civile-sociale, culturale e attività sociale. Decreto n ...cagioiosa.org/carte02_16.pdf · varvi...

32
MANTOVAstoria gioiosa Curato da Associazione Culturale Ca’ Gioiosa • Sede operativa Via Calvi, 51 • Mantova 02 16 dicembre Associazione di Promozione Sociale iscritta al Registro dell’Associazione della Provincia di Mantova negli ambiti: civile-sociale, culturale e attività sociale. Decreto n. 17/2007 Foto Mara Pasetti

Transcript of civile-sociale, culturale e attività sociale. Decreto n ...cagioiosa.org/carte02_16.pdf · varvi...

MA

NTO

VAst

oria

gioiosaCurato da Associazione Culturale Ca’ Gioiosa • Sede operativa Via Calvi, 51 • Mantova

0216

dice

mbr

e

Ass

ocia

zion

e di

Pro

moz

ione

Soc

iale

iscr

itta

al R

egis

tro d

ell’A

ssoc

iazi

one

della

Pro

vinc

ia d

i Man

tova

negl

i am

biti:

civ

ile-s

ocia

le, c

ultu

rale

e a

ttivi

tà so

cial

e. D

ecre

to n

. 17/

2007

Foto

Mar

a Pa

setti

2

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

In chiusura dell’anno che ha visto Mantova capi-tale italiana della cultura, il foglio «Ca’rte» – ema-nazione dell’Associazione culturale Ca’ Gioiosa – propone due numeri più sostanziosi del solito, dedicati rispettivamente alla Storia e all’Arte del territorio mantovano. L’ampiezza e la complessità delle tematiche suggeriva un approccio modesto, che ha da subito escluso la possibilità di realizza-re articoli scritti appositamente per tale iniziativa. Ricorrendo proprio quest’anno il cinquantenario della più prestigiosa rivista locale, quella «Ci-viltà Mantovana» che per volontà del fondatore don Costante Berselli avrebbe dovuto proseguire il lavoro svolto dalla monumentale ricerca Man-tova. La Storia, le Lettere, le Arti, si è pensato di omaggiarne la longevità fornendo ai lettori le sintesi dei contributi ivi comparsi che si sono giudicati a vario titolo interessanti. Certo, senza la pretesa (impossibile) di essere esaustivi; del resto, ogni selezione è arbitraria, quanto ogni ri-assunto è semplificatorio. È però la divulgazione il fine delle attività di Ca’ Gioiosa; e qui si tratta di un’esplorazione per frammenti, che cerca fra le pieghe gli argomenti meno frequentati se non eccentrici, per dimostrare semplicemente quanto il flusso culturale sia stato importante nell’alveo mantovano e si sia suddiviso in mille rivoli.Auguriamo dunque a chi legge, messe da parte e la diffidenza e l’altezzosità, di trovare nelle pa-gine seguenti le suggestioni, gli spunti, le molle per intraprendere un percorso di conoscenza (o magari di ricerca) più approfondito.

Claudio Fraccari

[Degli articoli di «Civiltà Mantovana» utilizzati si indicano naturalmente in calce gli estremi bibliografici. La ricerca, la selezione, le sintesi sono state effettuate da Mara Pasetti, Sandra Fontanesi, Laura Pasetti e Claudio Fraccari]

Ca’rte di storia

3

4

Si dice che le origini di Mantova siano da associare alla figura di Manto, maga tebana, che alla morte del padre Tiresia fuggì dalla Grecia per arrivare, dopo varie peregrinazioni, là dove il Mincio formava una palude e lì si stabilì. Virgilio nella Commedia di Dante così racconta (Inferno, XX, vv. 82-93), anche se nell’Eneide (X, 198-200) aveva fornito un’altra versione: fu Ocno, figlio di Manto, a fondare la città in onore della madre. Al di là di queste fonti letterarie, l’edificazione di Mantova sembra opera degli Etruschi, i quali tra il Tirreno e l’Adriatico fondarono 12 città; del resto Plinio (Naturalis Historia, III, 19) afferma che Mantova è l’unica città etrusca rimasta a nord del fiume Po. Recenti ritrovamenti archeologici suggeriscono un quadro ben diverso: nella zona di Roncoferraro i reperti sono databili al III secolo a.C., mentre il sito preromano di Bagnolo S. Vito risale addirittura al V secolo a.C.Lo stesso Virgilio fornisce notizie sulle componenti etniche di Mantova nel Libro X, dove accenna a una triplice stirpe. Ciò dà spazio a diverse ipotesi, pur nella certezza che vi fossero insediamenti di popolazioni diverse per etnia e nazione di provenienza. Se Virgilio si riferiva agli Etruschi, ai Veneti e agli Umbri, tutti di lingua italica, altri vedono oltre la presenza etrusca quella dei Romani conquistatori e dei Galli da questi ultimi conquistati; altri ancora agli Etruschi e agli Umbri aggiungono i Greci. Permangono tuttavia molti dubbi sull’esatta datazione dell’insediamento etrusco nella pianura padana, poiché ci sono ritrovamenti che risalgono ben prima del VI secolo a.C., addirittura in età protostorica.In ogni caso, Mantova poté rappresentare un avamposto di Felsina, a sua volta di fondazione etrusca, oppure fu una città-stato che controllava in piena autonomia il territorio posto fra il Mincio e il Po, sfruttando magari i corsi fluviali per raggiungere gli empori di Spina e Adria, attraverso cui collegarsi con il resto d’Italia e con l’Europa centrale.

[Cfr. G. Pirotti, Le origini di Mantova alla luce delle fonti letterarie e delle ricerche storico-archeologiche, in «Civiltà Mantovana», n° 10 (1985), pp. 1-14]

Le origini di Mantova

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

Sant’Anselmo patrono di Mantova

Nipote di un altro Anselmo (da Baggio, vescovo di Lucca poi elevato al soglio pontificio col nome di Alessandro II), l’Anselmo patrono di Mantova, anch’egli vescovo di Lucca, fu precettore e autorevole consigliere di Matilde di Canossa. Nato a Milano nel 1035 circa, morì il 18 marzo 1086 a Mantova, dove aveva tra-scorso gli ultimi anni, suscitando l’ammirata devozione dei mantovani, i quali vollero fosse tumulato nella cattedrale, benché l’umile volontà del defunto avesse scelto come ultima dimora il cenobio di Polirone, presso cui era stato ospite in qualità di semplice monaco. Ottenne la santificazione a breve distan-za dal decesso, fautore il pontefice Vittore III, successore di quel Gregorio VII, ovvero Ildebrando di Soana, che già l’aveva tenuto in somma considerazione. In questo torno di anni, vi è un terzo Anselmo da non confondere con il pa-trono di Mantova. Si tratta di Anselmo d’Aosta (1033-1109), arcivescovo di Canterbury e uno dei più insigni teologi del cristianesimo, il quale pure ebbe stretti rapporti con la grancontessa Matilde. Ne è prova iconografica una mi-niatura che mostra il Santo, seduto su un seggio episcopale, nell’atto di offrire a Matilde il Libro delle meditazioni e delle preghiere; la miniatura è contenuta in un codice del XII secolo conservato nella biblioteca austriaca di Admont. Dell’offerta di quel libro peraltro si parla in una lettera inviata dal medesimo Anselmo alla devota contessa, che gli sopravviverà solo di sei anni.

