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Collana

SAGGI

2013, ITI Edizioni, Milano

Di sogno in sogno

Diego Coelli

Viaggio nella dimensione onirica della coscienza

Di sogno in sogno

Autore: Diego Coelli ©

Direzione scientifica: Pier Luigi LattuadaProgetto grafico, impaginazione: Ilaria CislaghiRedazione e curatela: Giovanna Calabrese, Luciano Ghisoni, Daniela Giovine; Ilaria Cislaghi, Elena Piccoli, Patrizia Rita Pinoli.

Disegno in copertina: Claudia Castiglioni - www.claudiacastiglioni.blogspot.com

© ITI Edizioni, Milano, 2013c/o Integral Transpersonal Institute Via Villapizzone, 26 - 20156 Milano tel.: 028393306email: [email protected] www.itiedizioni.com

Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi elettronici, meccanici o altro senza l’autorizzazione dell’Editore.

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INDICE

IntroduzIone 9 Capitolo I 1. SognI, bambInI, arte preIStorIca 12

Capitolo II 2. culture tradIzIonalI arcaIche 20 2.1 Gli aborigeni australiani e il tempo del sogno 20 2.1.1 Elementi di contesto 20 2.1.2 Il Tempo del sogno 21 2.1.3 Un’interpretazione psicoanalitica 26 2.2 I nativi nordamericani e il potere delle visioni 30 2.2.1 Elementi di contesto 30 2.2.2 Religione e spiritualità dei nativi 312.2.3 Sogni e visioni 332.2.4 Lo sciamano in Nord America: il medicine-man 342.2.5 Gli Absaroke-Crow 362.2.6 I Lakota-Sioux 382.2.7 Gli Ojibwa-Chippewa 432.2.8 Gli Irochesi 462.2.9 Alcune considerazioni 49

Capitolo III 3. cIvIltà antIche 52 3.1 Introduzione 523.2 Antico Egitto 53 3.2.1 Aspetti della religione egiziana 53 3.2.2 Gli interpreti dei sogni 583.3 Grecia classica 623.3.1 Presenze sciamaniche nella religione greca 62

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3.3.2 L’incubazione 69 3.3.3 Percorsi carsici 80

Capitolo IV 4. cIvIltà InduStrIale urbana 844.1 Premessa: la civiltà di veglia 84 4.2 Le interpretazioni di Freud 88 4.2.1 Le regole per l’interpretazione dei sogni 95 4.3 La psicologia analitica: Jung 984.3.1 La lettura junghiana del sogno 1064.3.2 L’immaginazione attiva 1124.3.3 I sogni e il mondo infero: J. Hillman 116 4.3.4 Lo psicodramma onirico 1194.4 La terapia della Gestalt: Perls 1264.5 Il Cognitivismo 1304.6 Il punto di vista neurofisiologico 133

Capitolo V 5. lavorare con I SognI, lavorare dentro I SognI 1375.1 Il dream-work di Kaplan-Williams 1375.2 Il recupero della tradizione: incubazioni e viaggi ec-statici secondo M. N. Urech 142 5.3 Sogni lucidi 1455.3.1 Ricerche passate e attuali in Occidente 1455.3.2 Lo yoga tibetano del sogno 148 5.4 Sciamanesimo contemporaneo: C. Castaneda, A. Jodorowskj 1535.5 Generare sogni: R. Desoille 158 5.5.1 Sogni, immagini, fantasie, emozioni 1585.5.2 Desoille e il sogno guidato 1625.6 Il socialdreaming 164

Capitolo VI 6. bIotranSenergetIca: tranSe, Sogno, realtà 169

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6.1 Il sogno nella psicologia transpersonale 1696.2 La Biotransenergetica e il sogno 1716.3 In sintesi 181

Capitolo VII

7. I mIeI SognI: eSperIenze e valutazIonI 184

concluSIone 206

appendIcI

I. Scheda “In viaggio per risvegliarsi” (Sognodramma) 209II. Lavoro col sogno (condotto da P. L. Lattuada) 212

bIblIografIa 227 bIblIografIa dI approfondImento 233

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INtroDuzIoNE

Il sogno è un’esperienza che accomuna gli esseri umani, trasversale a tempi, luoghi, culture, identità, ruoli sociali; è involontario, si produce spontaneamente nel corso del sonno, e questo suo carattere lo rende universale: un aspetto dell’attività della coscienza, come universali possono essere le emozioni, le sensazioni, il pensiero, l’autoconsapevolezza. Il sogno è forse all’origine di ogni forma di riflessione dell’individuo su se stesso: ci porta immediatamente a un’interrogazione sul suo significato, che è sempre anche domanda sul significato che noi diamo alla nostra vita, al suo sdipanarsi attraverso eventi ed esperienze tra i quali cerchiamo di tessere una trama che la consolidi, che le offra consistenza. Come si vede, parlare del sogno implica immediatamente aprirsi a una serie di questioni di non poco conto: cosa significano i sogni? Ma essi significano veramente qualcosa? Perché sogniamo? In che rapporto stanno i sogni con la realtà, con la coscienza di veglia? Il sonno è una rappresentazione della morte, come si afferma in molte culture? E il sogno che ruolo ha in questa ipotesi? Le domande si moltiplicano e si fanno sempre più stringenti se collochiamo l’esperienza onirica in ambiti specifici; quello, ad esempio, delle neuroscienze con gli studi sulla psicofisiologia del sonno (fasi Rem e non Rem), e quelli più recenti sulle componenti neurobiologiche (quali aree della corteccia cerebrale attivano, sostengono e interrompono i sogni? Quali processi fisiologici sono presenti in essi? Da dove proviene il materiale mnestico usato nella produzione onirica? In che modo è rielaborato?). A questo punto di vista ho accennato nel Capitolo IV, ma l’angolazione dalla quale ho affrontato il tema del sogno è un’altra. Mi sono soprattutto chiesto che uso abbiano fatto del sogno varie culture e civiltà, il che non può prescindere dal

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significato che ognuna di esse dà all’esperienza onirica, in forma di teorie, implicite o esplicite, sulla natura di essa. Necessariamente, ho dovuto scegliere, in base al materiale reperibile, agli interessi personali, all’impossibilità evidente di trattare tutto ciò che in quest’ambito l’umanità ha sperimentato, riferito, prodotto, scritto, narrato. Ho volutamente cercato di introdurre sempre, affrontando le tematiche del sogno, elementi, anche ovvi, di contesto, di volta in volta di carattere culturale, religioso, storico, antropologico, per il buon motivo che l’esperienza onirica, pur nel suo essere universale, è sempre improntata al sistema di significati che un determinato assetto socio-culturale le impone; anzi, si nutre di essi, e proprio per questo si qualifica diversamente nel tempo e nello spazio geo-culturali.Nel Capitolo I ho cercato di correlare ontogenesi e filogenesi tracciando un’ipotesi che andrebbe approfondita con indagini specifiche di archeologia dell’immaginario, una disciplina ancor tutta da inventare. Nel Capitolo II ho preso in esame alcune delle culture tradizionali arcaiche più studiate (aborigeni australiani, nativi nordamericani), rilevando la centralità dell’esperienza onirico-visionaria nell’assetto della vita individuale e sociale di esse; il Capitolo III è dedicato ad alcune civiltà antiche, quella egizia e quella greca classica. Ho fatto un accenno, alla fine di questo capitolo, al destino del sogno dopo l’avvento del Cristianesimo, quando, nel mondo tardo-antico, le reminiscenze del paganesimo devono venire a patti con la nuova visione religiosa. Il medioevo europeo, d’altra parte, non può prescindere dall’avvento dell’Islam, che impone una cesura geografico-culturale nel Mediterraneo che dura tuttora. La cultura islamica è stata ed è particolarmente sensibile all’esperienza onirica. Nel Corano sogni e visioni sono ben presenti e valorizzati. Così si afferma in proposito in un recente Dizionario: “Il Corano non è un trattato di onirologia o onirocritica, ma l’importanza che esso accorda ai sogni e alla loro interpretazione convalida lo statuto eminente di queste scienze in seno all’Islam, e rende il

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sogno-visione l’asse privilegiato della comunicazione tra il mondo spirituale e il mondo sensibile”1. Del resto, sogni e visioni costellano la rivelazione ricevuta dal Profeta da Allah attraverso l’angelo Gabriele, e la tradizione (hadit) narra che Maometto ogni mattino interpellasse i Compagni di fede a lui più intimi sui loro sogni notturni. Cristianesimo e Islam richiedono, quanto allo statuto dei sogni, delle esposizioni specifiche qui non proponibili dati i limiti imposti dal tipo di trattazione dell’argomento.Con il Capitolo IV entriamo nella civiltà industriale urbana, due aggettivi che qualificano il nostro modo di vivere, ed esimono dal contestualizzare il destino del sogno in esso. Che ha un carattere ora comunque eminentemente individuale. Con Freud, Jung, Perls, il sogno perde il suo aspetto di messaggio dal trascendente, tratto comune alle civiltà arcaiche ed antiche. Diviene, attraverso analisi e interpretazione, uno strumento psicoterapeutico con il quale ed entro il quale si può lavorare in chiave di autoconsapevolezza e guarigione, come evidenziato nei Capitoli 5 e 6. Nel contesto odierno mi pare che si assista, anche se in ambiti di minoranza, ad un recupero di modi antichi di attualizzazione del sogno e alla riapertura di prospettive transpersonali (si vedano soprattutto la Urech e Castaneda). Di fatto, è ben difficile, se si sceglie di utilizzare un sogno, specie all’interno di un percorso psicoterapeutico, limitarne o costringerne le valenze: esso è sempre indagine su se stessi, apertura al transpersonale, porta possibile di accesso a dimensioni metaindividuali, ed altro ancora. Nel capitolo VII offro qualche riflessione personale sul sogno, nata in genere “a caldo”, attraverso intuizioni frutto immediato o quasi di una precedente esperienza onirica. Esse non configurano nessuna teoria nel senso più usuale del termine: la natura stessa del sogno, aperta, creativa, plurisignificante, lo rende impossibile.

1 Mohammad Ali Amir-Moezzi (2007), Dizionario del Corano, Mondadori, Milano, p. 923.

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

ISogni, bambini, arte preistorica

Non abbiamo nessuna testimonianza o documentazione che riguardi l’esperienza onirica nella preistoria, in nessun continente. Pure, lo sappiamo, l’esperienza del sogno è universale, ossia essa è propria della mente umana in quanto tale. I dati della preistoria non possono documentarci le attività immateriali: idee, concezioni religiose, forme di relazione tra individui eccetera. Di esse, restano tracce in reperti materiali, che vanno ricercati, studiati, collocati, capiti, e solo alla fine di molte operazioni, interpretati. A quest’ultimo proposito non c’è nessuna garanzia di fondamento. Questa premessa chiuderebbe ogni discorso sul tema, eppure, il celebre racconto di E. A. Poe, La lettera rubata2 ci ricorda che le cose che cerchiamo, non le troviamo proprio perché non sono nascoste, anzi, sono proprio lì, sotto i nostri occhi. Ma quando sono nati i sogni? Quando la mente ha cominciato a produrli, o a intercettarli? L’uomo del paleolitico sognava? La sua mente aveva accesso a questa attività immaginale? E quando la mente ha potuto avvalersi della facoltà dell’immaginazione? Sono domande impossibili, e tali sembrano le loro risposte. Eppure, da quando compaiono le prime documentazioni scritte, si presentano in esse immediatamente i sogni: da Omero al Poema di Gilgamesh, essi hanno sempre colpito a tal punto la mente di veglia, che si è sentita la necessità di raccontarli, ponendoli magari all’origine dei propri comportamenti, in quanto prescrizioni divine, come vedremo. Si può supporre quindi che i sogni abbiano avuto importanza anche prima dell’avvento della scrittura, che abbiano avuto una lunghissima vicenda che si perde nelle nebbie dell’origine della mente e della coscienza.

