Ci vediamo martedì

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Un ricordo di Maria Luisa Scolari a vent’anni dalla sua scomparsa A cura di Francesco Scolari Prefazione di Oscar Luigi Scàlfaro Postfazione di Mario Capanna ci vediamo martedì pagina 1 domenica 12 dicembre 2010 15:43 Ciano Magenta Giallo Nero

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ricordo di Maria Luisa Scolari a vent'anni dalla sua scomparsa

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Un ricordo di

Maria Luisa Scolari

a vent’anni

dalla sua scomparsa

A cura di Francesco Scolari

Prefazione di Oscar Luigi Scàlfaro

Postfazione di Mario Capanna

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LA MIA CARA SISA ………………………………………………….……… 5

Oscar Luigi Scàlfaro — Presidente Emerito della Repubblica

CI VEDIAMO MARTEDI’ ………………………………..………….……….… 9

Francesco Scolari

È INUTILE CHE MI TIRI IL CAPPUCCIO …………..……..………….…… 12

Marisa Scolari

SENTIMENTI PIU’ NOBILI DELLA RAGION DI STATO ………..…...…… 29

Mario Capanna — Presidente Fondazione Diritti Genetici

tutte le immagini provengono

dagli archivi privati della famiglia Scolari

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LA MIA CARA SISA

Oscar Luigi Scàlfaro — Presidente Emerito della Repubblica

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Correva I'anno 1925, il primo Anno Santo della mia vita, quello che mi

è rimasto più impresso, quando per la prima volta vidi da vicino Pio XI.

Nell'estate di quell'anno papà e mamma decisero, per farci fare una buo-

na vacanza, di andare in un paese fino a quel momento per me scono-

sciuto, non lontano dal Lago d'Orta: Bolzano Novarese, 400 m sul livel-

lo del mare, paese di campagna non molto curata. Ogni famiglia posse-

deva almeno una mucca per avere il latte per le necessità familiari. Abi-

tavamo al piano terra e rimanevamo dalla festa di SS. Pietro e Paolo

all'apertura ad ottobre della scuola elementare.

Vicino, con una zona pressoché comunicante con i nostri proprietari, i

Signori Gattone, la famiglia Scolari. Il padre, organista, la signora, quat-

tro figli, uno vicino a diventare geometra, Marisa, studiava per diventare

un'ottima impiegata in qualche azienda. I due più giovani: Franca, della

stessa età di mia sorella, fece per tutta la vita la maestra elementare, e

Piero, mio coscritto, diplomatosi in una scuola industriale, svolse in

quel settore un'attività di tutto rispetto. Marisa aveva qualche anno in

più di mia sorella; ciò le dava il segno di una maturità vicina ad essere

conquistata, si interessava in modo particolare dei giovani dell'Azione

Cattolica della parrocchia dove eccelleva per una anticipata saggezza e

per una semplicità sempre piacevole.

Dall'età di 7 anni all'Università, Bolzano era diventato il luogo più ama-

to per le nostre vacanze e punto di partenza per lunghe passeggiate tra-

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mite le quali raggiungevano paesi prospicienti il Lago Maggiore o luo-

ghi sulle diverse sponde dell’incantevole e pittorico Lago d’Orta.

Nacque naturalmente una semplice, profonda, simpatica amicizia con i

quattro ragazzi Scolari, con una confidenza particolare con chi era più

vicino a ciascuno di noi per età e con un'ammirazione intensa nei con-

fronti di Marisa che il papà, con particolare tenerezza, chiamava "la mia

Sisa".

Trascorso qualche anno, ebbi la sensazione che in Marisa si fosse verifi-

cato qualche passaggio sostanziale come chi cammina su una strada

cercando ancora un orientamento definitivo e chi ha già scelto e vive

nella serenità della propria certezza; Marisa si assentava perché andava

agli "esercizi spirituali". Era la prima volta che sentivo questa espressio-

ne e ne chiesi spiegazione; intesi che si trattava di quasi una settimana di

preghiera, di meditazioni dirette da religiosi francescani. Pur senza com-

prenderne la ragione profonda, mi convinsi che Marisa avesse fatto un

passo importante verso il Signore e lo si notava nella delicatezza del

tratto e nel raccoglimento che diventava caratteristica del suo comporta-

mento.

