Collana -...

39

Transcript of Collana -...

2017, ITI Edizioni, Milano

Collana

SAGGI

Sotto stelle diverse

Pier Luigi Lattuada

Sotto stelle diverse.

Autore: Pier Luigi Lattuada ©

Direzione scientifica: Pier Luigi LattuadaProgetto grafico, impaginazione: Lost Interval - www.lostinterval.comRedazione: Giovanna Calabrese, Ilaria Cislaghi, Elena Piccoli, Patrizia Rita Pinoli

Copertina: Claudia Castiglioni - www.claudiacastiglioni.blogspot.com

Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi elettronici, meccanici o altro senza l’autorizzazione dell’Editore.

© ITI Edizioni, Milano, 2017c/o Integral Transpersonal Institute Via Villapizzone, 26 - 20156 Milanotel.: 028393306email: [email protected] www.itiedizioni.com

Prima edizione: 1998, Xenia Edizioni Seconda edizione: ottobre 2017, ITI Edizioni ISBN cartaceo: 978-88-941160-4-5

5

INDICE

Prefazione alla seconda edizione 8introduzione 10

Capitolo I1. sotto stelle diverse 13 • Finalmente al mio posto 13 • L’epilogo della passione 14 • Una naturalezza antica 15

Capitolo II2. la magia dell’umbanda 20 • Il Brasile vuole il tuo cuore 20 • Un corso accelerato 21 • Mae Divina 23

• Il fondamento 31 • La chiarezza 36

Capitolo III3. la tradizione originaria 40 • Il cerchio sacro 42 • Notizie sul Candomblè 45 • La Camarinha 47

• Il viaggio verso il basso 51 • Una cultura della condivisione 58 • Le forze archetipiche 62 • Insegnamenti sciamanici 64 • Il discorso del lago 70

Capitolo IV4. orixàs 75 • Nutrire le forze 77

• Solo 91

6

• E vennero i fantasmi 94 • Un’intuizione 97

• Iniziato 98 • Oxalà 100 • Iemanjà 101 • Oxossi 101 • Iansà 102 • Oxum 103 • Xangò 103 • Ogun 104

• Amaçi: il battesimo 104 • Una prima spiegazione 106

Capitolo V5. le sette linee dell’umbanda 110

• La linea di Oxalà 111 • Exu 114 • La linea di Iemanjà 115 • La linea di Ogum 116 • La linea di Oxossi 118 • La linea di Xangò 120 • Oià-Iansà 122 • Oxum 123 • La linee di Yori e Yorimà 124

Capitolo VI6. l’umbanda, la storia e il mito 126 • Come nacque l’Umbanda 126 • La storia di Zèlio 127 • Le diverse anime dell’Umbanda 128 • Le radici dell’Umbanda 133

• Le radici amerindie 133 • Le radici africane 138

7

Capitolo VII7. la cultura del transe 143 • Nel locodromo 146 • Elsa la Gorda 150 • Sesso in Transe 153 • L’Exù di Rosanna 156

Capitolo VIII8. chiedi e ti sarà dato 158 • Il segreto dei segreti 162 • I guardiani della soglia 163 • Ascolta, piccolo uomo bianco 164 • L’acuto dei presi 170 • La fermezza nell’intento 172 • In fuga 176 • Il giudice che scioglie i tumori 179 • Guardare la luna 181

Capitolo IX9. nella foresta 191 • Gli occhi degli indios 196 • Due lezioni 198 • Il tuyabaeè-cuaà di Kikretun 200 • Riflessioni di uno scienziato con l’anima 205 • La liana che scende dai cieli 208 • Prendere o lasciare 210 • Il percorso infinito 211

bibliografia 218

8

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Mi fa tenerezza rileggere le pagine di questo libro oltre vent’anni dopo la sua prima stesura. L’idea, in occasione di questa nuova edizione, era di rivederlo o ampliarlo, ma rileggendolo ho avuto subito chiaro che non avrei toccato una virgola.

Alla tenerezza, via via si sono aggiunte una lieve smorfia di sorriso sul viso e le farfalle nello stomaco. Farfalle di gioventù e passione, svolazzanti lo slancio assetato della scoperta e dell’avventura.

Chissà cosa ne sarebbe stato di quel giovane, medico irrequieto, un po’ zuccone e aggressivo, senza il Brasile e le sue stelle diverse, i suoi orizzonti mozzafiato come le notti del Minas Gerais o quel corteo a buon mercato di lucida follia fatto di centri spirituali, comunità, villaggi, volti, personaggi?

Hai mai provato ad andare in cerca di funghi? Vagare per ore su per prati ondulati e boschi ombrosi senza trovare nulla e poi all’improvviso quell’abbondanza che non ti sembra vera.

A un tratto la ricchezza è tale che ti chiedi se davvero abbiano così valore tutti quei porcini che ti infili nel cestello. Sì, hanno valore e te ne rendi conto meglio con il tempo.

Così è successo a me, nulla di quello che sono sarei senza quelle lunghe cavalcate per le praterie del non senso, dell’irragionevolezza, del trascendente, del pensiero magico sparso come prezzemolo su ogni volto che ho incontrato.

Dov’era la bellezza, dov’era il valore? Allora non me lo chiedevo, spinto dall’arsura dell’anima che voleva abbeverarsi ad ogni fonte, tanto più bizzarra tanto meglio, tanto più lontana da quella ragionevolezza arida e seriosa del mondo accademico occidentale, tanto meglio.

Gente che taglia con coltelli arrugginiti il corpo dei malati, gente che parla coi morti ai cimiteri, gente rapita da alieni e tornata dopo un anno di permanenza nell’altrove, gente, un’intera comunità,

9

passata da un “portale inter-dimensionale” e scomparsa per sempre dal pianeta terra, ma non abbastanza da non mandare istruzioni ai fratelli lì rimasti. Piloti di aereo che incontrano in volo entità che li costringono/convincono ad atterrare e a fondare una comunità spirituale, giudici del foro posseduti dallo spirito di mendicanti che curano AIDS e sciolgono tumori in due minuti, gente che racconta di avere perduto una mano e di averla ricostruita con la forza del pensiero, oppure medici barbuti che compiono viaggi astrali riportando oggetti preziosi dai luoghi che visitano, dimostrando così la veridicità dei loro spostamenti, maghi che eseguono fatture di morte in nome delle entità delle tenebre, intere comunità di medium che vivono secondo gli insegnamenti di una donna analfabeta che riceve in psicografia gli insegnamenti, bevande portentose che svelano il velo dell’illusione e con esso la voce del maestro, matti veri che vivono insieme a matti per gioco, sensitivi, medici, infermieri, tutti insieme appassionatamente. Sciamani che succhiano il male o si trasformano in animali, invasati che si credono la reincarnazione di Gesù Cristo e lo fanno credere a decine di seguaci devoti, medium che materializzano teschi e casse da morto per curare dal malocchio, indios mendicanti alle porte dei locali, tagliatori di legname assassini, cercatori d’oro che calano a mucchi il venerdì sera su fanciulle rese schiave e costrette a vendersi per pagare i debiti contratti con i loro aguzzini, uomini neri con i loro mitra neri che ti puntano in faccia urlando, squadroni della morte che spazzano le strade dalla “feccia” costituita dai bambini di strada che cercano di sopravvivere controvento, figli rinchiusi al buio di quattro pareti di legno e lamiera da madri disperate per proteggerli dalla violenza della favela, anaconda che si snodano di traverso e sbarrano la strada alla tua canoa sul fiume e molto ancora che tralascio per non apparire ridondante.

Buon viaggio a chi vorrà accompagnarmi.Gordola, 18 Settembre 2017

10

INTRODUZIONE

Questo libro parla di “esperienze interiori”.L’esperienza interiore è come un bicchiere d’acqua fresca: si fa

prima a berlo che a parlarne. E quando abbiamo sete, quello che vogliamo è bere. Hai mai cercato di capire un bicchier d’acqua? Se lo hai fatto, evenienza assai improbabile, certamente in quel momento non avevi sete.

Il primo dato che voglio fornirti, pertanto, è che questo libro è scritto per chi ha sete di chiare dolci e fresche acque, e vuole bere.

Voglio renderti partecipe dell’acqua che ho bevuto e non voglio che tu la capisca, ma che tu la condivida con me.

Io credo, infatti, che anche se tu capissi la mia esperienza interiore non ti avrei dato nulla se non un mucchio di informazioni che andrebbero a ingorgare ulteriormente la tua povera mente già così oberata dal peso di tutta quella “spazzatura informazionale” alla quale siamo, nostro malgrado, quotidianamente sottoposti.

Quello che voglio è che tu possa dissetarti se hai sete, oppure semplicemente partecipare all’avventura di un uomo assetato che ha trovato, nel deserto dell’ordinaria esistenza, alcune oasi nelle quali rinfrescarsi.

