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Dispense di Laboratorio – Chimica Fisica II, A.A. 2012-2013 Pagina 1 di 64 Università degli studi di Padova Dipartimento di Scienze Chimiche Corso di Laurea Triennale in Chimica Chimica Fisica II Dispense di LABORATORIO (Anno Accademico 2012-2013) A cura di: dott. Christian Durante dott. Lorenzo Franco

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Università degli studi di Padova

Dipartimento di Scienze Chimiche

Corso di Laurea Triennale in Chimica

Chimica Fisica II

Dispense di LABORATORIO

(Anno Accademico 2012-2013)

A cura di:

dott. Christian Durante

dott. Lorenzo Franco

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Sommario

Università degli studi di Padova .................................................................................................................... 1

Introduzione alla Teoria degli Errori .................................................................................................................. 3

Determinazione del coefficiente di Joule-Thomson di un gas ........................................................................ 24

Determinazione della capacità termica di miscele liquide .............................................................................. 28

Determinazione della conduttività molare limite di un elettrolita forte ........................................................ 33

Determinazione dei ∆G, ∆H e ∆S di pile .......................................................................................................... 44

Appendice A: cenni alla strumentazione in uso nelle esperienze ................................................................... 56

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Introduzione alla Teoria degli Errori

La misura diretta di una grandezza fisica avviene attraverso il confronto con un’altra grandezza definita

arbitrariamente come campione. Così una grandezza fisica risulta caratterizzata dalla sua dimensione

(lunghezza, tempo, massa, etc.) e dalla sua misura associata alla relativa unità (per es. 3 metri). La misura

indiretta di una grandezza fisica avviene quando questa è legata attraverso delle relazioni matematiche ad

altre grandezze fisiche per esempio, volendo misurare la velocità media di un corpo ed essendo questa

definita come

= ΔΔ

allora, dalla conoscenza dello spazio Δs percorso nell’intervallo Δt si deduce eseguendo semplicemente

il rapporto delle misure di Δs e Δt.

L’esecuzione della misura avviene utilizzando opportuni strumenti che essendo degli oggetti reali

permettono di conoscere il valore della grandezza misurata con una certa indeterminazione. Ogni

strumento è in grado di fornire delle misure di una grandezza partendo da un valore minimo detto soglia e

fino ad un valore massimo che ne è la portata. L’ampiezza di questo intervallo dipende dalle sue

caratteristiche costruttive e queste sono pure responsabili del fatto che al di fuori di questi limiti la risposta

dello strumento è in genere alterata, cosicché la corrispondenza tra questa e la grandezza da misurare non

offre più sufficienti garanzie di riproducibilità. Si definisce pertanto sensibilità di uno strumento il minimo

valore della grandezza che si vuole misurare ancora apprezzabile dallo strumento e l’indeterminazione che

ne segue nella misura della grandezza è detto errore di sensibilità.

Ne segue che il valore “vero” di una grandezza risulta comunque una entità che non è possibile

conoscere: il risultato è perciò sempre un numero che approssima il valore “vero” della grandezza misurata

cioè la misura è affetta da errori che si manifestano quando la loro ampiezza supera l’errore di sensibilità

dello strumento. Una misura non è, in conclusione, mai esatta.

Tipi di errore

Errori sistematici: comportano incertezze sempre nello stesso senso (eccesso o difetto); se per es.

utilizziamo una bilancia per determinare la massa di un corpo e questa ha un braccio leggermente più lungo

dell’altro, ponendo la massa incognita sul piatto sospeso al braccio più lungo, i risultati che si ottengono

sono sempre in eccesso rispetto al valore vero. Oppure, se utilizzo un regolo in alluminio, questo è soggetto

ad espansione o contrazione termica in relazione alla temperatura a cui effetto una serie di misure. Così se

eseguiamo delle misure di lunghezza con il regolo alla temperatura di 0°C e 50°C, i valori letti saranno

sistematicamente in eccesso ed in difetto rispettivamente in quanto al diminuire della temperatura il regolo

si contrae mentre ad elevate temperature si dilata.

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Gli errori sistematici si riducono utilizzando uno strumento di misura opportunamente tarato e

utilizzandolo nelle opportune condizioni ambientali. Da questi esempi come da numerosi altri, si deduce

che gli errori sistematici possono essere causati principalmente da

• difetti costruttivi (bilancia),

• difetti di taratura,

• non corretto uso degli strumenti condotto in condizioni non previste (regolo),

La misura ripetuta nelle medesime condizioni sperimentali non elimina la presenza di questo tipo di errore

Spesso non è quindi possibile evidenziare questi errori se non con operando con strumenti diversi, meglio

tarati e nelle condizioni ottimali di utilizzo. D’altra parte pur non potendosi eliminare del tutto,

l’individuazione delle possibili cause permette di ridurre sostanzialmente il loro peso, e questo è molto

soggettivo in quanto dipende dalla preparazione teorica e pratica dello sperimentatore, dalla sua abilità e

dal suo intuito.

Errori accidentali: sono di tipo casuale, quindi agiscono in entrambe le direzioni fornendo valori in eccesso

o in difetto rispetto al valore vero. A differenza dei precedenti possono venire scoperti e ridotti ripetendo

più volte la misura.

Le cause principali possono ricercarsi nel variare incontrollato di alcune condizioni sperimentali come la

temperatura, pressione, umidità, corrente, tensione oppure per la presenza di disturbi originati sia dagli

strumenti di misura che da fattori esterni all’esperimento quali vibrazioni, campi elettrici e magnetici,

polvere, etc. Altre volte l’errore è introdotto dall’operatore, che talvolta è parte dell’apparato per es.

azionamento manuale di un cronometro, stima della posizione in parallasse di un indice all’interno della più

piccola divisione dello strumento di una bilancia analitica, valutazione del menisco nel portare a volume un

matraccio, etc.

Risulta chiaro quindi che la misura di una grandezza fisica X non fornisce quindi un valore numerico,

bensì un intervallo, detto di confidenza, esprimibile come:

= + + unità di misura (ad esempio: V = 56.4 ± 0.1 ml) (Eq. 1)

dove: rappresenta la migliore stima della grandezza X; rappresenta l’incertezza stimata di (| | > 0).

Tale incertezza definisce normalmente l’intervallo in cui il valore “vero” si trova con buona probabilità e

non con certezza assoluta. L’incertezza dipende, in generale, sia da fattori sistematici che casuali, per cui

sarà ottenibile, essendo i due tipi di errori indipendenti, come combinazione statistica di un e di un secondo la relazione:

= + (Eq. 2)

Tuttavia, tranne rare eccezioni la componente sistematica dell’errore è trascurabile rispetto a quella

accidentale

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Si definisce quindi:

• Incertezza assoluta (errore assoluto): = ∆

• Incertezza relativa (errore relativo): ∆|| (adimensionale)

• Incertezza relativa percentuale: !"" ∙ ∆|| (adimensionale)

• Accuratezza: è un indice dell’incertezza globale della misura; più piccola è l’incertezza relativa, più

accurata è la misura. L’elevata accuratezza implica quindi piccoli errori sia sistematici che

accidentali. Non deve essere confusa con la precisione, anche se spesso i due termini vengono usati

come sinonimi.

• Precisione: è un indice legato alla riproducibilità della misura. Una misura è molto precisa quando i

risultati che si ottengono ripetendola più volte sono molto vicini tra loro, e quindi al valore medio;

questo implica che gli errori casuali siano di piccola entità. La precisione è legata alla deviazione

standard (vedi oltre), e risulta elevata se quest’ultima è bassa.

Si può dire, che una misura molto accurata è necessariamente molto precisa, mentre una misura molto

precisa può essere poco accurata per effetto di elevati errori sistematici.

Cifre significative

Una volta condotte le misure, è necessario riportare con il corretto numero di cifre complessive, dette cifre

significative, sia la migliore stima di $ che la relativa incertezza ∆ . Poiché ∆ rappresenta una stima

dell’incertezza, si usa riportare:

• per l’incertezza ∆ solamente una cifra significativa se la prima cifra diversa da zero è ≥ 3, con

possibilità di riportare due cifre significative negli altri casi.

• per la migliore stima le cifre corrispondenti a quella/e di ∆.

È importante ricordarsi di arrotondare i valori determinati in base al numero di cifre significative ed è

opportuno usare la stessa potenza di 10 per e ∆. Se le migliori stime devono essere utilizzate in

successivi calcoli, è necessario impiegare più cifre di quelle significative (almeno una in più) per evitare

errori di arrotondamento, ed arrotondare poi il risultato finale in base al relativo errore, calcolato mediante

propagazione.

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Esempi: non corretto corretto

27.6±3 28±3 27.62±3.3 28±3 84.682±1.04 84.7 ±1.0 32.476 ±0.037 32.48±0.04 48.123 ±0.18 48.12 ±0.18 268.4±24 268±24 0.07864±0.00253 0.0786 ±0.0025 o meglio (7.86 ± 0.25)·10-2

Determinazioni singole e ripetute

Allo scopo di determinare il valore dell’incertezza più significativa per la grandezza in esame è opportuno

effettuare più determinazioni sperimentali, e poi definire l’intervallo ± ∆effettuando una corretta

analisi dei dati ottenuti. Se il numero di determinazioni è sufficientemente elevato, questa analisi è

essenzialmente basata su considerazioni di tipo statistico; se, al contrario, è possibile effettuare una sola

misurazione (come ad esempio nella determinazione, in tempi successivi, della concentrazione di una

specie chimica durante il decorso di una reazione), la determinazione dell’incertezza risulta alquanto

delicata e finisce spesso col basarsi solamente sul valore della sensibilità dello strumento utilizzato, con la

conseguente possibilità di ottenere un valore sottostimato.

Deve essere chiaro che ogni qual volta l’errore di sensibilità è maggiore delle fluttuazioni dovute agli errori

casuali (bilancia poco sensibile, scala di un multimetro non adeguata) eventuali informazioni di tipo

statistico vengono mascherate dall’apparato. L’incertezza caratteristica dello strumento utilizzato tipo una

bilancia o un multimetro non può essere eliminata ripetendo più volte la misura; per ridurla è necessario

usare una bilancia o un multimetro con una precisione maggiore nella scala adatta alla determinazione

della massa o resistenza in questione. Ad esempio i normali conduttimetri hanno in genere sensibilità di 1

µΩ, ma ciò non significa che l’incertezza che si commette nella misura della conducibilità sia di tale entità,

indipendentemente dalla grandezza della conducibilità letta. A volte, infatti, l’incertezza che accompagna la

determinazione dipende dalla scala scelta, ed in tal caso il costruttore riporta la precisione delle varie scale,

espressa in percentuale. Ad esempio, se si misura una conducibilità di 1.2368 Ω e nella scala utilizzata la

precisione è ± 0.1%, si deve scrivere & = 1.2368 ± 0.0012 Ω, mentre se la precisione è ± 1% si deve scrivere

& = 1.237 ± 0.012 Ω, avendo calcolato le incertezze come 0.1 e 1% della conducibilità misurata,

rispettivamente, ed avendo opportunamente arrotondato le incertezze stesse e, di conseguenza, la

migliore stima della conducibilità misurata. In questo caso, l’incertezza che accompagna la singola

determinazione della conducibilità si basa quindi non sul valore della sensibilità del conduttimetro, che

risente comunque di una variazione della conducibilità di 1 µΩ, in qualunque scala utilizzata, ma su quello

della precisione data dal costruttore.

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D’altro canto, ripetendo più volte la misura dello stesso campione si possono ritrovare, come spesso

accade, valori leggermente diversi per effetto di cause di tipo accidentale, legate ad esempio alla non

perfetta termostatazione e rimescolamento del campione, ecc.. Se le differenze tra i valori trovati risultano

piccole rispetto all’incertezza calcolata sulla base della precisione della scala utilizzata, allora le oscillazioni

osservate sono in pratica prive di significato, in quanto tutti i valori numerici, opportunamente arrotondati,

risultano coincidenti; in questo caso non ha quindi senso ripetere più volte la misura. Se, al contrario, tali

oscillazioni risultano maggiori dell’incertezza calcolata sopra, è necessario tenerne conto sulla base di

opportune considerazioni di tipo statistico, ed è quindi utile ripetere più volte la determinazione della

conducibilità se si vuole ridurre il valore dell’incertezza.

Nel caso della pesata di un campione si deve inoltre osservare che nella definizione della quantità di

sostanza pesata possono entrare in gioco anche altri fattori, come ad esempio il grado di purezza della

sostanza stessa; se nel flacone che la contiene è indicata una purezza compresa tra il 90 ed il 96%, non ha

senso ripetere più volte la misura per avere molte cifre significative, in quanto si può al massimo ritenere

che la quantità di sostanza che interessa è il 93 ± 3% della massa pesata. Al contrario di quanto può essere

effettuato nella determinazione di una massa mediante pesata, la determinazione del volume di una

soluzione preparata in un matraccio è unica, per cui non possono essere fatte considerazioni di tipo

statistico; in questo caso vanno opportunamente vagliate tutte le possibili fonti di imprecisione, sia di tipo

sistematico che accidentale. Normalmente la vetreria tarata riporta il valore della tolleranza in base anche

al tipo di classe, che in pratica ne esprime il grado di taratura, e che può essere interpretata come la più

piccola imprecisione che accompagna il valore del volume della vetreria stessa. Ad esempio, il volume di un

matraccio che riporta la dicitura 50 ml a 20°C, tolleranza 0.05 ml, può essere considerato come V = 50.00 ±

0.05 ml. L’incertezza globale del volume dipende però anche da altre cause, quali la mancata

termostatazione del matraccio e della soluzione alla temperatura indicata, e l’errore di lettura che si

commette quando si porta a volume.

In altri casi la ripetizione di una misura è indispensabile affinché il dato finale sia ottenuto sulla base

di opportune considerazioni di tipo statistico

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Distribuzione gaussiana o normale delle misure

Se si dispone di uno strumento con sensibilità sufficientemente elevata in modo da poter evidenziare le

oscillazioni delle misure dovute a cause accidentali, possiamo effettuare un numero elevato N di misure

sperimentali di una grandezza $, che risulteranno distribuite in un intervallo più o meno ampio. Per N

sufficientemente elevato molti valori (la maggior parte) verranno letti più volte.

Riportando in grafico i valori ottenuti in ascissa e, in ordinata, la frequenza con cui un dato valore si

presenta, si ottiene un istogramma con andamento a massimo centrato nell’intorno di un certo valore.

Maggiore è il numero di acquisizione e più preciso sarà la definizione del massimo. II massimo valore della

curva sull’asse delle ordinate ci dà un’idea della precisione, rappresentando il numero di misure con scarto

nullo rispetto alla media. Il diagramma così ottenuto assume una distribuzione di tipo Gaussiano (Fig.3)

caratterizzato da:

• gli scarti per eccesso o difetto hanno la stessa frequenza, quindi la curva è simmetrica;

• la curva tende asintoticamente a zero su entrambi i lati, esisterà quindi un limite per gli scarti;

• gli scarti più piccoli sono più frequenti di quelli grandi;

• per N∞ tale andamento è descrivibile statisticamente mediante la relazione di Gauss:

' = ( )*√,- ./ 0− 234*4 5 (Eq. 3)

dove:

• rappresenta il centro della Gaussiana;

• σ è la confidenza ed e legata all’ampiezza della curva;

• f(x) rappresenta la probabilità (normalizzata) di rilevare una misura nell’intervallo compreso tra x e

x + dx, ed è massima in corrispondenza di , che rappresenta la migliore stima di X.

Le probabilità di rilevare una misura all’interno ed all’esterno dell’intervallo − 67 ÷ + 67 mediante

opportuna integrazione della funzione sono riportate nella tabella:

r Pinterna (%) Pesterna (%) 0.674 50 50 1 68 32 2 95.4 4.6 3 99.7 0.3 4 99.99 002

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L’intervallo di confidenza a cui si fa normalmente riferimento è quello con il 68% di probabilità, definito

dalla relazione $ = ± 7; negli intervalli ± 27 e ± 37 tale probabilità sale, rispettivamente, al 95.4

e 99.7%. Nasce quindi il problema di come determinare e 7 sulla base delle misure sperimentali.