[Cfr. G. Sissa, Sant’Anselmo patrono di Mantova e gli altri personaggi omonimi nella vita della contessa Matilde, in «Civiltà Mantovana», n° 55-56 (1976), pp. 1-4]

5

6

Foto

Mar

a Pa

setti

7

Fino al 1867, Castel d’Ario si chiamava Ca-stellaro. L’antico toponimo era giustificato dalla presenza di una rocca che difendeva il borgo di confine. A Castel d’Ario esiste tuttora l’ossatura principale di quel castel-lo, di pianta pentagonale. La torre princi-pale fu da tempo immemorabile al centro di racconti leggendari di contenuto tenebro-so. Dalla fine del secolo scorso, una lapide posta sopra la porta principale del castello ha fornito una dimensione storica alle leg-gende: vi si ricordano due tragici episodi il cui epilogo avvenne proprio nella torre. Entrambi concernono i Bonacolsi, in parti-colare Rinaldo detto Passerino; costui, as-sediata e conquistata Mirandola nel 1321, fece rinchiudere lo sconfitto Francesco Pico con i suoi due figli, Prendimarte e Tomma-sino, nel torrione di Castel d’Ario, «scriven-do alcuni (…) che li facesse nella prigione consumare di fame» [S. Agnelli Maffei, Gli annali di Mantova, Tortona 1675, p. 663]. Solo sette anni dopo, la nemesi colpirà il Passerino: la notte tra il 16 e il 17 agosto del 1328 i cittadini mantovani, sobillati da alcune potenti famiglie in accordo con Lui-gi Gonzaga, improvvisarono un corteo di protesta; Rinaldo Bonacolsi uscì dal suo palazzo a cavallo, al fine di sedare con la sua autorità la sommossa, ma fu colpito a morte da un fendente sotto la torre del Pa-lazzo Comunale. Così terminava la signoria dei Bonacolsi a favore di quella dei Gonza-ga. I figli di Rinaldo, Francesco e Giovan-ni, e i figli naturali di suo fratello Butirone, Guido e Pinamonte, vennero rinchiusi in quella stessa torre di Castel d’Ario che ave-va fatto da tomba per Pico e la sua prole.

La torre della fame

In questo caso il medesimo cronista non ha dubbi, e usa parole memori delle terzine dantesche relative al conte Ugolino: «Dimo-rarono senz’altro cibo, più giorni, che d’ine-stimabile dolore, senz’altra bevanda che di lagrime, senz’altro refrigerio che di sospiri. Indebolivano, cadevano, a pena s’alzavano sopra il fianco, e alla fine sentendo e ve-dendo l’istessa calamità, l’uno inanzi agli occhi dell’altro miserabilmente morì» [Ibi-dem, p. 668]. A togliere a tali eventi il re-siduo velo di leggenda fu un avvenimento dell’agosto del 1851. Don Francesco Masè, parroco di Castel d’Ario e appassionato di storia locale, chiese e ottenne dagli am-ministratori del Comune l’autorizzazione a trasformare il fondo della torre principale del castello in una ghiacciaia, per conser-varvi il ghiaccio accumulato lungo l’inver-no e così dare sollievo ai malati colpiti da epidemie estive. Durante i lavori di scavo, vennero alla luce sette scheletri umani. Il 4 luglio del 1853 i resti vennero consegnati al Patrio Museo accompagnati da una rela-zione dello stesso don Masè. Il conte Carlo D’Arco l’11 ottobre presentava al Municipio di Mantova uno scritto in cui affermava come il ritrovamento certificasse che i Pico e i Bonacolsi furono davvero rinchiusi nel torrione di Castel d’Ario. Nell’anno 1915 tutto il materiale rinvenuto venne dato in custodia al museo di Palazzo Ducale.

[Cfr. C. Berselli, La torre della fame di Castel d’Ario, in «Civiltà Mantovana», n° 6 (1966), pp. 5-12]

La domus Zoiosa, voluta nel 1388 da Francesco Gonzaga e divenuta sede dagli anni venti del Quattrocento di una cele-bre scuola guidata dall’umanista Vittorino da Feltre, oggi è scomparsa, inglobata probabilmente in successive strutture della corte gonzaghesca sul lato nord dell’odierna piazza Castello.La casa nacque come appendice della corte e probabilmen-te a fini ricreativi e di rappresentanza, poi si trasformò in una scuola-collegio, vera e propria fucina d’arte e di cultura alla quale si formò una folta schiera di personaggi politici

La Ca’ Zoiosa

8

e di chiesa, d’arme e di cultura, molti dei quali – basti pensare al marchese Ludovico II Gonzaga e a Federico da Montefeltro duca di Urbino – furono tra i protagonisti del Rinascimento italiano. La palazzina era strutturata su due livelli ed era composta di almeno una ventina di stanze dalle pareti decorate e dai nomi suggestivi: del sarace-no, falcone, gallo, sole, gigli, pavoni, cervette, gatta, luna, serpe, grifone, cuochi, sirena, cicogna, pesce, quadri, vai. Residenza giovanile dei figli del marchese, Ludovico, Ales-sandro, Carlo e Gianlucido, la domus venne accuratamente

9

allestita per ospitare Vittorino e i suoi discepoli: tra gli al-tri figuravano Bartolomeo dall’Orologio e numerosi copisti, anche greci, attivi presso lo scriptorium annesso alla scuo-la. Sul registro delle spese di Gianlucido troviamo annotati anche, come miniatores, Belbello da Pavia e Pisanus pictor dal 1442.Alla morte di Vittorino nel 1446 la scuola proseguì grazie alla guida di alcuni suoi discepoli, ma già negli anni ses-santa fu abitazione occasionale per ospiti illustri e poi de-posito di materiali destinati ai lavori di ristrutturazione che

stavano interessando il vicino castello di San Giorgio.Nata quindi come una ‘palazzina di delizia’, anticipazione di Palazzo Te, la Zoiosa, secondo una ricostruzione dello studioso Ercolano Marani fu infine l’area su cui sorsero dal-la fine del ‘500 due teatri di corte, il mercato dei Bozzoli nell’800 ed ora l’area del Museo Archeologico mantovano.

