Charlie Hebdo. Il mondo da rammendare

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Charlie Hebdo. Il mondo da rammendare Instant book dei Giovani Democratici. Prefazione di Lia Quartapelle, Camera dei Deputati.

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Instant book dei Giovani Democratici

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Charlie Hebdo.

Il mondo darammendare

Instant book dei Giovani Democratici.Prefazione di Lia Quartapelle, Camera dei Deputati.

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InDICe

Prefazione Lia Quartapelle, Camera dei Deputati, Commissione esteriIntroduzione Michele Masulli, Responsabile esteri Giovani Democratici

Charlie Hebdo Se la Repubblica riscopre le sue frontiere Benedetta Rinaldi Ferri

Charlie Hebdo: cosa difendono gli europei? Luigi Daniele

Je suis ou je ne suis pas Charlie? Lucia Mantovani

Allarghiamo lo sguardoMa non c’è alternativa al dialogo Maria Teresa Santaguida

Progresso e progressismofra lotta di classe e scontro di civiltà Rosa Fioravante

AAA Cercasi la Ragione Alessandro Pirisi

Altrove nel mondoStati Uniti tra terrore ed esigenze di pace Vincenzo Mongelli

Il punto sul conflitto israelo-palestinese,verso le elezioni israeliane di marzo Roberta Capone

Guerra al fondamentalismo islamico:fronte culturale e fronte armato Caterina Cerroni

La resistenza di Kobane Oreste Sabatino

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Charlie Hebdo. Un mondo da rammendare Prefazione4 5

Il 2015 è cominciato senza fare economia di avvenimenti, orrori ed emozioni fortissimi che impongono una riflessione profonda. Una riflessione che ha molto a che fare sia con le regole che ci dobbiamo dare all’interno della nostra società che con i nostri rapporti internazionali e la nostra presenza economica, culturale e militare nel mondo. All’organizzazione dei Giovani Democratici va il merito di avere saputo prontamente mettere a frutto le proprie risorse – le energie e le competenze al suo interno – per offrire un importante contributo al dibattito, attraverso questo instant book che auspico possa trovare la più ampia diffusione e attenzione.

Il tema centrale di questa pubblicazione è indubbiamente quello che tutti ha sconvolto una settimana dopo l’inizio dell’anno. Atti di terrorismo atroce hanno colpito Parigi, cuore geografico e punto nevralgico della storia e dell’attualità politica europea. Dei criminali – che si definiscono islamisti, ma che fanno un torto in primis al loro credo nell’usare questa definizione – hanno ucciso delle cittadine e dei cittadini innocenti.

Simili barbarie erano già accadute nel 2012 a Tolosa e lo scorso 24 maggio a Bruxelles. Ad essere colpiti furono allora rispettivamente una scuola e un museo ebraici. Si palesava allora l’incubo dell’antisemitismo in europa. Lo stesso incubo rievocato nell’eccidio di Parigi, con il tragico epilogo che ha condotto uno degli attentatori a scegliere il supermercato di una catena kosher come luogo in cui prendere e uccidere degli ostaggi. L’attentatore pare che avesse nel mirino un asilo ebraico e solo per

una fatalità, costata la vita a un’agente di polizia, è stato dirottato dal commettere una strage di bambini ebrei.

Rispetto agli altri due attacchi terroristici precedenti, tuttavia, i fatti di Parigi presentano un nuovo, importante elemento che, senza nulla aggiungere in termini di gravità e d’infamia, necessita di essere considerato e approfondito. Il primo bersaglio terrorista, questa volta, è stato un periodico settimanale satirico francese. Ad essere colpito è stato Charlie Hebdo, dallo spirito caustico e irriverente, simbolo del valore supremo della libertà d’espressione, che consente di dileggiare la politica, di irridere il potere e anche la religione. Un valore, quello della libertà, che l’europa ha affermato proprio a Parigi con la Rivoluzione francese – facendone poi legge, costume e immagine di se stessa.

noi europei ci viviamo dentro da due secoli, al punto che a moltissimi di noi sembra una condizione naturale ed ovvia. non ci rendiamo conto che in pochi altri posti del pianeta è garantito un simile livello di libertà politiche, religiose, civili ed economiche che si uniscono a un’elevata condizione di reddito, di consumi e di Stato sociale.

È dunque per queste caratteristiche e per la complessiva attrattività del sistema europeo – che induce ogni anno milioni di persone a entrare nel nostro spazio di libertà, sicurezza e giustizia – che un simbolo della capacità di vivere liberi, e ridere liberi, è stato brutalmente attaccato. Un atto vigliacco, per tentare di manipolarci, di cambiare i nostri

PRefAzIone

onoRevoLe LIA QUARtAPeLLeCommissione affari esteri e comunitari

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Charlie Hebdo. Un mondo da rammendare Prefazione6 7

guerre – dovrebbe averci insegnato che nulla accade abbastanza lontano per non avere effetto sul nostro Paese e sulle nostre vite.

eppure è una tentazione, quella dell’indifferenza o della chiusura, che sembra purtroppo dominare il cuore e la testa di alcuni di noi. Certo, sconfiggere un’ideologia in armi è un’operazione difficile e dispendiosa. La guerra per procura, i bombardamenti contro un sistema statuale aggressivo come l’Isis non sono abbastanza. Ci si dovrà impegnare direttamente, perché il non aver trattato i problemi conseguenti alle Primavere arabe non li ha risolti, li ha peggiorati. Ciò evitando però di ripetere gli errori del post-11 settembre. occorre identificare con chiarezza il nemico, mettere a fuoco le contrapposizioni e le indicibili alleanze che sono nate all’interno del mondo islamico, e avere il coraggio di trarne le conseguenze anche nell’individuare gli interlocutori politici affidabili e nel valutare l’opportunità delle nostre partnership economiche.

I fatti di Parigi testimoniano ancora una volta quanto sia necessario che l’Europa sia presente come

soggetto politico sul fronte internazionale.

Una sfida su cui Matteo Renzi ha scommesso proponendo e ottenendo la nomina di federica Mogherini come Alto rappresentante dell’Unione europea. Per vincerla, però, avremo bisogno dell’impegno di tutti coloro che credono nel percorso d’integrazione europea e che agiscono in difesa dei valori che ad esso hanno dato origine. Il contributo dei Giovani Democratici, anche attraverso la pubblicazione di questo instant book, è in questo senso puntuale ed esemplare.

comportamenti e le nostre idee. Un’arma psicologica attraverso la quale si cerca di renderci insicuri e di dividere le nostre società.

La violenza di un’ideologia in armi – che fa ignobilmente del Corano uno strumento di guerra – vuole colpirci, spaventarci e distruggere chi siamo. La marche républicaine ha dimostrato invece che possiamo rispondere con una forza straordinaria: la consapevolezza che si può essere uniti nelle diversità, e si può camminare fianco a fianco e lavorare insieme per cambiare il mondo.

non è idealismo, è il risultato concreto di un preciso impegno che si erano dati i padri fondatori dell’Unione europea. Un’eredità che oggi dobbiamo difendere più che mai e che dobbiamo cercare di trasmettere e assicurare anche oltre i nostri confini, nelle aree del mondo dilaniate dalla guerra.

Penso alla Siria e all’Iraq, oppressi dall’Isis. Alla Libia, sospesa ormai da anni in una situazione di incertezza istituzionale, a cui le responsabilità di un interventismo affrettato non sono estranee. e penso alla nigeria, che con l’inizio del 2015 è entrata nel sesto anno da quando l’organizzazione terroristica Boko Haram sta conducendo una rivolta per stabilire un sedicente stato islamico nel nordest del Paese, con forti tendenze espansionistiche in particolare nei vicini niger, Chad e Camerun.

Proteggere, valorizzare e promuovere il nostro sistema deve essere la nostra missione. La marche républicaine di Parigi, ma anche le piazze di Milano, di Roma, di Berlino, o di Amsterdam e di Londra, sono state una prima, importante risposta per

fare dell’europa per sempre il simbolo di chi non lascia vincere il terrorismo, e afferma con tutti gli strumenti i valori della libertà e dei diritti.

I simboli non bastano, però. Come europei, dobbiamo restare saldi e fermi nei nostri valori, pur affrontando la minaccia fondamentalista. È un dovere – per noi democratici e progressisti – quello di difendere il nostro sistema aperto e democratico, senza lasciarci guastare dai desideri securitari post-11 settembre, ma anche senza lasciarci contagiare dalla sindrome di Monaco. Guai a fare prevalere la pavidità di chi invita ad apporre limiti e confini alla libertà d’espressione in casa nostra. e guai a voltarci dall’altra parte – come se non fosse affar nostro – di fronte all’avanzata di un’ideologia in armi che scanna e spara con una fede che è soltanto fede di dominio, e che ha molto in comune con le ideologie totalitarie che hanno reso il novecento il secolo “meno umano” della storia.

Sarebbe imperdonabile, infatti, se il tragico epilogo degli attentati di Parigi ci inducesse a distrarci e a trascurare la catastrofe che ha generato centinaia di migliaia di vittime e decine di milioni di profughi in Siria, in Iraq, in Libia, in nigeria, in Somalia, nello Yemen e in altri luoghi oppressi dall’avanzata della forza distruttrice jihadista.

Nessun anno quanto il 2014 – che ha registrato il record di sfollati e di migranti in fuga dalle

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INTRODUZIONE

MICHeLe MASULLIResponsabile europa ed esteriGiovani Democratici

“Quando si rompono le penne, non rimangono che i coltelli. Poche restano le scelte: il silenzio, il carcere o la macchia.

