – Profili delle aziende sulla base dei punteggi fattoriali

Lavoro familiare

qualificato

Impresa familiare

Grande famiglia

Etichetta n osserv %

+ + +Grande famiglia agricola qualificata

7 8,4

+ + -Impresa familiare agricola qua-lificata

21 25,3

+ - -Impresa con salariati e familiari qualificati

8 9,7

+ - + Grande famiglia qualificata 16 19,3

- + +Grande famiglia agricola quali-ficata

7 8,4

- + -Impresa familiare agricola qua-lificata

4 4,8

- - + Grande famiglia 9 10,8

- - -Piccolo nucleo qualificazione extra-agricola

11 13,3

Totale 83 100,0

Un secondo passaggio analitico è consistito nella caratterizzazione de-gli imprenditori intervistati sulla base dei principali canali, da essi indicati come prioritari, che vengono adottati allo scopo dell’acquisizione ed all’aggiornamento delle competenze tecniche e gestionali. A tale proposito, il diagramma che segue raffigura una proposta di classificazione di tali canali in funzione, da un lato, della natura individuale o collettiva del processo di apprendimento e, dall’altro, del tipo di conoscenza (contestuale o codificata) prevalentemente trasmessa attraverso tali canali. La particolare tipologia di informazioni raccolte ha suggerito l’impiego dell’analisi delle corrispondenze multiple al fine della classificazione delle tipolo-gie di imprenditori.

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Figura 2.2 – Classificazione dei campi di esperienza

Ambito individuale

Sapere informale Conoscenza codificata

Auto-apprendimento

(learning by doing)

Auto-aggiornamento da

fonti qualificate

Viaggi ed altre esperienze dirette Corsi di aggiornamento e formazione

Esperienza familiare

Contesto sociale Interscambio tra operatori locali Canali di istruzione formale avanzata

Anche l’analisi delle corrispondenze multiple, al pari di quella fattoriale, non ha dimostrato di essere in grado di esercitare un significativo potere discrimi-natorio nei confronti dei profili imprenditoriali rilevati. In particolare, risultano per-corribili due principali dimensioni di classificazione al riguardo: la prima colloca, da un lato, coloro che attribuiscono maggiore importanza all’esperienza (propria o familiare) e, dall’altro, chi dichiara di privilegiare il confronto con altre realtà operative attraverso la partecipazione a trasferte, fiere e eventi di altro genere; la seconda, dal canto suo, discrimina gli imprenditori che preferiscono la formazione professionale periodica da quelli che praticano con maggiore convinzione i canali mediatici e l’interscambio con gli altri imprenditori (fig 2.2).

Se dunque la prima dimensione si articola lungo una direttrice che modula la rilevanza della tradizione familiare nella formazione e nell’aggiornamento di competenze, la seconda rivela il maggiore o minore grado di apertura verso realtà esterne. La collocazione dei singoli imprenditori intervistati nello spazio bidimen-sionale appena tracciato consente di definire quattro profili distinti di meccanismi di acquisizione di conoscenze, la cui distribuzione nel campione rilevato è riportata in tabella 2.3.

Tabella 2.3 – Distribuzione dei profili imprenditoriali di acquisizione di conoscenza

Profili Tradizione familiare Apertura all’esterno n osserv %Tradizionalisti + + 31 37,3Tradizionali e chiusi + - 12 14,5Ricettivi e informati - - 24 28,9Aperti - + 16 19,3Totale 83 100,0

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La compagine più numerosa è quella degli imprenditori tradizionalisti, i quali attribuiscono massima importanza al patrimonio di conoscenze tramandato in famiglia, rivelando così di disporre di un bagaglio di saperi di natura prevalen-temente informale. Un piccolo ma significativo nucleo di imprenditori, corrispon-dente al secondo profilo, evidenzia atteggiamenti di chiusura palese nei confronti dell’esterno nel momento in cui attribuisce la priorità all’auto-apprendimento sul lavoro. Di carattere evidentemente opposto sono i profili rimanenti, di cui uno – il terzo – prefigura di avvalersi soprattutto del confronto con gli altri operatori e del-le informazioni veicolati dai mezzi di comunicazione, mentre l’ultimo privilegia la formazione professionale e gli eventi fieristici.

L’ultimo passaggio analitico dei dati rilevati sul campo è stato dedicato alla ricerca di eventuali relazioni tra i due meccanismi di classificazione appena de-scritti: quello delle tipologie delle famiglie e delle aziende agricole e quello delle modalità di acquisizione e di aggiornamento delle competenze. A questo scopo, sono state operate delle regressioni logistiche dei profili familiari sui comporta-menti imprenditoriali. Tale sforzo analitico non ha dato esiti tali da ritenere fondata l’ipotesi dell’esistenza di una relazione significativa tra i due criteri classificato-ri. In altri termini la distribuzione degli otto profili familiari/aziendali rispetto alle 4 tipologie di comportamento degli imprenditori in materia di formazione e ag-giornamento è da ritenersi del tutto casuale. Questo risultato, seppur circoscritto alla specifica realtà operativa di Arborea e condizionato sicuramente da alcune debolezze procedurali, costituisce comunque una base di partenza per ulteriori approfondimenti ed è di per sé indicativo della scarsa capacità rivelata da alcuni rilevanti aspetti dell’azienda e della famiglia, ed in particolare del livello di quali-ficazione, nel condizionare le scelte in materia di acquisizione ed aggiornamento delle competenze. Nel leggere tali risultati, si dovrà tener conto della scelta di trascurare l’assistenza tecnica pubblica e privata tra le fonti informative: ad avviso di chi scrive, questa consapevole omissione, dettata dalla pervasiva azione di tale supporto tecnico nel territorio, spiega in buona parte l’appiattimento dei profili comportamentali degli imprenditori nei confronti dell’acquisizione di una risor-sa intangibile diffusa ampiamente nell’area proprio dagli organismi a ciò deputati dalle istituzioni regionali, dalle imprese e dalle cooperative.

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2.4.2 Il focus group

I risultati ottenuti sul campo sono stati sottoposti a verifica ex post attraver-so un focus group che ha riunito 9 testimoni privilegiati, ciascuno appartenente a diversa categoria, in materia di agricoltura, formazione ed istruzione e della realtà agricola del territorio di Arborea. La sessione, tenutasi nel 2011, ha avuto una durata di circa due ore, durante le quali si è potuto sottoporre ai convenuti, sotto varie formulazioni, una griglia di sei domande fondamentali intorno alle quali si è sviluppato il confronto dialettico interno al gruppo.

Tralasciando gli aspetti tecnici della procedura, qui di seguito sono riportati i principali risultati emersi dalla riunione.

Innanzitutto, la scelta del territorio di Arborea ha trovato conforto nella conferma della sua dinamicità, riconosciuta unanimemente dai partecipanti, e della presenza di condizioni favorevoli all’innovazione ed all’investimento in capi-tale umano. In particolare, sarebbe diffusa tra gli imprenditori una spiccata pro-pensione all’innovazione. Ciò comporterebbe, però, la necessità di ricorrere ad un adeguato supporto di risorse finanziarie, da un lato, e di assistenza tecnica. A quest’ultimo proposito, un ruolo di assoluta rilevanza è assolto dalle locali coope-rative, non solo per quel che concerne la promozione delle innovazioni, ma anche per la valorizzazione commerciale delle produzioni e per la diffusione di conoscen-ze tecniche e gestionali nel territorio.

È prevalsa una generale percezione pessimistica delle prospettive econo-miche delle imprese agricole di Arborea. A questo atteggiamento dei partecipanti fa da contraltare la pressoché unanime fiducia nelle capacità delle nuove gene-razioni di far fronte ai segnali negativi che provengono dai mercati e dalla politica con adeguate e innovative soluzioni tecniche ed organizzative. Un segnale di tale capacità, a giudizio di diversi rappresentanti di categoria convenuti al focus group, può essere colto nel crescente apprezzamento che la popolazione locale sembra rivelare nei confronti del valore dell’istruzione scolastica, ed in particolare di quel-la finalizzata all’attività agricola. A differenza di quanto osservato sul campo, è stata da quasi tutti sottolineata l’utilità dei canali di formazione ed aggiornamento sopra descritti, senza esclusione dei corsi – obbligatori e facoltativi – a cui periodi-camente si sottopongono effettivamente gli imprenditori locali.

Infine, ma non ultimo, è stato da più parti evidenziato il clima generale di fiducia ed il forte senso identitario che permea le relazioni economiche e sociali dell’area. Questi tratti, insieme alla forte propensione all’associazionismo che ca-ratterizza nella norma l’azione delle imprese di Arborea, rivela ancora una volta il

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ruolo assolto dal capitale sociale nella promozione della formazione di un patri-monio di conoscenze e capacità diffuse e localmente condivise che divengono così un elemento di forte caratterizzazione competitiva del territorio.

2.5 Conclusioni

Il tema qui affrontato è talmente ampio e complesso da non poter essere efficacemente sintetizzato nelle poche pagine di questa nota. La complessità, in particolare, deriva in parte dai diversi livelli di interesse e competenza che sono coinvolti nel problema: basti pensare agli individui ed alle famiglie, alle imprese ed alle istituzioni, alle associazioni ed al territorio. Tuttavia i ragionamenti teorici e i riscontri empirici appena riportati consentono, senza pretesa di esaustività, di proporre alcuni punti fermi in questa materia.

Primo, nel momento in cui si valutano i presupposti e le implicazioni delle scelte di investimento in capitale umano non ci si può fermare alla sfera individua-le, ma si devono praticare diversi ambiti di analisi. Tra questi, qui ci si è soffermati sulla famiglia quale istituto nel quale maturano, anche a seguito di lunghe e sof-ferte dialettiche interne, soluzioni condivise in questa materia. Nello specifico caso dell’agricoltura, è stato evidenziato che non sempre gli obiettivi della famiglia col-tivatrice coincidono con quelli dell’impresa: ciò può condurre ad esiti del processo di investimento che potrebbero rivelarsi avversi allo sviluppo dell’azienda nell’otti-ca di salvaguardia primaria della stabilità del nucleo familiare e della tutela degli interessi e delle aspettative dei suoi componenti.

Secondo, sebbene l’esperienza maturata sul lavoro e presso la famiglia rap-presenti una componente imprescindibile e tuttora prevalente del bagaglio di com-petenze in capo agli imprenditori agricoli (Pulina, 2013), la crescente dinamicità dei contesti tecnici, istituzionali e di mercato che caratterizza le tendenze in atto nello sviluppo del settore primario induce ad attribuire importanza sempre mag-giore alla conoscenza codificata e, in particolare, all’istruzione specialistica e della formazione professionale.

Terzo, la natura di bene pubblico, seppur impuro, della risorsa conoscenza e le difficoltà oggettive di promuoverne la formazione e l’aggiornamento nel mero ambito aziendale conferiscono precise responsabilità all’assistenza tecnica. Le specificità dei diversi contesti aziendali e territoriali sono dirimenti nei confronti delle figure più adatte a promuovere lo sviluppo di tale tipo di supporto alle im-prese: potrebbe infatti trattarsi, nelle diverse circostanze, di fornitori o acquirenti,

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come di cooperative ed organismi consortili, fino a giungere agli enti pubblici di sviluppo.