2 E. A. Poe, La lettera rubata, in racconti del mistero, Bur, 1949. La lettera si trovava in un portacarte, alla vista di tutti, proprio nello studio dove era stata tanto cercata…

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

Quando un individuo, nel suo processo evolutivo, comincia a sognare? Questa è una domanda a cui la risposta è possibile, anche se non certa. Sembra che il feto nell’ultimo trimestre della vita intrauterina presenti la fase Rem, ossia il sonno qualificato da intensa attività onirica3. Si ipotizza che l’oggetto dei sogni siano le impressioni sensoriali percepite dall’interno del corpo materno. A partire dalla nascita e fino ai cinque anni, il bambino presenta una maggior quantità di sonno Rem rispetto all’adulto: il 50% a fronte del 20%. Dunque, il sogno accompagna l’essere umano da subito, ma egli è in grado di raccontarlo a partire all’incirca dai tre anni. A questa età i sogni sono brevi, chiari, ed evidenti. Presentano personaggi animali, con scenari indefiniti e immagini prive di movimento. Ecco ad esempio, raccolto attraverso una breve ricerca personale, il sogno di Noemi (tre anni), che a richiesta dello scrivente risponde: “Ho sognato una tartaruga”. Successivamente, a tre anni e sei mesi, interviene uno scampolo di trama; la sognatrice è sempre lei: “Ho sognato un pesce grosso. Tu (lo scrivente) e la nonna eravate nella pancia del pesce. Ma poi uscivate”. Sogno e realtà, nell’esperienza onirica dei bambini, si intrecciano in modo inconsapevole ma evidente come risulta dal sogno di Elia (cinque anni): “Ero a casa di Tiziano (un amichetto della scuola materna) a giocare, e poi andavamo a casa mia, poi di nuovo a casa sua”. Il papà di Elia gli chiede: «Ma tu hai raccontato il sogno a Tiziano?» Risposta: «Ma se nel sogno c’era anche lui!». La domanda del padre risulta assurda per Elia, perché se l’amico Tiziano era nel sogno, non occorreva certo informarlo dell’accaduto! Successivamente, dopo i cinque anni, cominciano a prodursi sogni simbolici, come questo, sempre di Elia: “Mi sono cucito da solo i pantaloni e la maglia, poi me li sono messi sopra il pigiama e camminavo lento lento perché era scomodo”. Un sogno, a parere dello scrivente, di reinfetazione, forse dovuto alla notizia della nascita di una cuginetta... Dunque, lo sviluppo cognitivo

3 Si veda in proposito più avanti il par. 4.5 Il punto di vista neurofisiologico.

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

e affettivo comportano l’elaborazione dei primi simboli, di un immaginario usato per dare voce alle emozioni celate nella vita di veglia. Secondo Piaget il sogno è considerato dal bambino, fino ai 5-6 anni, un dato esterno, e non un prodotto della propria interiorità, ossia un oggetto mentale4. Con l’inizio della vita scolastica, la priorità accordata al linguaggio scritto e parlato, al ragionamento, stimolano l’emisfero cerebrale sinistro, probabilmente a scapito di quello destro, più funzionale all’attività analogica, associativa, immaginativa. Quest’ultimo tipo di attività mentali perciò si perdono, diventano secondarie, o sono canalizzate dentro gli schemi consueti degli stati di coscienza ordinari, come la creatività artistica ed ideativa, ben accetti purché non alterino le condizioni comuni di vita dello stato di veglia. Assumiamo ora come verosimile il principio affermato dal biologo tedesco E. H. Haeckel (1834-1919), secondo cui “l’ontogenesi è una breve e rapida ripetizione della filogenesi”. Se esso può essere accettabile sul piano biologico, altrettanto può accadere a livello psichico. Incontriamo qui l’irrisolvibile problema della origine della coscienza umana e del ruolo del sogno all’interno di questa sfera. Possiamo ammettere che esista una evoluzione nella vita psichico-coscienziale, che non procede per salti e cancellazioni, ma attraverso trasformazioni che includono modalità di funzionamento precedenti, e non escludono il ritorno ad esse, come ha ben evidenziato Freud, concettualizzando la nozione di regressione. Dunque nella vita psichica niente va perso, anche se essa si qualifica per una varietà e variabilità di stati che possono divenire qualitativamente prevalenti nelle varie fasi della vita. Per essere chiari: gli stati di coscienza della maturità-adultità non sono quelli dell’adolescenza, o dell’infanzia. Tornando alla preistoria, tra gli infiniti quesiti e misteri che essa ci propone, ce n’è uno particolarmente avvincente: l’esplosione dell’arte delle caverne, nel Paleolitico superiore, a partire da circa 40-30.000 anni fa. Stiamo

4 Citato in www.psicoanalisi.it, nell’articolo “Il bambino e il sogno” di D. Marenco. (Luglio 2010).

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

parlando dell’arte europea, in particolare della regione franco-cantabrica, estesa tra Francia e Spagna. Qui troviamo la concentrazione più elevata di attività grafica: circa 200 grotte5, con qualche “diramazione” anche in alcuni altri paesi, ma di entità assolutamente inferiore dal punto di vista quantitativo (Portogallo, Italia, Romania, Urali). Esse, assieme alla cosiddetta arte mobiliare che si sviluppa sempre in questo periodo (statuette in pietra, avorio, osso; tavolette di pietra o osso; oggetti vari di carattere più o meno pratico) costituiscono un blocco culturalmente omogeneo, frutto di attività e ideologie protrattesi per 20.000 anni, e comunque differenziato rispetto a ciò che avverrà in seguito. Il tema onnipresente sono le raffigurazioni di animali, che costituiscono più del 95% del contenuto iconico di questa raffinata attività grafico-rappresentativa: bisonti o uro (28%), cavalli (26%), mammut, stambecchi, cervi (26%), e a seguire orsi, felini, rinoceronti, pesci, uccelli. Uomini e donne sono presenti in quantità irrilevante, quasi sempre sostituiti dai loro simboli sessuali stilizzati. È stato dimostrato in maniera innegabile che queste rappresentazioni non sono estemporanee: le grotte che le ospitano sono luoghi oscuri, e quindi necessitavano di illuminazione ed impalcature che sorreggessero gli artisti, con diramazioni, portanti immagini, anche a un chilometro dall’ingresso! Si sono riscontrati schemi e ricorrenze, nonché regole e piani di utilizzo delle grotte; proprio per questo tali serie iconiche hanno un inequivocabile, anche se oscuro, significato simbolico. A. Leroi-Gourhan6, lo studioso per eccellenza dell’arte preistorica, le ha interpretate all’interno della dialettica tra le polarità maschile e femminile, strutturata in un primordiale sistema di segni all’interno del quale il bisonte o l’uro si associano al femminile, e il cavallo al maschile. Tale polarità, che peraltro ricorda lo Yin e Yang cinesi,

5 tra esse ricordiamo le celebri grotte di Altamira, in Spagna, di Lascaux in Francia, nella valle della Dordogna. L’ultima è stata scoperta nel 1994, a Chauvet, nella regione del fiume Ardéche, Francia sud-orientale.

6 Si veda A. Leroi-Gourhan, 1989 e 1997.

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

sarebbe a fondamento di un’ideologia mitico-religiosa, il cui significato non siamo in grado di chiarire. Questi materiali ci offrono perciò la testimonianza per noi quasi impossibile da decifrare di un sistema religioso-artistico-simbolico, frutto di una cultura comunque forte e incredibilmente estesa nello spazio e nel tempo. Mi permetto di ipotizzare che ad essa non sia estranea la dimensione onirica. I luoghi: le caverne sono state interpretate come simboli dell’interiorità misteriosa dei genitali femminili, in connessione con la dimensione ctonia della terra. Ciò è accettabile, ma esse sono anche, soprattutto e semplicemente, luoghi oscuri, dove anche di giorno si può riprodurre la condizione notturna cui sono legati il sonno ed i sogni. Abbiamo visto che gli animali sono il contenuto dei sogni infantili, almeno dei primissimi. D’altra parte, sappiamo che il mondo infantile è popolato di animali, dai peluche ai cartoni animati. Spesso il bambino è particolarmente legato a qualcuno di essi (orso, cagnolino), e si porta appresso un pupazzetto che lo rappresenta nell’attività di gioco della veglia (oggetto transizionale), ma anche e specialmente all’atto di andare a letto, quasi uno spirito-guida o aiutante consolatore, per dirla in termini sciamanici. Artisti abili come quelli del periodo che abbiamo indicato, capaci di cogliere con un realismo stupefacente le silhouettes degli animali effigiati, non hanno rappresentato che assai raramente una silhouette umana. Quale esperienza di vita, potente, capace di ripetersi, li avrebbe motivati, se non quella della visione onirica degli animali, che per le culture di caccia e raccolta rappresentano l’essenziale, cioè la sopravvivenza? Ipotizzo cioè che qui ci troviamo di fronte ad una reazione grafica, per così dire, conseguente all’esplodere, nella mente-coscienza, dell’onirismo, i cui contenuti non potevano non essere quelli inerenti al mondo animale per i motivi che abbiamo indicato. Esiste cioè nella filogenesi come nella ontogenesi una contiguità biologica da una parte, e culturale dall’altra, dell’uomo col mondo animale. Evolutivamente ne proveniamo; simbolicamente li individuiamo, e ciò accade ancora oggi nel nostro parlare metaforico

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

(esempio: sei un coniglio, sei un’oca...), come rappresentanti di qualità o specificità che noi umani, per motivi psicologici di proiezione e religiosi di aiuto, protezione, identificazione, ipostatizziamo. D’altra parte, forse non è un caso che nelle rare raffigurazioni di umani dell’arte parietale emergano conturbanti figure di uomini-animali, identificabili a buona ragione come sciamani. È stato giustamente osservato come le raffigurazioni di animali nel Paleolitico superiore non si inscrivano mai in un contesto, in un orizzonte: non esiste mai una linea grafica che, nella sua semplicità, indichi un appoggio, il terreno; esse sono sempre fluttuanti, aeree, prive di basi, spesso sovrapposte. E questo può essere attribuito al fatto che sono prodotti di un linguaggio simbolico, ma io personalmente ritengo che in questa caratterizzazione si manifesti la loro origine onirica o visionaria. La presenza dello sciamanesimo, nel mondo del Paleolitico superiore è assodata anche nella letteratura specialistica7, come anche la possibilità dell’uso di allucinogeni: la raccolta di vegetali che siano commestibili, la loro sperimentazione non può non aver prodotto l’incontro con piante e funghi dotati di effetti particolari. Sappiamo che lo sciamano, nelle culture arcaiche studiate dagli antropologi, è, come lo definisce Eliade, il tecnico dell’estasi, cioè del distacco, visionario o reale, dell’anima dal corpo, e che tale fenomenologia è indotta dall’uso di specifiche tecnologie, tra le quali, oltre alla musica ritmata di tamburi e sonagli, la danza, i digiuni eccetera, ci sono sicuramente l’utilizzo di vegetali che favoriscono allucinazioni e visioni, a partire dal semplice tabacco. Perché dunque non pensare alle caverne del Paleolitico superiore, oggi comunemente concepite come santuari, come luoghi consacrati alla dimensione notturna, onirica, visionaria, alla sperimentazione di questa presumibilmente “nuova” e potente

7 L’ipotesi di un’origine sciamanica dell’arte animalistica delle caverne è stata formulata in particolare in Clottes-Lewis Williams (2001), Les chamanes de la préhistoire. La Maison des roches, Paris, testo discusso in Aczel, 2010, Cap. XVI, Gli sciamani della tundra.

