CINECRITICA MAGAZINE: SPECIALE sù DAVIDE MANULI

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PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/2 6 i potrebbe almeno per una volta cominciare a descrivere l’autore Davide Manuli e un certo panorama socio-politico, per arrivare poi al suo “cinema”. Perché – caso più unico che raro! – la sua fisiognomica, così come l’attuale panorama desertifica- to del sociale e del culturale corri- spondono attraverso una lente ana- morfica ai suoi film. Un film nel film. Come se le sue opere fossero fatte non di pellicola ma di sangue, sudore e lacrime. E ciò che si vede poi sullo schermo non sono delle semplici vicende ma delle radiogra- fie ingrandite di una smorfia che ha deciso di balbettare il proprio de profundis con l’humour di beckettia- na memoria. Forse perché per essere semplicemente poeti bisogna dispor- re di una non comune overdose di disperazione. La difficoltà a stare al mondo - in “questo” mondo! – appa- re già un’impresa titanica. Filmare l’esistente diventa una missione impossibile. In un paese come l’Italia diventa tutto ancora più avvilente, una sorta di joint venture suicida. Il sistema politico/economi- co/sociale è diventato un anello di Möbius, nel quale sono tutti vittime e complici allo stesso tempo. Un mostro che capovolge i dati della liberazione sociale. Una falsa onda liberatrice ha fatto in modo di rifila- re a noi sudditi il fantasma del pote- re e della libertà. Siamo tutti com- plici di un potere che non esiste più. Tutti si raccontano la commedia del potere, del sociale o della cultura. Dopo la mobilitazione del lavorato- re, del cittadino nel suffragio univer- sale, ecco giunta ma ormai già col- lassata quella del consumatore. Si estorce il bisogno, la spesa come un obbligo sociale, dopo avere loro estorto la parola, il voto, il sesso, la felicità. L’economico e il politico sono implosi uno dentro l’altro per mutarsi in una economia politica della deiezione, intenta nell’abiezio- ne di “rigenerarsi” attraverso la ripu- PRIMO PIANO Noi siamo già morti perché per esserlo ci basterebbe un gesto. Piero Ciampi I (cine) mondi perduti di Davide Manuli di DOMENICO MONETTI S Come se fossero fatti non di pellicola ma di sangue, sudore e lacrime, i film di Davide Manuli non raccontano semplici vicende di vita ma una specie di radiografia ingrandita di un malessere generalizzato, rappresentabile solo con l’humour di Beckett e con un’overdose di disperazione. Un autore visionario ed estremo che vive il cinema come esperienza irripetibile. Il precedente Speciale Nuovo Cinema Italiano, apparso sul numero scorso, è stato dedicato a: De Serio, Di Costanzo, Frammartino, Giovannesi, Marcello, Quatriglio, Segre

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CINECRITICA MAGAZINE: SPECIALE sù DAVIDE MANULI articolo di Domenico Monetti sul cinema di Davide Manuli in edicola e libreria n°72 di Cinecritica

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i potrebbe almeno per una voltacominciare a descrivere l’autoreDavide Manuli e un certo panoramasocio-politico, per arrivare poi al suo“cinema”. Perché – caso più unicoche raro! – la sua fisiognomica, cosìcome l’attuale panorama desertifica-to del sociale e del culturale corri-spondono attraverso una lente ana-morfica ai suoi film. Un film nelfilm. Come se le sue opere fosserofatte non di pellicola ma di sangue,sudore e lacrime. E ciò che si vedepoi sullo schermo non sono dellesemplici vicende ma delle radiogra-fie ingrandite di una smorfia che hadeciso di balbettare il proprio deprofundis con l’humour di beckettia-na memoria. Forse perché per esseresemplicemente poeti bisogna dispor-re di una non comune overdose didisperazione. La difficoltà a stare almondo - in “questo” mondo! – appa-re già un’impresa titanica. Filmarel’esistente diventa una missioneimpossibile. In un paese come

l’Italia diventa tutto ancora piùavvilente, una sorta di joint venturesuicida. Il sistema politico/economi-co/sociale è diventato un anello diMöbius, nel quale sono tutti vittimee complici allo stesso tempo. Unmostro che capovolge i dati dellaliberazione sociale. Una falsa ondaliberatrice ha fatto in modo di rifila-re a noi sudditi il fantasma del pote-re e della libertà. Siamo tutti com-plici di un potere che non esiste più.Tutti si raccontano la commedia delpotere, del sociale o della cultura.Dopo la mobilitazione del lavorato-re, del cittadino nel suffragio univer-sale, ecco giunta ma ormai già col-lassata quella del consumatore. Siestorce il bisogno, la spesa come unobbligo sociale, dopo avere loroestorto la parola, il voto, il sesso, lafelicità. L’economico e il politicosono implosi uno dentro l’altro permutarsi in una economia politicadella deiezione, intenta nell’abiezio-ne di “rigenerarsi” attraverso la ripu-