Un giorno Marisa partì e per qualche tempo non mi capitò di incontrar-

la. Seppi che era stata chiamata da Padre Gemelli come segretaria ed era

quindi vicino a lui nei suoi molteplici impegni. Seppi poi che Padre Ge-

melli aveva fondato I'Opera della Regalità di nostro Signore Gesù Cristo

con donne, uomini e sacerdoti consacrati a Dio per questa opera gran-

diosa nel mondo.

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Padre Gemelli era Rettore Magnifico dell'Università Cattolica del Sacro

Cuore dove ero studente di Giurisprudenza, fui anche suo allievo a Psi-

cologia Sperimentale. Ne ammiravo la statura di scienziato e mi com-

muoveva il pensare che questo giovane studioso, intorno al quale si era-

no moltiplicate le più belle speranze specie di un mondo prevalentemen-

te laicista e socialista che non prometteva invano e dominava nell'am-

biente universitario, abbandonò tutto per farsi frate francescano.

Mi parve allora, e ne sono tuttavia convinto, che la chiamata di Marisa

fosse sul piano di Dio qualcosa di veramente grande rilievo. E intanto,

con piacevolissima sorpresa, gli incontri con lei si moltiplicavano ogni

volta che avevo occasione di avvicinare il Rettore. Poi il Rettore subì

due gravissimi incidenti di auto da cui uscì fortemente provato e non

poté mai più abbandonare la carrozzina che lo trasportava. Marisa di-

venne anche assistente particolare che incontravo frequentemente a Mi-

lano e a Roma o in qualche luogo francescano dove Gemelli svolgeva

anche la sua missione sacerdotale e intensamente francescana.

Marisa è rimasta davanti a me come una dolce e amabile icona donatasi

a Dio attraverso S. Francesco che era divenuto compagno e guida della

sua vita. E la sua amicizia rimane dono, consiglio, conforto.

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CI VEDIAMO MARTEDI’

Francesco Scolari

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Bolzano Novarese, venerdì 2 novembre 1990. Per tutto il pome-

riggio, aveva piovuto con insistenza; gocce sottili, gelide, tanto

che l’abituale funzione dedicata ai defunti, con meno gente del

solito, era stata accorciata per far sì che tutti potessero scappare

in fretta dal minuscolo cimitero (alla spicciolata, senza dar luogo

come negli anni precedenti ai soliti capannelli per le ciarle) e rin-

tanarsi in casa vicino alle stufe. Anch’io tornai in Rimembranze

con la zia, che avevo accompagnato a San Martino con la sua

Panda; mi aspettavano un the caldo coi cioccolatini, le solite

chiacchiere (il lavoro, la scuola, un commento agli articoli che a-

vevo scritto qualche mese prima per Avvenire e che, secondo lei,

avrei dovuto continuare nonostante l’improvvisa scomparsa del

dr. Riccomini, dal quale mi erano stati commissionati) e poi il ri-

torno a Milano, prima che fosse buio. L’umore di zia Marisa era

quello di sempre – allegro e scherzoso – anche se, quella volta,

non potè non colpirmi un particolare: al momento di andarmene,

volle accompagnarmi fin nell’altro cortile dove tenevo la macchina

e, una volta salitovi, stringendomi forte il braccio attraverso il fine-

strino, mi congedò dicendo: «Allora, ci vediamo martedì».

Certo, come sempre: a martedì prossimo, in Cattolica. Se non vi

erano altri impegni, quello era il giorno in cui stavamo insieme a

pranzo, di solito alla mensa dell’Università, più raramente nella

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sala-ristorante interna di via Necchi, dove sedevamo al tavolo di

qualche docente amico della zia, per poi trasferirci nella stanzetta

a conversare un po’.

Poche ore più tardi, la notte tra sabato e domenica, Zia Marisa, u-

na volta appartatasi nella sua stanza, si coricò nel suo letto per

non svegliarsi mai più. Zia Franca, sua sorella, la trovò la mattina

dopo che sembrava continuasse a dormire, sorridente e serena.

Un congedo, il suo, come avrebbe poi evidenziato nell’orazione

funebre il Cardinal Giovanni Colombo, arcivescovo emerito di Mi-

lano, «nell’ora che non pensiamo, nel cuore della notte, come

conviene ad una Vergine prudente; un congedo senza clamori,

un incontro con Sorella Morte intimo e riposante come conviene

ad una esperta Francescana». Per trasferirsi anche lei, da quel

momento, «tra coloro che, lassù, più amano ed amiamo, pronta a

venirci incontro ».

