Come alla Corte di Federico II

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA L’ECONOMIA ITALIANA E LA SFIDA DEL MERCATO GLOBALE di Ferruccio de Bortoli 7 UN "GLOBALIZZATO" STA MEGLIO DI ALTRI? di Massimo Marrelli 12 IL SISTEMA AGROALIMENTARE E AMBIENTALE TRA SVILUPPO E SOSTENIBILITÀ di Giancarlo Barbieri 14 PATRIMONIO CULTURALE, CREATIVITÀ, SVILUPPO ECONOMICO di Luigi Fusco Girard 16 INTERVENIRE PER L’AMBIENTE CONVIENE ANCHE ECONOMICAMENTE di Ugo Leone 18 I BENI CULTURALI PER IL RILANCIO DEL SISTEMA ITALIA di Stefano Consiglio 19 LA PROSPETTIVA È “RIPOSIZIONARSI” di Paolo Stampacchia 20

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO

PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA

L’ECONOMIA ITALIANA E LA SFIDA DEL MERCATO GLOBALE di Ferruccio de Bortoli 7 UN "GLOBALIZZATO" STA MEGLIO DI ALTRI? di Massimo Marrelli 12 IL SISTEMA AGROALIMENTARE E AMBIENTALE TRA SVILUPPO E SOSTENIBILITÀ di Giancarlo Barbieri 14 PATRIMONIO CULTURALE, CREATIVITÀ, SVILUPPO ECONOMICO di Luigi Fusco Girard 16 INTERVENIRE PER L’AMBIENTE CONVIENE ANCHE ECONOMICAMENTE di Ugo Leone 18 I BENI CULTURALI PER IL RILANCIO DEL SISTEMA ITALIA di Stefano Consiglio 19 LA PROSPETTIVA È “RIPOSIZIONARSI” di Paolo Stampacchia 20

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« Jazz : Sintesi di un quadro economico dalle origini ad oggi » La musica è considerata l’unico linguaggio universale e, pertanto, non conosce frontiere. O almeno non dovrebbe. Di fatto le frontiere ci sono eccome, se le intendiamo come limiti economici. Anche senza il riscontro del pubblico (che comunque non è una prova insindacabile del valore dell’individuo) un artista rimane pur sempre tale, seppur pericolosamente esposto al problema della sopravvivenza. Il ritrovarsi puntualmente confrontati ad un doloroso ritorno alla realtà, nel momento in cui si accorgono che le loro opere dovrebbero idealmente essere vendute al fine di garantirgli il pane, è un episodio ricorrente per molti musicisti. E non sono in pochi a credere che registrare un album significhi anche saperlo vendere. Purtroppo i fatti non stanno esattamente così, la distribuzione è un mestiere a sé, ed è proprio qui che entra in gioco il mercato. In Italia, il lato economico della vita da musicista resta comunque tenacemente problematico: la mente dell’artista non sembra dover essere parametrata per le bollette, la spesa, l’affitto e simili futilità… La faccenda si complica se torniamo alla condizione nera negli USA tra il 1911 e il 1969. I primissimi jazzisti di colore erano non solo poverissimi, ma anche vittime di leggi razziali che ne mettevano a dura prova la quotidianità. I bianchi che facevano dixie si truccavano goffamente da neri per suonare, mentre ai neri era proibito anche solo entrare nei clubs. Basta ricordare che Charlie Parker non poté mai mettere piede nel celeberrimo tempio newyorkese della musica jazz, il Birdland. E Bird, per chi non lo sapesse, era Parker in persona. ‘’Paradossale’’, aveva sentenziato ironicamente l’interessato. Genî come Charles Mingus e Miles Davis costretti, in gioventù, ad occupare i posti in fondo ai bus, e impossibilitati a recarsi in bagno durante le soste. Aggiungiamo poi i già citati schemi mentali dell’artista-tipo, scarsamente declinabili alla vita terrena, ed ecco come John Coltrane veniva rimproverato dalla moglie perché passava mesi interi a studiare sax, ‘’dimenticandosi’’ di trovare lavoro e trascurando così casa e famiglia. Con tutti questi fattori avversi, guadagnarsi da vivere con la musica doveva essere una vera impresa già a quell’epoca. Anche perché il jazz non ha mai avuto un pubblico vasto quanto quello del rock o del pop, e ciò aveva (e ha tutt’ora) un’incidenza facilmente intuibile sui potenziali guadagni ottenibili suonando questo genere. Oggi però, soprattutto grazie a internet, ci sono altri tipi di vetrine a disposizione degli artisti, a cominciare dai siti web e da MySpace: una rete che annulla virtualmente le distanze tra big e meno big grazie a un sistema di inviti ad accedere al proprio materiale. Quindi non è unicamente il mercato finanziario ad essersi globalizzato, ma anche l’arte e la diffusione della stessa. Chi vuole acquistare un cd, un libro, un dvd, non vede più la propria scelta limitata ai negozi in città, ma ha a disposizione cataloghi on line con quantità di articoli che nessun negozio fisico sarebbe in grado di proporre; con modalità di acquisto più semplici di quelle postali e con costi di transazione generalmente abbastanza contenuti. Ora guardiamo con tenera nostalgia alle parole di Louis Armstrong, che la fame l’aveva conosciuta, quando diceva di sentirsi ‘’ricco come Rockefeller pur non avendo un cent’’ nella celeberrima On the sunny side of the street. Quale precarietà poteva avergli ispirato un simile verso? E cosa dire allora del viennese Joe Zawinul? Pochi sanno che l’ineguagliabile tastierista dei Weather Report non ebbe i mezzi di acquistare un sintetizzatore prima dei 40 anni di età, e non fu quindi un caso se intitolò un suo brano Money in the pocket… Il tema dell’insicurezza economica viene ritrovato anche in The lady is a tramp, pezzo reso noto da Frank Sinatra, in cui la protagionista è rigorosamente squattrinata ma non priva di fascino e ingegno. A quanto sembra, la questione dell’insolvibilità viene sempre dipinta con apparente allegria negli standards; e ‘’risolta’’, oltre che con la speranza nel futuro, con una spensieratezza e un’ironia sorprendenti. Come a voler significare che la musica è al di sopra di tutto.