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

attività dell’immaginazione? Anche i mammiferi superiori hanno fasi di sonno Rem nelle quali sembrano sognare. Posseggono capacità mentali raffigurative? Non lo sappiamo, ma possiamo ipotizzare che esse forse coincidono con il nascere, faticoso ed incerto, della coscienza, cioè con la progressiva costruzione di uno spazio interiore, popolato dalle memorie rappresentative di figure dapprima isolate, come improvvise apparizioni mentali, e poi successivamente dotate di maggiore pregnanza, animate da maggiore energia psichica, capaci di cominciare ad intessere vicende, creare i primi schemi di significato, sulla base adattiva, magari, della necessità di ricordare esperienze, spiacevoli o piacevoli, in parallelo da una parte con l’evoluzione biologica del cervello (sviluppo della corteccia, consolidarsi dell’attività di memoria, sviluppo del mondo immaginale), dall’altra con la primordiale attività di significazione del mondo che forse si può far coincidere con la coscienza stessa. Nell’arte animalistica delle caverne del paleolitico superiore non abbiamo mai configurazioni interpretabili come narrazioni. Siamo, secondo me, ancora agli stadi primordiali dell’immaginario umano e della capacità di imprimere significati, di costruire un paesaggio interiore che si riflette poi sul paesaggio esterno. La distinzione tra stato di veglia, stato immaginativo, visioni, sogni, percezioni fantastiche non deve essere stata affatto scontata, come ci mostra tra l’altro, se vogliamo darle ascolto, l’esperienza infantile sia di sogno che di gioco. Ciò che ho detto non esclude che le rappresentazioni onirico-visionarie di animali possono essere divenute elementi di codici simbolici di cui ci sfugge il significato, ma che possono aver trovato nella pregnanza psichica fornita dal sogno, dalla esperienza onirica, la loro importanza agli occhi, ancora vergini, di una coscienza nascente. L’arte animalistica è decisamente connessa con la presenza dell’homo sapiens sapiens; prima, con l’homo neanderthalensis le raffigurazioni mancano del tutto. Dunque, qualcosa è intervenuto, a livello evolutivo ed esperienziale, o come frutto dell’integrazione di essi.

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Capitolo I - Sogni, bambini, arte preistorica

Mc Kenna, nel suo libro Il nutrimento degli dei8, canalizza lo sviluppo evolutivo umano nell’ambito dell’uso dei funghi allucinogeni, in particolare di quelli contenenti psilocibina, piuttosto comuni perché legati alla presenza di letame animale. Gli alcaloidi vegetali in essi contenuti, infatti acuiscono la percezione visiva, stimolano il sistema nervoso centrale, possono produrre una condizione estatica. Egli li considera dei catalizzatori nello sviluppo del processo di autoconsapevolezza e di quello dell’immaginazione. In campo psichico, ma anche in campo storico, non esistono monocausalità: ogni evento è frutto di un intreccio di fattori, e del significato che ad esso si attribuisce. L’ipotesi dell’autore citato può perciò essere accettata a buon diritto come una concausa, connessa al prodursi, nelle società di cacciatori-raccoglitori, della figura culturale dello sciamano, lo specialista degli stati non ordinari di coscienza, colui che forse ha il compito strutturale di mantenere aperti i canali con la dimensione sacrale delle origini, che il progressivo complessificarsi dei primi nuclei sociali, con il crearsi di forme di divisione del lavoro, di primordiali istituzioni, di forme di coscienza e significazione del mondo più articolate, meno olistiche, tende a lasciarsi alle spalle. I sogni sono forse, ancor oggi, quando il mondo di veglia si spegne, un richiamo, per lo più inascoltato, al mondo delle origini, al luogo del non tempo, non spazio, non significanza, ad una dimensione terrorifica e numinosa, nella quale l’Io può sperimentare momenti di annichilamento come di gioia assoluta, l’intera gamma delle emozioni che gli sono possibili, comunque filtrate entro la facoltà immaginativa, che è quella che ci consente, attraverso il vedere, un approccio al caos originario e alla sua energia creativa che non metta, dell’Io, in discussione l’esistenza.

8 Mc Kenna, 1995.

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Capitolo II - Culture tradizionali arcaiche

II Culture tradizionali arcaiche

2.1. Gli aborigeni australiani e il Tempo del sogno

2.1.1. Elementi di contesto

Gli aborigeni erano gli unici abitatori del continente australiano quando l’inglese J. Cook (1728-1779) sbarcò sulle sue coste orientali nel 1770. Si ipotizza che l’Australia contasse allora circa 300.000 individui, poi ridottisi di circa il 90% a causa delle conseguenze dello stanziamento dei colonizzatori europei, non ultima delle quali una politica di sistematico e consapevole sterminio. Oggi essi costituiscono il 2% della popolazione australiana (circa 400.000 individui). La loro presenza è databile a un periodo che oscilla tra i 60 e i 40.000 anni fa. Erano una cultura di cacciatori-raccoglitori, dotata di una strumentazione tecnologica molto essenziale: boomerang, lancia, propulsore (assenza di arco e frecce), ascia litica. Erano nomadi: la loro vita itinerante comportava un limitato bagaglio materiale (assenza, o quasi, di abbigliamento, di ceramica, di mezzi di trasporto...), la inesistenza di villaggi stabili (le abitazioni erano erette al bisogno, con materiali trovati in loco: capanne precarie di corteccia, tettoie, paravento per il fuoco), una base di sussistenza economica ridotta anch’essa al minimo, unità sociali assai limitate. Questa essenzialità di esistenza ha fatto ipotizzare che gli aborigeni riproducessero da millenni uno stile di vita arcaico nel quale si intravedeva la fase aurorale della vicenda delle società umane. Per questo sono stati oggetto di intensi studi da parte degli antropologi tra ‘800 e ‘900, che proprio in relazione ad essi hanno elaborato ed approfondito le nozioni di totemismo, di tabù, di esogamia eccetera (Durkheim, Radcliff-Brown, Levi Strauss...). Oggi, come ci ricorda

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Capitolo II - Culture tradizionali arcaiche

M. Eliade, “la storicità delle culture e delle religioni primitive è stata universalmente accettata”9, perciò nessun antropologo ritiene che la cultura aborigena non sia cambiata nel tempo. E ci riferiamo anche al periodo precedente l’incontro con la cultura europea e il forzato diffondersi del Cristianesimo, che hanno imposto dei modelli di vita e cultura ai quali gli aborigeni hanno reagito, con notevole creatività. Ciò che abbiamo detto finora ha soprattutto l’intento di sottolineare come lo stile di vita essenziale e arcaico degli aborigeni contrasti in maniera singolare con la complessità del loro ordinamento sociale e con la ricchezza, che è quanto in questa sede ci interessa, del loro patrimonio spirituale.

2.1.2. Il Tempo del sogno Parlare in termini generali di aborigeni australiani è riduttivo e semplificante. Essi, nel tempo dei primi contatti con i futuri colonizzatori, contavano circa 200 gruppi linguistici diversi. E, come sappiamo, lingua significa cultura, stile di vita, identità. I contenuti della vita spirituale dei nativi australiani che qui riferiremo, sono espressione di alcune di queste culture, in particolare quelle degli Aranda (Australia centrale), e dei Murugin (Australia settentrionale), le più studiate. Esse, tuttavia, presentano un modello mitico-spirituale che è diffuso in tutte le diverse comunità aborigene, e che si identifica nella fondamentale nozione di “Tempo del sogno”. Tale nozione, nella sua accezione in lingua inglese (dream time) è entrata nell’uso corrente quando si parla, a qualsiasi titolo, delle culture native australiane. Ma non si è sviluppata nessuna forma di problematizzazione della dimensione ontologica ad essa sottesa, che pure risulta, nella prospettiva della psicologia transpersonale, assai interessante. In lingua aranda “altjira” significa letteralmente “eterno,

9 M. Eliade, 1979, p.10.

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Capitolo II - Culture tradizionali arcaiche

increato, emergente fuori da se stesso”10; è un concetto presente in termini diversi in ogni lingua aborigena; è intimamente legato all’idea del sognare, del sogno, concepiti come tempo sacro, primordiale, un tempo che diviene, appunto, dimensione ontologica nella misura in cui esso non appartiene al passato, non è semplicemente, come vorrebbe M. Eliade11, il tempo delle origini, ma esso appartiene costantemente al presente, ossia è una specie di dimensione implicita, parallela, eterna, atemporale, che sottende il reale ed il presente nella loro vivibilità e storicità. Non a caso, il tempo cronologico e il suo scorrere non sono importanti, anzi sono decisamente trascurati nelle culture aborigene. Perché di fatto il cambiamento, le modifiche, il variare, non hanno una valenza autonoma, come nella concezione occidentale del progresso e della storia, ma sono proiettati sempre entro l’Altra dimensione. Il sogno, inteso nel senso più proprio di fenomeno onirico, è presente anche nel Tempo del sogno, ma con una specifica valenza creativa, come mostrano i miti degli Unambal (Australia nord-occidentale) riportati da Eliade12. Secondo costoro, all’inizio del mondo esisteva solo la terra, nel cui profondo viveva Ungud con l’aspetto di un grande serpente, mentre nel cielo viveva Wallanganda, impersonificazione della Via Lattea. “Tra l’uno e l’altro, Wallanganda e Ungud crearono ogni cosa, ma soltanto di notte, in seguito ad un sogno di creazione. Ungud, potendo essere sia di un sesso che dell’altro, o anche bisessuale, si trasformò negli Esseri di cui sognava. A sua volta Wallanganda ‘sognava’ gli esseri che generava”13. Come spesso accade, le vicende mitiche fanno da riferimento e modello per gli accadimenti terreni. E così, secondo gli Unambal, “ogni essere umano comincia con l’essere un ‘germe di bambino’, chiamato jallala. Suo padre lo trova in un sogno e in un

