Civico 16

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Un racconto Singolare di Francesco Gavatorta

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Civico 16

di

Francesco Gavatorta

In via Boucheron a Torino ci arrivi se passi da Porta Nuova, dopo aver attraversato

piazza Carlo Felice, via Roma, piazza San Carlo, ancora via Roma, piazza Castello,

via Garibaldi e aver svoltato da piazza Statuto in via Passalacqua. Forse molti

torinesi non sanno neanche che c’è, quella via lì. Eppure è una bella strada.

È una via stretta. Ci sono dei negozi che avranno cinquant’anni, di quelli con i

proprietari che parlano il dialetto e in pochi, ormai, li capiscono ancora. C’è un

piccolo supermercato, una lavanderia, un paio di ristoranti. I palazzi sono alti,

fanno filtrare poco la luce del sole. Trovare parcheggio è difficile.

Io stesso non sapevo che esistesse. Fino a quella sera. Quella in cui sentii al

telegiornale regionale che proprio là, in quella strada stretta, era capitato qualcosa.

Stavo cenando con i miei e a tavola non si chiacchierava, non ci si parlava, tutti

mangiavano e guardavano la televisione. Poi era passato quel servizio dove ascoltai

quella storia, per caso.

In uno stabile verso il fondo della via, quello del Civico 16 per la precisione, un

uomo era salito sul tetto con uno zainetto, si era seduto sulle tegole e aveva deciso

di rimanere lì. Non per buttarsi, non per protestare. Non sembrava ci fossero motivi

particolari. Era passato da una botola che aveva trovato dalle scale, ma come avesse

fatto quello era un mistero, soprattutto perché l’uomo era un vecchio di circa

ottant’anni.

Nessuno era riuscito a capire come fosse arrivato lassù, e perché. Parenti e vicini

l’avevano cercato per tutto il giorno, fino a che qualcuno che abitava nello stabile di

fronte notò che sul tetto del condominio, al civico 16, un uomo con la barba e i

capelli grigi stava seduto a pochi metri dal vuoto, comodo e apparentemente senza

paura, a fumare.

Quando il servizio del tg finì, stavo mangiando una cotoletta. Masticai l’ultimo

boccone, guardai mio padre che con gli occhi bassi continuava a masticare. Mia

madre s’era alzata ed era rivolta ai fornelli, silenziosa.

«Chissà perché proprio lassù», dissi.

«Sarà un pazzo», rispose mio padre senza aggiungere altro, continuando a tenere lo

sguardo verso il basso.

«Beh, magari aveva un buon motivo», provai a rilanciare, senza ottenere risposta.

Guardai mia madre mentre armeggiava con delle pentole sporche e la lavastoviglie,

anche se era girata potevo vederne l’espressione. Per un attimo, avrei voluto

rivolgerle la parola, ma non dissi nulla. Misi le posate nel piatto, m’alzai e glielo

portai.

«Non abbiamo finito», disse mio padre.

Non risposi, tornai a sedermi. Il telegiornale regionale era passato allo sport locale,

e del vecchio sembrava non esserci più traccia.

Ma non per me.

Avevo quasi trent’anni, e quella fuga mi era sembrata una di quelle imprese che da

ragazzino ritenevo eroiche. Nonostante la sua età, poteva essere uno di quegli

occupanti che vivono negli squat di Berlino e che tentavo di imitare a sedici anni,

quando con i miei amici punkers improvvisavo concerti nei giardini la notte con le

chitarre e i bonghi, fino a che le pattuglie di Carabinieri chiamati dai condomini

delle case vicine venivano a farci smettere. Poi avevo smesso, ad un certo punto.

Non perché volessi, ma perché dovevo. Ma quell’inquietudine, data dal voler

parlare al mondo, non m’era passata.