Adrien Evangelista ENSEMBLE FEDERICO II JAZZ ORCHESTRA - DUO

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Perché non bisogna avere paura della globalizzazione?

La globalizzazione non è un concetto estraneo

alla nostra tradizione sociale, culturale ed economica.

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Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo

www.comeallacorte.unina.it

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Ferruccio de Bortoli

Nato a Milano il 20 maggio 1953

Laureato in giurisprudenza all’Università

degli Studi di Milano

Giornalista professionista dal 1973. Al

Corriere ha cominciato nel 1979 come

cronista per poi passare alle pagine

economiche.

E’ stato caporedattore dell’Europeo e del

Sole 24Ore.

Nell’aprile del 1987 torna al Corriere con

la qualifica di caporedattore dell’economia

e commentatore economico.

Vice Direttore del Corriere della Sera nel dicembre del 1993

E’ stato nominato Direttore del Corriere della Sera l’8 maggio 1997

Lascia il Corriere della Sera il 14 giugno 2003

E’ stato nominato Amministratore Delegato di Rcs Libri il 27 giugno 2003

E’ stato Presidente della Casa Editrice Flammarion S.A. e Vice Presidente dell’Associazione Italiana Editori

(A.I.E.)

Dal 10 gennaio 2005 è Direttore Responsabile del Sole 24 Ore e Direttore Editoriale del Gruppo Sole 24-

Ore.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II economia italiana e la sfida del mercato globale

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

L’ECONOMIA ITALIANA E LA SFIDA DEL MERCATO GLOBALE Ferruccio de Bortoli Direttore del Sole 24 Ore

Prima parte

Perché non bisogna avere paura della

globalizzazione? La prima risposta istintiva è

nella storia del nostro Paese, protagonista attivo

o passivo di successivi fenomeni di

globalizzazione: dall’impero romano, alla Firenze

dei banchieri, alla Genova dei commerci, alla

Venezia dell’espansione a Oriente, alla Napoli

capitale del mediterraneo. Nel 1806 Napoleone

costruiva in appena tre anni la strada del

Sempione, grazie alla quale Milano si apriva ai

commerci europei. E nel 1906, con il traforo e

con l’esposizione universale, la città sarebbe

diventata quella che oggi è un po’ Shanghai, cioè

la frontiera dell’interscambio europeo e

mondiale. Purtroppo, nel 2006 non abbiamo

potuto assistere ad alcuna inaugurazione di

infrastrutture che potessero riaffermare la

centralità del nostro Paese lungo le rotte

dell’economia, né nel tracciato subalpino del

cosiddetto corridoio 5, tra Lisbona e Kiev, né

lungo il corridoio 1, l’asse Palermo - Napoli –

Berlino - San Pietroburgo, né nell’ammo-

dernamento dei porti che consentono alle merci

del sud est asiatico un vantaggio di cinque giorni

nell’approdo al mercato nordeuropeo. La realtà è

che dovremmo avere paura di essere esclusi

dalla globalizzazione o di averne troppo poca.

La globalizzazione non è un concetto

estraneo alla nostra tradizione sociale, culturale

ed economica. Questa è la tesi di fondo del mio

intervento. Noi siamo sempre stati interpreti

coraggiosi della varie fasi della globalizzazione,

sia quando l’abbiamo imposta agli altri, non

sempre con mezzi pacifici, sia quando l’abbiamo

subita, non sempre senza traumi e violenze,

traendone esempio e vantaggio, reiventandola

tutte le volte. Thomas Mann fa dire al

protagonista della Montagna Incantata “Voi

italiani avete inventato i cambi e le banche, che

Dio ve lo perdoni, ma gli inglesi inventarono la

dottrina economica, cosa che il genio dell’uomo

non potrà mai perdonare”.

Dopotutto è vero, in quel 1806 già

citato, nasceva, nei dintorni di Londra, John

Stuart Mill, cui si deve il contributo forse più

importante nell’elaborazione dell’economia

politica basata sui principi di libertà e

responsabilità. Pochi anni prima, nel 1776, era

apparso il celeberrimo La Ricchezza delle Nazioni

di Adam Smith, uno scozzese del quale non va

dimenticato il contributo come filosofo morale.

Ma se si legge la storia del pensiero economico

italiano, scritta da Oscar Nuccio, si comprende

che è luogo comune l’idea diffusa, anche da noi,

che solo l’etica protestante, a differenza di quella

cattolica, assicuri le condizioni culturali e sociali

perché un’economia improntata allo scambio e al

profitto possa svilupparsi al meglio. E quello che

dice il personaggio di Mann, rispetto alle colpe

anglosassoni nella teoria economica non appare

dunque del tutto vero.

Il saggio sull’Avarizia di Poggio

Bracciolini del 1428-29 fa scrivere a Nuccio:

“Non è certo la teoria dell’interesse individuale di

Smith, ma con tre secoli e mezzo d’anticipo ne

preannuncia la sostanza di fondo”. Cesare

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Beccaria tracciò i suoi principi di economia

pubblica nel 1769, prima del trattato del filosofo

Smith e prima che l’esigente e autoritario padre

di Stuart Mill decidesse di smentire il suo credo

malthusiano mettendo al mondo nove figli tra

cui il precoce John. Certo, gli Stuart Mill ebbero

la possibilità di entrare nella Compagnia delle

Indie, che noi italiani non abbiamo purtroppo

mai avuto, ma le cronache di questi giorni ci

dicono che la globalizzazione si fa anche con una

composita compagnia di viaggio tra Delhi e

Calcutta, con governo e imprenditori.

Nella Notizia de’ cambi, Bernardo

Davanzati offre uno spaccato sulla grande

inflazione del Cinquecento, provocata

dall’afflusso di oro e argento dall’America, che

ha qualche analogia con l’attuale eccesso di

liquidità che tiene bassi i tassi d’interesse

mondiali e sostiene i corsi di Borsa e le

quotazioni immobiliari. Né la Spagna, né l’Italia

di allora seppero sfruttare quel momento che

andò a quasi totale beneficio dei grandi centri

commerciali di Fiandre e Olanda. Davanzati,

fiorentino, abbandonò il commercio della lana

per quello della seta, e lo fece trasferendosi a

Lione, prima di tornare nella sua città natale per

lasciarci uno scritto che gli inglesi tradussero nel

1646 (A discourse upon coins) considerandolo

un inno al libero commercio.