Figura 3

La teoria statistica dimostra che date N misure sperimentali ), , <, . . . , >, • la miglior stima di $, cioè è pari al valore medio delle

= = ∑ @A@BC> (Eq. 4)

la media di più misure ha un errore inferiore a quello delle misure stesse, che diminuisce all’aumentare di D e dipende sempre dalla precisione dello strumento impiegato.

• la migliore stima di σ è σ, nota come deviazione standard (incertezza media delle singole misure,

scarto quadratico medio) e definisce un intervallo di confidenza per la misura e non l'incertezza

media della distribuzione.

7 = ∑ @2E4A@BC>2) (Eq. 5)

La differenza − è detta residuo o scarto e indica quanto l’i-esima misura () è lontana dalla media

(). La media dei residui è sempre nulla. Per eliminare questo inconveniente si elevano al quadrato le

deviazioni e poi si mediano. Nell’intervallo di confidenza con il 68% di probabilità $ verrà espresso come:

$ = ± 7 (Eq. 6)

La deviazione standard 7 è un indice di dispersione delle misure sperimentali intorno al valore atteso. È

importante osservare che l’incertezza espressa dalla 7 diminuisce all’aumentare di N, in quanto dipende

solamente dalla presenza di errori casuali; non si deve tuttavia dimenticare che l’incertezza complessiva è

legata, come già detto, alla precisione dello strumento impiegato.

• l’errore della media rappresenta l’incertezza da associare al valore medio determinato ed è dato

dalla deviazione standard diviso la radice quadrata del numero delle misure:

E = *F√> (Eq. 7)

l’errore della media non deve essere confuso con la deviazione standard, quindi il risultato della serie di

misure deve essere espresso nella forma:

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$ = ± E (Eq. 8)

Media pesata

Le considerazioni fin qui fatte si basano sul fatto che ogni misura sia gravata dallo stesso errore e

quindi ogni misura contribuisce con lo stesso peso alla definizione del valore medio, e ciò è corretto se

come normalmente accade si effettuano più misure con lo stesso strumento. Al contrario, se questi dati

sono soggetti a incertezze differenti ( C, 4, G……. A), è corretto effettuare una media “pesata” o

“ponderale”; ciò può avere significato, in particolare, quando ciascun valore è stato ottenuto a sua volta

da un insieme di determinazioni. La media “pesata” è espressa dalla relazione:

= ∑ H@@A@BC∑ H@A@BC (Eq. 9)

Dove I = )*@4 è il peso di ogni singola , mentre l’errore che si assegna alla si ottiene applicando le

formule della propagazione degli errori calcolabile mediante la relazione:

7E = )J∑H@ (Eq. 10)

Eliminazione di alcuni dati utilizzati nel calcolo della media

Un valore utilizzato nel calcolo della media può essere scartato se sufficientemente lontano dal valore

medio trovato, tenendo conto del significato statistico delle misure. Ad esempio, la probabilità di trovare

un valore sperimentale al di fuori dell’intervallo ± 27 è di circa il 5%, e scende allo 0.3% se si considera

l’intervallo ± 37. Ciò significa che con 100 punti sperimentali è probabile che circa 5 punti cadano al di

fuori del primo intervallo, e che nessuno si trovi al di fuori del secondo; con 10-20 punti ci si attende al

massimo un punto nell’intervallo più stretto. Questo permette di scartare quindi, nelle normali condizioni

operative, i punti per i quali | − | > 27L37; una volta scartati questi punti è necessario,

ovviamente, ricalcolare i valori di e di 7 .

Determinazione del valore medio con pochi dati sperimentali

Le relazioni sopra riportate sono di tipo statistico e risultano quindi valide se applicate ad un numero

sufficientemente elevato di dati sperimentali; si può ritenere corretto applicarle quando si hanno a

disposizione almeno una decina di punti sperimentali. In caso contrario, si considera sempre come migliore

stima di $ il valore medio, ma per quanto riguarda l’incertezza ci si deve accontentare di stime più

grossolane, e quindi più elevate rispetto all’errore definito in base alla deviazione standard. In quest’ultimo

caso normalmente si considerano come incertezze:

• per N ≤ 3 la semidispersione massima, definita come

EMF2E@N

(Eq. 11)

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• per 3 < N < 10 l’errore medio, definito come

∑ |@2E|A@BC > (Eq. 12)

Diagramma riassuntivo

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Propagazione degli errori

Fino ad ora abbiamo visto come determinare l’errore di una grandezza misurata direttamente. Spesso però

capita che il valore della grandezza che si vuole determinare non è misurabile, ma deve essere ricavato a

partire da misure di altre grandezze ad essa correlate. Ad esempio, se volessi determinare l’errore sulla

concentrazione espressa dalla formula:

& = OP

Noto l’errore sulla massa di soluto pesato e l’errore Q sul volume di soluzione, come si ricava l’errore

sulla concentrazione R . La relazione che lega le tre variabili c, m e V, è una relazione di tipo funzionale (la

grandezza concentrazione è espressa in funzione delle altre due): S = 'O, P. Generalizziamo e

consideriamo una generica funzione f di N variabili ), , <, …..> : T = '), , <, … . . >. Noti gli

errori @ sulle singole variabili, come si ricava l’errore su T?

Se supponiamo che per ognuna delle grandezze $ sia nota la migliore stima e la relativa incertezza @ $ = ± @

La teoria dimostra che la migliore stima (T) della grandezza V è il valore da essa assunto in corrispondenza

delle migliori stime delle grandezze $. L’incertezza della V è legata al modo in cui le singole incertezze delle

$ si combinano, sommandosi o sottraendosi. Secondo la teoria della propagazione degli errori, applicabile

se le incertezze delle $ sono percentualmente piccole (l’errore relativo W @W/ è al massimo pari a

qualche unità percentuale), si possono considerare due situazioni limite Si presentano situazioni diverse a

seconda che l’errore sulle grandezze misurate siano massimi o statistici :

1. Se le incertezze @sono tutte indipendenti tra loro (errori statistici), per stimare l’incertezza della V

si utilizza la seguente relazione:

Y = ( Z[ZC- C +( Z[Z4-

4 …… .+ ( Z[ZA-

A (Eq. 13)

Che nella forma generale diventa

Y = ∑ (Z[Z@- @>\) (Eq. 14)

Nel caso particolare di una funzione ad una sola variabile la formula si semplifica in

Y = ]Z[Z] (Eq. 15)

Tale metodo di determinazione detto metodo di propagazione in quadratura va applicato, come detto,

quando le incertezze relative alle grandezze $ sono casuali (cordella metrica tarata e sufficientemente

sensibile) e quindi possono sia sommarsi che parzialmente compensarsi.

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Esempio 1

Si consideri il triangolo in figura. Ricavare l’area ed il suo errore

^ =_ ∙ `2 = 2.2 ∙ 5.12 = 5.61

Se determino le derivate parziali delle singole variabili ottengo:

de'e_fg = 2;de'e`fi = _2

Che inserite nella formula di propagazione in quadratura

j = kd2f i +d_2f g

Che risolta permette di ottenere:

j = kd2.22 f 0.2 +d5.12 f 0.1 = 0.3

Quindi il valore dell’area del triangolo opportunamente arrotondata ed il suo errore saranno ^ = 5.6 ± 0.3

Esempio 2

Il calcolo dell’errore sulla concentrazione può essere determinato conoscendo sulla massa di soluto pesato e l’errore m sul volume di soluzione.

Supponiamo di avere O = 1.05 ± 0.01n e P = 15.8 ± 0.1Op

& = OP = 6.6455 ∙ 102

Se determino le derivate parziali delle singole invariabili ottengo:

de'eOfm = 1P;de'ePf = − OP

Che inserite nella formula di propagazione in quadratura

j = kd1Pf +(− OP- m

Che risolta permette di ottenere:

j = kd 115.8f 0.01 +d 1.05249.64f 0.1 = 7 ∙ 102t

Quindi il valore della concentrazione opportunamente arrotondata ed il suo errore saranno ^ = 6.64 ∙ 102 ± 0.07 ∙ 102

Se, al contrario, ci sono motivi per ritenere che le incertezze @ possano prevalentemente sommarsi (ad

esempio se gli errori stimati sulle grandezze sono per la maggior parte di tipo sistematico piuttosto che

casuale, bassa sensibilità e/o non buona taratura della cordella metrica utilizzata) e quindi più che con

errori statistici ho a che fare con un errore massimo ∆, allora è più corretto considerare come incertezza

della Y l’errore limite propagato, definito come:

∆T = ] Z[ZC] ∆) + ] Z[Z4] ∆ +⋯… . . + ] Z[ZA] ∆> (Eq. 16)

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Che nella forma generale diventa

∆T = ∑ ]Z[Z@] ∆>\) (Eq. 17)

Notiamo la presenza delle derivate in valore assoluto. Nel caso di funzioni di più variabili, il valore assoluto

assicura che non vi siano parziali cancellazione degli errori qualora le derivate abbiano segno alcune

positivo, altre negativo. Inoltre, i valori assoluti ci assicurano che la propagazione dell’errore avvenga nel

modo più pessimista possibile, in ossequio al fatto che stiamo qui trattando il caso di propagazione di errori

massimi. Tale valore risulta ovviamente maggiore di quello definito al punto 1 (o al massimo uguale ad

esso).

Esempio

Data la funzione

T = ) − Eseguendo le derivate parziali e applicando la formula di propagazione degli errori massimi vista in precedenza ( con i valori assoluti!) si ha: e'e) = 1; e'e = −1

Inserite nella formula di propagazione dell’errore assoluto ottengo

∆T = |1| ∙ ∆) + |−1| ∙ ∆

Cioè

∆T = ∆) + ∆

Qualora si combinino tra loro incertezze derivanti da poche misure, per cui l’incertezza è valutata come

semidispersione massima o relative a valori tabulati per i quali l’incertezza venga valutata solamente sulla

base del numero di cifre riportate (tipo valori di densità, prodotto di solubilità, etc.) è opportuno calcolare

l’incertezza della V come errore limite. Nel caso in cui alcune delle grandezze $ siano accompagnate da

incertezze di carattere statistico e le altre no, in tali casi la formula da utilizzare è quella degli errori massimi

(propagazione limite) dove però gli errori di origine statistica sono stati opportunamente trasformati in

errori massimi. Poichè la probabilità che un valore della grandezza cada all’esterno di un intervallo

centrato sul valore medio e di semiampiezza pari a 37 è trascurabile, si può identificare questo valore

come l’errore massimo v cioè

v = 37

Dalle formule di propagazione in quadratura e limite si ricavano le formule semplificate della

propagazione degli errori per operazioni elementari:

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Funzione Propagazione limite Propagazione in quadratura

V = $) + $ ΔT ≈ Δ) + Δ Y ≈ C + 4 V = $) + $ ΔT ≈ Δ) + Δ Y ≈ C + 4 V = $)$

ΔT|T| = Δ)|)| + Δ|| T|T| = kd )) f + d f

V = $)$ ΔT|T| = Δ)|)| + Δ|| T|T| = kd )) f + d f

V = x$)

Dove B è un numero esatto ΔT = |x|Δ) Y = |x| C

Formule di propagazione per funzioni a variabili elevate a potenza:

V = x$y (Eq. 18)

In questo caso posso utilizzare la formula di propagazione quadratica semplificata per il caso ad una sola

variabile:

Y = ]Z[Z] (Eq. 19)

Se determino la derivata parziale della funzione avrò

Z[Z = zx$y2) (Eq. 20)

Che sostituita nella formula generale risulta

Y = zx|$|y2) (Eq. 21)

Risulta molto spesso utile e semplificativo per i calcoli trattare gli errori non come incertezze assolute ma

come incertezze relative; passando quindi alle incertezze relative ottengo

||| = y~||NC~||N (Eq. 22)

Da cui semplificando ottengo:

||| = z F|| (Eq. 23)

Cioè V ed $ hanno lo stesso errore relativo a meno di una costante

Esempio

Trovare l’errore associato a n che è definita dalla funzione di oscillazione del pendolo semplice

n = 4 = 42

In questo caso ho due variabili che è la lunghezza equivalente del pendolo fisico e è il periodo di oscillazione del pendolo. Utilizzo quindi la

formula generale

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Y = de'ef @>\)

Determino le derivate parziali

de'e f = 4;de'ef = 4(−22<) Sostituisco nella formula

Y = 4) + (−422<) Se passiamo all’errore relativo Y|T| = J4) + (−422<) 42

Ottengo

Y|T| = k || + 4 ||

Formule di propagazione utili:

Funzione Propagazione limite Propagazione in quadratura

V = √$ ΔT|T| = 0.5 Δ|| Y|T| = 0.5 ||

V = $)$ ΔT|T| = Δ)|)| + Δ|| T|T| = kd )|)|f + d ||f

V = $)$2) ΔT|T| = Δ)|)| + Δ|| T|T| = kd )|)|f + d ||f

Formule di propagazione per funzioni logaritmiche ed esponenziali:

Funzione Derivata Propagazione in quadratura

V = z&$ de'e$f = 1$ Y = |$| V = ./(&$) de'e$f = &./(&$)

Y|T| = &

V = $)./(&$)

d e'e$)f4= ./(&$)

d e'e$fC= &$)./(&$)

Y = ln& C +) 4

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Casi particolari:

Se Y è espressa come prodotto o dal rapporto di più termini, si ricava facilmente come visto dagli

esempi una relazione tra le incertezze relative.

||Y| = k(M - + (i - + (3 - (Eq. 24)

nel caso in cui si abbia la somma di più termini complessi, occorre calcolare i differenziali; ad esempio,

V = j~R + jR~ (Eq. 25)

Y = 0(i + i- 5 + 0( − ii4- i5 + 0(− i4 + i- 5 (Eq. 26)

Si noti che nel secondo e nel terzo termine della somma i due contributi hanno segno opposto, mentre

nel primo termine hanno lo stesso segno; per tale motivo, i due contributi dovuti alle incertezze

derivanti da B e C si compensano, mentre quelli derivanti dall’incertezza di A si sommano. Questo

deriva dal fatto che le variabili B e C compaiono una volta al numeratore ed un’altra al denominatore,

per cui, ad esempio, un errore in eccesso su B determina un contributo in eccesso per il termine AB/C

ed uno in difetto per AC/B.

È opportuno notare che non è corretto considerare l’incertezza della Y come somma delle

incertezze complessive relative ai due termini AB/C e AC/B, cioè:

Y = 0 i 5 + 0 i 5 (Eq. 27)

perché calcolando le incertezze relative a questi separatamente, si ottiene un errore che risulta

maggiore del precedente. È opportuno quindi applicare la propagazione direttamente all’equazione

che lega la grandezza incognita a quelle note; tuttavia, se la combinazione delle espressioni intermedie

non comporta semplificazioni di grandezze, i due metodi risultano del tutto equivalenti.

Per quanto riguarda il calcolo dell’errore propagato, si osservi che nella determinazione del valore di

alcune grandezze si fa uso di dati tabulati, i quali spesso sono riportati nei manuali senza le

corrispondenti incertezze ed in questo caso esse sono implicitamente espresse dal numero di cifre

significative. In assenza di indicazioni specifiche, si conviene che il dato venga riportato in modo tale

che l’intervallo d’incertezza massimo (cioè quello in cui la probabilità di trovare il valore “vero” è

estremamente elevata) abbia un’ampiezza corrispondente ad una unità dell’ultima cifra significativa,

cioè sia pari a ± 1 unità dell’ultima cifra.

Nel calcolo dell’errore propagato vanno infine considerate le costanti di tipo matematico (quali π, e, ...)

e fisico (Faraday, costante universale dei gas R, ...). Le costanti del primo tipo sono normalmente note

con un numero di cifre significative estremamente elevato, per cui è sufficiente utilizzare tali costanti

con un numero opportuno di cifre significative, in modo che l’incertezza che ne deriva sia sicuramente

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trascurabile rispetto alle altre. Per far ciò, e per evitare nel contempo di usare un numero di cifre

eccessivamente elevato, è opportuno sceglierne un numero tale per cui l’incertezza che ne deriva sia

uno o due ordini di grandezza al massimo più piccola di quelle che derivano dai dati sperimentali. È su

tale base che si è supposto, negli esempi visti in precedenza, che = 0 o R = 0, immaginando di

usare, appunto, un valore di K o di C con un opportuno numero di cifre significative.