10 Paini, 1977, p. 226.11 Vedi Eliade, 1979.12 Eliade, 1979.13 Eliade, 1979, p. 68.

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altro sogno lo proietta dentro sua moglie”14. Si può constatare perciò come il termine “sogno” indichi almeno due dimensioni: quella più propriamente usuale connessa al sonno, e quella più ontologica del Tempo del sogno. In ogni caso il sogno è una vera e propria matrice di vita, tale per cui tutta l’esistenza reale dei vari gruppi nativi ne è integralmente contraddistinta. Presso gli Aranda troviamo il mito delle origini che può essere considerato paradigmatico all’interno del complesso mondo spirituale aborigeno. Narrano questi nativi che la terra era, all’inizio, simile a un piano desolato, senza sole, luna, stelle, colline, fiumi, piante, animali. Non c’erano in essa né morte né vita, c’erano migliaia di esseri soprannaturali, increati, sempre esistiti, sprofondati sotto terra nel sonno eterno. Questi Esseri si svegliarono dal sonno, uscirono in superficie, “generati dalla loro stessa eternità”. Avevano forma di animali (canguri, emù) o di uomini e donne. I loro luoghi di affioramento restarono impregnati del loro potere. Essi cominciarono a percorrere la superficie della terra, dando al paesaggio dell’Australia il suo aspetto attuale. Alcuni “tagliarono gli individui dalla massa dell’umanità”, altri insegnarono loro a fabbricare utensili, accendere il fuoco, cuocere gli alimenti. Terminate queste peregrinazioni e fatiche, presi dalla stanchezza, ricaddero nel sonno originario: i loro corpi svanirono nel suolo o presero forma di rocce, alberi, tjurunga (oggetti sacri di legno o pietra). Anche i luoghi che costituirono la loro ultima dimora sono sacri, come quelli che li videro nascere, e sono accessibili solo agli iniziati, per cerimonie in occasioni particolari. Il Tempo del sogno, di fatto, è una realtà di carattere mitico-ontologico, dalla quale emergono e nella quale sprofondano gli Antenati di cui narrano gli Aranda. Lo stato di sonno è concepito come la dimensione che dà luogo ad ogni cosa e la riaccoglie, anche attraverso il peregrinare e l’operare degli Esseri primordiali. Esso, sottolineiamolo, è la condizione fisiologica del sacro, primordiale ma anche attuale perché

14 Eliade, 1979, p. 69.

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permanentemente sottesa alla esistenza in quanto tale. I nativi concepiscono la vita quotidiana, e il percorso temporale individuale in essa, in termini eminentemente spirituali, come un cammino di progressiva iniziazione, cioè di progressivo riavvicinamento alla dimensione del sogno-sacro, guidato dagli anziani, che solo nella vecchiaia, e magari in prossimità della morte, trova il proprio compimento. Ne consegue una concezione della realtà dove, come sottolineano Parker e Lambert15, “tutto ha un significato simbolico o è insignificante”. Gli individui vengono perciò istruiti a cogliere queste connotazioni nascoste, eppure presenti, specie nella terra, nei luoghi fisici che ci ospitano, nel paesaggio fatto di rocce, fonti, alberi che rinviano sempre ad un evento del Tempo sacro. La nascita è concepita come separazione dalle potenze del Tempo del sogno, e la stessa concezione dell’embrione è connessa alla azione di una potenza creatrice, identificata con un elemento del luogo (animale, pianta, particolarità fisica ambientale o meteorologico) presso cui la madre ha sentito la presenza del nascituro per la prima volta. Anche il nomadismo dei gruppi aborigeni non è affatto casuale, in quanto essi ripercorrono gli itinerari sviluppati dagli Esseri primordiali nel loro peregrinare creatore, le Vie dei canti, che B. Chatwin ha reso popolari con la propria opera16. Essendo società a tradizione orale, i miti vengono trasmessi appunto attraverso i canti, che si elevano solo in specifici percorsi di carattere sacro. La trascrizione di questi miti, la raccolta dei testi cantati, è concepita dalla cultura occidentale (antropologica e non), all’interno della categoria della narrazione, della storia, alla quale invece la cultura aborigena è completamente estranea. Il testo scritto che noi trascriviamo e leggiamo, manca dell’essenziale, cioè dei gesti che accompagnano il canto, dei luoghi che lo evocano, delle tonalità vocali che lo contraddistinguono. Di tutto ciò, cioè, che consente di connettere il presente, il qui e

15 Parker e Lambert, 1996, p. 87.16 B. Chatwin, 2010.

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ora, con l’eterno presente del Tempo del sogno. Come dice Marlo Morgan, “La Vera gente - cioè i nativi - non crede che la funzione precipua della voce sia quella di parlare... La voce è fatta per cantare, per celebrare, per guarire”17.Leggere i miti degli aborigeni dà una strana sensazione di dejà vu: ossia, il significato di essi, che in genere fonda un’usanza, una credenza, la conformazione di un luogo fisico, ma in fin dei conti quasi ogni aspetto della vita quotidiana, in tutte le sue manifestazioni, sembra l’equivalente di quello che accade quando noi ricordiamo e narriamo i nostri sogni: li organizziamo, dando loro una specie di trama che prelude all’attribuzione di un significato, ma, tralasciando l’analisi freudiana rispetto al pensiero onirico latente e manifesto, i sogni, gli eventi dei sogni, i loro personaggi e luoghi, sembra si producano in maniera immotivata, secondo un modo di presentarsi che definirei metonimico. C’è questo, e anche questo, e poi questo... Ossia, il materiale del sogno sembra prodursi in modo autopoietico, in assenza di qualsiasi struttura di significato, come accade agli Esseri del Tempo del sogno, che, a un certo punto, si svegliano e, in forma assolutamente gratuita, originano la vita, le persone, le cose, i luoghi... Non a caso le comunità aborigene, almeno nel tempo storico in cui gli antropologi e gli etnologi ne rilevarono le specificità, vivevano con il minimo di corredo materiale ed oggettuale. Sarebbe riduzionistico riportare tutto alle caratteristiche dell’ambiente, della terra australiana. In realtà, si ha l’impressione che i 40 o 60.000 anni di presenza in quell’ambiente abbiano determinato sì i mutamenti che la storia, in quanto proporsi di esperienze, impone, ma che gli aborigeni si siano mantenuti consapevolmente assai prossimi a quel “luogo delle origini”, il Tempo del sogno appunto, che fa da riferimento a ogni aspetto della loro esistenza materiale o spirituale. La contiguità, la presenza atemporale di questa dimensione fondante

17 M. Morgan, 1999, p. 85.

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ogni esistenza possibile, comporta di per sé quella creatività spirituale, sottolineata da molti osservatori e studiosi, che ha consentito loro, nel contatto con la cultura occidentale, di non scomparire definitivamente, nonostante le piaghe sociali da essa indotte, ma di reagire rinnovando con nuovi culti la loro vita spirituale. Mi riferisco qui ai movimenti religiosi nati già a fine ‘800, sviluppatisi nel corso del ‘900, con la prossimità al mondo dei colonizzatori, e grazie ai processi di forzata evangelizzazione, cioè a quei culti millenaristici, profetici, itineranti, che, se da un lato esprimono un esplicito rifiuto nei confronti della propria tradizione, dall’altro ne riutilizzano gli schemi arcaici trasformando ad esempio Gesù in uno degli Eroi del Tempo mitico18.

2.1.3. Un’interpretazione psicoanalitica

La psicoanalisi ha dialogato fin dalle origini con l’antropologia; Freud fu un attento lettore di Totemismo ed esogamia (1910) di Frazer, che probabilmente accentuò un interesse già presente per i fenomeni psichici connessi alla religione, e gli ispirò la stesura di Totem e tabù (1912-13), che egli considerò per tutta la vita una delle sue opere migliori. Freud rileva la presenza, nel totemismo, delle due proibizioni che animano il complesso di Edipo: il divieto dell’incesto e quello di uccidere il padre. Di qui il confronto con il “mondo dei primitivi” e l’elaborazione della dinamica dell’orda fraterna che, spinta dall’odio verso il padre prepotente e detentore del potere sessuale sulle femmine, lo sopprime. Ma il primitivo moto di ammirazione e identificazione per lui riemergono nella forma del rimorso e del senso di colpa che determinano la revoca dell’atto omicida attraverso l’instaurazione della proibizione dell’uccisione dell’animale totem,

18 Vedi Eliade, 1979, pp. 155-156 e Paini, 1997b, pp. 406-409.

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sostituto simbolico del padre, e l’interdizione della sessualità con le donne del proprio clan familiare. Le ipotesi di Freud ebbero scarso successo presso la cultura antropologica, sia perché fondate su studi di seconda mano, cioè materiale già manipolato e riportato dagli antropologi nelle proprie opere, sia perché esse avevano come punto di riferimento gli autori di indirizzo evoluzionistico che l’antropologia più aggiornata, come quella funzionalista di Malinowski, contestava. Ma nell’ambito del movimento psicoanalitico ci fu chi, sollecitato dalle ipotesi freudiane, decise di operare sul campo. Ci riferiamo alla figura di Geza Roheim (1891-1953), psicoanalista ungherese e antropologo, particolarmente legato tra l’altro a Sandor Ferenczi, che tra il 1928 e il 1931 intraprese una lunga spedizione, della quale Freud era a conoscenza e ai cui risultati era interessato, soprattutto per cercare conferme alla universalità del complesso di Edipo, nel corso della quale toccò anche l’Australia (fu presso gli Aranda) e la Melanesia. Egli aveva già dedicato un’opera, Il totemismo australiano (1925) alle tematiche antropologiche, risultato però di uno studio su documentazione scritta, e non raccolta di prima mano. Frutto di questa spedizione in presa diretta fu Gli eterni del sogno (1945), che, come afferma il sottotitolo dell’opera, offre una “interpretazione psicoanalitica dei miti e dei rituali australiani”. In essa Roheim ci conferma innanzitutto la correttezza della “traduzione” dalla lingua indigena aranda del termine chiave: “Da informazioni raccolte sul campo, mi sembra evidente che altjira, altjirerama sono termini che significano tutti ‘sognare’”19. Come pure il duplice livello della dimensione del sogno, laddove afferma: “Nell’Australia centrale si incontra il corroboree (termine introdotto dai colonizzatori inglesi per indicare qualunque cerimonia o danza indigena), sia nella versione sacra sia in quella non sacra. Il primo tipo è basato su un mito intorno agli eterni eroi del sogno, il secondo su sogni reali di persone viventi. Comunque questi sogni reali hanno spesso

19 Geza roheim, 1972, p.309.

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per oggetto il motivo altjirarangamitjina, e in tali casi la danza può prendere spunto da un sogno e da un testo mitico. In altre aree la tradizione viene ereditata, ma deve essere comunque sottoposta a una rielaborazione onirica da parte di chi ne è il depositario”20. Egli sottolinea dunque la polisemia della nozione di Tempo del sogno, che è storia mitica, tempo in cui si svolge il racconto, e sogno vero e proprio, ma in ogni caso evidenzia che la realtà acquisisce significato solo in riferimento a storie sognate. La sua ipotesi fondamentale è che in un “oscuro passato” i miti aborigeni siano nati o come effettivi prodotti storici, cioè siano frutto di esperienze reali, o come sogni ad occhi aperti, fantasticherie, frutto di attività di investimento libidico verso l’ambiente, che viene così a prendere dei significati, divenendo meno terribile e minaccioso. In ogni caso, tali racconti vengono trasmessi per generazioni, venendo così sottoposti a un processo di rielaborazione fantastica, e rendendo indistinguibile ciò che è originario da ciò che è stato aggiunto. Ma questa è una valutazione, a mio parere, che ha poco senso per la mentalità aborigena, perché ogni cerimonia, ogni rituale è una ripetizione di ciò che era primordiale, e nel contempo riconnessione con un mondo che è sempre presente, per cui ciò che viene eseguito oggi è comunque sempre ciò che venne eseguito allora. In ogni caso, il nostro psicoanalista-antropologo sottolinea: “Possiamo osservare come il meccanismo tipico del sogno diventi il nucleo delle mitologie e del rituale indigeni, e come successivamente, tale rituale si confonda a tal punto con la componente onirica del mito che diviene difficile distinguerli”21. Le interpretazioni che Roheim dà del materiale raccolto (racconti, riti, miti, usi, ruoli sociali...) sono sempre molto, troppo coerenti con la sua formazione psicoanalitica. Così ad esempio: “la stagione della carestia sopraggiunge a causa della scena primaria, cioè in conseguenza del coito fra i genitori,