In tutti questi casi la vittima è il pensiero.”Mohamed Talbi, intellettuale tunisino.

nella Storia accadono eventi di particolare significatività: sono quelli in grado di svolgere una funzione periodizzante; tali sono il loro valore e ruolo, da rappresentare un’epoca, restituirne lo “Spirito del tempo”, segnare un prima e un dopo. L’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, ad esempio, presenta caratteristiche così riconoscibili che riproduce bene una determinata fase storica nella vita della società americana, nella politica interna ed estera del Paese, nei rapporti tra USA e Medio oriente.

non sappiamo se i tragici avvenimenti di Charlie Hebdo, nella loro drammaticità, segneranno un punto di svolta nella storia della nazione francese e della civiltà europea; se sarà, quel 7 gennaio 2015, un nigro notanda lapillo nel calendario dei popoli del Vecchio continente oppure un giorno destinato ad essere sommerso dal fluire degli accadimenti.

Ad oggi, a pochi giorni dall’attentato francese, possiamo dire che vasto è stato l’impatto che l’azione di fuoco nella redazione della rivista satirica d’oltralpe ha prodotto nell’immaginario collettivo europeo, e non solo: l’onda poderosa di emozione che si è riversata nelle piazze di discussione fisiche e virtuali ha raffigurato un’opinione pubblica continentale risvegliata, come da un torpore, e che si ritrova debole, vulnerabile, smarrita nei suoi fondamenti valoriali.

La risposta migliore che i partiti politici europei potrebbero dare al terrorismo islamico è ricondurre l’Europa a fare l’Europa.

non la ripresa di prospettive di esportazione della democrazia lancia in resta, non il recupero delle letture facili dello scontro di civiltà, non l’assimilazione della politica estera ad una visione messianica di purificazione moralizzatrice del mondo, quanto la valorizzazione dei caratteri europei di “potenza civile”, la tutela dei diritti, l’ampliamento della democrazia, la promozione della giustizia costituiscono, in alternativa alla mera logica della forza, il viatico più robusto affinché l’Unione europea possa favorire pace e sicurezza al suo interno, ed oltre i suoi confini, e sia in grado di svolgere una funzione di equilibrio in un ordine di governo globale soggetto ad una rischiosa transizione di potere verso un instabile assetto multipolare.

Le sfide che le vicende parigine evidenziano in modo doloroso, quindi, non riguardano solo le dittature più cruente, le democrazie iniziali o le periferie della terra in preda ad efferati conflitti etnici e religiosi.

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affliggono aree intere del globo, centinaia di milioni di persone abbandonano ogni anno la propria casa per fuggire la povertà, la violazione dei diritti umani o catastrofi naturali, revanscismi etnici e religiosi di comunità umiliate bramano affermazione, le materie prime, le fonti di approvvigionamento energetico, come le quote commerciali e i tassi di cambio, sono oggetto di aspra contesa, organizzazioni criminali macinano profitti impressionati su attività illegali transazionali e formazioni terroristiche seminano morte e paura, gli equilibri ambientali e climatici mostrano evidenti e pericolose crepe.

La politica è, perciò, chiamata a dotarsi di forme, strumenti e programmi che siano in grado di ricucire, con la pazienza del dialogo e la determinazione della volontà, un mondo logorato.

Sta ai partiti socialisti e democratici sentire alto il valore di questa sfida. In connubio con le virtù della diplomazia e le potenzialità della cooperazione, la missione di dare ordine e direzione al futuro dei popoli è tutt’altro che improba.

nel nostro piccolo, intendiamo farci carico dello stesso compito. Da qui, “Charlie Hebdo. Il mondo da rammendare”.

D’altronde, per ambire a cambiare la realtà, è, innanzitutto, necessario comprenderla.

Buona lettura.

Gli interrogativi della convivenza in un mondo sempre più plurale interessano, allo stesso modo, l’Italia e l’europa: nelle morse della crisi economica, nel disfacimento delle reti sociali e dei suoi soggetti organizzati, in una società stanca, ripiegata nella tutela di risultati acquisiti, più che impegnata nell’individuare nuovi obiettivi da guadagnare, l’apertura allo straniero incute timore, mentre risulta rassicurante costruire un muro o provvedere a rialzare frontiere già abbattute. Si forma, così, quel brodo di coltura da cui le forze nazionaliste e xenofobe traggono alimento; si diffondono, di conseguenza, valutazioni trite, basate su concetti ben noti, e per questo confortanti, e si rinuncia a guardare dentro a fenomeni sempre nuovi; la storia del conflitto tra identità culturali e religiose contrapposte, ad esempio, non lascia neanche intravedere che, quella in corso, è piuttosto una guerra interna all’Islam, dove le ragioni politiche dominano le motivazioni religiose, che anzi subiscono un processo di “deculturazione”, per dirla con olivier Roy, un’evoluzione che impoverisce la religione, poiché la scinde dalla cultura e la rende adeguata ai tempi della globalizzazione e ai bisogni individuali, anche radicali, di spiritualità e ricerca di senso.

È per cercare di svolgere un’analisi delle questioni che stanno alle radici e a latere dei fatti di Parigi che i Giovani Democratici pubblicano il loro secondo ebook

sulla politica europea ed estera.

Temi quali le reazioni francese e continentale agli attentati, e le rispettive contraddizioni, la libertà di espressione e i suoi eventuali limiti, il degrado sociale in cui crescono le seconde generazioni di immigrati e la riforma dei modelli del vivere insieme, le domande sulle basi valoriali dell’europa e la strategia delle organizzazioni dell’estrema destra, il rapporto con l’Islam e la funzione delle religioni nelle società odierne, l’ampliamento delle disuguaglianze e la svalutazione del lavoro, spesso obnubilati dalle narrazioni delle scontro di civiltà, le dinamiche intricate del complesso e frammentato quadro geopolitico mediorientale e il ruolo assunto dalla politica estera americana ed europea, la rilevanza della questione israelo-palestinese per la stabilità dell’area e le nuove frontiere del contrasto culturale e militare al fondamentalismo islamico sono al centro degli sforzi di approfondimento di questo volume. Vuol essere, il presente, una prova di resistenza alle tentazioni dell’indifferenza e della chiusura, che Lia Quartapelle indica nella Prefazione, e che affliggono già parte importante del dibattito pubblico europeo.

osserviamo un mondo in preda ad innumerevoli conflitti, tutti interconnessi e di gravosa risoluzione; quasi si trattasse di un sistema dove il numero delle incognite è superiore a quello delle equazioni. I poteri economici e finanziari si fanno gioco delle masse del lavoro e delle garanzie dello Stato sociale, guerre sanguinose

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Se LA RePUBBLICA RISCoPReLe SUe fRonTIeRe

BeneDettA RInALDI FeRRIPD Ponte MilvioRoma

Un terrore lunghissimo, un terrore completo. Non è mancato nulla:i vignettisti, il gendarme, gli ebrei. La libertà, lo stato, e ancora gli ebrei. L’identità, l’unità, la fratellanza. E poi il pianto, il coro, la piazza, la marcia. La bandiera.

Chi credeva sepolto il tricolore ha dovuto ricredersi: l’11 e il 12 gennaio abbiamo visto sfilare ai quattro angoli dell’hexagone folle di proporzioni sconosciute ai nostri tempi, in fiera rivendica di un patriottismo che fino a qualche mese fa avremmo archiviato come antistorico, figlio esausto di una retorica passata, fratello sano di devastanti nazionalismi, quindi, nemico giurato delle magnifiche sorti europee.

Chiamata alla prova più dura, la francia ha stupito tutti i cantori della contemporaneità, ha interrogato le più comuni categorie d’analisi dell’ultimo decennio riacquistando consapevolezza della sua singolarità.

Ma, c’è un ma. Perché la rinnovata consapevolezza sia nuova, appunto, e comprensiva degli insegnamenti dell’attualità, sarebbe sbagliato, oltre che riduttivo, non cogliere tutta la contraddizione interna di quei giorni e i possibili riflessi post-traumatici. Una contraddizione che si origina nell’incapacità dei valori repubblicani di trovare piena cittadinanza in quelle banlieues che sono a maggioranza musulmana.

La République, principio collettivo di organizzazione della vita sociale, si trova oggi costretta al confronto con le sue frontiere non statuali: le comunità, religiose nel caso, unici aggregati capaci di interpretare la marginalità delle nuove generazioni (non integrate, salvo le solite

riuscitissime eccezioni che confermano la regola) e ricostruire un quadro d’insieme. Aggregati che l’impostazione assimilazionista ha sempre respinto, in favore di un concetto più comodo quale quello di “popolazione”.

Sarebbe infatti esercizio di corto respiro pensare che il tricolore, nello splendore conferitogli da un fiume umano fuori misura, possa rimandare a un’idea della francia granitica e definitivamente scolpita nella storia: ancor di più pretendere che l’unità statuale, con la religio civile che la sottende, possa più del sentimento religioso.

Senza troppo coinvolgere l’eterno romanzo delle periferie che agita il dibattito pubblico francese a cadenza regolare, ci pare utile definire due direttrici di ragionamento per combattere una radicalizzazione diffusa delle convivenze, radicalizzazione che trova terreno fertile là dove la Repubblica è assente, per resa o per conclamata insufficienza dei mezzi (e questo dobbiamo ancora deciderlo).

La prima direttrice investe e interroga un’ipocrisia generale che vuole l’islam francese indifferenziato, tutti terroristi o nessuno terrorista, senza sfumature generazionali, senza individuare derive minoritarie, fondamentaliste e soprattutto isolazioniste (tese cioè a ghettizzare o ghettizzarsi ab interno), non necessariamente estranee quindi ai contesti più marcatamente pacifici. Per evitare inaspettate (?) derive discriminatorie, è necessario invece chiamare le cose con il loro nome, l’estremismo è salafita; identificare le categorie di reclutamento

dei terroristi più a rischio, la c.d. terza generazione, quella che Gilles Kepel definisce “dell’Islam senza complessi”.