Di queste oasi io conservo vivo il ricordo. A volte me ne dimentico, ma più spesso le tracce lasciate dall’esperienza dell’acqua nella mia memoria cellulare mi indicano sentieri attraverso i quali ritrovare quella freschezza dentro me. Perciò, ti prego, non preoccuparti solo di capire quello che leggi, ma soprattutto cerchiamo di camminare insieme. Questo è il mio sentiero verso l’acqua dell’essenza e della chiarezza, non potrà essere il tuo, ma forse, strada facendo, potrai scoprire segnali che ti faranno progredire sulla tua via. I segnali di cui parlo non sono e non saranno mai certezze preconfezionate, spiegazioni lineari o conoscenze intellettuali, bensì intuizioni, emozioni, visioni improvvise, insight o slanci creativi. Se leggendo

11

questo libro ti capiterà di provare, anche solo per qualche istante, la gioia di vivere l’impatto con una cascata o lo stupore per la bellezza di uno scorcio di foresta, piuttosto che la compassione per i tuoi simili o l’anelito all’esplorazione dell’oceano della coscienza, io mi riterrò soddisfatto. Se poi dovesse succederti di avere comprensioni improvvise circa la tua esistenza, di trovare qualche stimolo in più per il tuo viaggio verso la sorgente o anche semplicemente di avvertire la sete, allora avrò realizzato il suo intento.

Nello specifico, verrà qui raccontata la storia di un piccolo uomo bianco, medico e occidentale, gettato in pasto a una tradizione spirituale “selvaggia” che lo ha letteralmente divorato e “restituito diverso” al suo mondo. La tradizione in questione è quella dei culti sincretici afro-brasiliani e il piccolo uomo bianco sarei io, come senz’altro avrai intuito.

Il contesto dell’esperienza è quello del Brasile di alcuni anni fa e i fatti descritti mi sono tutti realmente accaduti seppure la sequenza temporale sia stata rimaneggiata per esigenze di narrazione. Anche le persone citate sono tutte reali, solo i nomi sono stati modificati per ovvie ragioni di riservatezza.

Per ciò che concerne lo stile narrativo, ho scelto di lasciare parlare soprattutto la mia esperienza diretta così come l’ho vissuta, e ho cercato di raccontarla (con molta presunzione) in modo poetico, quasi intimo.

Per via del mio intento e di tutte quelle argomentazioni sull’acqua che ti ho fatto in precedenza, ho preferito la metafora e l’immediatezza alla spiegazione e alla descrizione. Credo infatti che ogni ricercatore spirituale possa concordare con me quando affermo che un’esperienza interiore non può essere trasmessa a parole. Si potrà forse dire cosa essa non sia, oppure a cosa assomigli o come raggiungerla, ma non spiegarla. La metafora vuole cercare di comunicarti “a cosa assomiglia” l’esperienza che ho vissuto, l’immediatezza vuole cercare di suggerirti “come raggiungerla”.

Va bene, tu mi dirai, ma capire non serve proprio a niente?

12

Certo che no, è fuori discussione che sia più facile bere quando si riesce a capire che per farlo bisogna prendere il bicchiere, riempirlo e portarselo alla bocca (possibilmente socchiusa). Del resto anche Castaneda (1985) fa dire a Don Juan che le spiegazioni non sono mai sprecate, poiché preparano la strada alla conoscenza silenziosa.

Adesso, pertanto, raggiungeremo un accordo, la tua mente ed io. Tu cercherai di ricordarti che l’intento è raggiungere la conoscenza silenziosa, quella sorgente di acqua fresca ansiosa di sgorgare, senza fare rumore, dalle profondità della tua coscienza, e io cercherò di ricordarmi che le spiegazioni sono necessarie. Tu mi concederai di non inquinare il pathos di un’esperienza intima con la spiegazione, io ti prometto che ovunque sia possibile affiancherò alla dimensione interiore dei dati descrittivi che ti aiuteranno a comprendere meglio.

Abbi fiducia e rilassati perché sono certo che faremo un buon viaggio insieme.

13

Capitolo I

1. Sotto stelle diverse

La nostra storia ha inizio un giorno di luglio alla periferia di Belo Horizonte, terza città del Brasile, quattrocentocinquanta chilometri a nord-ovest di Rio. Ci troviamo nel centro di recupero per pazienti psicotici del dottor Edson e siamo, appunto, sotto stelle diverse, le stelle dell’emisfero Sud. Sta per incominciare una sessione di lavoro nel salone appositamente preparato.

• Finalmente al mio posto

Stavo stretto dal sudato incanto di mani andate verso il lato oscuro della ragione o scossi dal bacio elettrico degli dei, in piedi sul cemento steso appena sulla terra rossa di Contagem che, polverosa e spessa, dotava l’aria di un sapore stanco.

Contagem, terra un tempo di jabouticaba (frutto tropicale) e buoi, ora sonnecchiava imprecisa all’ombra larga di Belo Horizonte, capitale del Minas Gerais, Brasile.

II salone o locodromo, come più scherzosamente alcuni dottori francesi in visita avevano nominato il luogo delle sessioni lasciandoglielo poi appiccicato addosso al momento della loro partenza, si presentava fiero di sé, nel centro del piazzale della comunità terapeutica per pazienti psichiatrici, rosso dal vento dei giorni di luglio.

Mi sentivo acceso dal fuoco bello della sorpresa, come quando ti senti chiamare e scorgi tra la folla lo sguardo antico dell’amata di un tempo. Stavo scorso dal lampo allegro dei riconoscimenti, come quando cammini nel bosco, curva la schiena tra i rovi, e dopo scorgi il sussurro di rami aperti al cielo o il verso amico dell’onda oltre la duna. Trasalii al pensiero dei colleghi dell’ospedale logorati da interminabili riunioni per decidere, bontà loro, se lo psicotico si potesse toccare oppure no, salvo poi deciderne la sconvenienza e

14

Capitolo I

mi scoprii, per la prima volta nella vita, finalmente al mio posto. Mi prese la gioia di stare dentro l’incanto del fato.

• L’epilogo della passione

Stavo rivivendo, lì in quel remoto salone agli antipodi del mondo, in piedi in un cerchio tenendomi per mano con normali e folli, psicotici ed epilettici, dottori ed avventurieri dello spirito, l’epilogo della mia passione da uomo bianco garantito, scritta dai giorni normali. Stavo godendomi il canto acuto del ritorno a casa.

Ritornavo col ricordo a qualche giorno prima, a Milano, agli ultimi giorni in ospedale, nel reparto di psichiatria dove lavoravo. Risentivo lo stomaco chiuso dal disgusto, la mente spenta dall’incomunicabilità, l’anima oppressa dall’impotenza.

Rivedevo Minguzzi, psichiatra e figlio d’arte, torturare con ghigno sottratto a Shining e interminabili silenzi la Sbordone, istituzionalizzata da trent’anni e persa nel blu dei suoi spazi immondi; la dott.ssa Canetta, fragile e indifesa, avvalersi di quattro infermieri per trascinare in reparto l’ultimo arrivato che non voleva saperne di fiale; il dott. Caldarelli ordinare la contenzione al letto di Castelli. Lo schizo-paranoide Castelli era reo di non aver voluto presentarsi ai quotidiani colloqui necessari per rinfrescargli la memoria sui rapporti di forza all’interno di quella tribù perversa dove non si poteva toccare chi chiedeva amore, dove si legava chi cercava di affermare se stesso, dove si drogava chi sognava un sogno diverso, dove il più debole aveva l’unica funzione di riaffermare con la sua presenza la forza del più forte, dove le urla s’infrangevano contro il silenzio scomposto di quattro pillole.

Sorridevo ripensando al primario, alla sua squisita sensibilità e al nostro complice tentativo di far filtrare qualche raggio di umano contatto tra le tenebre fitte del rigore scientifico.

Mi ritornarono poi in mente i versi schizzati su di un taccuino di viaggio all’aeroporto di Amsterdam il giorno della partenza:

15

Capitolo I

Si parte

Come d’infantetolte le viscere storte dall’ansiaritrovo il brusio acceso dell’anelitoscevro dal peso scomodo del danno.Parole italiane scambiate con Stellaconti alla cassa con voglia di casasorriso profuso al sapore del maresul nero sudore di chi vince a faticasul verso d’andare incontro alla bellaal lungo percorso e a vesti cortesiportate col senso scontato dell’eros.Lo stomaco stretto dai giorni scompostiritrovo a tentoni la sosta col padre, dichiaro la luce nelle mille sembianzeaspetto scolpirsi il dato scontato,la mossa leggera sul sentiero di dentroil canto degli Angeli che stanno a guardare.