Quarto, è ormai pressoché unanimemente accettata l’idea dell’esistenza di un virtuoso feedback che lega il patrimonio di capitale sociale con quello in capi-tale umano nel processo di sviluppo dei sistemi locali. In particolare, il primo si avvale di una maggiore qualificazione delle risorse umane nel momento in cui esse sono funzionali alla promozione di azioni congiunte e coordinate ed alla condivisio-ne di risorse attraverso l’implementazione di strategie complesse e innovative; il secondo, dal canto suo, non può che giovarsi della presenza di un diffuso clima di fiducia che limita l’insorgere di costi di transazione.

Infine, le politiche di supporto allo sviluppo del capitale umano in agricoltu-ra dovranno abbracciare ambiti più ampi, coinvolgendo le specificità dei territori rurali nei quali dovranno essere adottate in modo da perseguire l’obiettivo di ren-dere ideali le condizioni di contesto per l’investimento, la formazione e l’aggiorna-mento di tale patrimonio.

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Capitolo 3

SICUREZZA E FLESSIBILITÀ DEL LAVORO: L’AMBIVALENZA DEL WELFARE AGRICOLO

Giuseppina Carrà, Gabriella Vindigni10

3.1 Introduzione

Il mercato del lavoro agricolo, in Italia, si configura come un mercato ad elevata flessibilità, in ciò sostenuto dalle norme giuridiche e dalla negoziazione sindacale che ne rappresentano la struttura istituzionale. Quest’ultima è costituita – secondo l’approccio istituzionalista e non solo – oltre che dall’assetto contrattua-le e normativo, dalle regole di comportamento sociale, in prevalenza economiche e giuridiche, che chiamano in causa gli interessi dei gruppi che operano nel mercato del lavoro (Solow, 1990; Matzner,1993).

Il dibattito scientifico pone in evidenza gli effetti distorsivi, in termini di ridu-zione dell’efficienza e di peggioramento delle condizioni di equità delle prestazioni, derivanti da una struttura istituzionale rigida. Allo stesso tempo, si riconosce la necessità di predisporre meccanismi di protezione dei lavoratori, attraverso forme di tutela contro la disoccupazione e politiche attive, affinché il mercato del lavoro operi in modo sostenibile (Nickell e Layard, 1999; Vielle e Walthery, 2003; Auer, 2007; Dell’Aringa, 2008a).

La Commissione Europea propone ai paesi membri un modello di regolazio-ne, denominato flexicurity, che cerca di bilanciare le esigenze di flessibilità delle imprese con schemi di protezione sociale in grado di consentire anche un miglio-ramento dei contenuti professionali e delle competenze individuali (Commissione Europea, 2007). Le politiche di welfare attivo – dirette a combattere gli effetti disin-

10 Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agroalimentari e Ambientali, Università di Catania

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centivanti sull’offerta di lavoro che il welfare classico ha di solito prodotto – impli-cano uno spostamento dell’attenzione dal mercato del lavoro all’occupazione e si fondano su una serie di incentivi all’istruzione e alla formazione, con conseguente responsabilizzazione del lavoratore.

Nel caso di forme di lavoro temporaneo e stagionale, quali quelle preva-lenti nel settore agricolo, questa sfida deve ancora essere affrontata. Sono mag-giormente evidenti, infatti, le difficoltà di mettere in atto politiche attive del lavoro incentrate sul miglioramento dell’occupabilità individuale in contesti socio-econo-mici dove i diritti, quali la parità di trattamento, la protezione della salute e della sicurezza nel lavoro (employment rights) e perfino i diritti sociali minimi (minimum social rights) non sono sempre garantiti.

L’analisi degli effetti della struttura istituzionale sul funzionamento del mercato del lavoro ha ricevuto grande attenzione sotto il profilo teorico ed empiri-co, ma vi è stata relativamente poca ricerca con riferimento agli specifici mercati agricoli e rurali (Carrà, 1984; Bove et al. 1993; Dries e Swinnen, 2002; Loughrey et al., 2013, Donnellan et al., 2012).

Nel presente lavoro si intende svolgere una riflessione sul modo di operare degli strumenti di tutela del lavoro agricolo subordinato in Italia, anche alla luce del dibattito attuale sulla flexicurity come modello di governance europea dell’oc-cupazione. Di seguito, dopo aver richiamato alcuni principali approcci teorici che hanno contribuito alla riflessione sulla flessibilità del lavoro ed esaminato l’evolu-zione del modello europeo di flexicurity, si discutono gli elementi di ambivalenza del welfare agricolo. Ci si chiede se esso sia adeguato a perseguire strategie di policy di effettivo equilibrio tra flessibilità e sicurezza, basata quest’ultima, non soltanto sui tradizionali elementi economici, come il sostegno del reddito, ma an-che su elementi di tipo sociale, come le competenze e la formazione. Si passa, infine, a discutere se l’attuale assetto possa favorire o meno la competitività delle imprese agricole.

3.2 Il modello europeo di flexicurity

L’analisi delle dinamiche attraverso le quali il concetto di flexicurity è appar-so nell’agenda politica europea e ha proseguito il suo percorso in direzione di una sua possibile istituzionalizzazione si rivela piuttosto complessa. Le difficoltà con-nesse al tentativo di definirne i contorni traggono la propria origine dal fatto che la flexicurity si pone alla confluenza della politica economica, della politica del lavoro

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e della politica sociale, ossia tre macro aree di politiche pubbliche. La flexicurity rappresenta, quindi, un potenziale ponte concettuale e pratico nella governance europea dell’occupazione, con un marcato accento sull’approccio integrato. La sua fondamentale novità risiede appunto nel tentativo di riformulare la governance dell’occupazione, esplicitamente imperniata sull’accettazione della volatilità delle attività produttive nell’ambito del mercato interno e della pressante competizione globale (Pancaldi, 2008).

La flexicurity è un concetto frequentemente utilizzato per descrivere la stra-tegia che cerca di conciliare la crescita della flessibilità sul mercato del lavoro con l’incremento della sicurezza sociale e dell’occupazione dei lavoratori. Essa nasce nell’ambito del dibattito sulle politiche di riforma del mercato del lavoro per ri-spondere alle spinte verso la de-regolazione, in contrasto col modello di welfare europeo. L’interesse verso la flessibilità dell’impresa emerge, infatti, negli anni ottanta con l’entrata in crisi del modello di organizzazione fordista, insieme al de-clino dello stato sociale keynesiano.

Seppure declinata in maniera differente, secondo la specificità dei rispettivi approcci, la letteratura economico-organizzativa in materia di lavoro ha costitu-ito il terreno più fertile ai fini dell’attecchimento della prospettiva della flexicu-rity (Zappalà, 2012). In particolare, i contributi provenienti dalla specializzazione flessibile di Piore e Sabel (1984) puntano ad evidenziare come, all’evolversi delle condizioni di mercato, i processi di adattamento dell’impresa diventano inevitabili.

Su un altro versante, con un approccio diverso al tema, si collocano gli studi John Atkinson (1985) sulla flexible firm, che vede una strutturazione binaria di tipo core/periphery dell’attività d’impresa. In essa coesisterebbero un core group di lavoratori, con contratto di lavoro a tempo pieno e di durata indeterminata, e un peripheral group, la cui caratteristica determinante è quella di essere gestiti attraverso strategie ispirate alla flessibilità.

Un altro ambito teorico di rilevante interesse per il tema, cui lo stesso Atkin-son si era ispirato, è quello attribuibile a Doeringer e Piore (1971), secondo i quali i mercati interni del lavoro genererebbero maggiore efficienza per l’impresa. Il mer-cato del lavoro interno comunica con quello esterno grazie all’indennità di disoc-cupazione, dove i lavoratori licenziati vengono temporaneamente assistiti dall’u-nemployment benefit system, per poi essere nuovamente impiegati nell’impresa nelle fasi di ripresa del ciclo economico.

Anche le teorie dell’impresa basate sulla conoscenza hanno prodotto una vasta letteratura economico-organizzativa che si è occupata delle connessioni fra i vari tipi di flessibilità e la capacità dell’impresa di innovarsi costantemente tramite

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uno sviluppo delle risorse e delle capabilities (Penrose, 1959; Richardson, 1972). Secondo tale approccio, vi sarebbe un’evidente correlazione negativa fra utilizzo della flessibilità numerica in entrata e sviluppo dei processi di innovazione. Un elevato turnover delle risorse e/o una deregolamentazione dei rapporti di lavoro con un termine finale inciderebbero negativamente sulla capacità dell’azienda di innovare i propri prodotti e/o servizi, poiché appunto tale turnover produrrebbe una svalutazione del capitale cognitivo dell’azienda medesima.

La popolarità attuale del concetto di flexicurity nella sua teorizzazione deve molto però al quadro concettuale dei ‘mercati del lavoro di transizione’ (transitio-nal labour markets) elaborato dalla fine degli anni ’90 da Günter Schmid e Ber-nard Gazier come riformulazione dei sistemi di welfare di fronte all’aumento del-la disoccupazione strutturale e della deregolamentazione (Schmid, 2011; Gazier 2002; Esping Andersen, Regini, 2000). Partendo dall’assunto che il lavoro a tempo indeterminato non sia più l’unica opzione possibile, i mercati del lavoro di transi-zione enfatizzano una promozione ex-ante della mobilità occupazionale attraverso la revisione dei sistemi di welfare come “sicurezza nelle transizioni”, in termini di diritti e servizi sociali d’accesso garantito. Secondo tale approccio teorico, in una società in cui il lavoro subordinato non è più capace di proteggere i lavoratori dai rischi connessi alla perdita del lavoro, i transitional labour markets rappresen-tano meccanismi sociali istituzionalizzati in grado di accompagnare e sostenere i lavoratori durante tutto il loro percorso lavorativo. Nei mercati del lavoro di transi-zione, partendo dalla flessibilità dei rapporti di lavoro come condizione essenziale dell’attuale realtà socio-economica, l’attenzione si focalizza sull’aggiornamento dei tradizionali sistemi di sicurezza sociale. Il punto cruciale è proprio il ruolo chia-ve assunto della reti di sicurezza come stimolo e supporto alla mobilità, generata tanto dal contesto produttivo quanto da esigenze individuali (Schmid, 2011).

Vista la teoria, qual è la realtà proposta dall’agenda flexicurity nell’UE? Le politiche europee per la flexicurity si muovono entro il contesto delineato da tre tappe principali: la Strategia europea per l’occupazione (SEO), avviata nel 1997 pa-rallelamente all’approvazione del Trattato di Amsterdam; la Strategia di Lisbona, fissata nel 2000 per una “economia basata sulla conoscenza” e per la “moder-nizzazione” del modello sociale europeo; infine, gli orientamenti integrati per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale previsti dalla Strategia Europa 2020.