PRIMO PIANO

Noi siamo già mortiperché per esserlo

ci basterebbe un gesto.Piero Ciampi

I (cine) mondiperduti di

Davide Manuli

di DOMENICO

MONETTI

SCome se fossero fatti non di pellicola ma di sangue, sudore e lacrime, i film di

Davide Manuli non raccontano semplici vicende di vita ma una specie di radiografia ingrandita di un malessere generalizzato, rappresentabile solo con

l’humour di Beckett e con un’overdose di disperazione. Un autore visionario edestremo che vive il cinema come esperienza irripetibile.

Il precedenteSpeciale NuovoCinema Italiano, apparso sul numero scorso, è stato dedicato a:De Serio, Di Costanzo,Frammartino,Giovannesi, Marcello,Quatriglio, Segre

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litura a secco della Storia in unaprospettiva vittimistica, come se siavesse a che fare con una catastrofegià in atto, già compiuta del genereumano. Tutto accade come se cifosse una strategia (il potere stessoche si mette in posizione vittimista),ma in realtà non c’è alcuna volontàpolitica. C’è una specie d’illusioneferoce e di profonda idiozia a osti-narsi nel buon senso nel cambiare lecose quando non esiste senso, avoler cambiare la forma dell’equa-zione quando questa è uguale allozero. La politica non è più la spiega-zione della Storia. La Storia non èpiù la spiegazione delle nostre azio-ni. La politica che si gioca oggi è sol-tanto un ricatto alla Storia e allaRagione storica. Il destino inelutta-bile anche del cinema come dell’ar-te in generale è di reclinare nel-

l’epoca della volontà debole.Caduto in disgrazia Lenin (PostMarxismo), l’Occidente (PostLiberismo), il moderno (PostModerno) siamo ormai nel postmortem. In tale contesto DavideManuli appare un parossista soloapparentemente indifferente, unclandestino del cinema (non solo)italiano, una sorta di incrocio tra losperimentalismo del new waverFaust(o), alias Fausto Rossi e la rab-bia caustica ma lirica di un PieroCiampi, volto a “suonare” una miseen abyme del post-apocalisse.Dipingendola con svariati bianco eneri. In un contesto paesaggistico dianime morte (il deserto), noi spetta-tori ci riflettiamo come oggetti fetic-cio di un pensiero che non è più ilnostro, o che ne è l’eccedenzaincontrollabile. L’umano si è estinto

Davide Manuli.Nato a Milanonel 1967,ha studiato recitazione aNew York e hacollaborato conAl Pacino, MikeNewell e AbelFerrara.Autoredi numerosicorti ha esordito nel lungometraggionel 2006 con“Girotondo,giro intorno almondo”.

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da un pezzo. Le storie nel cinema diDavide Manuli diventano un recu-pero ed una riconfigurazione inces-santi all’interno del museo dei suonicampionati, di fantasmi che nellamusica tornano a essere corpi, adanzare, a straniarsi, lasciando intra-vedere la definitiva estinzione ditutti i referenti. Scrive Bruno DiMarino: «Dopo l’esordio conGirotondo, giro intorno al mondo(1998), il regista giunge a definiremeglio il suo stile con il secondolungometraggio, Beket (2008),ambientato sullo sfondo deserticodella Gallura, sublime scenario rare-fatto, pre-istorico o post-atomico intutti i sensi, sul quale vengono inse-riti, come decalcomanie, personaggiritagliati da altri immaginari; scheg-ge letterarie, citazioni filmiche,rimembranze musicali, reminescen-ze poetiche, derive iconografiche,frantumate e ricostruite senza unalogica, se non – appunto – quellabeckettiana, per cui qualsiasi sequen-za diventa metafora di qualcos’altro,in una trama folle e ossessiva, fattadi ripetizioni e inversioni continue,sia verbali che visive». (1) Ma sareb-be un tragico errore rileggere il cor-pus filmografico di Manuli comeun’evoluzione o devoluzione. Sonoprima di tutto esperienze di vita irri-petibili dove la macchina da presa ètestimone (in)discreto di “viaggi altermine della notte” (Girotondo,giro intorno al mondo), zone limi-nari sull’assurdità dell’esistere(Beket) e della visione (La leggendadi Kaspar Hauser). Scrive a tal pro-posito Maurizio Di Rienzo: «Ungirotondo attorno al mondo diManuli. Davide lo propone dal suoprimo film: giro anarchico in b/n,tra overdose di deliri-dolori e scattidi luce e musica. Strada e perife-ria=centro post-antropologico, soli-tudine distruttiva, salvezza a portatadi caduta. Davide mai regista pro-

vinciale, spazi interiori ed esteriori(Inuit, Beket, Kaspar) sono ispira-zione e meta, causa ed effetto, peroffrire cinema che sta a sé ma noncontro il mondo». (2)