Ormai vicino a concludersi, quel 1990 aveva assistito ad eventi di

portata storica (in ordine sparso: riunificazione delle due Germa-

nie, fine dell’apartheid in Sudafrica e conseguente liberazione di

Mandela, indipendenza dall’Unione Sovietica di Lituania e Letto-

nia, invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, Nobel per la pace a

Gorbachev per i suoi sforzi nel ridurre le tensioni della guerra

fredda) e di interesse nazional-popolare (ritorno dei Mondiali di

Calcio in Italia, approvazione della legge Mammì, che sanciva la

legalizzazione delle televisioni private).

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Ma per zia Marisa quell’anno aveva ben altro significato perché,

entro Natale, avrebbe dovuto lasciare per sempre l’Università,

dopo cinquantadue anni di ininterrotta militanza.

Terminata l’estate, aveva iniziato a trasferire le sue poche cose.

Negli ultimi anni di permanenza a Milano, dopo aver abbandona-

to definitivamente l’appartamento al primo piano del rettorato, nel

quale era vissuta per decenni accanto alle stanze personali di

Padre Gemelli e alla sua Cappella privata, si era trasferita in una

piccola stanza affacciata su Largo Gemelli (proprio sopra il porto-

ne di accesso all’Università) nella quale, nonostante l’esiguo spa-

zio, era riuscita a... far convivere con estrema eleganza: un letti-

no (di giorno parzialmente occultato da una tenda scorrevole), un

divano riservato al colloquio con i visitatori e una grande scrivania

con alle spalle alcuni scaffali di legno chiaro dove riponeva, ac-

canto ai pochi libri a cui era particolarmente legata, l’immancabile

scatola di cioccolatini. Infine, all’altra parte del locale, di fianco

all’ingresso e prima del bagno, aveva persino trovato il posto per

un etager con alcune bottiglie di liquore e pochi bicchieri (la zia

non beveva mai però a volte, in presenza di ospiti, non disdegna-

va un dito di genepy o di cherry, del quale era particolarmente

golosa).

Per facilitarla nel trasloco, i nipoti “di passaggio” le prelevavano

uno scatolone per portarlo a Bolzano, magari accettando in dono,

come ricordo, qualche vecchia pubblicazione ormai introvabile,

però dal tema (ahimé!) di solito assai poco appetibile.

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Intanto, la data fatidica si avvicinava e la sofferenza della zia (che

pur cercava di far trapelare nulla) aumentava giorno dopo giorno.

Maria Luisa Scolari (Marisa per tutti, Sisa per chi più l’aveva in

confidenza) era nata a Bolzano Novarese l’11 aprile 1912 in una

famiglia relativamente agiata per i tempi. Nonno Giovanni, suo

padre, aveva portato avanti con successo l’attività di famiglia

(costruzione e riparazione di organi da chiesa / vendita e noleg-

gio di pianoforti), ma era stato anche valido organista (qualche

volta la domenica, quand’ero piccolo, prendeva ancora la barca

ad Orta e raggiungeva l’isola di San Giulio, per suonare

l’imponente organo a canne durante la messa cantata) e aveva

ricoperto importanti cariche pubbliche, prima come podestà e poi

come sindaco. Rimasto vedovo, gli ultimi anni li aveva trascorsi a

Milano; ma, ogni fine settimana, tornava sempre al paese con la

corriera delle cinque e per noi nipoti era una festa corrergli incon-

tro lungo la stradina: lo ricordo alto, elegante, il pizzo bianco sem-

pre ben curato, con l’immancabile copia del Corriere sotto brac-

cio, accanto alla borsa nera di pelle. Oltre a Maria Luisa, i nonni

Giovanni ed Erminia avevano avuto altri quattro figli: Federico

(morto piccolo), Giulio, Franca e Piero, mio padre.

