Cinque Giorni Con Danio Manfredini

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Cinque giorni con Danio Manfredini Questo Danio Manfredini è e non è, allo stesso tempo, il Danio Manfredini di Cinema cieloLa crociata dei bambiniAl presenteMiracolo della RosaTre studi per una crocefissione: lo è nella misura in cui manifesta coerenza con la propria (ancora incerta) idea del teatro, con la propria concezione dello stare in palcoscenico, con una poetica fortemente identitaria, irrinunciabile dunque, ineliminabile; non lo è perché s'adopera come un regista al cospetto di una compagnia momentanea, frammentaria, che ha vita clandestina e settimanale: analizza le trame dei classici, le penetra, le abita, portando con sé l'attore o l'attrice, indica il punto esatto nel quale potrebbe accadere un'azione, fa sorgere costruzioni immaginarie, scova umori e suoni nascosti nel e dal testo, guida al movimento, plasma il personaggio ed il rapporto col personaggio, compone una partitura di gesti e di andamenti corporei, postula una visione possibile poi si siede – frontale all'interprete, di spalle al resto del gruppo – e osserva quello che accade. Prova, riprova, corregge, modifica o conserva, interroga, aggiunge o sottrae, riprova ancora, generando lembi di spettacoli ipotetici la cui durata coincide con il tempo di presenza attoriale. hp://www.ilpickwick.it/index.php/teatro/item/2271-cinque-gior... 1 di 14 15/10/2015 10.55

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Dario Manfredini

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Cinque giorni con Danio Manfredini

Questo Danio Manfredini è e non è, allo stesso tempo, il Danio Manfredini di Cinema cieloLa

crociata dei bambiniAl presenteMiracolo della RosaTre studi per una crocefissione: lo è nella misura

in cui manifesta coerenza con la

propria (ancora incerta) idea del teatro, con la propria concezione dello stare in palcoscenico, con

una poetica fortemente identitaria, irrinunciabile dunque, ineliminabile; non lo è perché

s'adopera come un regista al cospetto di una compagnia momentanea, frammentaria, che ha vita

clandestina e settimanale: analizza le trame dei classici, le penetra, le abita, portando con sé

l'attore o l'attrice, indica il punto esatto nel quale potrebbe accadere un'azione, fa sorgere

costruzioni immaginarie, scova umori e suoni nascosti nel e dal testo, guida al movimento,

plasma il personaggio ed il rapporto col personaggio, compone una partitura di gesti e di

andamenti corporei, postula una visione possibile poi si siede – frontale all'interprete, di spalle al

resto del gruppo – e osserva quello che accade. Prova, riprova, corregge, modifica o conserva,

interroga, aggiunge o sottrae, riprova ancora, generando lembi di spettacoli ipotetici la cui durata

coincide con il tempo di presenza attoriale.

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Questo Manfredini segrega Diego nella gabbia pinteriana di Party Time, costringendolo a calare

progressivamente fino ad accucciarsi, disperato e ferito, al cospetto di immobili sagome borghesi

che festeggiano; chiede a Francesca – diventata la Donna Rosita di Garcìa Lorca – di aprire l'anta

di una finestra inesistente non con la sinistra ma con la destra, perché possa scorgere meglio “le

nuove città” che si costruiscono; fa di Carmen, per tre ore la Maria del Carmelo di Annibale

Ruccello, una bambina inerme e spaventata e una donna malata e furiosa. Monta – questo

Manfredini – l'invisibile teatrino di Kostja nella parte anteriore della sala, chiedendo a Beniamino

di rivolgergli continuamente lo sguardo nel momento in cui, muovendosi avanti e indietro,

attende una Nina in ritardo, che non apparirà mai; spinge Susi alla bidimensionalità della

tragedia classica, inducendola al moto orizzontale tra i figli-vittime di Medea, seduti a destra, e il

coro, laterale a sinistra; rende Ricorda

con rabbia di Osborne una calcolata strategia di incontri-scontri, inducendo Stefano a braccare

Maura nell'angolo, a cercarne il contatto ostile, la reiterazione offensiva, l'atto vagamente

intimidatorio salvo poi far convergere entrambi a centro palco, lì seduti, portati alle lacrime, ai

giochi, alla commiserazione reciproca, alla reciproca confessione della propria fragilità.