Le costanti del secondo tipo sono, in sostanza, una via di mezzo tra quelle di tipo matematico ed i dati

tabulati. Se il numero di cifre significative di cui si dispone è sufficientemente elevato, esse possono

essere trattate come le costanti di tipo matematico; in caso contrario, si deve tener conto del

contributo della loro incertezza sulla base di quanto sopra esposto per i dati fisici tabulati negli

handbook

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Trattamento dei dati sperimentali: metodo dei minimi quadrati

Capita spesso che una misura sperimentale sia effettuata per determinare una grandezza (variabile dipendente y) in

funzione di una o più diverse grandezze (variabili indipendenti, xi). Ad esempio si può voler determinare il volume di

un gas misurando la sua temperatura e la pressione. Si fa quindi uso di modelli fisici che stabiliscono la relazione tra le

variabili indipendenti e la variabile dipendente, definiscono cioè una funzione y=f(xi). In molti casi, nella forma esplicita

della funzione f(xi) compaiono alcuni parametri aggiustabili che sono da ottenere mediante le misure sperimentali. Per

il momento ci si può limitare a considerare una funzione di una sola variabile. Il ragionamento verrà facilmente esteso

a funzioni di più variabili.

Ad esempio la legge di Clausius Clapeyron riporta la dipendenza dalla temperatura della pressione di vapore di un

liquido puro:

RT

HC

p

p mvap∆−=

0

ln

Che espressa in forma generica può essere scritta come:

T

BAy −=

Dove si è posto y=ln(P/P0), A=C, B=∆Hm/R. I valori di A e B sono da determinare sperimentalmente, per ottenere poi

dal valore di B, l’entalpia di vaporizzazione. In un grafico che riporti le coppie di valori sperimentali di ln(P/P0) in

funzione di 1/T, i punti dovrebbero giacere su una retta. A causa della presenza di imprecisioni ed errori casuali nelle

misure, tali punti non saranno mai su una retta. Occorre quindi determinare la retta che meglio approssima i dati

sperimentali, per ottenere il valore del coefficiente angolare B.

Questa procedura di ricerca della curva ottimale viene detta fitting dei dati o regressione e fornisce, oltre ai parametri

ottimali della curva, anche i relativi errori ed una stima numerica della qualità del fitting.

In generale il problema si può porre nel seguente modo: dato un insieme di dati sperimentali y0

i, misurati in

corrispondenza di una grandezza fisica xi, si vuole determinare la curva modello (la funzione y=f(xi)), dipendente da un

set di parametri ai (ad esempio pendenza e intercetta in una retta), che meglio approssima i dati sperimentali y0

i.

( ) ( )ni aaxyxy .....; 1= (Eq. 28)

Si definiscono residui le differenze tra i valori calcolati yi e i valori sperimentali y0

i: δi = yi -y0

i Assumendo che le

deviazioni dei dati sperimentali dalla curva modello siano puramente casuali e quindi che i residui seguano una

distribuzione gaussiana, la probabilità di avere un residuo pari a δi è:

( ) ( )[ ]2

20

2

2

22 i

ii

i

i xyy

i eeP σσδ −

−−

=∝ (Eq. 29)

La probabilità complessiva su tutto l’insieme di dati sperimentali è data dal prodotto delle singole probabilità:

( )[ ] ( )[ ]∑

=∝ =

−−

=

−−

∏N

i i

ii

i

ii xyyN

i

xyy

eeP 12

20

2

20

2

1

2 σσ (Eq. 30)

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Lo scopo della procedura di ottimizzazione della curva modello è determinare il set di parametri ( ai) che rende

massima la probabilità P. Trovare il massimo di P equivale a trovare il minimo della grandezza

( )[ ]

2

202

i

ii xyy

σχ −= (Eq. 31)

L’espressione precedente ha dato origine al nome di metodo dei minimi quadrati per la procedura di ottenimento

della migliori curve modello.

Nel caso molto comune in cui la curva modello è una retta il metodo dei minimi quadrati lineare viene detto

regressione lineare. Sia l’espressione della funzione modello

bxay += (Eq. 32)

Dove a e b sono i due coefficienti da determinare. La grandezza χ2 risulta quindi proporzionale a:

( )∑=

−−=N

iii bxayf

1

2 (Eq. 33)

Il minimo della grandezza χ2 si ricava ponendo le derivate parziali uguali a zero:

( )

( )

=

−−∂∂=

∂∂

=

−−∂∂=

∂∂

=

=

0

0

1

2

1

2

N

iii

N

iii

bxaybb

f

bxayaa

f

(Eq. 34)

Queste espressioni sono un sistema di equazioni lineari nelle variabili a e b. Dopo aver svolto i calcoli, le equazioni

diventano:

=+

=+

∑∑ ∑∑∑

iiii

ii

yxxbxa

yxbNa2

(Eq. 35)

La soluzione del sistema di equazioni è la seguente

( )

( )∑ ∑∑ ∑ ∑

∑ ∑∑ ∑ ∑ ∑

−=

−=

22

22

2

ii

iiii

ii

iiiii

xxN

yxyxNb

xxN

yxxyxa

(Eq. 36)

Avendo determinato i valori di a e b, si può calcolare il possibile errore sui valori y :

( )2

1

2

−−=∑

=

N

bxayN

iii

yσ (Eq. 37)

Inoltre, si possono anche calcolare gli errori su a e b, considerando i due parametri come funzioni di y, di cui si è

calcolato l’errore σy e usando la propagazione degli errori. Si ottiene:

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( )

( )∑ ∑

∑ ∑∑

−=

−=

22

22

2

ii

yb

ii

iya

xxN

N

xxN

x

σσ

σσ

(Eq. 38)

Con le formule precedenti si ha quindi la possibilità di ottenere tutti i parametri della retta e i rispettivi errori.

Nel caso in cui le singole misure dei valori di yi non siano soggette ad errori uguali, si deve considerare la regressione

lineare pesata, che calcola i valori di a e b dando maggior importanza (peso) ai dati con errore minore. Sia σi il valore

dell’errore sul punto yi. Definiamo il peso del punto i-esimo come wi=1/σi. Inserendo nelle formule precedenti i pesi

wi, e svolgendo i calcoli secondo la stessa procedura, si ottiene:

( )

( )∑ ∑∑∑ ∑ ∑∑

∑ ∑∑∑ ∑ ∑ ∑

−=

−=

22

22

2

iiiii

iiiiiiii

iiiii

iiiiiiiii

xwxww

ywxwyxwwb

xwxww

yxwxwywxwa

(Eq. 39)

In queste ultime formule si vede che se i pesi sono posti tutti uguali, si ottengono le stesse formule ottenute

precedentemente. In modo simile si ricavano le incertezze sui valori dei coefficienti a e b:

( )

( )∑ ∑∑∑

∑ ∑∑∑

−=

−=

22

22

2

iiii

ib

iiii

iia

xwxw

w

xwxw

xw

σ

σ

(Eq. 40)

Le formule scritte sopra sono valide assumendo che gli errori siano significativi solo sui valori delle grandezze yi. Nel

caso contrario, di errori significativi solo sui valori xi, è sufficiente invertire il ruolo delle due variabili.

Se la curva modello no fosse una retta ma un polinomio di grado superiore, il numero di parametri aggiustabili

aumenta ma il procedimento per calcolare i valori ottimali è uguale a quanto descritto sopra. Le formule si complicano

ed il sistema di equazioni per determinare i coefficienti è di dimensioni pari al numero di coefficienti. A titolo di

esempio, per una curva quadratica (polinomio di secondo grado) y=A+Bx+Cx2 le equazioni sono:

=++

=++

=++

∑∑∑∑∑∑∑ ∑

∑∑∑

yxxCxBxA

xyxCxBxA

yxCxBNA

2432

32

2

(Eq. 41)

Nel caso la funzione modello non sia un polinomio, ma sia comunque lineare nei coefficienti A,B,.. come ad esempio:

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xBxAy cossin +=

si può applicare il metodo dei minimi quadrati sviluppando le derivate come mostrato prima ottenendo comunque

dei sistemi di equazioni lineari nei coefficienti, che possono essere risolte numericamente.

Se la funzione modello non è lineare nei coefficienti, esiste un’altra possibilità, detta linearizzazione dei dati. Questo

metodo consiste nel riscrivere l’equazione modello in modo che la funzione modificata sia riconducibile ad una retta.

Un caso molto frequente è quello di funzioni modello esponenziali:

BxAey = (Eq. 42)

Prendendo il logaritmo di entrambi i membri si ha:

BxAy += lnln (Eq. 43)

Che esprime una dipendenza lineare di ln(y) dai valori di x ed è lineare anche in ln(A) e B. Dalla regressione lineare dei

dati si ottiene B e ln(A).

Oltre alla determinazione dei parametri della curva modello, esistono altre quantità statistiche che contribuiscono a

valutare la bontà di un fitting e di un modello di descrizione dei dati. Si definisce COVARIANZA di due grandezze x e y il

seguente valore:

( )( )∑=

−−==N

iiixy yyxx

NyxCov

1

1),( σ (Eq. 44)

Se x e y sono indipendenti, σxy tende a zero dopo molte misure. Se così non succede, allora si dice che x e y sono

correlate. Si definisce COEFFICIENTE DI CORRELAZIONE LINEARE il seguente valore:

yx

xyRσσ

σ= (Eq. 45)

Dove σxy = covarianza e σx, σy = deviazioni standard dei valori x e dei valori y. Questa grandezza R può assumere valori

da -1 a +1:

• Se R è vicino a +1 o a –1 allora i punti giacciono vicino ad una retta (valori negativi indicano pendenza

negativa della retta)

• Se R è vicino a 0 allora i punti non sono correlati, cioè la retta è un modello descrittivo non adatto per i dati

sperimentali.

In corrispondenza di un valore di R=r0 si può calcolare qual’e’ la probabilità che i punti non siano riprodotti da una

retta, come mostrato nella seguente tabella (N=numero di punti):

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Spesso si indica al termine del calcolo dei parametri di regressione, il valore P, che indica la probabilità che i dati NON

siano linearmente correlati. Il valore si ricava da tabelle come la precedente, ottenendo il complemento ad 1 dei valori

della tabella. Un esempio di regressione lineare di dati sperimentali, con i corrispondenti parametri statistici è:

Y = A + Bx

A = -94 ±10

B= 18 ± 1 R = 0.99274 SD = 0.47169 N = 6 P<0.0001

x y Err(y)

7.0 34 10

8.5 55 5

9.0 78 19

10.6 98 12

12.0 123 15

14.8 165 20

6 8 10 12 14 16

20

40

60

80

100

120

140

160

180

200

Y

X

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Determinazione del coefficiente di Joule-Thomson di un gas

Il coefficiente di Joule-Thomson per un gas a temperatura T e pressione p, è definito come la variazione di

temperatura dovuta ad una variazione infinitesima di pressione quando il gas è sottoposto ad una

espansione o compressione iso-entalpica, cioè a entalpia costante. Espressa come formula, questa

definizione corrisponde alla derivata:

( )H

JT p

TpT

∂∂=,µ (Eq. 46)

Come si può far avvenire una espansione iso-entalpica? Si consideri il seguente sistema ideale:

Se il sistema è isolato termicamente (trasformazione adiabatica) allora non vi è scambio di calore, e per la

Prima Legge della termodinamica:

wUq =∆⇒= 0 (Eq. 47)

In questo sistema si parte da uno stato iniziale con il gas presente solo nella sezione precedente il setto. Lo

stato iniziale è definito da :

P1, V1, T1 ≠ 0

P2, V2, T2 = 0

Dopo il passaggio del gas attraverso il setto poroso, si arriva allo stato finale definito da:

P1, V1, T1 =0

P2, V2, T2 ≠ 0

Il lavoro compiuto dal sistema quando una quantità fissa di gas passa attraverso il setto poroso (stato

iniziale ⇒ stato finale) è:

2211 VPVPw −= (Eq. 48)

Quindi

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221112

2211

VPVPUU

VPVPU

−=−−=∆

(Eq. 49)

Da cui

12111222 HHVPUVPU =⇒+=+ (Eq. 50)

Avendo definito il sistema adatto per far avvenire la espansione isoentalpica, si può ipotizzare quindi un

sistema di misura del coefficiente di Joule-Thomson. Il coefficiente di JT può essere negativo o positivo,

anche per uno stesso gas, a seconda delle condizioni termodinamiche (T,P):

Nell’area grigia si ha µJT>0 ⇒ raffreddamento per espansione

Fuori dall´area si ha µJT<0 ⇒ riscaldamento per espansione

La temperatura di inversione ad una certa pressione è definita dal punto nel quale il coefficiente di JT

cambia segno. lI gas reali hanno due temperature di inversione:

• una temperatura di inversione ad alta temperatura, (TINV,SUP)

• una temperatura di inversione a bassa temperatura, (TINV,INF).

Dal grafico precedente si ricava che i gas He ed H2 non possono essere raffreddati per espansione Joule-

Thomson al di sotto di una temperatura limite.

Per la misura sperimentale del coefficiente di JT, se si considerano piccole variazioni di T e P, si può

approssimare la derivata al rapporto di differenze finite:

( )H

JT p

TpT

∆∆≈11,µ (Eq. 51)

si devono quindi realizzare le condizioni del sistema isoentalpico descritto prima nel quale è necessario

determinare P1, P2, T1 e T2:

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Misura della variazione di pressione ∆P=P2- P1:

La misura della differenza ∆P=P2-P1 viene effettuata mediante un sistema manometrico il cui principio di

funzionamento si basa su un sensore differenziale a deformazione (estensimetro o strain gauge). In tale

tipo di sensori, adatti per l’intervallo di ∆P da usare in questo esperimento (10-3-1 Bar), la deformazione di

un trasduttore ad opera di una differenza di pressione applicata al trasduttore fa cambiare la sua

resistenza, che viene convertita in una tensione da un circuito di misura ed amplificazione. Il valore di

tensione letto va riportato ad una differenza di pressione mediante la curva di calibrazione fornita per

ciascun sensore in laboratorio.

Misura della variazione di temperatura ∆T= T2 –T1:

In condizioni ordinarie, la variazione di temperatura da misurare può essere dell’ordine dei decimi di grado.

Per ottenere una misura accurata e precisa si devono utilizzare dei termistori accoppiati. I termistori sono

dei sensori di materiale semiconduttore che variano la loro resistenza R in funzione delle temperatura

secondo una legge del tipo:

( ) TAeTRβ

= (Eq. 52)

Dove :

• T è la temperatura (in K)

• A è un “fattore di forma” (che dipende dalla dimensione e forma del termistore).

• β è un parametro dipendente esclusivamente dal tipo di materiale.

Con l’espressione termistori accoppiati si intende una coppia di termistori che possiedono lo stesso

coefficiente β. Nel sistema in esame si indicano con R1 ed R2 le due resistenze dei due termistori posti

rispettivamente prima e dopo il setto poroso

( )

( ) 2

1

222

111

T

T

eATR

eATRβ

β

=

= (Eq. 53)

Facendo il quoziente di entrambi i membri:

21

2

1

2

1 TT

T

eA

A

R

R∆

(Eq. 54)

E si compie l’approssimazione (valida se ∆T→ 0): T1T2 ≈ T12 . Si ottiene quindi:

2

1

2

1

2

1 T

T

eA

A

R

R∆

(Eq. 55)

Esplicitando rispetto a ∆T:

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−=∆

2

1

2

12

1 lnlnA

A

R

RTT

β (Eq. 56)

Il valore di β per i termistori o viene indicato dal produttore ed è riportato nelle tabelle collocate in

laboratorio. Il valore di A1/A2 si potrebbe ottenere dalla misura di R1 e R2 alla stessa temperatura (∆T=0

⇒ A1/A2= R1/R2). La determinazione di questo rapporto è tuttavia non necessaria, come descritto di

seguito.

Per la misura del coefficiente di JT occorre quindi misurare il ∆P e le resistenze R1 ed R2, conoscendo i valori

di A1,A2, di T1 e di β:

P

A

A

R

RT

P

TJT ∆

==∆∆= 2

1

2

12

1 lnlnβ

µ (Eq. 57)

Una singola misura di R1, R2 e ∆P risulta in generale affetta da una imprecisione elevata. Per ottenere una

misura più precisa si determinano diverse coppie di valori di R1 e R2 corrispondenti a differenti ∆P.