Zia Marisa cominciò a lavorare abbastanza presto, con mansioni

commerciali, alla Bemberg di Gozzano, un’azienda tessile sorta

all’inizio del Novecento, che da subito conquistò una posto domi-

nante nella produzione delle fibre cellulosiche con il metodo del

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cuproammonio. Per buona parte del secolo scorso, in Italia il suo

insediamento principale fu appunto a Gozzano, in provincia di

Novara, a pochi passi dal lago d’Orta che, essendo un bacino

con scarso ricambio delle acque, proprio a causa dei processi di

lavaggio di questa ditta (basati su grandi quantità di rame e di

ammoniaca) rimase per molti anni fortemente inquinato.

Nel 1937, zia Marisa entrò nell’Opera della Regalità e l’anno do-

po la Sorella Maggiore, Armida Barelli, la presentò a Padre Ge-

melli che inizialmente l’assunse come segretaria privata, per poi

metterla alla direzione della segreteria del rettorato, dove rimase

anche con i rettori successivi (Francesco Vito, Ezio Franceschini

e Giuseppe Lazzati) fino al febbraio del 1973 quando fu costretta

ad andare in pensione per raggiunti limiti di età. Ma non lasciò

certo la Cattolica, perché da quel momento continuò a prestare la

sua opera nell’Istituto Toniolo, l’Ente fondatore dell’Università

Cattolica, trasferendo la sua base operativa in uno studio al primo

piano del rettorato, proprio dove padre Gemelli, una volta paraliz-

zato, aveva dovuto trascorrere gli ultimi anni della sua vita.

Zia Marisa aveva formato il suo spirito accanto a padre Gemelli.

Poche, ma estremamente rigorose, le sue regole: pietà semplice

e robusta, dedizione senza risparmio, lavoro intenso finché reg-

gono le forze, libertà motivata da una personalità forte e da

un’incredibile capacità di giudizio e di critica. Padre Gemelli sti-

mava molto queste sue doti e, volendole bene come ad una figlia,

ne apprezzava l’intelligenza e la prudenza.

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Zia Marisa fu sempre al corrente di un’enorme quantità di cose –

delicate, rischiose, drammatiche – tanto che qualcuno ha addirit-

tura sostenuto che sia stata depositaria di autentici segreti legati

all’Università. Indubbiamente, prestò la sua opera (tra l’altro, ac-

canto ad una personalità “ingombrante” e di carattere difficile co-

me padre Gemelli) in periodi difficili della nostra storia; basti pen-

sare agli anni della guerra, alla repubblica di Salò, all’attività clan-

destina, al movimento di liberazione partigiano, alle conseguenti

epurazioni e, qualche anno più tardi, alla contestazione studente-

sca. Dirigendo la segreteria del rettorato, passavano nel suo uffi-

cio persone di ogni tipo: professori, uomini politici, studenti, pro-

fessionisti, sacerdoti ed alti prelati; e lei, pur consapevole dei suoi

limiti culturali e, soprattutto, sempre attenta alla riservatezza im-

posta dal suo ruolo, mai congedava alcuno senza prima averlo a-

scoltato, sostenuto o consolato, spesso anche aiutato material-

mente di tasca sua. Io ho diretta testimonianza del suo modo di

trattare le persone, avendo spesso assistito a qualche scampolo

dei suoi colloqui; ma, soprattutto, sono tante le volte in cui, men-

tre aspettavo che si liberasse dagli impegni per dedicarmi qual-

che minuto, ho ascoltato le sue lunghe telefonate, memorizzan-

done i toni, apprezzando le pause, rimarcando le sue risposte

sempre puntuali e argomentate.

Di zia Marisa e di padre Gemelli assieme, invece, ho solo flebili

ricordi, essendo morto il Padre quando avevo appena otto anni.

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Però non dimentico due momenti particolari: le visite in rettorato e

l’arrivo dell’auto del Padre d’estate, a Bolzano. A volte, la zia ci

conduceva tra le stanze del rettorato (che a me sembravano in-

terminabili) fino al grande studio in fondo, dove ci accoglieva... un

omone enorme dalla voce roca (questa è l’immagine che conser-

vo), che mi metteva una gran paura. Ma poi, presomi sulle ginoc-

chia, insieme alle carezze sapeva infondermi grande tranquillità.