[Cfr. V. Manfrè, Alle origini della reggia gonzaghesca: un’indagine sulla Ca’ Zoiosa, in «Civiltà Mantovana», n° 136 (2013), pp.9-37]

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

Il po

dest

à Gin

ori

10

Gabriele Ginori, nato da famiglia fiorentina il 4 marzo 1450, fu podestà a Mantova dalla fine del 1493 al 31 ottobre 1494, dopo esserlo stato a Reggio e a Novara, e prima di esserlo a Milano. Lo si ricorda in rapporti assai stretti con Ludovico Sforza detto il Moro, tanto da far sospettare che ci fosse qualche sua responsabilità nei rapporti non certo amichevoli che intercorsero tra il duca di Milano e il marchese di Mantova Francesco Gonzaga. Lo stemma del Ginori, oggi nel museo di Palazzo Ducale, si trovava incastonato sul lato della torre del Palazzo Comunale (la cosiddetta Torre delle Ore) prospiciente piazza Broletto. Si tratta di un blocco rettangolare di ceramica colorata di pregevole fattura, tanto che l’opera è stata attribuita alla bottega dei Della Robbia. Nella parte superiore si legge la seguente iscrizione: GHABRIEL + GINORIUS + NOBILIS + FLOREN + COMES + EQES + AC + PRET – ossia: Gabriele Ginori, nobile fiorentino, conte, cavaliere e pretore (= podestà). Al centro sta lo stemma dei Ginori, uno scudo celeste con banda in oro caricata da tre stelle pure celesti; attorno fanno cornice altri stemmi intercalati da composizioni di frutti e fiori: in alto lo stemma dei Gonzaga, a destra quello di Firenze e a sinistra quello degli Estensi (in omaggio a Isabella D’Este); nella banda laterale sinistra si rico-nosce l’arma dei Medici, mentre a destra campeggia lo stemma della Chiesa. L’uso di ricordare la propria magistratura pare risalga a G. Battista Castelli, podestà dal 1483 al 1485; dunque il Ginori ne fu tra i primi imitatori. Il suo stemma rimase sulla Torre delle Ore fino al 1797, quando la municipalità giacobina volse il suo furore contro tutto ciò che rammentasse l’aristocrazia.

[Cfr. C. Berselli, Lo stemma del podestà Ginori, in «Civiltà Man-tovana», n° 27 (1970), pp. 181-184]

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

11

Autore quattrocentesco di una famosa cronaca man-tovana, Andrea da Schivenoglia proveniva da una ricca famiglia che possedeva terreni nella zona sud-orientale di Mantova. Là fu costretta a ritirarsi a seguito di una congiura finita male contro i Gonzaga e a favore degli Estensi. Andrea riteneva che solo il denaro contasse veramente: tanto più un individuo ne possedeva, più egli lo identificava nel “bon cita-din”, il quale poteva così concorrere al decoro della città conducendo una vita dignitosa e tranquilla nel-la sua “stancia” (casa), considerata il possedimento fondamentale. Da qui una precisa registrazione, da parte del nostro cronista, delle dimore e delle fami-glie che risiedevano nella Mantova del XV secolo. Egli elencava soltanto proprietari di un certo rango, non certamente il popolo minuto né tanto meno gli ebrei (benché numerosi e benestanti). Tuttavia gli capitava di menzionare spesso uomini che, nono-stante le umili origini, si erano arricchiti, e dunque come tali degni di un occhio di riguardo. Per arriva-re a questo, secondo Andrea, un sistema sicuro era farsi amici i principi – operazione non facile, visto che lui stesso non era riuscito ad avere uffici presso la corte mantovana. In alternativa, il metodo migliore per arricchirsi era praticare la mercatura (commer-cio), che a Mantova grazie alla presenza del Mincio era alquanto fiorente. Il dettagliato elenco con cui lo Schivenoglia censiva le varie categorie sociali non seguiva un ordine logico, rispettando però il censo: l’appellativo di “messere” era riferito ai principi e ai nobili, mentre “maistro” spettava a medici, chi-rurghi, insegnanti, artisti, sarti. Al netto da tali pre-giudizi, gli scritti dello Schivenoglia rappresentano un’importante testimonianza per conoscere la storia (e la mentalità) mantovana del Quattrocento.

[Cfr. E. Marani, Andrea da Schivenoglia testimone della coeva società mantovana, in «Civiltà Mantovana», n° 7 (1985), pp. 7-14]

Andrea da Schivenoglia

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

12

Nei primi decenni che seguirono la storica impresa di Colombo, le notizie di quanto stava accadendo si limitarono a circolare nel ristretto ambito delle corti: tra il popo-lino e la gente comune non era presente la coscienza di quei nuovi fenomeni, ed essi continuarono per secoli ad ignorarne la portata.Colombo, il 15 febbraio 1493 sulla via del

La scoperta dell’America

ritorno, raggiungeva l’arcipelago delle Canarie dove pose in carta una succinta cronaca della sua impresa. La spedì poi da Lisbona ai sovrani spagnoli a Barcel-lona e, contemporaneamente, spedì altre due missive pressoché identiche a influenti dignitari della corte spagnola che lo avevano aiutato nella sua impresa. La lettera ebbe una diffusione rapidissima, anche in

Alla morte di Federico I Gonzaga (1484), toccò al figlio Francesco assumere il titolo di marchese. Fra le varie in-combenze, egli ereditò anche la tutela dei fratelli minori. Così nel 1486 stipulò il contratto di matrimonio per le sorelle Elisabetta e Maddalena: l’una destinata a Guido-baldo di Montefeltro, duca di Urbino, l’altra a Giovanni Sforza, signore di Pesaro. Stringiamo su quest’ultima, con il conforto dei documenti conservati nell’Archivio

Gonzaga: risale al 9 settembre 1486 il primo mandato di procura relativo al fidanzamento fra la quattordicenne Maddalena e il ventitreenne Giovanni; un secondo man-dato, datato 7 aprile 1489, stabiliva l’entità della dote (oltre unidicimila ducati d’oro). A un mese dal matrimo-nio, il marchese Francesco versò al futuro cognato un anticipo sulla dote (cinquemila ducati); il saldo sarebbe avvenuto in prossimità del matrimonio, fissato il 28 ot-