Seconda direttrice consiste nello squarciare il velo che regolarmente relega il degrado sociale a ruolo secondario nel discorso, o peggio a giustificazione della violenza. Sono stati spesi miliardi per la riqualificazione urbana delle periferie a maggioranza musulmana, fecero discutere i 40 del 2003. 40 miliardi tradottisi in immobili più solidi, sicuri e dignitosi, non necessariamente in un sentire comune pacificato.

Confermata l’insufficienza di un simile deployment di forze, è importante che la risposta ai fatti di Parigi sia si contro-intuitiva “ancora di più e ancora meglio”, con una variante però: un’alleanza pubblica e piena con le élites musulmane (e quindi con le comunità), ovvero, per parte “nostra”, uno sforzo di legittimazione della voce intellettuale dissidente (ritardataria ma presente!).

Senza un rinnovamento, la promessa repubblicana è destinata a fallire balcanizzata da antagonismi identitari sempre più marcati. Senza investire l’interpretazione laicista della laicità dello stato (affascinante, lo ammetto, ma con troppe ombre), l’approccio educativo assimilazionista, a tratti illiberale, senza affrontare il nodo della mancata rappresentanza della maggioranza islamica silenziosa, maggioranza pienamente citoyenne, il colpo d’occhio cosmopolita e popolare parigino rischia di rimanere un dettaglio, patrimonio dei soli sguardi più attenti.

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CHARLIe HeBDo:CoSA DIfenDono GLI eURoPeI?

LUIGI DAnIeLeResponsabile europaGD Puglia

Dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo è oramai passato un numero di giorni sufficiente a distaccarsi dal clima frenetico immediatamente seguente l’attentato e da quei momenti colmi di sbigottimento, di rabbia e talvolta purtroppo di odio.

L’assassinio dei membri di redazione e degli agenti intervenuti ha suscitato un unanime sdegno, ma ciò che colpisce è la dimensione collettiva che, pur nelle differenze e talvolta nei contrasti, l’europa e più in generale l’occidente si sono trovati a vivere in quei giorni. Questa dimensione collettiva e fortemente emotiva, però, come spesso accade, ha fatto si che l’ondata di sdegno originata dall’evento sommergesse una serie di domande che sarebbe utile porre.

Quella che qui si tenta, pertanto, non è un’ (ennesima) analisi del significato profondo degli avvenimenti, ma una messa in luce in queste domande rimaste taciute: cosa difendeva, realmente, questa dimensione collettiva? In nome di cosa queste masse

si sono trovate emotivamente (e per molti versi inconsapevolmente) unite? In cosa si concretizzava la difesa dei valori occidentali, quali contenuti hanno essi concretamente per le masse europee?

Un occidente in questi anni dilaniato da conflitti (armati o combattuti finanziariamente), antipatie nazionali, spinte autonomiste (direi anzi individualiste) si è ritrovato unito come non avveniva da tempo. Come spesso accade nel momento della tragedia, la società civile italiana ed europea mette da parte contrasti e differenze per riscoprire la propria dimensione unitaria: di fronte all’attacco dei fondamentalisti islamici, i paesi europei, fino al giorno prima divisi sul piano interno, si sono compattati nella condanna all’attentato che rimandava, in senso più profondo, ad una rivendicazione ed ad una difesa di quelli che vengono avvertiti come i principi fondanti delle democrazie europee e del modo di vivere comunitario occidentale.

Le differenze nazionali sono state

accantonate; la dinamica ha coinvolto tutti, dalle classi dirigenti a settori della società solitamente estranei a qualunque forma di interesse verso la sfera pubblica; le stesse differenze politiche nazionali si sono annullate nelle folle che si radunavano nelle piazze europee, in Italia i leghisti e gli antislamisti sfilavano al fianco degli appartenenti alle forze politiche più apertamente progressiste (“Siamo tutti Charlie”, ha twittato Salvini, forse dimentico di alcuni tratti fondamentali di quel giornale), in Germania gli elettori socialdemocratici provavano lo stesso sdegno degli islamofobi del movimento Pegida. In francia, per ovvie ragioni, questo melting pot ha raggiunto il suo livello massimo.

Personalmente, ho guardato con un po’ di distacco a questi fenomeni, che avvertivo, più che come unanime condanne del terrorismo e degli attacchi alla libertà di espressione, come collettive celebrazioni, a tratti orgiastiche, di un’unità culturale e politica intesa talvolta in senso escludente. Il “Je suis Charlie” scritto in ogni dove, da facebook ai cartelli esposti per strada, mi è sembrato troppo spesso un modo per sottolineare l’appartenenza ad entità sociopolitiche ed a fenomeni collettivi vissuti in maniera inautentica.

Credo si possano distinguere due livelli all’interno del fenomeno “Je suis Charlie”.

Il primo potrebbe essere definito “colto”, in quanto comprende gran parte dell’intellighenzia europea, ed al tempo stesso di facciata; è il livello in cui si trovano accomunati intellettuali in senso lato, classi dirigenti e mass media:

questi hanno sottolineato da subito la necessità di non passare dalla condanna dell’attentato ad una condanna generale dell’Islam, la necessità di far si che la paura del terrorismo non si traducesse nella paura dello straniero, in particolar modo dell’islamico che vive nel contesto europeo. A volte per sincera convinzione e preoccupazione, a volte per meschino rispetto del politically correct, si è cercato di non confondere piani profondamente differenti. Ma ciò è davvero riuscito? Ritengo di no: vi è un livello più profondo, che riguarda ampissimi settori della società civile europea, che ha inteso il caso Charlie Hebdo in maniera assolutamente diversa. Poichè questo è livello “di massa”, credo sia a questo che bisogna guardare se si vuole comprendere cosa davvero è stato difeso dalle folle nelle piazze.

nelle strade, nei bar, sui social networks ed in altri luoghi di esistenza quotidiana collettiva si è assistito troppo spesso alla creazione di un “noi” inteso automaticamente come contrapposto ad un “loro”, come se gli eventi di Parigi non fossero l’espressione di un modo determinato di intendere l’Islam ed il rapporto con l’occidente, ma il modo d’essere paradigmatico degli islamici. Basti pensare al fatto che in quei giorni è ricomparsa da più parti l’odiosa ed idiota frase di oriana fallaci per cui “non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici” (fortuna per Lei, dunque, l’esser morta troppo presto vedere Breivik ed il suo massacro di Utoya in nome della difesa del cristianesimo); si può in alternativa menzionare la prima pagina di Libero raffigurante un attentatore, col volto incappucciato ed il mitra in mano,

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sovrastato dal titolo “Questo è l’Islam”.

In questa riproposizione preoccupante e superificiale della dialettica schmittiana amico/nemico, si è avuta la conferma che nulla unisce un gruppo sociale più che l’avere un nemico comune, che sia l’arabo che vive nelle metropoli europee o il terrone che drena risorse economiche al nord. Chi abbia avuto l’occasione di sentire discorsi sui fatti di Parigi tra persone “comuni” (il termine è, però, irritante), avrà conferma di ciò. Ciò ha davvero a che fare con le radici dell’occidente? Quali sono, poi, queste radici? In cosa possiamo rintracciarle?

Se per occidente intendiamo quel vivere comunitario sviluppatosi prima nelle poleis greche e poi nell’Impero Romano e nell’europa moderna, credo che potremmo dire che il modo d’essere occidentale è rintracciabile in quel “vivere intersoggettivo” che, specie nella modernità, ha rappresentato la base delle comunità occidentali. Vivere intersoggettivo inteso come produzione collettiva del mondo sociale in cui l’Uomo occidentale è inserito, ed a cui tutti partecipano. Produzione che si esplica nel campo politico, morale, scientifico ecc... e che acquista importanza sopratutto col venir meno di quelle certezze assolute che hanno orientato l’europa per lungo tempo: se “Dio è morto”, l’Uomo acquista ancora più importanza, e va alla ricerca di quelle che Lyotard definisce “grandi narrazioni” per spiegare il Reale narrazioni che affondano la loro autorevolezza in una precisione visione della Storia e dell’essenza umana (basti pensare al marxismo visto come la dottrina che

permette di conoscere le necessarie leggi dello sviluppo storico-sociale delle società industriali). Col passaggio alla postmodernità, tuttavia, questa visione si ribalta: se le grandi narrazioni cadono di fronte alla Storia, le prospettive culturali, i sistemi di valori e i fondamenti delle realtà sociali divengono qualcosa di soggettivo e ridotto alla validità che i singoli gruppi sociali vi attribuiscono. Questo è lo stato in cui si trovano attualmente l’europa e l’occidente.

Il rischio è però quello di precipitare in un relativismo estremo ed in un nichilismo (come talvolta è in effetti avvenuto) in cui ogni cosa viene ridotta alla prospettiva che il singolo o i gruppi di singoli ne hanno. Mi sembra che nel caso Charlie Hebdo sia successo esattamente questo: gran parte della società civile europea ha condannato l’attentato non perchè esso metteva in crisi la normale dialettica delle idee, che permette di sottoporre a critica il nostro tempo e di ipotizzare nuovi sviluppi, ma perchè esso colpiva le “consolidate certezze” occidentali, quel “noi” collettivo in cui ci sentivo sicuri e per la cui sicurezza si è temuto. La difesa della satira e del diritto d’espressione, della libertà di stampa anche quando questa è offensiva, è stata la difesa dell’”indifferentismo” sempre più rintracciabile nella cultura occidentale. Sia chiaro a scanso di equivoci: è giusto difendere la libertà d’espressione e d’opinione anche quando questa mette in discussione il nostro modo di pensare (io ad esempio ho sempre trovato Charlie Hebdo offensivo e volgare), ma ciò non può basarsi sulla semplice necessità di difendere una libertà negativa. Sarebbe come se, di

fronte al pestaggio di un omosessuale, difendessimo la vittima argomentando che la sua omosessualità “non da fastidio a nessuno”, invece di rivendicare il diritto ad amare chi si vuole in quanto bisogno non soffocabile della persona (il fatto che quest’argomentazione sia effettivamente usata dimostra quanto la questione sia reale).