A Bolzano, invece, rettore e segretaria ogni tanto facevano sosta

in estate, diretti ad altre mete (un congresso all’estero, un incon-

tro di studio, chissà). L’auto nera, quasi sempre guidata dal fido

Bricchi, eraH interminabile e tutti i bimbi del paese, una volta ap-

preso del suo arrivo, correvano in Rimembranze per l’evento. E

mentre la zia proponeva al Padre un rapido ristoro, noi sbirciava-

mo tra i vetri di quel mostro metallico che luccicava al sole, con la

disperazione del povero Bricchi che faticava a tenerci a bada.

Quella settimana, non abbiamo potuto incontrarci di martedì ma il

giorno dopo, perché la zia aveva un appuntamento importante

per il quale si era preparata molto bene. E’ stata anche l’unica

volta, credo, in cui non ha potuto proprio darmi retta.

Mercoledì 7 novembre 1990, al termine dei funerali (in una matti-

na di sole, bella e stranamente mite per quel mese di novembre),

un importante professore della Cattolica ricordò zia Marisa in

questo modo: «E’ come se fosse scomparso per sempre un pez-

zo dell’Università». Di certo, non esagerava.

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È INUTILE CHE MI TIRI IL CAPPUCCIO

Marisa Scolari

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Padre Gemelli non era un «agnello» né per natura né per grazia;

ma chi fosse riuscito a superare la sua dura scorza, che per lui

era molte volte una difesa contro una timidezza innata, avrebbe

trovato un cuore di padre attento e comprensivo, di una paternità

sacerdotale profonda e vasta.

E' stata questa la scoperta che io stessa ho fatto al mio primo

incontro con lui ed è così che ho sempre potuto considerarlo e

vederlo durante i lunghi anni in cui, come segretaria e un po' an-

che come infermiera, sono stata con lui. Io iniziai il mio impiego

nella segreteria particolare di padre Gemelli nell'anno 1938,

quando il Padre aveva sessant'anni e stava conseguendo il bre-

vetto di pilota, per meglio studiare la psicologia e l'affaticamento

degli aviatori, brevetto che infatti conseguì nel 1939 passando poi

dal corpo sanitario dell'esercito a quello dell'aeronautica. Era allo-

ra sano e robusto e quando ritornava dall'aeroporto di Bresso,

dopo le esercitazioni di volo fatte nel primo pomeriggio con il pilo-

ta Arturo Ferrarini, si sentivano i suoi passi affrettati che rimbom-

bavano nel chiuso del corridoio, che portava alla segreteria acca-

demica e al rettorato. Tutti si mettevano sull'attenti. Il Padre dava

subito una capatina in segreteria accademica, dove allora stavo

anch'io; si informava come andava il lavoro e poi di solito mi chia-

mava per dettare la corrispondenza.

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Non era facile lavorare con padre Gemelli e fu difficile specie per

me che provenivo da una ditta commerciale e non ero abituata al

suo stile e ai suoi modi. Il Padre dettava con la velocità di un ful-

mine, mangiando in parte le parole e omettendo indirizzi e altre

indicazioni, che pure sarebbero state utili; così che una poveretta

doveva... arrangiarsi!

Mi «arrangiavo» infatti, aiutata anche dai miei colleghi veramente

fraterni; ma quando tornavo da padre Gemelli con la corrispon-

denza eseguita, moltissime volte, senza fare commenti, il Padre

tracciava una grande croce sul foglio e a matita scriveva «rifare».

Rifai una volta, rifai due volte, alla fine a me veniva da piangere;

allora mi sentivo demoralizzata e andavo dietro alle sue spalle

per non farmi vedere.

Stavo lì intanto che padre Gemelli continuava a correggere e a

far rigacce sulle mie povere lettere e, siccome non mi diceva nul-

la, ad un certo punto io gli tiravo il cappuccio del saio; allora si

interrompeva ed esclamava: «E' inutile che mi tiri il cappuccio:

vieni davanti, tanto lo so che piangi!». Così mi smontava.

Certo che con padre Gemelli si lavorava sodo: per dirla con le

sue parole, si «sgobbava».

Ma egli era uno di quei rari uomini che sanno scoprire nei propri

allievi o dipendenti quanto c'è di meglio ed hanno I'arte di saperlo

far affiorare. Sapeva quindi valorizzare ciascuno per quello che

poteva dare.

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Come si sa, il 26 dicembre 1940 padre Gemelli ebbe un incidente

automobilistico che lo lasciò semi-infermo per il resto della sua

vita. Tuttavia, nonostante le gravi conseguenze fisiche che ne

derivarono, egli continuò la sua indefessa attività.