13

La scoperta dell’AmericaItalia, rimbalzando da Barcellona a Milano e da quella corte a tutte le altre italiane per mezzo di molte copie manoscritte.Il 22 aprile 1493 partiva da Firenze una lettera di Luca Fancelli diretta al marchese di Mantova Francesco Gonzaga che ripor-tava la missiva di Colombo. Citiamo dal te-

sto: “…havendo mandato il re di Spagnia alquni legni oltre al mar di Spagnia, che in tempo di 16 (sic) giornate schoprirono cierte ixole, infra le altre verxo l’oriente una ixola grandissima la quale aveva gran-dissimi fiumi e teribile montagnie. È molto fertiliximo paexe, e abitato da begli home-ni e donne, ma vanno tutti ignudi, da ‘cieto

che alquni ànno una foglia fato di chotone dinanzi al membro gienitale, e che el pae-xe è abondantisimo d’oro, e sono persone chortesi del loro avere, e che v’è chopia di palme e di più di 6 spezie e alberi altiximi a maraviglia, e che sono più ixole, de le quali n’a nominate 5 e una quaxi grande chome Italia, e che que’ fiumi menano oro, e che àno rame asai ma non ferro, e molte altre meraviglie, e che non si vede né il polo artico né l’antarticho…”.

[Cfr. R. Tamalio, Le corti europee scoprono l’Ame-rica. Prime cronache dal nuovo mondo, in «Civiltà Mantovana», n° 121 (2006), pp. 81-96]

tobre 1489. La sposa col suo corteo si mise in cammino fin dal 19 ottobre, se è vero che il 20 entrò in territorio ferrarese, da cui proseguì per Ravenna e poi Rimini. Il 25 pernottò a Cesenatico; il 27 nel castello di Gradara incontrò la suocera Camilla, mentre il futuro sposo solo a due miglia da Pesaro. Tali notizie le fornisce il fratel-lo della sposa, Giovanni Gonzaga, che faceva parte del corteo. La descrizione della cerimonia nuziale si desume

invece da uno scritto vergato dalla stessa Maddalena il 30 ottobre, ove ci si sofferma in particolare sul sontuoso banchetto, costituito da ben tredici “inbandisoni” (por-tate). Destinatari della missiva sono la madre e il fratello Francesco; costui, sistemate le sorelle, celebrerà l’anno dopo il proprio matrimonio con Isabella d’Este.

[Cfr. G. Carra, Feste e pranzo di nozze di Maddalena Gonzaga (1489), in «Civiltà Mantovana», n° 36 (1972), pp. 422-431]

Le nozze di Maddalena Gonzaga

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

14

Not

ti m

anto

vane

del

‘50

0Fo

to G

iova

nni Fo

rtun

ati

15

A dimostrazione di come fosse movimentata la vita notturna nella Mantova del secondo Cinquecento, si prenda ad esempio l’anno 1567. Poiché era vietato circolare nottetempo senza lume e a spada sguainata, il capitano della Guardia Ducale Fabrizio da Bagno si trovò a dover contrastare diverse infrazioni: la notte del 3 marzo scorse un individuo con la spada in spalla, il quale si qualificò come servitore di Massimiliano Gonzaga; la stessa notte si imbatté in cinque individui armati, che si dichiararono servitori di Andrea Gonzaga. La notte del 26 aprile fu la volta del servo di Sigismondo Gonzaga; tanto che il da Bagno se ne lamentò con il segretario ducale. Certamente il compito di capitano non era facile in un mondo in cui la legge non era uguale per tutti. Ancor più se, invece dei servitori, si dovevano affrontare i rampolli dei nobili. Il 1° aprile Fabrizio da Bagno incontrò tale Livio Valenti, che rispose con arroganza ai suoi rimproveri; il 6 aprile invece ebbe a che fare con Ippolito Gonzaga e Bonifacio Torelli, anch’essi a “spade nude”, verso i quali non fu possibile rivolgere altro che qualche blanda raccomandazione. Ma la disinvoltura nel portare e maneggiare le armi provocava anche fatti di sangue: la notte del 4 marzo un soldato della Guardia fu aggredito e una coltellata gli troncò un orecchio; un lavorante di cuoio di nome Lorenzo fu assassinato la notte del 24 marzo, mentre un Sebastiano del Turco cadde l’11 aprile e un innominato artigiano il 29 aprile fu condotto a morte da tre ferite. Non destavano minori preoccupazioni i furti. Il 5 marzo il capitano da Bagno informava il castellano che la notte precedente era stato dato l’assalto a una casa sita in Borgofreddo; il 24 marzo alcuni ignoti s’introdussero nel fandaco dello speziale del “Moro” facendo un buon bottino. I ladri poi, sfruttando la modesta altezza delle finestre del pianterreno, introducevano dalle inferriate dei bastoni uncinati mediante cui agganciare tutto ciò che si trovava alla loro portata: due di costoro vennero arrestati in flagranza la notte del 26 aprile. Oltre ai malviventi e ai facinorosi, la notte era propizia per clandestini convegni amorosi: l’11 febbraio fu arrestato un messer Giacomo che, scavalcando il muro di cinta di un’abitazione, là s’incontrava con la figlia di un certo Martino, carrettiere del duca Guglielmo. La notte del 22 maggio, toccò addirittura al priore di S. Cristoforo esser sorpreso in compagnia di una famosa prostituta del tempo.

[Cfr. L. Mazzoldi, Vita notturna in Mantova nel Cinquecento, in «Civiltà Mantovana», Anno I, n° 1 (1966), pp. 13-20]

16

Giapponesi a Mantova Nel 1585 un’ambasceria venuta in Italia dal Giappone costituì certo un avvenimento d’ecce-zione. Quando il 13 luglio Vincenzo, figlio del duca Guglielmo, li accolse nella villa di Marmi-rolo, i principi giapponesi avevano già girato parecchie città italiane (Livorno, Pisa, Firenze, Roma, Napoli, Loreto, Bologna, Modena, Ferra-ra, Venezia), e avrebbero poi raggiunto Milano. Le motivazioni di tale viaggio sono da collega-re all’attività missionaria della Chiesa Cattolica in Giappone nel secolo XVI, i cui protagonisti furono dapprima i frati francescani, più tardi i predicatori domenicani, quindi i gesuiti. Il pri-mo di questi ultimi a sbarcare su suolo nippo-nico fu S. Francesco Saverio, giunto dall’India a Kagoshima nel 1548; gli successe un altro gesuita, Alessandro Valignani, il quale seppe persuadere tre re giapponesi, appena convertiti al cristianesimo, a inviare ambasciatori al capo

17

supremo della Chiesa. Gli scopi erano palesi: da un lato, dimostrare al papa che la spesa so-stenuta dalla casse vaticane per le missioni gesuite in Oriente dava frutti concreti; dall’altro, im-pressionare gli emissari giapponesi con il fasto della Roma cattolica, nonché dell’Italia tutta. In verità l’ambasceria promossa dai tre re giapponesi fu mal interpretata dall’impe-ratore Taiko Sama, che qualche anno più tardi ordinò una feroce persecuzio-ne durata oltre un quarantennio; tale persecuzione costrinse tutti gli stranieri ad abbandonare il Giappone e causò la morte di circa ventimila cristiani solo nei primi quattro anni.