• Una naturalezza antica

Ora, giunto a destinazione, dall’altra parte del mondo, spogliatomi degli abiti stretti del medico occidentale, stavo cominciando a riconoscere, forse per la prima volta in vita mia in modo così netto, gli sprazzi di leggerezza e autenticità del “trovatore spirituale”. Gettavo lo sguardo sul tetto di tronchi e foglie di cocco intrecciate, mi scuotevo nell’intimo alla scossa trasmessami dal “pazzo” che tenevo per mano, assistevo sconcertato a sensitivi gemere, rotolarsi e vomitare mentre calmavano, entrando nella loro fascia vibratoria, la crisi di epilettici stesi al suolo nel centro del cerchio, scoprivo in me una naturalezza antica possedermi dal

16

Capitolo I

ventre e condurmi nel ritmo di tamburi suonati all’ancestro. Poi, disteso tra il fiato di tanti, stetti zitto a ritrovare il ricordo.

Rivedevo il mio primo impatto con il Brasile: l’alba sulla Baia di Guanabara (la baia di Rio), dipinta tocco dopo tocco dalle stelle che si spegnevano. Riprovavo l’eccitazione gaia che mi faceva pendere il collo all’ingiù, oltre il finestrino, oltre l’ala, per seguire le luci infinite accese sulle miserie del suburbio di Rio, ancora da indovinare, per via della distanza, o il corteo rosato mandato dal sole dei tropici tra il mare e os morros (le colline) per dire ai meninos da rua (bambini di strada) che anche quello sarebbe stato un giorno da vivere, o la lunga striscia storta del ponte Rio-Niteroi scritta apposta per fantasie di squali.

O l’agitazione incontenibile, alla vista della spiaggia di Niteroi, che avevo scambiato per Copacabana, del Pao de Açucar, del Corcovado, di tutte quelle baie e rocce e mare e foreste e del Galeao.

Il Galeao, l’aereoporto di Rio, ti accarezza adagio come per prepararti allo schiaffo allegro, fatto di violenza e simpatia, miseria e divertimento, disperazione e umanità, che la città ti sbatterà inevitabilmente sul muso. Sentivo la voce calda ed accogliente della speaker: “Voo quatro, quatro, sete, pará Brasilia, embarque imediato, portao seisc”.

La magia di quella voce avrebbe scandito negli anni alcuni tra gli episodi più significativi della mia esistenza e ancora non lo sapevo.

Quello che per ora avvertivo, a una settimana di distanza, mentre me ne stavo lì disteso a viaggiare verso l’utero di mia madre, in una clinica per matti dove non si capiva bene chi fosse sano e chi malato, era la ridondanza sensuale e morbida di quella voce che mi aveva dato il benvenuto in terra carioca.

Nel frattempo intorno, mentre risuonavano le note dell’Inno alla gioia di Beethoven o i ritmi sincopati dei tamburi di Ogun (divinità guerriera), succedeva di tutto.

Canguru, soprannome che da solo la dice lunga sulla prerogativa del suo possessore, saltava per ore come un ossesso, da quando, arrivando

17

Capitolo I

in comunità, gli erano state tolte le dodici compresse di psicofarmaci che prendeva da anni. Fernando, giornalista in cerca di curiosità, si guardava intorno per un po’ prima di accorgersi che non sapeva bene che fare e allora si metteva a respirare da yogi sui bordi della piscina. Rosa bruciava letti accendendovi sotto il fuoco che doveva invece sedare nel suo ventre sciagurato, mai sazio d’amore. Geovani, group-leader come amava definirsi, rincorreva i matti più facoltosi cercando di rifilar loro, previo lauto compenso, piramidi di cristallo da mettere sui chakras. Pedro, mosso da fonte oscura, passeggiava senza tregua le ore del giorno e, si diceva, anche della notte, nel tentativo vano di dare una direzione all’angoscia che gli imbrattava l’anima. Cara de Freud (faccia di Freud), medico e psichiatra, sbraitava con la giacca in fiamme per via di una scatola di fiammiferi accesasi da sola nella sua tasca di destra. Carlao, incurante del dato, stava, storto ed immoto, come certi manichini dei grandi magazzini in attesa di conquistarsi un posto in vetrina. Alfredo, desapareçido dei tempi più cupi, ora membro dello staff, si massaggiava le parenti in visita con un occhio alla cura e l’altro alla conquista. Rosanna, vestita da maga, lanciava anatemi a destra e a manca con una coloritura di linguaggio tale da fare invidia al miglior Amado. Edson, proprio lui, il medico fondatore e capo indiscusso della comunità, correva fuori da una stanza imprecando e strappando cuscini per disperderne ai venti la lana i cui filamenti arrotolati erano certamente i responsabili della follia di colei che ci dormiva sopra da anni. Anna, l’italiana finita lì non si sa bene come, venuta da Trieste con un biglietto di sola andata comprato non si sa da chi, strizzava l’occhio ai maschi prima di scolpirti dentro parole pesanti così: «Senti, io sono stanca, sai? Sono veramente molto stanca perché io non dormo, capisci? Io sono quattro notti che non dormo! Io non dormo e non mangio nemmeno. Io sono quattro notti che non dormo e quattro giorni che non mangio niente, capisci cosa vuol dire questo? E io posso stare anche un mese senza dormire o mangiare, capito? Io faccio cose che tu non immagini nemmeno, sai? Perché io sono pazza, pazza, pazza,

18

Capitolo I

pazza, pazza, pazza, pazza. Io sono proprio folle perché la follia è bellissima. È bella la follia. La follia è meravigliosa, è la cosa più bella. Io sono spirito, hai capito? Il mio corpo non so cosa sia. Perché io sono pazza. Io sono molto spirituale, non sono materialista, odio i materialisti. Io sono molto religiosa, sai? Capisci, io adesso sono stanca e vorrei dormire, ma potrei anche non dormire. Io ho fame, ma non mangio. Non mangio perché posso non mangiare. Il mio corpo non mi dice niente se non mangio. Non lo sento il mio corpo. Capito? Io sono pazza, pazza, pazza! Io non sono come gli altri, io sono diversa da tutti gli altri. Io sono una zingara. Io rido per la strada, io parlo da sola. Parlo da sola e me ne fotto, capito? Io me ne fotto di quello che dicono gli altri. Io mi vesto di stracci e corro per le strade da sola. Io sto sempre sola, perché stare sola è bellissimo, perché sono folle e la follia è bellissima».

Non poteva certo dirsi, insomma, un impatto ordinario quello che ebbi con il Brasile. Ma non era che l’inizio. Nei giorni seguenti il crescendo si sarebbe fatto, a dir poco, concitato.

Nel breve volgere di una settimana, sarei stato iniziato alle strade alte della medianità da Elsa la gorda che disegnandomi l’anima mi avrebbe condotto per mano nei mondi imprecisi dello straordinario.

A lei, come vedremo, avrei vomitato addosso l’ira rappresa dello psicotico ambulante sottratta al legittimo proprietario da un foglio dipinto. Avrei così assistito, per la prima volta nella mia vita, alla compensazione di uno schizofrenico per via “paranormale” e senza farmaco alcuno.

Avrei visto Rosanna strapparsi di dosso le effigi del male e tornare “normale” dopo una captazione a distanza eseguita da Zelia, la sensitiva.

Avrei visto Carlao sciogliere la sua catatonia nel grido del giustiziere, come una diga travolta dal bianco corso dell’acque. Avrei assistito all’incanto dell’angelo sorridergli dentro, all’axè di Ogun, l’Orixà guerriero, sbucargli dal ventre.

Avrei conosciuto l’odore acre degli incensi dell’Umbanda, i santi e i

19

Capitolo I

demoni dei culti sincretici afro-brasiliani che mi avrebbero condotto nel “versante scordato”, da dove Mae Divina o chi per lei, come Virgilio per il sommo poeta, mi avrebbero ricondotto fuori a riveder le stelle.

Tutto questo e molto di più mi sarebbe capitato addosso, tanto che, quando sulla comunità sarebbe scesa l’ombra metallica del DOPS, i reparti speciali della polizia militare, il giovane medico occidentale che mi abitava, già avrebbe avuto l’ardire di definirsi un iniziato.

Ma entriamo ora nei dettagli.

20

Capitolo II

2. La magia dell’Umbanda

• Il Brasile vuole il tuo cuore

Gli occhi del Brasile quando ti guardano ti inviano il loro messaggio: il significato di ciò che fai risiede in ciò che fai e non c’è nulla da capire che tu non abbia già capito. Gli occhi sono quelli di madri che partoriscono per la strada o di bimbi lasciati sulla porta del pronto soccorso di Contagem; di Cristina la India, con arco e frecce nella favela della ferrovia, o del contadino scalzo che dà il suo voto a chi gli promette le scarpe. La gente sa che va bene così, trasforma in danza la sua tristezza e beve cachaça (la grappa della canna da zucchero). Per terra, sui marciapiedi di Rio de Janeiro, la cidade maravilhosa, disegna stelle col sale e accende candele, a Copacabana dispone rose bianche e bambole di pezza sulla spiaggia, in onore a Iemanjà, la Signora delle acque salate, la dea del mare; ai mercati generali, con arance e tabacco, compera statue bianche, rosse e nere, i santi e i diavoli che poi utilizza nei terreiros (luoghi di culto) di Umbanda e Candomblè, dove la sera si va a guarire. All’inizio non capivo e la mia mente si stupiva. Assistevo, nei terreiros, a medium vestiti di bianco propiziare con canti, danze ed incensi la venuta degli spiriti, li vedevo incorporare1 entità dalle posture più strane, dare e ricevere passes, gesti rituali attraverso i quali veniva canalizzata l’energia curadora (guaritrice). A chi capitava di sentirsi vibrare profondamente, tremare, avvertire il vuoto la mae do santo (sacerdotessa) si avvicinava, lo sorreggeva, lo tranquillizzava e poi gli spiegava: «Hai ricevuto lo spirito di Pai Joao, adesso anche tu hai la tua guida e il dovere di desenvolver tua mediunidade (sviluppare la tua medianità)».