Esplicitando l’ultima espressione rispetto a ln(R1/R2) si ottiene:

2

12

12

1 lnlnA

AP

TR

R JT +∆⋅= βµ (Eq. 58)

Riportando in grafico ln(R1/R2) su ∆P a vari valori di ∆P si ottiene una retta di coefficiente angolare µJTβ/T12,

dal quale si ottiene il valore del coefficiente JT, essendo note solamente β e T1. I dati sperimentali riportati

in grafico potrebbero essere simili ai seguenti:

Nel grafico precedente sono riportati i dati sperimentali con i rispettivi errori (simboli in blu) e la retta di

regressione (in rosso) . Dal coefficiente angolare della retta di regressione si calcola il coefficiente di Joule-

Thomson usando le formule precedenti.

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Determinazione della capacità termica di miscele liquide

Se ad un sistema si fornisce calore, la sua temperatura aumenta. Si definisce capacità termica C il rapporto

tra energia fornita come calore q e l’aumento di temperatura ∆∆∆∆T:

T

q C

∆= (Eq. 59)

L’unità di misura della capacità termica è J K-1 o J °C-1

La capacità termica è una grandezza estensiva. Si trasforma in una grandezza intensiva dividendo per la

massa o il numero di moli, ottenendo rispettivamente la capacità termica specifica Cs (detta anche calore

specifico) e la capacità termica molare Cm (detta anche calore specifico molare):

m

C Cs = [Cs] =J K-1 g-1

(Eq. 60)

n

C Cm = [Cm]= J K-1 mole-1

(Eq. 61)

E’ utile distinguere i casi di trasferimenti di energia termica a pressione o volume costante, definendo le

capacità termiche a pressione costante Cp o la capacità termica a volume costante Cv. Sia Cv che Cp sono

proprietà estensive. Si ottengono le rispettive grandezze intensive molari dividendo per le moli di sostanza

n

CC

n

CC

vmv

pmp

=

=

,

,

(Eq. 62)

Si ricava dal primo principio della termodinamica che , se lo scambio di energia è a volume costante allora

dqdU = (Eq. 63)

Quindi

VV

v T

U

dT

dqC

∂∂=

= (Eq. 64)

Risulta spesso più conveniente dal punto di vista sperimentale mantenere un sistema a pressione costante

e quindi misurare Cp. In questo caso per trovare una relazione analoga alla precedente, che colleghi Cp alla

variazione di una funzione di stato si deve considerare la funzione Entalpia:

PVdUH += (Eq. 65)

Le variazioni di entalpia derivano da variazioni di energia interna (∆U) e del prodotto PV:

VPPVUPVUH ∆+∆+∆=∆+∆=∆ )( (Eq. 66)

Se la trasformazione è isobara (P=costante), ∆P=0, e si ottiene

VPUH ∆+∆=∆ (Eq. 67)

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Dal primo principio si ha che il calore scambiato a pressione costante (indicato con qp) e con solo lavoro di

volume, è:

( )( ) ( )

H

HH

PVUPVU

VVPUU

wUq volp

∆=−=

+−−=−+−=

+∆=

12

1122

1212

(Eq. 68)

Quindi, approssimando la derivata ad un rapporto incrementale:

T

q

T

H

T

HC

p

p

m

P

mmp

∆=

∆∆≅

∂∂=,

(Eq. 69)

Come si può misurare la Cp? Dalla definizione precedente, si deve attuare un esperimento nel quale:

• si fornisce una quantità nota di energia come calore q, a pressione costante (ottenibile

facilmente con un campione esposto all’atmosfera e in grado di dilatarsi)

• si registra l’innalzamento di temperatura ∆T.

Occorre evitare che il sistema in esame scambi calore con l’ambiente: deve essere isolato termicamente.

Una buona approssimazione a questa condizione ideale si realizza con un vaso Dewar composto da un

contenitore (spesso in vetro argentato) con doppia parete all’interno della quale è fatto il vuoto. I comuni

thermos sono dei vasi Dewar adatti per mantenere isolati termicamente liquidi a temperature non troppo

estreme. In questo laboratorio si utilizza un sistema schematizzato nella figura seguente:

Per fornire una quantità nota di calore si sfrutta il calore dissipato da una resistenza (effetto Joule). La

potenza P dissipata da una resistenza R attraversata da una corrente i e sottoposta ad una differenza di

potenziale V è:

2RiViP == (Eq. 70)

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L’energia dissipata come calore, nel tempo t è

( ) ( )∫ ⋅== 0

0

tdttitVqE (Eq. 71)

Se la corrente e la tensione sono mantenute costanti nel tempo il calore fornito si calcola quindi facilmente

dalla seguente relazione:

tiVtiRq ⋅⋅=⋅⋅= 2 (Eq. 72)

Per la misura della variazione di temperatura ∆T, si utilizza un termometro a mercurio immerso nel liquido

all’interno del dewar.

Sperimentalmente si compiono le seguenti operazioni:

• Con un Alimentatore si fornisce alla resistenza una corrente i ad una V note

• Con un termometro si registra la temperatura a vari istanti.

E si ottiene una tabella quale la seguente:

tempo

(s)

Temperatura

(K)

Corrente

(Ampere)

tensione

(Volts)

t1 T1 i1 V1

t2 T2 i2 V2

.. .. .. …

Registrando per alcuni minuti la temperatura sia prima che dopo aver acceso l’alimentatore, si ottengono

dei grafici simili al seguente:

• Prima dell’accensione si può osservare una lieve variazione di temperatura: il campione sta

equilibrando la sua temperatura.

• Dopo lo spegnimento della corrente, si ha un ulteriore aumento della temperatura per inerzia

termica e poi una graduale diminuzione della temperatura, per dissipazione di calore verso

l’esterno.

• Si devono raccogliere punti prima, durante e dopo l’accensione della corrente. La variazione di T si

stima come dalla figura seguente:

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Questo tipo di esperimento ha bisogno di una correzione dei dati per ottenere risultati accurati. La

correzione è necessaria perché il sistema misurato include il termometro, l’ancoretta magnetica, la

resistenza riscaldante e la parte interna del dewar, tutti oggetti dotati di una propria capacità termica, che

va sottratta a quella misurata. Il metodo per sottrarre la capacità termica del sistema di misura dal dato

misurato sfrutta la misura di un campione a capacità termica nota (campione di riferimento), ad esempio

acqua distillata. Se si considera quindi la misura sul campione di rifermento (indicato con il pedice r) e sul

campione incognito (indicato con il pedice s) definiamo le seguenti grandezze:

mr, ms = masse dei campioni

ir, is = correnti (medie) durante il riscaldamento

Vr, Vs = ddp applicata (media) durante il riscaldamento

tr, ts = tempi di riscaldamento

∆Tr, ∆Ts = variazioni di temperatura

cr, cs = capacità termiche specifiche (per unità di massa)

C0 = capacità termica del sistema di misura

I calori scambiati nell’esperimento col riferimento o con l’incognito sono:

( )( ) ssssss

rrrrrr

TcmCtiV

TcmCtiV

∆+=∆+=

0

0 (Eq. 73)

Ma è anche:

( )( ) ssss

rrrr

TcmCq

TcmCq

∆+=∆+=

0

0 (Eq. 74)

Unendo le due precedenti relazioni:

ssssels

rrrrelr

tiVwq

tiVwq

====

,

, (Eq. 75)

Dalla misura fatta sul riferimento si ottiene C0:

( ) rrrrrr TcmCtiV ∆+= 0 (Eq. 76)

rrr

rrr cmT

tiVC −

∆=0 (Eq. 77)

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Il valore di C0 viene inserito nella formula per il campione incognito, dalla quale si ricava il valore di cs

s

rr

rs

rrr

ss

ssss m

cm

Tm

tiV

Tm

tiVc +

∆−

∆= (Eq. 78)

Nel caso di liquidi puri si possono considerare le capacità molari. Nel caso di miscele acqua:glicole etilenico,

si devono considerare solo le capacità termiche specifiche.

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Determinazione della conduttività molare limite di un elettrolita forte

Il moto degli ioni in soluzione può essere studiato misurando la conduttività di soluzioni elettrolitiche dove la migrazione di cationi verso l’elettrodo negativo e di anioni verso l’elettrodo positivo trasporta la carica in soluzione. Il trasporto di una specie in soluzione avviene attraverso tre meccanismi:

• diffusione (driving force: un gradiente di potenziale chimico, cioè di concentrazione),

• migrazione elettrica (driving force: un gradiente di potenziale elettrico Φ),

• convezione (driving forces: temperatura, agitazione, ecc.) Il flusso complessivo di una specie ionica in soluzione è dato dall’equazione di Nernst-Planck

= − − & + S (Eq. 79)

In questa sezione ci soffermiamo sulla migrazione elettrica e sulla grandezza ad essa correlata, la conduttività o conducibilità specifica delle soluzioni elettrolitiche. I conduttori elettrici si differenziano a seconda di come le cariche elettriche si muovono all’interno di essi:

• conduttori elettronici o di I specie, per i quali le uniche cariche elettriche in grado di muoversi sono gli elettroni (appartengono a questa specie i metalli, i semiconduttori e composti del carbonio come la grafite, il glassy carbon, il diamante opportunamente drogato, ma anche alcuni materiali polimerici);

• conduttori ionici o di II specie, nei quali le cariche elettriche mobili sono gli ioni, generalmente sia positivi che negativi (appartengono a questa specie le soluzioni elettrolitiche, i cristalli ionici, gli elettroliti fusi, in particolare i cosiddetti liquidi ionici, gli elettroliti polimerici).

Materiale Conduttività κκκκ (S/cm) T/°C

Metalli

Argento 63.01⋅104 20

Rame 59.06⋅104 20

Alluminio 37.8⋅104 20

mercurio 1.04⋅104 25

Semimetalli Grafite 7.27⋅102 0

Sale fuso KCl fuso 2.2 800 Elettrolita solido AgI 1-2 >147

Soluzioni elettrolitiche

H2SO4 35% ∼1 25

Acqua di mare 0.05 23 KCl 0.1 M 0.0112 18 Acqua potabile 5⋅10−4-5⋅10−6 25

Acqua Rocchetta 2.79⋅10−4 20

urina 2.15⋅10−3 20

Acqua deionizzata

1-3⋅10−6 25

Semiconduttore Germanio 2.17⋅10−8 22

Isolante Zolfo 5⋅10−22 20

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Conduttori metallici Le proprietà dei conduttori elettronici sono descritte dalla teoria delle bande. I livelli energetici di atomi isolati hanno valori ben definiti e gli elettroni riempiono i livelli più bassi in accordo con le leggi della quantomeccanica. Quando gli atomi non sono più isolati, ma aggregati tra loro, vi è un’interazione tra gli orbitali atomici dei singoli atomi, con formazione di orbitali molecolari e di nuovi livelli energetici, differenti da quelli degli atomi isolati. Quando l’insieme di atomi aggregati giunge a formare un reticolo cristallino, i livelli energetici originati dagli orbitali molecolari si combinano in bande energetiche di ampiezza finita, all’interno delle quali sono collocati un numero molto grande di orbitali, i cui livelli energetici sono naturalmente discreti, ma il salto energetico tra un orbitale e l’altro è estremamente piccolo, dato il grandissimo numero di orbitali confinati in un intervallo di energia limitato.

Le bande sono tra loro separate da un salto energetico (gap) che non contiene livelli energetici. Ogni singolo livello energetico in una certa banda può contenere al massimo due elettroni. I conduttori elettronici, come ad esempio i metalli, mettono in comune gli elettroni di valenza per la costituzione del reticolo cristallino. Gli elettroni di valenza occupano gli orbitali atomici di tipo s e p, nei quali si trovano 1, 2 o 3 elettroni a seconda del Gruppo. Gli orbitali atomici che ospitano gli elettroni di valenza danno origine a due bande: la banda di valenza, costituita dagli orbitali ad energia minore, la banda di conduzione, costituita dagli orbitali molecolari ad energia maggiore. Il numero di elettroni di valenza può essere inferiore a quello che può essere ospitato nell’insieme degli orbitali della banda di valenza, per cui la banda è occupata solo parzialmente. Anche quando la banda di valenza fosse completamente piena, essa risulta comunque parzialmente sovrapposta alla banda di conduzione vuota. In questa situazione gli elettroni della banda di valenza sono estremamente “mobili”, perché hanno a disposizione un numero elevatissimo di orbitali nella stessa banda, ai quali possono accedere liberamente, dato che il salto energetico tra un orbitale ed un altro è largamente inferiore all’energia cinetica kBT (kB = costante di Boltzman). Nei materiali non metallici i livelli energetici della banda a più bassa energia sono completamente occupati e quelli della banda a energia superiore sono completamente vuoti, ma tra le due bande vi è un ampio intervallo energetico. Per trasferire un elettrone dal livello energetico più alto della banda inferiore completamente piena (banda di valenza) a quello più basso della banda superiore completamente vuota (banda di conduzione) occorre un’elevata quantità di energia (band gap) rispetto all’energia cinetica kBT. Per tale motivo gli elettroni non sono in grado di passare da una banda all’altra; d’altra parte, essendo tutti occupati gli orbitali della banda di conduzione, gli elettroni non sono in grado di muoversi attraverso il materiale perché sono confinati nel proprio orbitale: la sostanza viene definita isolante. Taluni materiali presentano una differenza energetica relativamente piccola tra la banda di valenza piena e quella di conduzione vuota, per cui è possibile eccitare facilmente alcuni elettroni e trasferirli quindi dalla banda piena a quella vuota. In questa situazione si liberano degli orbitali nella banda di valenza, che consentono una certa mobilità agli altri elettroni e, d’altra parte, gli elettroni finiti nella banda di conduzione sono diventati mobili, data la grande disponibilità di orbitali vuoti in quella banda: la sostanza in questo caso viene definita semiconduttore

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Soluzioni elettrolitiche Nelle soluzioni liquide il componente maggioritario è detto solvente. Non tutti i solventi sono uguali, ma possono essere classificati in due grandi famiglie: quelli ionici e quelli molecolari. I primi sono essenzialmente costituiti da specie completamente dissociate in ioni (es. sali fusi), sia in forma monoatomica sia in forma poliatomica, e presentano elevata conducibilità elettrica. Ovviamente in questo caso le forze coesive che realizzano lo stato liquido sono dovute alle forti interazioni coulombiane tra gli ioni di carica opposta. I solventi molecolari sono costituiti da molecole; le forze coesive sono dovute a varie cause: legami a ponte (di idrogeno, di alogeno, ecc.), interazioni dipolo-dipolo o di tipo van der Waals. Questi solventi si comportano quasi come isolanti, hanno cioè una conducibilità elettrica molto ridotta, che è dovuta a una possibile dissociazione ionica (legata generalmente a processi di scambio protonico). Anche i liquidi molecolari, come quelli ionici, non sono completamente amorfi, ma mantengono in parte la struttura originaria della forma cristallina dello stato solido da cui derivano. In particolare l’acqua a temperatura ambiente è costituita per il 70% di aggregati di circa 50 molecole con struttura simile a quella del ghiaccio, mentre il restante 30% è costituito da molecole sostanzialmente singole. Una soluzione

elettrolitica è formata da un solvente molecolare e dagli ioni in esso disciolti. In questo caso la conducibilità elettrica raggiunge valori anche elevati (pur sempre largamente inferiori a quelli dei conduttori elettronici di tipo metallico), grazie alla buona mobilità degli ioni. La formazione di una soluzione elettrolitica avviene quindi per dissoluzione di un elettrolita in un solvente molecolare. Esistono peraltro due tipi di elettroliti: gli elettroliti ionofori e gli elettroliti ionogeni. Gli elettroliti ionofori sono i cristalli ionici, cioè quelle sostanze che sono costituite da ioni già nel loro stato naturale (generalmente lo stato solido, anche se esistono diversi tipi di cristalli ionici liquidi a temperatura ambiente). Si tratta ad esempio di sali, ossidi, idrossidi, per i quali la struttura cristallina è costituita da ioni di carica opposta tenuti assieme dalle forti interazioni coulombiane. Gli elettroliti ionogeni sono invece sostanze costituite da molecole neutre che producono ioni (ovviamente almeno due, di carica opposta per il bilancio di carica) attraverso una reazione chimica con il solvente nel quale vengono disciolti (in generale si tratta di una reazione acido-base, cioè di scambio protonico). Ad esempio, NaCl è un elettrolita ionoforo, poiché allo stato naturale (solido) è costituito da ioni Na+ e Cl–, che si separano quando viene sciolto in un adeguato solvente; viceversa HCl è un elettrolita ionogeno, poiché allo stato naturale (gassoso) è costituito da molecole, ma una volta sciolto in acqua produce ioni H3O

+ e Cl– per reazione acido-base. La prima teoria quantitativa di descrizione delle soluzioni elettrolitiche, cioè di soluzioni di sostanze in grado di condurre l'elettricità, è stata formulata da Svante Arrhenius (1883-87). La teoria è stata in seguito sviluppata da Ostwald, Walden e altri. Tale teoria è basata su tre postulati

1. Alcune sostanze, dette elettroliti, sono in grado di dissociarsi in particelle con carica opposta detti

ioni quando siano disciolte in opportuni solventi (spesso acqua). Il numero, il segno e la grandezza della carica (z) degli ioni dipende dal tipo di elettrolita.