Dalla fine degli anni Novanta, in particolare, le politiche comunitarie per l’occupazione si basano su quattro assi portanti: libertà d’impresa e pari oppor-tunità, che appartengono alla teoria e alle pratiche della tradizione liberale mo-derna; ad esse si sono aggiunte occupabilità e adattabilità che connotano invece,

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più specificamente, gli sviluppi di tale tradizione nella prospettiva neoliberale in una economia globalizzata. Tale prospettiva ha accolto il contributo dei Job Stu-dy dell’OCSE del 1994, in cui si sottolineava l’importanza della flessibilità nell’or-ganizzazione dell’impresa e la necessità di adottare strategie di deregulation del mercato del lavoro.

La nozione di “occupabilità” indica la necessità di proteggere non il posto di lavoro ma la capacità lavorativa individuale, intesa come capacità competitiva che consente all’individuo di trovare un nuovo posto di lavoro, entro un percorso fon-dato su più “transizioni lavorative”. Il ruolo cruciale viene giocato dalle possibilità di riuscire ad adattarsi, di competere con successo e dalle opportunità di trovare un nuovo lavoro. La nozione di “adattabilità” indica, in tale ambito, la capacità in-dividuale di adattarsi a esigenze economico-produttive mutevoli, e quindi la pos-sibilità di affrontare con successo la competizione. Per queste ragioni le politiche di formazione costituiscono la parte essenziale delle politiche per l’occupazione (Possenti, 2012). Il cosiddetto lifelong learning è promosso in connessione stretta e strumentale con l’obiettivo della “occupabilità”, al punto che le politiche di fle-xicurity sono definite anche in termini di “strategie integrate di apprendimento lungo tutto l’arco della vita per assicurare la continua adattabilità e occupabilità dei lavoratori” (Commissione Europea, 2007, p.6).

Nell’ambito di tale riflessione sulla possibilità di coniugare flessibilità e si-curezza nel mercato del lavoro, la flexicurity è stata utilizzata per individuare una specifica combinazione di policy che contiene in sé gli elementi di un nuovo mo-dello di regolazione europea che tende a sostituire gli strumenti hard del diritto con strumenti di regolazione soft. Nel dibattito che è immediatamente seguito alla pubblicazione del Libro Verde “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo” e, più marcatamente nel periodo successivo alla crisi economica del 2008, il concetto di flexicurity si è andato stemperando tanto da in-dicare una strategia politica per la riforma dei diritti del lavoro nazionali, piuttosto che un modello regolativo (Zoppoli, 2012; Delfino, 2009; Madsen, 2007).

Ciò significa che la flexicurity dovrebbe essere diversamente declinata dagli stati membri secondo le diverse peculiarità dei sistemi di welfare, dando luogo a una pluralità di esperienze nazionali. Declinata in un senso così ampio, essa non è altro che una prospettiva, una lente attraverso la quale esaminare diversi modelli regolativi, di cui si può valutare l’impatto nell’ordinamento italiano e sul mercato del lavoro.

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Nel dibattito internazionale, malgrado la “primogenitura” dei Paesi Bassi11, il termine flexicurity è stato progressivamente associato al modello danese nel-la particolare configurazione del cosiddetto “triangolo d’oro”. Esso si basa su tre pilastri: una scarsa tutela della stabilità del rapporto di lavoro; un sostanzioso sostegno al reddito del lavoratore in caso di disoccupazione; efficienti servizi per l’impiego volti alla formazione e alla ricollocazione professionale del lavoratore.

Per quanto riguarda il primo pilastro, la flessibilità viene garantita alle im-prese sia in entrata sia in uscita. Non esistono vincoli di nessun tipo alla stipu-lazione del contratto a termine e del licenziamento individuale che è soggetto a brevi termini di preavviso e al pagamento di un’indennità per i dipendenti con una elevata anzianità. Quanto al secondo pilastro, risulta molto significativa la sicurez-za economica offerta al lavoratore in caso di disoccupazione. Essa si articola in in-dennità erogate da un sistema assicurativo privato, sulla base di Fondi ad adesione individuale volontaria – in realtà alimentati in larga parte da contributi statali – e in provvidenze economiche a carico del sistema pubblico di sicurezza sociale. Quanto al terzo pilastro, esso è costituito dal sistema pubblico di assistenza al lavora-tore finalizzato al reimpiego e alla formazione, collegato al diritto del lavoratore ad usufruire di benefici economici (assicurativi o erogati dal sistema di sicurezza sociale) con l’accettazione di politiche attive per l’impiego, quali offerte di forma-zione, riqualificazione, training on the job. L’introduzione di misure di workfare ha abbassato drasticamente un tasso di disoccupazione che aveva raggiunto livelli considerevoli. L’instabilità dell’impiego non ha peraltro comportato un abbassa-mento del tasso di sindacalizzazione: i Fondi assicurativi, infatti, sono amministrati dai sindacati – c.d. “sistema Ghent” – sebbene l’accesso sia aperto, in virtù di una semplice adesione al Fondo, tanto ai lavoratori iscritti, quanto a quelli non iscritti (Leonardi, 2005; Carinci, 2012).

In definitiva, il concetto di flexicurity conserva una sostanziale indetermina-tezza dei contenuti di policy e, quindi, la necessità di un ancoraggio a casi specifi-ci. Il suo carattere polisemico può rappresentare un sistema socio-istituzionale o modello sociale di riferimento; un processo in cui giocano un ruolo differente e con obiettivi diversi le norme, le istituzioni e gli attori coinvolti; uno strumento euristico per l’analisi del mercato del lavoro europeo (Artiles, 2011).

11 In effetti, nei Paesi Bassi si sviluppò intorno alla metà degli anni novanta il dibattito sulla flexicurity esplicitata poi nella legge “sulla Flessibilità e sulla Sicurezza” approvata nel 1998 (Wilthagen 1998). La riforma introdusse una serie di garanzie per i lavoratori a tempo determinato semplificando l’utilizzo dei contratti non standard e del par-time, che ha fatto della flessibilità dell’orario di lavoro un pilastro del modello olandese.

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3.3 Le forme di flessibilità in agricoltura

La flessibilità del mercato del lavoro in agricoltura è intesa generalmente come la capacità dei rapporti di lavoro di adattarsi alle esigenze tecniche e orga-nizzative delle imprese, connesse alle caratteristiche della produzione agricola. Riguardo a queste esigenze trova giustificazione una struttura istituzionale se-gnatamente flessibile, in cui prevalgono nettamente i rapporti lavorativi a tempo determinato, discontinui, occasionali o stagionali, mentre scarsa rilevanza assu-mono quelli stabili e a tempo indeterminato. Il costituirsi di un numero elevato di rapporti temporanei dà luogo a una consistente flessibilità numerica di cui si avva-le l’impresa agricola. Essi costituiscono l’89,1% dei rapporti di lavoro nel settore, con una prevalenza ancora più netta nel Mezzogiorno (94,5%), espressione di una specificità che offre non pochi spunti di riflessione al dibattito aperto sulla flessi-bilità del lavoro, oggi in primo piano, per le sue conseguenze sull’occupazione e sulla competitività delle imprese (cfr. Tab.3.1).

Tab. 3.1 - Operai agricoli dipendenti per ripartizione geografica e tipologia di con-tratto (2000, 2011)

Ripartizioni geografiche Anni OTD OTI TOTALE

OTD

%

OTI

% Nord 2000 161.916 52.232 210.362 75,6 24,4

2011 237.597 57.188 290.991 80,6 19,4V. %

2011/200046,7 9,5 38,3 6,6 -20,5

Centro 2000 77.373 19.296 94.796 80 202011 99.084 21.225 118.515 82,4 17,6V. %

2011/200028,1 10 25 2,9 -11,6

Mezzogiorno 2000 604.777 24.227 625.681 96,1 3,92011 580.408 33.589 611.514 94,5 5,5V. %

2011/2000-4 38,6 -2,3 -1,7 42

Italia 2000 844.066 95.755 930.839 89,8 10,22011 917.089 112.002 1.021.020 89,1 10,9V. %

2011/20008,7 17 9,7 -0,8 6,8

Fonte: ns. elaborazione su dati INPS, Osservatorio sul mondo agricolo

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Anche in situazioni produttive che operano su base familiare, il ricorso a una pluralità di rapporti di lavoro e a differenti lavoratori esterni alla famiglia e all’impresa è molto diffuso. La discontinuità dei processi produttivi e gli assetti or-ganizzativi delle imprese agricole in cui predomina l’impresa a carattere familiare, dunque, fanno sì che un gran numero di persone sia coinvolto in modo temporaneo e sia attivata una pluralità di rapporti di lavoro. Nei sistemi di produzione che ope-rano su base familiare, quindi, l’uso di manodopera non familiare riguarda un nu-mero elevato d’imprese agricole in ambienti produttivi anche molto diversi tra loro. Con l’aumento della dimensione aziendale si associa generalmente un più elevato utilizzo del lavoro salariato in sostituzione di quello familiare (Dries et al., 2012).

Il ricorso al contratto a tempo determinato – che ha storicamente mante-nuto un’autonomia disciplinare, con rilevanti elementi di differenziazione rispetto agli altri settori – è pienamente libero e flessibile, senza vincoli di forma, di cau-sale, di durata, di proroga, di reiterazione, di intervallo (Vindigni, 2011). Le misure di liberalizzazione degli anni ’Novanta (Pacchetto Treu) e Duemila (Riforma Biagi) hanno introdotto tipologie contrattuali nuove, quali il lavoro a tempo parziale, in-cluso il lavoro ripartito (job sharing); il lavoro intermittente a chiamata (job on call); la somministrazione di lavoro, il contratto di inserimento e l’apprendista-to, con l’effetto di aumentare la flessibilità numerica di detto mercato. La riforma del mercato del lavoro (L. n. 92/2012, cosiddetta Riforma Fornero) non ha toccato quegli istituti – come, ad esempio, il contratto a tempo determinato con gli operai agricoli (OTD), le agevolazioni contributive per zone montane e svantaggiate, lo speciale sistema di ammortizzatori sociali, ritenuti fondamentali per le imprese e per l’occupazione agricola.

Per rappresentare in modo adeguato i tratti peculiari della flessibilità del lavoro in agricoltura occorre tenere conto di tre aspetti. Il primo concerne l’ete-rogeneità di status o di situazioni giuridiche soggettive dei prestatori d’opera; il secondo si riferisce alle loro frequenti transizioni da una posizione a un’altra nel mercato del lavoro. Entrambi terreno di elezione della flessibilità contrattuale e dell’autonomia privata. Vi è infine da considerare la mobilità territoriale della ma-nodopera, associata al suo impiego stagionale nelle aree produttive specializzate, in un’epoca di migrazioni interne e internazionali.

L’eterogeneità di status si riferisce alla molteplicità di figure contrattuali atipiche che vanno dalla compartecipazione agraria allo scambio di manodopera tra piccoli imprenditori agricoli (art. 2139 c.c.); al lavoro occasionale di parenti e affini fino al quarto grado con prestazioni svolte a titolo di aiuto, mutuo aiuto, ob-

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bligazione morale, senza corresponsione di compensi (art. 74 Dlgs n. 276/2003)12; al lavoro accessorio, consentito per prestazioni di carattere stagionale da parte di pensionati e studenti (artt. 70 e 72 del Dlgs. n. 276/2003) . Alcune di queste figure contrattuali affondano le radici in abitudini secolari che rispondono spesso a di-versissimi intenti economico-pratici perseguiti dai contraenti e non raggiungibili attraverso i mezzi giuridici forniti dalle fattispecie legali tipiche (Carrà, 2011).