20 Geza roheim, 1972, p.309.21 Geza roheim, 1972, p.326.

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mentre durante la buona stagione essi ‘depongono le uova’, cioè si prendono cura della generazione futura”22; oppure: “in numerosi dialetti australiani, i termini per indicare acqua, seno, latte, donna sono simili, o addirittura identici, e il rituale affronta la rappresentazione simbolica della sofferenza dovuta alla mancanza di acqua, come se si trattasse del tradizionale problema del bambino privato del seno materno”23, e così via. Ora, se da una parte si apprezzano la meticolosità e l’ingegnosità con cui Roheim elabora minuziosamente le proprie ipotesi interpretative, alle quali nessun dato rituale, nessun oggetto sacro, nessun elemento comportamentale sfugge, dall’altra risulta difficilmente ammissibile l’idea che “il totemismo, inteso come istituzione sociale, è una difesa organizzata contro l’angoscia di separazione”24. Ma questo soprattutto in termini generali: non è più accettabile infatti l’etnocentrismo culturale europeo che spiega nei termini delle proprie categorie di pensiero le caratteristiche delle culture “altre”. D’altra parte, è da tener presente che la spedizione sul campo di Roheim, era frutto di un’esigenza del movimento psicoanalitico, e cioè la necessità di dimostrare l’universalità delle componenti e delle dinamiche psichiche individuate da Freud, che cominciava ad essere messo in discussione proprio da parte della cultura antropologica più avveduta. Resta il fatto che l’esperienza del contatto col mondo aborigeno, e con altre culture native, segnerà profondamente l’opera di Roheim, offrendogli materiali ed intuizioni che troveranno sintesi in un’opera complessiva sul mondo onirico, Le porte del sogno (1953), sulla quale non ci soffermiamo perché non ha lasciato eco né nella cultura antropologica, né in quella psicoanalitica, e tanto meno in campo psicoterapeutico.

22 Geza roheim, 1972, p.355.23 Geza roheim, 1972, p.357.24 Geza roheim, 1972, p.360.

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2.2. I nativi nordamericani e il potere delle visioni

2.2.1 Elementi di contesto

Come sottolinea P. Desy25, pochi gruppi etnici sono stati studiati quanto gli indiani del Nord-America. Linguisti e genetisti sottolineano la fondamentale unità di queste popolazioni, entrate ad ondate successive, provenendo dall’Asia Nord-orientale, a partire dai 40.000 e probabilmente fino ai 12.000 anni fa. A questa origine bio-etnica comune si contrappone una varietà straordinaria di culture, lingue, visioni del mondo e religiose, strutture antropologiche, sistemi sociali. Tale da rendere difficile uno studio organico che individui possibili ricorrenze e consenta di offrire sistemazione, in ogni ambito disciplinare, ad un materiale così sovrabbondante. Vale la pena di ricordare che sono state individuate più di una decina di famiglie linguistiche principali26, circa 150 gruppi etnici ad elevata caratterizzazione, non considerando quelli estinti, ma si arriva all’ordine del migliaio per quanto riguarda complessivamente il territorio del Canada e Stati Uniti attuali. L’antropologia odierna ha individuato 10 aree culturali la cui denominazione è ormai accettata e utilizzata in letteratura27. Paradossalmente, il vero elemento unificante queste popolazioni è stato il destino comune, dato dall’incontro-scontro con i conquistatori europei, che ha, in un certo senso, imposto loro il paradigma dell’evoluzione storica, una nozione ad esse sconosciuta, ma che ha fatto da spartiacque, terribile, per gli esiti che ben conosciamo, nella loro vicenda. I nativi nordamericani erano comunque popoli di cacciatori e raccoglitori, in alcuni casi agricoltori, che non conoscevano, prima del contatto con gli europei, la scrittura, l’uso dei metalli, strutture urbane e statali. Il

25 P. Desy, 1989.26 P. Desy, 1989, p. 4227 Artico, Sub-artico, California, Costa nord-ovest, Altopiano e bacino, Pianure e praterie, Nord-

est, Sud-est, Sud-ovest, Meso America.

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loro numero effettivo, fonte, questa questione, di eterne discussioni tra i demografi, risulta oscillare tra gli 800.000 e i 3 milioni, al tempo dello sbarco dei primi coloni inglesi, ridotti a 250.000 nel 1890, e oggi si aggira intorno ai 4 milioni28. L. E. Sullivan29 ci mette giustamente in guardia dallo stereotipo dell’“indiano che scompare”. Esso è nato subito, al momento del primo contatto, ad opera degli europei invasori, ed era funzionale alla appropriazione delle terre di popoli presentati come ormai in via di estinzione. Il che ha condotto ad una svalutazione sistematica della loro presenza, delle loro idee, del loro modo di percepire il mondo. L’immagine dell’estinzione spesso ha romanticamente attratto anche coloro che, e non sono pochi, si sono fatti paladini delle culture native, attingendo comunque da esse positivi elementi di spiritualità e di visione del mondo. 2.2.2. Religione e spiritualità degli indiani del Nord America

Abbiamo detto che la varietà e la sovrabbondanza di materiale rende difficile ogni sintesi unitaria, né del resto è questo l’obiettivo in relazione all’argomento che qui si sta trattando. Cercheremo piuttosto di sottolineare quanto è funzionale a contestualizzare il tema del sogno, la cui accezione in questo caso non può non estendersi alla nozione parallela di visione. In ambito psicologico, sogno e visione sono manifestazioni diverse della capacità allucinatoria della psiche. Esse hanno in comune la spontaneità, cioè la capacità di prodursi al di là del controllo della coscienza e della ragione, l’uno nell’ambito del sonno, e quindi in stato di assenza della volontà cosciente, l’altra nello stato di veglia, come frutto di uno stato di coscienza diverso rispetto a quello ordinario. Sogni e visioni, beninteso, possono essere provocati, con il ricorso intenzionale a determinate tecniche, ma i

28 Questi dati sono desunti dall’Atlante De Agostini 2005.29 Sullivan, 2000, p. 21.

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loro contenuti sono sottratti all’intenzionalità cosciente, anche se si configurano sempre in termini culturalmente connotati. Tuttavia, in ambito religioso e spirituale, nei materiali che appartengono a queste, come ad altre culture tradizionali, tale distinzione viene a cadere, per il semplice motivo che non la fa chi li sperimenta entrambi come modi di rivelazione da parte del Sacro. In termini generali, va ricordato che la religiosità, per i nativi, non è separata dalla vita, ma anzi ne è il cuore. Ce lo sottolinea L. E. Sullivan: “Nelle società native americane la religione non può essere ridotta ad un affare privato o a una dottrina in cui si crede. La vita religiosa trasporta invece verso la vitalità che riempie le circostanze ordinarie e verso i poteri che rendono il mondo concreto... La religione diviene la base per una corretta percezione del mondo naturale e della natura umana, e inoltre della terra, dello spazio e del tempo”30. La religione non è dunque qualcosa di specifico, di a sé stante, e per questo non esiste, in nessuna lingua indiana, una parola che la definisca sinteticamente, come invece accade nella cultura occidentale per questo concetto. D’altra parte, nelle lingue indiane, i termini non sono simboli, non stanno al posto dei concetti, ma le cose sono realmente presenti nei nomi, che sono perciò portatori di una forza particolare. Le parole sono espressione del soffio vitale di chi le pronuncia, ed esso è parte del Soffio vitale dell’Universo. Ogni essere esistente, ogni forma e ogni forza presenti nell’ambiente naturale partecipano dell’essenza sacra e perciò sono oggetto di un rispetto profondo. Esiste una specie di parentela cosmica, di relazione di interdipendenza tra tutto ciò che esiste, ben espressa dalla formula con cui i Sioux Lakota concludono le loro cerimonie: “mitakuye oyasin” (siamo tutti parenti!)31. A garanzia di tutto ciò esiste una forma di energia cosmica, soprannaturale, in forma di continuità creatrice, dotata di potenza, che viene chiamata, nelle sue manifestazioni, Manitù in lingua algonchina, Wakan in quella

30 Sullivan, 2000, pp. 24-25.31 Citata in Vazeilles, 1997, p. 162.

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Sioux, Orenda presso gli Irochesi. Essa inerisce a certe forze naturali, a determinate capacità personali (caccia, facoltà sciamaniche), è presente in certi oggetti, si può manifestare in canti e nelle danze cerimoniali. Solo piuttosto tardi, probabilmente in seguito al contatto con il Cristianesimo, essa ha finito per indicare una divinità superiore, l’Essere supremo, o Grande spirito. Al potere di questa forza, all’origine del tutto impersonale, si può accedere tramite sogni o visioni, che costituiscono un’esperienza assai importante nella cultura dei nativi nordamericani che, lo sottolineiamo nuovamente, si identifica con la loro visione religiosa del mondo.

2.2.3. Sogni e visioni

La valorizzazione, l’uso, la ricerca attiva di sogni e visioni possono dunque essere considerati un tratto specifico, anche perché assai diffuso, delle culture native del Nord-America. Come lo è la presenza dello sciamano, che in un certo senso, offre un modello di esperienza di contatto con la dimensione del soprannaturale, nelle sue molteplici manifestazioni, attraverso un processo individuale di preparazione e ricerca. La connessione tra questi due elementi culturali non è dunque casuale, e forse, come è stato osservato da Vazeilles 32, essa è tipica dell’individualismo dei popoli cacciatori-raccoglitori; del resto, l’acquisizione del potere attraverso la visione, presso i nativi americani ha spesso una valenza soprattutto personale, ossia, è funzionale ad un ampliamento delle proprie capacità e qualità; allo sciamano essa procura anche uno specifico e fondamentale ruolo sociale, del quale ora parleremo. Detto questo, va sottolineato che il tema dei sogni e delle visioni ha un’articolazione specifica, nelle varie culture native, che rispetteremo fornendo distinti esempi. Non è possibile infatti scorporare sogni e visioni dai sistemi culturali, dalle

32 Vazeilles, 1997.

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concezioni del mondo in cui si collocano e di cui sono espressione. In queste realtà, come del resto in altre, essi non sono fenomeni psichici, concepibili cioè come una categoria astratta di eventi di esclusiva pertinenza della facoltà allucinatoria della mente, e come tali estrapolabili ed assimilabili.