[Cfr. C. Berselli, Principi giapponesi a Man-tova nel 1585, in «Civiltà Mantova-na», n° 14 (1968), pp. 73-83]

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

Passerino e l’ippopotamoNel museo naturalistico voluto da Ferdinando Gonzaga, VI duca (1587-1626), tra le altre numerose mirabilia spiccava la mummia di Rinaldo Bonacolsi, detto Passerino, posto sopra la carcassa impagliata di un “vitello marino” – così si esprimeva nel 1627 l’architetto tedesco Josef Furtembach. Si trattava in realtà di un ippopotamo. Ma qual era la ragione di esibire una siffatta combinazione? Innanzitutto, oltre a considerare che l’esposizione di mummie era pratica assai diffusa al tempo, appare evidente che i Gonzaga avessero conservato il cadavere mummificato del rivale Passerino come una sorta di talismano alchemico che garantisse la conservazione del potere. Più ermetico il significato simbolico costituito dall’ippopotamo. Plinio (Naturalis historia, VIII, 96) scriveva che questo animale aveva un proprio modo di curarsi: quando troppo ingrassava, otteneva dei salassi strofinandosi contro le canne palustri appena tagliate; con lo sgorgare del sangue, alleggeriva il corpo malato. In Symbolorum et emblematum ex aquatilibus et reptilibus desumptorum centuria quarta (Francoforte 1661), opera del medico e botanico tedesco Ludwig Camerarius, è contenuta un’incisione dal titolo Contraria prosunt che rappresenta un ippopotamo mentre si sta appunto salassando; sotto l’immagine sta un’iscrizione latina che recita: “Come l’ippopotamo purifica il corpo col sangue, così lo stato si purifica con la recisione dei mali”. Applicata al caso in questione, contribuisce a scioglierne l’enigma: Passerino, il nemico morto, è stato eliminato come un male che mina il governo, al pari del sangue in eccesso di cui si libera l’ippopotamo. Dunque, contraria prosunt: mostrare ciò che rappresenta il contrario, giova alla salute pubblica.

[Cfr. A. Zanca, Passerino Bonacolsi sull’ippopotamo, in «Civiltà Mantovana», n° 111 (2000), pp. 36-44]

18

Foto

Mar

a Pa

setti

19Fo

to G

iova

nni Fo

rtun

ati

20

La festa del l’Ascensione

Un tempo la festa religiosa mantovana più importante era quella dell’Ascen-sione. Essa fu a lungo la sede di celebrazione privilegiata della reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo, conservata a Mantova che, dal XV secolo, divenne per questo il principale strumento delle esigenze autolegittimanti dei Gonzaga. Di conseguenza, la caduta della Casa regnante comportò la decadenza dello spettacolare apparato dimostrativo che la ricopriva e i riti legati all’Ascensione.In una descrizione (1612) della festa dello storico francescano Ippolito Do-nesmondi apprendiamo che fu papa Pio II, durante la Dieta mantovana del 1459, a rinnovare l’antica approvazione ecclesiale alla reliquia che da allora fu ripresentata in visione alla città ogni anno. Lo storico racconta come all’inizio si esponesse la reliquia il Venerdì Santo, ma poi si preferì la festività dell’Ascensione perché coincideva con un maggior afflusso di forestieri in città.La festa si svolgeva tra mercoledì e giovedì con innumerevoli Esposizioni della reliquia, Sante Messe e Vespri, per concludersi con una solenne quan-to scenografica processione:

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

21

La festa del l’Ascensione

“…dal Duomo à Sant’Andrea, d’huomini laici solamente, nella quale sono i Maestri della città, con tutti i Dottori, Medici, Procuratori e Notai; poi tutte l’Arti sotto a loro determinati Confaloni, per ordine, offerendo ciascheduno chi torce di cera bianca e chi danari, e chi altro per il compimento della fabrica di detta Chiesa. Et vien usata dall’arte de’ pescatori una cerimonia ch’io non vò tacerla, et è che vestendo essi tre uomini a guisa di Apostoli, in rammemoranza di san Pietro, san Giovanni e sant’Andrea… gli pongono sopra un burchiello (portato a spalle da altri pescatori)…,il quale è carico di anguille, con altri pesci di minor conto, che da costoro per tutto il camino et in Chiesa vengono con bel garbo slanciate fra il popolo circostante et alle finestre, con gusto meraviglioso di chi v’è presente…”. Una simile struttura rituale era un riconoscimento delle identità e differen-ze sociali in grado di ricomporre tra i partecipanti la concordia civica, sotto lo sguardo attento e benevolo dei sovrani e della corte.

[Cfr. R. Capuzzo, La festa dell’Ascensione mantovana nelle descrizioni seicentesche, in «Ci-viltà Mantovana», n° 108 (1999), pp.7-35]

I commentatori dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni e alcuni scrittori confondono Margherita Gonzaga, duchessa di Lorena, con Margherita Savoia Gonzaga. La prima, figlia di Vincenzo I Gonzaga e di Eleonora de’ Medici, sposò nel 1606 Enrico II, duca di Lorena, alla morte del quale salì al trono ducale. Margherita di Savoia invece andò sposa nel 1608 a Francesco IV Gonzaga, figlio e successore di Vincenzo I.L’equivoco che portò a identificare le due Margherite nasce da un complesso intrico di successioni dinastiche, nel contesto del conflitto che vedeva contrapposte da un lato la Spagna e l’Austria, appoggiate dai Savoia, dall’altro la Francia, favorita dal papa e da Venezia. Tale contesa, in atto all’epoca delle vicende narrate nel capitolo XXVII dei Promessi sposi, riguardava la successione ai ducati di Mantova e del Monferrato, e si concluse con il famigerato sacco di Mantova del 1630. Il 18 luglio le truppe mercenarie imperiali, i cosiddetti lanzichenecchi, penetrarono in città; il duca e la famiglia furono costretti alla fuga: la reggia ducale fu spogliata di tutti i tesori artistici.Manzoni nel suo romanzo cita come pretendente al Monferrato la Margherita duchessa di Lorena, che però non poteva aspirare al Ducato di Mantova in quanto feudo di successione maschile, né al Monferrato perché le ragioni di Maria Gonzaga, figlia di Francesco IV e di Margherita di Savoia, “vincevano sulle sue”.Appare perciò chiaro che la vedova duchessa di Lorena non può essere scambiata con la vedova duchessa di Savoia.