2. La dissociazione degli elettroliti non è completa, solo una certa parte delle molecole disciolte è

presente come ioni. La frazione del numero totale di molecole disciolte che è dissociata in ioni

all'equilibrio, è il grado di dissociazione α

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= yy (Eq. 80)

Il grado di dissociazione a temperatura e pressione costante dipende dalla natura dell’elettrolita e dalla sua concentrazione. Il grado di dissociazione è tanto maggiore quanto è diluita la soluzione tendendo al valore

limite 1 quando la concentrazione tende a zero (diluizione infinita). Per elettroliti forti α ≅ 1 per elettroliti

deboli α tende ad 1 solo per concentrazioni molto diluite. Nel caso di un elettrolita binario si ha la dissociazione in un catione con carica positiva e un anione con carica negativa 2:

&Q^Q & + 2^ dove e 2 rappresentano i coefficienti stechiometrici del catione e dell’anione, rispettivamente. La reazione di dissociazione è regolata da una costante di equilibrio che dipendente dalle attività delle specie solvatate all’equilibrio

= ¡ ∙¢ ¡¡¢¡ (Eq. 81)

Se assumiamo un comportamento ideale della soluzione e quindi che i coefficienti di attività siano unitari, allora la molalità può essere sostituita dalla molarità e ottengo così la costante di dissociazione

= 0R 5¡0j 5¡£R¡j¡¤ (Eq. 82)

all'equilibrio la frazione di molecole in soluzione che è dissociata in ioni è regolata dal grado di dissociazione:

= y¥@¦y§¨§ = ¥@¦ (Eq. 83)

Dove in questo caso con c intendiamo la sua concentrazione molare. Tenendo presente che:

£&¤ = S; ©^ª = 2S; ©&Q^Qª = S − S = 1 − )S (Eq. 84)

E inserendo queste relazioni nell’equazione della costante di dissociazione si ottiene

= Q¡ ∙Q¡±∙«(¡¡)(¡¡C))2« (Eq. 85)

Ora se faccio riferimento ad un elettrolita binario che genera ioni con uguale carica in modulo, cioè per un equilibrio del tipo &^ & + ^

Si ottiene

= «4)2« (Eq. 86)

Posto S = 1/P essendo P la diluizione si ottiene la relazione

= «4)2« )m (Eq. 87)

Questa relazione è nota come legge di diluizione di Ostwald e mostra che, a temperatura e pressione definite, essendo K una costante nell’ipotesi di soluzioni ideali, il grado di dissociazione dipende dalla concentrazione e tende a 1 quando c tende a 0 (cioè per diluizione infinita). Convenzionalmente si stabilisce

che l’elettrolita è completamente dissociato se ¬ > 10 mentre lo si ritiene completamente indissociato per ¬ < 102 . Nella pratica, si definiscono elettroliti forti le sostanze che hanno = 1 a concentrazioni

ordinarie, mentre si definiscono elettroliti deboli le sostanze per le quali è piccolo a concentrazioni ordinarie e tende a 1 solo per concentrazioni molto basse.

3. Non ci sono interazioni tra gli ioni e gli elettroliti si comportano come un sistema ideale. Questo assunto non è esplicitamente indicato ma è conseguenza di tutte le ralazioni quantitative ricavate da questa teoria.

Il successo della teoria riguarda però elettroliti deboli in soluzioni diluite, mentre essa si è rivelata lacunosa nel predire il comportamento di soluzioni di elettroliti forti o di soluzioni concentrate di elettroliti deboli. La

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teoria si dimostra debole in particolare nel descrivere le proprietà di dipendenza della conduttanza dalla concentrazione nel caso di elettroliti forti.

Conducibilità delle soluzioni elettrolitiche Il trasporto di specie sciolte in un solvente avviene casualmente con movimenti di tipo Browniano. Le particelle di solvente e di soluto si scontrano in continuazione e si muovono stocasticamente, con velocità differenti, in varie direzioni. Le specie disciolte sono localizzate all’interno della struttura quasi cristallina del solvente e vibrano intorno a posizioni di equilibrio. Dopo parecchie centinaia di vibrazioni le particelle acquisiscono un’energia sufficiente a compiere un salto in una posizione adiacente della struttura quasi cristallina, qualora ci sia uno spazio disponibile sufficiente. La frequenza dei salti dipende, quindi, dall’energia richiesta per spostare una specie dalla sua posizione di equilibrio e dall’energia richiesta per formare una posizione vuota (vacanza) in un sito adiacente. La risposta di una specie i-esima sottoposta ad una forza viene descritta in termini di flusso . In questo caso il flusso viene definito come la quantità di materia (misurata in grammoparticelle, cioè in moli di particelle) che attraversa una sezione unitaria (ortogonale al gradiente) nell’unità di tempo. La relazione tra flusso e driving force che lo origina può essere ricavata in termini del tutto generali con la seguente considerazione. La velocità con cui si muovono le particelle dipende dalle loro dimensioni e forma, dall’interazione tra le molecole del solvente e dall’interazione tra particelle di soluto e solvente. Considerando il caso più comune ossia quando le molecole del soluto sono più grandi di quelle del solvente, la forma delle molecole può essere considerata sferica e l’interazione tra le particelle di solvente e soluto trascurabile il movimento delle particelle del soluto può essere ipotizzato simile a quello di particelle sferiche, di raggio 6, in un mezzo viscoso con coefficiente di viscosità ®. La forza ' che agisce su una particella induce un’accelerazione per cui la particella si muoverà di moto uniformemente accelerato lungo la direzione della forza agente. A questo moto si oppone la resistenza dovuta all’attrito prodotto dalla viscosità della soluzione, che genera una forza resistente (con la stessa direzione ed il verso opposto a quello del moto) quantificata dalla legge di Stokes: ' = 6®6 (Eq. 88)

Poiché la forza resistente dipende dalla velocità (), essa crescerà all’aumentare della velocità del moto uniformemente accelerato, fino ad eguagliare (ed annullare) la forza agente. La velocità ¯ in condizioni stazionarie, cioè quando la risultante delle due forze è nulla, è quindi descritta dalla legge di Stokes:

¯ = [@°,±@ (Eq. 89)

dove ' è la forza che agisce sulle particelle. A tale velocità stazionaria corrisponde un flusso = S¯ (Eq. 90)

Nel caso dell’azione di un campo elettrico, il flusso della specie ionica i-esima è generato dalla forza elettrica agente che vale ' = −z³n6´µΦ, per una grammoparticella, ' = −z·n6´µΦ, dove F è la costante di Faraday. Considerando il caso normale di un gradiente monodirezionale, si può quindi scrivere

dx

d

r

Fzc

r

gradFzc

r

fcvcJ i

i

ii

i

iii

i

iiii

φπηπη

φπη 6660 −=⋅−=== (Eq. 91)

dx

duc

dx

dFzucJ i

iii

iiii

φφ −=−= * (Eq. 92)

dove ¸∗ = )°,±@ è la mobilità assoluta dello ione i-esimo, cioè la velocità stazionaria che si ha in presenza di

una forza agente unitaria, mentre ¸ = ¸∗· è la mobilità ionica elettrochimica, cioè la velocità in presenza di un gradiente di potenziale unitario. Dal punto di vista elettrico la grandezza correlata a questo flusso di materia è la densità di corrente º, ossia il flusso di carica elettrica, che può essere così definita:

º = »dx

d iφ (Eq. 93)

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dove il coefficiente fenomenologico ¼, è la conducibilità elettrica specifica, cioè il reciproco della resistività ½. Utilizzando la legge di Faraday, che correla la quantità di carica con la quantità di materia, è possibile scrivere la seguente equivalenza tra la densità di corrente e il flusso di massa delle specie cariche:

º = ∑ · (Eq. 94)

pertanto il contributo di uno ione i-esimo alla densità di corrente totale è:

º = −S¸∗·dx

d iφ = −¸||S·dx

d iφ (Eq. 95)

La densità di corrente totale, ossia quando più ioni sono presenti in soluzione, è data da:

º = ∑· = −∑¸||S·dx

d iφ (Eq. 96)

Da cui si ottiene la definizione di conducibilità specifica totale: ¼ = ∑¸||S· (Eq. 97)

E si esprime in Ω-1 cm-1 oppure S cm-1. In questa equazione la concentrazione è espressa in g/cm3, se volessimo esprimerla nella più comune forma di g/L si dovrà dividere per un fattore 1000:

¼ = )¯¯¯∑¸||S (Eq. 98)

La conduttività è una grandezza intrinsecamente non selettiva ma “integrale” perché dipende dai prodotti (carica × concentrazione ×mobilità) di tutti gli ioni liberi nella soluzione studiata. Se considero un elettrolita &Q^Q a concentrazione S allora la conducibilità specifica totale sarà:

¼ = «)¯¯¯ ¸ + 22¸2 (Eq. 99)

Poiché = || = 2|2| posso esprimere la conducibilità specifica come:

¼ = «Q)¯¯¯ ¸ + ¸2 (Eq. 100)

Quindi la conducibilità specifica κκκκ dipende dalla concentrazione sia direttamente sia indirettamente

attraverso α e la mobilità ¸. Sperimentalmente si osserva che per elettroliti forti: la curva ¼ vs c presenta un massimo (benché non sempre raggiunto, poiché all’inizio predomina la crescita di S (tratto ascendente

della curva), poi il calo di α ed ¸ con la concentrazione (tratto discendente della curva); elettroliti deboli: le mobilità sono circa costanti, la crescita della concentrazione e del grado di dissociazione si compensano per cui la curva ¼ vs c ha un andamento pianeggiante.

Tali andamenti non sono previsti dalla teoria di Arrhenius che non prevede che anche le mobilità ¸

dipendano dalla concentrazione. Invece tali andamenti si possono spiegare solo ammettendo che la mobilità degli ioni diminuisca all'aumentare della concentrazione dell'elettrolita. Vedremo che solo con il modello teorico di Debye-Huckel per le soluzioni ioniche, che fa uso del concetto di atmosfera ionica, si potrà spiegare teoricamente tale andamento.

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Un parametro molto importante, che caratterizza il trasporto di cariche elettriche è il numero di trasporto,

che rappresenta la frazione di cariche elettriche (cioè della corrente elettrica) trasportata da una singola specie ionica all’interno di una soluzione elettrolitica.

=

jjjj

iii

iczu

czut (Eq. 101)

In un campo elettrico tutte le specie ioniche si mettono in moto ordinato lungo le linee di forza del campo elettrico. Ioni di carica opposta si muovono nel verso opposto, per cui tutte le specie ioniche contribuiscono additivamente al trasporto di cariche elettriche, cioè all’intensità di corrente complessiva I. Ciascuna specie ionica dà però un contributo specifico che dipende dalla sua concentrazione, dalla sua carica e dalla sua mobilità.

Misura della conduttività o conducibilità specifica di una soluzione

Dal punto di vista sperimentale un conduttimetro misura la resistenza ¾ (Ω) di una soluzione elettrolitica, il

cui inverso è la conduttanza & (S[iemens]= Ω-1); essa dipende non solo dalle caratteristiche della soluzione, ma anche da quelle della cella conduttimetrica usata per effettuare la misura, rappresentate dalla costante

di cella (cm-1). Dalla definizione di resistenza:

¾ = ½ j (Eq. 102)

Dove ½ = 1/¼ è detta resistività, si osserva che la resistenza aumenta con la lunghezza del campione e diminuisce con la sua sezione. Possiamo esprimere la conduttanza in funzione della conducibilità specifica altrimenti detta conduttività ¼ e del parametro geometrico χ associato alla costante di cella:

& = ¼ j = κ ∙ Á (Eq. 103)

Nelle misure conduttimetriche la cella conduttimetrica viene calibrata utilizzando un campione a

conduttività nota κ* (tipicamente KCl, i dati si possono trovare in Handbook of Chemistry and Physics, vedi

tabella allegata). Dalla regressione lineare dei dati di κ*/T (figura allegata) si estrapola il valore di κ* alla

temperatura alla quale viene determinata &∗. Quindi si determina la costante di cella χ dalla relazione:

 = R∗Ã∗ (Eq. 104)

dove C* è la conduttanza della soluzione standard. La costante di cella χ è generalmente espressa in cm-1. Se il campione incognito quindi ha una conduttanza & nella stessa cella conduttimetrica, la conduttività è

¼ = RÄ (Eq. 105)

La conduttività di una soluzione dipende dal numero degli ioni presenti; per questo si definisce

convenzionalmente una conduttività molare Λm

Λ = Ã (Eq. 106)

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fisicamente, Λ coincide con la conduttanza di 1 cm3 di soluzione 1M dell’elettrolita in esame tuttavia nella pratica comune c che indica la concentrazione molare dell’elettrolita viene espressa in moli/dm

3. per questo viene si moltiplica per un fattore 1000.

Λ = Ã 1000 (Eq. 107)

La conduttività molare così espressa assume questa unità di misura Ω-1cm2 mol-1. Per confrontare tra loro le conduttività di elettroliti con diversa valenza (per esempio per confrontare elettroliti binari tipo NaCl con elettroliti ternari tipo Na2SO4), è possibile esprimere la conduttività in modo indipendente dalla stechiometria dell’elettrolita a cui si riferisce. Dato che per il principio di elettroneutralità deve valere = 22dove è la “valenza” dell’elettrolita, si definisce la conduttività equivalente dell’elettrolita

(espressa in Ω-1 cm2 g-equiv-1) come:

Λ = ÆEQ = ÃQ 1000 (Eq. 108)

Richiamando la definizione di conducibilità specifica ¼ = «Q)¯¯¯ (¸ + ¸2) ottengo questa espressione per la

conduttività equivalente: Λ = ·(¸ + ¸2) (Eq. 109)

Fisicamente, Λ coincide con la conduttanza che verrebbe osservata tra due elettrodi distanziati da 1 cm3 di soluzione 1N dell’elettrolita in esame. È chiaro che poiché Λ = '() essa varia con la concentrazione e con la temperatura. Nel caso in cui le soluzioni elettrolitiche fossero “ideali”, ovvero non vi fosse interazione tra gli ioni presenti in soluzione, sarebbe sufficiente dividere ¼ per c per eliminare qualsiasi dipendenza della conduttività dalla concentrazione degli elettroliti. Pertanto la dipendenza di Λ dalla concentrazione dovrebbe dipendere solo da e tendere ad un valore limite a diluizione infinita, cioè lim→¯ Λ = lim«→) Λ = Λ¯ (Eq. 110)

Che permette di ricavare la legge della migrazione indipendente di Kohlrausch

Λ¯ = ·(¸ + ¸2) = Ê + Ê2 (Eq. 111)

Dove è stata definita la conduttività equivalente a diluizione infinita in funzione delle conduttività

equivalente dei singoli ioni.