Il rischio a cui questa lettura degli eventi ci espone è assolutamente radicale: se l’europa difende il semplice prospettivismo, il rischio è di non poter opporre al terrorismo un sistema culturale forte che lo contrasti. Se ogni cosa è frutto di una prospettiva, tutto è lecito. Del resto, è emblematico che ampissimi settori della società europea rispondano al terrorismo islamico con una xenofobia ed una contrapposizione tanto violenta quanto quella che dicono di voler combattere.

occorre invece ribadire, senza che con ciò si voglia proporre un revival della modernità e di epoche passate, che le prospettive sono utili proprio nel momento in cui vivono e si arricchiscono nell’intersoggettività che le mette in discussione al fine di poter ogni volta ri-trovare il senso d’essere d’un gruppo e di un’epoca, nella consapevolezza che il singolo non esaurisce la totalità del Reale.

Ma è proprio questa consapevolezza che spesso l’Occidente dimentica, polarizzandosi in un

“noi” ed un “loro”che in passato gli ha permesso di violentare le provenienze storiche dei popoli “altri” e che oggi contrappone la redazione del Charlie Hebdo ai suoi assassini, zoomando su questa polarità e lasciando fuori campo, ad esempio, Ahmed, il poliziotto francese di fede musulmana morto per difendere i vignettisti. Se le domande sul senso dell’europa restano inaffrontate, si rischia di vederle accasciarsi sul marciapiede come quel poliziotto.

forse dovremmo provare ad essere meno Charlie e più Ahmed.

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Je SUIS oU Je ne SUIS PAS CHARLIe ?

LUCIA MAntovAnI,Responsabile europaGD Veneto

Dopo la commozione, la reazione. Dopo la reazione, la strumentalizzazione.

#JesuisCharlie nasce come messaggio di solidarietà, in onore e memoria delle vittime di Parigi, ma viene rapidamente svuotato del suo valore originario e trasformato in un pretesto per fare polemica, non solo a sfondo religioso.

Si formano così due schieramenti, pronti a scendere in campo. Da un lato i sostenitori di #JeSuisCharlie. Migliaia di persone nel mondo (e non solo utenti dal like, dallo share o dal tweet compulsivo) pronte a sollevare il capo e alzare la voce

per tutelare una libertà fondamentale, quella d’espressione, che troppo spesso tendiamo a dare per scontato. o almeno fino a quando qualcuno ci ricorda che così non è. Dall’altro, i #JeneSuisPasCharlie, che si definiscono vittime della dissacrante satira del settimanale francese, cavalcando l’onda del “gliel’avevamo detto, erano stati avvertiti”. Un rifiuto a cui 64 mila studenti, secondo i dati del Ministero dell’istruzione francese, hanno dato voce contestando il minuto di silenzio che lo Stato chiedeva di osservare nelle scuole di un Paese ferito.

Il settimanale francese L’Obs riferisce di cinque milioni di tweet di #JeSuisCharlie contro i 45 mila di #JeneSuisPasCharlie. Gli schieramenti si sono delineati, forse più per reazione che in seguito a riflessione, ma è chiaro che l’importanza di queste cifre va ben oltre il loro valore numerico.

Un esempio tra tanti si ritrova nell’intervista rilasciata lo scorso giovedì 15 gennaio da Gilles Van Kote, direttore di Le Monde, ad Anais Ginori, corrispondente di La Repubblica. M. Van Kote indossa la

maglia dei “giusti” nel mettere in guardia i giornali dal rischio di autocensura per evitare la minaccia terroristica: « È il rischio che corriamo, passata l’emozione di questi giorni. Ma non dobbiamo cedere e continuare a difendere la nostra identità, i nostri valori democratici e repubblicani sotto attacco ». Salvo poi dismettere questi panni brevemente indossati e dichiarare che « nel momento in cui vogliamo difendere un principio, dobbiamo anche domandarci quali sono i suoi confini ».

Di tutt’altro parere è invece lo scrittore Salman Rushdie, di cui citiamo il frammento di una lecture presso la University of Vermont, nella traduzione di Luis e. Moriones: « Il punto è che se si limita la libertà di parola non è più libertà di parola. Il punto è che è libera. Sia Kennedy che Mandela hanno usato la stessa frase di tre parole che per me dice tutto, e cioè che la libertà è indivisibile. non puoi farla a fette altrimenti cessa di essere libertà. Puoi non avere simpatia per Charlie Hebdo. […] Ma il fatto che non ti piaccia non ha nulla a che fare con il loro diritto di parlare ». Parole forti, certo, ma anche questa è libertà di espressione. Libertà di dire no, di dirsi contrari e contrariati, di elevare il livello del dibattito partendo dai fatti per poi arrivare a riflettere sui principi.

Perché al di là dei fatti e delle reazioni, senza però volervi sminuire, forse è ora di ricominciare a parlare di principi e renderci finalmente conto che ne va della nostra libertà. La libertà di essere noi stessi e di poterci esprimere in quanto tali. È chiaro che il retweet di un hashtag tra i più famosi della storia di Twitter richiede meno fatica di una riflessione condotta a dovere, ma

non è in questo modo che permetteremo a noi stessi, al nostro Paese, all’europa e al mondo intero di crescere e maturare per poter convivere liberamente nella diversità.

nella speranza di poter presto vedere i frutti di questo appello alla riflessione, facciamo della storia una valida consigliera, nonché una fonte di ispirazione: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo» (evelyn Beatrice Hall, 1868 – 1956).

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MA non C’È ALTeRnATIVA AL DIALoGo

MARIA teReSA SAntAGUIDADirezione ProvincialePD Area Metropolitana Milanese

In un’intervista al Corriere della Sera di metà gennaio, orhan Pamuk, lanciava uno spunto di riflessione importante: “La libertà d’opinione è fortemente limitata in Turchia, ma per onestà devo dire che lo era anche prima, quando al potere non c’era il partito di ispirazione islamica, ma i laici e i militari”. Pamuk ha scritto un libro che gli è valso il nobel sulla rivoluzione laica di Ataturk: in Neve sono raccontate in modo chiaro tutte le difficoltà dello sradicare la religione dalle istituzioni per creare uno stato nazionale laico e occidentalizzato, laddove prima c’era il cuore pulsante di un grande sultanato, quindi di un’istituzione sovranazionale e islamica.

Quel processo che la Turchia sembrava aver imboccato in modo inevitabile, tanto da aspirare ad entrare a tutti gli effetti nell’unione europea, non era per niente compiuto: oggi erdogan sta operando un lento ma inesorabile ritorno alla matrice musulmana, consentendo una rinnovata osmosi tra politica e religione. Un processo che, più che i tratti dell’autoritarismo, ha quelli del populismo.

Il caso turco dimostra la grande anomalia dell’occidente secolarizzato: pensare di eliminare la religione dalla vita pubblica, relegarla alla sfera privata e nascosta della persona. nella logica del progresso sarebbero stati la politica, l’economia, il lavoro ad uniformare il nostro modo di vivere e pensare, e poi nell’intimo delle nostre case avremmo trovato il tempo per le grandi domande esistenziali. Senza mai interrogarci veramente sulle risposte, però. nel migliore dei casi, quando l’esistenza di una grande istituzione centralizzata come la Chiesa Cattolica l’avrebbe reso inevitabile, trattato il senso religioso di milioni di persone con gli stessi metodi della politica.

Rispondere a questa logica è un errore, ora che il mondo islamico radicale si sta presentando a noi con questi metodi radicali e violenti, ce ne stiamo rendendo conto.

Gli anni 2000 si sono aperti con un attentato al cuore economico dell’occidente su cui era stata attaccata

un’etichetta più che mai religiosa. C’è stata contemporaneamente, anche nel mondo islamico, una grande fame di democrazia e uguaglianza, che quasi sempre si è risolta con una riaffermazione del proprio diritto ad essere pubblicamente religiosi, orgogliosamente musulmani.

Lo abbiamo visto nelle nostre città, quando ragazze che prima studiavano, lavoravano, si divertivano alla maniera occidentale, hanno deciso di continuare a farlo indossando un velo che affermava la loro identità.

Contemporaneamente però non abbiamo visto nascere vere e proprie occasioni di dialogo interreligioso serio. non abbiamo visto i grandi giornali italiani, dedicare quotidianamente pagine e rubriche ad un tema come questo, che avrebbe dovuto essere sentito da tutti come urgente. Dovevamo preoccuparcene noi, soprattutto in Italia, e dovevano occuparsene anche i fratelli della religione musulmana. Abbiamo creduto che l’integrazione sarebbe stata spontanea ed inevitabile. Abbiamo pensato, ancora una volta, che alle persone sarebbe bastato parlarsi, osservarsi sui mezzi pubblici, nelle palestre o nelle scuole per capirsi, e che il tempo sarebbe bastato a rinsaldare questi mondi. Che invece si avvicinavano sfregandosi e urtandosi, senza omogeneizzarsi mai.

ora non si può più aspettare. nel mondo di domani è necessario dialogare, smettendo di ignorare che la sfera di Dio è parte di una domanda suprema ed inevitabile di ogni uomo. Anche di quello che ne nega l’esistenza. ora è il momento di parlarsi sul

piano della spiritualità e i grandi ispiratori dei movimenti religiosi mondiali devono finalmente incontrarsi per imparare a conoscersi sul serio. e se il peso di questa grande pace religiosa dovrà cadere sulle spalle di Papa francesco, egli non potrà tirarsi indietro. La globalizzazione deve raggiungere anche le religioni, come si augura Alfonso Berardinelli sulle colonne de Il foglio, perché sia chiaro che nessuna di esse ha e dovrà avere a che fare con la violenza e col terrore.