Ma è davvero un territorio narrativola (non) carriera di Davide: dal 1987al 1990 è attore all’Actors Studio eal Lee Strasberg Institute di NewYork. Diventa assistente di AlPacino e Charly Laughton per laCHAL productions nel 1991. Èattore protagonista nel lungome-traggio The Contenders prodottoda Milos Forman per la ColumbiaUniversity. Nel 1993 recita nel filmL’incantevole aprile del registaMike Newell (3 candidature Oscar evincitore di 2 Golden Globes). Nel1995 è finalista e Borsa di studio alPremio Solinas con la sceneggiaturadi Girotondo, giro attorno almondo. Nel 1996 la pubblicazionedel libro poetico-fotografico daltitolo altrettanto emblematico Lamia incapacità di stare al mondo con lepoesie di Davide e le fotografie diFabio Paleari. Contestualmente realizza svariaticortometraggi, lavorando spesso evolentieri con materiali delicaticome l’8 mm e il Super 8: il kenne-thangeriano Mental Masturbation(1990) girato a Santa Monica,California, il cassavetesiano OhPeggy Oh!!!... Peggy YèYè (1989),il jarmushiano A Pack of smockes(1997), il seminale e profetico Entrela chair et l’ongle, il y a la crasse(1997), in Super 8 sonoro con lapresa diretta, che sarà acquistato daCanal + France; il toccante e com-movente Bombay: Arthur RoadPrison (1998), vincitore della Velad’Oro al Festival di Bellaria, storia didue sconfitti dall’esistenza:Gianluca, un giovane rinchiuso incarcere in India e la sua amica Titti,tossicodipendente. Un inesorabile edoloroso piano sequenza sull’amica

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Titti dentro l’abitacolo di un’automentre la voce fuori campo lamen-tosa di Gianluca (Manuli stesso) leracconta le sue disavventure. Daquesto momento in poi, Manuli pas-serà ai lungometraggi, senza maidimenticarsi però “la forma breve”che riprenderà per raccontare ilcontatto avuto con Abel Ferrara aRoma nel 2004 del quale era assi-stente personale. E se Girotondo,giro attorno al mondo viene saluta-to come uno degli esordi più origi-nali del cinema italiano, Inauditi –Inuit (2006) è un documentario(im)possibile sugli Inuit eschimesiresidenti nel nord del Canada, aridosso del Polo Nord, che avrebbe-ro dovuto partecipare a un progettodi cura a distanza mai andato inporto. È attore Nelle tue mani(2008) di Peter Del Monte.

Parallelamente il suo progetto piùambizioso Do???...Ping! non riesce aconcretizzarsi. Disperato ma maidomo realizza Beket, per poi prose-guire con La leggenda di KasparHauser. La parola ormai muore infavore di un suono/immagine in cuila musica tecno (Vitalic) diventaprolungamento dell’occhio del regi-sta. A tal proposito non si può cheessere d’accordo con le parole diGiuseppe Genna: «La colonnasonora di Vitalic, che satura leimmagini e distrugge i dialoghi, esal-ta in realtà le interpretazioni diGallo e di Gifuni (un prete cowboyche ciancia davanti a Kaspar Hauserdell’esistenza di un messia). SilviaCalderoni dei Motus, adrenalinica eautistica, è l’androgino KasparHauser, il ragazzo venuto da fuoridella civiltà e su cui essa tenta

Luciano Currelie JeromeDuranteau in“Beket” (2008),film girato daManuli inGallura, sullosfondo di unoscenario rarefatto epost-atomico.

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Abel Ferrara.Tra i progetti diManuli c’èanche un filmda realizzare incollaborazionecon il registaamericano,amico e ispiratore.

un’opera innaturale di corruzione edi espulsione dal corpo sociale,attraverso il bando dell’esclusionedefinitiva – la morte stessa. Unavicenda che si snoda per capitolimolto lineari, sottolineati con titolida film muto: l’arrivo di KasparHauser, l’educazione di KasparHauser, la sua uccisione… Chi scri-ve è in una posizione di oggettivitàpartecipativa, poiché è autore di unframmento della sceneggiatura.[…]Siamo di fronte, insomma, a unregista dal talento non comune, checi espone a una scelta radicale:dimenticare il film ed esperire ilcinema. […]Qualcuno di antico hadescritto in anticipo quest’operad’arte che è La leggenda di KasparHauser: “Ecco l’equivalente delsuono così come io lo intendo.L’attore non esiste più, il sé manca,siamo nell’abbandono, nella mortedella significazione. L’interiorità ha