Ê = ·¸ (Eq. 112)

indicando con λ la conduttività equivalente limite dei cationi e con λ2 quella degli anioni. La legge della migrazione indipendente stabilisce che la conduttività espressa come conduttività molare o equivalente di un elettrolita in una soluzione ideale o infinitamente diluita è la somma delle conduttività equivalenti degli ioni che esso genera ed indipendenti dall’elettrolita di partenza. Per questo, la conduttività molare Λ o Λ¯

di un elettrolita si può ricavare per combinazione di dati di Ê relativi ad altri elettroliti o di singoli ioni

Tabella 2 Conduttività molari cationiche e anioniche(Ω cm2 mol-1) a diluizione infinita in acqua

H λ λ2

H+ 349.82 OH− 198.3

Li+ 38.68 F− 55.4

Na+ 50.20 Cl− 76.35

K+ 73.50 Br− 78.14

Rb+ 67.81 I− 76.84

Cs+ 77.28 NO3− 71.46

NH4+ 73.59 ClO4

− 67.35

Ag+ 61.98 CH3COO− 40.90

1/2Be2+ 45.0 1/2SO42− 80.03

1/2Mg2+ 53.08 1/3Fe(CN)63− 100.9

1/2Ca2+ 59.50 1/4Fe(CN)64− 110.5

1/2Sr2+ 59.45 1/2Ba2+ 63.62

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Esempio Valutare la differenza tra le Λ¯ misurate per due sali di potassio e sodio che hanno in comune l’anione, si ottiene sempre lo stesso valore

T=25°C Ë"a Ë"a

Ë"a

KCl 150 KNO3 145 KSO4 153 NaCl 127 NaNO3 122 NaSO4 130 ÌË" 23 23 23

a conduttività equivalente limite espressa come (Ω-1 cm2 g-equiv-1)

Si noti che l’indipendenza dei contributi ionici da Λ¯ è sinonimo di idealità della soluzione elettrolitica, ovvero di assenza di interazioni tra gli ioni, che è una ipotesi ammissibile solo per concentrazione tendente a 0.

La conduttività molare di un elettrolita dovrebbe essere quindi indipendente dalla concentrazione, ma nella realtà delle prove sperimentali questo non accade. Infatti, il numero degli ioni in soluzione potrebbe non essere proporzionale alla concentrazione dell’elettrolita (si pensi a una soluzione di un acido debole). Inoltre gli ioni interagiscono fra loro. Misure di dipendenza dalla concentrazione delle conduttività molari mostrano come sia possibile distinguere due comportamenti distinti per elettroliti forti ed elettroliti

deboli. In termini di conduttività molare, negli elettroliti forti Λ decresce leggermente e linearmente all’aumentare della concentrazione, mentre per gli elettroliti deboli la Λ decresce rapidamente fino a valori molto bassi all’aumentare della concentrazione. Da notare che la classificazione di un elettrolita va fatta tenendo conto anche del solvente. Tali andamenti si possono spiegare solo ammettendo che la mobilità degli ioni diminuisca all'aumentare della concentrazione dell'elettrolita.

Teoria di Debye-Hückel

L'andamento della funzione Λ/SLzS. rende problematica un'agevole misura di Λ¯ per qualunque tipo di elettrolita, perché non è semplice estrapolare con precisione l'intercetta di una curva con l'asse delle

ordinate. Fortunatamente esiste, per gli elettroliti forti, una interessante relazione fra Λ e √S (cioè dalla radice quadrata della soluzione), scoperta empiricamente da Kolhrausch. Gli elettroliti forti sono completamente dissociati in soluzione; un esempio sono gli acidi forti e i solidi ionici. Di conseguenza la concentrazione degli ioni è proporzionale alla concentrazione di elettrolita aggiunto.

Λ = Λ − ^√S (Eq. 113)

Questa relazione è nota con il nome di legge di Kohlrausch. Λè chiamata conduttività molare limite ed è la conduttività molare quando la concentrazione tende a zero, cioè quando gli ioni non interagiscono. Il coefficiente ^ dipende dalla stechiometria dell’elettrolita, più che dalla sua natura chimica.

Questa relazione è stata dimostrata per via teorica da Onsager, sulla base della teoria di Debye e Huckel. Tale relazione, detta equazione di Onsager, ha la seguente forma:

Λ = Λ − (^ + xΛ¯)√S (Eq. 114)

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Nel modello teorico di Debye-Hückel ogni ione è circondato da un'atmosfera ionica (statistica) che ha una carica complessiva opposta a quella dello ione centrale. In soluzione infinitamente diluita, gli ioni singoli sono così distanti l'uno dall'altro che le forze interioniche sono praticamente nulle e non si ha formazione dell'atmosfera ionica. Poichè gli elettroliti forti sono completamente dissociati tutte le variazioni della conduttanza equivalente sono causate dalla variazione dell’energia di interazione.

La deviazione dell’idealità delle soluzioni elettrolitiche è dovuta all’interazione coulombiana tra gli ioni di carica opposta che si attraggono, pertanto anioni e cationi non sono distribuiti in modo uniforme in soluzione: gli anioni si troveranno più facilmente vicino ai cationi e viceversa. Di conseguenza la soluzione rimane elettricamente neutra ma intorno a ciascun ione ci sarà un eccesso di controioni, ovvero di ioni con carica opposta (atmosfera ionica).

Il concetto di atmosfera ionica è utile per spiegare la dipendenza della legge di Kohlrausch da √S. L’atmosfera ionica, alla presenza di un campo elettrico, non è più sferica, ma viene deformata in quanto gli ioni si muovono in una precisa direzione e i controioni circostanti non riescono ad aggiustare istantaneamente la loro posizione. L’effetto detto di rilassamento è uno spostamento del centro di carica dell’atmosfera subito dietro allo ione. Poiché le cariche sono opposte, si ha un ritardo nel moto dello ione stesso. D'altro canto gli ioni dell'atmosfera ionica sono anch'essi solvatati, per cui il loro movimento determina un flusso consistente di liquido in senso opposto allo ione. Quest'ultimo perciò si trova a muoversi contro corrente rispetto all'ambiente che lo circonda, incontrando un'ulteriore resistenza al proprio moto (effetto elettroforetico), e di conseguenza la mobilità degli ioni e le loro conducibilità risultano ridotte

Globalmente, combinando i contributi dei due effetti sopra descritti, il modello di Debye-Hückel-Onsager prende la forma seguente:

Λ = Λ − ^ + xΛ¯√S (Eq. 115)

in cui A e B sono parametri che dipendono dalla temperatura, dal solvente e dallo specifico elettrolita. Il termine A deriva dall’effetto elettroforetico, mentre il termine in B deriva dall’effetto del tempo di rilassamento dell’atmosfera ionica.

^ = G4<,± ∙ ( Í-C4 (Eq. 116)

x = Î (G4<,± - ∙ ( ,Í-)/ (Eq. 117)

doveε è la permittività elettrica del solvente; η è la viscosità, q è un coefficiente che dipendente dal tipo di

elettrolita che vale 0.5 per elettroliti binari. Ad esempio per un elettrolita uni-univalente in acqua a 25 gradi

si ha A=60.2, B=0.229.

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Il modello predice un decremento lineare della conduttività equivalente (o molare, è analogo) contro S , il che è una risposta a quanto ci si era proposti di trovare. Occorre ora verificare se tale modello è in accordo con i dati sperimentali e, se lo è, entro quali limiti di concentrazione delle soluzioni. Nelle figure sottostanti sono illustrati gli andamenti delle conduttività equivalenti per due differenti sali, KIO4 e Na2SO4.

I dati cerchiati sono valori sperimentali prelevati da un Handbook of Chemistry and Physics, mentre le rette tratteggiate sono la predizione del modello di Debye-Hückel-Onsager con A e B calcolati con le formule esplicite date sopra e anch’essi tabulati sugli Handbook

Ciò che emerge è che il modello riproduce correttamente sia il modo in cui Λ(S) tende a Λ¯ per c0 , sia la pendenza della retta, però esso fallisce oltre una certa concentrazione e questo è il caso ad esempio del solfato di sodio. In tale regime di non-idealità delle soluzioni elettrolitiche (causata ad esempio dalla formazione di coppie ioniche) la conduttività decresce in modo meno marcato. In questo caso per il fitting dei dati si utilizzano equazioni empiriche del tipo:

Λ = Λ¯ − (Ï + ÐΛ¯)√S + ÑS (Eq. 118)

oppure

Ò3Ï√)2Ð√ = Ó¯ + ÑS + ÔLnS − ÕS2

(Eq. 119)

Il pregio delle equazioni empiriche è che esse fittano bene i dati, ma d’altro canto manca un modello teorico che interpreti i coefficienti che compaiono in esse. Come test dell’efficacia della prima delle due equazioni empiriche, i dati sperimentali mostrati sopra sono stati fittati con essa (curve rosse con parametro C lasciato iterare liberamente, mentre A e B sono stati tenuti fissi ai valori calcolati secondo Debye-Hückel-Onsager)

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Determinazione dei ∆G, ∆H e ∆S di pile

Sistemi Elettrochimici

I sistemi elettrochimici sono costituiti da conduttori di prima e seconda specie collegati “in serie” e, in particolare, da due conduttori di prima specie (generalmente metallici) e almeno un conduttore di seconda specie (generalmente soluzioni elettrolitiche). I sistemi elettrochimici si distinguono in base alla capacità di fornire energia o di assorbire energia. Definiamo quindi come:

Pila: un sistema in cui una reazione chimica spontanea genera energia elettrica;

Cella elettrolitica: un sistema in cui un generatore di energia elettrica induce una reazione chimica non spontanea

Per convenzione si scrive sempre la pila con l’elettrodo positivo a destra e quello negativo a sinistra. In una pila, all’elettrodo positivo ha luogo la riduzione (catodo) e a quello negativo l’ossidazione (anodo). Nelle celle elettrolitiche il segno degli elettrodi è invertito rispetto a quello delle pile: l’anodo (a cui avviene l’ossidazione) è l’elettrodo positivo e il catodo (a cui avviene la riduzione) è quello negativo

Se abbiamo a disposizione per esempio i tre semielementi

(1) Cu2+

/Cu E° = +0.341

(2) Zn2+

/Zn E° = -0.763

(3) Ag+/Ag E° = +0.799

possiamo ottenere 3 accoppiamenti diversi in cui un semielemento può assumere la funzione di anodo o di catodo in base al potenziale dell'altro semielemento. Si nota che, mentre il semielemento Zn

2+/Zn, che

possiede E° più basso, funziona, in questi esempi, sempre da anodo, il semielemento Cu2+

/Cu funge da catodo nel primo caso e da anodo nel terzo. Se la differenza fosse negativa, occorrerebbe invertire le posizioni, in modo che sia sempre l'anodo a sinistra e il catodo a destra.

Sia nella cella elettrolitica sia nella galvanica, i cationi si muovono sempre dall'anodo verso il catodo, gli anioni viceversa, o per reagire sull'elettrodo o, quantomeno, per equilibrare la densità di cariche positive e negative nella soluzione.

Come Simboleggiare Una Pila

Per una pila si scrive, in una stessa riga, tutte le specie presenti, specificandone lo stato fisico (solido, liquido, gas, soluzione) e le condizioni (pressione, concentrazione)

Pt(s) H2 (g, 1 bar) HCl(aq, 0.1 M) , KCl(aq, 0.2 M) AgCl(s) Ag(s)

U=Utilizzatore

G=Generatore

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Si pongono i conduttori di prima specie agli estremi, con il catodo a dx e l’anodo a sx, riportando in sequenza le specie coinvolte nei rispettivi processi elettrodici, separando specie presenti nella stessa fase mediante virgole. La presenza di una separazione tra due fasi (interfaccia) si indica con una barra verticale. se sono presenti due soluzioni elettrolitiche, la loro separazione mediante setto poroso viene indicata anch’essa con una barra o, in alternativa, con tre punti in verticale.

Zn(s)

ZnSO4 (aq, 0.1 M)

CuSO4 (aq, 0.05 M)

Cu(s)

Ag(s) AgBr(s) KBr(aq, 0.1 M) ⋮ KCl(aq, 0.1 M) Hg2Cl2 (s) Hg(l)

Ag(s) AgBr(s) KBr(aq, 0.1 M) KCl(aq, 0.1 M) Hg2Cl2 (s) Hg(l)

l’eventuale presenza di un ponte salino viene indicata con una doppia barra

Zn(s) ZnSO4 (aq, 0.1 M) CuSO4 (aq, 0.05 M) Cu(s)

AgBr(s) e Hg2Cl2(s) indicano la presenza di tali sali in fase solida, e ciò significa che le soluzioni con cui sono a contatto sono sature.

Il processo chimico globale della pila va scritto nel senso in cui procede spontaneamente, considerando quindi che all’elettrodo di dx deve avvenire la riduzione e a quello di sx l’ossidazione. Per le tre pile sopra riportate si scriverà quindi

AgCl(s) + ½H2 (g)Ag(s) + HCl(aq)

2Ag(s) + 2KBr(aq) + Hg2Cl2 (s)2AgBr(s) + 2Hg(l) + 2KCl(aq)

CuSO4 (aq) + Zn(s) Cu(s) + ZnSO4 (aq)

Considerando che alcune specie sono presenti in forma dissociata, si può anche scrivere:

AgCl(s) + ½H2 (g)Ag(s) + H+(aq) + Cl−(aq)

2Ag(s) + 2Br−(aq) + Hg2Cl2 (s)2AgBr(s) + 2Hg(l) + 2Cl−(aq)

Cu++(aq) + Zn(s)

Cu(s) + Zn++

(aq)

Interfasi e differenza di potenziale

Quando metto a contatto due fasi differenti come nel caso in cui immergo una lamina di rame in una soluzione di solfato di rame, tra le due fasi a contatto si può avere trasferimento di elettroni, i quali però non esistono liberi in soluzione ma vengono scambiati tra le specie che danno luogo ad una semireazione:

Cu 2 + (aq) + 2 e − Cu (s)

Zn 2 + (aq) + 2 e − Zn (s)

All’interfaccia solido/liquido il cambiamento nel modo di condurre la corrente (elettronico o ionico) e quindi la differente velocità del trasferimento di carica comporta l’instaurarsi di una differenza di potenziale elettrico v× (differenza di potenziale interno o di Galvani). All’interno di ciascuna fase il potenziale rimane costante, è solo ed esclusivamente all’interfase che ho una variazione del potenziale. La d.d.p. interfasale

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metallo - soluzione modifica le due velocità di trasferimento elettronico fino ad equilibrarle portando il sistema ad uno stato di equilibrio dinamico.

Il potenziale ΔΦΦΦΦ della singola interfaccia non è però misurabile in quanto la misura dello stesso implica la creazione di nuove interfacce (puntale strumento-metallo e puntale strumento soluzione e quindi in generale avrei una pila). Pertanto ciò che è realmente misurabile è una differenza di potenziale e non un singolo potenziale interfasale.

ΔΦ = ΦØ −ΦÙ

d. d. p = ΦØÜÜ − ΦØÝÜÜ = ©ΔΦØÜÜ − ΔΦÙª − ©ΔΦØÝÜÜ − ΔΦÙª µ. µ. / = ΔΦØÜÜ − ΔΦØÝÜÜ

Altro discorso invece all’interfase tra due soluzioni poste a diretto contatto, aventi differente composizione e /o concentrazione. In questo caso si crea una d.d.p. denominata potenziale di giunzione liquido – liquido

o anche potenziale interliquido. Tale d.d.p. nasce dalla diversa velocità di diffusione dei cationi e degli anioni attraverso l’interfaccia. La diffusione è il fenomeno di trasporto di materia associato all’esistenza di gradienti di concentrazione (attività). Se ad esempio consideriamo due soluzioni contenenti l’elettrolita Þ^ con diversa attività a1 e a2 separate da un setto poroso. Se a2 > a1; Þ e ^− diffondono dalla soluzione 2 alla soluzione 1. Se Þ ha maggiore mobilità di ^− il maggiore flusso dei cationi attraverso l’interfaccia di separazione crea un eccesso di cariche positive dalla parte della soluzione 1 ed un eccesso di cariche negative dalla parte della soluzione 2. Tali eccessi di carica rallentano i cationi ed accelerano gli anioni, fino ad equilibrare i due flussi. Tra i due limiti estremi della zona diffusiva si instaura una d.d.p. dovuta agli eccessi di cariche e che è legata alla differente attività dell’elettrolita nelle due soluzioni ed alla diversa mobilità degli ioni che lo compongono

In presenza di soluzioni diverse (S1, S2) a contatto tra loro attraverso ad esempio un setto poroso la f.e.m, cioè la d.d.p. in condizioni di equilibrio cioè quando non ho passaggio di corrente, dovrà tener conto anche

dei così detti potenziali di giunzione inter-liquido ΔΦint.