L’integrazione dovrà partire da un riconoscimento reciproco delle contraddizione interne anche alle comunità religiose.

A partire da quella cristiano-occidentale, ma anche all’interno della comunità musulmana. non basta solo chiedere a questi fratelli di marcare la loro lontananza, per altro ovvia, dal terrorismo. Dovremo essere capaci di far loro domande più specifiche sul Corano e sulla sua interpretazione, preparandoci a rispondere a quesiti altrettanto complessi.La conoscenza dell’altro non può che partire dalla conoscenza di se stessi. Torniamo a interrogarci su Dio e sul mondo, qualsiasi sia la risposta che ci daremo. È il momento di farlo, adesso. non possiamo più sottrarci.

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PRoGReSSo e PRoGReSSISMofRA LoTTA DI CLASSe e SConTRo DI CIVILTÀ

RoSA FIoRAvAnteResponsabile europa ed esteriGD Lombardia

Responsabile internazionalizzazione, didattica e valutazioneRete Universitaria nazionale

Cosa hanno a che fare le stime dell’ Organizzazione Internazionale del Lavoro con le riflessioni di fine secolo scorso di due teorici del conflitto globale? Molto, forse tutto, se vogliamo comprendere davvero su quale crinale si muove quello che impropriamente chiamiamo con la formula di «scontro di civiltà».

nel 1992 fukuyama pubblicava il suo saggio The End of History and the last

man nel quale teorizzava che dopo la caduta del muro di Berlino e la fine delle ideologie che avevano caratterizzato il XX secolo, il trionfo della liberaldemocrazia come modello unico di sistema politico sarebbe stato il punto di approdo di tutte le civiltà. egli pone questo trionfo a conclusione di un percorso unidirezionale e progressivo di civilizzazione. Identifica nella liberaldemocrazia quel sistema di governo che assicura la libera e larga partecipazione individuale, e che si adatta a governare una società in continua evoluzione tecnologica, inoltre, é adatto ad essere regolato attraverso le dinamiche economiche del capitalismo.

A questa tesi rispondeva nel 1993 il politologo statunitense Huntington, il quale afferma nel suo articolo The Clash of Civilizations? che la fine della guerra fredda ha comportato sì l›archiviazione dello scontro ideologico, ma in questo modo ha liberato le diverse forme di civilizzazione (ne delinea nove preponderanti: occidentale, Latinoamericana, Africana, Islamica, Sinica, Indù, ortodossa, Buddista

e Giapponese) così da lasciare che ognuna si autodetermini secondo un percorso proprio. I conflitti che si sviluppano nell›era post ideologica sono per Huntington conseguenza dello scontro fra questi diversi tipi di civiltà e sono caratterizzati da opposizione culturale, etnica, religiosa. egli sostiene che la frontiera dello scontro sarà infatti quella culturale e non economica.

Mentre fukuyama identifica nel «modello occidentale» liberaldemocratico il punto di approdo non perfettibile oltre di ogni civiltà, Hungtinton profetizza il declino del mondo occidentale che non ha conquistato la supremazia in virtù dei propri valori culturali ma dell›arsenale economico-militare di cui dispondeva. entrambi non sembrano aver dubbi sul fatto che il conflitto che terrà in scacco la storia universale non sarà più quello di classe, tramontato con le aspirazioni sovietiche.

Chiunque si occupi della storia delle comunità sa che essa si istanzia in due livelli paralleli: la realtà come effettivamente é e la realtà come viene collettivamente percepita; questo secondo livello non é per niente meno reale del primo, poichè esso influenza il processo decisionale e la coscienza invidiuale e collettiva quanto e più del primo livello.

La globalizzazione economica, l’ipertrofico sviluppo dei mass media, il fenomeno dell›alfabetizzazione di massa in occidente hanno diffuso la percezione di uno «scontro di civiltà» che pure esiste, ma in modo affatto diverso da come viene esibito mediaticamente. I tre fattori

menzionati (globalizzazione, mass media, alfabetizzazione) hanno altresì contribuito - in concomitanza con alcuni avvenimenti dirompenti (si pensi ad esempio all›11 Settembre o alla recente strage di Charlie Hebdo)- a portare tale scontro di civiltà nella quotidianità di ciascuno, rendendolo non solo un problema di «confini» ideali e reali e di conflitti mediorientali ma una concreta eventualità che potrebbe colpire ognuno nello svolgersi della consueta routine.

Eppure la lettura dei conflitti globali, o in questo caso particolare del conflitto Occidente vs. Alterità, in chiave «religioso-culturale» non convince del tutto.

In primo luogo - ossia da un punto di vista religioso - perchè l’islam estremista non ha niente da invidiare all’estremismo cristiano, né in disprezzo dei diritti individuali, né ad inclinazione alla belligeranza (le crociate e l›inquisizione non avevano poi un aspetto molto più liberal dell’ISIS); Se uno scontro di matrice religiosa si vuole individuare, esso muove certamente dalla contrapposizione semmai tra fanatismo e libera confessione.

In secondo luogo - da un punto di vista culturale- perchè il fenomeno dell’aumento impetuoso delle disuguaglianze sociali in occidente, il processo di caduta in povertà di fasce sempre più ampie di popolazione, la crescita dei fenomeni di astensionismo

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e rifiuto della partecipazione politica considerati connaturati al sistema capitalistico da un lato e alle «democrazie mature» dall›altro, lasciano emergere la profonda inadeguatezza delle liberaldemocrazie contemporanee a potersi ergere a modello politico di massima perfezione sociale mai raggiunto. Da circa trent›anni quasi ovunque le politiche neoliberiste hanno preso piede incontrastate sia attraverso l›azione di governo, sia attraverso un›innegabile egemonia culturale, la quale accanto a dogmi di tipo economicistico (austerità, contenimento del debito pubblico, mobilità del mercato del lavoro ecc) ha affiancato una precisa visione della società, propagandando la fine di ogni modello di cooperazione sociale a favore della realizzazione delle spinte egoistiche considerate motore di progresso, e promuovendo la disgregazione degli apparati associativi e di solidarietà in favore di una visione atomistica e ed esclusivamente edonistica (tanto da scadere sovente nel nichilismo) della realizzazione individuale.

L›aumento delle diseguaglianze socio-economiche, il fallimento dell›educazione e della formazione come vettori di ascesa sociale, il prodursi di sacche di povertà che si allargano quanto più lo stato sociale arretra, lo spezzarsi del patto generazionale che regola l›avvicendarsi alla guida e alla produzione di ricchezza nella società tra padri e figli, ha prodotto individui il cui orizzonte valoriale e le cui prospettive di vita materiale sono così insignificanti quando non del tutto assenti, che anche l›opzione dell›arruolamento per una presunta guerra santa é più allettante

che il permanere all›interno delle suddette liberaldemocrazie.

La lettura della fine della storia come trionfo del sistema liberaldemocratico, come anche quella dello scontro di civiltà che si innesta su differenze etnico-religiose é sicuramente fondata dal punto di vista della realtà come essa é percepita. Ma non convince se si prende in considerazione il livello della realtà come é, perchè tali letture nell’accantonare il conflitto ideologico trascurano di riconoscere il grande impensato del nostro tempo, ossia il fallimento della globalizzazione, dei mass media e dell’alfabetizzazione di massa nel far riconoscere il simile nel dissimile. La lotta di classe non é infatti finita con il crollo del muro di Berlino, perchè non sono cessati gli abusi, gli sfruttamenti e la schiavitù (legale o di fatto, poco importa).

Riconoscere il simile nel dissimile oggi vuol dire identificare, ad esempio, nelle nove civiltà delinate da Hungtinton gli stessi meccanismi di sfruttamento e imposizione di subalternità in ciascuna di esse, e riallineare la realtà percepita a quella che é; l›immigrato sfruttato nei campi di pomodori in Calabria non é poi così diverso dal cinese costretto a lavorare diciotto ore al giorno per assemblare strumenti hi-tec. Sono finite le ideologie legate al mondo bipolare perchè abbiamo smesso di percepire e leggere la realtà con quelle lenti, ma non sono esaurite le categorie di destra e sinistra perchè esistono ancora nella società, non meno di quanto non esista uno scontro fra religioni o etnie. La crisi occupazionale di cui é causa e conseguenza l›aumento delle diseguaglianze e l›arretramento dei diritti

individuali, é una crisi globale e globale dovrebbe essere l›approccio delle forze progressiste nel risponderle.

Una sinistra che non riconosca la lotta di classe non é solo inadeguata e quindi inutile nelle dinamiche politiche di emancipazione sociale, ma é fuori dalla Storia.

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AAA CeRCASI LA RAGIone

ALeSSAnDRo PIRISIResponsabile europa, Mediterraneo e Relazioni internazionaliGD Piemonte

Where do we begin: the rubble or our sins?Bastille, “Pompeii”

La politica mediorientale, si sa, è materia complessa. Per cominciare, si erge su dinamiche che agli occhi di noi occidentali non sono sempre pienamente comprensibili. La propensione dei nostri media a dipingere il mondo musulmano in un unico blocco unito non aiuta di certo a capirne le dinamiche interne e a cogliere come le prime vittime di ciò che chiamiamo terrorismo islamico siano i musulmani stessi. In secondo luogo, le grandi incongruenze della politica estera dell’occidente, forse causate più da interessi economici che da spirito democratico, pesano sia sulla nostra reputazione presso questi popoli, sia sul nostro grado di chiarezza di ciò che succede oltre le nostre coste.