eliminato la comunicazione. Tral’attore e lo spettatore non si comu-nica più. L’interiorità dell’attore siprecipita nell’interiorità dello spet-tatore. A questo stadio, la rappre-sentazione, le parole come volontà,Dio, la grammatica, l’anima, lo spiri-to, non esistono più. Sono il mai-detto, il non-detto, che parlanoall’interiorità. Siamo nella sensazio-ne. E infine è il corpo che scompa-re”. Questa precisa descrizione del-l’opera di Manuli è stata enunciatada Carmelo Bene, in un’intervista aThierry Lounas, sui Cahiers duCinéma, nel 1998, l’anno in cui usci-va il primo film di Davide Manuli,Girotondo, giro intorno al mondo.Era un passaggio di staffetta, nem-meno ideale». (3) Per entrare dunquenei (cine)mondi di Manuli bisognalasciare che i morti seppelliscano ivivi.

Davide Manuli: «La parola è troppo aerea perchépossa avere un senso»

Mi vuoi spiegare meglio questo ditticoche hai realizzato, ovvero Beket(2008) e La leggenda di KasparHauser (2012)… il primo mi sembrapiù basato sull’assurdo d’esistere, ilsecondo sulla mancanza di senso…

Beket è stato progettato come unfilm piccolo e grazie a Dio è filatotutto liscio a livello di lavorazione:in dieci giorni abbiamo girato e indue settimane abbiamo montato, intempo per iscriversi alla selezionedel Festival di Locarno. Una setti-mana dopo che l’avevamo montatoil film è stato presentato al Festival(vincendo il Premio della CriticaIndipendente, n.d.r.). Il film è stato

Intervista

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coprodotto dalla Blue Film e dallamia Shooting Hope. I produttoridella Blue Film mi hanno poi chie-sto se avevo voglia di tornare inSardegna dove appunto avevo deci-so di ambientare Beket, per girareun altro film, grazie anche alle cono-scenze che avevamo fatto. Dopo unasettimana mi è venuto in mente chepotevo finalmente realizzare un pro-getto che cullavo già da diversi anni:una mia versione di Kaspar Hauser.Ho pensato che sarebbe stata un’ot-tima occasione per ribaltare comeun calzino questo personaggio. Perciò che riguardava Beket mi eradispiaciuto che non c’era stata unavera uscita ufficiale del film. In teo-ria doveva andare alla Mostra delCinema di Venezia. Quando poi ilfilm è andato a Locarno, sempre inteoria, doveva vincere il Pardinod’Oro per la selezione Cineasti delpresente. Last but not least: mi aspet-tavo una maggiore visibilità del film.Quindi dopo Beket, la frustrazione

era abbastanza grande. Sapendo chepochi avevano visto il mio film, hovoluto riprendere tutto il discorsoche avevo fatto in quell’occasione,perché ero sicuro che quella miacifra stilistica sarebbe stata apprezza-ta. Non volevo però fare un remake,ma realizzare semplicemente unaltro film. La vicenda di KasparHauser mi è sembrata un ottimopretesto. Come dicevo ho volutoribaltare tutto come un calzinomantenendo la struttura, ma facen-dola vedere dal lato opposto. KasparHauser era un ragazzo piombatoimprovvisamente nella società,ottenendo una fama spettacolareinimmaginabile e a sua insaputa:milioni di persone che leggevano igiornali e venivano a conoscenzadella sua storia. Tantissimi che loseguivano che lo volevano vicino,senza che nessuno di questi volesserealmente insegnargli qualcosa diutile per lui. Sulla sua vicenda ledomande che noi tutti ci poniamo

In basso, SilviaCalderoni in“La leggenda diKaspar Hauser”(2012).La parola svanisce a favore delsuono e di una adrenalinicamusica tecno,intesa comeprolungamentodello sguardo.

Note

1) Bruno Di Marino,Sul confine. Le formedella sperimentazionein Italia, in AdrianoAprà (a cura di),Fuori norma. La viasperimentale del cine-ma italiano, Marsilio,Venezia, 2013, p. 70.2)Davide Manuli,Gianluca Arcopinto,Girotondo, giro attornoal mondo. La storiavera (1994-2012),auto editato, Roma,2012, pp. 8-9.3)http://www.giugen-na.com/2012/05/30/su-lunita-circa-il-film-di-manul i -kaspar-h a u s e r- e - a n c o r a -sepolto/

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Nella foto,locandina di“Beket”. Pocomeno di unmese di lavorazione, trariprese e montaggio,il film vennepresentato alFestival diLocarno dovevinse il Premiodel CinemaIndipendente.