1 Processo tipico dei culti medianici durante il quale si ritiene che la divinità avvolga il devoto e si manifesti attraverso il suo corpo fisico.

21

Capitolo II

• Un corso accelerato

Provvidenziale in questi miei primi giorni di “full immersion” nel variopinto panorama spirituale dei culti sincretici afro-brasiliani si rivelò essere per me la figura di dr. Orlando. Il dotor Orlando era un simpatico vecchietto che aveva fatto il dentista per quarant’anni, ma coltivando parallelamente un fervido interesse per le radici culturali e religiose del suo popolo. Lo avevo conosciuto tramite parenti di mia moglie e subito egli mi “riconobbe”. Fin dal nostro primo incontro ci avventurammo in intricate disquisizioni etno-filosofico-spirituali e io capii subito che, comunque sarebbero andate le cose, avevo trovato chi avrebbe nutrito le curiosità della mia mente. Quel giorno, lui ascoltò le mie riflessioni del tipo: «Mi sembra di capire che la cultura brasiliana, attraverso il contatto diretto con archetipi e divinità resta viva, attraverso la pregnanza cosmica del simbolo opera una sintesi, percorre il cerchio, stabilisce una continuità che attinge direttamente all’ancestro e con esso intreccia un legame che si pone al di fuori delle categorie di spazio e tempo, un cordone infrangibile di amore il cui “dove” naturale è il “tutto”».

Oppure si sorbì altre mie pretenziose farneticazioni come: «Mi sembra di intuire, dotor, che il biologico, l’istintivo, l’immaginario, respirano profondamente nel petto di ogni brasiliano ed è a questo livello che la gente comunica, si riconosce, si ama. È l’energia dell’umano a svelare il mistero della comunicazione tra le diverse solitudini e il simbolismo della “tradizione” è la forma attraverso la quale le diverse solitudini si comprendono: l’immaginario dentro di sé si fonde con l’immaginario fuori di sé». Nei terreiros di Umbanda e di Candomblè, attraverso il rito, la parte ritorna al tutto, l’uomo biologico rivendica la sua natura più profonda e, saldamente ancorato alle sue origini, recupera l’uomo sociale dentro di sé, spazzandone via l’ingorgo culturale e aprendo la strada all’uomo presente.

Ascoltò ridendosela sotto i suoi baffi, quasi gialli e incolti, da pensionato ormai poco avvezzo ai formalismi dell’apparire e poi

22

Capitolo II

m’invitò per l’indomani a partecipare ad una sessione di Umbanda presso una mae do santo di sua conoscenza, tale Mae Divina.

Ed eccoci il giorno seguente seduti e sudati sull’omnibus 3001 che arrancava verso la serra risalendo l’Avenida do Contorno. Ora le posizioni si erano invertite, io che ascoltavo annoiato, lui si affannava con argomentazioni di tutto rispetto per introdurmi, senza riuscirci, alla magia dell’Umbanda. Mi parlava dell’uomo universale che, come dicono i cinesi, risponde al cielo e alla terra e me ne ricordava la sua giornata evolutiva, intercalando i concetti più significativi con un “sò” che faceva poi seguire da due sbuffi col naso.

«L’uomo universale, sò, umpf! Umpf! Disponeva pietre verso l’alto per esprimere il suo anelito di unificazione con il tutto, sò, umpf! Umpf! In seguito conobbe gli arnesi e prese a scolpire le forme del suo immaginario, proiettando su di esse il divino che sentiva dentro di sé, sò umpf! Umpf! Da allora, mettendosi in relazione con le sue immagini interiori ed esteriori, egli contratta il suo futuro, attinge alla sua forza interiore, sperimenta la sua capacità di amore, umiltà, dedizione, preghiera, soddisfa i suoi bisogni di abbandono, protezione, rifugio, comprensione, religione, trascendenza, sò umpf! Umpf! E così via». E non c’era modo di interloquire alcunché. Fortuna che, allora come adesso, a me piace restare in silenzio. E così, tra uno scossone ed il pianto di un bimbo, la lezione continuò.

«Solo che, figlio mio, con la stanzialità dovuta alla scoperta dell’agricoltura e la nascita delle grandi religioni morali, l’uomo è venuto sempre più perdendo il contatto con i contenuti del suo immaginario, con gli archetipi, simboli ormai dimenticati dell’esperienza originaria, sò, umpf! Umpf! Le immagini, hanno così finito per assumere un ruolo di secondo piano rispetto ai contenuti del pensiero logico che a poco a poco hanno risucchiato la forza genuina dell’uomo universale sostituendola con quella fittizia del piccolo uomo razionale arroccato intorno alle sue certezze e miserie. La cultura afro-brasiliana, invece, come vedrai, continua a nutrire l’uomo universale dentro di noi, attingendo all’energia delle forze

23

Capitolo II

elementali e riappropriandosi dei simboli archetipici, gli Orixàs2, veri e propri catalizzatori di energia...».

Quel sant’uomo non mostrava nessuna intenzione di smetterla, sembrava deciso a tenermi un corso accelerato di tradizione afro-brasiliana itinerante. Non ero ancora riuscito a dirgli che mi sentivo la febbre, che, nonostante i 38 gradi centigradi, tremavo e avevo i brividi. Non ne potevo più, pregavo perché arrivassimo in fretta in questo benedetto terreiro di questa benedetta Mae Divina, succedesse quello che dovesse succedere, finisse in fretta e me ne potessi tornare a casa.

«Perché vedi i nostri Orixàs…» Basta, presi il coraggio a due mani e bofonchiai: «Senta dotor, sono molto provato per questo clima, non mi sento bene, che ne direbbe se rinviassimo?».

«Ma tu vuoi scherzare, figlio mio, so, umpf, umpf! Succede a tutti di sentirsi così la prima volta, a tutti i medium». Aggiunse: «È perché la tua medianità è molto forte e tu vi stai resistendo. È perché tu già stai avvertendo le vibrazioni e la tua testa balorda da europeo non è ancora pronta. Vedrai, vedrai, so, umpf, umpf!».

• Mae Divina

Portai così la mia testa da medico occidentale, calda, pulsante e dolente, sotto il cielo notturno di Belo Horizonte con le sue stelle

2 Orixàs è un termine Yoruba che sta a significare forze della natura. Si tratta di entità, energie vibratorie, divinità, che, in quanto emanazione di Oxalà, il Creatore, vibrano in ogni aspetto del creato. Per la verità, anche nella cosmogonia Yoruba il Dio Creatore è uno e trino. La trinità è composta da Olorum (il padre, l’immanifesto), Oxalà (il figlio, principio maschile manifesto), Odudua (la madre, principio femminile manifesto). Oxalà è però considerato il trasmettitore a tutti gli altri Orixàs delle tre forze: iwa, il potere di esistere, axè, il potere dinamico, aba, il potere di ordinare l’axè. Nell’Umbanda, come vedremo, gli Orixàs più invocati sono pochi e raggruppati in sette linee, mentre nel Candomblè sono molti, tra i quali i più invocati nei terreiros sono:Ifà-l’Orixà che governa la divinazione, Iku-la morte, Irokò-il tempo, Nanà-la nonna, la terra, Obaluaiè (Xampanà nella forma giovane e Omolù nella forma vecchia)-Orixà del vaiolo, della malattia e della guarigione, Oxumarè-Orixà dell’arcobaleno. Aganju-fratello e marito di Iemanjà, Orixà dell’acqua salata, con la quale ebbe un figlio, Orungà, che violentò la madre. Dall’incesto nacquero tutti gli altri Orixàs: Ossaim, Oloxum, Olochà, Okò, Odè, Ajè Xalugà e tutti quelli invocati nell’Umbanda. Di questi ultimi ci occuperemo estesamente in seguito, essi sono: Ogun, Oxum, Oxossi, Xangò, Iansà, Oxalà, Iemanjà, Exù.

24

Capitolo II

diverse e la luna orizzontale. Sotto di esse passeggiai trepidante per le strade periferiche e mal disegnate del Bairro Apareçida, alla ricerca di immagini familiari che tranquillizzassero la mia mente, senza trovarle. Caldo di febbre e fervore salii scale sapide d’aglio. Profano, scettico, titubante, ricercatore, complice e distaccato, incapace di essere semplicemente semplice, feci il mio ingresso nella sacralità scomposta dell’Umbanda.