...int

.int..

)()()(

)()()(...

21 anodscatodsM

ManodMcatodM

ΦΦΦ

ΦΦΦmef

−=

+−=

Se posso considerare che ΔΦs = 0 ad esempio quando ho che la soluzione è unica o è trascurabile (ΔΦint ≅ 0) per ad esempio l’utilizzo di un ponte salino, è opportuno considerare un elettrodo come riferimento

attribuendogli arbitrariamente un potenziale interfasale nullo e utilizzarlo come riferimento per la determinazione del potenziale di altri elettrodi attraverso la misura della f.e.m. della pila costituita

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dall’elettrodo a potenziale incognito e quello di riferimento. Ciò comporta l’impiego dei potenziali

elettrodici E al posto della quantità ΔΦ

0

0

=∆=∆

=−∆=∆−∆=∆

rifManod

Mcat

Manod

Mcat

ΦΦ

EΦΦΦΦ

L’elettrodo scelto come riferimento e quello ad idrogeno che per convenzione ha appunto potenziale zero a tutte le temperature. L’elettrodo ad idrogeno è costituito da una lamina o una retina di platino immerso in una soluzione ad attività unitaria di H+ e alla pressione di un bar di H2. La superficie spugnosa del platino adsorbe l'idrogeno gassoso; quindi tra l’idrogeno adsorbito all’elettrodo e gli ioni H+ della soluzione si stabilisce così l'equilibrio:

2H+(aq) + 2e− H2(g)

)1,()1,(2 || == +Haaqbarpg HClHPt

2/1/ )(ln

2

2H

HHH f

a

F

RTE

+

+ =

Dove f coincide con la fugacità di H2 che per pressioni non troppo elevate coincide con la pressione del gas stesso. In questo modo è stato possibile stilare una serie di potenziali elettrodici standard (25°C) detta serie

elettrochimica nella quale le coppie redox più ossidanti rispetto all’idrogeno assumono valori di E0 positivi, mentre coppie redox più riducenti assumono valori di E0 negativi.

Leggi di Faraday

All’interfaccia solido liquido avvengono i processi elettrochimici di riduzione al catodo e di ossidazione

all’anodo; entrambi questi processi sono descritti dalle leggi di Faraday:

1 - la quantità di sostanza chimica prodotta o consumata dalla corrente è proporzionale alla quantità

di elettricità (carica, Q) che attraversa il sistema.

ß = z· (Eq. 120)

2 - le quantità di differenti sostanze, trasformate dalla stessa quantità di carica, sono proporzionali al

peso equivalente (PE) delle rispettive sostanze.

CàáC ) = 4àá4 (Eq. 121)

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Dove z rappresenta il numero di moli, il numero di cariche mentre · che è appunto la costante di Faraday è una costante rappresenta la carica necessaria per trasformare 1 grammo equivalente di sostanza.

F = N A⋅e = 6.02252⋅1023 ⋅1.602103⋅10−19 = 96485 C/mol

Equazione di Nernst.

In pratica i semielementi definiti da coppie redox i cui potenziali standard sono elencati dalla serie elettrochimica non vengono sfruttate in condizioni standard, cioe a 298 K e ad attività unitarie

(∼concentrazioni 1M), ma in condizioni quanto mai varie per concentrazione e temperatura. In condizioni differenti da quelle standard, il potenziale effettivo di un elettrodo è funzione, oltre che della natura chimica del materiale che costituisce l'elettrodo, anche della temperatura e della concentrazione degli ioni nella soluzione. In questo caso i potenziali dei semielementi possono essere ricavati dalla legge di Nernst:

âã = âã ¯ +y z äFåæ¥ (Eq. 122)

Dove:

• âã è il potenziale di elettrodico assunto nelle particolari condizioni di temperatura e

concentrazione,

• âã ¯ è potenziale standard della coppia ossidato – ridotto,

• ¾: 8,3145 J/(mol⋅K) (costante dei gas),

• : temperatura assoluta espressa in K,

• z è il numero di elettroni scambiati nella semireazione OX + n e- → RID,

• ·: 96485 coulomb/mol (costante di Faraday)

• ´ã: indica il prodotto delle 'attivita' di tutte le specie che compaiono nella semireazione dalla parte della forma ossidata, elevate al loro coefficiente stechiometrico;

• ´: indica il prodotto delle 'attivita' di tutte le specie che compaiono nella semireazione dalla parte della forma ridotta, elevate al loro coefficiente stechiometrico

Nella forma semplificata l’equazione di Nernst diventa:

âã = âã ¯ +¯.¯éêy Ln ©ãª©ª (Eq. 123)

Questa si ottiene passando da logaritmo naturale a logaritmo decimale (lnA = 2.303logA), considerando T=298 K (25°C) e tenendo conto che le attività possono essere approssimate con le concentrazioni in mol/L

Ad esempio se consideriamo la semireazione

Cu 2 + (aq) + 2 e − Cu (s) âR4 R¯ = 0.341

âR4 R = 0.341 + ¯.¯éêy Ln©&¸ª (Eq. 124)

Dove si considera, unitaria l'attività di Cu metallico, non essendo disciolto nella soluzione.

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Se adesso consideriamo entrambe le semireazioni componenti una pila e la reazione globale nella, ëz → ëz + 2.2 &¸ + 2.2 → &¸ _____________________ ëz+&¸ → ëz + &¸

L’equazione di Nernst che esprime la reazione globale sarà:

â = âR4/R¯ − âíy4/íy¯ + ¯.¯éê Ln £R4¤©íy4ª (Eq. 125)

Nel caso in cui ©&¸ª = ©ëzª = 1Þ il tutto si riduce:

â = âR4/R¯ − âîN4îN¯ = 0.3419 + −0.7618 = 1.1037V (Eq. 126)

Il valore così ricavato corrisponde proprio alla forza elettromotrice abbreviata f.e.m della pila, in questo caso una pila Daniell. Se le concentrazioni differiscono tra loro o non sono unitarie dobbiamo applicare l'equazione di Nernst per calcolare i potenziali non standard e procedere nello stesso modo.

â = âR4/R¯ − âíy4/íy¯ + ¯.¯éê Ln ©¯.)ª©¯.¯)ª (Eq. 127)

â = âR4/R¯ − âíy4 íy⁄¯ = 1.1037 + ¯.¯éê = 1.1332P (Eq. 128)

L’equazione di Nernst descrive l’equilibrio di una reazione redox, se consideriamo due semireazioni e la reazione globale di un caso del tutto generale: _xy → µy2 + .2 S&y2 + .2 →.ây _____________________ _xy + S&y2 µy2 + .ây

All'equilibrio si avrà:

âi~N/òN = âRN /óN (Eq. 129)

âi~N/òN = âi~N/òN ¯ + ¯.¯éê Ln ©~ª©òª¥ (Eq. 130)

âRN /óN = âRN /óN¯ + ¯.¯éê Ln ©Rª3©óªæ (Eq. 131)

âi~N/òN ¯ + ¯.¯éê Ln ©~ª©òª¥ = âRN /óN¯ + ¯.¯éê Ln ©Rª3

©óªæ (Eq. 132)

la reazione globale è descritta dalla costante di equilibrio

= ô¥ ∙õæö ∙3 ≈ ©~ª∙©Rª3©òª¥∙©óªæ (Eq. 133)

Da cui si ricava che

0 = âi~N/òN ¯ − âRN /óN¯ + ¯.¯éê Ln (Eq. 134)

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Ln = (óöN/¥ôN ÷ 2ó3N /æõN÷ -¯.¯éê (Eq. 135)

Questa espressione ci consente il calcolo teorico della costante di equilibrio della reazioni redox (a 298K), noti i potenziali standard e il numero totale di elettroni scambiati nella reazione. Dalla reazione si capisce che quanto più differiscono i potenziali standard tanto più il valore della costante di equilibrio e molto grande o molto piccolo.

Tipi di elettrodo e loro potenziale

Esistono vari tipi di elettrodo, riportati in tabella con relativi esempi e applicazione della legge di Nernst per il calcolo del loro potenziale

TIPO COSTITUZIONE Esempio Esempio di calcolo del potenziale a 298 K

1° specie un metallo immerso in una soluzione di un suo sale solubile

lamina Cu immerso in soluzione CuSO4

â = âR4 R¯ + 0.0591 Ln©&¸ª 2° specie un metallo immerso in una

soluzione di un suo sale poco solubile

lamina Ag immerso in soluzione AgCl/KCl e ricoperto di AgCl

â = âjø jøù¯ + 0.0591 Ln újøR©&2ª

3° specie un metallo inerte immerso in una soluzione contenente una coppia redox

lamina Pt immerso in una soluzione interessata dalla semireazione

Fe3+ +1e-→ Fe2+

â = âG 4¯ + 0.0591 Ln ©·.<ª©·.ª

4° specie un metallo inerte e poroso saturato da un gas immerso in una soluzione contenente la forma ionica del gas

lamina di Pt spugnosa sotto flusso di idrogeno in soluzione con ioni idrogeno

2H+ + 2e → H2

â = âû û4¯ + 0.0591 Ln ©üª/û4

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Termodinamica delle Pile

Una pila è un sistema termodinamico chiuso, in grado di scambiare energia sotto forma di calore (q), lavoro

di volume (wvol) e lavoro elettrico (wel). Per un’analisi termodinamica della pila la trasformazione di energia chimica in elettrica deve avvenire in modo reversibile. In pratica la pila è reversibile se si verificano queste tre condizioni:

• bilanciando la pila con una sorgente di potenziale opposta ad E non deve aver luogo la reazione chimica e la corrente elettrica si riduce a zero;

• se la differenza di potenziale esterna viene abbassata di un infinitesimo la pila produce una piccola corrente;

• se la differenza di potenziale esterna viene alzata di un infinitesimo la pila produce la stessa intensità di corrente, ma di segno contrario.

Se consideriamo una pila sottoposta a una pressione esterna costante pest, e a contatto con una riserva termica (termostato) alla temperatura T, applicando il primo principio della termodinamica a un processo infinitesimo di scarica spontanea della pila possiamo scrivere, per quanto riguarda la sua variazione di energia interna:

µý = µÎ + µI = µÎ + µIQ + µI (Eq. 136)

dove dq rappresenta il calore scambiato con il termostato (negativo nel caso sia ceduto dalla pila).

Se supponiamo ora che tale processo di scarica venga condotto in modo completamente reversibile, allora si avrà che:

• il lavoro elettrico fatto dalla pila (e quindi negativo) nel passaggio della carica positiva dQ dall’elettrodo a potenziale più alto (catodo) a quello a potenziale più basso (anodo) è esprimibile come

−EdQ, con il termine â che indica la differenza di potenziale tra catodo e anodo. Questo è possibile perché la scarica è fatta avvenire opponendo alla pila una differenza di potenziale più piccola della forza elettromotrice E di una quantità infinitesima.

• il lavoro di volume che accompagna il processo di scarica (negativo in caso di espansione) risulta pari a

−pdV, in quanto, per avere la reversibilità del processo meccanico di espansione o compressione che accompagna la scarica, la pressione del sistema deve differire da quella esterna di una quantità infinitesima;

• il calore scambiato è pari a TdS, per definizione stessa di entropia, dove dS è la variazione di entropia associata al processo infinitesimo di scarica e T è la temperatura del sistema, la quale deve differire da quella del termostato solamente di una quantità infinitesima affinché anche lo scambio di calore sia reversibile.

µý = µ − /µP − âµß (Eq. 137)

Tenendo conto delle definizioni di entalpia (H = U + pV), e di energia libera di Gibbs (G = H − TS), l’espressione del bilancio energetico per la pila si trasforma nella relazione:

µþ = −âµß (Eq. 138)

la quale indica che, a temperatura e pressione costanti, il lavoro elettrico ottenibile dal sistema in condizioni di reversibilità (lavoro massimo non di volume) è pari alla variazione di energia libera del processo. La carica infinitesima dQ che attraversa il sistema è a sua volta legata ai processi faradici che hanno luogo ai due elettrodi, e quindi alla reazione globale di pila. Se esprimiamo tale reazione come:

∑=i

iiS0 n (Eq. 139)

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dove Si rappresentano i simboli delle varie specie chimiche coinvolte nella reazione di pila (sia reagenti che prodotti), e ni i relativi coefficienti stechiometrici, considerati quindi con segno positivo per i prodotti e negativo per i reagenti, allora il legame tra le variazioni dei numeri di moli (ni ) delle specie chimiche interessate al processo risulta espresso dall’insieme di relazioni:

yCyC = y4y4 = ⋯ … . = y@y@ = µ (Eq. 140)

dove con µ si è indicato il termine comune dei rapporti dni /ni . Tale termine serve quindi a rappresentare il decorso infinitesimo della reazione, al pari di ciascun dni , in modo però non legato a una particolare specie che prende parte al processo, per cui la grandezza viene indicata come grado di avanzamento della reazione.

La carica dQ può quindi essere messa in relazione, sulla base delle leggi di Faraday, oltre che con i singoli dni , con la quantità µ, considerando che:

µß = z·µ (Eq. 141)

dove n rappresenta il valore comune del numero di elettroni scambiati nelle due semireazioni che compongono la reazione globale di pila, in corrispondenza di una variazione unitaria del grado di avanzamento, cioè in corrispondenza della variazione di n1 moli della specie S1, di n2 moli della specie S2, e così via.

Si ottiene così l’espressione:

µþ = −z·âµ (Eq. 142)

definendo il rapporto

= Δþ (Eq. 143)

che rappresenta quindi la variazione di energia libera associata a una variazione unitaria del grado di avanzamento della reazione di pila, si ottiene infine la relazione:

Δþ = −z·â (Eq. 144)

Tenendo conto della relazione fondamentale della termodinamica relativa all’energia libera di Gibbs:

µþ = −µ + Pµ/ + ∑ µz (Eq. 145)

a T e p costanti e considerando che µz = zµ si ottiene:

µþ = µ∑ µz ovvero Δþ = ∑ z (Eq. 146)

che lega quindi la variazione di energia libera ai potenziali chimici delle specie coinvolte nel processo.

Sulla base dell’espressione Δþ = −z·â e tenuto conto che in generale vale la relazione:

= − (ZZ-ú,y@ (Eq. 147)

e quindi

∆ = − (Z∆Z -ú,y@ (Eq. 148)

si ottiene inoltre:

Δ = z· (ZóZ-ú,y@ (Eq. 149)

per cui, essendo ∆ü = ∆þ + ∆ si avrà:

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Δü = −z·â + z· (ZóZ-ú,y@ (Eq. 150)

Mentre per determinare il valore di Δþ ad una particolare temperatura ( ) è sufficiente effettuare la

misura della f.e.m. della pila, E , a tale temperatura, per determinare le quantità Δ e Δü è invece

necessario effettuare misure di E in un intervallo di temperatura contenente quella considerata.

Operativamente si plottano in grafico i valori di f.e.m. contro i rispettivi valori di temperatura assoluta.

Figura 1 Figura 2

Per quanto riguarda la forma analitica della funzione â questa può avere andamento lineare (Fig.1) o

quadratico (Fig. 2). Un andamento lineare si ottiene quando le capacità termiche &ú@ di reagenti e prodotti

non sono molto diverse tra loro e ciò succede quando si considera un intervallo di temperatura limitato. In

generale le capacità termiche vengono espresse come:

(Z@Z-ú,y@,y = R@ (Eq. 151)

Poiché Δ = ∑ z

(ZZ -ú,y@ = ∑ y@@@ = ∆R

(Eq. 152)

Se si può supporre che ∆&ú sia abbastanza piccolo da poter ritenere Δ praticamente costante allora in

questo caso la funzione assume una forma del tipo

â = ´ + _ (Eq. 153)

e la pendenza

_ = (ZóZ-ú,y@ (Eq. 154)

rappresenta il coefficiente termico della f.e.m. stessa ed è indipendente dalla temperatura. La pendenza

della retta )(TE può assumere un valore positivo, negativo oppure unitario a seconda della tipologia di

pila.