“Vecchi tempi di Pinter” – afferma – “Anna è la rimanenza fantasmatica di ciò che è avvenuto, è

memoria presente e persistenza del passato e i dialoghi tra Deeley e Kate in realtà sono

monologhi: ognuno parla della propria Anna. C'è quindi la contrapposizione tra oggettivo e

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soggettivo, per cui si danno aspetto e valore differenti ad un'unica persona. Deeley e Kate, nel

parlare di Anna, non comunicano: sembrano dirsi qualcosa l'un l'altro ma invece non si dicono

niente”; afferma che “Non occorre aprire la quarta parete con Shakespeare perché tutto è dentro,

tutto appartiene al

perimetro imposto dal palco, che coincide col mondo. Anche la follia di Amleto, ad esempio,

appartiene allo spazio teatrale ed occorre sempre tener presente dove sono gli altri personaggi

mentr'egli parla giacché i suoi spettatori effettivi, e di cui è consapevole, non sono in platea ma

giacciono nascosti tra le quinte teatrali, dietro scenografie immaginarie o concrete” e afferma

inoltre che “Beckett, interrando Winnie fin sopra la vita in Giorni felici, ci pone la questione di una

relazione che diventa chiusura col mondo, reclusione, perché il matrimonio può diventare

esattamente la buca che rende questa donna ormai immobile”, che “echov è leggero, lieve ed

amaro, pieno di sentimento ed i suoi quadri di vita sono e saranno eterni per sempre”, che “ciò

che vivono gli abitanti della villa della Scalogna ne I giganti della montagna è reale quanto è reale,

per un folle, il mondo generato dalla propria follia”.

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Nelle conversazioni con attori ed attrici alterna il lavoro sul testo al racconto delle proprie

memorie, del teatro che ha visto e che ha amato o di quello che ha conosciuto e da cui è lontano:

non apprezza particolarmente Brecht né Pirandello, fugge il “teatrese” da “baraccone

spettacolare” offerto da certe produzioni degli Stabili, non sopporta la “funzione predicatorio-

pedagogica” della teatralità ideologicamente civile, che esprime una tesi preordinata e già

condivisa in partenza dal pubblico, mentre ricorda con emozione – ad esempio – La classe morta

di Kantor, visto con César Brie al Salone di via Dini, a Milano, o l'Apocalypsis cum figuris di

Grotowski, guardando il quale comprese “che si poteva fare ricerca, che si poteva tentare davvero

di generare nuove forme d'espressione artistica” e che “un teatro povero e magnifico, bello anche

se misero economicamente, era possibile”. Poi, rapito con un ultimo sguardo l'interesse dei

presenti, torna a lavorare ai Molière, ai Thomas Bernhard, ai

De Filippo, agli Ibsen o gli Strindberg che gli spettatori non vedranno mai, cui nessun critico

potrà mai dedicare un articolo.

“Evidentemente non interesso al sistema teatrale o forse non sono adatto alla confezionalità

stagionale fatta di spettacoli da allestire in trenta giorni, con quindici attori, su un testo deciso dal

direttore del teatro di turno: Il principe Amleto è vissuto per nove repliche mentre Vocazione,

quest'anno, ha solo quattro date”. “Tuttavia” – continua – “il lavoro cui rifiuto di asservirmi lo

svolgo – più liberamente – con gli uomini e le donne, con gli attori e le attrici, che frequentano i

miei laboratori: con loro dialogo, rifletto, approfondisco, ipotizzo ed imparo, con loro mi prendo il

tempo – raro nell'affannata contemporaneità sovraproduttiva del teatro finanziato nazionale – di

studiare per studiare”.