sono le seguenti: perché non è riu-scito a vivere a lungo? Perché lohanno ammazzato? Stava bene consé stesso? Kaspar Hauser è statoaggredito da così tanti input senso-riali che il suo sistema nervoso nonha retto. Non a caso aveva degliattacchi epilettici. Avrebbero dovu-to agire nei suoi confronti con moltapiù pazienza, con molto più tatto econ molta più calma. Kaspar Hauserè stato aggredito in nome dell’edu-cazione dalla cosiddetta buona

società: era morto ancor prima che isuoi parenti lo uccidessero. Quelloche m’interessava era da una partecontinuare a usare gli stilemi diBeket (le ottiche larghe, il bianco enero, il deserto, i pochi personaggi),dall’altra raccontare questa vicenda,che a mio avviso offriva una mag-giore evoluzione rispetto ai miei filmprecedenti. Su Beket tanti hannodetto: «Ah che bello! Che carino…tanto non c’è da capire nulla… èSamuel Beckett». Hanno avuto un

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appiglio già dal titolo e da due, treelementi del film in cui lo spettato-re ha avuto di nuovo tempo di seder-si comodamente e di dire «Sì, bello,tanto ma… ». In questo mio ultimofilm non c’è alcun appiglio. Si cadedirettamente giù dal burrone. Infattic’è chi lo ama e chi lo detesta pro-prio per questo motivo. Non c’è nes-sun paracadute per salvarsi. È unatto di coraggio non solo mio maanche del pubblico che deve accet-tare questa visione senza appigli emagari sempre senza appigli farselapiacere.

Quando hai scritto la sceneggiatura diKaspar Hauser pensavi già all’attri-ce/performer Silvia Calderoni?

No. All’inizio avevo pensato solo aVincent Gallo e a Vitalic per lemusiche. Il cast dall’inizio a oggi ècambiato molto... ci sono statemolte traversie. Inizialmente dove-va esserci anche CharlotteRampling. Oggi si è arrivati a unacrisi tale che realizzare un film senzadelle star è veramente complicato.L’anno prossimo spero di girare que-sto film con Abel Ferrara protagoni-sta ed è l’unica cosa in cui mi ci dan-nerò l’anima per farla. Ma è inutilenasconderlo: io con Abel ho unritorno che non ho con altri.

Il monologo recitato da Fabrizio Gifuniin Kaspar Hauser è stato scritto daGiuseppe Genna, uno scrittore cheamo molto. Com’è avvenuto questoincontro?

Grazie a Fabrizio. Gifuni mi avevachiesto dopo Beket se io conoscevoGenna. Risposi di no. Lui mi disseche mi perdevo qualcosa di fonda-mentale e mi consigliò la lettura diqualche suo libro. Lessi il Dies Irae.Assolutamente incredibile. Lo volliconoscere. Fabrizio mi presentò a

lui. A Genna era molto piaciutoBeket e anche la sceneggiatura deLa leggenda di Kaspar Hauser. Miconsegnò allora questo monologo.Dalla sceneggiatura con il monologodi Genna alla realizzazione del filmsono passati due-tre anni. Hocominciato a lavorare a questo filmdal 2009. La gestazione è stata piut-tosto lunga.

In tutti e tre i tuoi lungometraggi dedi-chi un ruolo fondamentale alla musica,paritetica all’immagine. Mi è venuto inmente un’intervista in cui tu dicevi diambire a diventare ancora più icono-clasta dove il suono doveva prevaricare

La locandina di“La leggenda diKasparHauser”.Alla sceneggiaturadel film ha collaboratoanche lo scrittoreGiuseppe Genna.

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l’immagine, diventando il protagonistaassoluto, forse il solo elemento… C’èpoi questo amore per la musica elettro-

nica e a certa new wave anche italiana(penso a Freak Antoni, attore/perfor-mer per Beket).

Malgrado tutto l’impegno noi siamoprotagonisti e al contempo vittimedi un mondo che sta perdendo ilsenso ogni giorno di più. Nel quoti-diano niente ha più senso. Tuttidicono una cosa per poi dire l’esattocontrario due minuti dopo. Le pro-messe non vengono mai mantenute.La comunicazione è nulla. Percomunicazione intendo uno “scam-bio vero di energie che si toccano eche si avvolgono tra di loro”. In taleprospettiva comunicare via skype,email, sms, è nulla. Proprio nulla.Siamo tutti esseri viventi, soltantoche l’essere umano è l’unica creatu-ra terrena dotata di autocoscienza edi autoanalisi. Oggi però l’uomovive senza più alcuna voglia di uti-lizzare la propria autocoscienza eautoanalisi. Non ha più voglia dicomunicare nel quotidiano. Questopseudo uomo attuale che non comu-nica e che non ha più coscienza èindifferente e distante da tutto e datutti. È variabile e mutevole di opi-nione. È cinico. In tale contestoquotidiano – abbastanza miserrimo– si va e si tira avanti ma non ha piùsenso vivere.