Anche il trattato di Antonio Serra del

1613 risente dell’effetto della globalizzazione

successiva alla conquista spagnola dell’America.

Un mercantilista, Serra, un po’ più liberale, che

però seppe mettere in guardia la società del

tempo dal pericolo della perdita di stimoli al

lavoro e al commercio che deriva dal crescere

del benessere e qualche volta da un vero e

proprio stato di opulenza. L’esempio riguardava

in particolare gli spagnoli impigriti, ma potrebbe

adattarsi anche al senso di appagamento tipico

delle classi dirigenti attuali, non solo italiane, di

fronte alla concorrenza dei nuovi Paesi

produttori. Non sappiamo l’effetto che su Serra

fece il carcere al quale fu associato, dicono i

maligni, per competenza monetaria non proprio

accademica. Il Settecento illuminista italiano è

ricco poi di economisti, magari noti per altri

studi, specie di diritto pubblico, che diedero un

importante contributo, soprattutto a Milano e a

Napoli, dove Antonio Genovesi fu il primo

studioso al mondo a detenere nel 1753 una

cattedra di economia.

Non dobbiamo avere paura della

globalizzazione, perché l’abbiamo sempre avuta.

Sono solo cambiate le modalità e le dimensioni.

Nei secoli dal XII al XV, ha scritto Carlo Cipolla,

gli italiani furono all’avanguardia non soltanto

nel progresso economico ma anche in quello

tecnologico. Parte della tecnologia meccanica fu

assimilata, per poi migliorarla, dagli orientali e

dagli arabi. Copiammo noi allora, come durante

il cosiddetto miracolo economico degli anni

Cinquanta, come copiano loro oggi. L’economia

delle città, nel Medioevo e nel Rinascimento,

assomigliava molto a quella degli attuali distretti

industriali. Il declino del Seicento, indotto dalla

perdita della centralità geografica e dal crollo

dell’industria tessile e delle costruzioni navali, fu

accelerato anche dalla resistenza al

cambiamento di corporazioni troppo chiuse e dal

comportamento di molte ricche famiglie (ne

avevamo allora più degli altri Paesi con cui ci

confrontiamo oggi) che scelsero l’ostentazione

del loro potere spendendo nella costruzione di

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fastosi palazzi e residenze, piuttosto che

investire in nuove produzioni e nuove attività. E

questo aspetto del rapporto fra rendita e profitto

ha qualcosa di straordinariamente attuale, anche

se il turismo delle nostre città d’arte

sentitamente ringrazia.

Una stima contenuta nel libro di Vera

Zamagni Introduzione alla storia dell’economia

italiana vede il prodotto interno lordo del

Cinquecento superiore grosso modo di un quarto

di quello dei Paesi Bassi e dello stesso Regno

Unito. Insomma, se guardiamo al contributo alla

crescita economica fra Paesi emergenti e Paesi

avanzati, non vi è nulla di nuovo, quello che sta

accadendo oggi ha semplicemente modalità e

velocità del tutto diverse.

La globalizzazione di cui parliamo oggi,

sia quella considerata ineluttabile e virtuosa da

parte di Thomas Friedman, o detestabile e

pericolosa corruttrice delle menti e delle

diversità culturali locali, come la intende il

sociologo francese Pierre Bourdieu, si può

definire in molti modi. Vi proporrei quella

contenuta nel libro di Jagdish Bhagwati Elogio

della globalizzazione, quel fenomeno che

consiste “nell’integrazione di economie nazionali

nell’economia internazionale attraverso gli

scambi commerciali, gli investimenti diretti esteri

da parte delle imprese, i flussi di capitale a

breve termine, i flussi internazionali di lavoratori

e di persone in genere, ma soprattutto di

“cervelli”, e i flussi di tecnologia.” Nella società

della conoscenza le informazioni sono disponibili

in tempo reale e ovunque. E i media sono i

fattori che contraddistinguono più di altri questa

fase storica di integrazione delle diverse

economie. La globalizzazione ha esteso l’area del

benessere a Paesi che prima erano esclusi. Ha

sottratto dalla fame e dall’indigenza milioni di

individui, persino in quell’Africa che grazie al

rialzo dei corsi delle materie prime e in

particolare al boom cinese, può vedere per la

prima volta nella propria storia indicatori

economici positivi. Un solo dato, significativo:

negli ultimi dieci anni gran parte del mondo in

via di sviluppo che è sempre stato debitore, è

oggi creditore. I risparmiatori cinesi e asiatici

detengono la maggior parte del debito

americano. Queste condizioni di fondo

dell’economia mondiale, che tengono inflazione e

tassi d’interesse a livelli storicamente bassi e

consentono un grado di utilizzo

straordinariamente elevato della leva finanziaria

sono tali da non escludere né crisi né rotture

improvvise del ciclo.

I critici della globalizzazione si

concentrano su diversi aspetti negativi. Il divario

crescente fra Paesi poveri e ricchi; la distruzione

di posti di lavoro nelle economie più mature (ed

è significativa la svolta neoprotezionista dei

democratici americani, specie ora che

controllano il Congresso), a causa di una

concorrenza invincibile soprattutto per il costo

della manodopera. Il deterioramento

dell’ambiente specie da parte dei nuovi

protagonisti della globalizzazione che hanno

scarsa cultura ecologica (come rivela l’ultimo

rapporto Ipcc, la Commissione intergovernativa

sui cambiamenti climatici dell’Onu) oltre a non

rispettare diritti civili e politici.