“I seminari” – scrive Lucia Manghi in La piuma di piombo. Il teatro di Danio Manfredini – “sono

per lui occasioni propizie in cui mettere a frutto la propria vocazione pedagogica e verificare

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continuamente il lavoro propedeutico che sottostà al

proprio impegno di interprete: è soprattutto in queste occasioni, con gli allievi, che incontra e

reincontra le domande che l'essere attore comporta”.

“Come si fa il teatro? Io non l'ho mica capito” accenna, sorridendomi, prima di rientrare in sala.

Definizione del personaggio, del contesto, della circostanza; individualizzazione degli stili di

movimento; consapevolezza dell'azione effettuata e prodotta: per Manfredini sono le “cinque

convenzioni teatrali” da cui l'attore inizia il proprio lavoro, cercando un'affinità – tutta ancora da

creare, motivare, da vivere – rispetto al ruolo che deve rendere in palcoscenico. Precede questo

lavoro la ricerca “degli assi dell'opera”: “gli assi” – spiega – “sono i pilastri su cui si regge una

drammaturgia, ne sono la struttura fondamentale e portante, lo scheletro, gli elementi di

sostegno”. “Perché un'opera possa funzionare” – continua – “gli assi devono essere almeno tre”.

Esempio. L'Amleto di Shakespeare: Claudio, “poiché innesta la tragedia”; lo spettro “perché

determina il ritorno di

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una condizione di dolore”; il principe, “che incarna la vendetta”. E nel suo Amleto? “La storia nei

suoi accadimenti principali; Amleto in quanto figura che determina l'associazione con la tragedia;

la coscienza della necessità di un riscatto”.

Cinque convenzioni teatrali, almeno tre assi e il “nodo tematico” ovvero l'elemento di

congiunzione “tra me e l'opera, tra me e il personaggio che interpreto”. Così, per rimanere al

dramma danese, il nodo cercato da Manfredini per il suo adattamento è stato “il passaggio dal

Bene al Male, la trasformazione di un giovane che, costretto dalle circostanze, diventa un

assassino”.

Questa progressiva frequentazione dell'opera e del personaggio non è un'attività puramente

teorica, simile allo studio da tavolino: seduti, testa china, gomiti alla scrivania, occhi fermi sulle

pagine. Si tratta, invece, di appropriarsi dello spazio di prova, di traversarlo interamente, di

inspirarne l'ampiezza, di far abituare gli occhi ai colori, le orecchie ai

rumori o ai silenzi, si tratta di prendere possesso del luogo (vuoto) nel quale – fisicamente –

inizia la ricerca. Si tratta di costruire dinamiche motorie a partire dal testo, si tratta –

continuamente, ostinatamente, senza fermarsi e concedendosi la continua libertà dell'errore, del

tentativo sbagliato, del fallimento ripetuto – di tradurre la drammaturgia in movimento, le frasi

in azioni. Far accadere l'opera, farla avvenire dandole corpo, fiato, espressioni mimiche e

concretezza gestuale manifestando contenuti e intenzioni, cercando in tal modo di costruire, con

pazienza, l'agita vita effettiva della figura inventata dall'autore: “Il lavoro dell'attore significa

agire,” – ripete spesso – “l'attore è colui che crea le azioni: lascia dunque che il corpo, in questo

momento, ti dica come recitare. il corpo che recita”.

L'alternanza tra indice e pollice per indicare la contrapposizione “io”/”tu”; la mano portata alla

bocca per attenuare l'urlo

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previsto dalla trama in un respiro; le pupille a sinistra, a destra, poi di nuovo a sinistra per seguire

un personaggio-spalla inventato; il bastone impugnato con la debole forza dei bambini, per dare

la sensazione di una stanchezza dell'anima prima che del corpo; il labbro inferiore incavato tra i

denti, per plasmare una vecchiaia a cui non si appartiene ancora; il mento schiacciato sul petto

per dimostrare senso di colpa e paura; il braccio, teso in avanti, a indicare la direzione e la meta

delle proprie parole. La necessaria esagerazione delle lacrime, le ginocchia piegate dalla difficoltà

di camminare, le palpebre chiuse alla battuta “sono infelice”. “Quando dici 'Succhio il buio' regola

la respirazione ritmicamente, come se stessi succhiando davvero”; “Alla frase 'Sono in mezzo alle

fiamme' scatta, come se la sedia bruciasse”; “Il testo ci dice che fa freddo, è notte, piove. Dunque

incrocia le mani sul petto, piega la schiena, inizia a tremare”.