[Cfr. F. Stanco, Margherita Gonzaga Lorena e Margherita Savoia Gonzaga, in «Civiltà Mantovana», n° 40 (1973), pp. 221-233]

22

Due

Mar

gher

ite

23Fo

to G

iova

nni Fo

rtun

ati

24

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

25

Il matrimonio fra la principessa Teodora d’Assia Darmstadt e Antonio Ferdinando Gonzaga dei duchi di Guastalla, che si celebrò il 23 febbraio 1727, merita di essere narrato per la splendida opulenza che ostentò, quasi uno spettacolare canto del cigno di una lunga stagione che stava volgendo al termine. Un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Mantova, redatto dal sovrintendente generale Carlo Bertazzone, ripercorre le tappe di tale evento. Dopo la pubblicazione del patto nuziale (4 dicembre 1726), si procede al fidanzamento vero e proprio, ufficializzato mediante un sontuoso banchetto e relativa festa danzante, con doni superbi riservati alla nubenda. Il 6 febbraio dell’anno seguente, il ventunesimo compleanno di Teodora diventa occasione per una festa altrettanto ricca, in cui non mancano altri preziosi doni per la giovane promessa sposa. Giunge finalmente il giorno agognato, nella splendida cornice del castello di san Giorgio di Mantova; sono però nozze per procura, in quanto è assente Antonio Ferdinando, rappresentato dal conte di Spilambergo, vera eminenza grigia del potere guastallese. Teodora indossa comunque i gioielli di famiglia dello sposo, come accettazione simbolica del nuovo casato. La sposa lascia quindi la città per raggiungere il consorte; è a Luzzara che gli sposi finalmente s’incontrano, per proseguire alla volta di Guastalla, dove sono accolti con giubilo dall’aristocrazia locale: tre saranno i giorni di solenni festeggiamenti, con banchetti, danze, cacce, esibizioni letterarie e persino l’eccezionale spettacolo generato da “una gran machina piena di fuochi d’artificio ingegnoso” – per dirla con le parole del Bertazzone, che licenziò il suo resoconto il 1° aprile 1727.

[Cfr. G. Malacarne, Teodora d’Assia Darmstadt e Antonio Ferdinando Gonzaga. Nel segno di Hymeneo, in «Civiltà Mantovana», n° 132 (2011), pp. 23-33]

Nel segno di Imeneo

26

Con la fine della guerra di successione austriaca nel 1748, inizia per Mantova, sotto Maria Teresa d’Austria, l’età delle riforme che durerà fino all’ultimo decennio del secolo, provocando profondi mutamenti nella società e nelle istituzioni locali. I primi atti dell’imperatrice riguardano il riassetto del territorio, la definizione dei confini, la regolamentazione dell’uso delle acque. All’antico predominio della nobiltà è sostituita un’oligarchia composta da nobiltà e patriziato borghese che durerà anche per buona parte dell’800. Il riformismo teresiano ebbe la sua migliore realizzazione nell’attuazione del Catasto Teresiano attuato tra il 1771 e il 1785. Nobili grandi e piccoli sfilano davanti alla Giunta delle Esenzioni per giustificare i loro titoli e documentare le esenzioni onerose di cui si erano avvantaggiati per molto tempo.Il caso più indicativo delle usurpazioni messe in atto nel corso dei secoli è quello dei Cavriani, i più ricchi proprietari laici del ducato mantovano. La revisione delle esenzioni introduce il riordino di tutta la materia attinente ai titoli nobiliari. Tutti, naturalmente difendono i propri privilegi. Nel 1778 il lavoro si può dire compiuto e la nobiltà mantovana risulta composta da 168 casati: 5 principi – tutti di casa Gonzaga -, 35 marchesi, 63 conti, 52 nobili non titolati, 7 cittadini nobili e 49 casati dichiarati di qualità senza eccezione.La formazione di una nobiltà mantovana titolata è tarda e risale alla seconda metà del ‘500 quando Guglielmo Gonzaga chiede ed ottiene dall’imperatore di poter creare conti e marchesi a maggior lustro della sua casata. Sono gli Andreasi, Castiglione, Cattaneo, Cavriani, Cocastelli, D’Arco, Guerrieri Gonzaga, Striggi e Strozzi. Seguiti da Agnelli, Amorotti Andreasi, Arrigoni, Arrivabene, Ballati Nerli, Bulgarini, Chieppio, Donesmondi, Facipecora, Gazzini, Magni, Mainoldi, Mantelli, Marchetti, Nuvoloni, Penci, Petrozzani, Perini, Valenti Gonzaga, Zanatta e Zanetti. Nobiltà che fu decimata dalla peste del 1630 che estinse ben 88 famiglie. In seguito, sull’antica nobiltà legata ai Gonzaga prendono il sopravvento famiglie arricchite dal commercio e, con la devoluzione del ducato all’Impero nel 1707, la nobiltà riceve un colpo mortale. Tuttavia sarà la politica economica adottata dai francesi dopo il 1797 a portare la crisi alle sue estreme logiche conseguenze. Il risultato sarà un’ulteriore diminuzione della proprietà nobiliare e un aumento di quella borghese, che tanta importanza avrà nelle battaglie del Risorgimento.