Quella dell’ambiente sarà la grande sfida

dell’homo sapiens nei prossimi anni. Le grandi

nazioni, soprattutto quelle che si sono affacciate

ai primi posti come Cina, India, Russia, Brasile,

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riusciranno ad affrontare il fenomeno del global

warming? Saranno in grado di non oltrepassare

quella soglia della irreversibilità che il presidente

francese Chirac giudica ormai vicinissima? Non

sarà soltanto nel controllo delle emissioni di

anidride carbonica, nella disciplina nel consumo

di combustibili fossili e nella ricerca di energie

rinnovabili e pulite, che si misurerà la capacità

delle principali economie di superare

l’emergenza ambientale. La vera sfida sarà nel

cambiare radicalmente i modi di produzione, di

consumo e di vita nelle grandi città, modi ancora

oggi legati all’idea che acqua, aria, spazio siano

beni disponibili in quantità illimitate e a costi

irrilevanti.

Una prova difficile per la scienza

economica, soprattutto quella ispirata ai principi

liberali di Smith e John Stuart Mill, i quali

temevano, e per certi versi si auguravano, uno

stato stazionario delle economie sulla via dello

sviluppo, ma certo non immaginavano che la

globalizzazione avrebbe ridotto il mondo a un

condominio affollato, sporco e caotico. Una

prova drammatica per le democrazie occidentali.

Perché se il mercato non appare il mezzo

migliore per affrontare l’emergenza climatica, la

politica tocca ogni giorno con mano quanto sia

difficile ottenere il consenso su questi temi. Le

difficoltà che incontrano i nostri comuni nel

conciliare le esigenze della mobilità con quelle

delle salvaguardia della salute pubblica sono

significative. Ma è probabile, come dimostra la

svolta ambientalista del governatore della

California Schwarzenegger, che la politica trovi

nuovi consensi e slanci inediti nel promuovere

pubbliche sensibilità per l’ambiente che,

diversamente dal passato, sono bandiera anche

dei conservatori e delle destre (si guardi alle

scelte dell’inglese Cameron).

Seconda parte

In tutto questo scenario qual è la

posizione competitiva dell’economia italiana?

L’Italia ha perso quote di mercato nel commercio

internazionale, dal 5 per cento del ’90 al 3,6 per

cento del 2005, ma è anche vero che altri Paesi

industrializzati hanno fatto peggio. I settori delle

cosiddette quattro A (abbigliamento-moda;

arredo-casa; alimentari-bevande; automazione-

meccanica) hanno avuto nel 2005 un surplus di

85 miliardi di euro, purtroppo quasi annullato dal

deficit energetico, ma mostrano soprattutto nelle

imprese di media dimensione una vitalità

straordinaria, una capacità di innovare prodotti e

processi puntando sul marchio e su una

produzione unita al servizio ritagliata sulle

necessità di un ceto medio globale e crescente

valutato nel mondo in circa 100 milioni di

persone. La competitività dei distretti industriali

italiani (105 censiti dall’Istat) è messa a dura

prova dall’inefficienza delle infrastrutture e dai

ritardi della burocrazia e dai costi della politica,

di un Paese lento e anziano, soprattutto nella

sua dimensione pubblica, cioè in quella parte

non esposta alla concorrenza internazionale, cioè

esclusa dalla globalizzazione. Secondo uno

studio dell’università svedese di Groningen per il

centro studi di Washington Conference Board,

l’Italia sette anni fa aveva una produttività del

lavoro superiore a inglesi e tedeschi. Nel 2006

un’ora di lavoro in Italia creava prodotto lordo

per 45,73 dollari, superata dalla Gran Bretagna

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e dalla Germania. Con gli Stati Uniti a quota 50,

dove si lavora molto di più che nella media

europea.

La crescita dell’economia italiana è da

più di un decennio inferiore alla media europea e

anche l’attuale congiuntura economica appare

più trainata dalla ripresa tedesca che dalla

domanda interna e dalla nostra propensione al

rischio, all’investimento. Il vero tema è la

perdita di produttività che costantemente si

registra nel nostro Paese, a differenza di quello

che accade alle economie con le quali siamo

soliti confrontarci, anche e soprattutto per una

carenza di qualità del capitale umano. E

soprattutto per la insufficiente spinta dei servizi

che in un’economia moderna valgono il 70 per

cento del reddito nazionale. I servizi creano più

lavoro, non sono delocalizzabili e, in una certa

misura, sono protetti dalla concorrenza

straniera. Nel turismo eravamo al primo posto

nel mondo, oggi siamo al quinto. Il turismo non

è delocalizzabile ed è un settore che comprende

tutti gli altri: industria, trasporto, beni culturali.

La scarsa propensione delle imprese e

delle istituzioni pubbliche alla ricerca è un altro

motivo di preoccupazione. E ciò non dipende

solo dalla ridotta dimensione delle nostre

imprese (solo 10 presenti nella classifica Fortune

Global 500 contro le 38 della Francia le 35 della

Germania). Il nanismo delle nostre aziende si

riflette pesantemente sulla spesa in ricerca e

sviluppo. Sono soltanto cinque i gruppi in Italia

che spendono in ricerca e sviluppo più di 100

milioni di euro l’anno.

In realtà vi è un problema di

preparazione e consapevolezza della classe

dirigente, non solo di quella politica purtroppo

(forse troppo vecchia e poco internazionalizzata,

dunque costituita da protagonisti provinciali ma

non cittadini della globalizzazione), che non sa

programmare il futuro e forse egoisticamente se

ne disinteressa. Questo deficit culturale è più

preoccupante della montagna del nostro debito

pubblico, il terzo più grande al mondo, che limita

investimenti in infrastrutture ed educazione a

tutto vantaggio di burocrazie pesanti e

autoreferenziali, pubblica amministrazione

inefficiente e pensioni insostenibili nel medio

periodo. Nel suo recente intervento al Forex, il

governatore della Banca d’Italia Draghi ha

ricordato che il tasso d’occupazione nella fascia

di età tra i 55 e i 64 anni supera di poco il 31 per

cento, oltre dieci punti sotto la media europea.

Oggi però si discute più di pensioni, di come

tenerle alte, che di istruzione e ricerca, di

formazione e internazionalizzazione. Non

abbiamo un’idea di futuro. Il nostro vero deficit è

culturale. Il nostro vero grande debito è quello.