Manfredini determina l'esistenza di una dinamica visibile, motivata dalla drammaturgia, che della

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drammaturgia finisce per essere una traduzione fattuale. “Dobbiamo poter capire ciò che sta

accadendo e quel che prova ogni singola figura semplicemente guardando: come se non ci fosse

testo, come se non potessimo sentire le parole che pure vengono dette, come se tra noi e la scena

ci fosse un vetro che insonorizza lo spettacolo. Vedere deve già bastarci a comprendere”.

Dal mio taccuino di appunti: “Non si tratta tuttavia solo di una visualizzazione, della

composizione di un quadro pittorico, della messa in evidenza di una tela teatrale. Mi sembra sia il

testo che si solleva dalla bidimensionalità della pagina per assumere la tridimensionalità dello

spazio nel quale, un uomo o una donna, si muove tra altri uomini e altre donne, così vivendo. Un

tocco alla sedia, i tre passi dal centro verso destra, le dita tra i capelli, il sorso dato a una tazza di

tè, il fazzoletto cercato nella borsa, la scatola portata da uno scaffale a uno scaffale sono

denotazione drammaturgica, cercata

chiarificazione del ruolo, progressiva strutturazione di una forma vuota che andrà colmata –

simile a un calco che attende il suo pieno – e che adesso si rende attraverso la realizzazione di

una serie di linee di scena. Sarebbe bello dunque poter assistere a tutto questo guardando

dall'alto, come si fa con le formiche quando trasportano il loro peso, così da rendersi conto delle

direttrici e delle dinamiche fisiche e direi grafiche che un attore o un'attrice, muovendosi,

disegnano nello spazio di lavoro”.

“La creazione è una condizione liminare, è un agitarsi confusamente nel caos primigenio, è uno

stare in uno stato di non conoscenza. Ho spesso la sensazione di vagare in un nulla assoluto, in un

buio che mi circonda. Non so cosa sto cercando ma inizio a cercare, procedo come a tastoni,

azzardo, volutamente esagero, provoco me stesso generando associazioni memoriali, chiamo ad

aiutarmi i ricordi, dimentico il personaggio per ritornarvi, provo a vedere me stesso

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fuori di me, imito un personaggio terzo che potrebbe aiutarmi, continuo a provare riuscendo a

capire talvolta durante il lavoro, più spesso dopo, a giornata trascorsa”. La perfetta memoria del

testo, fondamentale perché permette d'interrompere e riprendere la trama dopo ogni tentativo;

l'assoluta libertà dei propri muscoli, ulteriormente arricchita dall'assenza di giudizio su di sé

(“Non c'è qui nessun critico, non ci sono spettatori ed io non sono nel momento in cui ciò che

faccio deve piacermi: sono invece nella fase in cui cerco di comprendere e di precisare la mia

presenza”); la forza nel sentire la fatica ma nel non cederle, l'importanza d'avere e di prendersi

tempo, il coraggio di accettare che le strutture su cui hai lavorato, che hai generato e che ti

sembravano adatte, possano crollare all'improvviso, piegate fino a farsi macerie: “Per mesi vedo

solo strutture che deflagrano”.

“Agli attori e alle attrici che seguono i miei laboratori cerco di trasmettere questo: è importante

stare sull'irresoluzione

giacché è il momento nel quale si comprende dove andare. Se abbiamo pazienza, forse scopriremo

qualcosa che non sappiamo; altrimenti riscopriremo ciò che già sappiamo, limitandoci soltanto a

ripetere”.