E' incredibile quanto lavoro riuscisse a fare un uomo che era con-

temporaneamente Rettore, Presidente della Pontificia Accademia

delle Scienze, membro di Consigli del Ministero della Pubblica

Istruzione, Direttore di un Istituto di Psicologia (che era uno dei

più famosi in Italia e forse in Europa), Presidente di una casa Edi-

trice, impegnato nel lavoro scientifico, ecc. ecc.

Ma padre Gemelli non era solo un formidabile realizzatore di ope-

re; era anche un ordinatissimo e fedele organizzatore del proprio

lavoro. Aveva infatti diviso l'orario della sua lunga giornata in mo-

do preciso e a questo «schema» si atteneva, oserei dire, con

scrupolosità.

La giornata per lui iniziava alle 5 del mattino con la preghiera, la

meditazione e la celebrazione della Messa. Alla sera, costretto a

coricarsi presto per le condizioni delle sue povere gambe piagate,

appoggiato ad un cumulo di cuscini, faceva passare una infinità

di riviste. Leggeva socchiudendo un occhio e con rapidità; sape-

va però cogliere il nocciolo di ciascuna pubblicazione e segnava

con matita rossa o blu (a seconda del significato che voleva dare)

i passi che interessavano o che voleva segnalare ad alti. Tutto il

giorno era poi rigidamente diviso fra il tempo che trascorreva in

rettorato e quello dedicato al suo lavoro scientifico e didattico che

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svolgeva nell'Istituto di Psicologia, da lui fondato e diretto fino alla

morte.

Di solito, e quando non era in viaggio per i suoi altri impegni, in

mattinata riceveva i collaboratori responsabili dei vari settori, affi-

dava loro le varie pratiche da svolgere e smistava personalmente

la corrispondenza e gli stampati. Quest'ultima operazione era

pittoresca: in piedi, appoggiato ad un tavolo a muro nel suo uffi-

cio, il Padre divideva le pile di «stampati» (libri e riviste), che ogni

giorno venivano lì depositate: vi dava una breve scorsa e poi li

gettava a terra nei quattro punti cardinali, ciascuno dei quali corri-

spondeva ad un particolare settore di destinazione. Era poi com-

pito del «ragazzo» (il giovanissimo usciere del rettorato, al quale

il Padre dava volentieri del «merlo», per la sua imbarazzata pre-

mura...) raccogliere i vari gruppi da terra e portarli alla ben defini-

ta destinazione.

Ogni giorno trovava anche il tempo per «ricevere», ossia per ac-

cogliere chiunque avesse chiesto di parlare con lui ed erano qua-

si sempre persone in cerca di consiglio o aiuto e non solo morale,

o spirituale. Aveva costituito una «cassa» per aiutare i poveri,

nella quale faceva confluire il denaro che, tratto tratto, gli veniva

offerto e le somme a lui dovute per i «diritti d'autore» sulle sue

pubblicazioni.

Quanta gente ho visto bussare alla porta del rettorato! Di ogni

ceto e categoria, oltre, naturalmente, a studenti, per i quali nutriva

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una vera paternità spirituale, e professori. Spesso il Padre bor-

bottava: «vengono e pretendono I'impossibile». Ma poi faceva

veramente I'impossibile per chiunque avesse avuto bisogno di lui.

Certe categorie di persone avevano su di lui, oserei dire, una par-

ticolare attrazione: i matti, per esempio, e i carcerati, con alcuni

dei quali intratteneva costante corrispondenza. Delle strane paz-

zie di certa gente non rideva mai: dimostrava invece una grande

pazienza ed aveva per questi poveretti tratti di squisita delica-

tezza.

Ricordo un signore svizzero che andava spesso dal Padre. Una

volta, quando uscì, padre Gemelli mi chiamò e vidi che aveva

sulla scrivania una fila di cassettine, piene di sabbia e legate con

delle fettucce bianche. «Sai quel signore è convinto di aver fatto

una scoperta di forze misteriose, racchiuse in queste cassettine

ed è venuto a darmene spiegazione. E' matto». Io presi quelle

cassette; ma padre Gemelli mi fermò e mi disse: «Non gettarle

perché, se quel signore tornasse, gli farà piacere di vedere che

ho conservato la sua importante invenzione». Quando padre Ge-

melli morì, le scatolette stavano ancora sullo scaffale davanti alla

sua scrivania! E solo allora le gettai.