Riguardo alle transizioni, non è agevole stimarne il loro volume e solo in parte sarebbe possibile cogliere, attraverso un’analisi diacronica (longitudinale), tutti gli status personali e professionali occupati in successione. Indagini rico-gnitive e casi studio hanno evidenziato la complessità degli schemi occupazionali dei lavoratori agricoli. Si tratta di una mobilità del lavoro che non si riferisce ai movimenti all’interno di una determinata forza lavoro, ma anche a modifiche da uno stato di occupazione a uno di disoccupazione e viceversa, all’alternanza tra occupazione e inattività, tra occupazione agricola ed extra-agricola, subordinata e autonoma, formale e informale, regolare e irregolare (Bove et al., 1993; Lagala, 2002; Avola, 2007).

Occorre, quindi, un framework che permetta un’analisi più approfondita del-la flessibilità del mercato del lavoro agricolo, nel quale il lavoro precario si combi-na con la pluriattività e dove l’assetto istituzionale consente un’elevata flessibilità e, allo stesso tempo, paradossalmente, l’estensione del lavoro irregolare.

Nella letteratura si rintracciano diverse tipologie che possono contribuire a definire la complessa flessibilità ̀ del mercato del lavoro agricolo (Wilthagen e Tros, 2004; Tangian 2006): - flessibilità numerica interna: adattamento della quantità di lavoro impiega-

ta alle esigenze produttive tramite variazioni dell’orario lavorativo, ricorso a straordinari o part-time senza modifiche formali del rapporto di lavoro;

- flessibilità numerica esterna: modifica del numero di lavoratori in rapporto alle esigenze dell’impresa tramite assunzioni o licenziamenti;

- flessibilità salariale o finanziaria: variazione delle condizioni economiche dei lavoratori dipendenti;

- flessibilità funzionale: mobilità interna con modifica dei contenuti del lavoro dei lavoratori dipendenti in rapporto alle necessità organizzative delle im-prese;

12 Il lavoro occasionale di tipo accessorio nella nuova disciplina L. n. 92/2012, non è soggetto ad alcu-na esclusione, sia di tipo soggettivo che oggettivo, per cui prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti sono ammessi con riferimento a committenti privati e pubblici richie-dendo solo il rispetto del limite economico.

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- flessibilità esterna funzionale: esternalizzazione mediante affidamento di alcuni compiti a lavoratori esterni sotto forma di supporto tecnico e di servi-zi professionali senza ricorrere a lavoro subordinato.La rilevanza delle prime due tipologie nel mercato del lavoro agricolo è

imputabile sia alla larga diffusione del contratto a tempo determinato e di altri strumenti contrattuali a carattere temporaneo e occasionale di cui si è detto in precedenza, sia al fenomeno della pluriattività, largamente sostenuto dalla nor-mativa previdenziale. A questo proposito va richiamata la previsione ampia della L. n. 247/2007 riguardo alla possibilità di cumulare lavoro agricolo ed extra-agricolo; quest’ultimo è utile anche al fine della rideterminazione dell’indennità di disoccu-pazione agricola.

I dati Inps riportati nella Fig.3.1 mettono in evidenza una distribuzione de-gli OTD (operai agricoli a tempo determinato) per classi di impiego in cui prevale nettamente la categoria degli “eccezionali” (fino a 50 giornate annue), con aliquote più elevate al Nord (54,6%) e al Centro (45,7%), mentre al Sud risulta più contenuta (21,1%).

Fig.3.1 - Operai agricoli a tempo determinato per classi di giornate lavorate e ripartizione geografica (2011; in percentuale)

0

10

20

30

40

50

60

≤ 50 gg

51 -100 gg.

101 -150 gg.>150 gg.

Nord ItaliaCentro Mezzogiorno

Fonte: ns. elaborazioni su dati INPS, Osservatorio sul mondo agricolo.

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La tendenza verso la precarizzazione del lavoro agricolo procede insieme a quella più lenta della sua stabilizzazione, secondo un processo bipolare che si svol-ge da diversi decenni. Ne risulta un limitato numero di impieghi “stabili” e “abitua-li”, accanto ai quali si situano ampie fasce di impieghi “eccezionali” e “occasionali”, con percorsi segnati da frequenti transizioni. Le risultanze statistiche INPS sotten-dono comunque situazioni non uniformi per la natura della fonte che maschera si-tuazioni differentemente caratterizzate con riferimento ai mercati locali e regionali, ma soprattutto per l’intreccio di posizioni professionali diverse (lavoro dipendente e autonomo), di attività agricola ed extragricola, di lavoro formale e informale, rego-lare e irregolare13, di disoccupazione e inattività (Lagala, 2002; Carrà, 2011).

Quanto alla flessibilità finanziaria e salariale, essa include non solo il costo diretto del lavoro (salario) ma anche quello indiretto (oneri sociali). Quest’ultima è guadagnata ricorrendo anche a prestazioni lavorative che non rispettano la nor-mativa in materia fiscale-contributiva. Questa forma di flessibilità è consueta in agricoltura e corrisponde al fenomeno del lavoro irregolare, il cui tasso, secondo stime ufficiali, si attesta al 43,9% delle unità di lavoro dipendenti ed è in crescita14 (Tab.3.2). La flessibilità istituzionale del lavoro e quella fattuale non coincidono, poiché la prima non tiene conto del lavoro svolto, in tutto o in parte, al di fuori dalla regolamentazione del mercato del lavoro. A questo riguardo viene osservato come l’indice EPL (employment protection legislation) dell’OCSE – che misura la rigidità della legislazione a tutela dell’occupazione – faccia riferimento ad una sola dimen-sione del complesso insieme di fattori che influenzano la flessibilità del mercato del lavoro, dimostrando perciò di non poter apprezzare a sufficienza l’effetto fat-tuale (Tangian, 2008).

13 Per un’analisi aggiornata sul fenomeno del lavoro sommerso/irregolare in agricoltura, si rinvia alla ricerca condotta dall’ISFOL (2011).

14 L’impiego di lavoro non regolare, secondo la definizione che ne dà l’ISTAT, fa riferimento al som-merso economico con il quale s’intende, nell’ambito della contabilità nazionale, qualunque impiego di lavoro in attività produttive legali svolte contravvenendo a norme fiscali e contributive al fine di ridurre i costi di produzione.

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Tab. 3.2 – Evoluzione del tasso di irregolarità delle unità di lavoro in agricoltura per categoria

Anni Dipendenti

%

Indipendenti

%

Totale

%1981 38,8 27,0 30,51991 49,9 11,9 25,52001 41,2 10,7 20,52008 43,9 12,4 24

Fonte: ns. elaborazioni su dati ISTAT, L’occupazione non regolare secondo le statistiche ufficiali (2011)

La flessibilità funzionale, riferita alla mobilità interna, si basa in larga mi-sura sulla polivalenza della manodopera non qualificata che può essere utilizzata per diverse mansioni. Come mostrano i dati del Sistema Informativo Excelsior sui fabbisogni professionali e formativi delle imprese agricole (cfr. Tab.3.3), la doman-da di lavoro non qualificato e con basso livello d’istruzione risulta prevalente e in misura superiore nelle assunzioni di lavoro stagionale rispetto a quello stabile. Le richieste di personale non qualificato sono il 55,9% del totale dei lavoratori stagio-nali e il 31,5% di quelli stabili. E’ sufficiente aver conseguito la scuola dell’obbligo nel 90,2% delle previste assunzioni di lavoratori stagionali e nel 54,5% di quelle di lavoratori stabili.

Tab. 3.3 - Assunzioni di dipendenti stagionali e stabili, per grandi gruppi profes-sionali e livello di istruzione (previsioni 2011)

Tipologie Stagionali Stabili

000 di unità 000 di unità493,5 11,5

% %Gruppi professionali

Professioni tecniche 0,0 8,2

Impiegati e professioni commerciali 1,7 10,8Operai e agricoltori specializzati 32,8 34,0Conduttori impianti e macchine 9,6 15,4

Personale non qualificato 55,9 31,5

Livello di istruzione

Laurea o diploma 4,2 31,8Qualifica professionale 5,7 13,7

Scuola dell’obbligo 90,2 54,5

Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011

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L’esternalizzazione, infine, risponde ad esigenze organizzative tradizional-mente connesse al fenomeno del contoterzismo, ma coinvolge soprattutto risorse umane esterne con più elevata qualificazione tecnico-professionale, non assunte come lavoratori dipendenti (Tab. 3.4). La diffusione del lavoro autonomo e parasu-bordinato nelle attività di servizio alle imprese agricole si inserisce nel quadro dei molteplici rapporti di lavoro che le imprese agricole intrattengono secondo schemi variabili per competenze, responsabilità, tempi e funzioni in grado di garantire una elevata flessibilità in funzione dei processi di adattamento che si rendono neces-sari (Carrà, 2011).

Tab. 3.4 - Imprese agricole che fanno ricorso a imprese contoterziste e consulenti esterni per classe dimensionale (2011)*

IndicazioniClasse dimensionale (n. dipendenti)

Totale1-9 10-49 50 e oltre

Imprese che fanno ricorso a im-prese contoterziste (% sul totale)

31,2 32,1 26,1 31,2

Imprese che fanno ricorso a con-sulenti esterni (% sul totale)

73,9 82,1 92,0 74,7

(*) Classe dimensionale determinata sul numero di dipendenti medi annui.

Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011

3.4 Gli ammortizzatori sociali

Il sistema degli ammortizzatori sociali, in Italia, interviene con una logica mutualistico-assicurativa a tutela di lavoratori il cui rapporto di lavoro è sospeso, di lavoratori disoccupati a seguito di licenziamento e di lavoratori temporanei il cui rapporto di lavoro si è concluso (Anastasia et al., 2009). Questa stessa logica se-guono formalmente gli istituti speciali che operano a favore dei lavoratori agricoli, seppure lo strumentario istituzionale abbia seguito dinamiche proprie, generando effetti al di fuori di quelli attesi.

Passando brevemente in rassegna i diversi strumenti d’integrazione sala-riale, si può richiamare in primo luogo, la Cassa integrazione salariale degli operai agricoli (CISOA), prevista inizialmente per gli operai agricoli con contratto a tempo

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indeterminato15 e regolata dal CCNL degli Operai agricoli e florovivaisti vigente, nonché dalla L. n. 457/1972 e successive modificazioni. La Cassa è attivata per interventi di tipo ordinario e straordinario16.