L’islam, come tante altre religioni, è la base di partenza di tantissime culture diverse, con vari gradi di apertura mentale e spesso idee contrastanti tra loro. Il conflitto a cui stiamo assistendo in Siria è prima di tutto

una guerra intra-musulmana, in particolare tra musulmani sciiti, storicamente al potere in quella regione, e varie fronde di musulmani sunniti (dai fronti islamisti più moderati di alcune brigate della free Syrian Army, al fronte di Al nusra – ramo di Al Qaeda in Siria – e il sedicente stato dell’ISIS).

Quali sono, allora, le nostre incoerenze? Perché sono così importanti?

La Primavera araba, di cui decorre in queste settimane il quarto anniversario, è stata l’occasione del riscatto di interi popoli. Il riecheggiare delle parole di speranza e democrazia pronunciate da Barack obama all’Università del Cairo nel 2009, grazie al potere delle nuove tecnologie digitali, si materializzò nella discesa in piazza di tutti

i popoli del Maghreb contro i loro sovrani al grido di “dégage”, vai via. Le forze laiche e socialdemocratiche furono però sbaragliate e annacquate dall’ingresso in piazza – tardivo e fuori luogo – dei fratelli Musulmani, fronte islamista sostenuto più o meno esplicitamente dai paesi sunniti del Golfo. La rivoluzione romantica e speranzosa si tramutò così in un tentato ritorno all’ortodossia e moralità conservatrice islamista contro i pericolosi e blasfemi modi di vivere occidentali.

In tutto questo, la politica nostrana è stata relativamente ignava. Mentre l’islam politico avanzava a riprendersi spazi che con immensa fatica erano stati laicizzati, la politica occidentale ha preferito non sporcarsi le mani instaurando rapporti con le forze secolariste in campo o sostenendole politicamente. L’ex Ministro Claudio Martelli, nella sua autobiografia “Ricordati di vivere”, ricorda orgogliosamente come l’ormai dimenticato PSI avesse sostenuto ed instaurato rapporti con le forze d’opposizione al regime franchista in Spagna.

forse l’assalto alla laicità più grave avvenne nel 2013, a Istanbul. La Turchia, lo stato che era riuscito a dimostrare come fosse possibile coniugare democrazia e islam grazie alla rivoluzione culturale di Mustafa Kemal, detto Atatürk, vacillava di fronte agli attacchi che il Presidente e leader dell’AKP, Recep Tayyip erdoğan, stava infliggendo alla struttura dello Stato turco. Col pretesto di proteggere un parco dalla feroce urbanizzazione, milioni di turchi scesero in piazza per rivendicare il loro diritto di vivere in una nazione libera e laica. La protesta fu repressa con la forza

e segnò un enorme passo indietro nel processo di avvicinamento della Turchia all’Unione europea. Ancora una volta, la reazione europea è stata più diplomatica che politica.

Agli occhi dei nostri compagni d’oltremediterraneo pare davvero schizofrenico il modo in cui siamo pronti a difendere la democrazia entro i nostri confini, ma condoniamo i soprusi e le palesi violazioni dei diritti umani che avvengono nella guerra fratricida israelo-palestinese e nelle dittature con le quali abbiamo chiuso più volte un occhio sul rispetto dei diritti umani al fine di instaurare rapporti commerciali preferenziali. nel libro “Rivoluzioni violate”, Giuliana Sgrena descrive egregiamente come le dittature filo occidentali abbiano praticato una politica economica liberista molto vantaggiosa per le aziende nostrane.

È quasi sorprendente come il dittatore egiziano Al Sisi sia stato citato ultimamente da più parti per le sue parole di condanna dei fatti di Parigi, elevandolo da tiranno a grande statista.

È altrettanto stupefacente come certe forze passino dall’essere nemici ad amici in base alle convenienze del momento. Il caso più eclatante è forse quello del popolo curdo, passato da gruppo terrorista eversivo a

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popolo eroico e ultimo baluardo di difesa della civiltà contro la barbarie dello Stato Islamico.

In ultima analisi, le continue ingerenze dei paesi del Golfo che, grazie ai petrodollari, si possono permettere di estendere la propria sfera d’influenza nel resto del Medio oriente, applicare una rigida sharia ed emanare fatwa che limitano le libertà dei propri cittadini – in particolare le donne – mantenendo contemporaneamente ottimi rapporti con l’occidente.

I paesi del Golfo, così come la Turchia, si sono dimostrati restii a combattere l’avanzata del terrorismo islamico, pur dichiarandosi apertamente contro queste derive estremiste. I primi chiudono un occhio sui trasferimenti di denaro da fondazioni wahabite alle organizzazioni criminali, la seconda non pare così intenzionata a fermare il fenomeno dei foreign fighters che, unendosi alle forze dell’ISIS, combattono i tanto odiati peshmerga curdi.

Il problema islamico è prima di tutto un problema intra-musulmano nel quale le nostre ingerenze sono state spesso incoerenti e aggravanti dello scenario geopolitico.

L’Islam, la grande cultura che nella sua epoca d’oro è riuscita a dare tantissimo all’umanità – si pensi a quando Baghdad

era un centro culturale aperto a tutti i credo e culture, che preservò moltissime opere filosofiche dal sonno della ragione occidentale, si pensi ai grandi passi avanti in campo matematico, astronomico, scientifico e artistico in una epoca in cui l’europa brancolava nel buio oscurantista del feudalesimo – continua a non riuscire ad uscire dalla chiusura che perdura da quando la rivoluzione culturale di Al Ghazali ha regolamentato, come fece a sua volta Sant’Agostino col cristianesimo, i precetti religiosi in una chiave conservatrice e poco aperta al progresso scientifico e al relativismo culturale. Guardando le religioni di appartenenza dei premi nobel per le scienze (medicina, fisica e chimica), su 575 vincitori, solo due musulmani su una popolazione di 1,3 miliardi di persone risultano aver vinto uno dei prestigiosi premi. Per fare un paragone, il 28% dei nobel per la medicina, il 26% dei nobel per la fisica e il 19% dei nobel per la chimica sono stati assegnati a persone di religione ebraica, a fronte di una popolazione inferiore a 20 milioni. Il popolo islamico può e deve ritornare a prendere il posto che spetta loro nell’avanguardia del progresso umano, cominciando dalla politica.

STATI UnITI TRA TeRRoRe eD eSIGenze DI PACe

vInCenzo MonGeLLIResponsabile europa ed esteriGD Basilicata

“Fino a che il nostro rapporto verrà definito solamente in base alle nostre differenze renderemo sempre più potente chi semina odio, invece di pace, chi ricerca i conflitti, invece della cooperazione che è necessaria perché tutti i popoli possano avere giustizia e prosperità.

Per questo motivo deve essere spezzata la catena di sospetti e inimicizia. Sono qui per cercare d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, un rapporto basato sul mutuo rispetto e su un interesse reciproco, fondato – soprattutto – sull’idea che Usa e Islam non siano incompatibili e non debbano per forza essere in competizione. Si sovrappongono, invece, condividendo principi comuni di giustizia, progresso, tolleranza e dignità per tutti gli esseri umani.”

Barack obama, Il Cairo, 4 giugno 2009

L’11 settembre 2001 con l’attacco al World Trade Center di new York per gli Stati Uniti si è aperta, dietro lo scopo di sconfiggere il terrorismo, una lunga stagione di conflitti che hanno determinato effetti e conseguenze sulla loro politica estera tanto nel passato recente quanto nel presente.

Durante la campagna presidenziale del 2008 Barack obama ha sempre indicato la strada attraverso la chiusura dei conflitti di Afghanistan ed Iraq e di far rientrare le

truppe inviate sul suolo medio orientale. ebbene, lo scorso 15 dicembre 2014 tremila soldati impiegati in Afghanistan sono rientrati in patria lasciando nei luoghi dei conflitti 15 mila uomini al solo scopo di svolgere compiti addestrativi e di supporto.

Tuttavia la politica estera statunitense di contrasto al terrorismo ha subìto un’importante influenza da fattori esterni che l’hanno notevolmente condizionata. Le primavere arabe nel 2011, la difficile

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situazione in Libia nel 2013, la crisi siriana e la nascita dello Stato Islamico nel 2014.

Ed è proprio nel tredicesimo anniversario dell’11 settembre che il presidente ha scelto di comunicare come ha inteso combattere le forze dell’Isis.

Gli Stati Uniti non hanno inviato nuove truppe di terra in quanto la strategia in questo nuovo conflitto al terrorismo internazionale si sosterrà percorrendo due binari: l’utilizzo di droni e di raid aerei al fine di bombardare gli insediamenti del terrorismo islamico ovunque essi si trovino (come già applicato in Yemen e Somalia nella lotta ad Al-Qaeda) e coinvolgere nell’azione un’ampia coalizione che includa anche le nazioni arabe per raggiungere l’obiettivo di distruggere i gruppi di terroristi oltre ad aver inviato altri consiglieri militari in Iraq in aggiunta ai mille presenti per le azioni coperte e per fornire aiuto ai peshmerga curdi che combattono i terroristi islamici nel nord della nazione.

nello stato dell’Unione di martedì sera, citando l’attentato ad una scuola pakistana e la strage di Charlie Hebdo, il presidente ha confermato la strategia pocanzi descritta rivendicando come le azioni messe in campo abbiano frenato il dilagare dell’Isis ed ha espressamente chiesto al Congresso di approvare la legge che autorizzi l’uso della forza per

poter agire, oltre a sostenere con forza che contro il terrorismo gli Stati Uniti si arrogano il diritto di agire anche in autonomia.

Dall’insediamento alla presidenza l’inquilino della Casa Bianca ha dovuto fare svariati conti sul fronte della politica estera: l’essere insignito del premio nobel per la pace poco dopo l’inizio del suo primo mandato, il ritiro dal fronte iracheno dei militari inviati all’inizio della guerra contro Saddam Hussein rivelatosi successivamente un errore ma che ha segnato una sorta di contraddizione tra la promessa elettorale del ritiro militare – osservata – e l’esigenza di mantenere lo stanziamento delle truppe a causa delle incapacità irachene di gestire il periodo di transizione.