2.2.4. Lo sciamano nordamericano: il medicine-man

M. Eliade, nella sua opera classica Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, sottolinea come gli Eschimesi delle zone artiche del Nord-America garantiscano la continuità tra lo sciamanesimo dell’Asia settentrionale e quello, appunto, del Nord-America, di cui costituiscono una delle aree culturali formalmente riconosciute dagli antropologi (Artico). Essi ospitano perciò, secondo il nostro autore, una forma classica di sciamanesimo, caratterizzata soprattutto dalle capacità estatiche che consentono il viaggio nelle profondità sottomarine, nella dimora della Signora degli animali, per ottenere abbondante cacciagione, il bel tempo, la fine delle tempeste, o in Cielo, nel Paese dei morti, magari alla ricerca di un’anima. Hanno anche la funzione di guaritori, che nelle altre aree culturali del Nord-America è diventata prevalente, tanto da imporre l’introduzione, a questo proposito, del termine “medicine-man”, uomo-medicina. Se dunque lo sciamano artico mantiene la sua connotazione di professionista dell’estasi, il medicine-man nord americano opera per lo più senza attingere alla condizione estatica, né è soggetto al fenomeno della possessione, presente invece, appunto, presso gli eschimesi ed alcuni gruppi nativi della costa Nord-occidentale, che di essi subiscono l’influenza. Del resto, ciò che distingue l’individuo comune, capace comunque di ricercare ed ottenere visioni, dallo sciamano, è una differenza di ordine quantitativo più che qualitativo: essa consiste “nella maggiore quantità di sacro che i secondi hanno assimilata”; nel fatto che “lo sciamano dispone di un numero maggiore di spiriti

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protettori o custodi e di un potere magico religioso più forte”33. E ciò è confermato anche da Hultkranz, che ci attesta che il medicine-man è “soprattutto in grado di guarire i malati... (e) fa beneficiare la società del suo potere soprannaturale... la sua vocazione è quella di aiutare l’intero gruppo e su questo aiuto si basano il suo prestigio e la sua preminenza politica”34. La qualità dei poteri determina la terapeutica delle malattie. Come evidenzia l’autore appena citato, la perdita dell’anima, ad esempio, richiede una condizione estatica, cioè la capacità da parte dell’esperto di far viaggiare la propria anima alla ricerca di quella sfuggita ad un membro della comunità; questa facoltà, ben sviluppata presso gli sciamani artici, è sostituita nelle altre culture native nord-americane da una procedura rituale cosciente, dove il viaggio nei mondi dell’al di là viene mimato nei suoi aspetti avventurosi e drammatici. L’intrusione oggetto-malattia, che è una diagnosi che si adotta in caso di sintomatologia fisica, implica raramente una trance, per lo più finalizzata alla richiesta di consigli sul caso agli spiriti, o di aiuto per risolvere la malattia, spesso causata da uno spirito o un individuo umano malevolo o uno stregone. C’è infine il caso di malattia determinata dalla violazione di un tabù, che spesso si risolve con la confessione al medicine-man della mancanza di cui l’individuo è colpevole. In ogni caso l’assunzione del ruolo di medicine-man è frutto di tre vie diverse, che spesso possono coesistere. Esse sono l’eredità, dove un individuo vede comparire in sogno un medicine-man defunto, suo parente, che gli affida la prosecuzione dell’attività; la vocazione, nel senso di chiamata spontanea da parte degli spiriti, attraverso sogni o visioni; la ricerca volontaria attraverso una visione procurata, dei poteri presso gli esseri soprannaturali. Come si vede, visioni e sogni sono i principali strumenti di contatto e comunicazione tra gli uomini e il mondo soprannaturale (aggettivo questo da usare con cautela perché

33 Eliade, 2005, pp. 340-341.34 Hultkranz, 1978, pp. 215-216.

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implica una distinzione tra i due piani che spesso non è culturalmente sancita). Un contatto che è nello stesso tempo straordinario per la qualità dell’esperienza, ma nel contempo ordinario, perché esso si colloca nell’ordine delle esperienze possibili per non dire comuni, cioè perfettamente compatibili con il dato esistenziale e culturale della comunità di appartenenza. E di ciò andiamo ora a trattare.

2.2.5. Gli Absaroke-Crow35

Appartengono al gruppo linguistico Sioux, e sono annoverati, per le caratteristiche della loro cultura, tra gli indiani delle pianure e delle praterie (caccia al bisonte, uso del cavallo, presenza di società guerriere, sistema di guerre intertribale...). Hanno una storia complessa, che li ha portati a stanziarsi negli attuali Stati del Montana e del Nord-Dakota. Oggi vivono in riserve nel Montana, con una popolazione di circa 6-8000 individui. È proprio una visione che dà origine alla costituzione dei Crow come gruppo autonomo. Agli inizi del XVII secolo un leader visionario, di nome Inanimato, ebbe dallo Spirito del mondo la rivelazione che gli Absaroke avrebbero avuto un futuro là dove cresceva una specie sacra di tabacco. Egli li guidò a staccarsi dal gruppo degli Hidatsa verso questa terra promessa. L’esperienza visionaria non è patrimonio solo di individui straordinari. Essa, ci ricorda Lanternari36, può accadere a chiunque spontaneamente. Ad esempio “un Crow adulto, mentre porta all’abbeveraggio i cavalli, si addormenta e riceve una visione; gli appare un guerriero con dei segni particolari dipinti sulle gote, con una penna d’avvoltoio sulle spalle, che gli insegna un canto magico spiegandogli che questo canto, quel disegno, quelle penne, gli varranno, se egli li adotterà

35 Absaroke significa “uccello dal grande becco”, un essere mitico. Essendo identificati nel linguaggio dei segni da due mani che battono come ali di uccello, furono denominati Crow, “corvi”, in lingua inglese.

36 Lanternari, 1966, p. XI.

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per sé, a ottenere vittorie in guerra e prestigio sugli altri”. In questo caso la visione ha un valore assai importante per chi la ha sperimentata e ne adotta i consigli: è determinante di un destino benefico, e si colloca nell’ambito del potenziamento dei poteri personali, poiché indica la via del successo. Talune delle visioni ricevute spontaneamente si presentano in situazioni critiche: dopo una sconfitta, durante un terribile temporale, dopo la morte di un congiunto. Hanno comunque la stessa funzionalità delle prime; nella maggior parte dei casi però l’individuo Absaroke ricerca volontariamente, “con sincerità e decisione”, l’esperienza del sacro. I Crow sottolineano che essa “dipende da te” (“It’s up to you”), cioè è frutto di una scelta, un’intenzionalità precise. Come dire che, se tu non cerchi il sacro, difficilmente (ma in qualche caso, come abbiamo visto, si verifica) il sacro cercherà te. Il sacro (maxpè) è espressione di un mondo interconnesso, dove l’individuo umano è inserito in una rete di esseri, animali, piante, luoghi, spiriti. Egli partecipa di questo mondo, dei suoi benefici (terra, risorse), ne segue la guida, in una logica di reciprocità, scambio, adozione. L’impiego di quest’ultimo termine non è casuale: l’individuo Absaroke si sottopone al digiuno, frequenta luoghi solitari (ad esempio alcuni luoghi specifici delle Prior Mountains), si presenta come un abbandonato, un orfano agli esseri spirituali, che sono mossi così ad adottarlo, a dargli un aiuto e soprattutto una guida, il Padre di medicina. Sogni e visioni sono lo strumento di contatto e comunicazione con questi esseri, che si presentano per lo più in forma di animali (esempio: l’aquila). Essi sono pregati ed invocati in un periodo di digiuno (4 giorni) e solitudine, e compaiono nelle modalità immaginarie trasmesse, specie attraverso canti e narrazioni, dalla memoria culturale tribale. Può accadere che il contatto fallisca, che nessuno spirito si presenti: ma ciò, come dicono gli Absaroke, “dipende da te”, come abbiamo visto, cioè da come uno si è preparato a questo che è un momento fondamentale nella vita di un Crow. Sono per lo più i giovani maschi, in una specie di rito di iniziazione auto procurato, che vanno alla

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ricerca della visione, di quel legame cioè con un essere spirituale, che permarrà a vita, e ne segnerà l’esistenza determinandone le modalità, soprattutto in termini di benessere, prestigio, prosperità. La visione è dunque un’esperienza di carattere personale, non collettivo, funzionale alla definizione del destino di chi la ricerca, quindi alla promozione della sua individualizzazione (termine che uso mutuandolo dal lessico junghiano). Essa è ricercata, ma anche concessa, non obbligatoriamente: richiede un voltaggio psichico elevato, che si alimenta all’interno della specifica tradizione culturale degli Absaroke. Quest’ultima è stata rinnovata, come del resto è accaduto per numerose etnie native, dall’introduzione di nuovi elementi come, nella prima metà del secolo scorso, il culto del peyote, la danza del sole, le pratiche spirituali delle chiese pentecostali cristiane, nelle quali, non a caso, sogni, visioni, esperienze estatiche hanno un ruolo centrale.37

2.2.6. I Lakota-Sioux

I Sioux38 erano un tempo una grande nazione indiana, che comprendeva sette gruppi, i “sette focolari”, poi riunitisi in tre distinte entità, Dakota, Nakota, Lakota, caratterizzate da tre modi diversi di pronuncia delle parole, tanto che il termine “Sioux” oggi sta ad indicare soprattutto, nella letteratura specializzata, un gruppo linguistico. Sono annoverati nell’area culturale degli Indiani delle Pianure e delle Praterie. I Lakota furono i protagonisti di alcuni degli episodi più drammatici delle guerre indiane (anni ‘80 del diciannovesimo secolo), cioè della resistenza all’espansione della Frontiera, quali Little Big Horne e Wounded Knee. Oggi essi vivono

37 Si veda in proposito J. A. Grim, Vie tradizionali e vitalità contemporanea: gli Absaroke-Crow, in Sullivan, 2000, testo del quale mi sono servito, assieme a Lanternari, 1960, in questa disanima della spiritualità Crow.

38 Dal termine algonchino nadowe-is-iw-ug, ossia “piccole vipere”.

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nelle riserve del Sud Dakota, con una popolazione di circa 50.000 unità.La Ricerca della visione (hambelechia) è un’esperienza fondamentale nella vita religiosa e spirituale dei Lakota. Potremmo dire nella vita tout court, poiché, come afferma Hassrick: “La religione dei Lakota permeava ogni azione dell’uomo, ogni suo attimo di vita. Essa era parte costitutiva dell’uomo, era dentro di lui”39. Nell’universo dei Lakota esiste il Grande mistero, la totalità delle cose sacre, Wakan Tanka, che designa una divinità suprema, che include molteplici manifestazioni che comprendono tutto il visibile e l’invisibile, il mondo materiale e immateriale. Tra esse ci sono molti dei, i Controllori dell’universo, che sono stati creati ma non sono nati, e perciò sono immortali. Sono nel contempo esseri e forze, hanno forme animali ed umane, attributi e debolezze umani; si distinguono in Dei superiori, Aggiunti, Parenti-degli-dei, Simili-a-dei... Il tutto comprova l’interconnessione del cosmo Lakota nei suoi vari aspetti. In esso, l’umanità è una parte infinitesimale; la vita sulla terra è difficile, pericolosa, effimera; le forze della natura sono grandi, incombenti, cosicché l’uomo non può illudersi rispetto alla propria collocazione dentro questo universo stupendo, misterioso, terribile. Di qui, da parte dell’uomo Lakota, la gratitudine per la possibilità di partecipare alla vita, ma anche la necessità di comprendere bene il proprio posto, e quindi di conoscere l’insieme delle forze naturali e soprannaturali, e di interpretarne, laddove possibile, il volere. Per questo è fondamentale il ruolo degli uomini e donne sacri, degli sciamani, esperti conoscitori della cultura dell’universo, capaci di stabilire un rapporto tra sé stessi e i Controllori, di interpretare il macrocosmo per la propria gente, di consigliarla sul modo giusto di comportarsi. Essi sono attenti osservatori del cosmo, conoscitori degli dei, delle loro specificità, delle loro manifestazioni, dei loro simboli, delle tradizioni mitologiche e leggendarie, delle procedure