Frutto di un sistema emergenziale17, più recentemente è stata ammessa an-che la concessione di ammortizzatori sociali mediante la Cassa integrazione gua-dagni straordinaria (CIGS) in deroga alla disciplina generale, in favore di lavoratori agricoli sospesi o licenziati, qualora tale concessione sia stata espressamente pre-vista in un apposito accordo quadro stipulato su base territoriale tra le parti sociali, d’intesa con le regioni e sulla base delle risorse finanziarie di cui dispone annual-mente il Fondo per l’occupazione. Si tratta di un’integrazione salariale a sostegno di lavoratori non destinatari della normativa sulla cassa integrazione guadagni18. Altri interventi sono stati disposti e finanziati con specifici decreti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali in occasione delle crisi che hanno colpito alcuni comparti produttivi.

La protezione dei lavoratori sospesi “costituisce una rilevante caratteristica italiana” (Anastasia et al., 2009, p.9); essa consente all’azienda di non ricorrere al licenziamento ove vi siano fondate possibilità di ripresa dell’attività, assicurando così una maggiore continuità degli investimenti in capitale umano ed evitando l’ec-cessivo turn-over di lavoratori con competenze firm specific.

L’assicurazione contro la disoccupazione degli operai agricoli, prevista dalla legge 264/1949, ultimamente è stata riformata dalla L.247/2007, nota come Protocollo welfare. Formalmente ispirato a una logica mutualistico-assicurativa, l’istituto dell’indennità di disoccupazione agricola ha risposto piuttosto ad una lo-gica solidaristico-redistributiva. L’allentarsi dello schema assicurativo, infatti, ha ampliato notevolmente la platea dei beneficiari delle tutele a favore dei lavoratori

15 Con L. n. 223/1991, l’integrazione salariale è stata estesa agli impiegati e ai quadri.

16 Gli interventi di tipo ordinario riguardano le sospensioni temporanee dell’attività lavorativa dovute a eventi meteorologici avversi o di altro tipo non dipendenti dal datore di lavoro o dal lavoratore; quel-li a carattere straordinario si riferiscono ad esigenze di riconversione e ristrutturazione di aziende con almeno sei dipendenti a tempo indeterminato, o quattro e 1.080 gg. di occupazione complessi-va.

17 “..eccezionale utilizzo o proroghe nell’utilizzo dello strumento della Cigs erano peraltro state previ-ste già fin dal 2001, quando era stata introdotta la possibilità per il Ministero del Lavoro di disporre, con semplice decreto, proroghe in deroga ai trattamenti di Cigs o il completamento degli interventi già previsti da disposizioni di legge” (Anastasia et al., 2009, p.11).

18 Sono beneficiari i dipendenti con contratto a tempo indeterminato e a tempo determinato in posses-so di un’anzianità lavorativa non inferiore a 90 giornate presso la stessa impresa che fa la richiesta di CIGS, e, in presenza di eventi di carattere eccezionale ed imprevisti anche operai stagionali ed avventizi che abbiano un’anzianità lavorativa non inferiore a 90 giorni, nel biennio precedente, pres-so l’azienda che richiede l’intervento.

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agricoli precari e delle loro famiglie nelle aree rurali, dando luogo a un grande intervento di solidarietà, dove trova riconoscimento insieme al concetto di rischio quello di bisogno (Carrà, 1984; CNEL, 2003; Lagala, 2005; Anastasia et al., 2009).

Il dibattito a questo riguardo si è soffermato soprattutto sull’anomalia rap-presentata dall’utilizzo dell’istituto dell’assicurazione sociale contro la disoccupa-zione, che ha assecondato schemi di protezione sociale a carattere universalisti-co e, quindi, di natura assistenziale (Russo, 1995; Carrà, 1996). Lo squilibrio tra prestazioni previdenziali e contributi, con conseguente trasferimento della spesa a carico degli altri settori e della generalità dei contribuenti, solleva certamente problemi d’incompatibilità dell’assetto finanziario della previdenza agricola con gli obiettivi di riequilibrio finanziario, ma fa emergere con chiarezza come “alla base di un determinato assetto istituzionale c’è un’idea di equità sociale, deter-minati valori e connesse norme sociali” (Fitoussi, 2005, op. cit. da Tridico, 2009, p.127). Ebbene, la spinta nell’ambito del sistema di welfare agricolo è stata prodot-ta maggiormente in direzione della estensione orizzontale della sicurezza sociale, mediante l’ampliamento della platea dei beneficiari, piuttosto che a favore di un elevato livello di tutela.

La strumentazione attraverso cui la previdenza agricola è stata messa in atto - vale a dire la struttura organizzativa, le procedure e i dispositivi tecnici - ha subito nel tempo un’evoluzione alimentata dall’esigenza di riformare i sistemi di welfare. I principali interventi di riforma hanno riguardato la riorganizzazione del sistema di accertamento delle giornate lavorative a fini previdenziali e contributivi, la previsione di un sistema di controlli fondato sulla denunzia aziendale e sulla stima tecnica; l’introduzione del registro d’impresa e successivamente del Libro unico del lavoro, che semplifica gli adempimenti connessi alla tenuta dei libri ob-bligatori. Tale dinamica, frutto di costruzioni sociali e politiche e non solo di scelte tecniche, pur accogliendo strumenti istituzionali innovativi, ha seguito logiche pro-prie, per cui i cambiamenti prodotti sono nel segno della continuità e, quindi, della path dependency (Kay, 2005).

Circa il meccanismo di funzionamento attuale della tutela contro la disoccu-pazione, è confermata la particolarità della fattispecie, in ciò includendo i requisiti contributivi e i pagamenti delle prestazioni19. Si tratta di un’indennità integrativa

19 L’indennità di disoccupazione spetta ai lavoratori agricoli che abbiano almeno due anni di anziani-tà nell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria e almeno 102 contributi giornalieri nel biennio costituito dall’anno cui si riferisce l’indennità e dall’anno precedente (tale requisito può essere perfezionato mediante il cumulo con la contribuzione relativa ad attività dipendente non agricola purché l’attività agricola sia prevalente nell’anno o nel biennio di riferimento).

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del reddito, che spetta agli operai agricoli a tempo determinato e a quelli a tempo indeterminato che hanno lavorato per una parte dell’anno. Essa è erogata l’anno successivo a quello in cui si è verificata la mancata occupazione. Un criterio, que-sto, che riconosce come indennizzabili le giornate non lavorate seppur ricadenti nel periodo contrattuale, durante il quale il lavoratore può svolgere attività diverse. Per gli operai agricoli, quindi, non sorge alcun obbligo di attestare il proprio stato di disoccupazione presso i Centri per l’impiego.

Va richiamato anche che un trattamento specifico è destinato agli operai agricoli a tempo determinato che siano rimasti privi di occupazione in conse-guenza di eventi eccezionali, calamità naturali o avversità atmosferiche: ad essi è riconosciuto, ai fini previdenziali e assistenziali, il raggiungimento del numero di giornate riconosciute nell’anno precedente20. Lo stesso diritto alle prestazioni previdenziali e assistenziali è esteso a favore dei piccoli coloni e compartecipanti familiari delle aziende colpite dalle predette avversità.

La letteratura teorica ed empirica ha evidenziato le importanti implicazioni che il trattamento di disoccupazione ha sull’occupazione e sui salari e quindi sulle transizioni del mercato del lavoro per gli effetti di compensazione che da essa derivano (Atkinson e Micklewright 1991; Tiraboschi, 2004; Howell et al., 2007; Tat-siramos e van Ours, 2012). Con riferimento al mercato del lavoro agricolo e rurale è importante considerarne i risultati fattuali che non coincidono con quelli istitu-zionali, cioè quelli previsti dalle norme (Tangian, 2008).

Si presuppone erroneamente che l’impatto dell’indennità di disoccupazione agricola possa essere riassunto in termini di livello del beneficio e di squilibrio tra contribuzione e prestazione. In realtà, occorre tener conto di alcuni effetti che sono rilevanti per il mercato del lavoro. In primo luogo, l’indennità di disoccupazione in-coraggia l’occupazione irregolare in quanto è funzionale a minimizzare il costo del lavoro non legato al salario (oneri contributivi), per fronteggiare i mutamenti del livello di produttività o delle condizioni del mercato. La mobilità del lavoro, riferita al passaggio da un’occupazione regolare ad una irregolare è associata a mecca-nismi di accertamento elusivi dello stato effettivo di disoccupazione. L’indennità di disoccupazione agricola, come detto in precedenza, è uno strumento d’integrazio-ne del reddito che non dipende dall’accertamento di uno stato di disoccupazione (Liso, 1995; Carrà, 1996; Lagala, 2005).

In agricoltura, la durata del rapporto d’impiego, d’altra parte, è uno degli

20 Le prestazioni commisurate alle giornate di lavoro nell’anno precedente sono riconosciute a condi-zione che il lavoratore sia dipendente da aziende danneggiate e abbia lavorato almeno per cinque giornate con lo stesso datore di lavoro.

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aspetti più importanti che possono entrare nella convenzione informale tra dato-re di lavoro e lavoratore, senza passare attraverso forme contrattuali formali. La stabilità del rapporto d’impiego riguarda le relazioni che si ripetono nel tempo tra i due soggetti del rapporto, anche se, di fatto, il lavoro resta un fattore variabile del processo di produzione. Questa forma di stabilità, efficacemente definita paterna-listica (Aubert e Sylvestre, 1998), è resa possibile dal ricorso alla disoccupazione parziale e viene tutelata attraverso l’indennità di disoccupazione. Ciascun contrat-to di lavoro, stabilito a livello dell’impresa, è iscritto in una convenzione d’impiego che traduce la permanenza di regole sociali e culturali che s’impongono a ciascun agente. La convenzione varia in rapporto alla qualifica dei lavoratori, il cui utilizzo viene di volta in volta adattato alle esigenze dell’impresa riguardo a quella specifi-ca prestazione del fattore lavoro. Essa supera i diritti e gli obblighi così come sono stabiliti formalmente dalla legislazione del lavoro e dai contratti collettivi e rientra in uno scambio, nel quale i partner cercano di conseguire vantaggi reciproci (Car-rà, 2011).

Un altro effetto dell’indennità di disoccupazione agricola scaturisce dalla sua funzione di finanziamento della sottoccupazione, in altre parole, di strumento di compensazione a favore di una fascia di forza lavoro svantaggiata, per il fat-to di trovarsi in un mercato del lavoro che offre scarse possibilità di occupazione stabile o di percepire redditi sufficienti21. Tuttavia, la discontinuità contrattuale e quella occupazionale non vengono a coincidere. La durata del contratto di lavoro tra un’impresa e un lavoratore non coincide con la durata del rapporto di lavoro tra di essi, per cui anche rapporti di lavoro brevi sono compatibili con una relativa continuità occupazionale nel caso in cui le transizioni job-to-job siano sufficiente-mente frequenti e gli episodi di inoccupazione non siano di lunga durata (Raitano, 2008). In questa prospettiva, l’indennità di disoccupazione agricola costituisce uno strumento formidabile a sostegno della flessibilità del lavoro. Il suo profilo, infatti, differisce da quella che si può definire la tradizione italiana, nella quale gli stru-menti di tutela del lavoro sono caratterizzati da un eccesso di protezione del posto di lavoro anziché dell’occupazione nel mercato. Ci si chiede allora se essa può fornire utili spunti di riflessione nella prospettiva modernizzatrice del mercato del lavoro agricolo, assecondando una impostazione di tipo proattivo, che costituisce l’elemento più innovativo della Strategia europea per l’occupazione.