Se con Girotondo, giro attorno almondo parti dall’assurdità dell’esisterecon una conclusione quasi zavattinianasull’amore… una speranza, nei duefilm successivi Beket e La leggendadi Kaspar Hauser l’unica salvezzarimane questo humour nero e la musi-ca, vista come unica valvola di sfogo edi libertà in cui i personaggi possonostraniarsi dal contingente e dal quoti-diano miserabili. Il ballo diventa cosìuna via di fuga.

In questa società del non senso, unadelle cose che perde maggiormenteil suo peso è la parola. Perché nonha nessun valore. Non arriva più.Troppo leggera per comunicareamore o quant’altro. In questi anni

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infatti è veramente noioso sentireparlare tanto. Comunica molto dipiù la musica, il suono, oggi. Citavila mia passione per la musica elet-tronica, ma in realtà tutto può fun-zionare con qualsiasi tipo di musica,tranne la parola. Mi dicono che l’ul-timo film di Kim Ki-duk sia muto.Lo capisco perfettamente. Oggianche chi lotta per fare qualcosa didiverso a un certo punto diventainevitabilmente e fatalmente nichi-lista. Un nichilismo intriso da un’in-differenza su tutto e per tutto, dellaserie “non me frega più niente diniente”. Questo pensiero è se nonaltro abbastanza moderno. Nelsenso che è come una rete dove rie-sci a pescare un’audience impensa-bile e cioè quella dei diciottenni maanche dei trentenni annichiliti, deiquarantenni arrabbiati, dei sessan-tenni delusi. La fascia dai sedicenniai venticinquenni è normalmenteperduta. Non andrà mai in sala avedere un qualsiasi film. E non è unaquestione economica. Spendonomolto di più per degli aperitivi ilsabato sera o a un concerto di musi-ca elettronica. Però se si comunicaattraverso i “vaffanculo” e i “non mene frega un cazzo” all’interno di unastruttura filmica fatta bene c’è unamaggiore speranza che dei giovani

tornino al cinema. È una questioneanche di comunicazione. Per la miaesperienza coi giovani è meglio nonparlare. Meno parli e più sei dallaloro parte. Oramai venti-trenta filmitaliani all’anno sono solo spec-chietti per l’allodole, fumo agliocchi di qualcosa che assolutamentenon c’è più. Non è una questione difare film strani o film commerciali.Perché è tutto in crisi. L’intera filie-ra dal finanziamento alla distribuzio-ne, alla sala, al festival, allo strea-ming non si regge più in piedi.

Questo tuo nuovo progetto con AbelFerrara attore sarà ancora basato sul-l’assurdo?

Sono due anni che questo progettopurtroppo non riesce ad accedere adalcun finanziamento pubblico inItalia. A questo punto “forse” lo rie-sco a fare comunque grazie a dei taxcredit esterni di privati, e lo giro indieci giorni. E non girandolo confinanziamenti pubblici, non dovreiavere alcuna restrizione di sortariguardo alla narrazione.

Sarà ancora in b/n?

No, a colori, ma dovrebbe esserequasi tutto muto. E probabilmente

Davide Manulidurante leriprese di unsuo film. Nellapagina accanto,dall’alto, ElisaSednaoui in “Laleggenda diKaspar Hauser”e FabrizioGifuni in duescene di“Beket”.

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ci sarà anche in questo caso moltamusica.

Mi vuoi raccontare le vicende di quelprogetto purtroppo mai realizzato chia-mato Do???... Ping!?

Un vero peccato. È stato un traumaesistenziale. Abbiamo passato dueanni al MIBAC facendo il recordper il numero di rinvii per approfon-dimenti istruttori e di audizioni(cinque in due anni). Siamo statipoi “approvati e non finanziati” conun punteggio altissimo di 75 punti.E siamo poi stati derubati del pun-teggio che ci permetteva il giudizio“approvato e finanziato” da un gior-no all’altro, con un consueto giocodi carte tutto italiano. Poteva essereun bel film duro, divertente maanche drammatico. Era anche com-merciale perché raccontava il ritiroin altura di una squadra semi profes-sionista di ciclisti. Dopo una brevis-sima e iniziale apparenza di normali-tà si vedeva che questi ciclisti perguadagnarsi da vivere erano drogatimarci, dopati fino all’inverosimile.Tutto il film cercava di far capire lalinea di demarcazione sottilissima