39 Hassrick, 1983, p. 218.

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cerimoniali adeguate ad ogni situazione. Presso i Lakota sono “sognatori” coloro che hanno avuto una visione, e hanno coltivato il potere ricevuto tramite essa. “I Sioux credevano che l’uomo non potesse riuscire a niente senza il potere; che con esso quasi tutto fosse possibile. Il potere era concepito come una forza che emanava dal carattere soprannaturale di cui l’uomo poteva essere dotato”40. La visione poteva prodursi spontaneamente, in età infantile. Alce Nero, sciamano degli Oglala, ha narrato quella che ebbe a nove anni. Essa era stata preceduta dal manifestarsi di voci che per lo più lo chiamavano, talvolta provenienti da animali. Era intervenuta nel corso di una strana malattia che lo aveva colpito, con gonfiori nel corpo e perdita di coscienza per 12 giorni. In questo periodo egli viene condotto da due uomini, scesi dal cielo a testa in giù “come frecce che cadono”, al cospetto degli Avi, che gli trasmettono insegnamenti, poteri, visioni del futuro. Tutto questo accade in alto, in cielo, dove viene trasportato da una nuvola, con interventi di voci, di animali sacri (cavalli, aquile...), e ha la possibilità di vedere sotto di sé, dalla cima di una montagna altissima, tutto il mondo. “In quel luogo vidi più di quello che posso raccontare e capii più di quel che vedevo”41. Quando rientra in stato di coscienza normale, e si ritrova nella propria tenda, con accanto i genitori logicamente assai preoccupati, egli sente “uno strano potere che ardeva nel mio corpo”, ma è anche da subito consapevole che “se la parte di me che parla avesse tentato di dirne il senso in parole, quel potere sarebbe diventato come nebbia e si sarebbe allontanato da me”42. Alce Nero ricorda che dopo quella indicibile esperienza, per un certo periodo non vuole vedere più nessuno perché “sembrava che non appartenessi più alla mia gente” e “tutto ciò che vedevo

40 Hassrick, 1983, p. 220.41 Neihardt, 1982, p. 47.42 Neihardt, 1982, p. 54.

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intorno mi sembrava strano, come fosse lontano”43. Per altro successivamente egli ha “sensazioni strane” che gli consentono di anticipare, di prevedere degli eventi; comprende a volte il linguaggio degli animali da cui provengono molte informazioni; ode delle voci; capisce infine di essere depositario di particolari facoltà; tutto ciò lo impaurisce, così i suoi genitori interpellano un vecchio sciamano cui Alce Nero racconta le sue visioni. Egli lo consiglia di “compiere la visione”, cioè di rappresentarla, assieme ai membri del suo gruppo. Il che accade, liberando lui dalla paura, nel corso di una cerimonia chiamata “Danza del cavallo”, dopo la quale molti malati ed afflitti si sentono meglio, e qualcuno guarisce. A 18 anni ha una seconda visione, la “Visione dei cani”; cerca i consigli di un altro vecchio sciamano; anch’essa viene rappresentata, infatti “un uomo che ha una visione non è in grado di servirsi del suo potere finché non ha rappresentato la visione sulla terra, davanti alla gente”44. Alce Nero, riflettendo in capo alla vita su quanto gli è accaduto, dichiara di non sapere perché certi poteri sono stati concessi a lui, ma è perfettamente consapevole che “il potere è del mondo dell’al di là, e le visioni e le cerimonie avevano fatto di me soltanto una specie di buco, attraverso il quale il potere poteva raggiungere i bipedi. Se avessi pensato che ero io stesso a farlo, il buco si sarebbe chiuso e non avrebbe lasciato passare più alcun potere”45. Il vecchio sciamano Oglala sottolinea che i poteri a lui presentati nella grande visione originaria vengono attivati progressivamente, per cui alla “danza del cavallo” e alla “cerimonia dei cani” seguono quelle del “bisonte” e quella dell’”alce”, che corrispondono a vari momenti e aspetti di essa. In ogni caso, egli chiede con pianti e preghiere agli spiriti la comprensione, perché “è dalla comprensione che proviene il potere; e il potere della cerimonia stava nella comprensione di ciò che essa

43 Neihardt, 1982, p. 55.44 Neihardt, 1982, p. 207.45 Neihardt, 1982, p. 208.

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significava; perché nulla può vivere bene se non in una maniera che si accorda con il modo in cui vive e si muove il sacro potere del Mondo”46.Oltre alle visioni spontanee, c’erano, presso i Lakota, quelle ricercate e ottenute in vari modi. Esse erano per lo più precedute da un sogno, che si andava a farsi interpretare dagli sciamani riconosciuti, e che induceva alla hambelechia. Ci si poteva ritirare in solitudine in cima a una collina sacra, scavare una fossa, coricarcisi nel contesto di alcuni rituali preparatori, ed attendere la visione digiunando. Altri cercavano di ottenerla invece durante la danza del sole. Essa è la cerimonia religiosa per eccellenza non solo presso i Lakota, ma anche presso molti altri gruppi tribali dell’area delle Pianure e delle Praterie47. Si svolgeva nel periodo del solstizio d’estate, aveva all’origine un significato propiziatorio per la guerra e la caccia; aveva un carattere collettivo, nel senso che vi partecipava tutto il gruppo tribale. Implicava vari livelli di partecipazione, tutti all’insegna del sacrificio, della privazione, del dolore. Si andava dall’esposizione al sole, senza mangiare e bere, per tutta la durata della danza (da quattro fino a 10-12 giorni), all’uso di mutilazioni, consistenti in asportazioni di pezzetti di carne dalle cosce e dalle braccia, alla pratica di forme di tortura auto inflitta, quali l’appendersi dei teschi di bisonte a bastoncini di legno infilati nella pelle delle scapole, che finiva per lacerarsi durante la danza; c’era poi chi veniva appeso con lo stesso sistema, comprendente stavolta anche il petto, a dei pali, ed infine chi si faceva legare al ”palo sacro” con delle funi che passavano sotto la carne viva. Tutti cercavano di liberarsi, con le sofferenze fisiche che possiamo ben immaginare. Chi ce la faceva da solo, senza neanche un aiuto finale da parenti o amici, aveva il massimo della considerazione. Si poteva partecipare alla cerimonia, in gradi diversi,

46 Neihardt, 1982, p. 210.47 La danza del sole fu proibita dal governo americano nel 1904, nuovamente autorizzata nel 1934,

cadde poi in disuso, ma rinacque nel 1973, e da allora è uno dei principali strumenti di identità di molte nazioni indiane.

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per adempiere a un voto, per chiedere la sopravvivenza in battaglia, o la salute per un figlio malato, per procurarsi la protezione degli dei, o infine per divenire sciamani. Le visioni si verificavano nei partecipanti nel corso della cerimonia; erano di natura diversa e comportavano facoltà diverse, producendo una naturale gerarchia tra i sognatori a seconda anche del grado di preparazione e partecipazione e dei suoi esiti. In esse comparivano animali (orso, aquila, alce, daino, bisonte), come rappresentanti di poteri, identificati nelle qualità loro specifiche, che erano complementi importanti e spesso necessari all’uomo. I sognatori si consorziavano con chi avesse avuto visioni simili, ed i neofiti ricevevano dai più esperti istruzioni e consigli. Potevano di conseguenza guarire solo certe malattie, certe ferite (ad esempio gli Orsi erano specialisti in fratture ossee). Le visioni qualificavano comunque anche per la cura con le erbe, per quella tramite l’internamento cerimoniale del paziente in una stanza buia, a fini terapeutici eccetera. Coloro che avevano portato a termine con successo la danza del sole nella forma di partecipazione più impegnativa e ricevuto le relative visioni, erano i candidati sciamani; essi ricevevano ulteriori istruzioni da un mentore sciamano che ne curava la completezza di formazione. Giungevano così a divenire sciamani riconosciuti: erano dotati di grande autorità; dirigevano e supervisionavano le cerimonie, erano esperti del mondo spirituale e capaci di contatto con esso, fornivano consigli e interpretazioni. Insomma ottenevano poteri e un riconoscimento sociale pari al sacrificio, come abbiamo visto, a volte molto oneroso, fatto per conseguirli.

2.2.7. Gli Ojibwa (Chippewa)

Fanno parte del gruppo linguistico algonchino, ed erano originariamente stanziati a nord dei laghi Superiore e Huron. Oggi sono divisi tra Usa (riserve del Minnesota, Nord-Dakota,

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Wisconsin) e Canada. Ammontano a circa 80.000 individui. Sono annoverati nell’area culturale degli indiani del Nord-est, dunque il loro patrimonio culturale è assai permeato dall’esperienza magico-sciamanica. A questo proposito, Hallowell afferma che “(presso gli Ojibwa) la capacità di sognare degli individui costituì un fattore di primaria importanza per la sopravvivenza della comunità, impegnata in una lotta di vita o di morte nel Nord inospitale, dove tutto dipendeva dalla caccia, dalla pesca, dalla raccolta a zappa”48. E ciò è frutto della presenza, nell’universo Ojibwa, di due categorie di persone, quelle umane e quelle “extra-umane”.Le relazioni con queste ultime si svolgono durante il sogno, mentre i rapporti con gli esseri umani, nella vita di veglia, senza però alcuna distinzione tra le esperienze che si hanno in questi due ambiti. Ciò non significa che gli Ojibwa non abbiano il “senso di realtà”: non affiderebbero a caccia e pesca la loro sopravvivenza! Però, di fatto, il loro modo di ragionare, ricordare, capire, immaginare, percepire non può prescindere dalla presenza e dal rapporto con gli “extra-umani”. Che sono il Sole, i Venti, i Padroni di piante e animali, gli Uccelli del tuono... Gli umani condividono con essi un’essenza fondamentale, costante, immutabile, e la presenza di una forma corporea che consente a tutti di identificarsi. Quest’ultima è mutabile, in quanto aspetto esterno, potenzialmente per entrambe le categorie. Le relazioni con gli extra-umani sono una realtà psicologica comune ed accettata, e tale da influenzare anche il comportamento del singolo individuo. Tali relazioni si intensificano però durante le “cerimonie di invocazione”, in cui gli uomini invocano la presenza degli extra-umani, ne chiedono l’aiuto, confidano loro i propri desideri. Gli extra-umani hanno aspetto, storie, vicende, abitudini che sono note agli Ojibwa attraverso i miti, la cui narrazione stimola gli extra-umani ad avvicinarsi e ad ascoltare ciò che viene raccontato. Essi perciò sono familiari, tanto da essere a volte percepiti visivamente,