Per ottenere la pace a volte è necessario l’uso della forza, e qualora dovesse essere un premio nobel per la pace a dover utilizzarla ci pone tutti in una condizione di incredulità, ma quando quello stesso premio nobel basa buona parte della sua politica estera sulla diplomazia e sulla ricerca del consenso su un obiettivo comune al mondo intero rifiutando la logica aggressiva - vedi i rapporti con l’Iran quasi impossibili fino al 2008- non possiamo far altro che pensare al netto degli errori che possono essere compiuti, che è il dialogo cercato ad ogni costo l’insegnamento più importante che la leadership del primo inquilino afroamericano della Casa Bianca lascerà in eredità all’intero occidente.

IL PUnTo SUL ConfLITTo ISRAeLo-PALeSTIneSe, VeRSo Le eLezIonI ISRAeLIAne DI MARzo

RoBeRtA CAPoneVicepresidente IUSY(International Union of Socialist Youth)

nelle ultime settimane la stampa internazionale è tornata ad occuparsi di Israele e Palestina, soprattutto a causa di una serie di richieste diplomatiche dell’ Anp (Autorità nazionale Palestinese) – l’organismo politico di governo della Palestina – per sbloccare il riconoscimento dello Stato palestinese.

Intanto, tranne l’Italia, i grandi paesi europei come Francia e Spagna hanno votato mozioni bipartisan sul riconoscimento dello Stato di Palestina.

Così come hanno fatto i parlamenti di  Gran Bretagna,  Belgio, Danimarca,  Portogallo,  Irlanda  e il governo di Svezia. Un’indicazione che ha avuto il suo passaggio politicamente più importante nel voto a larga maggioranza del Parlamento europeo che ha visto

convergere su una sola mozione le più grandi famiglie politiche d’europa, a cominciare dal Partito Popolare europeo (Ppe) e dall’Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&d). Le votazioni che si sono susseguite in queste mesi nei diversi parlamenti sono stati un duro colpo alla politica israeliana di netanyahu definita in questi anni “strategia dell’eterno rinvio”. Sul banco della disputa la questione irrisolta della colonizzazione dei territori palestinesi. Allo stesso modo non è certamente un passo in direzione del dialogo  il voler costituzionalizzare  la nuova definizione di Israele come “Stato della nazione ebraica”. Una forzatura di netanyahu che ha portato alla divisione il paese, relegando (ancora di più) in un angolo la comunità arabo-israeliana che ad oggi conta 1 milione e 300 mila persone, più del 20% della popolazione dello Stato d’Israele. Dal 1 aprile la Palestina diventerà il 123esimo membro della CPI (Corte Penale Internazionale) dell’Aia: potrà così chiedere di processare Israele per crimini di guerra commessi sulla striscia di Gaza. Ma il percorso non

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è stato semplice. L’adesione è stata infatti osteggiata da USA, che la contestano in quanto “ non è uno Stato membro” e annunciano il riesame del pacchetto annuale di aiuti all’Anp da 440 miliardi di dollari. La richiesta d’adesione era stata presentata da Abu Mazen il 31 dicembre, all’indomani della sconfitta al consiglio di sicurezza dell’onU: per un solo voto l’Anp non è infatti riuscita a far passare una risoluzione che chiedeva il ritiro completo di Israele dalla Cisgiordania entro il 2017, e il riconoscimento dello Stato palestinese che dal 2012 ha lo status di Stato osservatore. La mozione non è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’onU, ottenendo solo 8 voti favorevoli (erano necessari 9 voti) – con 5 astensioni e i voti contrari di USA e Australia. L’Anp ha presentato i documenti per accedere a 14 convenzioni e trattati, tra cui quello di Roma che consente l’accesso alla CPI. Il segretario dell’onU Ban Ki-moon li ha accettati per deposito, accertando che fossero “in debita forma” e ha informato tutti gli stati membri interessati. La CPI dell’Aia ha avviato così le pratiche per un’indagine preliminare sulla situazione in Palestina con l’obiettivo di verificare se vi siano stati commessi effettivamente “crimini di guerra” da parte delle forze armate israeliane o da fazioni armate palestinesi. A condurre l’indagine il procuratore capo della CPI fatou Bensouda, giurista gambiana in carica dal 15 giugno 2012. nel 2014 i palestinesi uccisi nei territori dalle forze di sicurezza israeliane sono stati 54 e 5800 i feriti (un bilancio più tragico si è verificato solo nel 2005) senza contare le vittime dell’offensiva a Gaza, dove la situazione peggiora ogni giorno di più. Il dato delle

vittime dell’offensiva a Gaza conta (quarto attacco in otto anni) più di 2130 vittime, di cui tra il 75 e l’ 86% civili. nello stesso periodo gli attacchi palestinesi hanno provocato 15 vittime israeliane e 270 feriti. L’apertura dell’inchiesta della Corte penale internazionale arriva per netanyahu in un momento già teso, dopo la recente crisi di governo ha visto l’abbandono di due dei suoi Ministri. La prossima primavera Israele andrà nuovamente al voto. Il 17 marzo del 2015 in Israele si terranno le elezioni anticipate per rinnovare la Knesset, il parlamento monocamerale israeliano. Le elezioni erano state già annunciate dallo stesso Benjamin netanyahu all’indomani della crisi di governo.  Secondo gli ultimi sondaggi il consenso verso Likud, il partito di netanyahu è sceso rispetto alle elezioni legislative dello scorso gennaio. Ma nonostante il gradimento sia calato a causa delle politiche promosse netanyahu, agli occhi della maggioranza degli israeliani non c’è nessun altro candidato in grado di poterlo sostituire. Ma lo scenario, anche all’indomani della strage di Parigi, sembra incerto.

La politica israeliana  resta molto frammentata e litigiosa. Alle ultime elezioni si erano presentati ben 12 partiti e netanyahu era stato costretto a formare una coalizione di forze politiche con visioni e idee diverse su molte questioni di carattere politico. Il governo di coalizione era formato da i centristi del Yesh Atid (centro), dai conservatori di HaBayit HaYehudi (centrodestra), del giovane milionario naftali Bennet e con i centristi del partito Hatnuah(centro) guidati dall’ex leader del partito Kadima, Tzipi Livni. Ma il governo è durato poco

e le troppe divisioni sono inesorabilmente emerse. Infatti sia Lapid che Livni sono stati rimossi lo scorso 2 dicembre da netanyahu dai loro incarichi di governo – rispettivamente Ministro delle finanze e Ministro della Giustizia – a seguito di una serie di violente discussioni interne alla coalizione di maggioranza. La goccia che ha fatto traboccare il già “traballante” vaso è stato il disegno di legge “Israele, Stato nazionale del popolo ebraico”, approvato dal Consiglio dei Ministri israeliano il 23 novembre scorso con 14 voti a favore e 7 contrari. Le critiche al disegno legge non sono mancante.

Le accuse principali mosse a Bibi netanyahu fanno riferimento alla connotazione religiosa che viene data a questo disegno di legge rispetto al carattere democratico dello Stato che in pratica rischia di considerare i non ebrei all’interno di Israele (in particolar modo gli arabi) come cittadini di seconda categoria, con diritti individuali ma non collettivi di fronte alla legge. Questa volta le critiche sono arrivate anche dagli stessi amici di Israele. Prima fra tutti l’America.

Il Dipartimento di Stato Usa “si aspetta che Israele si attenga ai suoi principi democratici”.

Abraham foxman, Direttore della Lega Anti Diffamazione e da sempre ultra-sostenitore dello Stato ebraico e del suo governo,  afferma che  “il dibattito sul disegno di legge mina la stessa natura ebraica dell’identità nazionale dello Stato

e che i tentativi di codificare ulteriormente tale concetto in una legge fondamentale derivano da una buona intenzione, ma sono superflui”. Anche  le principali associazioni  degli ebrei americani sono preoccupate per la deriva religiosa presa dal governo. I ministri Yair Lapid (Yesh ATid) e Tzipi Livni (Hatuah) di fatto con il loro voto contrario al disegno di legge sono stati licenziati dal goveno senza alcun appello. Le prossime elezioni si infiammano e questa volta la fiamma che alimenta il fuoco non è accesa da i palestinesi e dalla richiesta di riconoscimento o meno dello stato della Palestina, o tanto meno dalla guerra a Gaza. Sui temi della sicurezza Israele non si spacca: quella non viene messa in discussione né da destra né da sinistra. Così come sul confronto-scontro con i palestinesi: tranne una minoranza pacifista, il grosso della nazione non percepisce questo come un grande problema o tantomeno come una questione di violazione dei diritti. Questa volta la crisi nasce nel cuore stesso di Israele, sul come esistere e sul rapporto tra sacralità e laicità, tra “eretz Israel” (la Terra d’Israele) e “Medinat Israel” (lo Stato d’Israele). Il disegno di legge sembra sempre di più una forzatura che rischia di spaccare il paese, allontanando quel 20% della popolazione (oltre 1,3 milioni di persone) che sono israeliani ma non ebrei: gli arabi israeliani. non usa mezzi termini Tzipi Livni, l’ex Ministro della Giustizia alle prossime elezioni “dovremo scegliere se Israele vuole essere uno Stato sionista o uno Stato estremista”. “Un governo - aggiunge Livni - che non sa combattere il terrorismo sostenendo al tempo stesso “sionismo e libertà”. Altrettanto duro è il commento dell’altro ex Ministro delle

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finanze, Yair Lapid: netanyahu è “un irresponsabile” che “preferisce un accordo con gli ultraortodossi per anticipare le elezioni rispetto agli interessi di una parte più grande degli israeliani. Gli israeliani comprendono ora - ha aggiunto - che alla guida del governo c’è un uomo che non

mantiene le sue promesse e che antepone la sua sopravvivenza politica personale ai loro interessi”. La campagna elettorale è appena iniziata e c’è chi dice “ si darà battaglia”.