Aveva un modo molto caratteristico di trattare con i dipendenti,

specie quando si trattava dei più umili; sapeva metterli a loro agio

e dare ad essi importanza. C'era allora un giardiniere che non

sapeva neppure parlare l’italiano. Padre Gemelli alla sera usciva

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in giardino, attiguo al rettorato, dove quest'uomo lavorava e chia-

mandolo vicino a sé si informava di tutte le coltivazioni dei fiori;

parlava con lui in dialetto ascoltandone i consigli, così che il po-

vero uomo si sentiva, in quei momenti, la persona più importante

dell’Università.

Questa sua semplicità nel trattare con i suoi collaboratori non gli

impediva di avere con essi una estrema schiettezza, che a volte

a me faceva tremare le vene e i polsi, quando gli ero vicina. Capi-

tava, per esempio, che l'allora direttore di Vita e Pensiero, uomo

buonissimo e bravissimo, ma un po' lento, fosse chiamato dal

Padre «tripè » (tre piedi). Il Padre, una volta, si mise ad urlare:

«Ma dov'è quel tripè?» e il povero uomo, che stava sulla porta in

attesa ossequiosa, gli rispose prontamente: «Sono qui Padre»; il

Padre, come se niente fosse, soggiunse: «Ah è lì, venga avanti».

Diceva apertamente ciò che pensava, senza troppi riguardi.

Una volta che si recarono da lui le studentesse del Marianum,

alla fine di un anno accademico, stanche per la preparazione agli

esami ed anche un po’ spaventate all'idea di presentarsi al Ma-

gnifico Rettore, padre Gemelli, dopo averle fissate un momento,

esclamò: «Quanto siete brutte!». Ma, alla battuta, fece subito se-

guito l'interessamento del Padre per gli studi e la salute di ciascu-

na di esse.

Vorrei dare ora qualche tratto della figura complessa di padre

Gemelli e di ciò che forse di lui è meno conosciuto.

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Mi sembra di poter dire che se padre Gemelli non era un poeta

nel senso vero della parola, aveva però un animo delicato e cer-

tamente poetico. Basti ricordare certi passi dei suoi volumi Il

Francescanesimo, San Francesco e la sua gente poverella, ecc.

Padre Gemelli doveva spesso recarsi a Roma ed era costretto ad

andarci in automobile per le sue condizioni di salute ed io lo ac-

compagnavo. Attraversavamo i valichi appenninici dato che in

quel tempo non esistevano le autostrade. Erano viaggi faticosi,

compiuti in qualunque stagione, con il caldo soffocante dell’estate

ed il gelo e la neve dell'inverno; ma, in primavera, con i boschi e i

prati che cominciavano a rinverdire, spesse volte padre Gemelli

faceva fermare l'autista e mi diceva: «Vai giù; hai visto quei fiori

in mezzo al prato?». Io dovevo scendere, raccoglierne uno e por-

targlielo. Allora lui lo guardava con commozione e compiacenza;

lo teneva con delicatezza tra le sue grosse mani e mi diceva:

«Che belle cose sa fare Iddio».

Godeva veramente dello spettacolo della natura e ne coglieva le

sfumature, anche le più recondite.

Amava moltissimo anche la pittura. Quando d'estate si prendeva

una breve vacanza, soleva andare in Svizzera. Non erano vacan-

ze divertenti perché le trascorreva passando da una clinica all'al-

tra per apprendere le ultime scoperte in fatto di medicina e chirur-

gia (sempre in vista della sognata Facoltà di Medicina). Tuttavia

non appena poteva, e sapeva che c'era in luogo una mostra di

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pittura, non mancava di andarci e la visitava con vero e compe-

tente interesse.

Era stonato come una campana fessa; ma conosceva la musica

e l'amava con sentimento profondo; aveva una particolare predi-

lezione per la musica classica. Qualche volta, quando non riusci-

va a dormire, ascoltava dai dischi le opere di Wagner o di altri

famosi compositori.

Posso attestare che padre Gemelli era francescano fin dentro al

midollo e avrebbe voluto, se fosse stato in suo potere, morire in

convento.