tra il doping professionistico e latossicomania. La regola è abbastanzasemplice: doparsi costa tanto, è unacosa per gli sportivi ricchi. Perchébisogna pagarselo da soli e probabil-mente in nero. Se si viene dopati inmaniera professionale, si vinceran-no sicuramente i premi più ambiti eimportanti non prima che gli spon-sor non abbiano fatto la loro parte.Quando si è sportivi ma senza soldi,si è costretti a doparsi nel peggioredei modi. Ci sono in quest’ultimocaso ragazzini buttati al macello. Inquesto progetto erano coinvolti laLucky Red e la Film Commissiondel Piemonte. Secondo me non si èvoluto capire questo progetto. Era il2006. Pantani era morto da pochianni. Poteva essere un film dallaportata commerciale importante.Gli attori avrebbero dovuto essere:Paolo Rossi che interpretava ildirettore sportivo della squadra, IvaZanicchi nella parte di un’ex can-tante in pensione, ora padrona del-l’albergo dove andavano i ragazzi afare il ritiro. Altro attore sicuro eraFabrizio Gifuni. Ho scritto la sceneggiatura insiemea Erwann Menthéour (che correva il

Nella foto, SilviaCalderoni eDavide Manulial Festival diRotterdam,per la presentazionedel film “La leggenda di KasparHauser”.I film di Manulihanno avutopremi e riconoscimentiin numerosifestival internazionali.

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Il cast di“Beket” riunito per unapresentazionepubblica delfilm. Da sinistra:JeromeDuranteau,SimonaCaramelli,Davide Manuli,Luciano Currelie RobertoFreak Antoni.

Giro d’Italia assieme a RichardVirenque), l’autore del libro che hasconvolto il ciclismo: Il mio doping(ed. Baldini e Castoldi). O meglioho realizzato delle lunghe intervistesulla sua esperienza e sulla base diquesto materiale ho scritto la sce-neggiatura. Ricordo ancora la suareazione quando gliela feci leggere.Mi disse: «Sono sconvolto. Se riescia realizzarlo viene fuori uno scanda-lo che non finisce più!».

Con l’esperienza dell’oggi, come rivedila tua opera d’esordio Girotondo, giroattorno al mondo?

La rivedo come un ricordo di vita.Quel film racchiude un’esperienzaesistenziale. Quando qualcuno midice «Beket è interessante, peròsarebbe bello che rifacessiGirotondo, giro attorno al mondo»,io concludo amaramente dentro dime che allora è proprio vero che chivede non ha cognizione che quelloche accade sullo schermo è solo lasuperficie. Quando cominci a lavo-rare a un film senza sapere una dea-dline precisa, t’imbarchi in una cosagigantesca. È un film irripetibile.Impossibile da rifare perché è stato

già un miracolo averlo realizzato.

Mi ha molto colpito il tuo documenta-rio Inauditi-Inuit! (2006). Cosìcome mi ha incuriosito una recensionein cui giudicava negativamente questotuo lavoro perché cominciava in unmodo, si sviluppava in un altro, perchiudersi poi in un’altra variante.Questo nomadismo strutturale inveceper me rappresenta un plus valore.

In realtà è accaduto proprio così. Ildocumentario nasceva come un’in-chiesta su Telemedicina. Dovevaessere un documentario scientifico,dal taglio molto tecnico su certemacchine costosissime presenti inquesto laboratorio a Parigi. Avevoletto poi un articolo che parlava dicome gli Inuit (il popolo eschimeseche vive nei territori del grandeNord canadese) potessero usufruiredi assistenza sanitaria attraversocomputer e installazioni di teleme-dicina provenienti dagli ospedali delcontinente, curandosi e operandosida soli attraverso la sola guida ecomunicazione telematica. Mi sem-brava una bella idea non solo a livel-lo documentaristico ma anchesociale: la scienza che cerca di supe-

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rare le difficoltà della natura (inquesto caso l’isolamento, il freddodel Polo Nord) per salvare viteumane. Insieme al mio amico e atto-re Jérôme Duranteau (al tempo stes-so produttore del documentario perla Francia) decidiamo d’intrapren-dere questo viaggio in Canada percapire come i canadesi curino gliInuit del Polo Nord servendosi dellatelemedicina. Arrivati a Ottawa,intervistiamo l’inventore della tele-medicina che doveva curare con lemacchine dal continente canadesefino ai territori del Nunavut, la terradegli Inuit. Arrivati in Nunavut perla seconda parte del documentario,troviamo con nostro sconcerto chequeste macchine sono praticamenteinutilizzate, seppellite da grandi teli,nel completo disinteresse dei capireparto dell’ospedale. Trovandoci inquella terra, decidiamo comunque diandare avanti con le riprese cercan-do di far vedere come vivono e cosafanno gli eschimesi. Ma le condizio-ni climatiche sono terribili. Un fred-do fuori dalla grazia di Dio (meno20, meno 30), con un vento a 150all’ora. È stato difficile pure quelloche abbiamo potuto fare in unasituazione del genere. Bisognavasempre improvvisare, a secondadelle condizioni climatiche. Un po’come andare da una base lunareall’altra. Le distanze che a noi sonominime, lì diventavano abissali.Secondo me abbiamo fatto un buonlavoro, anzi talmente buono chesiamo andati in concorso al Festivaldi Torino.