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“Nei laboratori incontro, di fatto, un artista che è in viaggio. Io non ho soluzioni da suggerirgli,

ma posso accompagnarlo per questo tratto. Di solito non scelgo neanche io su cosa lavorare ma

chiedo agli allievi di scegliere un brano da repertorio. Partiamo insieme, dunque, da qualcosa che

non so, che non sappiamo, e cerchiamo soluzioni: questo è un allenamento alla creazione. Non

siamo coscienti di come far emergere la materia, ma sappiamo che dobbiamo starle addosso, che

la materia c'è, che è lì, che va scovata, trattata, fatta propria, praticata e approfondita. Così, forse,

arriviamo a creare qualcosa che potrebbe essere il frammento futuro di un'opera, di uno

spettacolo, un momento possibile di teatro”.

Osservare per cinque giorni – dieci ore al giorno – i partecipanti a questo laboratorio mi aiuta a

conoscere la fatica che

comporta essere attori. Il training mattutino, la cui serie di esercizi fisici determina la quotidiana

rinascita corporea degli allievi (dall'orizzontalità pavimentale alla postura verticale, posizione

neutra d'approdo, fino alla realizzazione di una coreografia collettiva singolarmente

caratterizzata), il riscaldamento vocale del primo pomeriggio (una progressiva conquista fonetica,

tonale e lessicale, della facoltà di parola: dal suono onomatopeico alla frase di senso compiuto) e

la realizzazione dei frammenti drammaturgici che diventano micro-regie momentanee mi

permettono di capire quanto esercitato logorìo possa appartenere ad ogni singolo gesto che viene

poi deciso, impostato ed offerto la sera della prima, per essere poi replicato di volta in volta: per

giorni, per settimane, per mesi. La reiterazione della stessa scena, dello stesso movimento, della

stessa parola mi danno la sensazione della limatura continua, del perfezionamento progressivo,

della forma cercata tra sforzi, incertezze, sofferenze e intuizioni, intime associazioni emozionali,

inevitabile disponibilità al

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sacrificio. Guardo questi sedici interpreti che – nella loro dimensione laboratoriale – mi paiono

pieni di una bellezza che non so né saprò mai descrivere e sento quasi una commozione al

cospetto dei loro affanni, del fiato accelerato che hanno dopo un esercizio, del sudore che gli

bagna le tempie, del dolore che provano alla schiena, a una spalla, in un braccio dopo aver

provato e riprovato senza aver ottenuto alcun risultato che li renda soddisfatti di sé. Comprendo

che l'osservazione critica coincide anche e soprattutto nella capacità di badare ai dettagli giacché

sono i dettagli a qualificare e caratterizzare la resa di un personaggio, la sua presenza in assito. Il

dettaglio – la mano che fuoriesce per metà da una tasca, il piede sinistro portato avanti rispetto al

destro, le sopracciglia aggrottate, un respiro, una pausa, il battito dato alla parola di una frase – è

il risultato di un lavoro durissimo che mi sembra scolpisca l'uomo perché si crei l'interprete in

grado di rendere il

personaggio, metafora a sua volta dell'uomo. Alice, Andrea, Irene, Piera, Ramona e Rachele,

Maria Chiara, Silvia, Teresa e tutti gli altri spariscono, senza mai sparire davvero, ritrovandosi ad

essere un altro, un'altra. Piange, Diego, ad un punto: le lacrime vengono da suoi occhi ma a chi

appartengono veramente? Francesca sospira, come fosse amareggiata, standosene ferma in un

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punto: cosa motiva questo scoramento? E suo, del personaggio che interpreta o di entrambe? Che

rapporto sussiste, dopo quattro ore di frequentazione laboratoriale, tra Maura (l'attrice) ed Alison

(il personaggio)? “In teatro uno può piangere realmente ma il suo pianto sarà sempre all'interno

della consapevolezza di un gioco. Io posso piangere, dopo di che tuttavia devo portare avanti il

gioco” − mi dice Manfredini – “magari continuando ancora a piangere, ma non posso soffermarmi

sul pianto e sulle ragioni profonde e nascoste che lo hanno generato per la scena. Non posso

trattenere la sensazione che

ha prodotto le mie lacrime. Il gioco deve proseguire”.