Senza un’adeguata formazione, senza uno

spirito imprenditoriale aperto al rischio, senza il

premio al merito e lo slancio all’innovazione, il

posto che la globalizzazione ci riserva è quello di

un mercato di consumo, il ruolo di anziani

gregari egoisticamente ripiegati su se stessi e

preoccupati più di importare badanti ucraine che

ingegneri indiani.

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UN "GLOBALIZZATO" STA MEGLIO DI ALTRI? Massimo Marrelli

Professore di Scienze delle Finanze Università degli Studi di Napoli Federico II

Il dibattito relativo agli effetti della

globalizzazione sulla distribuzione mondiale della

ricchezza è molto vivo nei media e fra la gente

comune. Da un lato si sostiene che la

globalizzazione è una grande opportunità per far

crescere l'ammontare mondiale di ricchezza e,

quindi, del benessere, dall'altro, la globa-

lizzazione è bollata come l'ennesima forma di

sfruttamento delle classi più povere da parte

delle "multinazionali". Proviamo a fare un pò di

chiarezza.

Senza voler entrare in analisi più

sofisticate (ma anche più corrette) si può dire

che il benessere di una collettività dipende da

quanta è la ricchezza prodotta ma anche da

come essa è distribuita tra gli individui.

Sicuramente la ricchezza mondiale è

cresciuta negli anni, come si può osservare dal

confronto fra le due figure relative al 1970 e al

2000.

Dalle medesime figure però si può

osservare che è cambiata anche la distribuzione

della ricchezza tra gli individui.

Un primo problema è quello di analizzare

la distribuzione dei redditi medi pro-capite tra

paesi; esiste una abbondante letteratura in

merito che fornisce risultati apparentemente

contraddittori. Alcuni lavori giungono alla

conclusione che si è assistito ad una riduzione

degli indici di concentrazione a partire dagli anni

novanta (Sala i Martin, Melchior et al.), secondo

questi autori, quindi la ricchezza è distribuita in

maniera più uguale (anche se resta concentrata

nelle mani di pochi). L'indiano medio è più

vicino allo statunitense medio. Le differenze

osservate fra i diversi studi derivano, in gran

parte, dalla qualità dei dati e dall'insieme dei

paesi considerati nell'analisi: in generale, però,

si può dire che il fenomeno della riduzione

dell'indice di concentrazione (maggiore

eguaglianza) è vero se si confrontano paesi

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sviluppati e paesi in via di sviluppo (in gran

parte asiatici e alcuni sud-americani), mentre

questo fenomeno non si osserva ( o si osserva

addirittura quello contrario) se si prendono in

considerazione i paesi sottosviluppati (gran parte

dei paesi africani).

Se si esamina, invece, la distribuzione

dei redditi dei singoli individui sia tra paesi che

all'interno dei paesi, si assiste ad un generale

incremento delle misure della diseguaglianza per

tutti gli anni ‘80 e ‘90 e a una sostanziale

stabilizzazione di tali indici nel XXI secolo. Le

distanze tra paesi si avvicinano ma quelle tra gli

individui aumentano.

La domanda che è legittimo porsi in

questo contesto è: in che misura questi

fenomeni derivano dalla globalizzazione?

Ancora: cosa è la globalizzazione? Come

si misura?

Sulla definizione di globalizzazione si

sono cimentati tutti: dai sociologi, agli

antropologi culturali, ai filosofi, ecc. Non credo

che si senta il bisogno di aggiungere la mia a

questa pletora di definizioni.

Qui voglio solo ricordare che una misura

comunemente usata dagli economisti è basata

su un indice composito che tiene conto del grado

di apertura internazionale del mercato (definita

come la somma delle importazioni e delle

esportazioni divisa per il prodotto interno lordo),

del numero di contatti (telefonici, internet,

postali ecc.) con l'estero e di altre variabili più o

meno esoteriche che un economista ha giurato

di non rivelare se non agli adepti.

Milanovic e altri ricercatori della World

Bank trovano effetti significativi della

globalizzazione, così misurata, sulla distribuzione

del reddito. In particolare, risultati

particolarmente robusti indicano che la

globalizzazione peggiora la quota di ricchezza dei

molto poveri, migliora invece quella degli

individui medi rispetto a quelli molto ricchi. Se si

considera che i molto poveri sono gli individui

che non hanno avuto accesso a sistemi di

istruzione e spesso sono tali proprio perché non

hanno avuto accesso all'istruzione, forse questi

risultati costituiscono un forte appello per una

globalizzazione delle opportunità di istruzione.

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IL SISTEMA AGROALIMENTARE E AMBIENTALE TRA SVILUPPO E SOSTENIBILITÀ Giancarlo Barbieri

Professore di Produzioni Vegetali Università degli Studi di Napoli Federico II

È davvero necessario, signori, che io vi

dimostri l'utilità dell'agricoltura? Chi dunque

provvede ai nostri bisogni, chi dunque ci fornisce

gli alimenti se non l'agricoltore? Come ci

vestiremmo noi, come ci nutriremmo senza

l'agricoltore? (Flaubert, "Madame Bovary").

E’ ancora attuale questa domanda,

riletta dopo 150 anni, rispetto alla complessità

del sistema agricolo-alimentare-ambientale che

da allora si è andata sviluppando?

La risposta è ancora più valida,

guardando ai mutamenti che hanno

accompagnato l'evoluzione di questo sistema:

sessanta anni fa, un agricoltore produceva cibo

solo per 2-3 persone, oggi ne alimenta in media

25 con punte anche di 125 nei Paesi sviluppati.

E’ ancora più valida, considerando che ad inizio

2007 si è verificato un sorpasso irreversibile: su

scala mondiale gli addetti all’agricoltura sono

stati superati in numero dagli addetti agli altri

settori produttivi! E questi mutamenti sociali

sono stati resi possibili dall’immaterialità della

conoscenza e dalla materialità della tecnologia

applicate al sistema agro-alimentare. Ma

l’opinione pubblica è spesso disorientata e

reagisce in modo emotivo, criticando gli attuali

mezzi di produzione e la potenzialità di

progresso della ricerca (comprese le

biotecnologie vegetali).