Quando non stava bene mi diceva: «Mi devi promettere che mi

farai trasportare in convento, io voglio morire fra i miei Confratel-

li». Quando padre Gemelli fu in punto di morte, io tentai veramen-

te con tutte le mie forze di mantenere la promessa; ma mi fu ri-

sposto che la coscienza professionale impediva ai medici il tra-

sporto, per le condizioni in cui si trovava il malato. Fu così che

padre Gemelli morì in clinica. Ma il convento e i suoi frati padre

Gemelli amava in modo profondo. Il suo desiderio vivo sarebbe

stato di ritirarsi in un conventino di montagna a pregare e a vivere

in solitudine: una nostalgia che lo accompagnò fino alla tomba.

Chi, come me, ha vissuto per molti anni accanto ad un uomo

grande e buono come padre Gemelli, non può ricordarlo che co-

sì: con l'ampio sorriso che gli illuminava gli occhi e il viso, quando

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si incontrava con gli amici: lo sguardo penetrante e dolce al tem-

po stesso.

Lo penso ancora in mezzo a noi a proteggere le sue opere ed a

benedire, con quella grande mano, che sapeva essere forte e

ferma; ma anche delicata come il velluto, quando coglieva un

fiore, o maneggiava un complicato strumento scientifico.

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SENTIMENTI PIU’ NOBILI DELLA RAGION DI STATO

Mario Capanna — Presidente Fondazione Diritti Genetici

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Minuta, discreta, instancabile, attenta a ogni particolare, e capace di

cogliere, in tutte le situazioni, il quadro d’insieme: così ricordo Marisa

Scolari.

Era la memoria vivente della storia dell’Università Cattolica. Peccato

che non abbia scritto un’autobiografia: sarebbe stata preziosa. Ombra –

operosa – del Rettore Franceschini, che credo la considerasse fra i suoi

consiglieri più affidabili.

Sono convinto che, se l’avesse ascoltata fino in fondo, forse non avreb-

be espulso dall’Ateneo Luciano Pero, Michelangelo Spada e me, nel

gennaio 1968, e molti altri dopo.

Entrai in qualche confidenza con la sig.na Marisa per… ragioni

d’ufficio… A partire dalla prima, storica occupazione (17 novembre

1967), lei era il tramite per i colloqui (tesi, ma non burrascosi) con il

prof. Ezio Franceschini. Sì, perché noi ricercavamo caparbiamente il

dialogo, e lei sentiva che in questo eravamo del tutto sinceri.

Mentre le vicende tendevano a diventare tumultuose, si stabilì fra noi un

rapporto di simpatia umana: avvertivo in lei una comprensione vera

delle ragioni della nostra lotta (che non era necessariamente condivisio-

ne) e percepivo che quella donna, che pure doveva schierarsi con il pro-

prio “capo”, coglieva che combattevo con limpida convinzione: non

per sfasciare l’Università, ma per spingerla avanti nel segno della

democrazia.

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Ho la prova che non fu felice del mio allontanamento forzato.

Una manciata di settimane dopo l’espulsione – ero in condizioni diffici-

li, perso il collegio Augustinianum non avevo più un tetto – mi raggiun-

se uno studente, latore di una busta “da parte della Scolari”. Dentro

c’era una (significativa per i tempi) piccola somma di denaro.

Superato lo stupore, le telefonai. Fu straordinariamente affettuosa e gen-

tile. Ma dovetti sudare sette camicie per poter sapere che la somma pro-

veniva dai suoi risparmi e da quelli del Rettore Franceschini.

Una donna e un uomo così sono oggi difficili da trovare. Non potrò mai

dimenticare quel gesto.

Anche perché dimostra che, per fortuna, i sentimenti del cuore e della

mente sono a volte molto più nobili delle ragioni di stato.

Nel 2008, nel quarantennale del Sessantotto, ho scritto una lettera al

Rettore, in cui chiedevo che l’Università Cattolica porgesse scuse for-

mali e pubbliche per le ingiuste espulsioni di allora. Ma egli non mi ha

degnato di un cenno di risposta. Un silenzio – mi piace pensare – che la

sig.na Marisa Scolari non avrebbe condiviso.

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Bolzano Novarese — Borghetto (lago d’Orta)

mercoledì 8 dicembre 2010

[email protected]

338.7440206

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