“Non sono un Maestro. Appartengo, o spero di appartenere invece, alla categoria degli artisti”:

mentre sfoglia una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini. “Non so cosa significhi recitare, non

ho certezze. So solo che dietro c'è un artificio, c'è un per finta, c'è un 'come se' che ha al suo

interno comunque una verità. So solo che uso una finzione che non è una menzogna”: una sera.

“Io non volevo fare l'attore, suonavo la chitarra: volevo fare il cantante”: sulla soglia della casa che

lo ospita al Centro Teatrale Umbro. "Sono dell'idea che, proprio perché l'artista si espone e si fa

attraversare dalle forze che ci circondano nella vita (sono queste forze a generare la necessità di

espressione), il momento di creazione richieda un isolamento, un raccoglimento che sono

fondamentali per riformulare, nell'opera d'arte, il suo contatto con la realtà": durante una pausa.

“Accettare di recitare, in fondo, è molto

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difficile. Si tratta di accettare di essere guardati, di accettare di dare”: stanco, dopo una giornata di

laboratorio. “Lavoro appoggiandomi a un invisibile, non mentale ma concreto, che mi condiziona

e che motiva la mia partitura”: frontale, fissando gli allievi. "Mi affido tanto alle sensazioni, anche

troppo. Mi dico che dovrei essere più razionale. Solo piano piano, e con dolore e fatica, arrivo alla

struttura": in attesa di ricominciare. "Noi iniziamo ad uscire dall'insicurezza scenica quando

richiamiamo davvero qualcosa che ci riguarda, che abbiamo attraversato, e ci assumiamo la

responsabilità di richiamare questo qualcosa per comunicare": ad un attore. "Un corpo allenato è

un insieme più ampio di possibilità teatrali": ad un'attrice. "Ti sto dicendo una cosa che è vera e

che sento, anche se le parole con cui te la dico le ha scritte Shakespeare": ad un interlocutore

immaginario, per spiegare la bellezza della prosa teatrale e la sua prossimità alla nostra vita

quotidiana. “Cerco una semplicità”: frase rubata a chissà

quale riflessione, mentre raggiunge la sala, in solitudine.

Danio Manfredini vive presso la Corte Ospitale di Rubiera. Il futuro immediato è rappresentato da

un disco di inediti, da un film ancora da scrivere nonostante centinaia di pagine già scritte, il terzo

anno di direzione all'Accademia del Teatro Bellini di Napoli. Il futuro sono questi laboratori –

mezzo di sussistenza, certo, ma soprattutto strumento di lavoro su se stesso attraverso il lavoro

svolto su e assieme agli altri. Il futuro è il pubblico che affolla i suoi rari spettacoli (“ il pubblico a

fare d'ogni sera la sera, a fare di ogni replica la replica; è il pubblico che mi permette di capire

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quanti errori ho commesso; è con il pubblico che sono in relazione attraverso il buio della sala

giacché, per dirla con Tarkovskij, l'artista, la sua opera e lo

spettatore rappresentano un unico e indivisibile, un organismo percorso da un unico sistema

sanguigno”); il futuro è il teatro, “chiamata che ha bisogno di una risposta, necessità personale,

vocazione insopprimibile, scelta che – nonostante le difficoltà, le miserie, le offese – ancora mi fa

pensare alla presenza dell'attore come l'espressione di una visione del mondo ed al suo lavoro

come un pensiero che va comunicato, condiviso ed offerto”.

“L'attore, quando appare in scena, arriva da lontano”.

Vado via, dal Centro Teatrale Umbro, con questa frase che mi batte nella testa.

Laboratori 2015 Festival. Festival Internazionale sulla formazione attoriale. VIII edizione

Di umanità si tratta

Danio Manfredini

foto Dimitri Tetta, Massimiliano Donato

Goregge – Gubbio (PG), Centro Teatrale Umbro, dal 23 al 27 settembre 2015

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