Cosa ci facessi lì non mi era affatto chiaro, cosa avevo io da spartire con quelle moltitudini povere, scure ed incolte che mi circondavano da ogni lato? Le vedevo salire le scale ripide e strette di cemento grezzo, varcare a manciate la porta del tempio, avvicinarsi all’altare, chinarsi per battere il capo a terra in segno di devozione agli Orixàs, disporsi per file parallele tra le panche di legno consunto, chiudere gli occhi e restare in silenzio o forse pregare. Alcuni mantenevano lo sguardo fisso, tipico del rapimento mistico verso l’altare stracolmo di statue dalle fogge più strane. Altri, meno assorti, si guardavano intorno, scorgendo così le effigi sul muro, i medium vestiti di bianco che tracciavano segni col gesso sul pavimento o disponevano le oferendas (offerte) e as comidas (cibi) per i diversi Orixàs. Io, come non faticherai a credere, ero tra quelli che si guardavano in giro con aria annoiata e per di più ipercritica nei confronti di quella “Loreto dei poveri” dove le statue della Madonna nera avevano il naso rotto e gli ex-voto erano quattro scalcinate effigi di plastica. Ad ogni modo, per ingannare l’attesa che rischiava di minare le mie forze residue mi rassegnai a un supplemento di lezione sul cerimoniale delle funzioni Umbanda. Ebbi pertanto la sventatezza di chiedere a dotor Orlando il significato delle diverse statue fornendogli così il pretesto che attendeva: «Sò, sò! Ogni statua, figlio mio, rappresenta un Orixà o un Egun. Gli Orixàs, come dovresti ormai sapere, sono le divinità delle diverse forze naturali, mentre gli Eguns, come avrai modo di conoscere in seguito, sono quelle entità spirituali di esseri che hanno avuto una vita terrena. Nell’Umbanda abbiamo sete linhas, vale a dire sette vibrazioni archetipiche nelle quali vengono raggruppati i diversi

25

Capitolo II

Orixàs e i relativi Eguns. Come vedi, sò, sò» ansimava entusiasta indicandomi l’altare di cemento «questo è proprio un terreiro come si deve, ci sono proprio tutti i nostri santi». L’altare era un lungo ripiano piastrellato di ceramica bianca e sorretto da due pilastri, anch’essi di cemento rivestito di pietre levigate che si prolungavano in un arco, delimitando così una specie di grotta, sul pavimento della quale scorreva dell’acqua contenuta in una vasca dedicata al povo das aguas (popolo delle acque). Di sopra, sui piedistalli di marmo stavano disposte le statue dei santi in un’apoteosi di colori, tra sigari, candele variopinte, caramelle, riso e bottiglie di birra, piatti di rabada (code di bue) stufata, bicchieri d’acqua e conchiglie.

«Veja bem, meu amigo (guarda bene, amico) sò, sò, umpf, procedendo da destra a sinistra quelle due statue di vecchi negri vestiti di bianco sono os pretos velhos, gli Eguns di saggezza rappresentati dai vecchi schiavi africani, poi c’è Nossa Senhora (la Vergine Maria, sincretizzata con Iemanjà, la divinità dell’acqua salata) e Santo Antonio che per noi rappresenta Ogun, l’Orixà del metallo. Sò, sò, quella statua di Indio invece è il caboclo, l’Egun nobile e fiero che abita la foresta, al suo fianco puoi vedere la statua dell’Immacolata Concezione che per noi è mamae Oxum, l’Orixà dell’acqua dolce e poi la statua di Mosé con le tavole della legge che per noi rappresenta Xangò, l’Orixà della giustizia».

Nel frattempo, i canti, sparsi dovunque, rendevano lo spazio denso dal moto occulto di forze presenti, le statue e le immagini di santi e demoni descrittemi dal mio Cicerone, cominciavano a prendere forma vivente in vecchi ricurvi, aitanti guerrieri o profeti di casa, conferendo storia a quelle scalcinate mura, nere di fumo. I volti, più che altro poveri e neri, coloravano il resto di antico sudore, il calore rappreso nelle panche consunte sotto un tetto d’amianto ricordava a chiunque di trovarsi nel “versante scordato”, la parte del mondo che non faceva notizia. Da parte mia, sentivo la febbre togliermi le forze, arroventarmi il cervello con pensieri confusi, provavo estraneità e nessun amore per quel luogo abitato dal rumore impreciso del

26

Capitolo II

conforto a buon mercato. Stavo male e non c’era nulla di diverso che potessi fare. Per di più ormai avevo acceso il motore a quel buon uomo che incalzava:

«Sò, sò, umpf, umpf! E poi guarda la maestosità di Santa Barbara con il calice e la spada a simboleggiare l’incontro tra il maschile ed il femminile. Santa Barbara è per noi Iansà, l’Orixà dell’aria e quindi della libertà. Ed ecco San Sebastiano trafitto dalle frecce, quelle frecce per le quali nella nostra tradizione è diventato Oxossi, l’Orixà cacciatore. Al suo fianco puoi vedere un’altra rappresentazione di Ogun sul suo cavallo bianco, col mantello rosso, l’elmo in capo e la spada sguainata. E poi Cosme e Damiao, i santi protettori dei bambini che richiamano nel nostro terreiro la spensierata e genuina energia dell’infanzia, oppure la Zigana che richiama l’energia dei saggi di Oriente. Per finire, a dimostrazione dell’ottusità degli studiosi occidentali che continuano a definire l’Umbanda come una religione animista e politeista, eccoti là in posizione preminente nel centro dell’altare, il figlio dell’uomo, Gesù Cristo».

«Ma cosa c’entra Gesù Cristo!» mi sentì replicare stizzito.«Quello che tu devi sapere, caro il mio dottore, sò, sò, umpf, umpf,

visto che nessuno dei tuoi catechisti te lo avrà mai detto, è che sono numerosissime le tradizioni che parlano della venuta di un figlio di Dio, partorito da madre vergine e fattosi uomo per la salvezza del suo popolo. Ti cito per tutti Deganavidah presso i nativi americani (Houston, 1996) o Yurupary presso gli indios Tupi-Guaranì (Matta e Silva, 1956).

Allo stesso modo, per la tradizione Yoruba3, Oxalà era il figlio del Dio unico Olorum che lo inviò sulla terra per dirimere i conflitti che la stavano insanguinando. Capirai come sia logico che l’Umbanda abbia sincretizzato Oxalà con Gesù Cristo e lo abbia sistemato nel centro dei suoi altari, a capo delle sue falangi di santi ed entità spirituali, sò, sò!».

3 Popolazioni africane abitanti dell’attuale Nigeria.

27

Capitolo II

Le parole di dotor Orlando sfumarono coperte da un canto soave: «Salve o sol, salve a lua, salve a todos os Orixàs». Come appena emersa dalle onde dell’oceano, una venere azzurra, adorna di stelle e trecce corvine distese sulla pelle ramata, opulenti i seni di casto erotismo, stava intonando il suo canto a Iemanjà, la divinità dell’acqua salata. I suoi gesti lenti e ondulati si mischiavano a quelli aguzzi di maschi perlati dal sudore del dio, che mostravano muscoli e passione guerriera mentre tracciavano lo spazio con segni di spada e, di tanto in tanto, gridavano: «Auè, Ogun, guerreiro da lei». Ogun, come si ricorderà è l’Orixà del metallo, divinità guerriera. Poco più in là, sontuosa e gialla nella sua vanità rotonda, una fanciulla orlata di perle e vesti da bazar danzava la danza di presentazione di una dea sorniona, Oxum, l’Orixà dell’acqua dolce. Ovunque, uomini e donne biancovestiti, i medium unificati dalla corrente astral da Umbanda (catena astrale dell’Umbanda) ruotavano su sé stessi, cantavano, emettevano versi. La mente stupida e scontata del piccolo uomo avrebbe facilmente potuto concludere che ovunque, “isterici si agitavano”. Dotor Orlando, invece, spiegava: «I fedeli dell’Umbanda si dividono in semplici devoti che partecipano alle sessioni come noi cattolici partecipiamo alla messa e in medium. I primi, sò, sò, umpf, umpf, vengono nei terreiros per pregare, essere curati da malattie, ricevere os passes (trasmissioni di energia guaritrice), o aiuti di vario tipo per affrontare le traversie, spesso drammatiche, del loro quotidiano. I medium sono i devoti in desenvolvimento, vale a dire coloro che stanno compiendo un percorso spirituale per sviluppare la loro sensitività, apprendere le cerimonie, i canti, le oferendas, le danze e divenire, dopo almeno sette anni di apprendistato, pai o mae do santo (letteralmente, padre o madre del santo, vale a dire, sacerdote)».

Dotor Orlando spiegava, la mia testa s’induriva sempre più, le danze, i canti, gli incensi resero l’atmosfera propizia, le anime discesero per la dovuta carità. La mia mente, forte del suo ingorgo culturale, credeva ancora di poter restare alla finestra, ma non fu così.