Ma, aldilà della storia e della cronaca,

qual è il ruolo attuale e di prospettiva del

sistema agro-alimentare? Schematicamente due

sono le linee fondamentali su cui esso si muove

oggi nello stabilire i modi di produrre:

sostenibilità e qualità dei prodotti.

L'utilità dell'agricoltura, infatti, si declina

oggi collegandola direttamente alle tematiche

della sicurezza e qualità alimentare ed

ambientale in una prospettiva di sostenibilità

dello sviluppo a livello locale e internazionale.

Modelli di sviluppo sostenibili sono richiesti sia

dal mercato sia dalle esigenze proprie del

sistema produttivo, in un contesto in cui in

Italia, alla difficile competizione sul piano del

costo di produzione, si risponde aumentando il

valore aggiunto del prodotto. Queste due linee,

che guidano l'evoluzione della produzione e del

mercato dei nostri prodotti agroalimentari, si

incontrano (ma spesso si scontrano) con

- la globalizzazione, che attraverso

l'aumento degli scambi e l'omologazione degli

stili di vita, dà luogo ad un inasprimento della

competizione ma apre anche nuove possibilità

per i prodotti ad elevata qualificazione;

- i pericoli in evoluzione, come i

cambiamenti climatici, ed il sempre attuale tema

della sicurezza alimentare e, di conseguenza, del

controllo delle catene alimentari e delle relative

forme di garanzia;

- la crescita della domanda di varietà da

parte del consumatore, che si riflette in una

maggiore segmentazione del mercato;

- il diffondersi di una visione del cibo

come esperienza culturale, come manifestazione

di uno stile di vita che, unitamente alla maggiore

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Page 15: Come alla Corte di Federico II

COME ALLA CORTE DI FEDERICO II economia italiana e la sfida del mercato globale

attenzione per gli aspetti di sostenibilità e

sicurezza, stimola la domanda di prodotti

“particolari” (tipici, tradizionali, biologici), che

spesso sono testimonianza delle culture locali ed

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elemento basilare del patrimonio alimentare

locale (sconfinando a volte nell’archeologia

alimentare).

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II economia italiana e la sfida del mercato globale

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PATRIMONIO CULTURALE, CREATIVITÀ, SVILUPPO ECONOMICO Luigi Fusco Girard

Professore di Economia Urbana Università degli Studi di Napoli Federico II

L’Italia è presente con successo nel

mercato mondiale per la moda, il design, il

patrimonio di arte, creatività, per il suo

straordinario paesaggio culturale. Saprà

mantenere questa sua posizione strategica? In

Italia (ed anche in Campania) si registra una

delle maggiori concentrazioni di siti riconosciuti

dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Ciò

suggerisce di ripensare l’approccio alle politiche

di sviluppo, valorizzando con la massima

attenzione questa qualità di eccellenza, se si

vuole rimanere competitivi. Le insidie invece

sono molteplici e crescenti, e vanno dagli abusi

grandi e piccoli sul territorio alla edificazione

scadente, a mali intesi processi di valorizzazione

turistica. La crescita spettacolare del settore

turistico nel Mediterraneo fa pensare che questo

diventerà ben presto un settore chiave verso il

quale saranno convogliate molte risorse

finanziarie, soprattutto nel Mezzogiorno. Il

patrimonio di risorse locali, di storia, cultura,

paesaggio, ambiente sarà sempre più al centro

delle strategie di sviluppo delle città e delle

regioni, per costruire una immagine attraente da

“vendere” sul mercato globale. Poiché il turismo

è responsabile del 5-7% delle emissioni di

anidride carbonica nell’Unione Europea, tali

investimenti nella riqualificazione del patrimonio

culturale dovrebbero essere congruenti con

l’obiettivo prioritario di conservare la stabilità del

clima. Dovrebbero essere quindi caratterizzati

dall’efficientamento energetico e l’uso di energie

rinnovabili, per ridurre l’inquinamento e l’effetto

serra, e per generare altresì nuove filiere

produttive ed occupazionali.

Lo scopo del marketing urbano/terri-

toriale non è solo quello di attrarre turisti, ma

dovrebbe anche attirare investimenti esterni,

competenze professionali altamente specie-

lizzate, attività ad alto contenuto di conoscenza.

Infatti il capitale globale è attratto in

primo luogo dalla “qualità del territorio”, intesa

non soltanto in termini visivo/percet-

tivi/ambientali ma anche di disponibilità di

servizi specializzati, sicurezza, servizi alla

persona etc, da cui dipende la stessa qualità

della vita.

Occorre allora innanzitutto integrare la

conservazione del patrimonio artistico/paesag-

gistico con la produzione di nuova architettura di

massima qualità. Il restauro, il recupero, la

riqualificazione e l’architettura di qualità

assumono una importanza particolare per la loro

capacità di contribuire ad aumentare il valore dei

“luoghi” ed a produrne dei nuovi. Architettura e

restauro sono sempre più elementi chiave

dell’economia della creatività.

Inoltre, poiché il capitale globale è molto

mobile e pertanto, se trova migliori condizioni

altrove, lascia il territorio, con tutti gli impatti

negativi in termini di disoccupazione etc. occorre

costruire una “ambiente culturale” molto

intenso, investendo nella conoscenza,

nell’educazione/formazione, nella ricerca, nella

creatività per aumentare il vantaggio

comparativo.

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Page 17: Come alla Corte di Federico II

COME ALLA CORTE DI FEDERICO II economia italiana e la sfida del mercato globale

Questo capitale immateriale rappresenta

l’essenza stessa dello sviluppo. Possiamo

restaurare tutti i siti UNESCO ma se manca

questo capitale non c’è sviluppo locale nel lungo

periodo, perchè manca la capacità di fare rete,

di cooperare, di coordinare attività/azioni.

Orbene, c’è reale interesse a produrre

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

questo tipo di ricchezza dal momento che essa

non si tocca, non si può vedere materialmente

ed inoltre produce frutti solo nel medio-lungo

periodo, mentre gli orizzonti temporali e le

priorità della economia e della politica sono

invece a breve termine?