21 Beneficiano dell’indennità di disoccupazione per gli operai agricoli anche le figure equiparate (pic-coli coloni, compartecipanti familiari, piccoli coltivatori diretti che integrano fino a 51 le giornate di iscrizione negli elenchi nominativi mediante versamenti volontari).

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3.5 Politiche attive e ruolo della bilateralità in agricoltura

Un aspetto cardine del processo di riforma del mercato del lavoro è rap-presentato dall’integrazione tra ammortizzatori sociali e politiche attive. Que-ste comprendono servizi o misure utili ad adattare le caratteristiche dell’offerta alla domanda di lavoro e miranti a migliorare la occupabilità della forza lavoro. Nell’ambito della strategia Europa 2020, l’iniziativa prioritaria “Un’agenda per nuove competenze e per l’occupazione” mette in campo un’ampia gamma di stru-menti di policy rivolti proprio ad attuare la seconda fase del programma di flexicu-rity, incentrato sul miglioramento della qualità degli impieghi e delle condizioni di lavoro e la creazione di nuovi posti di lavoro. Rientrano nella “Piattaforma europea contro la povertà e l’emarginazione” quelle azioni volte a promuovere la partecipa-zione al mercato del lavoro e sostenere i sistemi di protezione sociale attraverso programmi per la formazione continua e le politiche attive d’inserimento per le categorie a rischio di esclusione sociale, avvalendosi del sostegno finanziario del Fondo Sociale Europeo (FSE).

Diversi commentatori riconoscono che nel nostro Paese l’interazione tra gli strumenti di sostegno al reddito e le politiche attive è promossa solo da un punto di vista formale, ma ancora scarsamente applicata nella pratica. Benché non sia mancata l’iniziativa legislativa in questo campo, non ne è seguita una adeguata capacità di implementazione da parte delle amministrazioni coinvolte, né un flus-so di risorse finanziarie consistente (Treu, 2012; Dell’Aringa, 2008b). Gli sforzi per attuare le iniziative europee rischiano di essere vanificati dalle misure di austerità di bilancio e dall’incertezza dei finanziamenti.

In Italia, si sono compiuti alcuni importanti cambiamenti in direzione del rafforzamento del sistema di bilateralità e delle modalità di finanziamento, che as-segnano alle regioni il compito di finanziare le prestazioni attingendo alle risorse del Fondo sociale europeo, grazie alle quali le politiche attive possono sopravvivere (ISFOL, 2013). Gli specifici obiettivi assegnati al FSE, per certi aspetti, marcano la necessità di qualificare gli interventi di welfare in chiave non tradizionale, in-cludendo l’erogazione di strumenti non soltanto diretti al sostegno del reddito. Al contempo, la governance territoriale e il coinvolgimento delle parti sociali costi-tuiscono un orientamento strategico proposto dalla Commissione nel Patto per la crescita e l’occupazione, con l’obiettivo di allineare politiche e finanziamenti allo scopo di ottimizzare i risultati in materia di occupazione sostenuti finanziariamen-te dall’UE (Commissione Europea, 2012a).

Nell’ambito delle politiche attive operano in particolare gli Enti bilaterali. La

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bilateralità è un aspetto delle relazioni industriali che ha avuto negli ultimi anni un notevole sviluppo, ma che in agricoltura ha radici profonde: l’Ente Nazionale di Previdenza per gli addetti ed impiegati in agricoltura (Enpaia), nasce nel 1936. Il Ccnl agricolo del 2010 ha previsto la riorganizzazione e semplificazione del siste-ma di bilateralità con la costituzione dell’Ente bilaterale agricolo nazionale (Eban) e degli Enti bilaterali agricoli territoriali (Ebat). I compiti degli enti bilaterali sono quelli di surrogare istituti e procedure della rappresentanza e della negoziazione collettiva in settori con elevata frammentazione di imprese e rapporti di lavoro; dare piena applicazione ai CCNL, favorire la lotta al sommerso, fornire una pro-tezione aggiuntiva (in materia di garanzie per prestazioni sanitarie aggiuntive, di integrazioni al reddito), svolgere compiti nuovi in materia di gestione di attività e/o servizi di welfare e di politica attiva del lavoro.

La L. 469/1997 ha istituito i Centri per l’impiego in sostituzione degli Uffici di collocamento, riconvertendo le attività principalmente dedicate ad adempimen-ti burocratici nell’offerta di molteplici servizi, dal collocamento e consulenza alla formazione e alle politiche di attivazione. Il nuovo modello di organizzazione e di-sciplina del mercato del lavoro è in linea con gli orientamenti dell’Organizzazione Internazionale del lavoro e gli indirizzi dell’Unione europea in materia di moder-nizzazione dei servizi per l’impiego. Allo scopo di aumentare la loro efficacia ed efficienza, la gestione delle politiche attive del lavoro e dei servizi pubblici all’im-piego è affidata agli enti locali. I servizi pubblici per l’impiego, chiamati a gestire l’erogazione delle politiche attive collegandole con gli strumenti di sostegno che operano in caso di disoccupazione e di sospensione del lavoro, presentano però forti criticità, seppure con esiti differenziati sul territorio nazionale (ISFOL, 2013).

Nel campo della formazione, con legge n. 247/2007 vengono estese agli operai del settore agricolo le norme riguardanti i Fondi paritetici interprofessio-nali per il finanziamento delle iniziative di formazione continua. Il Fondo paritetico interprofessionale nazionale per la formazione continua in agricoltura (FOR.AGRI) dispone di risorse finanziarie derivanti dalla riduzione di 0,3 punti percentuali dell’aliquota contributiva per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria. Tale contributo è destinato al Fondo per la Formazione Professionale e per l’accesso al Fondo Sociale Europeo (FSE).

Tra le misure di politica attiva attuate a livello centrale, gli incentivi alla cre-azione di posti di lavoro hanno una lunga tradizione nella legislazione del lavoro italiana. Da sempre il settore agricolo ha beneficiato di alcune agevolazioni contri-butive specifiche dirette a ridurre il costo del lavoro per compensare gli svantag-gi competitivi rispetto agli altri settori produttivi. In particolare, vanno richiamate

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le agevolazioni per le zone montane e svantaggiate e quelle per i territori colpiti da calamità atmosferiche o eventi metereologici, eccezionali (gelate, siccità ecc.) 22. Sono forniti anche alle imprese agricole incentivi fiscali sotto forma di credito d’imposta, per le assunzioni di lavoro stabile a incremento della base occupaziona-le, nelle aziende ubicate nel Mezzogiorno, di lavoratori svantaggiati o molto svan-taggiati, secondo la definizione fornita dal Regolamento CE n. 800/2008.

In materia di incentivi all’occupazione va segnalata la recente L. n. 99/2013 di conversione del D.L. n. 76/2013, recante tra l’altro interventi per la promozio-ne dell’occupazione, in particolare giovanile. I provvedimenti sono principalmente rivolti ad aumentare l’occupazione, a ridurre l’inattività e migliorare l’occupabilità dei giovani, nonché a fronteggiare il disagio sociale, soprattutto nel Mezzogiorno. Le misure previste per stimolare la crescita dell’occupazione e il reimpiego dei disoccupati23 e quelle riguardanti i giovani24, ancorché rappresentino uno strumen-to sicuramente utile alla promozione dell’occupazione, non possono che avere un impatto limitato sul settore agricolo data la larghissima prevalenza di occupazione a tempo determinato.

In campo contrattuale, la L. n. 99/2013 prevede una misura, di specifico in-teresse per il settore agricolo, che introduce le assunzioni di gruppo. Il contratto di gruppo si riferisce ad una titolarità congiunta di due o più datori di lavoro rela-tivamente al rapporto di lavoro posto in essere: a) da imprese agricole, anche co-operative, appartenenti allo stesso gruppo, o riconducibili allo stesso proprietario o a soggetti legati tra loro da vincolo di parentela od affinità entro il terzo grado; b) da imprese legate da un contratto di rete, se almeno il 50% di esse sono imprese agricole. La nuova disposizione, che rappresenta una innovazione dell’ordinamen-to lavoristico italiano, favorisce una semplificazione amministrativa e gestionale per le imprese e costituisce un incentivo alla stabilizzazione del rapporto di lavoro.

22 Le riduzioni contributive per il 2013 sono fissate nella misura del 75% per i territori montani e del 68% per le zone agricole svantaggiate. Le aliquote contributive per gli operai agricoli a tempo determinato e indeterminato sono calcolate sulla base dei salari contrattuali o dei minimi salariali laddove i salari contrattuali risultino inferiori ai minimali di legge.

23 Gli interventi atti a stimolare la crescita dell’occupazione e il reimpiego dei disoccupati compren-dono: l’incentivo per l’assunzione a tempo indeterminato dei disoccupati beneficiari di ASpI; il man-tenimento dello status di disoccupato sotto un soglia di reddito minimo; le modifiche nelle forme contrattuali, in particolare per il lavoro a termine, l’apprendistato, per le collaborazioni e per il lavoro occasionale; l’estensione ai meno giovani dei benefici per la creazione di nuove imprese.

24 Gli interventi mirati ai giovani includono: la decontribuzione per assunzioni a tempo indeterminato; gli incentivi per tirocini che consentono l’alternanza studio/lavoro degli universitari; gli ncentivi per tirocini formativi nel Mezzogiorno; maggiore orientamento degli istituti professionali alle esigenze del mercato del lavoro; avvio delle attività per la messa in pratica della “Garanzia Giovani

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3.6 Considerazioni conclusive

L’assetto istituzionale del mercato del lavoro agricolo, riletto nella prospet-tiva della flexicurity, mostra evidenti limiti in termini di scarsa coerenza e efficien-za nella integrazione con le politiche attive. La crescita della flessibilità numerica esterna non è stata controbilanciata da un welfare attivo che garantisca l’accesso ad adeguati trattamenti di disoccupazione e alla partecipazione ad attività forma-tive. Le peculiarità del mercato del lavoro agricolo fanno ritenere ancora incerte e imprecisate le possibilità di realizzare programmi di formazione continua e di ri-qualificazione professionale come condizione necessaria per migliorare l’occupa-bilità. Ciò non soltanto per le difficoltà di attivare l’offerta di politiche che siano in grado di assolvere efficacemente questo compito, ma anche perché l’attività agri-cola genera un’elevata domanda di lavoro non qualificato, mentre ancora limitata appare la quota di domanda di lavoro qualificato in termini di contenuto intellettua-le e di conoscenze codificate, oltre che tacite, come si è visto in precedenza.