Stavo per conoscere, per la prima volta e sulla mia pelle, il

28

Capitolo II

significato di un termine che avrebbe da quel giorno in poi marcato a fuoco la mia esistenza: si trattava del termine Transe4.

Stavo per lasciare, per la prima volta, le vesti del medico occidentale, presuntuoso e colonialista, anche se antipsichiatra e di sinistra, per aprire le porte all’onda purificatrice del “flusso interconnesso”. Avrei passeggiato nel cuore, danzato la danza delle forme viventi, trasceso la mente duale, logica e analitica per guardare all’esistenza con l’occhio unico della coscienza intuitiva. Avrei vissuto la mia prima “esperienza medianica”.

Mentre tamburi scandivano i ritmi dei diversi Orixàs, sigari e incensi si accendevano, lance e rossi mantelli si agitavano, cerchi col fuoco o segni col gesso venivano tracciati sul pavimento dai medium, i devoti si disponevano in fila come i cattolici per la comunione e si recavano al cospetto delle varie entità spirituali, “incorporate” dai medium, per chiedere e ricevere benedizione, consigli e conforto.

Tra le “entità”, alcune si chinavano a terra toccando con la fronte il suolo antistante l’altare in segno di saluto e devozione, altre si battevano il petto lasciando uscire suoni di potere, altri imponevano le mani, vibravano, si contorcevano in pose sgraziate, sbavavano o fumavano la pipa con il fare del vecchio.

Mae Divina, la mae do santo responsabile del terreiro, ricamata dal bianco delle vesti, dal rimbalzo colorato di perle di vetro e dal piglio deciso di Giovanna D’arco, intonava i pontos cantados (canti) coi quali si richiamavano le diverse entità, fumava sigari e scandiva i tempi della cerimonia col suono della campanella. La sua presenza riempiva. Quando avanzò tra la folla, mi additò e mi chiamò, io andai. Bastarono una mano sulla testa e una parola sussurrata perché anch’io diventassi, in breve, un isterico che si agitava. Come

4 Per Transe intendiamo, in questo caso, uno stato di coscienza intensificato o “non ordinario”, il significato del termine tuttavia non si esaurisce qui: negli anni successivi, infatti, sarebbe stata elaborata la Biotransenergetica, come vedremo più avanti, una disciplina psico-spirituale che fa del concetto di Transe, rivisto e ampliato, uno dei suoi punti fondamentali. Si vedano in merito i testi di Lattuada P.L.: Potere spirituale e guarigione, Lavorare coi chakras, Il Modo Ulteriore, In viaggio per risvegliarsi, editi da Meb e Sciamanesimo Brasiliano e Biotransenergetica editi da Xenia.

29

Capitolo II

il serpente la sua pelle, così io sentii l’ego scivolarmi di dosso. Sentii incrostazioni di anni scrollarsi dalle mie spalle, dalla mia nuca. Giravo e girando andava in pezzi l’ingorgo culturale della mia mente rozza, le mie certezze venivano portate lontano come polvere cosmica nel mondo parallelo abitato dal nulla. Giravo senza trovare un posto dove appoggiare i miei piedi, un punto di riferimento al quale affidare i miei pensieri. Ero solo nel buio, la leggerezza che provavo mi pareva insostenibile, il senso di apertura era talmente profondo nelle mie cellule da confondersi con un senso di disintegrazione, la paura si confondeva con la gioia, il buio con la luce. Mi sembrava di non esserci, eppure ero totalmente consapevole, mi sentivo fermo eppure stavo girando, mi sembrava di urlare, eppure ero in silenzio. Mi sembrò di volare verso l’alto quando vibrai e caddi. Non so quanto tempo rimasi nella luce che vedevo, nell’amore che sentivo. Poi, tra silenzi scorsi all’inganno e disastri gettati all’alba del quotidiano, Mae Divina si dispose al dovuto e compose il suo canto che, di nuovo, mi sradicò dall’abito solito dell’ordinario: «Pisa no rastro do outro caboclo, pisa no rastro do outro (Cammina nella traccia già segnata dall’altro caboclo, cammina nella traccia dell’altro, caboclo)». Venni allora percorso dalla notte dipinta di chiaro, suscitato dal groviglio timido di visceri colte dal sonno dell’anima, piovuto da gocce pesanti di noia, pianto da stelle perdute nello sconforto sovrano, battuto da colpi ritmati dal nulla, dialogato dal moto rotondo offerto al dono ingrato del tempo, sorretto dall’alto, curvato da colli tagliati nel dubbio verde dell’ombra, svuotato dall’onda collocata tra spazi e rimpianti. Conobbi, ruvido, il rumore di me. E la voce di Mae Divina continuava a bussarmi l’anima: «Pisa no rastro do outro caboclo, pisa no rastro do outro». Lo spazio intorno a me si fece azzurro, avvertii catatonico e invaso, l’impossibile anelito al moto. Semplicemente me ne stavo riverso, gli occhi sbarrati, il respiro scordato, le membra strette da una forza aliena che mi comprimeva su me stesso. Mi facevo lungo e sottile, costretto e inevitabile, mentre l’attenzione non cessava di incollarsi al canto di

30

Capitolo II

Mae Divina che inondava di verbo il respiro degli dei. Solo il ventre, di tanto in tanto, intonava l’essenza, mosso da biologica impellenza, ma, lontano come nebbia ultima di Thule, risuonava il verso della mia obliqua coscienza. Segui la traccia, caboclo, segui la traccia. Ma quale traccia se mi sentivo più perso di un ago in un pagliaio? Sommerso dall’incanto di sfere nella danza dell’anima, sciolto e disperso venni incamminato nell’abito latte dell’inizio. Quindi comparve l’essenza sotto forma di un’immagine guerriera e dipinta di rosso. S’accese allora l’avida fiamma del desiderio, mille immagini divamparono alla mia mente, sentieri di luce tracciarono l’ascolto tra mine vaganti e terrifici fantasmi, stelle brillarono di solito tra i neuroni del mio cervello. Nulla stava fermo, il tempo venne trascinato ovunque, lo spazio si rivolse su se stesso, galassie abitavano la mia pancia che se ne stava altrove senza sapere dove. Nel frattempo, mille domande assurde affollarono quel campo di coscienza che nessuno ormai poteva dire a chi appartenesse: «Chi stava vedendo se stesso essere ciò che era stato? Chi sarebbe impazzito se avesse scoperto di essere altrove? Chi avrebbe raccontato a chi di essere stato raccontato dalla storia? Dove si sarebbe fermato chi non c’è per sapere se c’era? Chi avrebbe passeggiato oltre lo specchio se lo specchio non c’era? Chi scomparve nell’estasi quando il suono di Dio risuonò oltre Dio? Quando il verbo pronunciò se stesso? Chi s’infranse all’immanenza dell’onda e ascoltò il soffio aggregare l’implicato a guisa d’uomo?». Quando riconobbi l’andare e venire del mio respiro e a questa consapevolezza mi radicai, incominciai a ritrovarmi. La leggerezza si prese cura di me, la gioia mi sorrise nel cuore, aprii gli occhi e vidi Mae Divina che non aveva mai smesso di vegliarmi, intonare un canto di ringraziamento: «Oxalà meu pai, tem pena de nos tem dor…». Quando mi riebbi, mi abbracciò e mi rassicurò, Pai Cruzeiro era sempre rimasto al mio fianco e Caboclo Flecheiro5 mi aveva condotto

5 Così come per i pretos velhos (gli spiriti dei vecchi negri) e per le crianças (gli spiriti dei bambini), anche per i caboclos (gli spiriti degli abitanti della foresta) esistono numerose falangi, ciascuna con un proprio nome: Caboclo Flecheiro è uno di questi.

31

Capitolo II

nel viaggio. Adesso anch’io avevo una guida spirituale, avrei solo dovuto continuare il mio percorso di realizzazione, allenando la mia medianità.

Nulla di ciò che mi era successo e mi continuava a succedere mi risultava chiaro. La mia presunzione di cominciare a comprendere l’Umbanda era stata spazzata via, come il vento le foglie. Ma la mia mente era vuota, il mio cuore leggero, i miei occhi chiari, forse per la prima volta. Mi guardavo intorno, l’ambiente che poco prima mi era sembrato grottesco e alquanto dissacrante con le sue statue colorate ed effigi da quattro soldi raffiguranti santi cattolici mischiati a personaggi disincarnati o entità africane, ora trasudava sacralità ed aristocrazia. I volti stanchi e rassegnati della povera gente che mi stava intorno mi svelavano il loro profondo e prezioso messaggio di saggezza: «Ciò che muove il mondo è l’amore, ciò che ti ammala e ti fa soffrire è l’amore che non sai dare. E non c’è niente da capire».

Quando abbracciai Mae Divina ed ella mi salutò come si salutano i medium, toccandomi a spalle incrociate per tre volte, mi ricordai delle parole di dotor Orlando: «È perché sei un medium». E tutto mi sembrò normale.