48 Hallowell, A. J., La parte del sogno nella cultura ojibwa, in Lanternari, 1966, p. 112.

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ma per lo più compaiono in sogno, e quest’esperienza è considerata della massima importanza per il benessere di un individuo. Consente e favorisce un “assestamento della propria vita in accordo con i valori peculiari del mondo Ojibwa”, ossia il pimadaziwin, la “vita nella pienezza del suo significato”49. I sogni sono perciò importanti non solo a livello individuale, ma anche e soprattutto per l’organizzazione sociale, poiché capaci di determinare il comportamento effettivo delle persone; mancano infatti presso gli Ojibwa istituzioni che attivino forme di controllo sociale; quando un individuo trasgredisce i doveri che, assieme ai diritti, regolano i rapporti tra gli umani e tra questi e gli esseri extra-umani, subisce immancabilmente una punizione: la malattia, propria, o dei propri figli, o la morte della moglie o altre disgrazie. In pratica, il male “segue” colui che lo fa. Di qui un’autoeducazione improntata alla autodisciplina e al senso di responsabilità nei confronti della propria condotta, basi necessarie per affrontare un’esistenza, data l’ostilità dell’ambiente, comunque difficile. In questo contesto, l’aiuto degli extra-umani, ad esempio dei Padroni della selvaggina, e la loro protezione, per difendersi per esempio dai nemici, è una necessità. Ecco allora la centralità del “digiuno-sogno”, cioè di un rito di iniziazione maschile che comportava, previa condizione di purezza (nessun contatto con esseri femminili) e purificazione (lavaggio accurato degli indumenti), l’allontanamento dei ragazzi attorno ai 13 anni dall’accampamento. Essi venivano accompagnati nei boschi, si recavano su una piattaforma eretta appositamente su un albero, dove, senza allontanarsi mai, digiunavano da sette a 10 giorni, invocando l’aiuto degli extra-umani che, mossi a pietà, infine si manifestavano nei sogni e li benedicevano; tali sogni non potevano comunque essere raccontati per non compromettere le “benedizioni”. Esse consistevano in un aumento dei poteri umani, attraverso la garanzia della presenza di uno spirito protettore nel caso della vita, e nella

49 Hallowell, A. J., La parte del sogno nella cultura ojibwa, p. 124.

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acquisizione, a volte, di poteri eccezionali, ad esempio di guarigione. Il neofita diviene cioè un “invocatore”, che può, oltre a guarire, anche rendere favorevole la caccia, avere informazioni su ciò che accade a persone lontane, proteggere la comunità da spiriti malefici, rivelando talvolta poteri analoghi a quelli degli extra-umani, come dar vita ad oggetti inanimati, trasformare una sostanza in un’altra (ad esempio la cenere in polvere da sparo) eccetera. L’hybris, l’arroganza, è poco apprezzata nel mondo degli extra-umani: gli invocatori non devono ricorrere troppo spesso al loro aiuto, non devono ostentare i propri poteri, non devono cercare di ampliarli insistendo nei digiuni, non devono essere avidi di beni materiali. I poteri eccezionali chiedono il rispetto incondizionato di obblighi (non mangiare certi cibi, non avere rapporti sessuali in certi periodi, o non parlare eccetera). Anche questi obblighi, come il contenuto dei sogni, vanno taciuti, né può essere spiegato il comportamento che impongono. Per tutti questi motivi, “il sogno provocato con il digiuno rappresentava un’esperienza basilare nella vita di un uomo, un’esperienza in cui i rapporti personali instaurati con i pagawanok (“persone extra-umane”) erano destinati ad influire su gran parte del suo destino come individuo”50.

2.2.8. Gli Irochesi

Presenti nella regione dei Grandi laghi, avevano un’economia di tipo agricolo cui provvedevano le donne (coltivazione del mais, fagioli, zucche), integrata da caccia e pesca, appannaggio degli uomini. Costituivano una lega di cinque tribù, potente e ben organizzata sia sul piano politico sia su quello militare. Sono annoverati tra gli indiani del Nord-est. Sono presenti oggi in alcune migliaia, in riserve nello stato di New York e nell’Ontario canadese. Anch’essi ammettono,

50 Hallowell, A. J., La parte del sogno nella cultura ojibwa, p. 136.

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come i Lakota-Sioux (Wakan), e gli Algonchini (Manitou) un’energia impersonale, numinosa, detta Orenda, termine che designa anche un Essere supremo celeste. Presentano inoltre una forma accentuata di dualismo mitologico (coppia di gemelli divini) cui corrispondono, sul piano cosmico, l’opposizione di luce e tenebre, forze ordinatrici e forze caotiche; tale dualismo si proietta sul piano rituale nella ripartizione della Casa Lunga, che ha la funzione di luogo sacro, tra gli spazi ad est, dai quali accedono le donne, e quelli ad ovest, da cui accedono i maschi. Anche l’anno è diviso in due metà, quella estiva e quella invernale, affidate cerimonialmente a donne e uomini. Essi sono gli unici nativi a poter essere annoverati, assieme ai vicini Huroni, tra gli antesignani della psicologia dinamica. Ci rammenta infatti Ellenberger che i gesuiti francesi, nel XVII secolo, “si stupirono nel vedere l’importanza attribuita (da questi popoli) al soddisfacimento dei desideri di una persona, quali erano espressi nei sogni”51. Esistevano al riguardo, secondo il resoconto di uno di questi gesuiti, padre Raguenau, delle vere e proprie feste dei sogni, durante le quali, a un individuo ammalato, venivano dati molti oggetti, che si supponeva fossero desiderati da lui e perciò fossero all’origine della sua malattia, raccolti all’interno della tribù. Il malato guariva e talora diveniva anche ricco. Esistevano degli specialisti, capaci di capire quali fossero i desideri inconsci, cioè non noti nemmeno al malato, guardando in un recipiente colmo di acqua. E di indicarli agli altri membri della tribù. Le cerimonie di festeggiamento del Nuovo anno, comprendevano anche, secondo le narrazioni stupite dei gesuiti, un momento di follia collettiva in cui uomini donne e bambini correvano come pazzi per le strade, chiedendo a chi incontravano l’interpretazione dei loro sogni, che non venivano mai raccontati direttamente, ma espressi con indovinelli, frasi oscure, gesti, canzoni. All’interpretazione seguiva la fase della soddisfazione, talvolta molto difficile da realizzare. Si ricorda la richiesta di un banchetto di carne

51 Ellenberger, 1993, p. 28.

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umana, quella di uccisione di un prete francese, accanto a quelle più comuni di procurarsi una lancia, dare una festa, avere i mezzi per farlo, eccetera. Ma lasciamo parlare direttamente Padre Raguenau che nel 1648 scriveva:

Oltre ai desideri che riteniamo sorgano in noi liberamente, o perlomeno volontariamente, e che derivano da una precedente cognizione di un bene che immaginiamo esista nella cosa desiderata, gli Huron credevano che le nostre anime abbiano altri desideri, per così dire innati e segreti. Essi scaturiscono, secondo loro, dalle profondità dell’anima, non per conoscenza, ma per un cieco trasporto dell’anima verso certi oggetti ... ora essi credono che la nostra anima renda noti questi desideri innati per mezzo dei sogni, che ne sono il linguaggio. Di conseguenza, quando questi desideri vengono realizzati, l’anima è soddisfatta; ma, al contrario, se non le viene concesso quanto desidera, essa si infuria, e non solo non dà al corpo il bene e la felicità che intendeva procurargli, ma spesso si ribella contro il corpo, provocando le più diverse malattie e talora anche la morte. In conseguenza di queste erronee convinzioni, gli Huron sono soliti ricordare con estrema precisione i propri sogni, e concedere all’anima ciò che essa ha espresso nel suo linguaggio di immagini durante il sonno ... Essi chiamano ciò ondinnonk, desiderio segreto dell’anima, rivelato da un sogno52.

Nella cultura irochese, dunque, il sogno sembra essere il rivelatore di un desiderio individuale che, se non soddisfatto, può portare l’individuo alla malattia. Questa teoria ha un risvolto sociale nella misura in cui è la collettività, nella festa dei sogni, che si incarica di risanare l’ammalato, appagando i suoi desideri, e nel contempo rinsaldandosi attraverso un momento di benessere collettivo (si banchettava...) e costituendosi come agenzia terapeutica sociale. Il che, per una popolazione nativa, per come ci è descritta alla metà

52 Citato in Wilson, 1994, p. 172.

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del ‘600, non è poco!

2.2.9 Alcune considerazioni

Uno dei padri dell’antropologia culturale, l’inglese E. B. Tylor (1832-1917), particolarmente interessato all’evoluzione delle culture “primitive” e allo sviluppo della religione, ha elaborato, a quest’ultimo proposito, la celebre nozione di animismo, che egli ritiene a fondamento di ogni espressione religiosa. Essa comporta l’attribuzione di un’anima a tutti gli oggetti, separata da essi e invisibile in condizioni ordinarie. Solo i sogni, le visioni, la trance consentono di farne esperienza. In questi casi infatti l’individuo constata la presenza di un duplicato di sé, dunque di un’essenza che sembra capace di abbandonare il corpo, di allontanarsene nel tempo e nello spazio, di incontrare altri esseri eccetera. Quest’essenza, la cultura occidentale la definisce anima; presso le culture “primitive” tale concezione si generalizza dando luogo alla credenza negli spiriti, nelle sue molteplici articolazioni, e alla fondazione della sfera del sacro. Tylor era un sostenitore della teoria dell’unità psichica del genere umano e della sua evoluzione dallo stato selvaggio a quello di barbarie, alla civiltà. Se è evidentemente obsoleta la concezione positivistica che fonda la nozione di “primitivo”, non è per niente disprezzabile il ruolo, a ben vedere di enorme importanza, che egli attribuisce alla esperienza onirica, e che riflette obiettivamente un dato di realtà, come abbiamo visto sopra a proposito di alcune culture native tradizionali.La prima considerazione, ancorché, ora, ovvia, è il grande rilievo culturale e sociale del mondo del sogno e delle visioni, da esso non disgiungibile, come abbiamo visto, se non nell’ambito delle puntualizzazioni inerenti alla psicologia come disciplina scientifica. Osserveremo inoltre la plurisignificatività d ell’esperienza onirico-visionaria. Essa, infatti, può essere concepita come una dimensione

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ontologica sempre presente e fondante il qui e ora dell’esistere (e ciò in modo più spiccato presso gli aborigeni australiani); la via maestra per entrare in contatto col mondo spirituale (nel caso dello sciamanesimo); la chiave di accesso al processo di individuazione (come nel caso degli Absaroke e degli Ojibwa); un modo indispensabile per procurarsi maggiori poteri sul piano personale (indiani delle Pianure); il luogo della rivelazione dei più intimi desideri personali (Irochesi). La dimensione onirico-visionaria è comunque indistricabilmente connessa con la esperienza del sacro, ed intrecciata perciò col mondo mitologico e spirituale delle culture native. Sognano gli umani, ma sognano anche gli esseri spirituali, gli spiriti-guida, e in taluni casi il mondo è proprio frutto di un sogno da parte di uno di essi. L’infinita potenzialità creazionistica della dimensione onirica è, d’altra parte, per chiunque stia attento al proprio mondo onirico, una constatazione sempre all’ordine del giorno. L’esperienza del sogno, ancorché individuale, è sempre connotata culturalmente dal sistema di significati che vengono trasmessi, nelle società native che sono eminentemente orali, dalle narrazioni, dai racconti mitologici che giustificano ed intessono riti e cerimoniali. Non c’è qui problema di esattezza filologica, perché la narrazione del qui ed ora è la versione veritiera, perché sostanziata dalla presenza, dalla voce, dal canto, dai gesti, dal luogo, dal contesto di chi, effettuandola, riattualizza o richiama, nel vero senso della parola, il mondo mitico spirituale, significando attraverso esso la propria realtà.È altrettanto interessante sottolineare l’accoglienza che il contesto sociale offre al sognatore-visionario. Nel caso ad esempio dell’esperienza di Alce Nero, tutto il gruppo tribale si mobilita e si concentra nella riproduzione della sua visione, perché essa in quel momento è fonte di vita e benessere per tutta la collettività. Dunque si sogna dentro un contesto culturale ed il contesto sociale prevede istituzioni (riti di iniziazione, feste, cerimonie eccetera) atte ad accogliere l’esperienza avuta, valorizzandola e integrandola.