La bassa qualificazione di capitale umano è considerata un ostacolo impor-tante alla mobilità del lavoro e, quindi, alla sua efficiente allocazione. Investimenti in istruzione e riqualificazione dovrebbero facilitare il passaggio verso una regola-zione del lavoro più efficiente (Bojnec et al., 2003). Nei mercati del lavoro agricolo e rurale non vi sono incentivi per spostarsi da posizioni di lavoro a bassa qualifi-cazione verso quelli più qualificati. Si osserva, invece, una mobilità che dà origi-ne a vulnerabilità più che favorire prospettive di riqualificazione. Ne deriva per la maggior parte dei lavoratori meno qualificati che gravitano nel settore agricolo un elevato rischio di esclusione sociale.

La flessibilità del rapporto di lavoro in agricoltura, scollegata da efficienti misure di riqualificazione, sembra costituire un ostacolo all’integrazione dei la-voratori agricoli in un mercato del lavoro che risponda alla visione della strategia Europa 2020, basata sulla conoscenza, sostenibilità e inclusione. La forte incenti-vazione alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato rende scarsa-mente efficaci le misure per incoraggiare i rapporti di lavoro a tempo indetermina-to, quali quelle previste mediante l’uso della leva fiscale e di quella contrattuale. Pertanto, si riconosce la necessità di rivedere il sistema di tutele per la disoccu-pazione, tenendo distinte le tipologie di trattamento su base assicurativa da quelle su base solidaristica. A questo scopo è stato più volte rimarcata l’esigenza di pro-muovere un assetto proattivo delle tutele in modo da non disincentivare il lavoro e ridurre la permanenza nella condizione di disoccupato e il lavoro non dichiarato (Tiraboschi, 2004).

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Quanto agli effetti della flessibilità sulla competitività, è stato da più parti rimarcato che l’adozione di modalità flessibili può ridurre gli incentivi per l’innova-zione e la formazione on the job. In agricoltura il lavoro dipendente extra-familiare è per lo più un fattore variabile e il costo di investimento in capitale umano (adde-stramento) è piuttosto basso, di conseguenza i costi associati alle rioccupazioni sono ritenuti irrilevanti dalle imprese di questo settore. Ciò vale soprattutto in un contesto produttivo scarsamente dinamico, dove incentivi diretti principalmente a ridurre il costo del lavoro hanno come effetto quello di spingere le imprese a pra-ticare una strategia difensiva, riducendo i costi immediati per mantenere in vita le proprie attività nel breve periodo. Le imprese non orientate all’innovazione tendo-no a muoversi, dunque, in una logica di competitività marginale che si scarica sui segmenti più deboli del mercato del lavoro (Raitano 2008; Isfol, 2013).

A fronte di situazioni economiche poco favorevoli e della crescente espo-sizione del settore agricolo alle forze del mercato globale, le imprese sono poste davanti a sfide che spesso mettono in pericolo le sicurezze e le tutele dei lavora-tori. Ci si aspetta che in questo nuovo scenario le pressioni economiche globali spingano a un ulteriore aumento del lavoro irregolare e sommerso. L’inserimento dei lavoratori immigrati in agricoltura in sostituzione della manodopera locale ha consentito in alcune aree e comparti un aggiustamento al ribasso dei livelli sala-riali e delle condizioni di lavoro. La condizione del lavoratore migrante è in gene-rale di maggior rischio e di più grave sfruttamento, sia per le condizioni di lavoro che per il salario. Bisogna interrogarsi sul fatto che una frazione crescente della produzione di beni e servizi è realizzata utilizzando forza lavoro che resta al di fuori della normativa salariale, priva di copertura mutualistica e previdenziale, al di fuo-ri di qualsiasi tutela sulle condizioni di lavoro (Inea, 2009; Isfol, 2011, Commissione Europea, 2012b).

L’analisi dell’impatto della flexicurity, nella sua prima fase di attuazione, evidenzia una scarsa rispondenza, in termini di capacità attuativa, degli strumenti rispetto agli obiettivi fissati dalle politiche pubbliche messe in campo (Tangian, 2008; Keune, 2008, Eurofound, 2012). La crisi economico-finanziaria, inoltre, met-te in discussione l’attuazione di politiche attive per il lavoro, limitando le risorse finanziarie destinate non soltanto per l’istruzione e la formazione dei lavoratori ma anche per mantenere gli standard di protezione del reddito. La critica più radicale riguarda l’indirizzo politico seguito dall’Unione Europea con la strategia di Lisbona e in particolare l’assenza di un sistema più coercitivo per assicurare un maggiore rispetto degli impegni sociali da parte degli Stati membri. Tali critiche giungono anche da studiosi che avevano accolto positivamente la sfida di una soft law euro-

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pea in materia di politiche sociali, assumendola come una possibile opportunità di rilancio del welfare nell’epoca del lavoro atipico. Il dibattito resta tuttavia aperto e, come osserva Rogowski (2008), il successo del modello sociale europeo, che s’incardina nel sistema di soft law, dipende in ultima analisi dalla capacità delle politiche europee di diventare “riflessive” attraverso un adeguato processo che tiene conto delle esigenze e delle condizioni di autoregolazione degli Stati membri.

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83

Capitolo 4

POLITICHE DI EMERSIONE ED INCLUSIONE SOCIALE: LE ATTIVITÀ E I PROGETTI DEL MIPAAF

Giuseppe Sallemi25

4.1 Introduzione

Il lavoro in agricoltura rappresenta da sempre un elemento essenziale delle società, a volte esaltato per il suo alto valore sociale, altre denigrato per la fatica e l’onerosità.

Le società avanzate stanno prendendo coscienza che il lavoro agricolo non è solamente quello inteso nel senso classico di lavoro manuale di produzione di cibo ma si estende alla tutela del territorio, alla difesa della biodiversità, alla produzio-ne di cibi di qualità, all’utilizzo delle nuove tecnologie, all’agriturismo.

Va dunque superato il preconcetto che il livello di evoluzione della società sia correlato inversamente con l’incidenza degli occupati in agricoltura. Si tratta di un parametro che non può essere un assunto assoluto, ma dipende dal percorso di sviluppo che si vuole dare al settore e alla società in cui si opera.

In Italia la percentuale di operatori occupati in agricoltura si avvicina a quel-la degli altri paesi comunitari sviluppati (grafico 4.1), occorre però chiedersi se questo parametro sia coerente con il mantenimento di un’agricoltura dalle produ-zioni di elevata qualità, che necessita di alte professionalità e addetti più numerosi rispetto ad altre tipologie di economie agricole e se nelle aree marginali sia pos-sibile salvaguardare il territorio riducendo la presenza degli operatori. In sostanza bisogna interrogarsi sull’esistenza di un limite inferiore nella popolazione impie-gata in agricoltura al di sotto del quale non si possa scendere.

25 Dirigente dell’Ufficio Sviluppo delle conoscenze, formazione e mercato del lavoro del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali

84

Grafico 4.1 - Occupati composizione percentuale dei diversi settori di attività economica

Fonte: Istat, contabilità nazionale

L’immigrazione degli ultimi decenni fa pensare che questo limite sia stato superato, cosicché l’Italia, da Paese di forte emigrazione, sta vivendo il fenomeno inverso e un numero sempre maggiore di cittadini di paesi terzi cerca un lavoro nel nostro Paese. Una buona parte di loro, essendo originari di culture contadine, trova più facilità a impiegarsi nel settore produttivo che conosce meglio, ossia quello agricolo che, di contro, presenta scarsa attrattiva per i lavoratori italiani per le basse condizioni di reddito e di tutela che offre.

0 %

20 %

30 %

50 %

60 %

80 %

100 %

AgricolturaServizi Industria

1970 1980 1990 2000 2010

85

Grafico 4.2 - Lavoratori stranieri in agricoltura

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

Nord ovest

Nord est

Centro

Mezzogiorno

2008 2009 2010 2011

Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro

Tabella 4.1 - Percentuale di stranieri su varie categorie di manodopera aziendale

stranieri su manodopera familiare

stranieri su altra manodopera in forma

continuativa

stranieri su altra ma-nodopera aziendale in

forma saltuaria

stranieri su lavoratori non assunti

direttamente dall’azienda

Da UE

a 27extra UE

a 27Da UE

a 27extra UE

a 27Da UE

a 27extra UE

a 27Da UE

a 27extra UE

a 27

Italia 0,2 0,1 8,6 12,4 15,6 10,0 15,5 10,7

Nord-ovest 0,3 0,2 9,1 22,5 24,5 26,2 33,6 42,6

Nord-est 0,2 0,1 11,2 16,5 36,6 13,6 24,4 13,9

Centro 0,4 0,2 9,9 14,1 16,5 17,6 20,9 22,1

Sud 0,1 0,1 6,0 5,7 8,4 6,5 16,5 5,1

Isole 0,1 0,0 7,6 6,5 5,5 6,3 1,7 1,2

Fonte: ISTAT, Censimento Agricoltura 2010

86

La semplice lettura dei dati (grafico 4.2 e tabella 4.1) ci obbliga a prendere atto di quanto la presenza dei lavoratori immigrati sia indispensabile per la so-pravvivenza e lo sviluppo della economia agricola. Pertanto è necessario che que-ste persone si sentano integrate nel sistema produttivo per portare delle energie nuove e un entusiasmo rinnovato per contribuire alla rivitalizzazione di un settore che ha necessità di dedizione e di passione per poter reggere alle sfide della glo-balizzazione.

Per anni il Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali (Mi-PAAF), si è limitato a trattare il problema sotto l’aspetto amministrativo e statistico, piuttosto che come questione sociale, lasciando la trattazione della problematica umanitaria alle amministrazioni locali e al volontariato. L’attività del ministero per diversi anni si è limitata alla partecipazione a iniziative normative, come i decreti flussi e le normative statali di carattere legislativo generale. In alcuni casi con una parte attiva, come nel caso della normativa sull’immigrazione dove l’attività è con-sistita nella partecipazione al gruppo tecnico dell’immigrazione previsto all’art. 2 bis del T.U. sull’immigrazione.

L’attività del Ministero nel campo della integrazione e della inclusione socia-le ha cominciato invece ad avere una identità operativa diversa da quella preceden-te, a partire dal dicembre 2010, quando ci si è resi conto che si poteva – e doveva – fare qualcosa di diverso, intervenendo direttamente con iniziative di promozione all’integrazione delle persone immigrate. In particolare si è voluto creare occasio-ni per valorizzare le capacità degli immigrati e realizzando un miglioramento per-sonale dando allo stesso tempo l’opportunità di contribuire allo sviluppo collettivo.

I primi due progetti proposti per il finanziamento del Fondo Europeo per l’Integrazione (FEI) 201126 si sono posti l’obiettivo si rispondere a due esigenze che già da tempo emergevano, ossia superare la discriminazione verso gli immigrati perché appartenenti ad un’altra cultura e promuovere le capacità imprenditoriali. Quest’ultimo obiettivo nasceva dalla necessità di permettere una migliore inte-grazione, ma anche dalla volontà di creare un beneficio per l’economia nazionale che vede la popolazione agricola sempre più invecchiata e le zone marginali ab-bandonate con grave ripercussioni sulla economia delle aree stesse, compreso un sempre più marcato dissesto dal punto di vista ambientale.