Scavi di Oplonti

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II economia italiana e la sfida del mercato globale

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INTERVENIRE PER L’AMBIENTE CONVIENE ANCHE ECONOMICAMENTE Ugo Leone

Professore di Politica dell’ambiente Università degli Studi di Napoli Federico II

È da tempo ricorrente l’affermazione

secondo la quale intervenire per l’ambiente

conviene anche economicamente. Il concetto è

stato rilanciato con forza negli ultimissimi tempi

in seguito alla montante preoccupazione per il

surriscaldamento globale e alla necessità di

tagliare drasticamente le emissioni di gas serra.

Poiché queste provengono prevalentemente dai

combustibili fossili utilizzati per la produzione di

energia e per il movimento di tutti i mezzi di

trasporto, questi settori vengono studiati con

maggiore attenzione. Fra gli altri lo fa

un’indagine del settimanale “The Economist”

ripresa dall’ “internazionale” (Ecobusiness verde,

26 gennaio 2007), nella quale l’attenzione viene

quasi esclusivamente riservata alla produzione di

energia da fonti rinnovabili (sole e vento) e al

grande interesse di grossi gruppi finanziari ad

investire nell’impresa.

Dunque è vero: intervenire per tutelare

l’ambiente è non solo un dovere per i nostri figli

e nipoti che ce l’hanno dato in prestito, ma può

essere anche, come si usa dire, un’occasione per

trasformare la soluzione dei problemi

dell’ambiente in una convenienza economica. Gli

esempi sono molti e dimostrano che esiste un

rapporto molto stretto tra politica economica e

politica dell’ambiente, come si sostiene negli

ultimi Programmi di azione ambientale

dell’Unione Europea nei quali la politica

dell’ambiente viene individuata come importante

strumento di politica economica. L’Italia non

brilla per impegno in questo senso. Tuttavia a

leggere le proposte contenute nella legge

Finanziaria 2007 vi sono, in questo senso (sia

pur con scarse risorse dedicate), almeno due

tendenziali filoni: quello dell’efficienza energetica

e quello del trasporto cosiddetto sostenibile, i

quali, tra l’altro, dovrebbero confluire nel

comune obiettivo del rispetto del protocollo di

Kyoto tramite la riduzione delle emissioni di gas

serra.

Si tratta di un importante segno di

attenzione. Anche se alla base degli interventi

non si intravede ancora una “filosofia” che ponga

l’ambiente come destinatario di attenzione non

solo nei periodi di “vacche grasse”, quando la

maggiore disponibilità economica consente di

dedicare risorse anche a questo settore, ma da

utilizzare proprio per uscire dai periodi di

“vacche magre”.

Solo quando si sarà compreso che il

risanamento idrogeologico e antisismico del

territorio; il miglioramento della rete

acquedottistica; la soluzione dei problemi legati

alla produzione e smaltimento dei Rifiuti Solidi

Urbani, alla circolazione automobilistica e

all’inquinamento atmosferico nelle città per

fornire ai cittadini un territorio sicuro e un

ambiente vivibile, cioè una qualità di vita

effettivamente migliore; quando si sarà

compreso che realizzare tutto ciò significa anche

mettere in moto un grosso, importante e

virtuoso processo di politica economica, allora si

sarà verificata quella rivoluzione che va sotto il

nome di riconversione ecologica della società:

del modo di vivere e del modo di produrre.

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I BENI CULTURALI PER IL RILANCIO DEL SISTEMA ITALIA Stefano Consiglio

Professore di Organizzazione Aziendale Università degli Studi di Napoli Federico II

Declino, crisi, peggioramento,

decadenza, arretratezza…. Nelle analisi sullo

stato di salute dell’economia italiana l’utilizzo di

queste parole è sempre più ricorrente. Il sistema

produttivo italiano non sembra più in grado di

reagire alla concorrenza proveniente, da un lato,

dai grandi gruppi multinazionali che la fanno da

padrone nei settori cosiddetti high tech e

dall’altro dai paesi emergenti (India, Cina,

Brasile) che, grazie ai bassi costi, sono sempre

più competitivi nei settori più tradizionali e non

solo.

Per risalire la china e rilanciare il Sistema

Italia è necessario accettare la sfida della

competizione globale e puntare, con forza e

coraggio, tutte le proprie carte esclusivamente

su quei settori nei quali la nostra nazione

continua a presentare dei vantaggi competitivi

rispetto agli altri paesi del mondo.

Il settore dei beni culturali ha le carte in

regola per rappresentare uno dei pilastri della

strategia di rilancio del Sistema Italia. In questo

comparto l’Italia presenta, infatti, una serie di

punti di forza difficilmente imitabili e

fondamentali per costruire una leadership

mondiale ed in particolare un patrimonio

archeologico, storico e culturale unico al mondo

ed un sistema della ricerca e dell’alta formazione

caratterizzato dalla presenza di professionalità e

competenze di assoluto rilievo.

Per riuscire a valorizzare questo

patrimonio, però, è necessario uno sforzo

straordinario, da sviluppare su un lungo

orizzonte temporale, basato su: 1. un utilizzo

innovativo delle nuove tecnologie centrato non

esclusivamente sulla mera applicazione delle

tecnologie informatiche e della digitalizzazione,

ma su processi di trasferimento tecnologico in

grado di porre l’Italia all’avanguardia nel campo

delle tecnologie per la conservazione, la

salvaguardia, il restauro e la valorizzazione dei

beni archeologici e culturali; 2. un deciso ricorso

ad innovazioni organizzative finalizzate non già a

copiare modelli estranei alle nostre tradizioni,

ma a rafforzare la collaborazione tra i diversi

attori presenti nella filiera della conservazione e

valorizzazione dei beni culturali (centri di ricerca,

sovrintendenze, sistema museale, enti locali,

ecc.) e favorire processi di integrazione tra gli

operatori dei beni culturali ed il sistema turistico

allo scopo di costruire distretti culturali di

qualità; 3. un potenziamento delle competenze

manageriali del personale presente nel mondo

dei beni culturali.