Il fondamento Pochi giorni dopo, con Mae Divina, già ci si sentiva buoni amici. Seduti nella veranda della casa principale del sitio (casa di campagna) nel quale mi aveva invitato, nel chiarore del sole prima che scendesse oltre la collina e nel profumo dei laime (specie di limone), si sorseggiava caffè dolce, si gustavano pao de quejo (panini al formaggio) dorati nel fogao (forno a legna).

Mae Divina, come una nonna ai suoi incuriositi nipotini raccontava storielle di ordinaria saggezza quali: «Là nel sul di Minas (il sud dello stato brasiliano del Minas Gerais) dove sono nata e cresciuta c’erano due ragazzi, uno figlio di un ricco fazendeiro, l’altro figlio di uno tra i più poveri dei loro contadini. Il fazendeiro comprò per il figlio due camion perché lui potesse occuparsi del trasporto dei prodotti ai

32

Capitolo II

mercati generali, il padre del povero non poté comprargli nulla ma gli suggerì di prendere in affitto un carretto e di pagarlo con parte del suo lavoro della giornata. Gli disse anche di non preoccuparsi se all’inizio sarebbe stata dura e quasi tutto il suo guadagno se ne sarebbe andato nell’affitto, avrebbe dovuto perseverare. Il contadino povero seguì i consigli del padre, il fazendeiro ricco, invece, dopo poco tempo vendette i camion per comprarne due più vecchi e campare così con i soldi della differenza. In breve il figlio del ricco cadde in miseria e il contadino povero poté comprarsi dapprima il carretto, poi un camioncino, poi un camion e infine una casa e una fazenda garantendosi così una vita tranquilla per sé e per i suoi figli».

Da parte mia, però, ero ormai diventato curioso e volevo saperne di più circa la sua vita e le circostanze che la portarono a divenire una mae do santo. Facevo domande senza tregua e ricevevo risposte che non sapevo bene da che fonte provenissero, ma che immancabilmente colpivano nel segno.

«Mae Divina, come fu che decise di diventare una sacerdotessa dell’Umbanda?».

«Figlio mio, ti sembra che qualcuno possa decidere una cosa simile? Mi scelsero. E questo successe molto tempo fa, anche se io me ne resi conto solo tanto tempo dopo. Mi ricordo che ero ragazza e stavo rassettando la cucina quando mi prese un forte mal di testa, mi si appannò la vista e persi i sensi. Quando mi riebbi, ero stesa su di un sofà della sala de jantar (sala da pranzo) con le mie due sorelle che mi facevano aria e mi davano da bere dell’acqua e sale. Del periodo nel quale rimasi priva di sensi avevo dei ricordi confusi. Ricordavo vagamente di una visione nella quale stavo al capezzale di mio fratello, ubriaco fradicio, e facevo strani gesti con le mani sopra il suo corpo. Mio fratello, in realtà, era dedito all’alcol ed io vivevo costantemente nella preoccupazione per la sua salute. Il fatto è che da quel giorno non toccò più bebida nehuma (nessuna bevanda alcolica) e che io presi ad avere periodicamente attacchi simili nei quali, immancabilmente, avevo visioni dove mi trovavo a

33

Capitolo II

curare pessoas necessitadas (persone bisognose)».«E come conobbe l’Umbanda?».«Una mia zia insistette perché mi recassi in un centro di sua

conoscenza ed io mi lasciai convincere. Il centro era in una favela, era molto piccolo e affollato. Ricordo che faceva molto caldo e che il fumo degli incensi mi soffocava, stavo per andarmene quando la voce della mae do santo mi apostrofò: “Aquela minina que esta indo embora pode ficar (Quella ragazza he sta andando via può restare). Tu forse credi di essere malata? Tu non sai che hai trovato il tuo posto? Tu forse desideri non avere più visioni? Ma non sai che nella tua vita vedrai e sentirai sempre più. Resta minina (bambina) e non te ne pentirai”. Io restai ed eccomi qui».

«E cosa successe poi?».«Cosa successe poi non te lo dirò, perché quella fu la mia storia e

non potrà mai essere la tua. Primo perché ognuno ha il suo cammino da percorrere, secondo perché l’Umbanda è una religione ancora in formazione e la sua natura composita non è in grado di fornire una liturgia unificata; terzo perché, se tu lo vorrai, gli insegnamenti che riceverai da me, saranno il frutto di una mia personale sintesi degli insegnamenti che mi sono stati trasmessi dalla mia mae do santo e dal mio pai do santo».

«Mi vuole dire che l’Umbanda non ha un unico fondamento?».«Certo che ce l’ha, il fondamento è in Africa. Ma da allora molta

acqua è passata sotto i ponti e molto sangue, lacrime e sudore sono stati versati nel grembo di Nanà, la nostra Madre Terra. C’era un tempo nel quale se un filho do santo (discepolo) vedeva il suo pai do santo passare dall’altro lato della strada, anche se non era visto, si chinava battendo la testa al suolo in segno di rispetto. E si chinava anche perché lui sapeva che il pai, anche se non se ne fosse accorto al momento se ne sarebbe accorto in seguito. Questo misto di rispetto e soggezione, necessario per il mantenimento della purezza della tradizione oggi si è perso. È molto tempo ormai che i filhos do santo dopo un po’ si stancano degli insegnamenti e del rigore della dottrina

34

Capitolo II

ed aprono un loro terreiro facendo di testa propria. Incominciano così a insegnare quello che sanno, che è meno e più impreciso di quello che sapeva il loro insegnante. In questo modo nel corso dei decenni la tradizione si è deteriorata fino quasi a scomparire».

«Ma come è potuto succedere questo?».«L’inizio della fine è incominciato a Bahia quando il Batefolha, il più

grande terreiro di Candomblè - il culto degli Orixàs venuto direttamente dall’Africa con gli schiavi - si è scisso in due. Uno dei due fratelli che lo dirigevano si è staccato creando il Batefolhina. Mentre un terreiro rimase fedele alla tradizione e molto chiuso, l’altro si aprì ad altre influenze, specialmente quelle degli indios nativi».

«Ma lei parla di fine, mentre, da quanto ho capito, mi sembra che fatti come questo dettero inizio all’Umbanda».

«Certo, tu ben sai che la fine di qualcosa è sempre l’inizio di qualcosa d’altro. I mali non vengono mai per nuocere, la fine della purezza della tradizione africana, il venire meno del rispetto per la disciplina della dottrina segnarono la nascita dei nuovi culti sincretici afro-brasiliani dei quali il più organizzato e diffuso è a Umbanda de todos nos (l’Umbanda di tutti noi). C’è poi il Candomblè nato e diffuso a Bahia, lo Xangò a Recife, il Tambor de nago nel Maranao, i Batuques di Porto Alegre, la Pajelança in Amazzonia, il Candomblè di Caboclo e di Angola in certe aree del Nordest e del Centro-Sud...».

«Quali fattori hanno determinato la maggior organizzazione e diffusione dell’Umbanda?».

«Quando sarà il momento ti racconterò la storia della nascita dell’Umbanda. Per ora stiamo prendendo in considerazione il fondamento e la sua disgregazione, poi ci occuperemo della sua rinascita in nuove forme di organizzazione. Per comprendere bene il fenomeno dell’impoverimento e della parcellizzazione di una tradizione dobbiamo ancora ricordare la persecuzione a volte spietata che la polizia e la Chiesa cattolica esercitarono nei confronti degli antichi culti africani visti come bruxarias (stregonerie). Questo portò al sincretismo, cioè alla commistione e quindi all’inquinamento

35

Capitolo II

dell’antica tradizione africana di molti aspetti del Cattolicesimo».«Ma questo non potrebbe essere visto come un dato positivo?».«Certamente sì, dal punto di vista dell’Umbanda che ne scaturì,

ma non dal punto di vista della tradizione africana che per questo agonizzò. Il risultato è che ancora oggi, a circa sessant’anni dalla nascita dell’Umbanda, l’ignoranza dei fondamenti della tradizione, uniti alla mancanza di senso del sacrificio, del rispetto per la gerarchia e al dogmatismo sempre in agguato anche negli animi più nobili ti potrà capitare di trovare, nelle cerimonie di Umbanda, rituali di iniziazione molto diversi tra loro. E potrai stare certo che la maggior parte dei pai do santo o delle mae do santo ti venderanno la loro come l’unica vera.

Troverai chi ti dirà che un’iniziazione senza camarinha, il ritiro al buio durante il quale ci si ciba per giorni solo del cibo del proprio Orixà, non può dirsi una vera iniziazione, chi invece riterrà la camarinha un’usanza riprovevole perché legata al sacrificio di animali o chi, addirittura, non ne conoscerà nemmeno l’esistenza».

«Ma sarà pure rimasto qualche depositario dei fondamenti della tradizione!».