Con il progetto “il cibo quale mediatore culturale nelle comunità rurali”, si voleva porre l’accento sulle condivisioni alimentari e dunque culturali delle co-

26 Il Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi terzi è stato istituito con decisione del Con-siglio dell’Unione Europea n. 2007/435/CE, in data 25 giugno 2007.

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munità rurali dei popoli del mediterraneo, ma il progetto, seppure ritenuto valido, non è stato ammesso al finanziamento perchè non rientrante nelle strategie delle Amministrazioni centrali.

Con il secondo progetto “Sostegno all’autoimprenditorialità dei giovani stra-nieri nel settore agricolo” si è voluto sviluppare lo spirito e le capacità imprendi-toriali dei giovani immigrati con un servizio di orientamento e informazione al fine di diminuire le difficoltà determinate dalle procedure da avviare per la costituzione di impresa.

4.2 S.O.F.I.I.A e altri progetti finanziati con i fondi per l’integrazio-ne

La Commissione europea con Decisione C(2011) 6455 del 13 settembre 2011 ha approvato per l’Italia, il programma annuale 2011 per il Fondo europeo per l’in-tegrazione di cittadini di paesi terzi, contenente anche la proposta progettuale del Mipaaf: “Sostegno all’autoimprenditorialità dei giovani stranieri nel settore agri-colo”.

La proposta progettuale approvata prevede:- l’apertura sul territorio di sportelli di orientamento e sostegno alla creazio-

ne di impresa;- un corso di formazione rivolto a giovani immigrati ed immigrate extracomu-

nitari, attualmente impiegati in agricoltura, affinché possano acquisire le competenze e le conoscenze necessarie per poter avviare una nuova attività nel settore agricolo.Nel giugno 2012 si è avviato il progetto con l’insediamento di un comitato di

progetto per l’indirizzo strategico. L’attività di formazione è stata affidata allo l’I-stituto Agronomico Mediterraneo di Bari (IAMB)(, mentre l’attività di orientamento e sostegno è stata affidata a Confcooperative Puglia a seguito un bando pubblico.

Tutta la attività del progetto è pubblicata sul sito www.sofiia.it creato ad hoc. Dal settembre 2012 sono stati aperti 6 sportelli informativi presso gli Uffici della Confcooperative Puglia. Presso tali sportelli si sono informati sulle disposizioni per l’avvio di aziende agricole circa 600 cittadini di paesi terzi immigrati in Italia.

Le associazioni del terzo settore sono state informate del progetto e hanno mostrato disponibilità a farsi coinvolgere partecipando e sostenendo le attività del progetto.

A fine ottobre 2012 è stata avviata la attività di selezione per partecipare al

88

corso di formazione riservato a 20 allievi, grazie alla attività di informazione svolta presso gli sportelli alla selezione hanno partecipato ben 129 immigrati.

Il corso è stato avviato nel mese di dicembre presso lo IAMB in Valenzano (BA) per un gruppo di 20 giovani immigrati, poi portato a 23. Il programma del cor-so e tutte le altre informazioni sono state inserite sul sito del progetto www.sofiia.it, insieme al materiale didattico. Lo stesso è stato messo a disposizione oltre che dei partecipanti al corso anche di tutti coloro che vogliono conoscere le norme giuridiche, previdenziali e sulla sicurezza, per l’avvio di una azienda agricola.

Il progetto S.O.F.I.I.A. è un progetto pilota che allo stato attuale sta calami-tando consensi a tutti i livelli, vedendo coinvolte tutte le associazioni imprendito-riali, cooperative e dei lavoratori del settore agricolo.

La Regione Puglia ha garantito il sostegno a coloro che intenderanno avvia-re una azienda attraverso l’accesso ai finanziamenti previsti nei Piani di Sviluppo Regionali.

Il Ministero del lavoro e della Previdenza Sociale ha avviato un programma di sostegno con un contributo a fondo perduto di 5000 euro per il costo di avvio dell’impresa.

Altre istituzioni hanno messo a disposizione terreni (in affitto) per l’avvio delle attività.

I risultati del progetto sono più che soddisfacenti: gli obiettivi da raggiun-gere sono stati largamente superati. La formazione inizialmente prevista per 20 immigrati, vista la richiesta, ha raggiunto più di 68 persone, avviando dei cicli for-mativi anche presso alcuni sportelli di orientamento provinciali.

A fine aprile 2013, sono state costituite in provincia di Taranto due coopera-tive con il significativo coinvolgimento delle comunità locali, della Caritas e di due associazioni di volontariato nel sociale.

Ma la scommessa avviata in sordina nel 2011-2012 sta avendo ulteriori svi-luppi rappresentando una vera e propria linea di intervento del ministero nel set-tore.

Attualmente oltre alla attività istituzionale, sono operativi ben 4 progetti di cui uno in fase conclusivo a valere sui fondi FEI 2011 che si concluderà per la fase operativa il 30 giugno p.v. e tre a valere sul fondo FEI 2012, che sono stati appena avviati il 30 aprile u.s..

Infatti sui Fondi FEI 2012 è stato approvato il progetto S.O.F.I.I.A. 2, di pro-secuzione dell’iniziativa descritta, in modo da dare continuità operativa al progetto nella Regione Puglia ed avviarlo in altre 2 regioni (Umbria e Veneto), in modo da ottenere risultati tangibili di medio periodo e individuare delle best practices che

89

saranno applicate, qualora il progetto sarà rifinanziato anche per sui fondi FEI 2013, in ulteriori 3 regioni. Quindi una programmazione operativa che potrà costi-tuire un modello per ulteriori sviluppi negli interventi della programmazione Fondi Solid 2014-2020.

Il secondo “Alla luce del sole” ha lo scopo di predisporre materiale divulga-tivo e di comunicazione (spot, e comunicati multimediali) destinato ai lavoratori da regolarizzare ed ai datori di lavoro. Il materiale cartaceo sarà finalizzato a dare in-formazioni sulle disposizioni in materia di lavoro e previdenza, sicurezza sul lavoro in agricoltura e le varie norme da rispettare per evitare il lavoro nero.

Il terzo denominato “AFORIL” Formazione Prepartenza per Lavoratori Im-migrati in Agricoltura) ha l’obbiettivo di formare i lavoratori all’estero ossia nei loro paesi di origine, in particolare (Tunisia, Egitto e Marocco), per svolgere in Italia lavori specializzati in agricoltura nonché per una eventuale stabilizzazione nel set-tore. Il progetto parte dal presupposto che un lavoratore già formato nel Paese di origine con una preparazione che ne permette un impiego in lavori qualificati è ga-rantito sia sotto il profilo personale sia per la sicurezza del Paese che lo accoglie.

E’ evidente la portata della scommessa che comportano questi nuovi pro-getti, il primo per la necessità che abbia un adeguato impatto sul mondo operati-vo soprattutto nelle aree in cui il lavoro nero è ampiamente diffuso. Infatti anche questo progetto richiede il coinvolgimento non solo di chi opera nelle istituzioni e strutture organizzate datoriali e sindacali, ma anche di chi è direttamente interes-sato per renderlo cosciente dell’importanza di lavorare nella legalità per se stesso e per la comunità che lo ospita.

Il progetto di formazione in prepartenza “AFORIL” vuole esplorare un nuovo fronte delle dinamiche del mercato del lavoro per creare un clima di legalità e tra-sparenza e prevenire gli abusi e i rischi della tratta degli essere umani attraverso la formazione linguistica, tecnica e l’educazione civica. In questo modo si vuole dare al lavoratore straniero una formazione di base sul Paese ospite, una minima formazione tecnica sulle attività che si andranno a svolgere e sulle norme vigenti in tema di sicurezza sul lavoro, nonché la garanzia di una azienda che attende il lavoratore.

Si tratta di un progetto complesso perché richiede un coinvolgimento delle organizzazioni datoriali e sindacali nel nostro Paese, che sono interfaccia con le aziende richiedenti, nonchè delle autorità ai vari livelli, nei Paesi scelti per l’inizia-tiva. Il rispetto ed attuazione dei vari protocolli di collaborazione tra l’Italia o l’UE e detti Paesi e quindi il coinvolgimento delle autorità diplomatiche.

90

4.3 Possibili (e auspicabili) sviluppi

L’interessamento del Mipaaf alle questioni dell’immigrazione non è limitato alle iniziative fin qui esposte. A dimostrazione della sensibilità che il MiPAAF ha sviluppato verso le politiche di inclusione nei confronti dei cittadini di paesi terzi presenti sul territorio nazionale si segnala che nel “Documento programmatico delle politiche dell’immigrazione 2007-2009”, sebbene mai approvato dal Parla-mento, al Capitolo II paragrafo “Politiche abitative contro la precarietà alloggiati-va”, questo Ministero ha proposto l’utilizzo di borghi abbandonati o abitazioni rurali in zone di abbandono ai fini abitativi per immigrati e/o rifugiati. Infatti, tra i molti problemi legati all’ingresso degli immigrati, la questione abitativa potrebbe essere risolta con il finanziamento della ristrutturazione di tali immobili.

Inoltre si sta aprendo un nuovo fronte di intervento in cui il Ministero viene significativamente coinvolto, insieme ad altri ministeri e strutture amministrative, in un contesto più ampio della realtà nazionale cioè la strategia internazionale di promozione dei diritti umani e di sviluppo delle comunità locali nei paesi di origine degli immigrati.

Al di là delle singole iniziative, per quanto lodevoli e appropriate, sarebbe in-fatti necessario sviluppare una vera e propria politica di cooperazione allo sviluppo in grado di coordinare interventi interni ed esterni nel settore.

Il Ministero intende adoperarsi perchè si possa sviluppare questa strategia operativa coinvolgendo tutte le istituzioni e gli enti disponibili a condividere l’ob-biettivo della integrazione economica e sociale degli stranieri in Italia.

COMPETITIVITÀ DELL’IMPRESA E TUTELA DEI LAVORATORI: OBIETTIVI COMPATIBILI IN AGRICOLTURA?

Atti del seminario svoltosi a Roma, l’8 maggio 2013

collana SISTEMA DELLA CONOSCENZA. Quaderni

INEA 2014

L’area Sistema della conoscenza in agricoltura sviluppa e realizza attività di studio e sup-porto alle amministrazioni centrali e regionali su tre filoni principali: il sistema ricerca nelle sue componenti principali e in relazione ai livelli istituzionali che lo promuovono (europeo, nazionale, regionale); i servizi di sviluppo regionali con particolare riferimento agli interventi previsti dalle politiche europee; gli aspetti sociali e culturali dell’agricol-tura quali fattori per lo sviluppo di nuovi percorsi produttivi e di attività di servizio alla collettività.Le iniziative di ricerca e consulenza vengono realizzate secondo un approccio olistico e relazionale che prende in considerazione l’apporto di tutte le componenti classiche del sistema della conoscenza (ricerca, servizi di assistenza e consulenza, formazione, tessuto imprenditoriale e territoriale) e coniuga il tema dell’innovazione quale obiettivo trasversale da perseguire per il miglioramento del sistema agricolo e rurale.

ISBN 9788881454419VOLUME NON IN VENDITA

2014

a cura di Maria Carmela Macrì