M’ero laureato. Avevo cominciato a lavorare, senza percepire per i primi dodici

mesi uno stipendio. Dopo, avevo cominciato a prendere qualcosa, un qualcosa che

poteva bastare per un mezzo affitto, ma mancava comunque l'altra metà e per

questo vivevo ancora con i miei. Continuavo a uscire con quelli come me, che di

andare da soli non se ne parla. Ogni weekend bazzicavamo la Zona, così

chiamavamo il posto dove ci trovavamo, passando il tempo a chiederci quando

sarebbe arrivato il futuro. Per certi versi, non era cambiato nulla rispetto a quanto

succedeva ai giardinetti improvvisando le nostre canzoni preferite con le chitarre,

bevendo birra gelata anche a gennaio. Solo che allora, il futuro sembrava d’averlo

sul serio a disposizione. Ora, invece, il tempo sembrava finito.

Fino a che, quella sera, sentii il racconto di un vecchio che da un giorno all’altro

sceglie di salire sul tetto e non scendere. Una specie di deja-vù, anche se io non

c’entravo nulla e quella non era la mia vita. Ma fu come un colpo, una canzone dei

Bush ascoltata quando ne hai bisogno: come se quel signore avesse fatto una cosa

che avevo sempre voluto fare io.

Feci finta di nulla, guardai un po’ di tv ma poi spensi, misi su un cd, ma niente:

continuavo a pensarci.

Mi chiedevo perché non ce l’avessi fatta io, a fuggire in quel modo lì. Io e tutti

quelli come me. Perché della vita ci si stanca in fretta, quando hai trent’anni e sei

nato negli anni Ottanta, hai attraversato gli anni Novanta da adolescente e sei

arrivato all’età adulta nel nuovo Millennio, fra la Legge 30 e il futuro che non

sembra arrivare mai, quando la sera ceni con i tuoi che non parlano perché non

vogliono più chiederti quando sarai abbastanza adulto per andar via di casa,

quando finalmente al lavoro ti avrebbero fatto firmare il tuo contratto a tempo

indeterminato o quando avresti smesso di ascoltare quei vecchi cd di vent’anni

prima.

Continuai così fino a che, intorno alle dieci di sera, mentre stavo sdraiato nel letto

ascoltando l’unplugged degli Alice in Chains, mi alzai. Guardai fuori dalla finestra,

era una notte serena nonostante fosse autunno. Presi dall’armadio un paio di jeans

vecchi e strappati, le mie Adidas StanSmith, una felpa con cappuccio degli Smashing

Pumpkins e uscii. Passai dal soggiorno, vidi mia madre seduta sul divano, mi

guardò ma non mi chiese dove andavo. Mio padre disse solo “ciao”, bofonchiando

qualcos’altro che non capii.

Presi l’auto, e andai. Sulla strada trovai un po’ di traffico, ma non troppo. Passai per

Corso Unità d’Italia, poi dal sottopasso, feci un pezzo di Corso Massimo, svoltai in

Corso Sommelier, poi il cavalcavia, Corso Einaudi, Corso Galileo Ferraris, dritto al

monumento feci la rotonda, e ancora dritto fino a Piazza Arbarello, girando a

sinistra e dritto fino a Porta Susa. Parcheggiai vicino all’ospedale oftalmico, e

cominciai a cercare via Boucheron.

Davanti al portone del 16, c’era una pattuglia di Carabinieri e una camionetta dei

Vigili del Fuoco. Un campanello di persone stazionava di fronte al grosso passo

carraio, altri stavano sui balconi.

M’avvicinai, e sentii una signora bruna, bassa e visibilmente preoccupata, che

parlava con un carabiniere di “suo marito”, mentre l’altro la rassicurava. I Vigili del

Fuoco predisponevano intanto la lunga scala della loro camionetta. Era sera

inoltrata, non so che ora di preciso, eppure si muovevano come fosse giorno pieno.

Un agente s’avvicinò alla signora bruna, poi prese una specie di walkie talkie dalla

cinta e disse tipo: “Fra poco arriva il nipote, sta per salire.”

M’avvicinai al portone e senza che nessuno mi guardasse, entrai. Trovai la porta

aperta, presi l’ascensore e arrivai al quarto piano.

Sul pianerottolo c’era una botola con una scala, e due poliziotti. M’avvicinai e mi

presentai dicendo d’esser il nipote del vecchio. Mi sembrò una cosa senza senso, ma

la feci e basta. Forse per quello funzionò.