ISRAeLe e PALeSTInA 1947 2011RISoLUzIone onU 1947 1948 - 1967 oGGI: 2011

GUeRRA AL fonDAMenTALISMo ISLAMICo: fRonTe CULTURALe e fRonTe ARMATo.

CAteRInA CeRRonISegretaria Provinciale dei GD Isernia

La più grande manifestazione nella storia della Francia, oltre due milioni di persone nelle strade e nelle piazze di Parigi per commemorare la matita spezzata di Charlie Hebdo e schierarsi in difesa della libertà di espressione. Questa è stata la risposta di Parigi e del mondo al terrorismo.

nello stesso momento, nelle altre città francesi ma anche a Londra, Berlino, Roma, Madrid, Stoccolma, Atene, Beirut, Gerusalemme, Gaza, Montreal, Buenos Aires, Sidney, Tokyo, new York, grandi

e piccoli raduni si sono ritrovati per costruire un fronte umano, armato di libertà, che lotta per difendere i confini della democrazia.

Il cuore dell’europa, nel corso di tre interminabili giorni, è stato trafitto dal sangue e dal terrore di una guerra che coinvolge il mondo: l’Unione europea e gli Stati Uniti fronteggiano l’insorgenza dello Stato Islamico che pretende di condurre la jihad oltre i confini dell’Iraq e della Siria, risultano coinvolti anche il Giappone, la Cina, con frizioni riconducibili alle minoranze interne, e la Russia, già legatasi alla storia della regione mediorientale con l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979.

Seppur di carattere intercontinentale, il conflitto in corso non vede contrapporsi l’Islam e l’occidente in uno scontro tra civiltà, si configura piuttosto come una guerra interna al mondo islamico: lo scontro sunnita-sciita è ampiamente in corso e per di più aggravato da una divisione interna alla famiglia sunnita

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tra l’estremismo dei fratelli musulmani, il salafismo e il wahabismo in un quadro in cui si perseguono finalità geopolitiche e strategiche mediante un utilizzo sfrontato della religione. Preparandosi all’intervento in Siria per mezzo di raid aerei, è lo stesso presidente obama ad affermare che l’ISIS non è l’Islam, nessuna religione infatti potrebbe perdonare il massacro di innocenti, sottolineando, inoltre, come la maggior parte delle vittime del fondamentalismo islamico siano musulmane.

Non può che essere compito dei musulmani risolvere il problema del rapporto tra Sharia ed organizzazione dello Stato, solo dalla definizione dei confini tra religione e politica potrà derivare una definizione dei diritti della donna nella società ed un rispetto delle minoranze religiose che sia quanto meno umano.

L’impegno culturale della comunità internazionale dovrebbe essere volto a stimolare, nel mondo musulmano, la convinzione che democrazia e Islam possano convivere. esiste in tutto il mondo musulmano una minoranza di laici

che sostiene la distinzione tra politica e religione, che ritiene che la gestione della vita pubblica debba essere altra cosa rispetto al credo religioso, che la separazione tra la definizione di reato e quella di peccato debba essere netta. È compito dell’occidente sostenere questa minoranza inascoltata e promuovere un dialogo non interreligioso, bensì interlaico. e proprio l’Italia, che ha vissuto tutte le dinamiche del rapporto tra religione e Stato, divisa tra le posizioni di conservatori e aperturisti, laici e laicisti, potrebbe contribuire nella risposta alla vocazione di governo politico mostrata dall’Islam in paesi come la Turchia, l’egitto, la Tunisia o perseguita mediante la strategia del terrore dalla frangia salafita-wahabita.

È compito culturale della popolazione mediorientale quello di demolire la narrazione fornita all’opinione pubblica dalle classi dirigenti musulmane le quali, senza misurare le proprie responsabilità, costruiscono alibi: l’occidente, il colonialismo, il conflitto israelo palestinese.

Allo stesso modo è compito culturale di noi che abitiamo in altri confini, riconoscere gli errori dell’Occidente:

la repubblica islamica in Iran seguita alla deposizione di Mossadeq per volontà di inglesi ed americani, le origini stesse dei movimenti del terrorismo islamico rivelano quanto, nel mondo, siamo stati vicini di casa irresponsabili che, nel tentativo di spegnere un fuoco acceso dall’ingiustizia

e dal sottosviluppo, hanno spesso lasciato che si incendiasse il giardino adiacente.

Un fronte culturale non è però sufficiente a fronteggiare la violenza usata dai terroristi, è stata la comunità curda al confine con la Siria e al confine con la Turchia a reggere l’offensiva delle milizie fondamentaliste dell’ISIS, simultaneamente, gli americani hanno cercato di coordinare i raid aerei con le operazioni dei peshmerga, i combattenti curdi.

Thomas Mann scrisse che la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male: l’Italia fa la sua parte, lo scorso venti agosto le commissioni esteri e difesa si riuniscono per decidere la fornitura di armi ai curdi iracheni, solo l’inizio, dichiara Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, di quanto necessario a combattere contro un’organizzazione terrorista con la forza di un vero e proprio Stato.

non occorre dimenticare, tuttavia, il sogno di un Kurdistan indipendente da parte di una popolazione dispersa in cinque diverse nazioni. I curdi non si sono mai arresi all’esilio cui la storia, il disconoscimento dei loro diritti nel Trattato di Losanna in particolare, li ha costretti; hanno un’organizzazione autonoma, hanno loro scuole, loro tribunali, loro soldati. La possibile dichiarazione di indipendenza del Kurdistan dall’Iraq, poi dalla Siria, dall’Iran, dalla Turchia porterebbe ad un ulteriore sconvolgimento della regione.

C’è, ancora una volta, il rischio di continuare ad accendere un fuoco dopo l’altro e chissà se prima o poi ci riusciremo, occidentali e orientali, cristiani e musulmani, sciiti e sunniti, a diventare dei cittadini migliori

su questa terra. La risposta la possiamo ricercare solo nella politica: l’arma militare, utile nell’immediato, non risolve senza una strategia di lungo periodo. Ad unire il fronte culturale e quello militare di lotta al terrorismo e alla violenza è proprio il bisogno della politica, della sua lungimiranza e della sua capacità di guardare al futuro e alla giustizia oltre i confini che l’uomo ha disegnato sulle carte geografiche.

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LA ReSISTenzA DI KoBAne

oReSte SABAtIno Resp. europa ed esteri GD Toscana

Da ieri sulla collina di Mistenur sventola la bandiera curda. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i combattenti Curdi hanno liberato Kobane dall’assedio dei miliziani dell’Isis. Ma la battaglia ancora non è finita, infatti anche se la popolazione curda nella giornata di ieri è scesa in piazza a festeggiare, nella parte est della città c’è ancora una residua presenza dei jihadisti.

Dal 16 settembre la città di Kobane, terzo

centro curdo della Siria, è sotto assedio da parte dei miliziani dell’Isis.

Da metà settembre ad oggi sono circa 180 mila le persone fuggite in Turchia, molte di queste proprio da Kobane che prima dell’assedio contava 50 mila abitanti. All’inizio i miliziani dell’Isis sono avanzati senza incontrare resistenza raggiungendo subito i confini della città. A questi si sono opposti le Unità di protezione del popolo (YPG e YPJ) che sin da subito hanno opposto resistenza ai jihadisti. I miliziani curdi coordinati dallo YPG e YPJ si sono divisi in piccole unità (composte da 15/20 miliziani) sparse per la città per cercare di fermare l’avanzata dei jihadisti. Dall’11 di ottobre gli aerei della coalizione internazionale, per lo più aerei statunitensi, hanno bombardato le posizioni dello Stato islamico a Kobane.

I bombardamenti hanno in parte avvantaggiato i Curdi che hanno così potuto colpire i jihadisti. Ma a svantaggiare i Curdi è il non interventismo turco, la Turchia che fa parte della coalizione internazionale ad

oggi pur avendo l›esercito più forte della zona e i carri armati schierati al confine, lungo la frontiera davanti a Kobane non è mai intervenuta. Tra la metà di ottobre e i primi di novembre la battaglia sembrava ormai giunta al capolinea con i miliziani del califfato che avevano conquistato oltre il 60% del territorio, conquistando tra questi la «zona di sicurezza» dei Curdi, cioè la parte della città dove si trova il municipio, il commissariato di polizia e importanti edifici amministrativi. Ma le forze curde grazie ai bombardamenti americani, all’arrivo dei peshmerga curdi (provenienti dal Kurdistan iracheno) e all’arrivo di medicine, di acqua e di cibo (arrivati col contagocce) hanno lanciato una controffensiva che ha permesso loro di riconquistare diversi quartieri e villaggi, fermando così l’avanzata dei miliziani dell›Isis.

oggi Kobane è una città distrutta dall’assedio dei jihadisti e dai bombardamenti della coalizione internazionale, la città è stata soprannominata la Stalingrado del vicino oriente, per evidenziare la coraggiosa resistenza dei curdi.

Paragoni e soprannomi a parte, oggi Kobane è il centro mondiale della resistenza ai fanatici islamisti, una resistenza che ha visto come protagonisti donne, uomini e ragazzi che ogni giorno hanno lottato strada per strada, villaggio per villaggio, quartiere per quartiere, muovendosi attraverso tunnel o feritoie scavante lungo le case per fermare questa barbarie. Si sono battuti per la democrazia, per la loro libertà, ma anche per la nostra. Che siano d›esempio a tutto il mondo.

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Giovani Democratici @gdnazionale giovani-democratici.com