Un grande progetto nazionale sui beni

culturali basato sull’innovazione tecnologica ed

organizzativa potrebbe rappresentare una svolta

in grado di esercitare un significativo impatto

sull’economia (più turismo culturale, più imprese

di ricerca, più imprese culturali, più presenza

dello Stato) e che al tempo stesso sia capace di

salvaguardare l’unicità di un patrimonio su cui si

fonda gran parte della nostra identità nazionale.

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LA PROSPETTIVA È “RIPOSIZIONARSI” Paolo Stampacchia

Professore di Economia e Gestione delle Imprese Università degli Studi di Napoli Federico II

I primi anni del nuovo secolo sono stati

caratterizzati, a livello globale, dalla crescita

travolgente delle economie dell’Oriente asiatico

e, parallelamente, da una sostanziale

stagnazione dell’economia dell’Europa

Occidentale, del Giappone e degli stessi Stati

Uniti. Questi differenti andamenti hanno

sconvolto in pochi anni le precedenti graduatorie

dei paesi per ricchezza prodotta, sono stati

generati dalla straordinaria convergenza di

alcuni processi giunti contemporaneamente a

maturazione negli ultimi anni del secolo scorso,

e sono destinati a lasciarci in eredità uno

scenario globale profondamente diverso dal

passato.

Fino alla fine degli anni ottanta

l’economia di mercato era contenuta in un’area

geografica relativamente ristretta, che

comprendeva, di fatto, il Nord America, l’Europa

Occidentale ed il Giappone e poteva contare su

meno di un miliardo di persone, ma in pochi

anni, si è estesa sostanzialmente a tutto il globo

ed attualmente può contare su di almeno

quattro miliardi di persone.

Questo straordinario ampliamento ha

coinciso con il completarsi del processo di

liberalizzazione degli scambi commerciali,

iniziato con gli accordi di Bretton Woods, e con

l’affermarsi a livello globale di sistemi di

telecomunicazione che hanno reso imme-

diatamente comunicanti due grandi vasi che

prima erano separati e diversamente pieni.

Il primo effetto è stato lo spostamento

epocale degli investimenti produttivi verso le

nuove aree dell’economia di mercato, in molte

delle quali erano già presenti competenze di

buon livello, disponibili ad operare con

remunerazioni molto minori delle corrispondenti

occidentali ed utilizzabili, perciò, per realizzare a

costi minori prodotti semilavorati e finiti da

offrire in Occidente.

Si sono avuti contraccolpi notevoli,

soprattutto nelle aree “marginali” delle zone

tradizionali dell’economia di mercato, da cui

sono stati dirottati investimenti che vi sarebbero

stati realizzati altrimenti e da dove si sono

allontanati insediamenti industriali che, attratti

in precedenza con incentivi temporanei, ne

avevano caratterizzato la struttura in epoche

precedenti.

Nell’attesa di un nuovo equilibrio

generale, che avverrà con la richiesta locale di

migliori livelli di vita e di più rigide prescrizioni

per le attività produttive, nelle zone di nuova

economia di mercato si sono già formati nuovi

ceti sociali ed una domanda di prodotti e servizi

di qualità, contenuto culturale e livello

tecnologico elevati. Queste aree non mancano di

competenze tecnologiche e di ricerca, ma i

caratteri ora richiamati indicano la via per il

futuro della nuova offerta occidentale ed italiana.

Molte imprese occidentali, però, sono diventate

anche “gestori di sistemi”, piuttosto che

produttori in proprio, ed hanno assunto il

controllo di processi le cui attività sono

distribuite in tutto il mondo; dall’altro, lo

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II economia italiana e la sfida del mercato globale

spostamento dei flussi di commercio

internazionale ha creato una nuova centralità

delle aree che, come quella meridionale,

consentono alle merci dell’Oriente asiatico di

raggiungere i mercati europei. In definitiva,

quindi, si tratta di gestire con oculatezza il

nuovo posizionamento internazionale

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

del nostro paese, che non può certo competere

in termini di PIL con Cina ed India, ma che nel

nuovo scenario globale può proporre prodotti e

servizi di qualità, tecnologia e cultura elevate

che, ora, hanno di fronte non più un piccolo

mercato “di nicchia”, ma un mercato potenziale

di almeno quattro miliardi di persone.

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• ASTRA MOVIES

www.astra.unina.it Giovedì e Venerdì ore 20.15 - 22.15 | Sabato e Domenica ore 18.15 - 20.15 - 22.15

dal 16 al 22 febbraio 2007: LETTERE DA IWO HIMA di Clint Eastwood

• CINEFORUM SHANGRI-LA

www.shangri-la.unina.it

le proiezioni si terranno di mercoledì alle 20:30 all'Academy Astra - Via Mezzocannone, 109 secondo il seguente calendario:

Ciclo Cibo e Cinema

20/12/06 Il pranzo di Babette di Gabriel Axel 24/01/07 La finestra di fronte Ferzan Ozpetek 14/02/07 La grande abbuffata di Marco Ferreri 21/02/07 Fa la cosa giusta di Spike Lee 07/03/07 Pomodori verdi fritti alla fermata del treno di Jon Avnet 21/03/07 Big night di Stanley Tucci 28/03/07 Banchetto di nozze di Ang Lee 11/04/07 Vatel di Roland Joffé 18/04/07 Mangiare bere uomo donna di Ang Lee 02/05/07 Tampopo di Juzo Itam 16/05/07 Il cuoco, il ladro, sua moglie e la sua amante di Peter Greenaway 31/05/07 La cena di Ettore Scola 20/06/07 Come l’acqua per il cioccolato di Alfonso Arau

Ciclo Qualcosa di nuovo

10/01/07 U-Carmen di Mark Dornford-May 31/01/07 L'uomo in più di Paolo Sorrentino 28/02/07 Tutto si illumina di Liev Schreiber 25/04/07 Il ritorno di Andrei Zvyagintsev 23/05/07 Elisabethtown di Cameron Crowe 06/06/07 Nuovomondo di Emanuele Crialese 27/06/07 Acqua tiepida sotto un ponte rosso di Shohei Imamura