«Pochi, molto pochi. Si tratta di alcuni terreiros di Candomblè che però sono estremamente chiusi e rigorosi. In questi terreiros, per esempio, non si consente a nessuno di fazer ori, cioè di intervenire su altre persone, se non dopo sette anni di preparazione. In questi sette anni lo iaò (iniziato) sarà sottoposto a un rigoroso apprendistato che abbraccerà la conoscenza dei rituali, delle erbe per gli amaçis6 , dei pontos riscados7e cantados8, dei despachos9 e delle oferendas10, delle danze e così via. Alla fine dei sette anni di apprendistato, il filho do santo si

6 Impasto di erbe che si depone sulla testa dell’iniziato per conferirgli la forza di un determinato Orixà.7 Simboli magici disegnati col gesso sul pavimento del terreiro per indicare la presenza di un determinato Orixà o entità spirituale.8 Canti dedicati ai diversi Orixàs o entità spirituali.9 Cibi e oggetti rituali deposti in luoghi particolari per ottenere dagli Orixàs l’esaudimento di specifiche richieste.10 Cibi offerti agli Orixàs come ringraziamento.

36

Capitolo II

sottoporrà al rituale da camarinha che si concluderà con a raspaçao da cabeça11».

«E lei, Mae Divina, come si dispone nei confronti della tradizione?».«Vedi figlio, come ti dissi, io credo che ciascuno abbia il suo

cammino da percorrere e che sulla sua strada incontri coloro che, in quel momento, per un periodo più o meno lungo, stanno percorrendo un cammino parallelo. Sarebbe insensato che volessi propormi come la depositaria di una tradizione che non conosco, non essendo io africana né discendente di schiavi. Io sono brasileira, figlia della tradizione dell’Umbanda, tradizione relativamente nuova riorganizzatasi su fondamenti molto antichi di altre diverse tradizioni: quella africana degli Yoruba, quella amerindia dei Tupi-Guaranì, quella Kardeçista e quella cattolica dei bianchi padroni. I miei insegnamenti risentono pertanto di tale sincretismo e del particolare momento storico nel quale si sono sviluppati. Se tu lo vorrai, io potrò trasmetterti gli insegnamenti che ho ricevuto dalla mia mae e dal mio pai do santo unitamente a quelli ricevuti dalle mie guias e mentores (guide e mentori) spirituali. Verrai iniziato all’alta medianità, perché tu sei medium de berço (di nascita), apprenderai la condotta morale e le pratiche per non soffocare, bensì desenvolver tua mediunidade (sviluppare la tua medianità). A questo proposito potrai ricevere da me tre livelli di insegnamento: le pratiche e i rituali per sviluppare l’ipersensibilità e padroneggiare gli stati non ordinari di coscienza mediante il Contatto e il Transe, la disciplina per la realizzazione spirituale e, infine, le pratiche e i rituali di cura per lavorare con gli Orixàs e le entità spirituali. Questi sono os tres angulos da Lei da Umbanda (i tre angoli della legge dell’Umbanda)».

La chiarezzaBeh! Indubbiamente il menù era vario e invitante. Termini come medianità, stati non ordinari di coscienza, ipersensibilità facevano

11 Cerimonia conclusiva del percorso iniziatico consistente nella rasatura completa dei capelli.

37

Capitolo II

vibrare delle corde nella profondità della mia anima. Ma nella mia mente si agitavano fantasmi di ogni tipo. Cercai allora di cominciare a chiarirmi qualche dubbio.

«Mae Divina, sono ormai anni che mi occupo della dimensione transpersonale, mi sento figlio di questa Nuova Era che sembra avere avuto ormai inizio. Ma, ad essere sincero, mi sembra che questo nuovo frutto dell’umanità stia già marcendo senza maturare. Vedo fare ovunque mercato della spiritualità come se fosse il nuovo prodotto alla moda; oppure vedo persone professarsi esoterici e disprezzare l’uomo comune, i suoi problemi quotidiani, le emozioni, i rapporti interpersonali; oppure vedo spiritualisti vincolare ogni loro decisione o comportamento al messaggio di supposte entità spirituali che, nella stragrande maggioranza dei casi, altro non sono che le voci dei loro desideri nascosti. D’altro canto, trovo medici che disprezzano tutto ciò che non vedono o che non possono misurare con le loro macchine, oppure psicologi che ignorano completamente il proprio corpo e il proprio sentire, occupandosi solo di capire il perché dell’altrui mente. Come potrò mai trasmettere a costoro esperienze come queste e farmi comprendere? Come potrò essere chiaro?».

«Forse che non vedesti la struttura di ciò che hai vissuto l’altro giorno nel terreiro? Nessuno ti può dare chiarezza se tu non vai nel posto dove è chiaro. Per andare nel posto dove è chiaro bisogna schiodarsi dai luoghi della confusione, attraversarli senza cadere nelle tentazioni. Ricorda le parole del Padre Nostro che sta nei Cieli: “E non lasciarci cadere in tentazione”. Le tentazioni della confusione, di fonderci con l’altro dimenticando noi stessi, perdendo il nostro centro ed il contatto con l’osservazione: l’occhio di Dio. Quando tu hai sete vai alla fonte, chi cerca acqua nel deserto non la trova. Tu puoi portare l’acqua della chiarezza solo a chi è disposto a venire con te alla fonte. E per fare questo, prima di tutto è bene che ci vada tu alla sorgente senza perderti per strada, senza dimenticare ciò che là incontrasti e, soprattutto, è necessario che tu sappia comportarti

38

Capitolo II

come uno che si ricorda dei doni ricevuti». Mae Divina parlava, la tazza del caffè tra le dita, gli occhi socchiusi,

le palpebre tremanti, il tono cadenzato di chi raccoglie le parole a una a una, come mele in un frutteto.

«Vai pertanto alla sorgente figliolo, diritto per la tua strada con estrema attenzione a riconoscere le tentazioni che vogliono farti deviare. Perché ricorda, nel deserto della vita è molto più facile perdere la strada che trovarla. E spesso il miglior modo di perderla è quello di cercarla. Pertanto figliolo, se tu vuoi portare chiarezza nel mondo devi sapere che è molto più facile per il mondo portare a te confusione che non viceversa. Tu, l’altro giorno, hai navigato nella confusione e raggiunto attimi di chiarezza, ti sei dissetato con gocce di verità. Questo non è che l’inizio figliolo. Non occuparti di trasmettere chiarezza perché la chiarezza non può essere trasmessa, ma la confusione sì. La chiarezza è un fatto individuale, nasce dal contatto con la propria verità, luogo della chiarezza, la confusione è un fatto collettivo nasce dal bisogno di raccontarsi delle bugie o delle mezze verità che ci allontanino dalle nostre responsabilità. La chiarezza non è un fatto esteriore che può essere trasmesso a parole, può solo essere recepito da chi è disposto a venire con te nel luogo della chiarezza e, una volta costì, voglia e sappia dirigere il suo sguardo chiaro dentro di sé, per vedersi».

«Ma per raggiungere briciole di chiarezza bisogna sempre vivere esperienze così drammatiche come quella che vissi l’altro giorno?».

«La chiarezza nasce quando non c’è l’ombra. Se tu sei avvolto dall’ombra proiettata dalla tua mente duale, dai suoi condizionamenti, dalle sue certezze, allora da quel luogo devi andartene. Come andartene da lì dipende da te. Tu hai avuto bisogno di tutto quel folklore ma avresti potuto anche uscirne con un semplice battere di ciglia».

«Ma come? Perché allora attraversai tutte quelle difficoltà?».«Semplicemente perché da qualche parte dentro di te ritenevi di

averne bisogno. Così l’esistenza ha scelto quella strada per farti fare quel passaggio».

39

Capitolo II

«E perché l’esistenza non ha scelto il battito di ciglia?».«Ricorda figliolo, quando i vostri missionari vengono qui da noi

e vedono tutte le miserie delle nostre favelas spesso si chiedono: O signore perché non fai qualcosa? Invariabilmente la risposta del signore è: ma io ho fatto qualcosa, ho fatto te. Questo vuol dire che Dio e l’uomo operano assieme per l’evoluzione della coscienza».

«Vuoi dire che l’esistenza mi ha dato l’esperienza che io stesso ho richiesto?».

«Esattamente. La tua storia personale, il tuo Karma, le tue scelte di vita, tutto ciò, insomma che contribuisce a formare la tua vibrazione specifica ti ha portato nel posto dove stava ad attenderti proprio quella esperienza e non un’altra».

«Sembrate proprio essere tutti d’accordo voi saggi: bisogna rinunciare ad ogni forma di certezza».

«La ricerca di certezza è solo il misero tentativo della nostra mente duale di mascherare la confusione nella quale è immersa. Quanto più la mente è confusa, tanto più cercherà di aggrapparsi a delle certezze credendo, in questo modo, di raggiungere la chiarezza. Ma la chiarezza nasce dall’esperienza unitaria dell’esistenza che non può essere fermata per venire compresa. L’esistenza è in Transe e può solo essere vissuta».