[Cfr. M. Vaini, Per una storia della società mantovana alla fine del ’700. La riforma teresiana e le vicende storiche della nobiltà con particolare riguardo alla formazione della proprietà terriera,, in «Civiltà Mantovana», n° 29 (1971), pp. 326-351] Secondo l’ordine di Maria Teresa

27

Secondo l’ordine di Maria TeresaFo

to M

ara

Pase

tti

28

Mar

gher

ita G

onza

ga d

’Est

e e

Giu

sepp

ina

Bon

apar

te

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

29

Nel 1797, in piena campagna napoleonica, anche Mantova fu invasa dalle truppe francesi. Napoleone requisì diverse opere d’arte; ufficialmente, i quadri prelevati dalla città di Mantova furono quattro: La Vergine della Vittoria di Andrea Mantegna, La Trasfigurazione di Pieter Paul Rubens, La Tentazione di sant’Antonio di Paolo Caliari detto il Verone-se, La Vocazione di san Pietro e di sant’Andrea di Fermo Ghisoni, eseguita su disegno di Giulio Romano.I quattro dipinti giunsero a Parigi ed ebbero diverse col-locazioni. La pala del Mantegna è oggi esposta al Louvre, La Trasfigurazione di Rubens si trova a Nancy, mentre La Tentazione di sant’Antonio del Veronese a Caen. Della tela del Ghisoni si sono invece perse le tracce e attualmente è considerata perduta. Entro tale contesto, cosa unisce Margherita Gonzaga e Giu-seppina Bonaparte?Margherita Gonzaga d’Este, rimasta vedova, fece ritorno a Mantova e si ritirò a vita monastica, pur non prendendo i voti. Il monastero di Sant’Orsola, da lei fondato nel 1603, arricchito da quadri e tesori accumulati nel suo lungo sog-giorno ferrarese, divenne luogo di culto e sua reggia pri-vata, un vero scrigno di opere d’arte.Giuseppina Bonaparte, prima moglie di Napoleone, duran-te il suo soggiorno a Mantova nel 1797 scelse personal-mente svariate opere da aggiungere alla sua collezione privata. Fra queste, che non furono mai menzionate negli elenchi ufficiali delle opere requisite, figuravano sicura-mente dipinti provenienti dal monastero di Sant’Orsola, tra cui un Ritratto di Matilde di Canossa del Parmigianino; il quadro dopo vari passaggi arrivò in Russia, dove oggi è conservato nel museo dell’Ermitage di San Pietroburgo.Accanto alla “grande storia” delle note requisizioni fran-cesi ne esiste dunque un’altra, “minore” ma non meno importante, ricostruita attraverso una fitta trama di notizie e documenti che ruota attorno a due figure di donna, lon-tane nel tempo, ma così simili nel gusto raffinato per le opere d’arte.

[Cfr. R. Salvalai, Margherita Gonzaga d’Este e Giuseppina Bonaparte, in «Civiltà Mantovana», n° 116 (2003), pp.133-145]

30

Dopo il fallimento della Prima Guerra di Indipendenza, l’atteggiamento del governo austriaco sul suolo italiano divenne molto duro. La politica repressiva ad opera del feldmaresciallo Radetzky portò alla creazione di comitati rivoluzionari clandestini. I patrioti mantovani in particolare si stavano organizzando segretamente per una cospirazione contro gli Austriaci. Quando la polizia austriaca individuò documenti che attestavano rapporti con Mazzini, vennero arrestate e sottoposte a tortura più di 100 persone. Alcuni dei protagonisti della cospirazione furono condannati a morte e giustiziati per impiccagione nella valletta di Belfiore. Da qui furono ricordati come i martiri di Belfiore; di essi, 11 erano mantovani.Costantino Cipolla, ordinario di Sociologia presso l’Univeristà di Bologna, nei suoi volumi Belfiore I e II riflette da un punto di vista storico-sociale su questo cruciale episodio del Risorgimento mantovano e nazionale. Un evento, come lo definisce lo stesso Cipolla, “così drammatico e misterioso che ancora oggi affascina e racchiude in sé la genesi della democrazia, il passaggio dalla concezione feudale dello stato al concetto di sovranità popolare”. In particolare il II volume ha immortalato definitivamente una gran mole di documenti di inestimabile valore storico. La meticolosa analisi dei materiali consente di entrare nell’animo e nei pensieri dei condannati, tracciando un profilo dei personaggi per certi versi inedito rispetto al ruolo storicamente loro attribuito. Belfiore I e II restituiscono dunque alla comunità mantovana e nazionale un bene che non deve andare perduto, con l’auspicio che l’opera intellettuale di Cipolla raggiunga il suo scopo più elevato: “riflettere anche oggi sul valore della democrazia, che ha costantemente bisogno di essere rinsaldato alla coscienza civile di ognuno di noi.”

[Cfr. A. Bertolazzi, Per non dimenticare Belfiore. Costantino Cipolla riscrive la storia dei martiri, in «Civiltà Mantovana», n° 123 (2007), pp. 123-130]

Per non dimenticare Belfiore

Foto

Gio

vann

i Fo

rtun

ati

31

Quando morì a Mantova il 5 settembre 1871, la Contessa Teresa Arrivabene nata Marchesa Valenti Gonzaga fu compianta come simbolo della lotta antiaustriaca. Nel suo necrologio Paride Suzzara Verdi, direttore de La Favilla, la definì “donna sublime”. Era nata nel 1793 dal Marchese Antonio e dalla Principessa Giuseppa de la Tour e Taxis; venne educata nel Collegio delle Vergini di Castiglione delle Stiviere, ma poi provvide da sé a completare la propria cultura usufruendo della biblioteca del fratello Giuseppe, uno dei fondatori degli asili aportiani a Mantova; dall’altro fratello Odoardo, implicato nei moti del ‘21 e del ‘31, derivò invece il patriottismo. Essa sposò il Conte Francesco Arrivabene, ex ufficiale napoleonico; la coppia godeva di scarse entrate, per cui stentò a crescere i cinque figli. Teresa aprì comunque ben presto il suo salotto ai liberali mantovani, forse già dagli anni Trenta; non fu però solo una patriota da interno: quando se ne presentò l’occasione, seppe uscire alla luce del sole. Per esempio, non lesinò il suo soccorso quando gli ospedali cittadini si riempirono di toscani feriti nella battaglia di Montanara e Curtatone. Falliti i moti del ‘48, la sua famiglia si disgregò e fu lei stessa costretta per un anno a lasciare la città. Tornata a Mantova, continuò a lottare contro l’oppressione straniera e a ricevere i patrioti. Dopo la scoperta della congiura di Belfiore, dell’arresto dei congiurati e del loro martirio, essa fu in prima fila nel dare conforto a loro e alle loro famiglie. Nel 1859 fu a sua volta incarcerata, perché ritenuta dalla polizia austriaca fomentatrice della commemorazione dei caduti italiani e francesi di Solferino, avvenuta quello stesso anno con una messa in Duomo, seguita da un corteo che si recò a rendere omaggio ai Martiri di Belfiore. Nel 1866, in occasione della visita di Vittorio Emanuele II a Mantova appena annessa al Regno d’Italia, fece recapitare al Re una bandiera tricolore confezionata grazie a una serie di sottoscrizioni da lei promosse; Vittorio Emanuele ricambiò donandole un anello coi tre colori nazionali in pietre preziose. Tuttavia, nonostante il riconoscimento popolare e la pubblica commozione che si espressero durante i funerali, l’oblio cancellò il nome di Teresa Arrivabene dalle enciclopedie.