Se l’andamento di E contro T non risultasse lineare (Fig. 2), ma presentasse una significativa curvatura

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anche in un ristretto intervallo di temperature, Δ non può essere ritenuto costante; in tal caso, il

coefficiente di temperatura della pila deve essere determinato come pendenza della retta tangente alla

curva rappresentativa della funzione â in corrispondenza del particolare valore di temperatura

considerato. In questo caso sarà necessario applicare la regressione supponendo che l’equazione che

soddisfa i dati sia di tipo parabolico:

â = ´ + _ + S (Eq. 155)

ed il coefficiente termico della pila sarà dato da

(ZóZ-ú,y@ = _ + 2S (Eq. 156)

Sulla base della relazione ∆þ° = −¾z, è di conseguenza possibile ottenere anche il valore della costante di equilibrio del processo globale, o di reazioni coinvolte in tale processo (in particolare prodotti di

solubilità, costanti di complessamento, ecc.). La determinazione del ∆G di reazione permette inoltre di determinare i coefficienti di attività di specie che prendono parte al processo.

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Appendice A: cenni alla strumentazione in uso nelle esperienze

Conduttimetro digitale

Storicamente la misura di conduttività di una soluzione elettrolitica si esegue in corrente alternata

(normalmente alla frequenza di 1000 Hz) in modo da evitare polarizzazione o addirittura processi

elettrolitici agli elettrodi. Però una soluzione non è un conduttore puramente ohmico. I circuiti non

puramente ohmici percorsi da corrente alternata risentono di effetti induttivi e/o capacitivi che sono

funzione della frequenza della corrente impiegata. Cioè, mandando una tensione alternata sulla cella di

conduttimetrica e misurando la corrente, la risposta del sistema non e di una resistenza ohmica, ma di una

impedenza Z, cioè la somma vettoriale della resistenza ohmica R e di termini resistivi corrispondenti agli

elementi capacitivi e induttivi presenti nel circuito, rispettivamente reattanze capacitive XC e reattanze

induttive XL.

Poiché si può considerare la cella di conduttività equivalente ad un circuito RC in parallelo, lo strumento

storico per le misure di resistenza di una soluzione elettrolitica, il ponte di Kohlrausch, permetteva di

effettuare la misura bilanciando il parallelo RxCx della cella variando un parallelo campione RcCc fino ad

azzerare il modulo e lo sfasamento della corrente alternata nel ramo centrale del ponte.

Figura.1: ponte di Kohlrausch

I conduttimetri moderni di routine, basati sugli amplificatori operazionali, determinano direttamente la

resistenza ohmica della soluzione R (e quindi il suo inverso, la conduttanza C) nel modo concettualmente

più semplice, cioè mandando una tensione costante e nota con precisione, e rilevando la corrente, cosa

possibile perché contemporaneamente si riesce a minimizzare l’effetto delle componenti capacitive del

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sistema. Gli amplificatori operazionali sono sensibili alla fase e sfruttano la differenza di fase dell'

impedenza di cella: la componente resistiva (o reale) è in fase, mentre la componente capacitiva è 90 gradi

fuori fase, rispetto alla corrente Iocosϖt che circola nella cella.

Inoltre i conduttimetri moderni permettono di routine:

• l’impostazione della costante di cella, con la quale lo strumento calcola e fornisce direttamente la

conduttivita κ

• la correzione della misura riportandola dalla temperatura attuale ad una temperatura di riferimento

• Hanno sul retro una uscita che fornisce una differenza di potenziale adatta per riplatinare la cella di

misura

Si chiama cella conduttimetrica l’insieme comprendente i due elettrodi, generalmente di platino, attraverso

i quali viene trasmessa al liquido in esame la corrente di misura, le parti isolanti in vetro o plastica che

delimitano la porzione di soluzione percorsa dalla corrente di misura e infine le ulteriori parti, isolanti e

non, che servono per l’unione meccanica delle parti principali, per la tenuta ermetica, per il collegamento al

circuito esterno. Qualsiasi cella conduttimetrica è caratterizzata dalla propria costante di cella L/S (in cm-1)

o S/L (in cm), e, nel caso di forme geometriche semplici, teoricamente potrebbe essere calcolata dalla

lunghezza L e sezione attiva S del conduttore, mentre nel caso di forme irregolari, si dovrebbe sviluppare un

integrale. Pero, soprattutto a causa della geometria non ideale delle linee di corrente e dell’uso di superfici

conduttrici complesse e molto meglio operare una taratura misurando la C di una soluzione campione di cui

e nota con precisione la κ e utilizzando la κ/C = (L/S)

Figura A.2: Conduttimetro digitale

Figura A.3: cella conduttimetrica

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Il conduttimetro in uso (Figura A.4) ha le seguenti funzionalità di interesse (i numeri corrispondono allo schema di Figura A.5):

4- CELL CONSTANT: aggiustamento della costante di cella

6- CELL K: pulsante per la lettura diretta della costante di cella impostata con la manopola 4

12- MEAS.: misura della conducibilità specifica della cella

14 – 15 - RANGE UP and RANGE DOWN: pulsanti per la selezione della scala di misura della conducibilità, ad ogni impulso la scala aumenta o diminuisce di una decade.

Per le misure di conducibilità si dovrà regolare a 1 il comando corrispondente alla costante di cella, il valore di quest’ultima sarà infatti determinato alla fine dell’esperienza mediante la soluzione di KCl a conducibilità nota.

Figura A.4: Conduttimetro

Figura A.5: Schema del pannello frontale del conduttimetro di Figura 4

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MULTIMETRO Un multimetro (Figura A6) è uno strumento in grado di misurare più grandezze elettriche :

- Tensioni, sia continue (DC) che alternate (AC) - Correnti, sia continue (DC) che alternate (AC) - Resistenze

Figura A.6: Pannello frontale di un multimetro da banco. I pulsanti della prima riga permettono di

selezionare la grandezza da misurare.

Il componente base di un voltmetro elettronico è un amplificatore operazionale, che ha

idealmente impedenza di ingresso infinita e quindi le correnti che entrano nei terminali di ingresso

sono nulle. Perchè la misura di f.e.m. sia corretta, il voltmetro deve avere un’impedenza

d’ingresso Ri molto più elevata della resistenza interna Rp della pila di cui si vuole misurare la f.e.m.

Quindi, per mantenere l’errore sotto lo 0.1%, l’impedenza d’ingresso dello strumento deve essere

maggiore della resistenza della sorgente di un fattore ≥ 1000. Ad esempio, i mVmetri/pHmetri di

routine per elettroanalisi, che devono funzionare con gli elettrodi a vetro la cui resistenza è ~ 109

Ω, devono avere Ri almeno di 1012

Ω. Per misure fini di termodinamica occorrono strumenti di

qualità ancora superiore (tipicamente 1014−1015 Ω), molto costosi e difficilmente reperibili, specie

se insieme all’altissima impedenza si pretende anche una elevata precisione (ad esempio i

centesimi di mV) su un fondo scala molto ampio (ad esempio 2 V).

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Due differenti modelli di multimetro da banco saranno usati nelle esperienze di laboratorio. In una esperienza si deve misurare una forza elettromotrice (differenza di potenziale in condizioni di equilibrio), e dunque il multimetro è usato come voltmetro. Nel caso di misure su pile la tensione misurata è continua (DC).

Il voltmetro è essenzialmente costituito da un galvanometro collegato in serie con una resistenza, e la d.d.p. che viene misurata è il prodotto della corrente rilevata dal galvanometro per la resistenza complessiva dello strumento.

Questo fatto mette in luce un aspetto generale delle misure di grandezze elettriche: per compiere la misura è necessario inserire lo strumento di misura, in serie o in parallelo, all’interno del circuito che si vuole misurare. La conseguenza è che si modifica in parte il circuito stesso introducendo i cosiddetti effetti di carico. Essi rappresentano un errore sistematico in questo tipo di misure e gli moderni strumenti sono progettati in modo tale da minimizzare tali errori.

Si consideri ad esempio la misura di f.e.m di una pila: misurando una d.d.p. dell’ordine di 1 V mediante un

voltmetro la cui resistenza sia di 104 Ω, si ha passaggio di una corrente dell’ordine di 0.1 mA, che risulta troppo elevata per supporre che la pila si trovi in condizioni di equilibrio. Attualmente, per la misura di una d.d.p. in generale, e della f.e.m. di una pila in particolare, si utilizzano voltmetri elettronici nei quali viene sfruttato il potere amplificante di alcuni componenti elettronici. In sostanza, anche questi voltmetri operano misurando la corrente che li attraversa e moltiplicandola per la loro resistenza, con la differenza,

rispetto ai voltmetri non elettronici, che essendo tale resistenza molto più elevata (maggiore di 1011 Ω), la

corrente che fluisce risulta estremamente più piccola (dell’ordine di 10−11 A per d.d.p. dell’ordine di 1 V). La rilevazione di correnti così piccole è resa possibile dall’uso di un sistema di amplificazione, che crea una corrente in uscita (quella che viene effettivamente misurata) proporzionale a quella incognita (che costituisce la corrente di ingresso del sistema di amplificazione), ma più elevata di questa ultima di alcuni ordini di grandezza. In pratica, con un sistema di questo tipo si può effettuare la misura della f.e.m. di una pila con la certezza che la corrente che fluisce nella stessa è sicuramente molto piccola, in termini

quantitativi nell’ordine di 10−11 A.

Nell’esperienza di determinazione del coefficiente di Joule-Thomson un multimetro portatile (o tester, Figura A8) è usato per misure di resistenza. In tal caso lo strumento fa fluire una corrente di intensità nota attraverso la resistenza incognita e ne misura il valore mediante la misurazione della corrispondente caduta di potenziale. Nel set up sperimentale (Figura 3) lo strumento di misura è collegato ad uno switch a 3 posizioni. Le posizioni (1) e (2) corrispondono alla misurazione della resistenza dei termistori 1 e 2 rispettivamente. Tuttavia, poiché le correnti utilizzate per la misura sono piuttosto elevate (nell’ordine dei mA) è importante effettuare la misurazione in un tempo non superiore ai 5 secondi e poi aprire il circuito posizionando lo switch in posizione (0). Infatti se la corrente continuasse a fluire provocherebbe un riscaldamento del termistore falsando completamente la misura della temperatura che si vuole effettuare.

Figura A.8: Misura di resistenza con il

multimetro digitale portatile

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Figura A.7: apparato sperimentale per le misure di

resistenza nell’esperienza di determinazione del

coefficiente di Joule-Thomson

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ALIMENTATORE

In genere, il compito di un alimentatore è quello di fornire ad un dispositivo una corrente od una tensione prefissata. Per ottenere questo, normalmente un alimentatore trasforma una tensione di un certo tipo e valore in un' altra avente caratteristiche adeguate alla apparecchiatura da alimentare; il caso più comune è quello in cui si parte da una tensione alternata (quasi sempre i 220 V di rete) per arrivare ad una tensione continua di basso valore (ad esempio 5 V DC). Nello strumento disponibile in laboratorio (Figura A.9) i valori di tensione e corrente erogati, sono regolabili mediante le manopole e visualizzati sui rispettivi display.

Figura A.9: Alimentatore

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TERMISTORI

Un termistore (Figura A.10) è costituito da un materiale semiconduttore (ad esempio da ossidi di metalli di transizione sinterizzati o fusi).

Figura A.10: esempi di termistori commerciale

Un termistore presenta la caratteristica di avere una resistenza elettrica che varia molto con la temperatura, secondo la relazione:

=T

ARβ

exp (Eq. 157)

dove β è una quantità positiva (espressa in K) denominata costante caratteristica del termistore,

dipendente dal materiale da cui è costituito, ed A (espressa in Ω) è denominata costante di forma, ed è una quantità positiva dipendente dalla forma e dalle dimensioni del conduttore stesso.

Va osservato che poiché la grandezza β è positiva, i materiali semiconduttori sono caratterizzati da un

coefficiente termico della resistenza elettrica, TR dd , di segno negativo, per cui la loro resistenza

diminuisce all’aumentare della temperatura, al contrario di quanto accade per i conduttori di tipo metallico. Ciò che interessa nell’utilizzo specifico è comunque il fatto che per i semiconduttori tale coefficiente termico risulta piuttosto elevato in valore assoluto, in particolare molto più grande di quello che caratterizza, ad esempio, le resistenze di tipo metallico, per cui i termistori risultano estremamente più sensibili di queste ultime alla variazione della temperatura.

L’utilizzo di termistori al posto di normali termometri a mercurio è legato al fatto che le variazioni di temperatura da determinare risultano piuttosto piccole, generalmente non superiori a 1K, per cui è necessaria una sensibilità elevata. I termistori, inoltre, possiedono una bassa capacità termica, essendo costituiti da piccoli pezzetti di materiale semiconduttore, per cui si portano rapidamente alla temperatura da determinare; in tal modo essi forniscono una elevata velocità di risposta e risultano quindi adatti per rilevare il raggiungimento delle condizioni di stazionarietà del sistema ogni volta che vengono modificate le condizioni operative. Al contrario, i termometri a mercurio non presentano le stesse caratteristiche, essendo costituiti, in particolare se molto sensibili, da una quantità di mercurio piuttosto elevata.

L’utilizzo di un termistore per la determinazione della temperatura richiede che siano noti i valori delle due

costanti β ed A; questi possono essere determinati mediante taratura del termistore, la quale può essere eseguita misurandone la resistenza R per vari valori di temperatura.

L’uso di una coppia di termistori caratterizzati dallo stesso valore di β , ma normalmente da differenti valori di A (termistori accoppiati), permette, in particolare, una più agevole determinazione della differenza di temperatura T∆ . Infatti, sostituendo a R1 e R2 le relazioni che collegano tali grandezze alle temperature T1

e T2 , tenendo conto che i due termistori sono caratterizzati dalla stessa costante β ma da differenti valori della costante di forma A1 ed A2 , facendo il rapporto si ottiene:

( )

∆+∆=

−=TTT

T

A

A

TT

TT

A

A

R

R

112

1

21

12

2

1

2

1 expexp ββ (Eq. 158)

Page 64: Chimica Fisica II Dispense di LABORATORIO · Dispense di Laboratorio – Chimica Fisica II, A.A. 2012-2013 Pagina 5 di 64 Si definisce quindi: • Incertezza assoluta (errore assoluto):

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Noti i valori della costante caratteristica del termistore, β , della temperatura di ingresso del gas, T1 , e del

rapporto tra le due costanti di forma, 21 AA , è quindi possibile determinare la variazione di temperatura

del gas, ∆T, dalla misura delle resistenze dei due termistori, R1 e R2 .

Il rapporto 21 AA viene determinato effettuando la misura delle resistenze dei due termistori alla stessa

temperatura, °1R e °2R ; la relazione sopra ricavata indica, infatti, che per 0T∆ = si ha:

°°

=2

1

2

1

R

R

A

A (Eq. 159)

Il valore della costante β viene invece fornito, ed è stato determinato come pendenza della retta ottenuta

riportando in grafico ln R contro T1 per ogni coppia di termistori disponibili in laboratorio.

È possibile semplificare il calcolo di T∆ tenendo conto del fatto che quest’ultimo risulta in genere molto piccolo rispetto a T1 , per cui si può scrivere:

∆=2

12

1

2

1 expT

T

A

A

R

R β (Eq. 160)

e quindi:

=∆2

1

2

12

1 lnA

A

R

RTT

β (Eq. 161)

Dopo aver ricavato in questo modo il valore di T∆ , si può successivamente verificare se esso risulta effettivamente trascurabile rispetto a T1 .

L’approssimazione introdotta, qualora non trascurabile, può essere eliminata utilizzando l’equazione rigorosa:

( )

∆+=∆2

1

2

111 lnA

A

R

RTTTT

β (Eq. 162)

in modo da ottenere un nuovo valore di T∆ inserendo nel membro di destra quello ottenuto in precedenza. Questo calcolo iterativo può essere ripetuto più volte, fino a che il nuovo valore di T∆ ottenuto risulta praticamente uguale a quello inserito nel membro di destra.