Sono rimasto poi colpito dal tuo back-stage di Controvento (2000) di PeterDel Monte… sembra tutto ripresodallo spioncino di una porta… unperenne grandangolo con delle figureora ferme, ora mobili, con il regista chediscute e dirige…

Sono contento che ti sia piaciuto.Andrea de Liberato, che producevail film all’epoca, mi chiamò chie-dendomi se volevo fare un backsta-ge. Accettai volentieri anche perchéPeter era un amico. A me è dispia-ciuto che questo mio backstage poinon sia entrato nel dvd del filmomonimo. La produzione non havoluto, mentre a Peter era piaciuto.

Il tuo futuro artistico…

Se mi guardo indietro c’è tutta unacarriera zigzagante, un saltare sem-pre gli ostacoli in un’industria delcinema ormai morta. Lavoriamo perun’arte che ha a che fare più con glizombie che con il presente. A que-sto punto mi preme realizzare il filmcon Abel… anche perché siamo dueestremi che possono convergereverso un punto di fuga… Mi danne-rò per realizzare questo progetto per-ché oramai ogni progetto, potrebbeessere l’ultimo film. Vale per tutti. Ese per caso fosse l’ultimo, potreicomunque essere molto contento.Avrei una filmografia di tutto rispet-to composta da quattro lungome-traggi di cui il penultimo interpreta-to da Vincent Gallo e da quello chedevo ancora fare con Abel Ferrara.Ormai la crisi è tale che dietro lefacciate completamente paralizzatedelle istituzioni come Rai Cinema,Luce, Mibac, Festival di Venezia,Festival di Roma, ecc… non c’è piùun euro. Non c’è più niente. Sichiude. Ci saranno sempre più casedi produzioni costrette a chiudere.Così come le distribuzioni.Fandango e Sacher Film sono degliesempi eloquenti. Oggi è un bagnodi sangue distribuire un film. Nonc’è nessun guadagno.

Dei tuoi cortometraggi, quale ritieni ilpiù riuscito?

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Sicuramente Entre la chair et l’on-gle, il ya la crasse (1996), perchépiù completo anche da un punto divista narrativo e produttivo.Abbiamo fatto un lavoro eccellentecon il super 8 e il sonoro in presadiretta. Girando in super 8 si perdo-no sempre dei fotogrammi rispettoalla registrazione. Quando poi si è inpresa diretta i problemi tecnici sicomplicano: si può andare facilmen-te fuori sync e allora in fase di mon-taggio bisogna tornare indietro, permettersi a posto con il labiale. Perquesti problemi tecnici non sonotanti quelli che hanno realizzato ilsuper 8 in presa diretta. In quel cor-tometraggio ci sono delle scene dicui vado orgoglioso, tipo l’incidentein moto.

Del cinema italiano contemporaneo checosa apprezzi?

Per esempio, il cinema di AgostinoFerrente, di Giovanni Piperno, diGiovanni Columbu e di SalvatoreMereu. L’imbalsamatore (2002) diMatteo Garrone è un capolavoroassoluto. Lo stesso cinema diSorrentino rivela delle sfaccettaturenotevoli. L’Italia pecca non tanto di

lavori e di autori ma di uno statomentale e comportamentale terrifi-cante, dettato da quello che io chia-mo “l’infantilismo cronico”. Quicade tutto nello scherzo, nella paccasulla spalla, nella barzelletta dell’ul-timo minuto. Quando si vede unfilm straniero, si riconosce subitouna certa maturità che da noi pur-troppo latita. Abbiamo purtroppouna malattia che non fa crescere ilsistema. Il cinema è la forma d’artepiù onesta e sincera che ci sia. Tuttele altre possono prenderti in giro,tranne la Settima Arte che ha unasincerità disarmante. Un film è ontologicamente puro,teologicamente santo. Perché unfilm ci mette un nano secondo acrollare. Per farti capire meglio: setu cazzeggi per anni tra scrittura,produzione, casting e tutto ilresto…non puoi pensare che alprimo giorno di girato scenda dalcielo la dea bandata per darti la con-centrazione ed il rispetto di un setcome quello di Shine di Steve McQueen. Impossibile.

Intervista a cura di Domenico Monetti

Ancora DavideManuli, qui invitato all’edizione2013 delFestival delCinemaIndipendente,Cinémondes diLille.