[Cfr. M. Gabrieli, Valenti Gonzaga Teresa Arrivabene, “donna sublime” del Risorgimento, in «Civiltà Mantovana», n° 3 (1966), pp. 30-46]

Una “donna sublime” del Risorgimento

32

MAN

TOVA

stor

ia

Ass

ocia

zion

e di

Pro

moz

ione

Soc

iale

iscr

itta

al R

egis

tro d

ell’A

ssoc

iazi

one

della

Pro

vinc

ia d

i Man

tova

negl

i am

biti:

civ

ile-s

ocia

le, c

ultu

rale

e a

ttivi

tà so

cial

e. D

ecre

to n

. 17/

2007

Foto

Mar

a Pa

setti

gioiosaCurato da Associazione Culturale Ca’ Gioiosa • Sede operativa Via Calvi, 51 • Mantova

0216

dice

mbr

e

gioiosaCurato da Associazione Culturale Ca’ Gioiosa • Via Trieste, 44 • Mantova

entra nelle case0216

aprile

12 dicembre 2016 / Anno VIEditrice Ca’ Gioiosa, Mn

Impaginazione: Publi Paolini, Mn

Responsabile redazionaleClaudio Fraccari

Coordinamento artisticoRaffaello Repossi

Coordinamento editorialeMara Pasetti

Sintesi diSandra FontanesiClaudio FraccariLaura PasettiMara Pasetti

Fotografie diGiovanni FortunatiMara Pasetti

Si ringraziano:– Il personale dell’Archivio di Stato di Mantova,– Banca Popolare di Mantova spa– Comune di Mantova– Rivista «Civiltà Mantovana»

CA’ GIOIOSA

L’associazione Ca’ Gioiosa è a disposizione degli eventuali aventi diritto per le fonti non individuate. Scriveteci i vostri commenti su Facebook: ogni visita ci aiuterà a portare avanti il progetto di Ca’rte.

Per info e iscrizioni agli eventi:

telefonare al 339.5836540

pag. Facebook: Associazione Culturale Ca’ Gioiosa

[email protected] • www.cagioiosa.org

pubblicazione on line in http://ISSUU.com/cagioiosa

Ca’ Gioiosa ringrazia per la sensibilità che sempre dimostrano a sostegno delle sue iniziative

Banca Popolare di Mantova spa, Levoni spa, Pavimantova snc, Cantine Virgili, Gustus, Gallery B&B 1 Stile

L’eredità di VittorinoUn fattore che può fare la differenza qualitativa nell’accoglienza turistica in una città è la preparazione culturale degli addetti all’ospitalità, fondata sulla padronanza della lingua italiana e delle lingue straniere, non meno che sulla conoscenza del patrimonio culturale che fa del territorio mantovano una ‘moneta’ spendibile in ogni angolo del mondo. Occorre una profonda consapevolezza delle proprie radici culturali per sviluppare un reale senso di appartenenza. A questo scopo si è pensato di preparare quattro testi didattici Ca’rte seguiti da quattro lezioni introduttive per conoscere Mantova a partire dalle sue caratteristiche territoriali, la sua storia, le tradizioni, le bellezze artistiche. Lezioni dedicate soprattutto a chi viene professionalmente a contatto con i visitatori (negozianti, personale di sala, receptionist, pr, impiegati, commessi, taxisti, vigili urbani ecc.), ma anche a tutti coloro che vogliono migliorare la comprensione della città per sé e per gli altri. Questo è il primo di tali testi, basato su una selezione e sintesi di scritti a carattere storico comparsi in cinquant’anni di attività sulla prestigiosa rivista Civiltà Mantovana. Nei prossimi mesi seguiranno gli altri tre numeri tematici, rispettivamente sull’arte (ancora in collaborazione con la rivista), le tradizioni e il paesaggio mantovani.Un punto di partenza, una selezione di argomenti adatti ad essere sviluppati in seguito con approfondimenti utili alla conoscenza di Mantova. Perché questa è la mission didattica alla base dell’Associazione Ca’ Gioiosa, portata avanti con convinzione e tenacia dal 2001 ad oggi: una componente piccola, ma significativa, ci piace pensare, del sistema culturale della prima città d’Italia a fregiarsi del titolo di Capitale della Cultura.

Mara Pasetti

Ca’ Gioiosa ringrazia i suoi sostenitori:

Con il patrocinio di

7MAN

TOVA

paes

aggi

o

Ass

ocia

zion

e di

Pro

moz

ione

Soc

iale

iscr

itta

al R

egis

tro d

ell’A

ssoc

iazi

one

della

Pro

vinc

ia d

i Man

tova

negl

i am

biti:

civ

ile-s

ocia

le, c

ultu

rale

e a

ttivi

tà so

cial

e. D

ecre

to n

. 17/

2007

Foto

Mar

a Pa

setti

gioiosaCurato da Associazione Culturale Ca’ Gioiosa • Sede operativa Via Calvi, 51 • Mantova

0216

dice

mbr

e

5MAN

TOVA

tradi

zion

i

Ass

ocia

zion

e di

Pro

moz

ione

Soc

iale

iscr

itta

al R

egis

tro d

ell’A

ssoc

iazi

one

della

Pro

vinc

ia d

i Man

tova

negl

i am

biti:

civ

ile-s

ocia

le, c

ultu

rale

e a

ttivi

tà so

cial

e. D

ecre

to n

. 17/

2007

gioiosaCurato da Associazione Culturale Ca’ Gioiosa • Sede operativa Via Calvi, 51 • Mantova

0216

dice

mbr

e

MAN

TOVA

arte

Ass

ocia

zion

e di

Pro

moz

ione

Soc

iale

iscr

itta

al R

egis

tro d

ell’A

ssoc

iazi

one

della

Pro

vinc

ia d

i Man

tova

negl

i am

biti:

civ

ile-s

ocia

le, c

ultu

rale

e a

ttivi

tà so

cial

e. D

ecre

to n

. 17/

2007

Foto

Mar

a Pa

setti

gioiosaCurato da Associazione Culturale Ca’ Gioiosa • Sede operativa Via Calvi, 51 • Mantova

0216

dice

mbr

e